9 storie vissute da uomini incapaci di superare l implacabile prova del 9

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Marco Benazzi

9+ Storie vissute da uomini incapaci di superare l’implacabile prova del 9

racconti


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Marco Benazzi - 9 +

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9+ Storie vissute da uomini incapaci di superare l’implacabile prova del 9

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Introduzione

Fin dalla nascita, il numero nove segue il mio cammino come un ombra, scandendo le date più importanti della mia vita. Qualche esempio? Sono nato il 9 settembre 1962 (9+9+1+9+6+2 = 9); sono partito per il servizio militare il 25 ottobre 1981 (2+5+10+1+9++8+1 = 9); il mio primo incontro con mia moglie Marzia è avvenuto il 18 aprile 1985 (1+8+4+1+9+8+5 = 9); il mio primo giorno di lavoro in teatro è stato il 1° ottobre 1996 (1+10+1+9+9+6 = 9); il giorno della mie nozze era il 10 settembre 1997 (10+9+1+9+9+7 = 9); in teatro ho traslocato il 12 ottobre 2003 (12+10+2+3 = 9) e via così fino ad arrivare all’uscita di questa raccolta datata 7 settembre 2009 (7+9+2+9 = 9). Questo mi porta a riflettere sul significato dei numeri, sullo studio della numerologia cioè l'interpretazione dei numeri per fini simbolici e magici. La numerologia risale ai cabalisti. La cabala, il ramo mistico del giudaismo, comprendeva anche elementi del pensiero cristiano e islamico. I cabalisti esercitarono grande influenza nella Francia meridionale (XII sec.), in Spagna e i Portogallo, fino alla loro espulsione (1492). Studiarono il significato mistico dei numeri anche alcuni filosofi del XVI e XVII sec. come Cornelius Agrippa, Dee, Fludd e Ashmole. Recentemente la New Age ha riportato la numerologia alle sue fonti simboliche e mistiche. L'interpretazione più semplice della numerologia considera il nome e la data di nascita e li riduce a un'unica cifra che dovrebbe rivelare la personalità del soggetto. Con molta probabilità, la cifra che identifica la mia personalità è il numero 9.

L’autore

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Prefazione

La Romagna è terra strana, di contrasti e sentimenti, di tenerezza e miseria. Le “piccole” storie di Marco Benazzi la celebrano e la riflettono, filtrata dall’attualità iconografica del mondo del cinema, della televisione e del web. Una piccola patria attraversata dalla Storia, talvolta dalla microstoria, cui si intrecciano immagini già familiari a prima vista, che ne richiamano di analoghe con cui il cinema e la letteratura ci hanno raccontato questa terra. Il mondo di Benazzi affonda quindi profondamente in terra romagnola e tutti i racconti sembrano dipanarsi in qualche modo da Cesena, città di origine dello scrittore nei cui confini egli sembra talvolta sperdersi e ritrovarsi. Il suo narrare infatti oscilla tra città e campagna, tra presente e futuro, tra il dialogo interiore e la visione di una società informatizzata e disumanizzata, da cui non c’è scampo se non attraverso il sogno o il sesso, alla ricerca del Tarzen, il centro dell’energia vitale femminile, incerti se leggervi l’essenza della vita vissuta o l’esercizio di scrittura creativa comunicate attraverso l’esperienza di sesso sapienziale del protagonista ottantenne. Ancora il sesso irrompe in modo salvifico – e alquanto misterioso – nella vita di Olmo, il protagonista di Lapis, che vive della vita degli altri, scrivendone il necrologio in anticipo. Il sesso terapeutico traghetta con successo il protagonista nel mondo reale su uno sfondo di necrofilia grottesca ove la solennità dei gesti di Olmo ne accentua l’effetto comico, con un finale esilarante, soprattutto in questi tempi di riuso di ogni tipo di materiale a fini ambientali.

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Allo stesso tempo a Benazzi piace giocare con il mescolamento di generi e il suo background culturale coniuga la commedia all’italiana con il noir, le trovate postmoderne e i riferimenti alla storia recente, personale e/o collettiva, spesso spiazzando il lettore, intenzionalmente lasciato in bilico tra realtà e illusione. Il ricorso alla memoria però segue spesso sentieri contorti con esiti sorprendenti, come è il caso del racconto Il Paguro, numero 3 della peculiare numerologia di Benazzi, ove il ricordo dell’infanzia, costellato di interventi radiofonici e di suggestioni oniriche, scivola nell’immaginario cinematografico e sfocia nell’agonia dell’io narrante, vista in terza persona. Oppure si pensi al sommesso omaggio a Gigi Meroni, ala destra icona del Torino Calcio e dell’Italia non ancora protestataria degli anni Sessanta. Il tema della solitudine è trasversale a quasi tutti i racconti e l’esclusione del mondo umano è compensata – in parte - dall’ ”amore diverso” come quello per Bronson, con cui il rapporto è esclusivo e salvifico, accompagnato dalla protesta per la sorprendente discriminazione che a Cesena è fatta a spese dei gatti con l’assistenza veterinaria gratuita a favore dei soli cani. Ma c’è spazio anche per la tipizzazione fiabesca come in Capelli d’angelo - forse alludendo al film di ambientazione medievale “Le lunghe navi” (1963), che racconta appunto la ricerca di una campana d’oro - il cui finale, con un’epifania da X agosto e il ritrovamento di una stella cadente caduta, riecheggia certe atmosfere padane, malinconiche e sognanti, del primo Pupi Avati.

L’estro di Benazzi è poi magistrale nel creare giochi di rimandi e gialli nel giallo, nell’autoironico Extra Ghost Story, che chiude la raccolta, e nell’esplorazione degli universi virtuali di SL.

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La più felice combinazione di ambientazione, ritmo e comicità trascinante è tuttavia Il pedale d’oro, azzeccata trasposizione della commedia all’italiana ai tempi della Resistenza, con i consueti richiami cinematografici, percorsa da un’azione corale in un crescendo irresistibile. Si ricompongono qui i temi classici di Romagna, l’asprezza dello scontro politico, la lotta di fascisti contro mazziniani e rivoluzionari, la passione popolare per le corse in bicicletta, il sapore forte della beffa perpetrata in pieno 25 luglio e non sarebbe difficile immaginarvi, a maledire gli autori dell’inganno, un federale con il volto aspro e malinconico di Ugo Tognazzi come simbolo del potere gabbato. La sintesi finale è affidata naturalmente al racconto numero 9, cui si deve il titolo della raccolta, e che esplicitamente l’Autore identifica con la propria personalità. Si tratta di uno sfogo o meglio di un’invettiva di quelle da recitare a ritmo di rap come una canzone di Caparezza, dove ritorna definitiva la rinuncia al mondo reale e il rifugio nella dimensione onirica del cinema, tanto “siamo tutti condannati!” Ma con una simile forza narrativa e la capacità fantastica di costruire situazioni e personaggi c’è da sperare che Marco Benazzi non abbandoni del tutto il nostro mondo, con le sue miserie e le sue ingiustizie, e rompa nuovamente il suo volontario esilio con altre storie come queste. Sara Alzetta 1

1 Attrice triestina, si è formata a Roma e a Milano. ha lavorato al Piccolo Teatro di Milano, in diversi spettacoli di Giorgio Strehler, proseguendo, poi, il suo percorso professionale sotto la direzione di Giancarlo Cobelli, Walter Manfrè, Marco Mattolini, Nanni Garella, Gianfranco De Bosio, Armando Pugliese, Giuseppe Dipasquale, Massimo Castri, Toni Servillo, Alessandro Marinuzzi. Da un paio d'anni si è avvicinata alla sperimentazione video e alle arti visive in generale, lavorando come performer per diversi artisti. E’ autrice e presentatrice della rubrica di critica cinematografica nei programmi italiani di Tele Capodistria, conduttrice, doppiatrice.

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Marco Benazzi, 7 settembre 2009

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IN VINO VERITAS

Ai lavoratori intellettuali “improduttivi”, cioè quelli che, come Milton scrisse “Il Paradiso perduto” per cinque sterline, producono opere d'arte “per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta” . (K. Marx) Teorie del plusvalore, libro I°

Siamo in una non ben definita città della Romagna. Sono le due del pomeriggio del 1° novembre 1966. In un bar del centro, quattro uomini giocano a carte a un tavolino quando, inspiegabilmente, tre agenti di pubblica sicurezza fanno irruzione nel locale e prelevano uno dei quattro senza metterlo al corrente del motivo. Il suo nome è Dante Comandini, ha trentanove anni moglie, due figli e da oltre cinque anni lavora presso la locale Cantina Sociale con mansioni di trasportatore - cantiniere. L’accusa è pesantissima: omicidio premeditato.

IL FATTO

Una signora sui cinquanta, Dolores Lucchi, domestica nell’abitazione del rag. Carlo Tumedei, da cinque anni direttore del succitato stabilimento vinicolo, scende in cantina per approvvigionarsi di legna, e scorge, bocconi su di una pozza di sangue raggrumato, il cadavere freddo e stecchito del Tumedei. In

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preda al panico, la donna di servizio avverte subito il commissariato di zona. Al comando delle operazioni, vista l’eccezionalità del fatto, vengono chiamati il commissario capo di P.S. dott. Vittorio Ferrari, il capitano dei Carabinieri, Giampietro Cangini e successivamente da Forlì, il Sostituto Procuratore della Repubblica e il dirigente della Squadra Mobile. Le prime indagini sul luogo del delitto accertano che la morte del direttore è avvenuta circa dodici ore prima del ritrovamento, intorno alla mezzanotte del 31 ottobre, allorché egli era rincasato a bordo della sua vettura, una Lancia Flavia, verde bottiglia. Il possibile movente del furto, è stato escluso immediatamente, in quanto nelle tasche dell’ucciso è stato rinvenuto il portafogli contenente una somma di oltre trecento mila lire né risulta essere stato asportato alcun altro oggetto. L’omicida, di cui non è stato ancora rinvenuta l’arma, deve aver agito con la massima circospezione in quanto nessuno nella zona, nemmeno la madre ottantenne e la domestica che le presta assistenza hanno avvertito alcunché di anormale, o percepito rumori di sorta anche perché la via dove il delitto si è consumato è assai poco frequentata nelle ore notturne dal momento che vi si affacciano esclusivamente magazzini ortofrutticoli. Al commissariato, intanto, da oltre sette ore si trova l’operaio Comandini, primo nella lista dei sospettati per il suo carattere schivo e, soprattutto, per il credo politico inviso ai superiori, per esempio al geom. Sauro Senni, amministratore nonché Deus ex machina dell’azienda vinicola, forte consumatore di cioccolatini ripieni. L’accusato, in stato di choc, dopo quasi otto ore di interrogatorio, nel costante tentativo di discolparsi, alla precisa domanda dello spietato questurino su chi, secondo lui, poteva aver commesso un delitto così orrendo, tale da non avere eguali nella storia della città negli ultimi decenni per la freddezza e la decisione con cui è stato portato a termine, senza dubitare

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minimamente di sbagliare, fa il nome di Atos Zappi detto “l’oriundo”, operaio quarantasettenne rude e attaccabrighe, di origini marchigiane il quale, inspiegabilmente, non risultava neppure far parte dell’organico aziendale. I vertici del commissariato di P.S., in azione congiunta con i carabinieri della Compagnia del luogo, nonostante i lunghi interrogatori condotti sul personale dipendente della Cantina Sociale allargati poi alla cerchia delle persone che in un modo o nell’altro potevano aver rapporti con la vittima – è stato interrogato anche il marito di una donna con cui il Tumedei intratteneva rapporti affettivi – avrebbero brancolato nel buio se non fosse stato per la segnalazione dell’operaio Comandini, il principale sospettato, che porta gli inquirenti a giungere allo Zappi il quale, ad un certo momento, resosi conto di non avere reali possibilità di sfuggire alla trama che gli si stringe attorno, sempre più fitta, finisce per confessare la sua piena responsabilità. L’omicida, accusato dal direttore di essere “uno” dei responsabili di un grosso ammanco di vino, non si presenta al lavoro nella mattinata del 31 ottobre per evitare di rivelare al rag. Tumedei i nomi dei complici del furto. Decide, però, di parlare al direttore in privato, per cui, dopo aver detto alla moglie che si sarebbe recato a Savignano per la lavorazione delle carni di un suino macellato, raggiunge a tarda sera il luogo del delitto, scavalca un cancelletto situato sul perimetro recintato e successivamente, riesce a penetrare nel salone dei torchi e delle presse, dopo aver con facilità sollevato la serranda che ne chiude gli accessi nelle ore notturne. Qui, al buio, attende il ritorno dell’ignaro direttore che rincasa a mezzanotte inoltrata a bordo della sua automobile. Il Tumedei, chiusa la portiera della vettura ed aperto l’ingresso dello stabile che è comune all’abitazione, si chiude alle spalle i battenti e si affaccia nel salone dei torchi, uno dei quali, contrariamente al solito, rimasto in funzione tutta la

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notte, è ancora in movimento quando gli inquirenti arrivano sul posto. Lo ha azionato Zappi per attutire i rumori dello scontro verbale piuttosto vivace e risentito per via delle voci corse in precedenza circa supposte colpevolezze a carico dell’omicida e dei suoi “complici”. Venuti a vie di fatto, l’operaio riesce ad afferrare una sbarra di ferro lunga sessanta centimetri e con questa colpisce ben nove volte la vittima, sul corpo della quale vengono poi riscontrate numerose contusioni: al volto, al cranio, alla nuca. In un estremo tentativo di difendersi o comunque di sfuggire ai colpi mortali del suo aggressore, il Tumedei, come confermano le larghe chiazze di sangue lasciate sul pavimento, cerca di fuggire, finendo poi riverso sul proprio sangue a pochi centimetri dalla soglia di casa e a ridosso della sua automobile. A sua volta, Atos Zappi, si libera dell’arma del delitto gettandola in un tombino da fogna situato nei pressi. Qui, infatti, viene ritrovata dagli agenti della P.S. dopo che i vigili del fuoco hanno rimosso la pesante lastra di cemento che ricopre la cloaca. Da un successivo sopralluogo effettuato nell’abitazione dell’omicida, emergono poi altri elementi a carico dell’assassino, uno su tutti il rinvenimento di un paio di pantaloni intrisi di sangue. Dopo la piena e aperta confessione, Atos Zappi viene tradotto in stato d’arresto al carcere giudiziario provinciale e posto a disposizione del Magistrato. Una settimana dopo, il giorno antecedente il processo che lo avrebbe visto imputato per omicidio volontario, Atos Zappi detto “l’oriundo”, muore accidentalmente in cella, soffocato da un cioccolatino allo sherry. Il fatto strano è che la carta che avvolge solitamente i cioccolatini, non è mai stata ritrovata. L’operaio Dante Comandini, dopo la traumatica esperienza di quelle interminabili otto ore di interrogatorio all’americana, lasciando gli uffici del commissariato locale, augura stessa sorte ai suoi accusatori i quali, sapendolo di idee politiche

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anarcoidi, lo spingono a reagire per poi rinchiuderlo in uno stanzino tre metri per due costringendolo a mangiare un chilo di cioccolatini purgativi2 assortiti.

Un ora dopo, terminato l’umiliante supplizio, l’operaio ribelle viene rilasciato fra le risa sguaiate dei biechi questurini. Con grande dignità, Dante guadagna l’uscita del commissariato scansato da tutti per l’odore nauseabondo e, tenendo per mano la fedele compagna, insegue l’orizzonte con l’andatura fiera di chi non mangia cioccolatini ripieni.

2 Cioccolatini purgativi "RICCI”, celebre marca riminese che ebbe vasta notorietà durante il ventennio.

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2 S. L.

Per guadagnarmi da vivere, ogni mattina vado al mercato dove si comprano le bugie, pieno di speranza mi metto a vendere.

(B. Brecht) Hollywood

“Signora suo figlio è molto intelligente ma non si applica.” Questa era la frase tipica che molti insegnati italiani degli anni sessanta/settanta usavano in occasione di udienze con i genitori per delineare il profilo scolastico del soggetto in questione. La madre di Paolo era una di quelle. Oggi, in questi casi, la frase che si utilizza, inquietante al punto giusto, recita: “Signora, suo figlio potrebbe soffrire di ADHD3, controlli se quando dorme assume la posizione a “stella marina4” e in quel caso lo porti dallo psichiatra”. Paolino, sin dall'età prescolare, era un bambino vivace, trovava difficoltà a stare buono, attento, ubbidiente, e questo gli procurò problemi di rendimento scolastico che, peraltro, non compromisero il raggiungimento dell'obiettivo accademico. Ai nostri giorni, un bambino con le stesse problematiche viene considerato malato di una (presunta) sindrome chiamata "disturbo dell'attenzione e iperattività" . In pratica, si è passati dal dare la colpa alla madre al dare la colpa al cervello. Ma mentre le madri

3 A.D.H.D = Attention Deficit & Hyperactivity Disorder. 4 Chi dorme in questa posizione, ovvero sul dorso con braccia e gambe spalancate, tende ad essere una persona che sa ascoltare, ha facilità a fare amicizia e non ama essere al centro dell’attenzione

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non si riusciva a soggiogarle, i cervelli, grazie ad un appropriata terapia farmacologica, si riescono a imprigionare. TRIANIL è il farmaco del miracolo e che importa se l'uso dei farmaci come forma di sorveglianza sociale è da sempre particolarità dei sistemi fortemente totalitaristi. Un mondo in cui chi è difforme, originale, chi non si appiattisce ai modi di fare imposti dalla collettività, chi è giudicato “bacato”, rischia di prendere sempre più campo. A partire dalla prima infanzia. Ma cosa ci si poteva aspettare da un mondo dove l’istruzione più è produttiva e più otterrà finanze dai pubblici poteri. Con questa forma di competitività portata al limite estremo servono sistemi drastici per raggiungere risultati apprezzabili. In una parola: TRIANIL5. Come l'eroe letterario della sua infanzia “Pierino porcospino6”, Paolo era iperattivo, impulsivo e mancava d'attenzione, insomma uno di quelli che oggi verrebbe curato con dosi pesanti di TRIANIL, ma mentre i primi due sintomi sono praticamente scomparsi una volta raggiunta la fase dell'adolescenza, i disturbi legati all'attenzione sono perdurati anche in età adulta sviluppando in lui delle strategie di compensazione che crollano ogni qualvolta si trova di fronte ad un improvviso evento da affrontare riportando in lui squilibrio, depressione e instabilità emozionale. Paolo, oggi quarantenne deluso dalla vita e dagli affetti, in preda ad una grave forma maniaco depressiva, una mattina, svegliandosi, apre gli occhi ed, immediatamente, si accorge di vedere il mondo in bianco e nero. La causa è da ricercare in una forte crisi professionale: di fronte alla gioventù perduta, così libera

5 Farmaco chiamato altresì la Droga dell'obbedienza. 6 Libro per ragazzi scritto un secolo fa dal medico tedesco Heinrich Hoffman.

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e sfrenata, sente anticipare le soglie della vecchiaia senza aver raggiunto il suo obiettivo. Con sforzi considerevoli, cerca di mettersi a suo agio, di stare agli scherzi dei giovani “amici” artisti, di colmare in qualche modo le differenze di mentalità e di gusti che derivano dall'età: si trova però sempre sull'orlo del ridicolo. E' un conformista, ha un fondo di moralismo e di ipocrisia borghese, e stenta a capire la libertà, la spregiudicatezza, la naturalezza di questi baldi giovani, pur essendone allo stesso tempo affascinato. Ha una personalità che denota un'umanità ironica e al contempo dolorosa. Il personaggio è già nel suo spessore corporeo, nella fisicità, nella materialità che ne esprime: in un rapporto viscerale, tra l'altro, col fumo e la birra, che poi sono delle caratteristiche dell'interprete. Questo è uno dei motivi che spingono Paolo a voler cambiar vita, anzi a viverne un'altra parallela. Non è facile vivere “due” vite nella stessa cornice temporale. L'unica cosa che può ostacolarlo nella ricerca virtuale della vera felicità, è la vita reale. I sogni sono, più o meno, gli stessi per tutti: amore, successo, felicità. Le persone che non desiderano questo, o sono morte o pronte per morire. Non importa se il mondo in cui ti trovi è virtuale o “reale”, reale è ciò che esiste nella mente. Viviamo in un'era neo-illuministica, ma le emozioni e le fantasie dominano le nostre vite, come hanno sempre fatto. Questo mondo consente di concentrarsi sulla ricerca della propria felicità personale. Così, spinto da un banner pubblicitario che lo invita a vivere pienamente una “nuova” vita tutta in technicolor, Paolo decide di entrare in S L dove la vita virtuale è tua e sei solo tu a decidere come deve essere. L'iscrizione al pacchetto base è completamente gratuita e comprende un numero incalcolabile di nuovi amici oltre alla possibilità, dando un'occhiata agli annunci o al catalogo della “s.l. Boutique”, di ottenere parecchie cose gratis o per la cifra

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simbolica di una moneta7 locale. In poco tempo, Paolo o meglio Paul Mountwiew, una volta scelto il proprio avatar8, da insopportabile perdente, capace di infinita determinazione e testardaggine, ma che è in definitiva dominato dalle ansie e manchevolezze, nonché dai suoi compagni, che approfittano di lui, diventa ciò che nella vita reale equivale ad una sorta di semidio pagano; può ubriacarsi, fare sesso, combattere, volare, teletrasportarsi ovunque in un istante, mutare aspetto quando vuole trasformandosi in qualsiasi cosa desidera. Partecipa, con i cortometraggi realizzati nella real life, ai vari festival cinematografici ed eventi collaterali in competizione con noti artisti del mondo reale, mietendo successi e prestigio. Sceglie come abitazione un castello in aria in una delle tante regioni fra loro interconnesse e formate da terra, acqua e cielo. Il suo ultimo “capolavoro” è uno spot pubblicitario per un nuovo prodotto rivoluzionario. Mooncup9 è il suo nome ed è una coppetta mestruale in morbido silicone riutilizzabile, ipoallergenica, lunga circa 5 cm. Grazie al successo ottenuto nel suo “Nuovo” mondo, Paul diviene sempre più ricco e spietato. Possiede un Jet personale Global Express Bombardier, una barca a vela “Indipendence” un 56 mt. dei cantieri navali Perini, l'atollo North Island alle Seychelles, il ritratto di Jenne Hebuterne che Modigliani dipinse nel '18, una Ferrari 456M GTA, una stilografica Meistrerstück Solitarie Royal della Mont Blanc realizzata a mano in oro massiccio, ricoperto da 4810

7 Linden dollar 8 Nel mondo virtuale di S. L. il proprio avatar rappresenta se stessi. 9 Sostituisce i tradizionali assorbenti interni, ma non assorbe il flusso mestruale, lo raccoglie. Al contrario dei tamponi non si tratta di un prodotto usa e getta. Ne dovrai comprare una sola. Con il suo morbido anello aderisce alle pareti vaginali permettendo al fluido mestruale di depositarsi senza gocciolare e senza odori. La naturale flora ed il grado di umidità dell'ambiente vaginale non vengono alterati. La Mooncup si svuota, si sciacqua e si reinscerisce. Si può indossare anche per 8 ore consecutive. Si svuota circa 4/5 volte in 24 ore, a seconda del flusso. (Mediamente l'intero ciclo mestruale di una donna porta alla fuoriuscita di 90-120 ml. di sangue. Una coppetta Mooncup può contenerne fino a 30 ml di liquido).

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diamanti (per un totale di 22 carati), pasteggia sorseggiando Romanée – Conti del '88 e la vita, finalmente, sembra sorridergli. Un giorno però, un fastidioso indolenzimento alla gamba sinistra, lo porta a presentarsi in una clinica dove i medici gli diagnosticano una idrocefalia non comunicante, una rarissima patologia che aumenta la quantità di liquido nel cervello. In pratica, Paul ha solo un decimo della normale massa celebrale per intenderci come un uovo di gallina – il resto del cranio è vuoto pur avendo un quoziente intellettivo pari a 75, appena di poco inferiore alla normalità. Tutto questo, inevitabilmente, fa di Paul “un fenomeno da baraccone”, e rimette in discussione molte assunzioni ritenute valide fino ad ora, in diversi campi: dalla biologia, alla psicologia, all’intelligenza artificiale. Il mondo dei “ben pensanti”, comincia un preoccupante processo revisionista nei confronti delle fondamenta filosofiche del rapporto tra cervello e mente (chi influenza di più l’altro?) Paul, frastornato più che mai, viene consolato dal suo coiffeur di fiducia che lo spinge a rivolgersi ai fratelli del regno di Scientology. Dopo una lunga serie di corsi di purificazione, Paul torna al suo mondo consapevole che la mente è ben altra cosa che il cervello. La visone del mondo, però, torna a tonalità di grigi. Paul: “Tra i tanti animali che popolano il mio castello, c’è una cavia, un piccolo e grazioso topolino bianco, Pino è il suo nome. Il suo cervello sarà delle dimensioni di un pinolo, eppure ha una mente: ricorda perfettamente le vie di fuga per sfuggire agli artigli di Faria, riconosce il mio passo da quello di chiunque altro, ha appreso l’abitudine di arrampicarsi lungo i pantaloni per reclamare la sua dose giornaliera di groviera, ha una nutrita famigliola, squittisce così come gli hanno insegnato i suoi genitori, in sostanza è vitale e condivide l’esistenza.

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Il mio vicino di nuvola, un omone dall’imponente stazza taurina, avrà un cervello certamente più grosso che, più o meno, darà le stesse performance di Pino. In più, il bipedone implume, sa suonare “male” lo scacciapensieri. E’ vero che in questo calcolo bisognerebbe tener conto del peso corporeo che quel cervello deve orchestrare e tenere vivo, ma la mente in tutto questo non c’entra. Sempre se la mente esiste! E’ già, perché potrebbe anche essere frutto di fantasie del nostro cervello: lui decide liberamente, sovrintende alle responsabilità, poi, con un pizzico di ritardo, ci fa supporre di essere in possesso del libero arbitrio così da darci un minimo di gratificazione fisica e quindi lasciarlo lavorare in pace. E’ uno sporco imbroglio! Come quello di impedirci di smettere di respirare volontariamente, di non dimenticarsi mai come si governa una bicicletta o come si fa il nodo alla cravatta una volta imparato. In piena deriva psicofisica, Paul decide di fuggire anche da quel mondo. Un annuncio, dato alle stampe sul suo quotidiano virtuale di riferimento, ad opera di un re, sua maestà LTUBSE IX°, sovrano dello Starwilland, ricerca un boia. Ha deciso di correre ai ripari cercando di assicurarsi un “professionista intellettuale” anche alla prima esperienza ma animato di voglia d'apprendere. Un buon stipendio, auto, abitazione e divertimenti sono naturalmente compresi. Paul, senza alcuna esitazione, armatosi di navigatore satellitare constata che lo staterello si trova tra il Southafriken e il Mutongo, poco più di un milione di abitanti con delinquenti in aumento. Dopo un breve periodo di ambientamento, Paul trova subito la soluzione giusta per i tempi che corrono: crea lo SPEED DEATH, letteralmente morte veloce. Il “gioco mortale” consiste nel dotare i partecipanti/condannati di uno speciale tipo di telefono cellulare, condurli in uno studio televisivo e farli competere in un quiz dove la posta in palio è la vita. Tutti contro

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tutti, dovranno rispondere a quesiti di cultura generale inviando sms. Il vincitore avrà in premio la grazia. Naturalmente il tutto in diretta sul web. Paul, amareggiato dalla parabola di un atroce condizione umana che raggela il riso sulle labbra nel momento stesso in cui lo suscita, convinto fermamente che la violenza profonda e lacerante è nei fatti, nelle cose, negli uomini, nelle immagini di quell'alienazione collettiva, guadagna lentamente le stanze del suo castello, sale in camera da letto e chiude la porta alle sue spalle. L’ultima sua immagine, lo vede immortalato sul letto sfatto, nella tipica posizione del “bramoso10”. A terra, accanto al tappeto scendiletto, un tubetto vuoto di TRIANIL.

“La resa non stravolge, ma rimette al posto giusto. Senza esitazione rifuggo la luce abbagliante dell'accadere quotidiano e mi riparo nell'incerto rifugio della resa...” Da “L'Elogio della resa” di Peter Handke

10 E’ la posizione di chi dorme su un lato un po’ curvo con le braccia allungate in avanti, è di norma un

soggetto ambiguo, cinico e con un approccio molto razionale alla vita.

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IL PAGURO

Una tipica imbarcazione adatta alla pesca d’altura11 procede con alle spalle l’orizzonte verso il porto di Ravenna. Al timone un uomo sui quaranta, tipo atletico, capelli e barba scuri, veste con jeans, maglione, berretta di lana e giacca in tela cerata per combattere l’aria pungente. Il viso è segnato dal vento e dal sole, solcato dalle rughe; lo sguardo è intenso. Il sole splende, come da previsioni. L'unica ansia la porta il vento. Il mare è calmo come ogni marinaio vorrebbe. L’entrobordo è partito dall’altezza dell’ex pozzo “Porto Corsini 7” a circa 14 miglia per 120° dal porto di Ravenna. Qui, su un fondale è ancora adagiato il Paguro12. Il motore gira costante a 2200 giri. Sono centinaia i gesti e le carezze di timone, mentre gli occhi squadrano in altalena tra gli strumenti di lettura che descrivono il fondale e la costa. Tiene una rotta che

11 Ad. es. una Mariu IIIª della Glastron in VTR di 9,50 X 3,50 metri che monta 2 motore entrofuoribordo da 220 Hp cadauno TD Duopro. Ha un pozzetto molto grande rispetto alla sua lunghezza che permette di pescare in comodità anche a 4 pescatori. Inoltre è attrezzata con doppia timoneria, bagno, doccia, divergenti, sedia, canne da 30lbs e da 50lbs, pancere, raffi, esche artificiali, giubbino da pesca, giubbini di salvataggio, razzi, zattera autogonfiabile, VHF, GPS cartografico, ecoscandaglio, vasca per il vivo. Con questa barca è possibile fare della traina e bolentino pesante. 12 Il Paguro (una "artificial reef" a Sud-Est del porto di Ravenna, a 12 miglia dalla costa, su una

batimetria di 25 metri) era una piattaforma self elevating di 5000 tonnellate che era operativa in acque profonde fino a 60 metri e per giacimenti fino a 4000 metri sotto il fondo marino. La piattaforma sprofondò la mattina del 29 settembre 1965 a causa di un incendio scoppiato a seguito di una fuga di metano durante le operazioni di trivellazione. Successivamente, il relitto fu utilizzato per affondarvi sopra altre strutture derivanti dall'attività off-shore e che oggi lo sovrastano in diversi punti. Oggi il relitto è in un buono stato di conservazione, grazie anche all'opera di manutenzione di alcuni subacquei. Con il passar degli anni, sono stati abbattuti i carichi percolanti più instabili e rimosse le reti che venivano calate periodicamente dai pescatori, malgrado i divieti di pesca vigenti. Il relitto del "Paguro", pur non costituendo un ambiente naturale, sulla base della Legge 963/65 e successive modifiche, è stato possibile, con il D.M. del 21/7/1995, riconoscere l'area in oggetto come "zona di tutela biologica". A seguito del Decreto 5/11/1996, la Capitaneria di Porto di Ravenna ha autorizzato l'Associazione Paguro (un consorzio di imprese di pescatori che si propone come futuro organo di gestione) a realizzare visite guidate e immersioni subacquee in quella zona.

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gli consente di puntare verso Ravenna ma di farlo restando al largo. Ha l’aria di chi non farebbe altro per tutta la vita.

Monologo interiore13

Quella là davanti a me è Ravenna. Sembra a un tiro di schioppo ma è l'occhio falso del marinaio miope che si ostina a non voler portare gli occhiali che mi fa credere di essere già arrivato. Il vento è come se comprendesse la mia amarezza e mi sfida, e in un istante viro perdendo sessanta gradi tra la mia meta e la rotta. Comunque ne ho di tempo per recuperare il cammino verso i miei obblighi. La volta scorsa, quando stavo per attraccare ho girato lo sguardo verso la linea del tramonto con la sete del vagabondo che ha percorso tanta strada. Mio padre, mi racconta mia madre, parlava di una sporgenza in cemento proprio dentro la darsena dove un vecchio palombaro lo portava a scuola di immersioni. Non c’è più, proprio come mio padre e il suo amico istruttore.

13 E’ un discorso non pronunciato e senza ascoltatori. Il personaggio in prima persona esprime fra sé e

sé i pensieri più nascosti, spesso per associazione di idee e quindi con un ordine non rigorosamente logico. Non c’è la mediazione del narratore, come accadeva nel discorso indiretto libero, che era in terza persona, ma, come quest’ultimo, manca del verbo introduttivo di comunicazione. È spesso condotto su diversi piani temporali del passato e del presente, è ricco di interrogative, esclamazioni e consiste in ricordi, riflessioni, domande. Il tempo del racconto è rallentato, si estende a dismisura, anche se accade poco o nulla. Es.: "Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono […] Quest’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo […]. Adesso che sono qui, ad analizzarmi, son colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto le sigarette per poter riversare su di esse la colpa delle mie incapacità? Chissà se, cessando di fumare, io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo?" (da Svevo, La coscienza di Zeno, Il fumo).

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Da piccolo, spesso, avrei voluto essere nella testa di mio padre, per vedere accostarsi la forma del pensiero con quella colta dai suoi occhi, mentre osservava il mio viso di bambino spensierato. Già… mio padre… quel maledetto 28 settembre del 65’. Erano già due anni che l’impianto di ricerca era in attività, ed era impegnato a trivellare il pozzo "Porto Corsini 7" a poche miglia dal porto di Ravenna, ma una volta raggiunta quota 2900 metri, scoppiò l’inferno… Sotto, un secondo giacimento… di gas ad alta pressione… venne intaccato. Riuscirono a chiudere la testa del pozzo, ma l'elevata pressione causò il cedimento delle pareti provocando come un'eruzione incontrollabile. Prima una grande massa di acqua e gas seguita successivamente dalle fiamme che fusero il metallo di sostegno questo, insieme al cratere creato sul fondale, provocò l'affondamento... Tre persone morirono quel giorno mentre le restanti furono tratte in salvo dai sopraggiunti soccorsi. “L'eruzione”, perché così sembrava da terra, durò qualche settimana finché non riuscirono, tramite un pozzo deviato, a chiudere la testa del "Porto Corsini 7". Sono passati oltre quarant’anni e il Paguro é ancora disteso sul fondo nella stessa posizione del momento della sciagura... In tre non ce l’hanno fatta: un meccanico di trentotto anni, un elettricista di ventisette e un ingegnere di cinquantadue. Mio padre era uno di loro… io non l’ho mai conosciuto. Sono cresciuto a metà, se così si può dire. Da piccolo non avevo

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nemmeno il coraggio di dire “babbo”. Poi, col passare del tempo, mi sono convinto che dovevo assolutamente crearmi un padre virtuale, un uomo dalla professione misteriosa, segreta, e da allora mi sono sentito come gli altri, più degli altri. Ho iniziato a costruirmi una vita famigliare parallela da raccontare ai miei coetanei. Inizialmente riuscivo a controllare agevolmente la situazione accumulando bugie… col tempo, però, la sensazione era pari a quella che prova un gabbiano che rimane “in sosta” incollato su di una boa pronto a spiccare il volo alla vista di un pesce costretto a salire in superficie, per questo oramai saturo dall’inesperienza decisi di distruggere il castello resettando la memoria… Nei giorni antecedenti la Pasqua del ’73, raccontai all’amico del cuore che mio padre, durante una missione per conto del governo italiano, era sparito nel nulla assieme ad altre trenta persone sull’Anita, una finta nave da carico di 20.000 tonnellate. Stavano attraversando quel tratto di mare oggi conosciuto con il nome di triangolo delle Bermude14 Fu un colpo di genio suggeritomi da un articolo che, qualche settimana prima, avevo letto su Famiglia Cristiana. Sarà stato mio padre che mi ha spinto ad acquistarla. Poche frasi ben calibrate mi avevano cambiato la vita. I ragazzi mi rispettavano e le ragazze, grazie all’eroico sacrificio, facevano a gara per uscire con me, chi per una scampagnata in bici lungo il fiume, chi per una pizza e un cinema, chi per ripassare matematica e fisica… ricordo che mia madre, vedendomi sempre 14 Nell'oceano Atlantico Occidentale, vi è un'area che è comunemente e tristemente nota come IL

TRIANGOLO DELLE BERMUDE. In tale area sono misteriosamente spariti o repentinamente colpiti da strani eventi, più di 100 aeroplani ed altrettante navi, 1000 vite umane... senza che un solo cadavere o rottame fosse recuperato. I pochi superstiti o gli involontari testimoni (chi era in contatto radio con gli aerei o le navi), raccontano di strani bagliori, improvvisi malfunzionamenti degli strumenti di bordo o poco chiari aspetti del mare.

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più spossato e smunto mi versava nella minestra in brodo un cucchiaio di estratto di carne, a detta sua, ricco di proteine, sali minerali e vitamine… Casa a parte finalmente anch’io ero un Capo! Non so cosa mi era scaturito dentro ma da quel momento pensavo e credevo d’essere un vincente, uno che di mestiere fa il consulente globale di Pubblitalia non il congegnatore meccanico… Avevo scoperto il potere della bugia, quella bianca per cominciare… quella fantasiosa che non fa male, a metà fra il brioso e il pedagogico. Era un mondo fantastico: una bugia era un pianeta, e ogni giorno che passava serviva per costruirmi il mio personale universo di menzogne. L’ho esplorato fino ad oggi. Non so che cosa accadrà in futuro, ma immagino che una bugia che ha vissuto per anni dentro me subisca una sorta di mutazione genetica, diventi un tutt’uno con il fegato piuttosto che con il colon, instauri un rapporto d’amicizia con le altre bugie e sappia riconoscere la mia voce da quella di un altro bugiardo. Mi piacerebbe, un giorno, scrivere una storia che narri la vita interiore di una bugia. Dalla radio, una suadente voce maschile invita a chiamare un numero per avere in diretta l’interpretazione di un sogno. Sogni… i sogni sono morti con i Senoi15… Questi, ogni mattina, prima di “colazione”, si raccontavano i loro sogni. Per loro il mondo onirico era più ricco di insegnamenti della vita reale. Se un Senoi aveva sognato di aver fatto male a qualcuno, doveva offrire un regalo alla persona lesa. Se aveva sognato di essere stato colpito da un membro della tribù, questo doveva 15 Tribù primitiva della foresta malese, celebri perché organizzavano la propria vita attorno ai loro sogni.

Scomparvero negli anni ’70/80’, quando la foresta in cui vivevano venne distrutta.

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scusarsi con lui e fargli un regalo per farsi perdonare. Straordinario… Nella loro società la violenza e le malattie mentali erano sconosciute, non c’era stress, ambizione di conquista guerriera e si lavorava lo stretto minimo necessario per sopravvivere. E noi li abbiamo annientati… Io però continuo a seguire la loro filosofia di vita. Al mattino, quando mi alzo, prendo nota in un taccuino del sogno fatto, inserisco la data e un titolo. Poi lo racconto al mio edicolante e al barista prima del caffè. In realtà mi sono spinto più a fondo. Sono arrivato al punto di poter decidere, prima di addormentarmi, che cosa sognare: tuffarmi in un vulcano in eruzione, prosciugare gli oceani, gustarmi in tribuna vip Polisportiva Tre Martiri – Juventus per il campionato di terza categoria! Con l’onironautica16, tutto è possibile! Se la vita e' un sogno, resta da stabilire se a chi lo sta facendo piace… Dalla radio, sentiamo un jingle che pubblicizza l’uscita nella sale del film più divertente dell’anno. Quelli ad occhi aperti invece, li ho sempre fatti al cinema. Lì, ho imparato a fantasticare, ad emozionarmi per qualche cosa che non mi toccava direttamente. Sugli schermi ho visto succedersi milioni di persone, miliardi di parole, sono sfilate storie emozionanti, perfino il tempo si fermava. Dalla Roma dei Cesari si veniva catapultati in pieno Far West per poi finire a danzare nello spazio siderale al ritmo di Strauss. Ho raccolto storie di persone sconosciute che facevano cose del tutto normali come lavorare, innamorarsi, ridere, piangere. Senza cinema, la mia vita, inevitabilmente, sarebbe più grezza, triste e banale.

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L'arte del viaggio astrale

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Dalla radio, sentiamo un jingle che pubblicizza l’uscita, nei migliori videostore, dell’ultimo megagioco di ruolo per consolle. …Tuttavia non riesco più a ricordare come poteva essere la vita prima dell’avvento dei videogiochi. Quando nei bar fecero la prima comparsa Pong17, Space Invaders18, Pac Man19 e Asteroid20, ci fu una svolta epocale. Immagino che ai giovani d’oggi giochi così ingenuamente facili possano risultare terribilmente noiosi, ma ogni generazione ha la vita scandita da un gioco che la rappresenta. La mia generazione, chiude il periodo di calcio balilla, Flipper e Ping Pong per passare agli Arcade21. Dalla radio, uno spot pubblicitario ci ricorda l’approssimarsi del Natale. Natale… sinonimo di regali. Ricordo che su un vecchio libro di racconti regalatomi da mio zio lessi una storia che servi ad illuminarmi sul bisogno di regali. La storia aveva inizio tanto tempo fa, quando un uomo punì sua figlia di cinque anni per la perdita di un oggetto di valore. Era l’antivigilia di Natale. Il giorno seguente la bambina portò un regalo al padre che lo accettò visibilmente imbarazzato, ma la sua rabbia si amplificò quando, aprendo il barattolo, vide che era vuoto. In maniera 17 Due racchette virtuali che tentano di respingere una quasi-palla che rimbalza sullo schermo; chi manca la palla regala un punto all’avversario; chi arriva per primo a 15 punti ha vinto. 18 Il gioco consiste nel fermare la lenta invasione degli alieni, sparando agli invasori prima che questi distruggano lo schermo di protezione terrestre. 19 Lo schema del gioco è molto semplice: il nostro scopo è aiutare la creatura sferica a mangiare tutti i

puntini all'interno del labirinto evitando i fantasmi che cercheranno di ostacolarti. Per facilitare il compito sono presenti agli angoli dello schermo 4 pillole che permettono al nostro Pac-Man di divorare i fantasmi per un breve intervallo di tempo. Una volta deglutiti i nemici, questi torneranno alla base (il rettangolo al centro dello schermo) sotto forma di un paio di occhi, per rigenerarsi ed attaccare di nuovo Pac-Man. 20 La sua grafica vettoriale, sottile come il laser, disegnava un'astronave a forma di freccia galleggiante

in mezzo a una tempesta di macigni spaziali, da ridurre in pezzi via via sempre più piccoli per mezzo di esplosioni. 21 Sono tutti quei giochi (anni 70\80\90) che chi ha più di 25 anni ha avuto per tanti anni nel bar sotto

casa, giochi come pac man, space invaders, tetris, e migliaia di altri oggi definiti arcade (d’archeologia).

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sgradevole apostrofò la bambina spiegandole che quando si decide di fare un regalo, si presuppone che nel pacchetto ci sia qualcosa. La bimba lo guardò dal basso verso l'alto e con le lacrime agli occhi gli rispose che il barattolo non era vuoto e che lei stessa lo aveva riempito di baci. Il padre si sentì annullato. Si inginocchiò, le mise le braccia al collo e le chiese perdono. Dopo alcuni anni una triste fatalità strappò alla vita la bambina. Per gli anni che gli restarono da vivere, il padre tenne sempre quel barattolo sul comodino e quando si sentiva depresso o in pericolo, lo apriva e tirava fuori un bacio immaginario rivivendo l'amore che la bambina ci aveva messo dentro. La morale me l‘ha spiegò mio zio in poche ma sagge parole, e cioè che ognuno di noi ha un barattolo colmo di baci e amore incondizionato, di chi ci vuol bene e che soprattutto non ci sono oggetti più vitali che si possano possedere. Il mio barattolo mi segue sempre dentro la mia cartella di cuoio. A volte mi sono chiesto se lui, contenitore d’amore, sia triste non potendo mai uscire da se stesso. Chissà… forse, invece, la vita di un barattolo di baci è bellissima, perché trascorre piena di amore, amore disinteressato per gli altri, piena di compassione per le debolezze e le sofferenze degli altri, un barattolo di “concentrato di bene” che vive senza dubbi, senza paure di ciò che può capitare fuori da lui e più di tutto senza il sospetto che ci siano altri barattoli che si oppongono a lui. Sentiamo distintamente il suono basso e profondo tipico della sirena di una nave. Dalla radio, uno speaker legge una notizia dell’ultima ora. “…A poche miglia dalla costa di Ravenna, uno scafista di origine ignota, avvistato dalla Guardia Costiera, ha gettato in mare dieci clandestini accoltellando quelli che opponevano resistenza. Lo scafista è stato arrestato in mare mentre tentava la fuga verso la costa croata. Quattro clandestini risultano dispersi.” 30


Non so quanto riuscirò a resistere. Sono un asociale con un numero incalcolabile di anime che equivale al non averne nessuna… in più debbo stare attento a non farmi impietosire… potrebbe essere la mia ultima debolezza. L’entrobordo entra in porto. L’uomo al timone lancia, a fatica, la cima di ormeggio e fa scalo al molo 17 dirigendosi, con al fianco la cartella in pelle, in direzione della Capitaneria di Porto. Le orme degli scarponi lasciate sull’asfalto presentano chiare tracce di liquido rossastro. All’interno dell’imbarcazione, sulla pavimentazione che porta sottocoperta e accanto al timone, notiamo tracce simili a quelle viste sul molo. Giunto alla sede della guardia costiera, lo sconosciuto entra con disinvoltura nell’androne e si dirige speditamente in un ufficio, entra senza bussare e richiude la porta dietro sé. Sulla targhetta in ottone, posta su di un lato della porta, campeggia la seguente scritta: Comando della Direzione Marittima - Capitano di Vascello Biagio Lorenzetti. Un ufficiale in divisa proveniente da un ufficio limitrofo, bussa alla porta e ottenuto l’ok entra facendo capolino con la testa. Ufficiale (di spalle) Capitano… allora, come è andata la pesca? Quanti tonni abbiamo portato a casa? Cap. Lorenzetti Solo quattro… purtroppo! Anzi fammi un favore Balzani, manda Salsi e Bovoli a prelevarli altrimenti finisce che me li dimentico lì… digli che diano anche una ripulita al ponte, già che ci sono. 31


Ufficiale (sempre di spalle) Sarà fatto, capo! E complimenti… L’ufficiale, a questo punto, chiude la porta e si dirige verso il corridoio opposto a quello da cui era venuto. Il capitano, rimasto solo, si versa uno scotch whisky allentandosi il giaccone. Si nota, proprio all’altezza del fegato, un ferita d’arma da taglio che sanguina copiosamente. I tonni, è risaputo, hanno varie dimensioni, comunque sono sempre catture dai 50-60 chili in su. Un tonno dell’Africa Subsahariana può arrivare anche a due metri di altezza, anche se da queste parti sono rari. Io, non sono mai tornato a riva da una battuta di pesca senza almeno una cattura. Alcuni miei colleghi amano tenersi le catture (tipicamente dell’est europeo) perché ottime braccia da lavoro e la fatica ha un mercato in netta ascesa. La prima volta si parte con l’intenzione di rimettere in libertà le prede, ma è bene ascoltare prima i consigli del “capitano dei capitani”. Alcune specie sono talmente rare ed efficienti, che nessun “capitano vero” può accettare che vengano lasciate libere. Il capitano, dopo un colpo di tosse seguito da una sorta di “risucchio”, prende la cartella ed estrae una scatola logorata dal tempo. Vorrei tanto essere il barattolo che contiene il bene di un altro uomo solo per vivere in un mondo tranquillo, dove sia netta la divisione tra cattiveria e bontà, dove sia chiaro come ci si debba muovere per passare dalla fanciullezza alla vecchiaia, e dove un bacio, seppur immaginario, ha qualcosa a che fare con la felicità.

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Dopo una sorta di "urlo inspiratorio", il capitano cade esanime sul pavimento trascinando con se la scatola che battendo violentemente sul pavimento produce un rumore di vetri infranti e dal suo interno cominciano a fuoriuscire tutte le bugie raccontate nell’arco della sua esistenza. L’ultima immagine che gli occhi del capitano memorizzano prima di spegnersi definitivamente è quella della neve che cade senza rumore in una camera sempre piĂš buia.

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UN AMORE DIVERSO

Poiché ognuno di noi ha il dono di una sola vita, perché non decidere di passarla con un gatto?

(Robert Starns)

“E' solo un animale!”, sentenziava il fastidioso sottofondo che accompagnava la mia angoscia nel vedere quella povera bestiola stesa sul suolo rovente di un tratto della via Emilia. Teneva gli occhi chiusi come per evitare di morire con davanti un'immagine così spietata. Nel capannello di individui che si era formato attorno a quel povero corpicino martoriato, c'era chi si vantava d'aver “posseduto” un bracco tedesco che lo aveva portato fino a disputare le fasi finali del campionato del mondo, nella speciale categoria “cani da riporto”; chi invece aveva vinto un numero interminabile di nastri colorati ai diversi concorsi di bellezza a cui aveva partecipato con il “suo” campione e chi, infine, era molto soddisfatto che il suo Attila, un dobermann accuratamente addestrato, avesse azzannato a sangue il polpaccio di un povero portalettere, reo d'aver varcato la soglia dell'uscio indossando una divisa troppo simile a quella dell'accalappiacani. Il veterinario arrivò prontamente, su mia richiesta, e trasportò l'esserino nella sua clinica. Mi confessò, dopo i primi accertamenti, , che le fratture multiple non facevano ben sperare per la

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sopravvivenza dello sfortunato animale e che comunque le cure sarebbero state lunghe e costose. Già, perché il protagonista di questa storia è uno stagionato gatto soriano dal manto bianco e nero come i colori della sua città, città ingrata che non prevede la copertura medica nei confronti di gatti randagi, così come è assicurata ai fratelli cani. Lo tranquillizzai sul pagamento delle spese mediche versandogli un primo acconto poi, salutai lasciandogli il mio numero in caso d'urgenza. I giorni passarono veloci come lepri in fuga, e le condizioni del micione migliorarono fino alla completa, o quasi, guarigione. Una leggera zoppia alla zampa posteriore destra e la perdita di udito dall'orecchio sinistro erano i ricordi che lo avrebbero accompagnato vitanaturaldurante. Di questo indimenticabile regalo, doveva ringraziare la vamp di turno che, a cavallo del suo SUV americano color canna di fucile nuova fiammante, presa da un'importantissima telefonata d'affari, lo aveva tirato sotto senza accorgersene, poverina... Fanculo! Se avessi dato retta al mio istinto, l'avrei rincorsa, costretta a seguirmi con le cattive poi l'avrei impalata nel luogo dell'accaduto a futura memoria... naturalmente a telefonata terminata. Quando venne dimesso, mi accordai con il veterinario per ospitarlo a casa mia, nel periodo della convalescenza nell’attesa che qualcuno lo reclamasse o che lui stesso volesse fare ritorno all'ombra del suo tetto. Nessuna delle due situazioni si realizzò. Decisi allora di farmi adottare da lui e, come primo provvedimento, gli feci scegliere un nome. In realtà fu molto più semplice di quel che si possa pensare, visto che nel periodo in cui era immobilizzato nel suo cesto davanti alla tivù, ogni qualvolta passava un film con Charles Bronson, lui sfoderava un miagolio di partecipazione con tanto di tremore modulante: da quel giorno il suo nome fu Bronson. Il muso da duro e i ciuffi di pelo mancanti

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dai troppi combattimenti sostenuti, gli donavano un aria vissuta incutendo rispetto. La nostra vita in comune era a dir poco perfetta: lui da giugno a settembre dormiva tra il lavabo, il bidet e la lavatrice; io tra l'amaca e il divano Ikea con ventilatore da soffitto sparato in faccia. Si mangiava e si “beveva” alla stessa tavola, spesso nello stesso piatto o bicchiere; appena tornato dalla corsetta quotidiana, Bronson mi aspettava in bagno e pretendeva di leccarmi, con la sua lingua ruvida come carta abrasiva, il sudore che colava dalla fronte concentrandosi sul testone ducesco. Più volte ho cercato di convincerlo a diventare vegetariano, ma bastava un suo sguardo profondo e pieno d'ironia, per farmi desistere. Un giorno, mentre andavo in biblioteca a riconsegnare un libro, vidi affisso ad una colonna, una fotocopia oramai sbiadita dal tempo dove Saeihr, una bambina di etnia Rom di nove anni non-vedente dalla nascita, cercava il suo gatto Artù che dalla foto, seppur poco chiara, si intuiva che potesse trattarsi di Bronson. Chiamai quel numero restando inizialmente sul vago poi accettai l'invito di Mavus, la madre di Saeihr, a farle visita. Davanti a un tè forte come il loro carattere e ad ottimi pasticcini alla cannella, in poco meno di un'ora, mi venne raccontata l'intera storia di Saeihr e Artù. Circa nove anni fa, accanto al campo che ospitava la famiglia Halilovic, fece sosta un piccolo circo a conduzione famigliare proveniente dal sud della Finlandia, la cui professionalità la si poteva notare dal fatto che quando il domatore entrava nella gabbia delle belve feroci, fuori, la moglie, restava per tutto il tempo con una pistola, pronta a sparare in caso qualcosa fosse andato storto. Una sera, da un sacco di iuta, che un inserviente stava prendendo a bastonate, riuscì a fuggire un gatto silvestrone terrorizzato che in

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quattro balzi fece perdere le sue tracce tra le miriadi di kampine parcheggiate. Istintivamente, entrò da un finestrotto socchiuso andandosi a nascondere sotto la culla di un neonato. Non si separarono più: lui le permetteva di vedere il mondo attraverso i suoi occhi; lei traduceva i suoi pensieri in manifestazioni gioiose e il rapporto di complicità era perfetto. Poi l'incidente, dal quale Artù ne uscì privo di memoria e Saehir, avendo perso l'amato compagno di viaggio, cadde in uno stato di profondo scoramento. Rincuorai la dolce bambina, promettendole di portargli Artù al più presto poi, subdolamente, passai dal gattile con la speranza di individuare un micione con le stesse caratteristiche fisiche, spacciandoglielo per l'originale dal carattere cambiato causa l'incidente. Ne trovai uno che pareva separato dalla culla di Bronson tanto gli assomigliava. Ciò che li differenziava in maniera evidente era la tristezza che leggevi nel profondo dei suoi occhi. Lo adottai e decisi di effettuare lo scambio immediatamente. Lo so, era una manovra bassa e vile ma anch'io sentivo di non poter più fare a meno di Bronson. Giunto al campo con l'animo di chi sta svuotando il salvadanaio di suo figlio sostituendo le monete con bottoni, presi tra le braccia il gattone amorfo e bussai alla porta dalla kampina. Quando Tal, il padre di Saeihr, venne ad aprirmi la porta la bestiola si divincolò agevolmente dal mio tenero abbraccio tuffandosi a pesce all'interno; aveva sentito la voce di Saeihr e quando lei senti le fusa di un intensità pari al rumore di un trapano a percussione e prese a mordere dolcemente il suo naso, come espressione di massima felicità, scoppiò in un pianto a dirotto e ogni sua lacrima veniva asciugata mentre scendeva dalle gote prima che potesse morire schiantandosi al suolo.

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Ora la domanda sorgeva spontanea: era stato il caso che mi aveva spinto al gattile proponendomi un sosia di Bronson, oppure.... propendo per la seconda ipotesi, certi accadimenti non hanno nulla di terreno. Un abbraccio caloroso all'intera famiglia Halilovic e al parentado stretto – in tutto trentatrè persone – poi, dopo aver caricato il portabagagli di manufatti in rame e invitanti manicaretti, raggiunsi casa e quindi Bronson il quale mi accolse a modo suo, con testate violente, mordendomi selvaggiamente per poi appecorarsi in attesa che gli accarezzarsi la pancia da avvocato anni cinquanta. Oggi, siamo una coppia navigata; lui si bea delle sue conquiste, io mi sfogo delle mie delusioni; io tifo Toro, lui Cesena e quest'anno, in occasione del suo ingresso nella mia vita, gli ho regalato l'abbonamento (ridotto) al Dino Manuzzi.

Quando vado a fare trekking tra i boschi della Lama, lo porto con me nel mio zaino come Céline, quando fuggì attraverso la Germania, tra le fiamme della IIª guerra mondiale, con il suo adorato Bébert in una bisaccia. Insomma, alla faccia dell'uomo dalla sottana bianca, noi due, di fatto, siamo già una coppia.

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LAPIS

Olmo era un uomo solo e mentalmente distante anni luce dalla realtà. Dopo essere stato colpito da una scarica elettrica mentre tentava, inutilmente, di riparare il suo inseparabile termoforo, perse i sensi e quando li riprese, credette di essere uno scrittore incompreso. Nella sua camera da letto, aveva una cassaforte a muro con apertura a combinazione che apriva due volte al giorno: ogni mattina appena alzato e ogni benedetta sera prima di coricarsi. Al suo interno, solo una matita, una piccola scatola in metallo e un grosso quaderno per appunti di colore marrone, rilegato in pelle. Di lui si sapeva che viveva solo e che aveva come unica misera fonte di reddito quella derivante dalla collaborazione con un quotidiano a diffusione locale, se si escludevano i coccodrilli creativi che, misteriosamente, inviava al suo capo redattore, sotto pseudonimo, il giorno precedente l’avvenuta dipartita del personaggio di turno e che gli fruttano cifre a dir poco interessanti, visto che l’articolo veniva pubblicato, appunto, con un giorno d’anticipo rispetto a tutti gli altri organi d’informazione. Faceva volutamente vita da recluso di lusso, si concedeva solo un giro in bicicletta a notte fonda, per evitare contatti con altri appartenenti al genere umano. Questo, da quando anni fa, dopo aver accettato di partecipare ad una gita domenicale in quel di Volterra, al suo ritorno aveva trovato l’ intero parentado in veglia funebre al capezzale del padre, deceduto per essere stato accidentalmente colpito da un fulmine mentre faceva ritorno dalla funzione sacra. I suoi arnesi di lavoro erano, una vecchia Olivetti lettera 35, scomoda e logora ma dotata di quella che lui chiamava 39


“umana musicalità” che nessun computer d’ultima generazione possedeva; e il prezioso lapis che utilizzava, esclusivamente, per la stesura dei coccodrilli. Ogni volta che la punta della matita aveva bisogno d’essere ravvivata, Olmo utilizzava una particolare carta abrasiva estremamente sottile per poi riporre, in maniera quasi maniacale, la limatura di graffite prodottasi all’interno di una piccola tabacchiera da fiuto, prima di richiudere anch’essa nella cassaforte e non prima d’averne inspirato un pizzico. Non era sua abitudine guardare la televisione, preferiva osservare il mondo che lo circondava, protetto dalle mura domestiche. Grazie al suo potente telescopio, infatti, sfogava il suo basso istinto voyeristico “rubando” la delusione degli anziani sulle panchine dell’attesa e l’amore dei giovani sui prati della speranza. L’estate la trascorreva, da oltre vent’anni, a Cesenatico, nell’appartamento ricevuto in eredità dallo zio Costante, ricco prelato ammanicato al punto tale da riuscire - prima di tirare le cuoia alla veneranda età di ottantasette anni durante una partita di tennis in doppio misto particolarmente impegnativa - a scalare le vette della carriera ecclesiastica fino ad indossare la veste rosso porpora. L’appartamento “vista mare” era situato al decimo piano del grattacielo e la notte, Olmo, saliva fino al lastrico solare ad osservare il cuore pulsante della città. Questo serviva a mantenerlo vivo, a partecipare, anche se in forma ectoplasmatica, alla vita degli altri, di quelli che “sanno vivere”, che non si fanno mai domande, non solo perché non saprebbero rispondersi, ma principalmente perché loro “agiscono”, non sono soggetti a continui attacchi di panico al solo pensiero di doversi allontanare dal proprio microcosmo fatto di libri, film, oggetti feticcio e di tre gatti umanizzati. Anche nella residenza estiva, quaderno, matita e tabacchiera riposavano dentro ad una cassaforte, in questo caso portatile, che Olmo conservava gelosamente in fondo al ripiano

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alto dell’armadio a muro, in camera da letto. La sua vita fatta di giorni ”fotocopia”, trascorreva sempre più velocemente come se in fase di montaggio, il “regista”, con l’ausilio delle forbici poetiche, avesse tagliato tutto il superfluo, quando, un mattino di metà agosto, il campanello prese a suonare incessantemente. Olmo, in quell’interminabile lasso di tempo, passò dall’iperventilazione con il metodo del sacchetto del pane, all’assunzione di benzodiazepina, poi, in stato catatonico, salivazione azzerata e abbondante sudorazione ascellare, prese il coraggio a due mani e aprì la porta. Oltre l’uscio apparve una donna da sogno, di quelle che Olmo “osservava” sedute ai tavoli che contavano, spesso accompagnate da uomini targati “GPL”, cioè griffati, palestrati e lampadati, categoria fisica superiore. Altezza q.b., sui quaranta, ma la sua età biologica la faceva almeno dieci anni più giovane, capelli lisci color miele e occhi di giada, un incedere elegantemente aristocratico e un sorriso dolce e malizioso come un velo di cannella sul mascarpone. Olmo, restò impietrito come un bimbo che per la prima volta fa il suo ingresso in una sala giochi. I suoi rapporti con l’altro sesso erano stati praticamente nulli, l’unica sua “avventura amorosa” risaliva agli anni settanta, per la precisione all’agosto del settantotto, quando sedicenne in vacanza in Sardegna ospite di amici di famiglia, si appartò con la figlia tredicenne del signor Gavino Congiù, ma proprio mentre il fiume carsico del desiderio stava affiorando in superficie, la tragedia spezzò l’incanto. Sua madre Viridiana, fotografa d’arte d’ideali anarchici, donna dal carattere forte e deciso ma al contempo dolce e amorevole nei confronti dei più deboli, durante una nuotata distensiva era stata azzannata mortalmente da un pescecane, pare attirato dal ciclo mestruale giunto in maniera improvvisa. Da quel 18 agosto, Olmo non si avvicinò più ad una donna a meno di mezzo metro.

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L’ospite inattesa si presentò qualificandosi come dott.ssa Mara Fabretti, docente di “Arte Pratica Amatoria” della premiata Università dell’Ecologia Mentale di Vetracchio e offrendo al fortunato prescelto le prime due lezioni, full-immertion, ad un prezzo stracciato, quattrocentoquarantaquattro euro spese comprensive di marca da bollo e prodotti da utilizzare durante le varie fasi di lezione. Olmo, che al primo impatto avrebbe voluto sciogliersi come neve al solleone, improvvisamente sentì una forza interiore che lo spingeva ad accettare quella strana ma invitante proposta di studio, forse attirato dal fatto che l’Ateneo in questione trattava ecologia della mente, firmò senza indugio alcuno le scartoffie burocratiche che l’avvenente dott.ssa Fabretti gli consegnò. Dopo i saluti di rito con tanto di baciamano e reciproco scambio di languidi sguardi, “l’insegnante” lasciò Olmo a macerarsi nel suo torrente lavico interiore. Bisognava aspettare il giorno del primo esame pratico a domicilio, in programma il primo lunedì di settembre. L’argomento era “La sfida del terzo millennio”, e l’oggetto sul quale si sarebbe svolta la lezione era una normale sedia22, meglio se robusta. Il lungo percorso scolastico – erano previsti quarantotto esami pratici prima di giungere alla completa rimozione della spazzatura mentale, con il conseguente raggiungimento dello stato di massima liberazione – prevedeva come ultima prova quella denominata “verticale indiana23”, praticamente impossibile da superare per una neo matricola. Con il trascorrere dei giorni e degli esami superati sempre più brillantemente, Olmo operò su di sé un profondo mutamento psico-fisico che lo rese praticamente irriconoscibile. Alleggerito, oltre che nel conto in banca anche nel carico di continue tensioni mentali, da uomo sciupato, modesto, severo e rabbiosamente 22 “L’insegnante” è a cavalcioni sulla spalliera della sedia con il busto piegato e i gomiti appoggiati alle

ginocchia. Lui la tiene per i fianchi modulando, il va e vieni per raggiungere il massimo dell’eccitazione. 23 “L’insegnante” è appoggiata sulle mani, le braccia sono tese. Lui è ai bordi del letto e le solleva il

bacino mentre lei appoggia le gambe sulle braccia “dell’allievo”. E’ una posizione che esige agilità, un po’ di forza e che non può durare più di qualche minuto.

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deciso ad evitare il mondo che lo aveva escluso, spezzò le catene della solitudine che lo avevano stordito colmandogli il cuore d’amarezza e aprì le braccia a tutto ciò che il futuro gli proponeva, dispensando sorrisi e gesti d’estremo altruismo, reazioni che solo qualche mese prima non gli avrebbero neppure sfiorato l’anticamera del cervello. Tutto il suo stile di vita cambiò radicalmente. Ora partecipava alla vita sociale della città presenziando a reading letterari, presentazioni di volumi, vernissage con cocktail in piedi, il tutto anche in trasferta e, importantissimo, senza l’uso di “chimica serenità”. Il passaggio da baco a farfalla gli trasmise una tale sicurezza che in pochi giorni lo portò ad una vertiginosa impennata positiva del suo livello d’autostima. Ora, l’universo femminile, lo considerava come l’ultimo ritrovato in materia di cosmesi: assolutamente da provare! Nel suo nido, ogni mattina vi si trovavano tracce di “piumaggio dai colori più disparati; castano, rosso tiziano, biondo cenere, nero corvino. Anche il mondo del lavoro, aveva lasciato la piega amara dei giorni tristi per fare posto ad un futuro lastricato di successi, non ultima la promozione al posto di vice capo redattore. La vecchia olivetti portatile finì in soffitta con la scorta di nastri bicolore per far posto ad un modernissimo pc portatile il quale, grazie ad un semplice programma applicativo, simulava perfettamente il clac clac clàcchiti clac delle vecchie underwood anni cinquanta. Il lapis, intanto, continuava la sua missione accorciandosi inesorabilmente. Le altre testate giornalistiche, dopo aver cercato di infangare l’onorabilità professionale di Olmo, accusandolo di “sciaccallaggio mediatico” programmato a tavolino con i famigliari dei “cari estinti”, gli proposero ponti d’oro per assicurarsi le sue prestazioni. Dopo una serie di rifiuti strategici, Olmo accettò l’allettante proposta di uno storico quotidiano nazionale della sua regione, il quale decise di affidargli la responsabilità delle pagine di cronaca locale nonché un contratto da prima penna. La crescita economico-finanziaria, spinse il 43


giornalista ad assumere Fatma, una collaboratrice domestica, d’origine albanese, a tempo pieno. Nel frattempo, il particolare corso universitario intrapreso da circa due anni, era giunto felicemente, anche grazie allo speciale feeling creatosi con la dotatissima docente di Arte pratica amatoria, all’ultimo e più impegnativo step. Un giorno, che il calendario segnalava “di Luna piena”, mentre Olmo stava inalando l’ennesimo pizzico di polvere di graffite, fu interrotto bruscamente da una telefonata che lo avvertì di raggiungere con immediatezza la sede del giornale causa lo spostamento d’orario di una riunione di redazione. Indispettito dall’improvvisa chiamata, Olmo ripose frettolosamente gli oggetti in cassaforte, ma nel farlo, inavvertitamente, lasciò cadere a terra il prezioso lapis. Con l’avvicinarsi della Santa Pasqua, Fatma, la florida colf di casa Cantoni, effettuò le annuali pulizie “di fino”, anche in previsione della visita del parroco in occasione della benedizione. All’arrivo del corpulento sacerdote, Fatma lo fece accomodare in salotto dopo avergli preparato la ciotola d’acqua come da richiesta. Nel corso del breve spostamento verso la camera da letto, l’omone in clargiman schiacciò letteralmente il lapis spezzandolo in più parti e finendo, a sua volta, rovinosamente a gambe all’aria. Smoccolando a denti stretti, il pretone dal ventre oramai simile ad un cimitero di polli fritti, lasciò l’abitazione tra lo sconforto di Fatma la quale, per deformazione professionale, sfogò la sua tensione ripulendo il malfatto. Terminata l’estenuante riunione al giornale, Olmo fece ritorno a casa, felice per il risultato ottenuto. Appena varcò l’uscio, senti come un senso di vuoto, una mancanza di protezione che non provava dal giorno della scomparsa di sua madre. A velocità accelerata come in una slapstick comedy, Olmo si diresse verso la cassaforte e aprendola scoprì l’assenza dell’amato lapis. La sua prima reazione fu drammaticamente esplosiva; prese a respirare affannosamente, ingoiò compresse di vario colore tracannando un calice di vino rosso, poi cominciò a buttate all’aria ogni oggetto d’arredamento, 44


imprecando in turcomanno con toni vicini alla saturazione. Il fracasso infernale, richiamò l’attenzione di Fatma, la quale visibilmente intimorita dal comportamento demoniaco del datore di lavoro, riuscì a fatica e con voce flebile a chiedergli il perché di tale reazione. Trentatrè secondi fu il tempo intercorso tra lo sfogo di Olmo e la conseguente confessione dell’abile collaboratrice domestica. Preso dallo sconforto, nel marasma più completo, Olmo, nell’impossibilità di ricercare i pezzi del lapis sbriciolati dal “balenottero nero” e finiti ad alimentare il barbecue, uscì dalla casa con la certa convinzione di non farvi più ritorno fino a quando “tutto non fosse stato sistemato”. Salì frettolosamente in auto e, dopo aver macinato chilometri su chilometri di strada silenziosa che si srotolava nella notte più oscura, alle prime luci dell’alba, giunse a Roma, quartiere Testaccio, all’ingresso del cimitero “dei poeti”. Un paio d’ore di sonno all’ombra della Piramide Cestia, in attesa si facesse l’orario d’apertura, poi via a testa bassa lungo la labirintica rete di vialetti: John Keats, Pearcy Shelley, Gregory Corso, Carlo Emilio Gadda, Bruno Pontecorvo, sono solo alcune delle pietre tombali che Olmo incontrò con lo sguardo prima di giungere a destinazione. Le lettere in ottone incollate sulla lapide di marmo consunto dal tempo recavano la seguente scritta: VIRIDIANA PASINI ∂ 1940 - Ω 1978 Cineres ed era posizionata accanto alla tomba di un certo William Wetmore Story, uno scultore statunitense che assieme alla moglie riposa le sue spoglie mortali protetto da una scultura di marmo e pietra che lui stesso realizzò e che Olmo da sempre considerava di rara bellezza. Raffigura un angelo disteso sul sepolcro, gemente. Viene chiamato “Angelo del dolore” e il suo realismo, così abbandonato alla disperazione, distolse per alcuni interminabili istanti Olmo dalla sua missione primaria.

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Chinatosi di fronte alla lapide che conserva le ceneri di sua madre, Olmo premette con forza i simboli dell’alfa e dell’omega contemporaneamente così da far scattare il meccanismo d’apertura della pietra tombale la quale si spostò lateralmente lasciando intravedere al suo interno una scatola con su incise le generalità del caro estinto. Olmo prese fra le mani la scatola maneggiandola con cura ed estrasse una matita con il nome di sua madre stampato a lettere d’oro. Quella scatola non era altro che una “fornitura” vitalizia di matite ricavate dalle ceneri dell’amata madre. Dal carbone ottenuto dalla sua cremazione, infatti, furono ricavati centottanta lapis custoditi nel contenitore, impossibile da aprire e dalla quale se ne poteva estrarre uno solo per volta. Dopo aver riportato tutto allo status quo, lanciato un saluto a sua madre, Amelia Rosselli, Luce D’Eramo, Dario Bellezza e aver alzato il pugno sinistro al cielo in direzione della lapide di Gramsci, Olmo varcò l’uscita del camposanto lasciandosi, in poco tempo, la città eterna alle spalle. Ora il lapis nuovo, riposa come quelli che l’hanno preceduto, all’interno della cassaforte, nell'attesa d’essere utilizzato per scrivere i coccodrilli del domani. Preti permettendo! Olmo adesso si sta dedicando, “anima e corpo”, alla stesura della tesi. “Ma voi, a questo punto, vi domanderete: il narratore in questa storia chi era? Sono io, Duilio Cantoni, il padre di Olmo, sì proprio quello sfigato colpito dal fulmine. Uso il passato non solamente perché sono morto ma perché ora sono un’altra cosa, forse più utile. Sono stato trasformato in una pila “biologica” che sfrutta i miei succhi gastrici, fisicamente mi presento come un pacchetto plastificato di batterie ricaricabili e ho come mansione quella di produrre energia per la lampada votiva della tomba di mia moglie, un’espressione tangibile di come la vita continui oltre la morte. Destinato, fino al continuo esaurimento, ad illuminare i giorni della mia amata. Credetemi, è un’esperienza elettrizzante.”

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CAPELLI D’ANGELO

Cinque quarantenni disoccupati, per via della chiusura della cooperativa di servizi nella quale erano soci-lavoratori, con le finanze ridotte al lumicino, durante il loro vagabondare quotidiano lungo le colline che formano il paesaggio della loro cittadina, individuarono, all’interno di una chiesa sconsacrata e ridotta a rudere, un enorme campana che, venduta al mercato nero, avrebbe potuto procurare una discreta somma di danaro. Emilio, la mente del gruppo, elaborò di lì a pochi minuti, il piano d’azione. Primo passo; chiedere a prestito gratuito l’attrezzatura da cantiere edile utile allo scopo al Comm. Baravelli, che il giorno seguente sarebbe partito in ferie con destinazione Seattle. Dopo essere riusciti nell’impresa di convincere il rude imprenditore, solleticandone le corde del sentimento con una storia di lavoro nero di stampo “deamicisiano24”, l’armata “brancaleone25” del furto, proseguì il tragitto verso l’obiettivo puntando al secondo passo: fare il pieno al camion. I cinque, raggiunta la somma di quattro euro e novanta centesimi, optarono per la soluzione “succhia e sputa”. Tranquilli, non comporta nessuna implicazione legata la sesso orale! Era molto più semplice: ci si doveva appostare, di prima mattina, nel parcheggio non custodito in prossimità della stazione ferroviaria, poi si doveva attendere l’arrivo del mezzo più adatto, quindi una volta che ci si era sincerati della partenza del proprietario, il prescelto, munito di tanica e gomma per

24 agg. - 1 Relativo all'opera di Edmondo De Amicis. 2 Che ha toni patetici e moralistici. 25 agg. riferito a “L'Armata Brancaleone”, film commedia, italiano (1965). Regia di Mario Monicelli.

Interpreti: Vittorio Gassman, Catherine Spaak, Enrico Maria Salerno, Gian Maria Volonté.

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l’imbottigliamento del vino, doveva procedere al travaso di carburante da un serbatoio all’altro. Toccò a Gilberto, detto Fiasconaro26 per le eccezionali doti atletiche che lo accomunavano al grande podista, il quale riuscì nell’impresa senza “sputarne” neppure una goccia. Mezz’ora di cazzeggio al dopolavoro ferroviario, tra un caffé lungo e la cronaca sportiva locale, e la tanica era colma. Così partirono per affrontare il “terzo passo”, quello più pericoloso. All’imbrunire, la squadra partì in direzione Nuvoleto27 dove avrebbero recuperato Germana, nome in codice che Emilio, in un eccesso di fantasia, diede alla campana. A circa metà strada del buio percorso collinare, il mezzo trovò, ad ostacolare il cammino, un istrice adulto, immobile sul suolo stradale. Era ferito e fortemente impaurito e lo dimostrò gonfiandosi come un mantice e scagliando aculei verso la possibile minaccia. A scendere dal camion fu Otello, pur tutti Ace Ventura28, visto lo straordinario rapporto che riusciva ad instaurare con qualsiasi forma animale, il quale, dopo aver valutato le condizioni fisiche dell’istrice, averlo spostato, con l’aiuto di altri due “volontari”, su di una piazzola ai bordi della strada, averlo poi coperto con un plaid trovato nel portabagagli del mezzo di trasporto e, infine, dopo aver raggiunto il primo posto telefonico pubblico in località Linaro, a pochi chilometri dall’obiettivo, chiamò la guardia medica veterinaria notturna segnalando il caso come urgentissimo. Con il pianto nel cuore, Otello e gli altri componenti la banda, anch’essi peraltro colpiti dall’accaduto, con le tasche completamente prosciugate, ripresero il viaggio con destinazione Nuvoleto.

26 Fiasconàro, Marcèllo - (Città del Capo, Repubblica Sudafricana 1949-) Atleta italiano. Nel 1970 passò

dal rugby all'atletica e vinse l'anno successivo la medaglia d'argento nei 400 m piani agli europei di Helsinki, ove eguagliò il suo primato. Nel 1973 a Milano batté il primato mondiale degli 800 m. 27 Paesino fantasma raggiungibile attraverso uno dei “sentieri del Tasso”, che circondano il borgo di Linaro. Il sentiero per Nuvoleto attraversa la valle dell’eco, da cui si può ammirare la ripa dei falchi. 28 Il popolare “acchiappanimali” reso celebre dall’interpretazione cinematografica di Jim Carrey.

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Giunti finalmente al capolinea, i cinque sbandati trovarono l’ennesima sorpresa ad attenderli proprio sotto la torre campanaria. Un vecchio camper, infatti, era parcheggiato nel bel mezzo dello spiazzo destinato al camion. Emilio, il capo, visto le facce tese e sconsolate dei quattro compari, prese il coraggio a quattro mani e, camminando alla chetichella come per non disturbare, si avvicinò alla porta del camper, pensando lungo il breve tragitto alla scusa plausibile da accampare. Sull’uscio, dopo un attimo d’esitazione trascorso a sbirciare dallo spioncino e non prima d’aver acceso un potente faro che, come un bengala, illuminava la zona a giorno, si materializzò una donna che scese i tre gradini portandosi così al livello stradale per poi chiedere lumi all’esterrefatto interlocutore. Emilio non riusciva a credere ai suoi occhi, quel faro accecante la rendeva un “ombra chiara”; circa trent’anni, lunghi capelli biondi perfettamente lisci, labbra carnose, nasino all’insù sul qual poggiava un occhiale griffato dalla montatura chiara, occhi da cerbiatta e sguardo profondo, aveva denti immacolati come l’avorio e un sorriso taciturno ma felice, come se lo tenesse riposto nel cassetto per tirarlo fuori solo in determinati momenti; vestiva con un abito da sera nero, elegante ma senza ostentazione e il suo incedere, quasi silente, non aveva nulla di umano, pareva sospesa in aria, come uno spirito angelico e la sua voce aveva un suono melodioso. Ripresosi parzialmente dalla visione celestiale, Emilio farfugliò frasi sconnesse in una lingua più vicina al sanscrito29 che all’italiano, riuscendo a comunicare che su incarico della protezione civile, in previsione di una forte scossa tellurica, lui e gli altri componenti la squadra, erano stati chiamati ad effettuare sopralluoghi in zone considerate a rischio crollo e, se ne fosse stato il caso, ad organizzare evacuazioni. La donna presentandosi disse di chiamarsi Germana e che il motivo per cui si trovava lì, era legato alle stelle. Infatti, essendo la notte di San Lorenzo, vedere una

29 sm. Antica lingua indoeuropea del gruppo indoiranico, molto simile all'avestico.

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stella cadente e, al contempo, esprimere un desiderio, avrebbe potuto realmente cambiarle la vita. Di lì a poco, si aprì come una melagrana matura raccontando d’essere una maestra d’asilo che col misero stipendio mensile era costretta a lavorare come operatrice in una hot-line. Viveva in quel camper per risparmiare danaro che sarebbe servito a sua sorella Dorina per coprire parte delle spese di soggiorno a Huston dove Enrico, il figlio quindicenne, dopo poche settimane avrebbe subito un delicato intervento chirurgico. La storia, contribuì a liquefare i cuori dei ragazzi e fra groppi in gola e occhi lucidi, anche loro, per voce del capo, vuotarono il sacco. Con voto unanime, i cinque decisero di portare a termine “l’operazione Germana” destinando poi il ricavato alla catena di solidarietà in favore di Enrico. Lasciata Germana, quella in carne e ossa, accanto al camion con funzioni di vedetta, i cinque, armati di corde, carrucole e quant’altro, si avventurarono sulla sconnessa scala fino a raggiungere l’altra Germana. Anche lei era un sogno: bella e imponente, pareva la campana dello zar in mostra al Cremino, l’intero gruppo faticava ad abbracciarla. Era uno splendido esemplare a battaglio cadente e sul bordo recava incisi fregi e decori a tema ed inoltre erano presenti iscrizioni in italiano riguardanti l’anno di fusione, 1586, con oro, argento e rame “spontaneamente” offerti dai contadini del luogo, il nome del fonditore, Cosimo Balestra da Linaro. Pesava 8.000 Kg, aveva un’altezza di 2,5 mt. Naturalmente, con l’impiego di carrucole e di un fusto pieno di sabbia a far da contrappeso, l’impresa si prospettava alquanto ardua. Anche se, per pura ipotesi, fossero riusciti con sforzi fisici disumani a gettarla dalla torre campanaria, con i mezzi a loro a disposizione, non sarebbero riusciti a spostarla neppure di un metro. Sconsolati, diedero un’ultima carezza d’addio alla campana e tornarono coi piedi per terra. Qui, li attendeva Germana, che dopo aver ascoltato il racconto dettagliato dalla voce di Emilio, si fermò ad elaborare una reminescenza scolastica. Le parole Linaro e 1586, le avevano fatto 50


ricordare una storia che il parroco dei tempi del catechismo, le raccontò parlando di Sisto V30, “er Papa tosto”. In quell’anno, appunto, nel castello di Linaro, avvenne un terribile fatto di sangue, un soldato di ventura cesenate tale Baldazzo Baldazzi, col suo codazzo di masnadieri al seguito, scalò le mura della rocca sorprendendo il Conte Orazio Aguselli e la sua famiglia e, in segno di vendetta per l’uccisione del padre per mano del nobile, costrinse il signorotto ad assistere all’uccisione del figlioletto trapassandolo da parte a parte, per poi dargli identica sorte. Papa Sisto V, li perseguitò fino a quando, dopo averli catturati, li giustiziò nello stesso modo e nel medesimo luogo. Spaventati più dalle gesta del Papa che da quelle di Baldazzo Baldazzi, fra una chiacchiera e l’altra, il sole faceva capolino all’orizzonte e stanchezza e sconforto ebbero la meglio. Emilio e Germana si scambiarono recapiti e sguardi interminabili, poi un lungo e tenero bacio avrebbe sancito la loro momentanea separazione. Già, perché nel preciso istante in cui le loro labbra si unirono in nome dell’amore, una sottile striscia di luce attraversò il cielo per poi disegnare un percorso fiammeggiante azzurro, prima di sparire oltre la boscaglia. La suggestiva scena, naturalmente, fu notata solo dai quattro compari che, insonnoliti, aspettavano che il capo avesse finito la sua personale missione. Così, si fiondarono dai due piccioncini e gli raccontarono l’accaduto. D’istinto, Germana, chiese ad Emilio e ai suoi ragazzi di accompagnarla a Linaro, qui, nuovamente, il suo istinto la spinse a scegliere tra i diversi stradelli che componevano la fitta rete dei sentieri del Tasso, quello delle lavandaie che scende giù in basso fino al fiume. Più che la stanchezza poté 30 (Grottammare 1520-Roma 1590) Felice Peretti di nome, ebbe origini umili. Predicatore francescano divenne cardinale nel 1570, pontefice nel 1585, succedendo a Gregorio XIII. Fu sostenitore della Controriforma e condusse una politica energica contro l'ingerenza dei nobili nella Chiesa. Intraprese un'azione vigorosa tendente a rinforzare le finanze dello Stato della Chiesa, compì tentativi di bonifica nelle paludi pontine per incrementare lo sviluppo agricolo, represse il brigantaggio, fece costruire acquedotti e palazzi grandiosi dando inizio a un vasto programma di opere pubbliche a Roma (cupola di San Pietro, palazzo del Laterano, palazzi vaticani, Biblioteca Apostolica).

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l’amor, e dopo una sgambata di qualche chilometro immersi nella flora appenninica, giunsero nei pressi di un torrente dove a pochi metri, un pennacchio di fumo proveniva da un piccolo cratere contenente un grosso masso, il probabile responsabile della scia luminosa. Ad occhio e croce avrà pesato quindici o venti chilogrammi e sembrava di materiale ferroso, insomma il classico meteorite. Quel che colpì il gruppo in esplorazione, fu invece vedere accanto al ruscello una strana sostanza composta da fili di colore azzurro31 i quali, appena Germana presa da una voglia d’irresponsabile curiosità, s’inchinò per toccarli svanirono nel nulla. Al contempo, il cratere formatosi dopo la caduta del bolide, colpito dai raggi del sole che a fatica filtravano la fitta vegetazione, invaso dall’acqua del vicino torrente, sprigionò un luccichio abbagliante. Otello, vantandosi d’aver avuto uno zio linarese che sin da piccolo gli raccontava avventurose storie londoniane32, utilizzando la grata protettiva del radiatore improvvisò un setaccio alla maniera di Mc Gyver33 e si gettò nello specchio d’acqua dove proveniva il bagliore. Un urlo liberatorio seguito da un balzo felino, squarciarono il silenzio della natura: una pepita d’oro grossa come una noce era rimasta intrappolata sulla grata a dimostrazione del fatto che, ciò di cui molti linaresi erano convinti, che cioè da qualche parte sul loro territorio ci forse un giacimento d’oro, non era frutto di leggenda popolare. Germana, la campana, prese a suonare calda e gradevole, cento rintocchi mentre un falco si librava in volo dalla ripa.

31 Fenomeno Fortiano (Charles Fort 1874-1932). Si tratterebbe di una strana sostanza chiamata “capelli

d’angelo” formata da fili di un non ben definito materiale che si dissolvono al contatto tattile umano. 32 agg. da London, Jack - (San Francisco 1876 - Glen Ellen, California 1916) Pseudonimo dello scrittore

statunitense John Griffith London. 33 Protagonista di una celebre serie televisiva statunitense anni ’80, particolarmente dotato di ingegno e

manualità.

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IL PEDALE D’ORO

Luglio 1943, in un piccolo paese collinare della Romagna, il bagliore del mezzogiorno illumina la campagna che profuma di mosto. La Pananza, una casa colonica dei primi del ‘900 che prende il nome dal podere all'interno della quale è situata, di proprietà del Segretario Politico locale cav. Silvano Barbiglioni, uomo viscido, dal grosso pancione che se ne stava per buona parte della giornata al bar a giocare a carte, perché per sbrigare le pratiche del Comune aveva un orario prestabilito (10.00 – 12.00), ospita i Bertocchi, una famiglia di mezzadri allargata, vecchio stampo, composta da più nuclei familiari tipica di quegli anni. La Pananza possiede un ottima cantina e il suo cantiniere, il signor Giovanni (Zvanon) è specializzato nel mescere vino per ogni occasione. Ai funerali degli amici non offre fiori ma porta vino da mescere ai partecipanti al lutto. I Capifamiglia, due fratelli con una sana passione per il cibo e la politica (uno repubblicano mazziniano, l’altro trotskistaleninista) si confrontano spesso e volentieri in interminabili discussioni politiche per tornare poi uniti nella lotta contro il regime. Nella Pananza, si condividono pezzi delle loro storie, lavorative e personali spesso intrecciate che hanno dato vita a diverse esperienze professionali. Queste persone, oltre ad essere denutrite, sono colpite da una miseria nera a causa degli eventi tanto che il nonno di casa fu soprannominato Ridolini per via della sua eccessiva magrezza. Anche d’inverno portava gli zoccoli e si difendeva dal freddo con una grossa maglia di lana fatta in casa che portava sulla pelle; non indossava la camicia, e i 53


pantaloni e la giubba erano quasi una ininterrotta successione di rattoppi. Giuseppe (Beppe) Bertocchi, profondo conoscitore delle coltivazioni e degli allevamenti si batte da anni per l'utilizzo attrezzature e tecniche più a misura d’uomo e per la trasformazione dei terreni coltivati a frutta in enormi serre. Ha idee rivoluzionarie e internazionaliste che mirano alla costruzione di cellule leniniste come sezioni nazionali di un'internazionale centralista-democratica il cui scopo è di condurre la classe lavoratrice alla vittoria attraverso rivoluzioni socialiste in tutto il mondo, è il maggiore dei fratelli. Per lui, il proletariato, impadronendosi del potere politico e distruggendo il capitalismo in quanto sistema mondiale, può porre le basi per eliminare lo sfruttamento. E' stato, inoltre un’instancabile sciupafemmine! Giovanni (Zvanon) Bertocchi, è il minore dei fratelli, mazziniano convinto, dopo il quarto bicchiere comincia ad enunciare la celebre introduzione ai Doveri dell'Uomo "Perché vi parlo io dei vostri doveri prima di parlarvi dei vostri diritti?". "Perché in una società dove tutti, volontariamente o involontariamente, v'opprimono; dove l'esercizio di tutti i diritti che appartengono all'uomo vi è costantemente rapito; dove tutte le infelicità sono per voi, e ciò che si chiama felicità è per gli uomini delle altre classi, vi parlo io di sacrificio e non di conquista, di virtù, di miglioramento morale, d'educazione e non di benessere materiale …". E così prosegue: "Il linguaggio invocato da essi (operai n.d.r.) s'è tenuto da cinquant'anni in poi senza aver fruttato un minimo che di miglioramento materiale alla condizione degli operai". Secondo Zvanon e il suo celebre maestro la Rivoluzione francese e la dichiarazione dei Diritti dell'uomo non migliorano le condizioni del popolo, anzi le peggiorano con l'aumento del costo

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della vita, il deprezzamento dei valori, il lavoro precario, la disoccupazione aumentata, così come le migrazioni ecc. Dopo aver solcato i sette mari come mozzo/addetto alla cambusa è ora il responsabile della cantina sociale del paese, accogliente e ospitale, vive nella grande casa colonica sede della cantina più invidiata della provincia e spesso, meta di notevoli serate enogastronomiche clandestine. E' sicuramente un intenditore di vino. Un boato a notte fonda, sveglia l’intera famiglia e tutto il vicinato. Nel podere di Gaibera, un vecchio ciclista del posto considerato una celebrità perché nel primo Giro d’Italia del 1910, era il primo gregario del mitico Luigi Ganna vincitore anche grazie al suo apporto, il fuoco dà vita a un'enorme piuma grigiobiancastra a forma di fungo. È uno spettacolo agghiacciante, come di un vulcano in eruzione. Piron e’ Séndic, vecchio saggio, patriarca della propria famiglia e dell'intera zona, tanto da esserne nominato sindaco, dopo un accurato giro di perlustrazione, comunica ufficialmente alla folla di curiosi che si tratta di un biplano da ricognizione francese e che del pilota non v’è rimasto traccia. Segue il “rompete le righe” con il conseguente ritorno al focolare domestico. Il mattino seguente, Don Cimbolano detto e prit ros, vecchio saggio, patriarca della propria famiglia e dell'intera zona, tanto da esserne nominato sindaco, di buon ora vede entrare in sagrestia Fafìn, un vecchio campanaro sordo dai capelli bianchi e l’andatura barcollante come quella di un bambino nel girello, tutto trafelato che lo invita a seguirlo sul sagrato della chiesa. Il paesaggio è viscido, sfumato, il cielo coperto di nubi. L’aria ha un tepore gradevole dovuto alla troppa umidità. Un paracadute penzola attaccato al crocefisso del campanile. I due entrano in fretta nella torre campanaria, salgono le scale fino al piano della Carlona e della Federica, due campane consacrate da Monsignor Illustrissimo Alfiero Gambardella nel giorno, mese ed anno in cui Marx ed Engels pubblicarono il “Manifesto del Partito Comunista” (18 marzo 1848). Sono curate amorevolmente dal campanaro perché domani annunceranno gaudenti la vittoria 55


nella rivoluzione proletaria. Su entrambe, il parroco ha fatto incidere il celebre motto di Lenin “tutto il potere ai soviet!”. Un uomo si sveglia all’improvviso. E’ ferito e sanguinante alla spalla e da l’idea di non sapere dove si trova. Dall’alto, il panorama offre gruppi di cascinali smorti e privi di vita, affondati nel paesaggio collinare. L’uomo si costringe ad alzarsi, appoggiandosi al corrimano per il dolore. E’ il pilota, dall’accento tipico francese, che la notte scorsa è precipitato con il suo bimotore nel podere di Gaibera. La sua missione era quella di portare un dispaccio importantissimo alla base Cesena, se il dispaccio non perviene entro il 15 luglio 1943 ai partigiani, non sbandatisi, della base di Val di Chiara, (Pieve di Rivoschio) diversi civili tra cui il parroco rischiano l’arresto o la deportazione in campo di concentramento. Mentre Don Cimbolano e Fafìn lo squadrano da capo a piedi, lui controlla le tasche della giacca, trova una bottiglietta di cidro bretone e dopo averne sorseggiato un paio di boccate, per la prima volta sembra rendersi conto di cosa sia successo. E prìt ros, coadiuvato dal fedele campanaro, gli cura le ferite, gli procura un abito civile e lo accompagna alla Pananza da Zvanon che lo nasconderà accuratamente nella sua cantina in attesa di escogitare un piano per fargli raggiungere la meta. Zvanon e Pierre, Pirocca per i nuovi amici, sorseggiando Sangiovese di varie gradazioni, cominciano a uscire al naturale cantando a squarciagola canzoni del regime liberamente adattate. Don Cimbolano, arrivato in paese in un periodo in cui la chiesa era disertata e la sfiducia verso il precedente sacerdote era sistematica, ha, come spesso succede, la grande intuizione: iscrivere Pirocca alla XXª Gara ciclistica amatoriale “IL PEDALE ROMAGNOLO”. Voluta fortemente dal Conte Aristide Maria Draghi per festeggiare il genetliaco dell’ascesa fascista al potere, per il popolino è la “Cursa di pol”. Il percorso, decisamente per scalatori, è lungo una trentina di chilometri con il seguente tragitto: Monteleone - Montecodruzzo Gualdo - Borello - Roversano - Diolaguardia - Ardiano Monteleone. Tra le prime colline di Cesena, passando da un cocuzzolo 56


all'altro. In un continuo alternarsi di strade poco frequentate, sinuose e sterrate, si snoda il tracciato impegnativo sia in salita come in discesa, circondato da un ambiente naturale ricco di piante spontanee. Quest’anno la data fissata dal comitato organizzatore è il 24 luglio con partenza alle 17.00. Sulla porta interna alla torre campanaria, una scritta a lettere cubitali campeggia minacciosamente: Cidro e fiaschetto, ciclista perfetto! Tazio Magnozzi detto Gable, naturalmente non per la somiglianza con il grande attore ma per il fatto che per la sua generazione incarnava il personaggio ideale di uomo, tutto d'un pezzo, temerario e virile. Appartenente da tempo immemorabile alla milizia, ex-operaio dell’Arrigoni, celebre l’aneddoto dove il Gable, stanco degli estenuanti turni alla catena dello scatolificio finse un infortunio al piede per starsene in osteria ad oziare con gli amici finché il caporeparto Romolo Gridelli, detto Tempesta, lo costrinse a suon di nerbate a correre sul posto di lavoro, ora da buon ruffiano divenuto fattore della Pananza, come molti del suo strato sociale lavorano tutta la settimana e si presentano solo quando sono chiamati, nel passare accanto alla cantina della Pananza, sente provenire dall’interno del cantinone centrale una canzone a due voci in una lingua sconosciuta, una via di mezzo tra il francese e il romagnolo. La sua estrema perspicacia lo porta a capire al volo che qualcosa bolle in pentola, senza però riuscire ad averne la certezza. Così il Gable, atletico come imponeva “Lui”, si iscrive con due fedeli scagnozzi, i fratelli Carlin e Gisto Bumbérda, famosi picchiatori di una squadraccia mossi da odio politico, alla gara per controllarne da vicino il regolare svolgimento e scoprire eventuali trame. Alla partenza e lungo tutto il tragitto, uno spezzettarsi in mille diversi episodi, situazioni tragiche e terribili, un giovane compagno/gregario di Pierrè, ad una staccata su strada ghiaiosa sfreccia a velocità palesemente insensata per l'aderenza disponibile e purtroppo non riesce a fare la curva finendo diritto nel dirupo; comiche e assurde, il pacchetto “Pedale d’oro” in dotazione dei compagni iscritti alla gara era così 57


composto: una borraccia di sangiovese della cantina Pananza, vasetto miele, formaggi, salumi, banane, una fetta di torta di mele, una bottiglietta contenente caffé corretto alla grappa; ridicole e folli, Carlin e Gisto che aprono due ombrelli a favore di vento per favorire le salite del Gable; ad alcuni partecipanti viene sequestrata da un contadino la bicicletta mentre sono in cima ad un albero a razziare frutta; E prit ros, addestrando diligentemente il personale addetto al rifornimento di metà percorso, li convince a distribuire acqua salata agli iscritti al PNF, segnano l’andamento della corsa. L’obbiettivo del gruppo partigiano, una volta giunti a Borello, è quello di far deviare il cugino d’oltralpe per San Carlo in direzione Cesena, lasciando bici e numero di gara al compagno Aldo Budelacci detto Gambalonga perché si narra che saltasse in groppa alla sua mula Iolanda, facendo poi delle evoluzioni sul bastio, senza alcun sforzo. Il piano viene preparato a puntino e finalmente arriva il giorno della gara. In paese , dalla forma di melagrana spaccata; con vista mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi era intenerito dai raggi del caldo sole e dai profumi della natura che inebriavano l’aria. Dall'antica torre di guardia che svetta su Roversano si vede a strapiombo il fiume Savio, si respira un’atmosfera intima, calda, quasi da evento storico. Alla partenza, presenziata dai notabili, da uno sparuto capannello di giovani, due Balilla (ragazzi dagli 8 ai 14 anni), due Piccole italiane (ragazze dagli 8 ai 14), un Avanguardista (ragazzi dagli 14 ai 18), due Giovani Italiane (ragazze dai 14 ai 18) e un Figlio della Lupa scalzo e con il moccio al naso (dai 6 agli 8 anni) e da una banda di “sbandati” che suona a ripetizione Rosamunda perché è l’unica che conoscono, tutti rigorosamente in divisa, provenienti dalla vicina Roncofreddo. Dopo la punzonatura, la corsa ha inizio con il fatidico sparo dello starter esploso verso il cielo. Un piccione viaggiatore, che trasportava un dispaccio urgente recante il seguente testo: 58


SENATO DEL REGNO - I nomi dei testimoni della aeronave di Venezia sono secondo Gordiani: Comandini - Calbucci - Vitali - MVSN Incaricare Andreucci della ricognizione. Udienza riservata col Duce ore 15.30 del 30 agosto. SENATO DEL REGNO – Varallo - Aosta-Genova Segreteria personale - 253270, cade esanime a terra. Tutto si svolge nella più completa irregolarità. All’altezza di Borello, Pirocca, come da piano, viene spinto da un compagno in un fossato dove Gambalonga lesto lo sostituisce nel proseguo della gara. Il pilota francese, con al collo un cartello recante la scritta “SORDOMUTTO”, riesce ad oltrepassare l’ultimo ostacolo superando, tra una pioggia di sputi e insulti, la mescita del paesino. Il dispaccio giunge finalmente nelle mani del Comandante Licio detto Fantèsma il quale fa tesoro del contenuto. Di li a poco, la radio annuncia le dimissioni di Mussolini e nel contempo, all’arco d’accesso al borgo medievale di Monteleone dove è situato l’arrivo della Cursa di pol, Don Cimbolano taglia trionfalmente il traguardo in solitaria. Il Gable e i suoi camerati Carlin e Gisto Bumbèrda, accusano un notevole ritardo dovuto ad un’uscita di strada e, soprattutto, alla conseguente caduta in una busa de stabi..." (la buca del letame, ovvero letamaio). Alla Pananza, dopo che il cav. Barbiglioni apprende la notizia delle dimissioni del Duce parte per un destino incerto, quasi alla cieca, con destinazione Arborea, c’è chi balla fino allo sfinimento, chi mangia “a quattro palmenti” (Beppe) e chi, come Zvanon, beve direttamente da una gomma inserita nel tino maggiore. Don Cimbolano e Fafìn, rispettivamente nei ruoli di campanaro e calciatore, da in cima al campanile intonano un concerto suonando la Carlona e Federica col sistema bolognese.

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DOPO LA FINE "Operai! Contadini! Soldati! VOLANTINO DEI GRUPPI DI AZIONE PATRIOTTICA, CESENA, PERIODO BADOGLIANO Il governo di Mussolini, colla sua banda d'assassini, che da vent'anni opprimeva e saccheggiava l'Italia, è caduto, schiacciato dal peso enorme dei suoi delitti contro il popolo e dai suoi tradimenti verso il paese. Le masse, sollevate dall'incubo, hanno sanzionato questa caduta in grandi manifestazioni da un capo all'altro della penisola. Si è compiuto così il primo passo verso la liberazione dalla tirannia fascista, ma solo il primo passo poiché il regime fascista non era soltanto cattivo nei suoi uomini rappresentativi ma lo è soprattutto nelle sue opere, nelle sue istituzioni e nella sua politica; sono queste opere, queste istituzioni, questa politica che bisogna distruggere dalle fondamenta. La guerra continua'. E a questo delitto supremo del fascismo che bisogna porre immediatamente fine. Il nostro suolo è calpestato ancora dalle orde germaniche. Via i tedeschi dall'Italia! Pace immediata colle Nazioni Unite. Operai! Contadini! Esigiamo la più severa ed immediata punizione di tutti i colpevoli di tanti delitti. Esigiamo la liberazione immediata delle vittime politiche. Libertà di stampa, di riunione, di organizzazione, unico mezzo attraverso il quale il popolo può esprimere la sua volontà. Esigiamo lo scioglimento della milizia, colpevole di tanti soprusi. Non permettiamo che la birraglia armata si celi sotto le stellette.

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Operai! Costruiamo le commissioni di fabbrica. Impossessiamoci delle nostre sedi sindacali. Esigiamo il licenziamento degli squadristi e delle spie fasciste".

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8 TARZEN

Era un sogno. La prima volta che l’ho vista, stava uscendo dalle acque dell’adriatico con addosso un due pezzi mozzafiato color madreperla. Una via di mezzo fra Silvie Gerard e Jessica Thompson. Era ospite della sorella allo stabilimento balneare che frequentavo da anni. Un torneo a calciobalilla per conoscerci, una caccia al tesoro notturna per approfondire, poi la mia vita sarebbe cambiata per sempre. La prima volta l’abbiamo fatto nella cabina n. 80 durante la pausa di una partita. Sesso nascosto con costume abbassato, ancorati al lavandino per circa cinque minuti, oltre poteva destare sospetti. Camera n. 21 dell’Embassy Hotel. Sua sorella Grimilde è fuori con le amiche per un torneo di canasta, resterà fuori tutta notte. Lei mi accoglie indossando solo calze autoreggenti azzurro cielo e due segnali mi dicono che il suo grado di eccitazione è molto alto: la pelle del suo petto visibilmente arrossata e i seni turgidi. Primo round. Sono sicuro di me stesso, nei preliminari vado forte. La voglia mi spingerebbe a strappargli le calze a morsi, ma è meglio partire soft: con entrambe le mani arrotolo i bordi lungo le cosce, una calza per volta tenendo sempre le dita a contatto con la gamba, e il mix pelle e naylon la fa’ fremere di puro piacere. Scendo più in basso e approfitto per biaciarle entrambi i lati del ventre, inguine e interno cosce. Genitali a parte, i capezzoli sono il punto che la mandano più in estasi. Per farla rabbrividire di

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piacere, muovo la punta dell’indice dalla base del capezzolo verso l’esterno dell’aureola, quindi torno su, alternando sfioramenti a pressioni più decise, anche con la punta dell’unghia, poi inizio a mordicchiare. Lei, dolcemente, comincia a praticarmi una fellatio34 da sogno. Il suo seno raggiunge a fatica la seconda misura ma, sdraiata supina, con le ginocchia piegate e il bacino sollevato fino a formare una linea retta con la schiena infilandogli due cuscini sotto i glutei poi messa a cavalcioni su di me, china in avanti, con le mani appoggiate al muro, da quella posizione, grazie alla forza di gravità, osservo beatamente una più sussultante terza misura! L’obiettivo è puntare sul Tarzen35 la invito quindi a sdraiarsi sulla schiena, m’inginocchio tra le sue gambe, le afferro i fianchi con le mani e inizio a massaggiarglielo dal basso verso l’alto. Quando l’orgasmo si avvicina, la sua schiena s’inarca. E’ il segnale: mi sintonizzo sui suoi movimenti senza accelerare mantenendo i suoi ritmi. Dopo il primo orgasmo, rotolo dal letto in cucina e verso un bicchiere di prosecco per entrambi. L’alcool aumenta la trasmissione dei segnali d’eccitazione tra cervello e pene. Un bicchiere solo, però, troppo deprime il sistema nervoso e ostacola l’erezione. Secondo Round. Baciandola, uso soprattutto la punta della lingua per stuzzicare la sua, sfioro il labbro inferiore, poi faccio guizzare la

fellatio corre il 50% di rischi in meno di sviluppare la preeclamsia, una malattia che durante la gravidanza può essere fatale alla madre.

34 Secondo uno studio olandese, la donna che pratica spesso la

35 La fascia che, secondo gli antichi testi orientali, racchiude l’energia vitale femminile che si trova 8

centimetri sotto l’ombelico.

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mia un po’ più a fondo, un po’ come se cercassi di estrarre un’ostrica. Aspiro e mordicchio dolcemente le grandi labbra, poi passo a quelle interne, usando più la punta della lingua. Per aprire lo scrigno, faccio guizzare la lingua sui lati, poi prendo il suo “bottoncino” tra le labbra come fosse un cappero. Per sciogliere le sue inibizioni e far sì che inizi la vera eccitazione, continuo senza fermarmi per almeno cinque minuti. Senza sollevare la bocca, lascio scivolare mani e dita ovunque, ma soprattutto su seni e capezzoli, per potenziare l’effetto orale. Disegno una serie di otto con la punta della lingua rigida, mentre succhio come se stessi bevendo da una cannuccia. Smetto solo quando me lo chiede lei: lascio il clitoride, ma continuo a massaggiarle il pube. Ora lei è partita alla ricerca del mio punto P36. Mi fa’ sdraiare su un tavolo, con il bacino che sporge leggermente, prende dalla dispensa un vasetto di dolcificante liquido alla mela e, dopo avermelo spalmato nei punti giusti, prende a leccare nell’attaccatura tra coscia e inguine! Stuzzicato dal calore della sua lingua, che con sapiente cura spingo a soffermarsi più a lungo nelle zone maggiormente sensibili, ben presto mi torna l’appetito. Intanto, le mie dita che non riposano mai, sono arrivate dove volevano. Faccio scivolare lentamente le punte dei polpastrelli sui bordi esterni delle grandi labbra, e le divarico con delicatezza: in questo modo la pelle tesa diventa ancor più sensibile. Ho migliorato le mie prestazioni grazie agli esercizi di Kegel37 e facendo scorta di arginina38.

36 Il punto P è l’equivalente del punto G femminile: si tratta dell’all’avvallamento alla base del frenulo (il

filetto). Cioè quella parte che va dall’attaccatura dei testicoli alla zona proibita, là dietro. Per individuarlo con certezza basta ricorrere al Tantra. Chiedile di passare con le labbra socchiuse, la punta della lingua sulla base dl frenulo, capirai immediatamente, senza alcun dubbio, quando avrà centrato il bersaglio. Chiedi alla tua patner di massagiarti proprio lì con profondi movimenti circolari dell’indice che stimolano la prostata…

37 Gli esercizi di Kegel, servono ad Irrobustire i muscoli pubococcigei e a portarti a raddoppiare la

durata. Faccio come se fossi in bagno e dovessi bloccare il flusso di urina: contraggo, rilascio poi blocco di nuovo. E’ facile e posso farlo anche in auto o alla scrivania. E poi, a detta di Alex Robboy, terapista

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Il sesso è molto più divertente se esci dagli schemi classici della camera da letto. Ad esempio osservando un bel panorama, distraendoti, ritardi l’eiaculazione. Così, alle prime luci dell’alba39, spalanco la finestra “vista mare”, la prendo di spalle e la appoggio di peso al davanzale penetrandola da dietro senza andar troppo in profondità, non le piace. Colpendo la cervice uterina rischio di farle male così doso le spinte limitandomi a stimolare l’imbocco della vagina, la parte più esterna, quella più ricca di terminazioni nervose, questo la manda in estasi. Terzo Round Rintraccio dal mobile credenza una cannuccia e comincio a soffiare e succhiare qua e là lungo il suo corpo. Questo le piace così tanto che rischia un orgasmo prima che abbia raggiunto il clitoride. Nel salotto c’è una vecchia e consumata poltrona a sacco che fa al caso nostro: sostiene senza problemi in nostri 150 Kg complessivi e, abbandonati su quella massa amorfa con lei che mi cavalca come un’amazzone durante una battuta di caccia, sembra di farlo galleggiando sul mar Morto. Ne approfitto per sperimentare il Maithuna, respiro, mi rilasso, svuoto la mente. Osservo il mio respiro e dedico attenzione all’aria che entra ed esce dal mio corpo. Sciolgo le tensioni del bacino, respirando e inarcando la schiena, partendo da posizione supina. In posizione sessuale dell’University of Pennsylvania (USA), dedicandoti agli esercizi di Kegel con determinazione, per lameno 20 minuti al giorno puoi aumentare la larghezza del pene di alcuni centimetri.

38 Rilascia la muscolatura liscia del pene e favorisce l’afflusso del sangue. Si trova nei fagioli, carne e

pesce. Sembra che le cavie che si facevano ogni giorno dosi extra di questo aminoacido, avessero erezioni del 30% più toste.

39 La luce dell’alba, dicono i ricercatori dell’università della California (USA), fa produrre il 70% in più di

LH, l’ormone luteinizzante, che aumenta il testosterone.

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eretta, con i piedi e la testa abbandonati verso il pavimento, mi faccio massaggiare con forza la schiena. Libero finalmente da aggressività e rancore creo con lei un contatto fisico innocuo ma “animale”. Parliamo lungamente a turno, evidenziando tutto ciò che ci piace oppure no. Meditiamo in posizione Yab Yum, respiro pensando all’energia che passa da cuore e sesso. Sono felicemente abituato al suo corpo. Cerco ed esploro a lungo il suo punto G40 lei fa la stessa cosa con il mio punto P. Facciamo l’amore finalmente in posizioni senza tensioni muscolari, sincronizzando spinte pelviche a respirazione. Mi tiene una mano sul cuore mentre mi parla dolcemente, nel frattempo respira in modo rilassato. Con l’altra mi massaggia i lombi, questo mi deconcentra dai genitali. Io le massaggio con forza le spalle e il ventre in senso orario così da armonizzare e diffondere le sue energie sessuali. Ora mi accarezza col suo calore corporeo, tenendo le mani a pochi centimetri dalla pelle. Poi, giunta all’altezza dei piedi, comincia a massaggiarli ascoltando le reazioni del mio corpo. Mi fermo ad osservare a lungo quelle zone che, per fretta o pigrizia, non guardo mai. I lunghi massaggi, i giochi di coppia e le posizioni hot ma rilassanti: tutto è volto a liberare la mente per un totale abbandono al piacere. Il massaggio è di quelli intuitivi, in altre parole che non seguono nessuna particolare tecnica: solo l’istinto. Questo contatto crea una consapevolezza reciproca, un’intimità profonda, rilassa i muscoli e scioglie le tensioni che impedivano al respiro di fluire liberamente. L’energia scorre per i chakra (i punti vitali) e il piacere si diffonde per tutto il corpo. Devo tutto al mio medico di base di quando ero ragazzo. E’ grazie a lui se ho scoperto che il sesso è una medicina, farlo

40 E’ una rughetta tra l’osso pubico e il collo dell’utero.

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almeno due41 volte la settimana aumenta il testosterone (più muscoli e meno ciccia) e l’ossitocina (si produce più endorfine, gli “ormoni del piacere”). Senza contare che un recente studio ha dimostrato che è un’immunostimolate42 e, dulcis in fundo, dimezza i rischi d’infarto e ictus. Avete una cura migliore per uno che ha ottantanni suonati?

UNIVERSITA DEGLI ADULTI DI CESENA “PIPPO BAUDO” ANNO ACCADEMICO 2042-43

CORSO DI SCRITTURA CREATIVA – M° Prof. Marco Piva Tesina di fine anno: “Sesso, salute e fantasia” Autore: Marco Benazzi Anni: 80 (ma biologicamente ne dimostra almeno dodici in meno).

41 Se vuoi sembrare 12 anni più giovane, fai l’amore almeno tre volte alla settimana: lo consiglia uno

studio scozzese su 3.500 soggetti. Merito degli ormoni della crescita prodotti col sesso: aumentano la massa magra e riducono il grasso.

42 Uno studio della Wilkes University in Pennsylvannia (USA), dimostra che il sesso è un

immunostimolante. Chi lo fa due volte la settimana, ha livelli di immunoglobine (gli anticorpi per eccellenza) del 30% più alti di chi fa sesso più raramente.

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Professione: Ex-custode di un teatro e di cava di ghiaia in zona Massa-Carrara dall’estate 2012 fino al raggiungimento dell’età pensionabile. Hobbies: Scrittore-sceneggiatore porno-fantasy. Residenza: Ospite della struttura privata “CA’ DI SOGN” ricavata all’interno del castello sito in P.zza E. Andreuzzi (già Byron) nel borgo medioevale di Monteleone di Roncofreddo (FC).

Cesena, 9 settembre 2043

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SFOGO ALLA BREECE 43

Ma cosa cazzo volete tutti che spiate continuamente la mia vita costringendomi a nascondere dietro ad una maschera la mia vera personalità. C’è un limite all’invadenza, e che cazzo! Se per sbaglio una volta ti dimostri disponibile ad ascoltare i problemi del prossimo, … tac, ti resta il manifesto stampato sulla faccia e da quel giorno non hai più scampo. Campanello, telefono, mail, fax arrivano persino ad utilizzare un piccione viaggiatore pur di invadere la tua sfera privata. Voi direte, mandali a cagare di brutto e vedrai che si tolgono dalle palle. Tutto molto vero, non c’è dubbio, se non fosse che io sono un debole e per giunta soffro della sindrome del buon samaritano, niente di più sconveniente. E’ angosciante sentirsi il corpo interamente ricoperto da sanguisughe gonfie fino al punto di scoppiare e, allo stesso tempo, svuotati di ogni energia vitale come una pila esaurita. In un mondo in cui ci sono sempre più persone disposte a vomitarti addosso ogni piccolo problema e sempre meno disposte ad ascoltare, per queste ultime si prospettano tempi duri.

43 Breece D’J Pancake muore suicida nel 1979 a 26 anni. Quattro anni dopo, quando in America esce la sua unica raccolta di racconti, la reazione è unanime. Non si tratta solo di un caso letterario, ma di un autore nato classico. Joyce Carol Oates lo paragona a Hemingway, per Kurt Vonnegut “è il più grande scrittore che abbia mai letto”, “è la mia bibbia” dice J.T. Leroy ed è lo scrittore preferito di Tom Waits. Dodici straordinari racconti, spietati, precisi e delicati. Esseri umani, animali e paesaggi della regione depressa dei monti Appalachi in cui Pancake era nato e cresciuto, si trasformano tra le sue maniin vite esemplari, vere per tutti, in tutti i tempi. La sua figura, a metà strada tra un eroe esistenzialista e Kurt Cobain, è, soprattutto, quella di un grande scrittore, finalmente tradotto in Italia. (nota biografica tratta da “Tribolati – I dodici racconti di un grande maestro”, di Breece D’J Pancake, Isbn Edizioni, 2005)

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C’è chi non trova l’anima gemella e cambia compagno con la stessa frequenza delle mutande, chi vorrebbe diventare un artista famoso cercando d’instaurare un intima amicizia con pseudo intellettuali fai da te; c’è chi cerca lavoro da vent’anni appoggiandosi a persone che hanno tutti gli interessi a far si che resti in stato di attesa perenne; chi invece si rifugia in un mondo fatto di dati statistici, cantanti, orchestre, attori, locali; evitando così di combattere giorno dopo giorno il lento avvicinarsi della fine; poi c’è l’individuo che si tuffa a capofitto nel lavoro per evitare una vita monotona fatta di solitudine, e chi al lavoro ha sempre girato al largo riuscendo comunque a sbarcare il lunario ritagliandosi anche lunghi periodi di relax; ci sono poi quelli che ritardano la vecchiaia dedicandosi a sport estremi, chi invece preferisce considerarsi un esperto eno-gastronomico magari per giustificare la pinguedine e il mancato desiderio di maternità, poi è la volta dell’individuo che ricopre un ruolo di potere che esercita con tirannia per poi subire continue vessazioni tra le mura domestiche dalla consorte virago, e di chi vive in perfetta simbiosi con il suddetto la cui unica arma di difesa è data da una profonda insicurezza genetica. Naturalmente, nel vasto campionario di rompicazzo di professione, non possono mancare gli imprenditori di sogni, cioè quelli che si ritengono di sinistra , che siedono spesso in prima fila ai cortei, manifestazioni e cene di autofinanziamento per poi finire elegantissimi a vendere bugie per il miglior offerente; manager spietati che, potendo scegliere, lasciano che la loro barchetta a remi affondi piano piano dopo aver trasbordato su di un lussuoso dodici metri a vela; chi ripete io sono stato , io ho visto, io ho fatto, come se quello di cui si occupano ora fosse solo un surrogato da accettare giocoforza. Poi incontri persone che hanno tempo da perdere dato che sono ricchi di famiglia e si sentono in diritto di proporti alcuni approfondimenti di notizie saccheggiate dai quotidiani, offendendosi mortalmente in caso di un tuo mancato coinvolgimento; altre che suo figlio ha il tocco di palla alla Baggio, una vena poetica che solo Leopardi, un orecchio musicale 70


da fare invidia a Mozart e dopo un paio d’anni, rincasando, lo ritrovano appeso come un vecchio lampadario al neon, solo perché non riusciva più ad essere “il migliore” mentre loro, i padri cazzuti, passavano il loro tempo libero a scopare fighe di qualsiasi età, colore, religione, stando ben attenti a verificare bene la loro fede politica, si perché una di estrema sinistra la si tromba in maniera totale, a una del centro sinistra solo pompini o sessantanove, per quelle di centro destra e destra estrema resta solo il culo. Gli insopportabili, però, sono quelli che la loro vita l’hanno già vissuta quasi per intero e si ergono a giudici supremi su ogni tipo di argomento; gli extracomunitari ci hanno rovinato, marocchini e algerini spacciano, i “negri” ti fermano ogni cento metri per chiederti un euro o, meglio ancora, se gli acquisti una confezione di calzini, le ucraine tutte troie in cerca di polli da spennare, le polacche badanti si, ma dalla bottiglia e dalle mani facili, rumeni e albanesi sono delinquenti abituali, senza considerare che tutte queste classificazioni le hanno incamerate da certi organi di stampa che, strategicamente seguendo l’andamento della linea politica più amata dall’italiano medio, la quale non considera che il giovane italiano medio fa lo studente di professione e la sera frequenta locali “in” spolverando trecento euro fra cocktail vari e tavolo prenotato. Chi spurga le merde delle nostre fosse imhoff, chi resta giornate intere su impalcature con ogni tipo di condizione climatica, chi, nei macelli, uccide centinaia di esseri viventi e torna a casa la sera con la mente inondata di sangue a ottenebrarsi con una consolle, chi lava piatti in cucine dove trovi topi affogati in una pentola di brodo avanzato, chi assiste vecchi malconci concedendosi forse qualche bicchiere di troppo, ma se provassero i figli a restare sei giorni a settimana, giorno e notte a contatto con persone colpite da gravi patologie che spesso non gli consentono neppure di ricordare il proprio nome? Siete certi che berrebbero solo acqua minerale? La multietnicità, nel nostro paese e nel resto dell’Europa, fa parte di

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un processo storico inarrestabile e fino a che questo concetto puerile non entrerà nelle vostre zucche vuote, il problema non avrà soluzione. Ah, dimenticavo, gli intrallazzati di provincia, quelli di famiglia “bene” che entrano nel giro giusto fin dalle elementari e in qualunque pisciata di cane loro risultano aver collaborato. Sono i classici venditori di fumo, bei discorsini preparati con cura ma assolutamente inattendibili, spesso professionisti dalla banconota arrotolata facile, artisti o pseudo tali che si esibiscono per un pugno di euro, sapendo che un buon stipendio gli viene assicurato dal lavoro che l’amicizia con il potente prelato gli ha garantito, causando indirettamente un danno notevole a chi l’artista lo fa di mestiere da anni con enormi sacrifici e continue privazioni. Voi penserete, e tu chi cazzo sei per sputare sentenze contro tutto e tutti? Credi di essere meglio di noi? Io sono un asociale felice d’esserlo, faccio di tutto per sfuggire allo sguardo e alla mente degli altri, mi fanno schifo, sono disforico, non mi sento a mio agio nei miei panni e vivo in un costante e completo stato d’ansia, non viaggio perché penso che morirei prima di tornare a casa, soffro la felicità mordi e fuggi degli entusiasti della vita, quelli che sono depressi solo perché in autunno Mike Buongiorno non tornerà a riproporre il “Rischiatutto” o perché Pirlo è rimasto al Milan, l’unico luogo che mi da un minimo di sollievo psichico è la sala d’essai sotto casa la domenica pomeriggio alla prima rappresentazione, in prima fila con l’Ipod fino ai titoli di testa e dai titoli di coda a casa , l’arena estiva è troppo affollata e priva di personalità per i miei gusti. Ho un abbonamento alla tv satellitare che mi garantisce film, documentari e sport a non finire e se voglio compagnia mi basta una telefonata, una volta a settimana viene la donna a pulire anche se poi non ritrovo mai nulla, gli sfoghi, o confessioni come le chiamano i miei superiori, mi hanno stracciato i coglioni, non riesco più a fare buon viso a cattivo gioco, basta con la vendita delle indulgenze, l’anima non si può lavare con assegni

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annuali a sette cifre, LORO come me, sono solo rami secchi da estirpare fino alle radici, per poi bruciarli nell’immenso falò delle vanitĂ . Lo giuro su questa veste che indosso indegnamente: siamo tutti condannati!

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+ 15 ottobre 1967

Era l’ottobre del ’67. Le giornate autunnali passavano quasi uguali lentamente e senza particolari novità come solo quelle di un cinquenne possono essere, con ritmi cadenzati dalla preparazione dei tre pasti principali, dal mattino al tramonto. Il vetro della finestra che si affacciava sulla piazzetta, percorso da grigie lacrime di vapore, lasciava intravedere le manovre del gruista che, dall’alto della cabina, dominava la città. Il clima, al secondo piano del civico 24 di via Como, era di quelli da “Sfida all’OK Corral”, dove al posto delle colt fumavano i coglioni di mio padre e le pallottole venivano sostituite da schiaffi e stoviglie volanti. Per la terza domenica del mese, al cinema parrocchiale di San Bartolomeo era in programmazione un vecchio “film di guerra44”. Dopo aver aiutato mia madre e “la 44 All’Ovest niente di nuovo, è un film diretto dal regista Lewis Milestone. Tratto liberamente dal libro

di Erich Maria Remarque “Niente di nuovo sul fronte Occidentale” è uno dei film di guerra più intelligenti e toccanti mai realizzati. Milestone, col suo deciso stile registico (unito ad un sapiente uso del sonoro), ha firmato una storia di vincitori e vinti intensa e colma di emozioni. Considerato universalmente come un classico dell'antimilitarismo è una spettacolare denuncia delle atrocità della guerra.

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cavallona45” a rassettare la cucina, asciugando piatti e bicchieri, venivo scortato al cinema dall’inseparabile bipede implume in gonnella. Gassosa, lacci di liquirizia e sacchetto di lupini, buio in sala, e la mia mente volava oltre il telo bianco. L’immagine che, di quella vecchia pellicola segnata dal tempo e dall’usura, mi rimase impressa a fuoco nella mente era data dall’istantaneità con cui la morte poteva arrivare. Un batter d'occhio che può essere quello segnato da un colpo d'ali di una farfalla o da quello esploso dal fucile di un nemico. Proprio quella farfalla, che il protagonista raggiungerà solo in un flashback della verde età. C'era nell'aria viziata di quel vecchio cinema, il presagio nitido della violenta emozione. Tornato a casa, al radiogiornale della sera, giunse la notizia dell’incidente occorso a Meroni mentre con un amico e collega attraversava a piedi una via principale del centro di Torino. Le sue condizioni erano disperate. Quella sera, dal buio della mia stanzetta rannicchiato in posizione fetale, mi tornavano alla mente le immagini del film e non riuscivo a prendere sonno. Dalla cucina, la radio gracchiando suoni lontani, trasmise la notizia della morte del campione granata. La domenica successiva, tornai al cinema con la ferma convinzione che da quel giorno avrei tifato per la squadra di Meroni. Mi piaceva il colore delle loro maglie e il fatto che si facessero chiamare con il nome del maschio della vacca. Il Toro, quella giornata, affrontava la Juventus nel derby piemontese. Tra il silenzio irreale di entrambe le tifoserie, prima del fischio d’inizio, da un elicottero vennero gettati migliaia di fiori in campo, poi raccolti e sistemati sulla fascia destra, la sua. Quel pomeriggio al cinema facevano “Miracolo a Milano”. Alla sera, mio padre juventino sfegatato, mi concesse di vedere con lui, nel televisore 45 Soprannome affibbiato a mia sorella Federica per via del suo aspetto fisico, altissima e formosa già

all’età di tredici anni.

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che nonna Dina custodiva gelosamente nel suo tinello, “La domenica sportiva”. Il presentatore, con l’eleganza e la professionalità di chi conosce ventimila parole e le sa usare, in uno studio dal clima a dir poco spettrale, raccontò le varie fasi del “derby della mole”. Nestor Combin, un attaccante sudamericano molto amico di Meroni, giocò nonostante la febbre a trentanove per onorare la memoria del compagno. Lottò come mai in precedenza gli era capitato, dopo sette minuti aveva già siglato una doppietta, per poi firmare la tripletta allo scoccare dell’ora di gioco. Un quarto gol fu segnato da un certo Alberto Carelli, che guarda caso portava la maglia con il numero sette, quello che fino alla domenica prima era sulle spalle di Meroni. Ad ogni rete segnata, la curva Maratona rispondeva con un boato irreale e un fiume di lagrime. Il Toro dominò quel derby vincendo per quattro a zero. Quel risultato non era mai stato raggiunto nei sessantanni precedenti e non lo sarà mai nei quaranta successivi. Sentendo i commenti a quella che, con molta probabilità, resterà la partita più ricca di significati dell'intera storia granata, sentivo entrare in corpo la “granatitudine” che come le radici della quercia, affondano a profondità insospettabili. Ero, a tutti gli effetti, diventato granata per sempre. Quando, fiero del nuovo colore del mio cuore, guadagnai il mio canapé, mi resi conto che il film visto nel pomeriggio l’avrebbero potuto ambientare tranquillamente anche a Torino.

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Oggi, dopo che i miei occhi hanno visto tante altre farfalle volare oltre le nuvole, sono certo che quella di diventare tifoso granata è stata una delle scelte più importanti e determinanti della mia vita.

Grazie Gigi, il tuo sacrificio, come quello della farfalla preistorica calpestata nel celebre racconto46 di Bradbury, ha generato in me la forza di non mollare. “L’io opaco” che mi accompagna fin da bambino, mi ha portato a credere ai “miracoli”, chiaramente paradigmatici, che interpreto nella sconfitta della morte, cioè di tutto ciò che mi affligge, mi deprime e tende a limitarmi nei rapporti interpersonali.

46 Rumore di tuono (A sound of thunder, 1952) è un breve racconto fantascientifico di Ray

Bradbury. Nell'anno 2055 vengono organizzati Safari nel tempo, per cacciatori che cercano emozioni fuori dal tempo e dall'ordinario. Una spedizione però finisce male: un cacciatore spaventato scappa dalla piattaforma in metallo antigravità camminando qualche passo sulla terra di milioni di anni fa. Questo evento apparentemente insignificante causa nel futuro cambiamenti radicali, come il cambiamento del presidente appena eletto o della lingua: la targa di presentazione della ditta di viaggi nel tempo cambia e con lei anche l'inglese parlato da un socio della ditta. Il cacciatore così controlla sotto la suola della sua scarpa, e vi trova una bellissima farfalla preistorica, morta. Per una piccola morte, eventi a catena ad effetto domino hanno cambiato per sempre il futuro.

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EXTRA GHOST STORY

ROUND ROBIN STORY

L’obiettivo è quello di realizzare un “romanzo in comune” scritto da centinaia di navigatori Internet, anonimi fruitori del sito http://www.toscaedizioni.it. Il titolo imposto dall’ideatore è “LO DEVO UCCIDERE”. Il suo autore ha il nome fittizio di Viscardo Gridelli, e sarà pubblicato da TOSCA EDIZIONI in versione ebook).

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Tutto ha inizio quando l’ideatore posta le sue prime tre cartelle…

LO DEVO UCCIDERE di Viscardo Gridelli Questa è la volta che lo uccido. Mi chiamo Matteo Baredi e fra qualche ora avrò un omicidio sulla coscienza. Il nome della futura vittima non vi dirà nulla: è un avvocato noto in città per la sua somiglianza con Odoacre Chierico. Ermanno Arienti è il suo nome e come me è nato a Cesena, trentadue anni fa. Anch’io avrei preferito fare altro nella vita, il doppiatore di film porno hardcore, il collaudatore di materassi a molle, il rappresentante di datteri provenienti dalle coltivazioni di un'oasi a 600 km a sud di Algeri, il lucidatore di palle da bowling. E invece no. Ho avuto un altro destino. Chissà, se fossi nato al quartiere Gianicolense di Roma e mio padre fosse stato il custode di VILLA PAMPHILI, oggi vivrei a Santo Domingo piuttosto che in Kenya. Ma la vita mi ha spinto a fare scelte diverse, ho vinto un concorso pubblico al catasto urbano della mia città, ho sposato la mia eterna fidanzata, abbiamo avuto un figlio che ci sta dando tante soddisfazioni e pochissimi grattacapi, e l’estate la passiamo in vacanza al bagno “Summertime 114” di Cervia. Voi direte, si va be d’accordo, ma per quale motivo hai preso questa decisione? Il fatto è che l’avvocato Arienti mi ha letteralmente scippato il destino. Tutto è cominciato per gioco. Visto l’amicizia che ci lega dai tempi del nostro primo campo scout a San Martino di Castrozza nell’ottantadue, mi aveva chiesto un’idea per realizzare un cortometraggio al saggio di un Corso al quale ha partecipato un

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paio d’anni fa. Non l’avessi mai fatto! Da quel momento in poi, sono schiavo del suo gioco. Voi direte, si va be d’accordo, ma qual è il motivo che ti ha reso schiavo? Era l’estate del ’92, io e Alberto partimmo in autostop per una vacanza in Corsica con tenda e zaini al seguito. Al campeggio incontrammo due belle ragazze nordiche, dagli occhi di un azzurro intenso e dalle voci armoniose. Passammo una prima settimana da sogno poi la loro vacanza finì. La sera degli addii festeggiammo esagerando con i beveraggi (due boccali di birra da un litro al doppio malto a testa!) e in preda ai fumi dell’alcool successe il fattaccio. Al rientro in camping accesi il fornello a spirito per farmi una limonata calda, dopo che avevo dato di stomaco tutto quello che avevo ingurgitato nei due giorni precedenti, ma l’instabilità dovuta all’eccessivo tasso alcolico mi fece cadere a terra rovesciando il fornello che, rotolando come una torcia impazzita, fini la sua corsa su di una tenda militare da campo dove alloggiava un gruppo di tedeschi che per mia fortuna stavano ancora partecipando alla gara di rutti liberi alla birreria “Senza Fondo”. Almeno così credevo. Si scatenò l’inferno. Le fiamme furono sedate grazie all’acqua del vicino torrente pompata dal gestore del camping. L’arrivo dei vigili del fuoco e il dileguarsi del fumo portò alla luce la macabra scoperta. Il nonno della famiglia di crucchi era tornato in tenda a riposare. Nessuno seppe mai che cosa veramente accadde in quella notte. Ma riuscire a comprare il silenzio di chi non deve parlare, credetemi, è tremendamente difficile. Non voglio che pensiate che sia uno psicopatico, o uno che sceglie la strada più facile per eliminare il problema. L’avvocato Arienti, oggi possiede un alto tenore di vita, a differenza del mio, autonomo e dignitoso, grazie al suo status di scrittore di romanzi gialli. Voi direte, si va be d’accordo, ma questo cosa centra con i fatti accaduti quella notte? Quei romanzi, non li ha scritti l’esimio avvocato ma il suo “negro” o come si usa dire oggi ghostwriter. Io! Ho fatto di tutto per tornare alla guida della mia vera vita, ma per paura di perdere tutto quello che ho conquistato fino ad 80


ora, un lavoro stabile che mi rende dignitosamente, una famiglia in salute, una città protettiva, ho sempre desistito. Ma ora non resisto più. Questo dover essere l’ombra che svanisce ogniqualvolta il sole la investe mi deprime fino allo sfinimento. Ma il problema è un altro. In verità, quello che ho scritto non ha nessun valore. Ciò che mi sta a cuore sono unicamente io, in quanto uomo: perché la differenza fra “essere” e “creare”, non è solo data dal fatto che il primo è un verbo intransitivo mentre il secondo è transitivo. Quando penso a ciò che ho realizzato e a quello che potrei realizzare senza di lui, mi persuado che non ha senso rimandare, e che la sola azione dignitosa che mi resta da fare è estirpare il male all’origine. Ho cercato invano delle giustificazioni per tornare sui miei passi. Non penso che proverò mai alcun senso di colpa perché non sarò mai un’omicida. L’eliminazione di Alberto fa parte della categoria “necessarie”. Non mi sento neppure agitato. Il Dio della letteratura, seppur minore, un giorno mi ringrazierà. Devo solo trovare il metodo di uccisione più adatto allo scopo, in fin dei conti stiamo parlando di un giallista. Questo, se non lo avete ancora capito, è il grido d’aiuto di un uomo che ha una vita sociale sviluppata più nel “Web” che “Live”, stretto in una morsa di solitudine, privo di occasioni di schiudermi senza freni e dubbi della psiche. ELEMENTI DELLA STORIA Matteo Baredi è il ghostwriter di Ermanno Arienti, un giallista specializzato in legal thriller. Oramai stanco d’essere sfruttato con la formula del ricatto, dopo che il giovane legale gli commissiona la sceneggiatura tratta da uno dei “suoi” capolavori, Marco decide di eliminarlo fisicamente. Unico ostacolo a questo macabro progetto rimane il “metodo di eliminazione”. Protagonista 1: Il ghostwriter che spinto dall’esasperazione, ha il compito di uccidere (o di pentirsi) l’amico sfruttatore; 81


Protagonista 2: Il giovane avvocato in erba, giallista affermato grazie al ricatto perpetrato da anni “all’amico” d’infanzia, che per questo motivo sta rischiando la vita; Location: Una città segregata a lato della via Emilia in una piccola pianura distesa ai piedi di tanti piccoli colli che gli fanno da corona, in una parola Cesena; Filo conduttore: Lo sviluppo narrativo non ha alcun vincolo se si eccettua quello dell’epoca storica attuale; Note operative: Ogni partecipante potrà inviare un max di 3 cartelle (30 righe x 60 battute) inserendo nome e cognome a fondo pagina e facendole pervenire a Tosca Edizioni all’indirizzo di posta elettronica tosca@toscaedizioni.it con oggetto “LO DEVO UCCIDERE ?”; Il materiale non sarà restituito e dovrà essere libero da diritti di riproduzione, nessun compenso sarà erogato per il contributo fornito che verrà utilizzato esclusivamente per realizzare il progetto collettivo.

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Nella vita di ogni bipede implume è possibile fare incontri che lasciano segni indelebili. Insegnanti umanamente illuminati, vecchi saggi con il bisogno d’essere ascoltati, amici che, anche se la vita li tiene lontani, mantengono impresso nel loro cuore il tuo sorriso. Winston era uno di questi, lo avevo conosciuto solo nove mesi fa già vecchio e malandato, ma il suo sguardo e la voglia di tenerezza mi hanno sciolto l’anima come una granita all’inferno. A lui è dedicato questo libro, al suo sguardo fiero e dignitoso figlio di mille battaglie combattute con le unghie e con i denti, come solo un gatto randagio può fare.

M.

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Indice

Introduzione

Pag. 6

Prefazione

Pag. 7

In vino veritas

Pag. 11

S. L.

Pag. 15

Il Paguro

Pag. 23

Un amore diverso

Pag. 34

Lapis

Pag. 39

Capelli d’angelo

Pag. 47

Il pedale d’oro

Pag. 53

Tarzen

Pag. 62

Sfogo alla Breece

Pag. 69

(+) 15 ottobre 1967

Pag. 74

Ghost story (extra)

Pag. 78

Dedica

Pag. 83

Indice

Pag. 84

nota biografica dell’autore

Pag. 85

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nota biografica dell’autore Mi chiamo Marco, il nome più in uso tra i baby boomers, e faccio parte di quella generazione che per prima è stata alimentata ad omogeneizzati e a merendine confezionate. Ho cominciato a leggere libri di letteratura per ragazzi all'età di otto anni. A dieci anni, ho cominciato a frequentare sale cinematografiche tre o quattro volte la settimana (in quel tempo, i cinema erano aperti, tranne il lunedì, dal primo pomeriggio) alimentando continuamente la mia fertile mente. A dodici anni, risale la mia prima raccolta di poesie dedicata a Maria Rosa, l'amata - seppur in maniera angelicata - compagna di banco. A diciotto, come un novello Cyrano, prestavo le mie qualità poetiche al Cristiano di turno. Dopo il diploma, ho frequentato il DAMS di Bologna, interrotto a pochi esami dalla Laurea, dove ho affinato le mie tecniche di analisi filmica. Il mio sogno proibito, simile a quelli che faceva Walter Mitty 47 era di diventare un critico cinematografico. Dopo diversi anni di lotta con la realtà, al centro culturale che frequentavo quotidianamente, incontrai in giovane sciamannato, che da mesi si divideva fra la tanto agognata tesi di laurea e l'amore viscerale per il cinema. Ad obbiettivo raggiunto, abbiamo deciso di unire le nostre insicurezze e in pochi anni sono nati; soggetto e sceneggiatura di ANITA, un lungometraggio ambientato nella bassa ferrarese; una serie tv ambientata in un teatro con protagonista un custode inetto aiutato nel lavoro dal collega fantasma; una serie di sitcom di varia ambientazione (ristorante, scuola, ...); format televisivi, fino a formare, nell'estate del 2004, un gruppo (GIU - gruppo inutili uniti) che aveva come scopo principale quello di ricercare cosa stava succedendo alle persone, da un angolo remoto e opulento del ricco occidente (Romagna); analizzare le conseguenze, le ricadute personali di un mondo "a testa in giù" (E. Galeano) basato sull'ingiustizia, lo sfruttamento dei 47 Walter Mitty è il protagonista di un racconto di James Thurber (The Secret Life of Walter Mitty) che narra la storia di un uomo che vive di immaginazione. Nel 1947 ne è stato tratto un celebre film con protagonista Danny Kay, comparso in Italia con il titolo “Sogni proibiti”.

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paesi poveri; lottare per una presa di consapevolezza allo scopo di cambiare la percezione del mondo e magari, nel tempo, insieme a tanti altri, provare a rivoltarlo un po'. Da questa straordinaria esperienza condivisa oltre che con l'ormai inseparabile amico di penna, anche con altri quattro ragazzi che il destino ci ha posto lungo la strada che porta al capolinea della vita, sono nati due piccoli documentari autoprodotti (Perchè la vita deve essere bella), un documentario che racconta l'esperienza e il pensiero di Danilo Casadei, detto Baciola, poeta di strada, vagamondo (mitico il viaggio in India in autostop, nel '73, sulle orme dei maestri della Beat Generation) e (Sessant'anni dopo) che racconta come l'impegno del partigiano Dino Amadori non si sia esaurito il 25 aprile 1945, ma continui più forte che mai, sessant'anni dopo. Contemporaneamente, ho portato a termine il miei primi due romanzi in versione e-book per l'etichetta digitale Kultvirtualpress, La giostra del dolore una ricerca introspettiva e sofferta e La crisi di un detective d'ambientazione gialla. Su Lulu.com, ho inserito la versione e-book dei due racconti “R.H.C. vs U.S.A.”, storie vere di vite immerse nelle nebbie, nelle periferie e nel sudore delle palestre di pugilato, vite intense di uomini che hanno pagato a caro prezzo il fatto di avere la pelle nera in un'America violenta e razzista. Dal quattrodici ottobre 2003 vivo in un vecchio teatro d'opera inaugurato centosessantatre anni orsono. Ci vivo perché ne sono il custode. In questa sorta di carcere dorato, grazie alla mia fervente fantasia (in prima elementare il maestro mi chiamava "Bernacca" perché, a suo avviso, vivevo costantemente nel mondo delle nuvole) evado da questo stato di reclusione soft conquistando la mia libertà mentale, il mio personalissimo paradiso perduto." Di recente, ho scritto la sceneggiatura del cortometraggio Condominio per uccelli girato dal regista cesenate Alberto (Adal) Comandini, e collaboro con Tosca edizioni piccola etichetta editoriale virtuale, attiva nell'area culturale indipendente del cesenate. Da poche settimane, contribuisco alla realizzazione del bimestrale “Il Resto del Volontariato” ideato e diretto da Gianluca Umiliacchi e patrocinato dal Resto del Carlino. Tutto il resto è vita. Marco Benazzi

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