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In copertina

La legge delle m Kerstin Kohlenberg, Petra Pinzler e Wolfgang Uchatius, Die Zeit, Germania Foto di C.J. Burton

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uando il sistema finanziario argentino è crollato, per Selvyn Seidel è stata una bella giornata. Anche quando è esplosa la centrale nucleare di Fukushima non è andata male. E quando nella provincia canadese del Québec si sono verificate delle perdite di gas tossici da alcuni impianti di fracking, gli affari di Selvyn Seidel sono andati a gonfie vele. Quando nel mondo succede qualcosa che terrorizza la gente, per Seidel è sempre una buona notizia. Perché in genere in queste occasioni i governi adottano nuove leggi e regolamenti. Dopo il crollo finanziario, l’Argentina ha annunciato che non avrebbe saldato i suoi debiti: un danno consistente per le banche estere che le avevano prestato grandi somme di denaro. Dopo la catastrofe di Fukushima, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha annunciato che la Germania avrebbe rinunciato all’energia nucleare, con gravi contraccolpi per le aziende che gestiscono le centrali nucleari nel paese. La provincia del Québec ha imposto un divieto temporaneo sul fracking: una perdita grave per le compagnie minerarie internazionali. Selvyn Seidel si guadagna da vivere recuperando una parte di tutti questi soldi persi. Dalla sua scrivania al ventisettesimo piano di un grattacielo non lontano da Times square, a New York, Seidel può ammirare il paesaggio innevato del New Jersey al di là del fiume Hudson. Indossa un com-

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pleto blu e una cravatta a farfalla rossa, e ha davanti a sé un bicchiere di carta pieno di caffè. Seidel, 71 anni e una corona di capelli bianchi, nella vita ha già lavorato abbastanza, ma non ha ancora voglia di smettere. Gli affari vanno bene: i grandi gruppi industriali di tutto il mondo non hanno mai affrontato così tante battaglie legali contro i governi. Per Seidel sono anni d’oro. Lungo la parete alle sue spalle sono impilati gli scatoloni che contengono gli incartamenti dei suoi clienti. Tra poco squillerà il telefono. Seidel sta aspettando di essere contattato da un fornitore di servizi finanziari olandese. Preferisce non scendere nei dettagli, è una questione molto riservata. Si limita a dire che recentemente un paese sudamericano ha vietato le transazioni finanziarie rischiose. L’obiettivo del governo locale è proteggere i risparmi degli investitori privati, ma il provvedimento è stato una rovina per le aziende che forniscono servizi finanziari. Ora l’azienda olandese vuole recuperare il denaro perso. Seidel copre le spese legali e processuali delle aziende che fanno causa agli stati per ottenere un risarcimento dei danni e che devono affrontare processi molto costosi. Se l’azienda vince, Seidel incassa buona parte della somma richiesta, spesso centinaia di milioni di dollari. È il suo modello d’impresa. Sulla scrivania campeggia un trofeo che Seidel ha conquistato sostenendo le multinazionali nella loro battaglia contro gli stati: il Lawyers award del 2013. È un oggetto

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La Vattenfall contro la Germania, la Philip Morris contro l’Australia, la Deutsche Bank contro lo Sri Lanka: quando pensano che una legge li danneggi, i grandi gruppi industriali fanno causa agli stati. E vincono sempre


multinazionali di cristallo che è stato assegnato alla Fullbrook Capital Management di Seidel per i suoi successi come legale di cause civili negli Stati Uniti. Seidel in genere investe in sei o otto cause contemporaneamente, e intanto ne esamina altre venti o trenta in cui sono coinvolti paesi dell’America Latina, dell’Europa, dell’Asia centrale, di tutto il mondo. Seidel potrebbe sembrare una specie di genio, un esperto che conosce a memoria le leggi e i sistemi giuridici di decine di stati. In realtà il suo lavoro è più semplice, perché la maggior parte delle cause che finanzia si svolge secondo un unico principio e sempre nello stesso luogo: in un edificio di marmo e granito nel centro di Washington, non lontano dalla Casa Bianca. L’edificio appartiene alla Banca mondiale, l’istituzione internazionale che si occupa di prestare denaro ai paesi poveri. E ospita uno strano tribunale: il Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative agli investimenti (Icsid). A questa corte si possono rivolgere le imprese che vogliono citare in giudizio degli stati stranieri per aver fatto diminuire il valore dei loro investimenti. Lontano dagli occhi dell’opinione pubblica, intorno a questo tribunale si è creata una macchina giudiziaria potente ed estremamente redditizia, manovrata da avvocati esperti di diritto commerciale che lavorano per studi legali attivi a livello internazionale. Osservando il funzionamento di questa macchina si trovano nuove risposte all’antica domanda su quanto potere detengano gli stati nel mondo e quanto ne detengano invece le grandi aziende. In questo momento all’Icsid ci sono 185 processi in corso. Uno di questi è classificato come Icsid-Case Arb/12/12: Vattenfall contro Federal Republic of Germany. Il motivo del contendere è la rinuncia della Germania al nucleare, che ha costretto il gruppo svedese produttore di energia elettrica a chiudere le centrali nucleari che gestiva a Brunsbüttel e a Krümmel. Oltre all’Icsid, anche altri tribunali minori si occupano di regolare le controversie sugli investimenti. Non si tratta di corti giudiziarie come quelle che tutti conoscoInternazionale 1048 | 24 aprile 2014

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In copertina no, ma di tribunali arbitrali. A prima vista la differenza non è enorme: anche nei procedimenti arbitrali ci sono una parte lesa, un imputato, gli avvocati, le deposizioni dei testimoni e dei periti. Naturalmente ci sono anche i giudici, sempre tre. Ma già qui emergono le prime differenze. I giudici non lavorano per il tribunale arbitrale, non sono funzionari e neanche dipendenti. Sono esperti di giurisprudenza provenienti da paesi diversi che vengono nominati per ciascun processo dalle parti in causa e tengono udienza insieme in una delle aule del tribunale arbitrale. In queste aule non ci sono i banchi del pubblico perché i processi si svolgono a porte chiuse, e questa è la seconda differenza. La Vattenfall ha citato in giudizio la Germania, e di conseguenza tutti i tedeschi, chiedendo un risarcimento di più di quattro miliardi di euro: una somma corrispondente a poco meno della metà degli aiuti allo sviluppo che la Germania invia all’estero. Nessuno sa ancora quale sarà la decisione dei giudici, ma una cosa è certa: il verdetto, che non sarà emesso prima di due anni, sarà irrevocabile. Contro le sentenze dell’Icsid non è possibile ricorrere presso un’istanza superiore, non si può fare appello e non si possono chiedere revisioni. E questa è la terza differenza.

Un’idea allettante Alla base di questi procedimenti giudiziari ci sono i cosiddetti accordi internazionali per la promozione e la protezione degli investimenti. In tutto il mondo esistono circa tremila trattati di questo tipo, con cui i governi s’impegnano a riconoscere i verdetti di un tribunale arbitrale. Di fronte a queste corti lo stato è l’imputato, non la parte lesa: può solo perdere denaro, mai guadagnarne. Tutti i cancellieri, i primi ministri e i presidenti devono inchinarsi di fronte alle decisioni dell’Icsid: lo dicono gli accordi. Viene da chiedersi come mai ai governi della Germania e di quasi tutti gli altri paesi del mondo sia venuto in mente di sottoscrivere questi trattati. La risposta è che credevano di poterne approfittare. Questi patti tra paesi esistono da molto tempo. Il primo accordo per la promozione e la protezione degli investimenti è stato concluso tra la Germania e il Pakistan nel 1959. All’epoca l’obiettivo di Berlino era proteggere gli investitori tedeschi da possibili espropriazioni. Grazie a quel trattato, se per esempio una fabbrica di tessuti tedesca fosse stata sequestrata da un funzionario pachistano corrotto, il titolare dell’azienda non avrebbe più dovuto affidarsi alla giu-

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stizia del Pakistan. Non avrebbe dovuto prendere parte a un’udienza pubblica e non avrebbe rischiato che il suo avversario ritardasse il processo all’infinito. Invece si sarebbe potuto rivolgere al tribunale arbitrale internazionale, e se i giudici avessero preso le sue parti, lo stato pachistano avrebbe dovuto risarcirlo. Il Pakistan avrebbe ceduto un po’ di potere ma in compenso sarebbe diventato più invitante per le imprese tedesche: questa era l’idea. Anche Berlino avrebbe ceduto un po’ di potere agli investitori pachistani, che a loro volta avrebbero potuto citare in giudizio la Germania. Almeno in teoria: in realtà all’epoca gli investitori pachistani non esistevano.

Lo stato è l’imputato, non la parte lesa: può solo perdere denaro, mai guadagnarne Nei decenni successivi molti paesi hanno firmato accordi per la promozione e la protezione degli investimenti. La sola Germania ha concluso più di cento patti di questo tipo. Eppure l’Icsid non ha attirato quasi mai l’attenzione della pubblica opinione. Un ricco cittadino tedesco ha denunciato il Camerun, una grande azienda statunitense ha citato in giudizio la Giamaica, ma i casi erano pochi: nel 1989, per esempio, all’Icsid fu istruito solo un processo. All’epoca le imprese che investivano somme ingenti all’estero erano poche e i casi di espropriazione illegittima molto rari. Poi a metà degli anni novanta il numero dei procedimenti arbitrali si è impennato improvvisamente, passando prima a trenta, cinquanta, ottanta, e poi a centinaia di casi. Il motivo è che dopo la caduta del muro di Berlino i grandi gruppi europei e statunitensi si sono avventurati sempre più spesso nei mercati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Ma un’altra spiegazione si trova in un articolo uscito nel 1995 sul Foreign Investment Law Journal, una pubblicazione dell’Icsid. Questo testo ha contribuito a diffondere un’idea molto allettante tra gli avvocati che si occupavano di diritto commerciale: gli accordi per la promozione e la protezione degli investimenti e i tribunali arbitrali potevano aiutare le imprese a farsi risarcire anche nei casi in cui non c’era un’espropriazione palese. Bastava estendere il con-

cetto di espropriazione. Nell’articolo si legge: “Gli esploratori sono in cerca di terre sconosciute da sfruttare nel campo della giurisdizione arbitrale internazionale”. L’autore era un avvocato della Freshfields, uno studio legale britannico attivo a livello internazionale. Il territorio inesplorato era un mercato immenso che proprio in quegli anni si stava aprendo a migliaia di avvocati in tutto il pianeta.

Al momento giusto Seduto nella penombra in un ristorante di pesce di un esclusivo albergo newyorchese, Selvyn Seidel ordina gamberetti alla griglia. Ha appena finito di parlare al telefono: un’azienda gli ha offerto un posto nel suo consiglio di vigilanza. Domani andrà a Barcellona per tre giorni con la moglie, la prima vacanza da anni. Poi incontrerà alcuni soci a Londra. Seidel è cresciuto in una fattoria del New Jersey. Da ragazzo lavorava durante le ferie estive come rappresentante di una casa editrice vendendo enciclopedie porta a porta. Era bravo a smerciare quei pesanti volumi. “Ero uno dei migliori rappresentanti della costa est”, dice. In seguito ha studiato giurisprudenza, ma il fiuto per gli affari non lo ha mai abbandonato. Seidel ha lavorato per venticinque anni per la Latham & Watkins, uno studio legale californiano specializzato in diritto commerciale. Forniva consulenze a clienti importanti come la compagnia aerea israeliana El Al e rappresentava banche d’investimento e assicurazioni di fronte all’Icsid. Ha lasciato lo studio nel 2006, a 65 anni. Non voleva più fare l’avvocato e si è messo in proprio. Aveva scoperto un altro territorio inesplorato nel campo della giurisdizione arbitrale: la soluzione del problema dei costi. I processi dell’Icsid sono costosi. La maggior parte degli avvocati si fa pagare settecento dollari all’ora o anche di più. Dal momento che anche solo per stilare e presentare la citazione in giudizio possono servire diversi mesi, in poco tempo si accumulano spese per decine, centinaia di milioni. Per alcune aziende sono costi insostenibili. Seidel si accolla le spese processuali: se la causa viene respinta perde, ma se l’azienda vince l’avvocato può prendersi anche l’80 per cento del risarcimento. Stasera è di ottimo umore, e continua a ripetere che basta una vittoria presso un tribunale arbitrale per guadagnare big bucks, bei soldi. Dopo quello di Seidel, sono nati altri studi che finanziano i processi dell’Icsid


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per conto di grandi aziende, e tutti si sono messi in cerca di clienti e di nuove opportunità. Con il boom economico in Asia le grandi aziende della regione hanno cominciato a investire in Europa e negli Stati Uniti. E niente vieta a un’azienda asiatica di fare causa a un governo occidentale. L’inasprimento della legislazione contro il fumo non è forse un buon motivo per farlo? E chissà, forse si può reinterpretare anche il concetto di investitore estero. Selvyn Seidel e gli altri finanziatori di processi sono arrivati al momento giusto. La società cinese di assicurazioni sulla vita Ping An ha citato in giudizio il Belgio

chiedendo un risarcimento di 1,8 miliardi di euro. Il motivo? Durante la crisi finanziaria il governo belga ha salvato dalla bancarotta e nazionalizzato una banca usando miliardi di euro delle casse dello stato. E la Ping An aveva una quota di partecipazione nell’istituto. Il gruppo Philip Morris, produttore di tabacco, ha chiesto all’Australia un indennizzo di alcuni miliardi di dollari – la cifra non è stata ancora definita – perché il governo australiano ha stabilito che le sigarette possono essere vendute solo in pacchetti senza logo. La compagnia mineraria Lone Pine ha denunciato il Canada per la moratoria sul fracking imposta dal

Québec chiedendo un risarcimento di 250 milioni di dollari. La Lone Pine è un’azienda canadese e il tribunale arbitrale dovrebbe accogliere solo le cause di investitori stranieri, ma la Lone Pine ha sporto denuncia attraverso la sua affiliata statunitense. “Ci sono persone che guadagnano un bel po’ di soldi da processi contro paesi che vorrebbero proteggere l’ambiente o i cittadini”, ammette Nicolas Ulmer, un avvocato svizzero specializzato in procedimenti arbitrali. Anche gli studi legali tedeschi hanno scoperto il redditizio settore della giurisdizione arbitrale. Nell’estate del Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

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In copertina 2011, sulla scia della crisi dell’euro, lo studio Luther di Colonia ha inviato ai clienti un nuovo numero della sua newsletter in cui spiegava che il rischio di bancarotta di uno stato si poteva convertire in denaro sonante. In quel periodo i governi europei stavano discutendo un programma di consolidamento del debito quale ultima possibilità di salvare la Grecia dall’insolvenza. In base a quel piano, le banche e le assicurazioni estere che detenevano titoli di stato greci avrebbero dovuto rinunciare a una parte dei loro crediti per concedere ai greci un margine d’azione più ampio a livello finanziario. Lo studio Luther ha scritto ai suoi clienti che gli investitori non erano tenuti a tollerare quella decisione e potevano chiedere un risarcimento: “Il nostro studio può affiancarvi nella teoria e nella pratica in queste questioni complesse con una squadra di avvocati qualificati nel campo delle procedure giudiziarie internazionali e nel diritto relativo ai titoli di credito”. Uno degli autori del testo era l’avvocato Richard Happ. Neanche un anno dopo, all’inizio di giugno del 2012, il nome di Happ è comparso su un sito d’informazione giuridica in tutt’altro contesto: Happ era stato scelto per rappresentare la Vattenfall nel processo istituito presso l’Icsid contro la Germania.

Un’alternativa efficace Happ sarebbe la persona ideale con cui parlare di questa disputa tra un governo che vuole fare leggi e un’azienda che vuole fare affari. Nato nel 1971, è un esperto di controversie legali sugli investimenti e ha rappresentato aziende private in processi contro l’Albania e l’Ucraina. Ha scritto il testo di un opuscolo della Gesellschaft für Aussenwirtschaft und Standortmarketing, l’ente tedesco per l’economia estera e la promozione del territorio nazionale, intitolato “Hilfe, ich werde enteignet!” (Aiuto, mi stanno espropriando!), in cui illustra diverse situazioni in cui le imprese hanno buone prospettive di successo se fanno causa a uno stato. Un governo straniero può per esempio “vanificare il finanziamento di un progetto aziendale orientato a un flusso di cassa costante riducendo certe tariffe regolamentate a livello statale, per esempio nel settore dell’energia elettrica, del gas, delle telecomunicazioni o del trasporto”. Happ ha in mente anche altri motivi per cui un’azienda potrebbe fare causa a un governo: “Per esempio se uno stato impone nuove tasse che rendono economicamente vano il prose-

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guimento delle attività o fa leggi per la tutela dell’ambiente che mettono al bando prodotti fabbricati fino a quel momento”. Che un avvocato eviti di esprimersi riguardo ai processi in corso è normale. Ma Happ si è anche rifiutato di descrivere più nel dettaglio le caratteristiche dei procedimenti arbitrali. Francoforte sul Meno, Feldbergstrasse 35. Tra i grattacieli delle banche e le palme dei giardini c’è l’ufficio della controparte di Happ nel caso Vattenfall. Sabine Konrad ci riceve in una sala con pareti e tavoli bianchi, davanti a una bottiglia d’acqua con la scritta: McDermott Will & Emery. È il nome di un altro importante studio legale che si muove come un grande gruppo aziendale. La McDermott Will & Emery ha alle sue dipendenze un migliaio di avvocati in tutto

Cosa può permettersi di fare uno stato se non vuole essere citato in giudizio? il mondo, e Sabine Konrad è una di loro. Quando si è capito che la Vattenfall si sarebbe rivolta all’Icsid, il governo tedesco ha creato all’interno del ministero dell’economia l’“ufficio di cancelleria per il procedimento arbitrale sul 13° emendamento della legge sul nucleare”. Da allora quattro impiegati si occupano del caso e hanno scelto come legale Konrad, 40 anni, uno degli astri nascenti della giurisprudenza arbitrale. Nel suo bilancio per il 2014 la Germania ha stanziato 2,2 milioni di euro per il processo contro la Vattenfall all’Icsid. La maggior parte dei soldi servono a coprire le spese per l’avvocato. Konrad ha già rappresentato delle aziende in processi arbitrali. A volte difende la parte lesa, altre volte l’imputato. Ma della nostra conversazione annaffiata con acqua naturale non si può scrivere nulla. Quando si tratta di controversie sugli investimenti, a volte il pubblico non resta escluso solo dalle aule del tribunale. Nell’ottobre del 2011 Konrad ha inviato una lettera ai clienti dello studio per cui lavorava all’epoca: “I procedimenti arbitrali sono un’alternativa unica ed efficace per ottenere un risarcimento dei danni”, ha scritto. Non c’è nulla di strano nel fatto che un’impresa possa portare uno stato in tribunale. Ma viene da chiedersi perché alcune aziende possono scavalcare i tribunali

nazionali di un paese democratico, e altre no. Anche la Rwe e la E.on, due gruppi tedeschi produttori di energia elettrica, hanno fatto causa alla Germania dopo l’uscita dal nucleare. Ma, a differenza della Vattenfall, dovranno affrontare le udienze aperte al pubblico della corte costituzionale tedesca. La Vattenfall invece, in quanto investitore straniero, può rivolgersi al tribunale arbitrale che si riunisce a porte chiuse. Mentre i giudici costituzionali devono emettere la loro sentenza in base alle leggi della Germania, i giudici arbitrali decideranno secondo criteri approssimativi se il governo tedesco si è comportato in maniera illegittima. Insomma, le aziende tedesche devono affidarsi alla propria giurisdizione nazionale, quelle straniere invece rispondono a una sorta di giustizia privata. La corte costituzionale tedesca decide “in nome del popolo”, ma in nome di chi giudicano i tribunali arbitrali? Perché gli investitori possono sottoporsi a una giurisdizione separata e chi si batte per la difesa dell’ambiente o per i diritti umani no? Secondo l’avvocato Happ, gli investitori hanno dei privilegi particolari perché portano nel paese capitali necessari e generano ricchezza. Ma secondo Peter Fuchs il motivo è un altro: il mondo si è ridotto a un mercato e i governi sono troppo deboli per opporsi al grande capitale. Oggi Fuchs indossa la giacca e una cravatta annodata male. Non ha dimestichezza con questo tipo di abbigliamento, in genere porta jeans e maglione, ma oggi l’eleganza è importante. “Altrimenti qui non mi prendono sul serio”, spiega. In questa mattina di febbraio Fuchs arriva in bicicletta all’Europäisches Haus di Berlino, in Unter den Linden 78, non lontano dalla porta di Brandeburgo. Qui c’è l’ufficio di rappresentanza della Commissione europea in Germania, una specie di ambasciata dell’Unione europea. Tra poco, nella sala conferenze, comincerà un evento informativo con la partecipazione di rappresentanti dell’Unione e del ministero dell’economia tedesco. Il tema del giorno è il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), che l’Unione europea e gli Stati Uniti stanno discutendo proprio in questi mesi. Il patto prevede anche un accordo per la promozione e la protezione degli investimenti, che tra l’Europa e gli Stati Uniti non è mai stato siglato. Una volta firmato il trattato, le imprese europee potranno citare in giudizio gli Stati Uniti presso un tribunale arbitrale e le aziende statunitensi potranno fare la stes-


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sa cosa con gli stati europei. La Commissione europea spera in questo modo di favorire gli affari delle banche spagnole, dell’industria meccanica tedesca e delle compagnie farmaceutiche francesi negli Stati Uniti, e di rendere l’Europa più interessante per gli investitori statunitensi. Questo è il piano che la commissione sta promuovendo a Berlino stamattina. All’appuntamento si sono presentate circa centocinquanta persone. Deputati del Bundestag ed esponenti dell’industria, ma anche lobbisti specializzati in temi ambientali e sindacalisti. Tutti devono passare accanto a Peter Fuchs, che se ne sta sul

marciapiede all’ingresso dell’Europäisches Haus e piazza in mano a chiunque passi un volantino che accusa i grandi gruppi industriali di voler aggirare i tribunali nazionali. Quasi tutti i passanti prendono il volantino senza guardarlo in faccia e proseguono. Solo ogni tanto qualcuno si ferma e fa un paio di domande. “Lei chi è?”. “Sono Peter Fuchs, di PowerShift”. “PowerShift?”. “È un’associazione che si occupa di politiche commerciali ed economiche”. Non è detto che ne abbiate sentito parlare: PowerShift è stata fondata solo tre

anni fa. Ha ventisette associati e tre dipendenti fissi. Fuchs, 49 anni, è il direttore responsabile. Da ragazzo Fuchs non vendeva enciclopedie come Selvyn Seidel, ma si è diplomato con voti eccellenti e sarebbe potuto diventare un avvocato specializzato in diritto commerciale. Solo che quella prospettiva non gli interessava: per lui era più importante l’interesse collettivo che il saldo del suo conto in banca. Così ha studiato scienze politiche ed economia politica, ha lavorato all’università e per diverse organizzazioni che criticano la globalizzazione e alla fine ha fondato PowerShift. Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

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In copertina Fuchs organizza manifestazioni, scrive saggi sulla politica dell’Unione europea, cerca di farsi ricevere dai deputati del Bundestag. Descrive le sue attività come un tentativo di “influenzare il dibattito”. In certe occasioni distribuisce anche volantini, come stamattina. Quando all’ingresso dell’Europäisches Haus non arriva più nessuno, Fuchs sale al primo piano. L’evento è cominciato e, quando Fuchs entra nella sala, la direttrice dell’ufficio di rappresentanza dell’Unione europea a Berlino sta parlando dei 120 miliardi di euro per il welfare che l’accordo commerciale con gli Stati Uniti porterà ai paesi europei in questi tempi di crisi economica. Il direttore dei negoziati dell’Unione, uno spagnolo, sottolinea che si tratta dell’accordo commerciale più importante della storia d’Europa. Un sottosegretario del ministero tedesco dell’economia afferma che i timori relativi all’accordo per la promozione e la protezione degli investimenti sono assolutamente infondati. Fuchs ridacchia. Se dipendesse da lui, l’Unione europea farebbe saltare i negoziati con gli Stati Uniti. Fuchs è contrario al trattato, e ha criticato quasi tutte le decisioni di politica economica europea negli ultimi anni. Prima di fondare PowerShift ha lavorato come consulente del partito di sinistra Die Linke al Bundestag.

Sulle sponde dell’Elba Fuchs è stato sempre all’estremo dello spettro politico e non ha cambiato idea, ma ora, nella controversia sulla protezione degli investimenti, si è ritrovato a pensarla come il centro. Con l’eccezione della Cdu e della Csu, infatti, i partiti eletti al Bundestag sono sempre più scettici sul Trattato per la promozione e la protezione degli investimenti.Per capire cosa pensano gli elettori basta dare un’occhiata al sito di Campact, dove i cittadini possono sottoscrivere petizioni online sui temi più diversi, dalla svolta energetica alle speculazioni sul cibo all’asilo politico per Edward Snowden. La petizione contro l’accordo di libero scambio ha già raccolto 400mila firme: è stata la campagna più efficace nei dieci anni di esistenza di Campact. Stamattina, nella sala dell’Europäisches Haus, i presenti fanno domande che in realtà sono affermazioni. Un uomo che si definisce un esponente berlinese dei Freie Wähler, il movimento dei liberi elettori, riscuote un sonoro applauso quando dice che non capisce quale sia il vantaggio di questi trattati per i comuni cittadini. Christian Maass si chiede la stessa cosa

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da cinque anni, da quando la Germania è stata citata in giudizio presso l’Icsid per la prima volta. Maass, 41 anni, all’epoca era un esponente dei Verdi di Amburgo. Dopo le elezioni comunali il suo partito si è coalizzato con la Cdu e lui è diventato consigliere per l’ambiente. Proprio in quel periodo sulla sponda meridionale dell’Elba stava prendendo il via un progetto immenso: la centrale a carbone di Amburgo Moorburg, gestita dal gruppo Vattenfall. L’impianto avrebbe bruciato e trasformato in corrente elettrica fino a 12mila tonnellate di carbon fossile al giorno. La Vattenfall voleva raffreddare la centrale con l’acqua dell’Elba, ma la città di Amburgo, temendo che il raffreddamento stravolges-

Il Sudafrica non ha pagato risarcimenti, ma ha dovuto cambiare la legge se l’ecosistema del fiume, ha posto condizioni molto severe per l’apertura dell’impianto. La Vattenfall ha risposto sporgendo denuncia all’Icsid. La richiesta di risarcimento presentata allo stato tedesco, e quindi ai contribuenti, era di 1,4 miliardi di euro. La tesi dell’azienda svedese era che le norme per la tutela dell’ambiente avevano causato una riduzione della redditività della centrale elettrica, e che quindi l’investimento aveva perso valore. Quando Maass ha saputo la notizia non ha potuto fare altro che scuotere la testa incredulo. Anche lui è un giurista, specializzato in diritto ambientale, ma non aveva mai sentito parlare del tribunale arbitrale di Washington. Il processo si è concluso con una conciliazione: la Vattenfall ha rinunciato all’indennizzo e in cambio l’autorità per la tutela dell’ambiente ha adottato norme meno rigide. Invece il caso Icsid Arb/09/2, Deutsche Bank contro Sri Lanka, si è concluso non con un pareggio ma con una vittoria della parte lesa. È successo un anno e mezzo fa. La banca tedesca aveva concluso con un’azienda di proprietà dello stato srilanchese una complessa transazione finanziaria che aveva a che fare con le tariffe petrolifere. Quando l’azienda non ha onorato i suoi debiti, l’istituto di credito ha fatto causa al governo dello Sri Lanka e il tribunale arbitrale ha stabilito che gli fosse riconosciuto un risarcimento di sessanta milioni

di dollari. La sentenza ha incoraggiato il mondo della finanza, che da allora si rivolge sempre più spesso all’Icsid. Sempre in favore della parte lesa si è concluso nell’autunno del 2012 il caso Icsid Arb 06/11, che vedeva la multinazionale petrolifera Oxy schierata contro l’Ecuador. Il governo ecuadoriano aveva revocato le licenze di trivellazione dell’Oxy, perché l’azienda le aveva rivendute violando i termini del contratto. In base alla norma che garantisce un “trattamento giusto ed equo” alle imprese straniere, la corte ha riconosciuto all’azienda un risarcimento di 1,77 miliardi di dollari: il verdetto più costoso che sia mai stato formulato da un tribunale arbitrale. Tre anni e mezzo fa è terminato invece con un compromesso il caso Icsid Arb 07/1: per superare l’apartheid, il governo sudafricano aveva stabilito che aziende come le compagnie minerarie dovevano vendere una parte delle loro azioni a investitori neri. Alcune imprese italiane e lussemburghesi hanno fatto causa al Sudafrica. Il risultato è stato che Pretoria non ha dovuto risarcire le aziende, ma è stata costretta a rendere la legge meno severa. Cosa può permettersi di fare uno stato se non vuole rischiare di essere citato in giudizio? Ben poco, rispondono i governi dell’Australia, dell’Argentina, della Bolivia, del Brasile, dell’Ecuador, dell’India, del Sudafrica e del Venezuela. Questi paesi hanno rescisso accordi per la promozione e la protezione degli investimenti, si sono rifiutati di sottoscriverli o hanno annunciato che non ne avrebbero firmati di nuovi. Ormai anche la Commissione europea ha riconosciuto che la presenza di una giustizia separata e segreta per le aziende straniere è difficile da spiegare ai cittadini. Di fronte alle crescenti critiche, Bruxelles ha sospeso per tre mesi i negoziati con gli Stati Uniti sulla protezione degli investimenti. Durante l’evento all’Europäisches Haus il direttore dei negoziati dell’Unione europea afferma che fin dall’inizio si è tenuto conto dei dubbi dei cittadini: l’obiettivo è sempre stato quello di concludere un nuovo tipo di accordo per la promozione e la protezione degli investimenti. Ma questa affermazione non corrisponde alla realtà. La Commissione europea si rifiuta di rendere pubbliche le bozze dell’accordo, ma la Zeit è in possesso della versione del testo con cui la commissione si è presentata al tavolo dei negoziati, quello cioè in cui sono contenute le sue richie-


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ste iniziali. L’articolo 12, comma 1, prescrive un “trattamento giusto ed equo” delle imprese estere. Non sembrerà nulla di drammatico, ma in altri accordi simili è stata proprio questa norma a permettere di istruire molti processi dell’Icsid, per esempio quello contro le leggi per la tutela dell’ambiente. Lo stesso si può dire di un altro patto che l’Unione europea potrebbe siglare con il Canada. Le trattative stanno per concludersi e anche in questo caso la Zeit dispone delle bozze. Di nuovo, non si vedono grandi cambiamenti: se un’impresa citerà in giudizio l’Unione europea o la Germania, si potrà tenere l’opinione pubblica all’oscuro di tutto. Di un’eventuale istanza superiore a cui fare appello si parlerà solo in un secondo momento.

Approfittare dell’ingiustizia Tutte le mattine, quando va in ufficio, Klaus Sachs passa davanti a un enorme blocco di cemento che trent’anni fa era considerato un esempio di architettura moderna. È il palazzo di giustizia di Monaco, dove si svolgono il processo all’organizzazione neonazista Nsu e decine di altri procedimenti giudiziari. Salvo poche eccezioni, le udienze sono tutte pubbliche.

Anche Klaus Sachs, 62 anni, è un avvocato. A differenza di quasi tutti i colleghi, però, il suo nome compare in una lista pubblicata lo scorso autunno dal ministero dell’economia tedesco: l’elenco dei giudici arbitrali tedeschi dell’Icsid, che contiene appena otto nomi. Sachs ha esercitato il potere giurisdizionale in nove processi arbitrali. Una volta si è trattato di una causa intentata contro la Polonia da un grande gruppo francese attivo nel settore dell’informazione, un’altra di una controversia tra un produttore di energia elettrica statunitense e il Kazakistan. Prima che fossero istituiti i tribunali arbitrali, osserva Sachs, capitava spesso che un’espropriazione o una controversia sugli investimenti provocassero una crisi internazionale: non bisogna dimenticarlo. Nell’ottocento e nel novecento le navi da guerra europee hanno bombardato più volte i porti dell’Africa e dell’America Latina per ottenere il dovuto dai mercanti locali. Rispetto ad allora, è un grande progresso che le dispute tra imprese e governi si risolvano di fronte a un tribunale arbitrale. E non c’è dubbio che in tutto il mondo esistano ancora decine di paesi il cui apparato giudiziario non si può certo definire indipendente.

Anche se lavora all’Icsid, Sachs non è tipo da difenderlo a spada tratta. Ha una cattedra all’università di Monaco e ha distribuito ai suoi studenti uno studio sui tribunali arbitrali pubblicato dal Corporate Europe observatory, un’organizzazione non governativa che si batte contro i poteri economici e politici delle grandi aziende. Il documento s’intitola “Profiting from injustice”, approfittare dell’ingiustizia. Sachs ha chiesto ai suoi allievi di scrivere una tesina sul tema: “Per quale motivo la giurisprudenza arbitrale viene criticata?”. Sachs osserva che da un certo punto di vista è già stupefacente che gli stati sovrani abbiano accettato di farsi giudicare da privati cittadini – i giudici arbitrali – riguardo alle proprie leggi e alle proprie decisioni. D’altra parte la grande maggioranza di questi privati cittadini è estremamente consapevole delle proprie responsabilità. Sachs si ferma a riflettere, cerca di formulare un giudizio più equo possibile sul suo mestiere. Su un punto è molto deciso: “In effetti sarebbe davvero opportuno migliorare la trasparenza”. Un verdetto che spunta dal nulla non è più adeguato ai tempi. Sachs non è più l’unico a sostenere questa posizione. Anche il giurista francese Emmanuel Gaillard, uno dei giudici arbitrali più impegnati del mondo, sostiene che le udienze dovrebbero essere pubbliche. Procedure trasparenti, un’istanza superiore a cui fare appello e possibilmente anche una serie di clausole per la tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Perfino Selvyn Seidel, il newyorchese che finanzia le cause delle imprese, recentemente si è espresso a favore di una riforma dei tribunali arbitrali. Ma gli affari devono pur proseguire. “Lei sa cosa sono i junk bond?”, mi domanda di punto in bianco durante la cena al ristorante di pesce. La traduzione dell’espressione inglese è “titoli tossici”. “Si tratta di un nome fuorviante per riferirsi a titoli di credito che espongono a un rischio notevole ma offrono anche la possibilità di ottenere grandi guadagni”. Seidel ha avuto un’idea per finanziare un numero ancora maggiore di processi: vuole trasformare le cause per risarcimento danni in titoli da mettere in vendita sui mercati finanziari. Banche, assicurazioni, fondi d’investimento e singoli individui potrebbero comprarli come se fossero azioni e fare ricche speculazioni su questi casi giudiziari. Così anche il processo contro l’uscita della Germania dal nucleare potrebbe trasformarsi in un investimento interessante. X fp Internazionale 1048 | 24 aprile 2014

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