Monografia Aligi Sassu

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TÉCHNE I L MO SA I CO

ALIGI SASSU


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Il mosaico da cavalletto La Scuola del Mosaico di Ravenna di Linda Kniffitz

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eorges Albert Aurier, noto critico francese, recensendo

una mostra di Paul Gauguin e la sua cerchia, sulle pagine del “Mercure de France” nel marzo 1891, proponeva di coniare «un nuovo vocabolo con il suffisso ista […] per i nuovi venuti capeggiati da Gauguin. Potrebbe essere sintetista, ideista o simbolista, come si vuole, ma l’importante è accantonare quell’insulsa denominazione generale di impressionista»(1). Con quest’articolo divenuto celebre e con un altro Les peintures symbolistes, comparso l’anno seguente su “La Revue encyclopédique”, Aurier elabora un vero e proprio manifesto del simbolismo in pittura, condensato in cinque punti: esso è al tempo stesso ideista, sintetico, simbolista, soggettivo e decorativo, e di conseguenza antinaturalista e antimpressionista. Gaston Lesaulx, presentando una mostra collettiva di impressionisti e simbolisti nel 1892, annuncia che «un’altra scuola sta sorgendo, ancora sconosciuta al grande pubblico. È quella dei pittori simbolisti […]. Questi vogliono, servendosi del colore e della linea, rappresentare, come i musicisti o i poeti, non tanto l’aspetto esteriore degli oggetti […] non la materialità degli involucri, ma i Sogni e le Idee che sono la caratteristica dell’Essere»(2). È nata una nuova corrente espressiva le cui caratteristiche superano l’icasticità e la fenomenicità dell’impressionismo, per ritrovare l’astrazione, la bidimensionalità, il senso mistico delle arti visive medievali. Questo interesse favorisce anche la riscoperta dell’arte musiva bizantina, soprattutto nella sua matrice paleocristiana. In effetti il mosaico cristiano antico può essere definito “ideista”(3) perché sceglie temi non mimetici e li semplifica, li trasforma in icone, aggiungendovi anche un carattere “sintetico” e stilizzato; è frutto di un forte investimento “simbolico” perché l’immagine sintetica e non naturalista diventa anche simbolica, evocando volutamente valori trascendenti e aulici; è “decorativo” nella misura in cui può improntare di un preciso valore estetico un intero spazio chiuso. Cessa così, con la nascita del simbolismo, un fraintendimento durato secoli: il mosaico non è più inteso come imitazione della pittura (la pittura eterna della Scuola Vaticana), ma come autonomo mezzo tecnico e espressivo, come registro compositivo e spaziale capace non solo di grande suggestione in sé, ma in grado anche di connotare totalmente un ambiente architettonico. Klimt, quando visita Ravenna nel 1903, subisce un’impressione fortissima dalle decorazioni musive degli antichi edifici religiosi. Per un lustro ricordi ravennati affioreranno nella sua produzione, ma nei loro valori di superficie: i fondi oro, la purezza della linea, i giochi cromatici e decorativi, la superficie frantumata, fino ai richiami iconografici (la figura febbrile di Teodora in S. Vitale ispira fortemente il ritratto di Adele Bloch-Bauer)(4).

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Gino Severini, Natura morta con fruttiera, 1935 circa, mosaico, cm 61,5x49,5, Ravenna, collezione privata

È stato osservato che Klimt restituisce dei mosaici ravennati una dimensione eloquente ma parziale, in quanto omologa alle scelte artistiche sue proprie: l’oro, che in origine era luce trascendentale, diventa barbaglio sontuoso e simbolico, la linea funzionale diventa arabesco. Egli ha comunque il grande merito di compiere dichiaratamente, nel corpo della sua pittura, la riconciliazione tra l’Occidente e la figuratività bizantina, dopo la spaccatura apertasi nel corso del Trecento(5). Ecco quindi che nei primissimi anni del Novecento, grazie anche a rinvenimenti eccezionali – su tutti le pitture bizantine di S. Maria Antiqua, rintracciate da Giacomo Boni sulle pareti di quell’antica diaconia, durante le campagne di scavo condotte nel Foro Romano negli anni 1900-1901 – si riscopre il valore estetico dell’arte parietale paleocristiana e alto-medievale, generando nuove riflessioni critiche(6) e nuove attenzioni per la conservazione dei monumenti tardoantichi. A Ravenna è la figura di Corrado Ricci a marcare la svolta: egli fonda proprio qui nel 1897 la prima Soprintendenza d’Italia, e intensifica le campagne di restauro, non solo per salvaguardare le glorie patrie con il ripristino della lettura iconografica, ma con il gusto di rintracciare le parti originali, la facies tardoromana e bizantina(7). I cantieri, sotto la responsabilità di Ricci e poi di Giuseppe Gerola, vengono condotti dai restauratori Alessandro Azzaroni, per le parti in pittura e i disegni, e da Giuseppe Zampiga per le partiture musive; ma si rende necessario formare delle maestranze locali per assisterli. Nel 1924 Vittorio Guaccimanni apre un nuovo corso quadriennale, la Scuola del Mosaico, alla Regia Accademia di Belle Arti di Ravenna: il primo insegnante sarà Giuseppe Zampiga. In quegli anni in Italia l’arte musiva non viene recuperata solo nei suoi valori estetici, ma anche formativi e sociali: le grandi superfici architettoniche decorate a fresco o a tessere sono funzionali alla politica di regime, e sottolineano l’aspetto glorioso dell’antica arte italica. La collaborazione di architetti e artisti consente la creazione di un’arte pubblica, dichiaratamente di propaganda, le cui scelte iconografiche rimandano spesso alla specifica funzione e identità dei luoghi che rappresentano: municipi, palazzi di giustizia, stazioni, uffici postali. Gino Severini, fra i massimi esponenti del recupero dell’antica tecnica musiva, è tra i primi a criticare il carattere individualista del quadro da cavalletto. In un articolo del 1926 su “L’Information”, Pittura decorativa e pittura da cavalletto, afferma: «Per ridare all’arte tutta la sua purezza e nello stesso tempo il suo contenuto sarebbe meglio risalire dalla pittura da cavalletto alla pittura murale». Alla V Triennale di Milano del 1933 si tiene la prima grande manifestazione di pittura murale pubblica: Severini realizza un mosaico murale, Le arti,

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Gino Severini, Natura morta con mandolino, 1950 circa, mosaico, cm 53x43, Roma, collezione privata

tutt’ora in situ, inscritto in un affresco di Giorgio De Chirico dal tema La cultura italiana, invece andato distrutto. Nello stesso anno dalle pagine di “Quadrante” Cagli esorta: «a convogliare le forze della pittura contemporanea occorrono i muri, le pareti», mentre Mario Sironi pubblica il Manifesto della pittura murale, firmato anche da Funi, Campigli, Carrà, in cui l’arte murale viene definita nuova, alta e solenne, fondamentale strumento di educazione delle masse, in contrapposizione all’arte da cavalletto, soggetta alle leggi di mercato e ripiegata sulla psicologia dell’artista. Severini tuttavia, oltre ad assumere importanti commesse monumentali(8), si misura con la componente mistica del mosaico parietale paleocristiano, a partire dalla Madonna in gloria nella chiesa del Cristo Re di Tavannes (1930 circa), e nella Presentazione del Bambino, nell’Ascensione della Vergine e nella Consegna delle chiavi che decorano la chiesa di S. Pierre a Friburgo (1931-1951). D’altro canto Severini, però, recupera ben presto un’arte più intimista, ritornando a comporre opere di piccolo formato. La serie delle nature morte degli anni Trenta nasce dalla sua incipiente necessità di reinventare segni e simboli liturgici con i quali compone straordinarie sintesi, aggiungendo più tardi anche elementi naturali e strumenti musicali. È del 1933 la prima Natura morta in mosaico su pannello (realizzato da Salviati di Venezia), presentata sempre alla V Triennale, ma nella sezione delle Arti decorative. Cinque anni dopo, nel 1938, l’artista espone per la prima volta alcuni mosaici da cavalletto(9) alla Galleria della Cometa a Roma, guidata da Cagli e Libero De Libero, con una presentazione in cui definisce come peculiarità esclusiva del mosaico la continuità del mestiere. Viene citato anche Ritratto di Teresita, scultura musiva di Fontana, dello stesso anno, come parte del dibattito fra arte, architettura e decorazione. Le ragioni del suo interesse per questa antica tecnica verranno riprese e sviluppate in varie sedi nel corso della sua attività di teorico e docente. In estrema sintesi Severini vuole recuperare la cultura originaria del mosaico, un’arte a servizio del sublime, fatta di una materia ricca e luminosa che permette nuove concezioni di forma e spazio; una tecnica antica che richiede grande pazienza, disciplina e completezza(10). Un’arte che obbliga alla riflessione dunque, e che spinge ad indagare il rapporto fra linguaggio e rappresentazione. Ma in quegli anni avviene anche l’incontro importantissimo e ricco di sviluppi fra Severini e i mosaicisti ravennati. Nella chiesa di S. Pierre a Friburgo, progettata dall’amico architetto Fernand Dumas, accanto a maestranze veneziane, Severini chiama a operare la Bottega di Giuseppe Salietti, uno di primi allievi usciti dalla Scuola del mosaico dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna.

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Gino Severini, Natura morta con aragosta, 1951, mosaico, cm 50x70, Cortona, collezione privata

A Ravenna in pochi anni si è creato un gruppo di Maestri mosaicisti i cui lavori sono pienamente identificabili, sia per l’alto livello qualitativo raggiunto, sia per la fedeltà all’antica tecnica bizantina(11). Usano solo il metodo diretto, con le tessere inclinate differentemente per catturare tutte le luci. Partecipano a campagne di restauro, realizzano decorazioni architettoniche, e copie dall’antico. Nel 1933 il presidente dell’Accademia di Ravenna, Andrea Cagnoni, scrive al Ministero dell’Educazione Nazionale per chiedere finanziamenti, dimostrando piena consapevolezza dell’importanza che riveste la Scuola, che è nata non «ex nihilo per un capriccio», ma a seguito della necessità di formare maestranze per le opere di restauro intraprese da Ricci, quindi per consolidare una tradizione locale che, rivivendo in forme riflesse di studio e di imitazione, può dar luce ad applicazioni più libere, originali e feconde. Cagnoni cita Adolfo Venturi che definisce Ravenna la città del mosaico, non solo per la vastità delle superfici mosaicate, ma perché esse «hanno una luce ed una potenza singolarissima e rappresentano un momento culminante e definitivo nell’evoluzione di quest’arte. Vi sono esperienze e suggestioni che non possono sorgere che in un determinato luogo e in un dato ambiente, così Ravenna ha veduto ben presto fiorire la sua Scuola del mosaico e giovani valentissimi accorrervi con appassionato fervore». Il presidente continua elencando i tanti lavori di decorazione architettonica commissionati e le tante partecipazioni con copie su lastra di mosaici antichi (di medio formato e con cornice in gesso o legno) a esposizioni d’arte a Padova, Firenze e Parigi. Tali opere vengono richieste anche da privati (fin dall’America) e costituiscono una buona entrata per il bilancio dell’Accademia. Ma un punto della lunga lettera è particolarmente interessante: Cagnoni afferma che «la Scuola di Ravenna ha conseguito bellissimi risultati anche con applicazioni nuove e moderne che hanno dimostrato possibilità illimitate e insperati adattamenti. Un autorevole riconoscimento si è avuto di recente anche per la mostra […] del secondo corso di Studi bizantini da parte di S.E. Arrigo Solmi, che ebbe parole di schietta ammirazione non solo per le perfette riproduzioni di pezzi antichi, ma altresì per alcuni pannelli decorativi di composizione originale». È possibile quindi affermare che Zampiga incoraggiasse i suoi allievi a cimentarsi in composizioni originali su pannello già nel 1933. Del resto il 14 gennaio 1932, il presidente della XVIII Biennale d’Arte di Venezia, Giuseppe Volpi di Misurata, aveva invitato la Scuola a partecipare all’Esposizione internazionale, che si sarebbe tenuta da aprile a novembre, nella sezione d’Arte decorativa. Le norme di partecipazione sono scritte con una consapevolezza critica anticipatrice di una sensibilità solo di recente riacquisita: «Desideriamo precisare che la Mostra si vuol limitata a pochi pannelli sceltissimi di mosaico che costituiscano veri e propri

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Antonio Rocchi da Marc Chagall, Le coq bleu, 1958-59, mosaico, cm 104,8x155,7, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

esempi d’arte, i quali […] rappresentino i risultati della ricerca di nuove espressioni artistiche». Nel carteggio successivo vengono richiesti otto pannelli di grandi dimensioni proponendo Giovanni Guerrini come autore del cartone. Il direttore dell’Accademia Guaccimanni non aderirà alla richiesta, spiegando che opere così grandi vanno finite in situ, con gran dispendio di tempo, di maestranze e di danaro totalmente a carico della Scuola. In una nota manoscritta a parte Guaccimanni esprime anche il suo disappunto perché nella proposta vede ridotto il ruolo dei mosaicisti a meri esecutori. Ma la collaborazione tra mosaicisti e artisti è destinata a dare grandi frutti. Nel 1934, alla morte di Zampiga, diventa direttore della scuola Renato Signorini. Egli collabora già da tempo con il pittore Guido Cadorin e con la sua direzione la Scuola intensifica la propria presenza a mostre e concorsi con opere da cartoni di artisti, mentre continua l’attività nei cantieri di restauro dei monumenti antichi, e la produzione di copie su commissione. Particolarmente importanti sono le partecipazioni alle Triennali di Milano, perché oltre ad accrescere la visibilità della Scuola permettono la vendita diretta delle opere a fine mostra, con evidente tornaconto per l’Accademia. I pannelli musivi sono realizzati in atelier su più lastre di cemento che poi vengono montate con grappe di ferro e rifinite nelle commettiture(12). Nel secondo dopoguerra riprende l’attività degli atelier. Si forma il Gruppo Mosaicisti dell’Accademia di Ravenna, con Giuseppe Salietti come direttore(13) e rappresentante legale, mentre Signorini conserva l’incarico di direttore della Scuola. I rapporti sono stretti, l’Accademia si impegna a passare eventuali commesse al Gruppo, in cambio essi accettano la “vigilanza artistica” dell’Accademia e si impegnano ad assumere solo maestranze che si siano formate alla Scuola. Nel 1959 il Gruppo collabora a quella che è forse la collezione più prestigiosa di mosaici contemporanei in forma di pannello mobile, la cosiddetta Mostra dei Mosaici Moderni. L’idea del progetto è del 1952 e origina dal rapporto stretto che si viene a creare tra i mosaicisti e Giuseppe Bovini, allora Ispettore della Soprintendenza(14). Già nel 1948 Bovini aveva deciso di aiutare il Gruppo a organizzare una mostra itinerante di copie dei mosaici antichi: la prima esposizione è a Parigi nel 1951. Visti gli esiti felici di questa prima esperienza Bovini organizza un progetto articolato con un Comitato organizzatore composto dal Rotary Club, dall’Azienda di Soggiorno, dall’Ente Provinciale del Turismo e dalla Camera di Commercio di Ravenna. La collezione, esposta permanentemente al Museo d’Arte della città di Ravenna(15), nasce dall’idea di mettere la tecnica musiva al servizio dell’arte contemporanea. Si contattano artisti di prim’ordine perché forniscano cartoni di opere

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Ines Morigi Berti da Giuseppe Capogrossi, Superficie 332, 1957, mosaico, cm 119,2x199, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

Nella pagina accanto, Sergio Cicognani da Corrado Cagli, Senza titolo, 1957-59, mosaico, cm 214,3x109,3, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

pensate per essere realizzate a mosaico, un connubio fra arte della pittura e arte del mosaico in cui vengano rispettate le peculiarità di quest’ultima. La scelta dei candidati viene fatta da un comitato scientifico composto, oltre che da Bovini, da Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli, e comprende artisti anche molto lontani per generazione e area linguistica, ma tiene conto di valori storici ormai consolidati, come delle tendenze più accreditate del momento. Per riprendere le parole di Claudio Spadoni, che introduce il Catalogo del 1999, alcuni, Campigli, Saetti e Gentilini, erano stati partecipi del rappel à l’ordre. Altri avevano elaborato un proprio percorso, rispetto ai valori promossi da Novecento: come Capogrossi e Cagli, nell’orbita della Scuola Romana, come Paulucci, partecipe del secondo futurismo e Mirko, già allievo di Martini, col suo arcaismo antiaccademico. Poi Mauro Reggiani, che passa da esordi figurativi all’astrattismo aderendo al gruppo internazionale Abstraction-Création e all’inizio degli anni Cinquanta al Movimento arte concreta; Mario Deluigi che, attraverso

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Zelo Molducci da Mauro Reggiani, Senza titolo, 1955, mosaico, cm 134,4x169,9, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

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Nella pagina accanto, Mario Deluigi e il Gruppo Mosaicisti, Senza titolo (part.), 1959, mosaico, cm 153,9x153,7, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei


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Romolo Papa da Giuseppe Santomaso, Il muro del pescatore, 1959, mosaico, cm 104,8x154,8, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

Libera Musiani da Antonio Corpora, Senza titolo, 1957, mosaico, cm 174x154, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

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Georges Mathieu e il Gruppo Mosaicisti, Omaggio a Odoacre, 1959, mosaico, cm 241,5x92,2, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

l’amicizia con Severini e l’esempio di Guidi, tende a una semplificazione plastica in funzione dello spazio-luce(16). Poi Birolli, Guttuso e Cassinari, già fra i maggiori protagonisti di Corrente. A questi si aggiungono alcuni esponenti del Gruppo degli Otto, presentato ufficialmente alla Biennale di Venezia nel 1952 da Lionello Venturi, maestro di Argan: sono Afro, Santomaso, Corpora, Moreni, Vedova, oltre al già citato Birolli. Il comitato scientifico sceglie anche alcuni artisti stranieri: Rolf Sandquist, che Bovini conosce alla presentazione delle Copie dei mosaici antichi a Helsinki, Marc Chagall, che aderisce con entusiasmo e commissionerà al Gruppo altri lavori, e Georges Mathieu, che realizza personalmente il mosaico proiettando il Tachisme nella tecnica musiva. Altri vengono contattati: Georges Rouault e Matisse, che moriranno prima di concludere le trattative, Georges Braque e Picasso per tramite di Guttuso, che declinano l’invito(17). L’approfondimento dell’indagine sui pittori autori dei cartoni esula dagli scopi del presente intervento. L’articolato progetto degli anni Cinquanta aveva peraltro già avuto una significativa anticipazione nell’iniziativa che Giuseppe Salietti aveva tentato nel 1946. Egli aveva scritto a nome del Gruppo Mosaicisti a Saetti, Casorati, Campigli, De Chirico, Ferrazzi, Guidi, Rossi, Severini e Sironi per promuovere la raccolta di una serie di cartoni pittorici da tradurre in mosaico. Salietti specificava che i destinatari della lettera erano stati scelti in quanto le loro qualità pittoriche erano tali da potersi tradurre in mosaico. Le opere avrebbero

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Nelle pagine precedenti, a sinistra, Afro, Senza titolo, 1954, cartone preparatorio, cm 182x89, e a destra, Renato Signorini da Afro, Senza titolo, 1955, mosaico, cm 182x89,5, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

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Renato Signorini da Renato Birolli, Senza titolo, 1955, mosaico, cm 225,5x255,5, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei


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Nelle pagine successive, a sinistra, Renato Guttuso, Volo di colombe a Velate, 1958, cartone preparatorio, cm 121,2x155, a destra, Romolo Papa da Renato Guttuso, Volo di colombe a Velate, 1958, mosaico, cm 121,2x155, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

dovuto essere esposte in una Galleria di Milano nel 1947. Ma l’intero progetto non andò a compimento. Quando ne riprenderà l’idea, Bovini, nelle lettere che invia a tutti gli artisti scelti dal comitato tecnico, sottolinea che «scopo di questa serie di esposizioni è di rialzare le sorti del mosaico facendolo meglio conoscere e dimostrando soprattutto come esso ben si adegui a rendere lo spirito della pittura contemporanea». Bovini si raccomanda che le dimensioni del cartone siano quelle reali e non in scala ridotta e non superino i due metri quadrati. Dal carteggio intercorso con il Gruppo si evince che i cartoni proposti dai pittori possono essere rifiutati, laddove non vengano giudicati adatti a una interpretazione musiva. Si introduce anche un interessante elemento: i pittori verranno ricompensati con 100.000 lire a cartone. È interessante notare che sia Marco Valsecchi, nell’introduzione del primo catalogo del ’59, che Argan e Portoghesi, negli interventi al Convegno organizzato per l’occasione, considerano questa esperienza come una riuscita dimostrazione dell’importanza del legame della tradizione musiva, pur rinnovata nello stile e nei contenuti, con l’architettura. I Mosaici Moderni rivestono in parte una funzione dimostrativa di come il mosaico possa tornare a integrarsi con la progettazione degli edifici. Ma questi sono concepiti come opere autonome, non destinate ad un luogo specifico, hanno la dignità di opere risolte in sé, e non alludono (come invece le copie dei mosaici antichi) a brani più estesi di decorazione, cosa di cui, come abbiamo visto, da tempo sono consapevoli i mosaicisti del Gruppo. Si tratta pur sempre di opere massicce, allettate su malta e cemento portland, destinate ad essere applicate a parete, ma per le quali il rapporto con lo spazio architettonico non è decisivo, se non nella misura di una scelta estetica al pari di un’opera pittorica. Infatti Bovini nel successivo catalogo dei Mosaici Moderni, del 1967, nel suo saggio introduttivo, oltre a riportare i nomi dei mosaicisti che si sono dedicati al progetto: Renato Signorini, Libera Musiani, Ines Morigi Berti, Antonio Rocchi, Romolo Papa, Isler Medici, Zelo Molducci e Sergio Cicognani, pone l’accento sul fatto che questa Mostra è destinata a costituire il primo nucleo di una Galleria di mosaici contemporanei che sarà realizzata a Ravenna(18). Severini, pur sollecitato, non aderisce al progetto di Bovini perché in realtà da tempo collabora autonomamente con i mosaicisti ravennati. Oltre ai grandi lavori decorativi per edifici pubblici, di cui si è già detto, a partire dal 1949 aveva stretto un sodalizio particolare con Lino Melano, con Rocchi e poi con Guardigli, che aveva chiamato a insegnare alla Scuola del mosaico da lui fondata a Parigi. Con Rocchi aveva realizzato anche alcuni mosaici di piccolo formato poi presentati alla XXV Biennale di Venezia del 1950, ma l’esposizione non aveva avuto fortuna critica, forse per i pregiudizi che ancora si accompagnavano alla tecnica musiva.

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La collaborazione con questi mosaicisti – in particolare con Rocchi e Signorini – continuerà per oltre un decennio, sin quasi alla morte di Severini. Mentre la collezione dei Mosaici Moderni viene esposta in tante capitali europee e oltreoceano, il percorso del mosaico “da cavalletto” si divide: da una parte i mosaicisti ravennati sono consapevoli di poter giocare un ruolo da protagonisti, da unici artefici dell’opera musiva(19), dall’altro si continuano le collaborazioni a quattro mani puntando sull’autorevolezza degli artisti prescelti: da Mimmo Paladino ad Antonioni, da Luigi Ontani a Giosetta Fioroni(20), solo per citarne alcuni. Si tratta certo di un segno importante di maturità: il mosaico di oggi ha finito di pagare il suo debito nei confronti di una tradizione secolare. Dopo avere appreso sulle impalcature e i cantieri dei restauri tutto quello che il mosaico murale e pavimentale poteva insegnare, il mosaicista del XX secolo ha saputo confrontarsi con tutte le espressioni più nuove dell’arte, ha saputo con grande efficacia dimostrare che una tecnica antica poteva ancora sostenere la sfida con i tanti volti della contemporaneità (Picasso del resto non era risalito ancora più indietro, al tornio e all’argilla? e non lo aveva fatto anche Fontana?). E in tal modo egli ha naturalmente (cioè ovviamente, ma anche con naturalezza) dimostrato a sé stesso e ai suoi successori del XXI secolo che si poteva fare mosaico anche astraendolo dai suoi luoghi vocati, dai muri e dai pavimenti, e farne un’opera a sé stante, autonoma, trasportabile, fruibile in più ambienti e situazioni.

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Del resto uno dei nodi dell’indagine critica sul contemporaneo è proprio il significato da dare al recupero delle “tecniche antiche nel mondo moderno”, per usare un concetto caro ad Argan. La riflessione sul “mestiere” si è scontrata per molto tempo con le trasgressioni delle avanguardie. La presunta inattualità della tecnica musiva, dichiarata da critici di primissimo piano come Roberto Longhi e Gillo Dorfles(21), è stata smentita dai fatti: negli anni Ottanta, in piena postmodernità, di pari passo con il rilancio della pittura figurativa e dei generi e delle tecniche “tradizionali”, banditi da anni di azzeramenti e abiure, si rilegge il mosaico con inedite applicazioni nel design e con nuove e originali declinazioni estetiche. Sono cambiati anche i supporti che non sono più in cemento o in populit, ma in aerolam con struttura in alluminio, rendendo il manufatto molto più leggero. A Ravenna, dall’istituzione della Scuola nel 1924, la fortuna del mosaico non ha subito soluzioni di continuità, ma ha costituito una nuova “tradizione” – dopo quella bizantina – arricchita da ricerche e scelte operative originali che, pur non ignorando le stagioni della scena artistica internazionale, si collocano al di fuori di categorie critiche dai confini netti. Si è qui sviluppata un’identità pienamente riconoscibile, aperta a diverse soluzioni linguistiche, a intrecci e contaminazioni, però risolta nella specificità del mezzo espressivo, che reca, latente, il virus dell’antichità. Tale identità impronta il lavoro degli artisti e degli atelier(22), ma anche dei tanti allievi che da ogni parte del mondo vengono a Ravenna per apprendere il mosaico.

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Nella pagina accanto, Isler Medici da Emilio Vedova, Senza titolo, 1957-59, mosaico, cm 204,5x91, Ravenna, MAR, Collezione Mosaici Contemporanei

NOTE Le foto dei mosaici di Gino Severini sono tratte da G. Mascherpa, Severini e il mosaico, Ravenna, Longo, 1985, per gentile concessione dell’editore. (1) Il Simbolismo. Da Moreau a Gauguin a Klein, catalogo della mostra, (Ferrara) a cura di G. Lacambre, Ferrara 2007, p. 10. (2) Ibidem. Per una lettura completa delle citazioni cfr. G. A. Aurier, Textes critiques 1889-1892. De lʼimpressionisme au symbolisme, Paris 1995. (3) E non idealista: per Aurier gli idealisti non sono altro che «realisti che hanno preteso di presentare oggetti belli, ma belli in quanto oggetti», mentre ideista ha in sé un senso di abbreviato e semplificato. (4) Negli splendidi monumenti ravennati il mosaico parietale è il medium privilegiato di un messaggio didattico-dottrinale, è un investimento simbolico. Il suo statuto è radicato in scelte fortemente intenzionali: fin da subito è un genere aulico per eccellenza: per il carattere esclusivo della Committenza, per la preziosità dei suoi materiali, che richiedono dei fondi consistenti, per la raffinata realizzazione tecnica che sottintende una cerchia di artefici con competenze miste. Cfr. M. Andaloro, Dalla statua allʼimmagine dipinta, in: Lʼorizzonte tardoantico e le nuove immagini, 312-468, Corpus volume I, a cura di M. Andaloro e S. Romano, Milano 2006, p. 47. (5) Cfr. M. Andaloro, Bisanzio e il Novecento, in Splendori di Bisanzio. Testimonianze e riflessi dʼarte e cultura bizantina nelle chiese dʼItalia, catalogo della mostra (Ravenna), Milano 1990, pp. 55, 58. (6) Sono gli anni in cui appaiono opere fondative per gli studi sull’arte bizantina: Alois Riegl pubblica l’Industria artistica tardoromana (Vienna 1901) e Josef Strzygowski Orient oder Rom (Lipsia 1901). (7) La sua ricerca esasperata dell’unità architettonica e decorativa originale degli edifici di culto di Ravenna ha come portato una iniziativa catalografica di largo respiro, le Tavole storiche dei mosaici di Ravenna, edite tra il 1930 e il 1937 a Roma dall’Istituto Poligrafico dello Stato, con i disegni di Alessandro Azzaroni e Giuseppe Zampiga. (8) Il piazzale, il viale dell’Impero e la Palestra del Duce al Foro Mussolini (ripresa del mosaico bianco e nero del II-III secolo d.C.), la decorazione della V Triennale e del Palazzo di Giustizia di Milano, il fregio delle Poste di Alessandria, solo per citarne alcune. (9) Severini sperimenta e recupera non solo gli antichi linguaggi, ma anche i formati: i mosaici

portatili, con immagini sacre e i ritratti imperiali, erano abbastanza diffusi nel mondo bizantino. Nei primi anni del Seicento Marcello Provenzale, della Scuola Vaticana, realizzava mosaici portatili con tessere minute. (10) Si veda il suo articolo Mosaico e arte murale nellʼantichità e nei tempi moderni, pubblicato in “Felix Ravenna”, dicembre 1952, e i testi delle lezioni tenute alla Scuola di Mosaico da lui creata a Parigi e finanziata dall’Ambasciata italiana, successivamente pubblicati in: G. Severini, Lezioni sul mosaico, Ravenna 1988. (11) I mosaicisti ravennati rifiutavano le semplificazioni tecniche del metodo cosiddetto indiretto, praticato a Venezia e Spilimbergo. Per ovviare agli alti costi di realizzazione il friulano Giandomenico Facchina aveva inventato il mosaico per ribaltamento o a metodo indiretto, presentandolo all’Esposizione Universale di Parigi del 1855. La preparazione delle sezioni di mosaico veniva fatta in atelier, incollando le tessere a faccia in giù su fogli di carta, seguendo il disegno preparatorio. In cantiere si allettavano nella malta a parete tutte le sezioni a rovescio, quindi si toglieva la carta. Facchina ebbe un grande successo personale e, tra le tante commesse, ottenne l’incarico di decorare l’Opera Garnier. (12) In occasione della VII Triennale del 1940, la segreteria contatta l’Accademia per la realizzazione di un mosaico di grandi dimensioni, Quattro stagioni, su cartone di Aldo Salvadori, da allestire nel vestibolo d’onore al primo piano. Nel carteggio relativo alla commessa si precisa che l’Accademia di Ravenna affronterà le spese per la realizzazione e la collocazione dell’opera, e verrà retribuita solo in caso di vendita, fatti salvi i diritti della Triennale per coprire il pagamento del cartone. Se invenduto, alla chiusura della Mostra, il mosaico rimarrà di esclusiva proprietà della Scuola di mosaico dell’Accademia. Signorini esegue il lavoro e colloca il mosaico, ma gli eventi bellici faranno chiudere anzitempo la mostra. Cfr. Accademia di Belle Arti di Ravenna, Carteggio, 1940. (13) Salietti perse sotto i bombardamenti il suo atelier, la Bottega del mosaico, che aveva realizzato grandi opere musive, non solo con Severini, ma anche con Sironi, Funi e Ferrazzi. Nella sua Bottega lavoravano alcuni allievi della Scuola, che poi fondarono con lui e Renato Signorini, nel 1948 (ufficialmente, ma in realtà già dal 1946), il Gruppo mosaicisti: Libera Musiani, Lino Melano, Romolo Papa, Antonio Rocchi, Ines Morigi Berti, a cui si aggiungono presto Eda Pratella, Zelo Molducci, Isler Medici e Sergio Cicognani.

(14) Dal 1960 professore ordinario di Archeologia Cristiana presso l’Ateneo di Bologna, promotore dei Corsi di Cultura sull’Arte ravennate e bizantina e fondatore nel 1963 dell’Istituto di Antichità ravennati e bizantine, primo polo universitario di Ravenna, ora Dipartimento di Archeologia. (15) Grazie a un Comodato firmato con gli Enti Proprietari: la Camera di Commercio Industria, Agricoltura e Artigianato, l’Ente Provinciale del Turismo e il Rotary Club di Ravenna. Dal 1984 la raccolta è in esposizione permanente nel quadriportico della Loggetta Lombardesca, ora sede del MAR. (16) Deluigi instaura una felice collaborazione anche con Carlo Scarpa, e si cimenta nel design, così come nell’arredamento e nella progettazione. Ho potuto verificare di recente che non inviò al Gruppo un cartone, ma un progetto dettagliato con indicazioni precise anche per la scelta dei materiali. (17) Il carteggio dei primi anni di attività del Gruppo Mosaicisti, comprese le lettere scambiate con i pittori in occasione dell’iniziativa dei Mosaici Moderni, è stato disperso in tanti fondi privati quando questo si sciolse per ricostituirsi come Cooperativa Mosaicisti. Anche i cartoni delle copie dei mosaici antichi, considerati una sorta di liquidazione, furono distribuiti fra i fondatori. Solo recentemente, come Centro di Documentazione sul mosaico del MAR, abbiamo iniziato una faticosa ricognizione in archivi privati e pubblici. Tra i primi frutti una più precisa datazione dei cartoni e dei mosaici “Moderni”, la riscoperta di alcuni titoli originali delle opere (riscontrabile nelle didascalie delle illustrazioni a corredo del presente lavoro) e l’accesso ai dettagli organizzativi dell’iniziativa. (18) Come in effetti è stato: con la costituzione della Collezione dei Mosaici Contemporanei nel quadriportico al piano terra del MAR. (19) Tante le figure di primo piano, tre generazioni di artisti-mosaicisti. (20) Gli ultimi due in collaborazione con il Corso di mosaico dell’Accademia. (21) Dorfles ha poi corretto il tiro definendo il mosaico «antichissimo e modernissimo medium», cfr. G. Dorfles, Una grande rassegna del mosaico, in Oggetti del desiderio. Mosaico e design, catalogo della mostra (Ravenna) a cura di S. Pegoraro, Milano 1997, p. 33. (22) E anche dei corsi di mosaico all’Accademia di Belle Arti e al Liceo Artistico Nervi-Severini.

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L’Arte incontra l’Arte di Cecilia Sica

La tecnica del mosaico ha un’origine antichissima e l’Italia vanta un primato con un patrimonio ineguagliabile di opere d’arte musiva che non solo ci parlano di uno splendido passato ma che oggi testimoniano della più attuale ricerca espressiva. Ravenna è uno dei centri più importanti per l’arte del mosaico, tradizione che non si è mai interrotta e che gli artisti moderni e contemporanei hanno continuato ad arricchire con nuove sperimentazioni, interpretandola non solo attraverso la decorazione monumentale ma anche con la creazione di opere d’arte musiva da cavalletto, di ridotte dimensioni, che possono essere appese al muro come un quadro. Il mosaico è un linguaggio che già Severini negli anni Cinquanta considerava adeguato a interpretare la modernità per la sua tendenza alla semplificazione e stilizzazione del soggetto assai vicino all’arte astratta. Perfetta sintesi tra manufatto artigianale ed estro creativo, il mosaico è l’espressione più autentica della commistione tra questi due estremi, capace di combinare perizia tecnica e manualità con il talento artistico. Nella complessità del lavoro, l’artista del mosaico compie continuamente scelte estetiche che dipendono tanto dalla sua sensibilità artistica quanto dalla sua esperienza tecnica, e che danno nuovo valore alla trascrizione musiva di un’opera originale. Questo modo di operare richiama il concetto espresso dalla parola greca téchne che abbraccia un ambito ampio comprendendo tanto l’arte che l’artigianato, il “saper operare”. I greci non concepivano e non potevano immaginare la divisione tipicamente moderna tra idea e perizia realizzativa. È un duro lavoro, quello del mosaicista, che richiede preparazione teorica e affinamento delle tecniche nella pratica quotidiana, nella vita in cantiere, nella crescita professionale in laboratorio, a contatto con gli artisti e i maestri mosaicisti. A Ravenna c’è ancora un posto dove il lavoro del mosaicista ha questa dimensione, dove si respira l’atmosfera delle botteghe artigiane del passato, unita alla visione imprenditoriale moderna. Si tratta del laboratorio del Gruppo Mosaicisti Ravenna diretto da Marco Santi, che ha sede di fronte al Museo Nazionale. Santi rivendica l’orgoglio di una tradizione che si è stratificata in decenni di esperienza e lavoro sul campo, da quando, nel 1948, si costituì il Gruppo Mosaicisti dell’Accademia di Belle Arti per far fronte agli urgenti restauri che il patrimonio artistico ravennate, uscito malconcio dalla guerra, richiedeva. Il Gruppo divenuto poi Cooperativa Mosaicisti di Ravenna, e dal 2008 Gruppo Mosaicisti Ravenna, nelle lunghe campagne di restauro sui mosaici delle chiese bizantine ha potuto analizzare a distanza ravvicinata la tecnica e la specificità dei mosaici parietali antichi, studiando le caratteristiche che li rendono unici. Nel mosaico ravennate, infatti, le tessere non sono tutte di forma quadrata, come sembra a prima vista, ma sagomate differentemente dal mosaicista a

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Nella pagina d始apertura, il laboratorio del Gruppo Mosaicisti dell始Accademia di Belle Arti di Ravenna al tempo della fondazione; in basso, Aligi Sassu, Uomini Rossi, 1931, olio su tela, cm 58,5x74, collezione privata

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Marco Santi da Aligi Sassu, Uomini Rossi, 2013, mosaico, cm 47,5x60

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Marco Santi al lavoro sul disegno dellʼopera, mentre traccia le linee-guida per costruire lʼimmagine in mosaico

Nella pagina accanto, la cosiddetta cassaforma, il supporto provvisorio per lʼalloggiamento delle tessere

seconda della necessità al momento della messa in opera. L’artista le ha tagliate una per una per seguire le linee compositive e dare maggiore forza espressiva alla composizione, e le ha inserite nella malta non di piatto ma con angolazioni volte a catturare e a rifrangere la luce. Questa è la peculiarità del mosaico ravennate che Marco Santi insegna agli studenti dell’Accademia e coltiva con grande passione nel suo studio. Qui è nato il progetto di tradurre in mosaico Uomini Rossi di Aligi Sassu, in occasione del centenario della sua nascita avvenuta nel 1912, ma sulla scia di un’idea accarezzata dall’artista ben prima della sua scomparsa. Sassu instancabile e curioso sperimentatore di tecniche, già negli anni Sessanta si era cimentato in grandi opere a mosaico in contesti architettonici civili e religiosi. La pittura al silicone dei Moti angioini per la scuola elementare di Thiesi (Sassari), la decorazione dell’abside del duomo di Lodi, i mosaici con La vicenda dei car-

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Nelle pagine successive, gli smalti della “biblioteca del colore” della fornace Angelo Orsoni, Venezia

melitani per la chiesa di Nostra Signora del Carmine di Cagliari e i due grandi interventi nella chiesa di Sant’Andrea a Pescara, per citarne solo alcuni, testimoniano il suo antico interesse per questa tecnica. Uomini Rossi, olio su tela di piccole dimensioni dipinto nel 1931, rappresenta uno dei momenti più felici di tutta la sua produzione pittorica. Gli uomini rossi per Sassu esprimono la vitalità della giovinezza, mitica e reale allo stesso tempo, intesa quale purezza di sentimenti, investita di luce, dove tutto è colore. E proprio questo carattere estremamente pittorico dell’opera ha messo a dura prova la sua trasposizione in mosaico. La traduzione non è un procedimento esclusivamente tecnico. Gli ampi campi di colore e le sfumature con le quali è costruita l’immagine sono filtrati attraverso la percezione artistica e dal mestiere di Santi e della sua bottega. L’approccio all’opera è innanzitutto concettuale. Il mosaicista è partito dall’osservazione del quadro originale studiato nei minimi particolari, capito e interiorizzato in ogni pennellata, per mettere a nudo il messaggio dell’autore e poterlo trasferire in un’altra tecnica. Come esplicita Giulio Carlo Argan nell’introduzione alla mostra sul mosaico contemporaneo del 1959, il processo della realizzazione di un mosaico non è semplice traduzione ma “un processo artistico primario”, intendendo con ciò che l’opera d’arte deve trovare la sua compiutezza e una nuova realtà estetica nell’opera musiva. Santi lavora secondo un processo di rielaborazione dell’essenza dell’immagine, per donare all’opera un nuovo valore che prima non aveva, ben lontano dal rischio di realizzare una mera riproduzione. Dal quadro al mosaico: il processo ri-creativo Essenziale è all’inizio del lavoro esercitare il proprio occhio sull’immagine dell’opera, ridisegnandola a grandezza naturale, partendo dalle zone scure e progressivamente passando a definire le zone pittoriche più chiare. Questa fase di progettazione del disegno è importante per trovare la chiave di volta nella composizione del mosaico. Si evidenziano così le giustapposizioni delle zone di colore, le linee che guidano la costruzione dell’immagine, le sfumature e le tonalità che andranno rese con le tessere di pasta vitrea. Nel frattempo in laboratorio viene preparata la cassa-forma, il supporto provvisorio per l’alloggiamento delle tessere. È una base della misura dell’opera sulla quale viene steso con la cazzuola uno strato uniforme di calce spenta dello spessore di circa un centimetro che ha la caratteristica di mantenersi fresca per alcuni giorni. Questa tecnica, messa a punto dai maestri mosaicisti della scuola ravennate, consente un controllo eccellente della posa di ogni tessera e degli effetti di volume e di luce.

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Qui e nella pagina accanto, produzione e lavorazione delle “pizze” nella fornace di Mario Donà, Spilimbergo (Pordenone)

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Marco Santi compone con le tessere il mosaico degli Uomini Rossi sulla base del disegno a china riportato sul supporto

La tecnica, anch’essa ravennate, per trasportare il disegno sulla calce, prevede l’uso di una velina, poggiata sull’immagine dell’opera, sulla quale vengono ricalcati con un inchiostro tipografico solubile in acqua i contorni delle figure o dei campi di colore. Il trasferimento dell’immagine avviene per contatto: la velina è fatta aderire alla calce fresca dalla parte del disegno e viene tamponata con un pennello asciutto per eliminare le bolle d’aria. Una volta sollevata delicatamente, il disegno risulta fedelmente riprodotto sulla malta provvisoria che, essendo umida, ha trattenuto l’inchiostro. Terminata questa fase di preparazione si comincia l’esecuzione vera e propria. Il mosaico è costituito da tanti cubetti irregolari di paste vitree, detti tessere. Questa sua natura ha il grande vantaggio di mantenere inalterato il colore nel tempo, tanto che Domenico Ghirlandaio già nel XV secolo lo aveva definito a ragione “pittura per l’eternità”. Le paste vitree rispetto ai marmi e alle pietre hanno il pregio di essere più leggere e molto più luminose. La gamma cromatica è più ampia, sono migliaia i colori utilizzati nei secoli dai mosaicisti ravennati e veneziani. Si presentano in forma di “pizze”, come si dice in gergo tecnico, del diametro di 15-30 centimetri e dello spessore di 1 o 2 centimetri. Ogni mosaicista in laboratorio prepara le proprie tessere, prima tagliandole con la tagliatrice e poi riducendole con le pinze e con la martellina nella forma e nella grandezza che gli saranno utili. Quando Marco Santi comincia a disporre le tessere nel letto di calce segue le linee che costruiscono il disegno, poi le campiture più scure di colore, e via via aggiunge le tonalità più chiare. Compone e costruisce con le tessere, le sue dita esperte sanno scegliere al tatto prima ancora che alla vista la forma e le tinte di ogni tessera. È una disciplina, la sua, che si basa su una calcolata lentezza esecutiva, una grande pazienza, un’attenzione costante al risultato d’insieme, alla scelta delle forme irregolari delle tessere e al loro allettamento secondo angolazioni che permettono effetti volumetrici e luminosi. Il frazionamento del colore è determinato da una miriade di tessere di taglio e di toni diversi che, nonostante le varie inclinazioni provocanti una infinità di giochi cromatici, se osservate a distanza ricompongono l’unità dell’immagine. Dopo oltre una settimana di lavoro, gli Uomini Rossi di Sassu sono stati riportati a nuova vita da un vigore coloristico tridimensionale fatto di sedici tonalità di rossi, tredici neri, nove tinte di giallo, ventitré sfumature di cobalto, altrettanti colori utilizzati per il cielo. In tutto

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Applicazione dello strato di tela e, in basso, tamponatura della colla organica idrosolubile

ha utilizzato più di 4500 tessere; le altre che seguiranno non saranno mai identiche, la mano del mosaicista non è una macchina di precisione, segue il ritmo interno dell’opera, uguale ma sempre diversa. Giudicata definitiva la posa delle tessere segue il consolidamento dell’opera. Il pannello è lasciato allo scoperto per far evaporare l’umidità contenuta nella calce. Si applicano sulla superficie del mosaico due strati di tela, uno a maglie larghe l’altro a maglie strette, con colla organica idrosolubile che viene tamponata per trattenere tutte le tessere. La tela deve aderire perfettamente alla superficie. Quando la tela si è ben asciugata è pronta per fare da supporto al mosaico che viene “strappato” dalla superficie provvisoria, come si dice sempre in gergo tecnico, con l’aiuto di una spatola chiamata “spada”. Ora il mosaico, che si vede a rovescio, è tenuto insieme unicamente dal supporto di tela. In queste lavorazioni Santi è aiutato dai suoi collaboratori. Ci vogliono

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Nella pagina accanto: in alto, “strappo” del mosaico dalla superficie provvisoria; in basso, rimozione dei residui di calce dal retro del mosaico

Accanto, stesura della malta definitiva sul retro del mosaico; sotto, pulitura finale con spazzola per togliere i residui di colla e lucidare le tessere

più mani per un buono strappo che non metta in pericolo il mosaico. Si passa quindi a pulire dai residui di calce il retro del mosaico utilizzando un attrezzo con una punta di ferro. È un lavoro accurato ed energico. Alla malta provvisoria rimossa va sostituita la malta definitiva. Questa viene spalmata in due strati con la spatola su tutta la superficie posteriore del mosaico, avendo cura di riempire tutti gli interstizi; fra uno strato e l’altro è inserita una rete di rinforzo. Infine si applica il supporto definitivo di aereolam, una speciale vetroresina. L’opera è ancorata alla sua nuova base e viene rimossa la tela sul dritto del mosaico: il distacco avviene bagnandola gradualmente con acqua calda che scioglie la colla. Il mosaico è infine pulito con una spazzola nebulizzando acqua fredda per togliere residui di colla e lucidare le tessere. Marco Santi interpreta personalmente questa idea globale del mosaicista artista. E nel suo lavoro tanto che si tratti di opere originali da sue idee, quanto di opere di traduzione o di opere tratte da cartoni di altri pittori, mette in gioco se stesso.

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ALIGI SASSU un grido di colore di Flavio Arensi*

Antefatto storico La vicenda degli Uomini Rossi di Aligi Sassu si sviluppa all’interno di un milieu storico e formativo complesso, totalmente di ambito milanese con riflessi europei. Il padre Antonio, di origini sarde, elegge la città meneghina a residenza famigliare oltre che sede della propria attività di piccolo editore e militante socialista, fatta eccezione per un triennio di domicilio isolano agli inizi degli anni Venti. A Milano, i Sassu frequentano i pittori Carlo Carrà e Pio Semeghini visitando le principali iniziative artistiche, mentre il giovane Aligi (nato nel 1912) comincia un lungo praticantato autodidatta che gli permette di mantenere il proprio talento a uno stadio di vigile libertà. In un decennio concitato, il 1924 è nella storia del paese un anno nodale; per Sassu lo diventa almeno per due circostanze. La prima: il 10 giugno le squadracce fasciste rapiscono il deputato socialista Giacomo Matteotti, il cui assassinio prelude al consolidamento del Partito Nazionale Fascista e alla dittatura di Benito Mussolini. Matteotti resta per Sassu un simbolo di verità spezzata cui guardare con ammirazione fino all’ultimo, tanto che personalmente ricordo ancora una dedica in suo onore nello studio milanese alla fine degli anni Novanta. Non dobbiamo dimenticare che lo stesso Mussolini cresce all’interno del Partito Socialista più radicalmente a sinistra, spostando pian piano l’asse della sua proposizione politica verso una deriva illiberale man mano che le sue mire marciano verso Roma. Persino il baricentro dell’azione artistica sembra lasciare Milano, che fino allora tiene a battesimo le avanguardie, in favore della Capitale, dove ormai domina la figura primaria di Giorgio De Chirico mentre la rivista “Valori plastici” (edita dal 1918 al 1922) esercita il richiamo al rappel à lʼordre e teorizza il recupero dei meriti italici. Anche il gruppo Novecento, nato in concomitanza con l’esaurimento di Valori Plastici, benché costituitosi a Milano, viene “romanizzato” su invito diretto del Duce, che inizia a comprendere il valore della propaganda veicolata dall’arte. Tutto ciò comporta che nella città del Duomo si cominci a costituire uno spazio adatto ai desideri di cambiamento e rottura che caratterizzano le nuove generazioni di artisti e intellettuali. Secondo e vero elemento destinale è però l’acquisto, a una bancarella di libri, del volume di Umberto Boccioni Pittura scultura futuriste (Dinamismo plastico) e la lettura frenetica in quegli anni delle riviste e dei volumi della compagine marinettiana. L’incontro col Futurismo avviene prestissimo, allorché il padre accompagna il piccolo Aligi novenne a visitare una delle mostre di Palazzo Cova(1); è soprattutto la genialità di Boccioni a incuriosirlo, tanto da fargli firmare nel 1928, insieme al futuro designer Bruno Munari, un acerbo manifesto teorico Dinamismo e riforma muscolare. Siccome a questo punto il Futurismo è già maturato nelle sue declinazioni secondarie,

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A sinistra, Ultradecorazione, 1927, tempera su carta, cm 27,5x19, Atessa, Museo Sassu; in basso, Lʼuomo che beve, 1927, olio su cartone, cm 36x48,2, Lugano, Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares (lʼopera fu esposta alla Biennale di Venezia del 1928)

Nella pagina accanto: a sinistra, Leone, 1927, china e matite colorate su carta, cm 8,6x8,3, collezione privata; a destra, Castello + sole, 1927, china e matite colorate su carta, collezione privata

dopo quasi un ventennio dalla fondazione, parrebbe poco plausibile il consenso entusiasta di un giovane attento come Sassu se non fosse avvenuto «per istinto di ribellione»(2), o perché direttamente coinvolto (affascinato) dall’incontro con Marinetti, che in più occasioni lo sostiene pubblicamente invitandolo a esporre – sedicenne – alla XVI Biennale di Venezia (1928).

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Il periodo futurista di Sassu, in verità, accetta soltanto in parte l’ortodossia del movimento, tuttavia serve come breve eppure efficace luogo di mutamento in cui mettere a fuoco alcuni temi approfonditi in seguito. Il biennio 1927-1929 assomma una serie di stimoli che vanno dall’esaltazione dei colori e delle forme di Giacomo Balla, all’adesione ai principi teoretici di Boccioni, fino all’eleganza di Giò Ponti, le cui ceramiche non sono distanti dalle piccole chine e matite colorate del 1927 firmate “Sassù”. Paradossalmente, più che l’estetica della velocità o dell’“antigrazioso”, all’artista interessa la polemica antiborghese che guarda alla fabbrica e al lavoratore, motivi che entreranno anche nella figurazione novecentista, ma nei toni grigi e rigidi d’impianto monumentale. Sassu invece resta concentrato sul soggetto umano, lo inizia a studiare e collocare in un ambiente che è fuori dalla realtà, aiutato soprattutto dall’illustrazione che predispone per il romanzo di Marinetti Mafarka il futurista. Dato alle stampe nel 1909, il libro è ambientato in un’Africa immaginaria, in cui si narrano le epiche avventure dell’omonimo protagonista che, dopo aver trionfato sui suoi nemici in battaglia, in luogo di proclamarsi re degli africani, decide di ritirarsi dedicandosi alla “creazione” del figlio, Gazurmah, automa e semidio alato. Di là dalla trama, Sassu trascrive dal romanzo alcune immagini che divengono caratteristiche del suo idioma artistico come la lotta fra eroi, i temi mitologici, i cavalieri a cavallo, mentre una certa costruzione avvolgente degli spazi e delle silhouette torna nelle carte realizzate durante la prigionia del 1937 a Fossano, dove sconta una pena detentiva per complotto ai danni dello Stato fascista. Nei Disegni per Mafarka, fra architetture filamentose che ricordano l’opera utopistica di Antonio Sant’Elia, o le Carceri di Giovanni Battista Piranesi, Sassu porta a compimento il suo breve apprendistato marinettiano, e già alla fine del 1928 digrada le atmosfere “futuriste” verso nuovi approdi. Anche il 1929 è una data fondamentale nella biografia del maestro; inizia a correre come ciclista dilettante e ciò – oltre a fornirgli argomentazioni pittoriche – gli permette di muoversi liberamente per andare a visitare monumenti distanti dalla città, come gli affreschi di Castiglione Olona firmati da Masolino da Panicale, artista fiorentino del primo Quattrocento. Gli anni Venti ormai al termine si aprono a una nuova fase storica in cui il Fascismo prende sempre più il dominio anche sulle arti, già istituzionalizzate, mentre le nuove generazioni sentono il dovere di reagire proponendo una visione alternativa dell’umanità. Sassu espone alcuni lavori in una collettiva dal titolo programmatico Prima mostra libera, derivazione del gruppo che ruota intorno al gallerista Vittorio Emanuele Barbaroux e alla sua Accademia “L’avanguardia artistica”, dove il maestro stringe amicizia con Renato Birolli, Manzù e Fiorenzo Tomea. Benché di breve durata, l’Accademia – in cambio di

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(Illustrazione per Mafarka), 1928, matita colorata su carta, cm 16,9x22,1, collezione privata

Nella pagina accanto, Marinai, 1928, pastello su carta, cm 39,2x30,7, Lugano, Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares

un’opera al mese – fornisce a questi giovani un luogo in cui lavorare, discutere, immaginare un futuro. D’altronde alla fine del 1928 il fascismo diviene dittatura, e fra gli artisti si sente impellente la necessità di aderire alle linee del Regime o di spodestarle attraverso una rottura franca ed energica con le istanze correnti. Nel contesto artistico, mentre Pablo Picasso è ancora lontano dal segnare il cammino degli artisti italiani come invece succede da lì a poco, le lezioni di Antonio Banfi all’Università Statale di Milano che aprono alla filosofia

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Cristo cammina sulle acque, 1930, acquerello su carta, cm 16x19,5, collezione privata

Nella pagina accanto, Paesaggio urbano, 1930, olio su cartone, cm 42x53, collezione privata

della vita (anzi alla «corrente della vita», come ripeteva), al dialogo fra realtà e spirito, e ai pensatori della crisi, congiuntamente alla riflessione condotta dall’attività del critico Edoardo Persico, offrono le motivazioni giuste per trovare le fondamenta del cambiamento tanto ricercato; per Sassu è il contesto migliore e propizio per stendere sulla tela la propria rivoluzione. Egli assapora immediatamente il concetto di Primitivismo enunciato dai due intellettuali, ma ancora una volta (come capitato col Futurismo) lo sfrutta parzialmente in funzione delle proprie urgenze. I discorsi di Persico fanno presa, seppur per poco, e senza dubbio non gioca a suo favore il rigorismo cattolico, né convince in pieno l’ideale di una pittura che guarda sì agli antichi del Trecento e Quattrocento, ma che si dichiara “candida”, semplice e trasognata. I rimandi agli ottocenteschi lombardi Emilio Gola o Daniele Ranzoni possono piacere a chi come Ennio Morlotti cerca nel paesaggio una soluzione poetica, ma non persuadono appieno Sassu che invece chiede il coinvolgimento dell’azione civile. Peraltro, pesa l’incontro coi pittori della nuova Scuola romana vicino alle istanze che saranno di Corrente, Renato Guttuso, ma anche Mario Mafai, Scipione, latori di idee e sperimentazioni interessanti. Le opere di questo periodo mettono in luce un bisogno improrogabile di trovare modelli alternativi, senza per forza gettare il passato recente di Carrà che, per esempio, non abdica mai dal rapporto col colore. I pochi dipinti primitivisti di Sassu portano al centro del palcoscenico gli scorci urbani, le riunioni di uomini civili o inciviliti in giacca e cravatta, ieratici e sintetici che dissertano di un mondo e di un popolo nuovi. Quale sia questo mondo e quale questo popolo nuovi è chiaro: si tratta di “(ri)pensare coi colori”, per lo più il rosso. È il tempo del mondo e del popolo degli Uomini Rossi. Intermezzo casuale e poetico Accadono, talvolta, compromessi di senso, casualità, o “sincronicità” – come le chiamerebbe Carl Gustav Jung – che allargano i confini della ricerca storica e scientifica offrendo piccoli spunti curiosi. Non molti sanno – per esempio – che il nome Aligi derivi dal protagonista della tragedia La Figlia di Iorio scritta nel 1903 dal “poeta-soldato” Gabriele d’Annunzio (il quale, per certi versi, potrebbe considerarsi l’altra faccia di una medaglia che comprende al verso Marinetti); gli intenti letterari del Vate paiono difatti premonitori, quanto almeno certi suoi richiami a una condizione esistenziale, del clima e del sentimento degli Uomini Rossi. Il testo, che dando scandalo riceve ampia popolarità, eternizza le allegorie pastorali antiche, grazie alla scoperta dell’immutata sostanza della natura umana, esalta utensili e suppellettili che hanno l’impronta della vita vera, e allo

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Nelle pagine successive: a sinistra, in alto, Apollo e Dafne, 1930, tempera su carta, cm 16x22, collezione privata; a sinistra, in basso, Uomini sulla strada, 1930, acquerello su carta, cm 21x31, collezione privata; a destra, I tre ragazzi, Dioscuri, 1930, olio su compensato, cm 60x38, collezione privata

stesso tempo stende sulla realtà un velo di sogno antico. Dunque, proprio questo “sogno antico” riconduce il poeta alla sua terra d’origine, l’Abruzzo, che nell’opera viene riportata a uno stadio primitivo e innocente, caratterizzato da usi e costumi arcaici, dove è l’asprezza delle genti in disaccordo con le leggi della natura a chiamare la rovina. Lo stesso Vate descrive il proposito letterario all’amico pittore e conterraneo Francesco Paolo Michetti: «tutto è nuovo in questa tragedia e tutto è semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L’uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari... E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore. Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica [...]. Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale»(3). Confrontandolo con quanto Sassu scrive riguardo al suo ciclo creativo si scovano assonanze liriche e di atmosfera, troviamo cioè quell’idea di “vita raccolta” che funge da preambolo spirituale all’impegno dei suoi Uomini Rossi: «io dico che gli Uomini Rossi sono la giovinezza, sono la rappresentazione dell’uomo che nasce nudo dinanzi al creato e poi affronta la società, in cui è costretto, con la fede, con la generosità della giovinezza, con la purezza dell’alba: l’uomo investito dalla luce del sole, la quale traspare nel corpo ed illumina il sangue, il sangue che è vita e poi sarà morte. Perciò non vi sono ombre nel quadro, perciò tutto è colore. Forse adesso, dopo sessant’anni e passa, sento la necessità di distaccare i corpi, le forme, con i contrasti (chissà) creati dal tempo. Ma in quell’abbaino io ero un giovane che aveva avuto sempre sotto lo sguardo, sulle pareti domestiche, un quadro raffigurante una scena della Rivoluzione Francese, scena dominata da un drappo rosso. E per me allora quella bandiera sventolante faceva lievitare ogni mia conoscenza, tutto ciò che leggevo o ascoltavo»(4). Uomini Rossi Quando nel 1929 Sassu inizia la serie dei disegni degli Uomini Rossi è poco meno che ventenne e recepisce la necessità di semplificare non la forma ma il concetto delle sue asserzioni. Il grande lavorio su carta è progettuale, probabilmente sottende pure la difficoltà economica di reperire colori e telai, tanto che più volte Sassu si vede costretto a ridipingere la stessa tela. Però denota, al contempo, un’invenzione prorompente: è l’estremo bisogno di studiare approfonditamente il tema principale e tutte le possibili subordinate. Egli cerca – dopo la velocità futurista – di dare ai soggetti una pace che sa di sicurezza interiore, e insieme tutta la forza della giovinezza (della verità), perciò spesso la pittura intorno vibra, e il disegno stesso mantiene

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un tremito audace. Non è più l’utopia quanto l’originalità dell’uomo a porsi centralmente, non la macchina o la civilizzazione – come la si vorrebbe ricostruire o come potrebbe essere ricostruita – bensì la specie umana nella sua costituzione primordiale, e non primitiva. La sottile differenza fra questi due modelli, primordiale e primitivo, riferisce di una meditazione profonda che Sassu compie su paradigmi condivisi dell’epoca per poi restituirla in forma più privata e autonoma. In una battuta, Sassu cerca i primordi, non i primitivi. Non si ravvisano tuttavia scompartimenti linguistici serrati, cesure impossibili, ma argomentazioni comunicanti che degradano da un tema all’altro progressivamente. Non a caso, malgrado il nucleo forte delle carte degli Uomini Rossi cominci nel 1929, già nel 1928 si trovano esempi distaccati dal consesso futurista. Non stupisce dunque che nel 1931 i Ciclisti possano riprendere l’assunto intorno a cui ruota il saggio Il gusto dei primitivi, e proprio grazie allo sprone di Persico divengano una condizione fondante dell’opera del maestro dentro al più ampio impianto degli Uomini Rossi, però quale ponte gettato verso il futuro. Del resto, Sassu stesso racconta la difficoltà di trasporre su tela i suoi ciclisti, il desiderio costante di averli progettualmente chiari prima di trasporli nella tavolozza, i tanti studi e il ruolo dell’amico critico, in una delle pagine più belle della sua autobiografia: «Da molto tempo avevo in mente di dipingere il quadro che intitolai poi Ciclisti. Pensavo a un’opera grande, con una composizione di giovani ciclisti alla partenza d’una gara. Già avevo ultimato un altro dipinto, un gruppo di giovani corridori in un paesaggio di periferia (a Milano, fra via Sardegna e via Washington), ma non ero soddisfatto, perché quel lavoro risentiva troppo di certi criteri volumetrici di eredità futurista. E io invece cercavo qualcosa d’altro, di più vivo, di più legato alla vita d’ogni giorno. Volevo meglio risolvere il problema dei raggi delle ruote e di tutti gli altri elementi: non già fredda riproduzione astratta, anzi, compiuta in ogni riferimento, ma con quei valori di movimento che sentivo dovessero animare le figure, che erano in definitiva quelle di persone che conoscevo, coi loro caratteri espressi in gara, coi loro volti. In vista dell’opera alla quale pensavo, avevo già fatto disegni e schizzi preparatori, ma non avevo una tela grande, delle dimensioni desiderate. Come avrei potuto procurarmela? Poi facevo tra me i conti con un altro problema, che rimuginavo più o meno in questi termini: “L’asfalto della strada è nero, e questa è la realtà; ma quando si fatica in corsa, con la testa abbassata sul manubrio, gli occhi socchiusi del ciclista filtrano il sangue delle palpebre, e allora la strada diventa rossa. Dunque lunghe strisce, lunghe pennellate rosse”. Erano anni in cui ci s’incontrava nei caffè e, come racconterò più avanti, il caffè era un universo pittorico e poetico. Spesso andavo a trovare Edoardo Persico, che frequentava l’Alemagna, all’angolo di via Torino con

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Nella pagina precedente, Ciclisti, 1929, olio su tela, cm 66x115, collezione privata; in basso, Ciclisti, 1931, encausto su tela, cm 140x140, Chieti, Museo Barbella

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A sinistra, Caffè, 1934, olio su tela, cm 120x80, Chieti, Museo Barbella; a destra, Concerto, 1930, olio su tela applicata su compensato, cm 65x57, Milano, collezione Giuseppe Iannaccone

Nella pagina accanto, Lo specchio, 1930, tempera acquerellata su carta, cm 81x56,5, collezione privata

via Cordusio, e si parlava di tante cose. Lui mi raccontava della sua vita e delle sue esperienze, della Torino di Casorati e del Gruppo dei Sei, e io ascoltavo. Ascoltando mi sentivo differente, povero com’ero, senza colori e senza tele, con quelle mie idee che si dilatavano nell’immaginazione, differente anche dall’amico Persico e dagli amici Birolli, Manzù, Tomea e Grosso. Per più di una volta spiegai a Persico come avrei voluto dipingere i Ciclisti e ripetutamente lo misi al corrente dei problemi tecnici di esecuzione, come li avrei risolti e perché. Fino a quando un giorno sbottò: “Ma smettila di raccontarci questo benedetto quadro! Deciditi una buona volta a dipingerli, questi tuoi Ciclisti!”. Mi alzai indispettito e senza salutare scappai via, pieno di rabbia e di vergogna, ferito dall’uscita di Persico, che però mi voleva bene e aveva ragione. Non so come, trovai i soldi per tela e telaio e con i colori mi arrangiai preparando una tempera a cera; anzi, alcune figure le dipinsi quasi ad encausto»(5). La lunga stagione degli Uomini Rossi dura un quinquennio e termina nel 1934(6), allungandosi con qualche esempio nel 1935 e con alcune riprese nella seconda metà del Novecento, ma è bene far concludere la vicenda nell’anno del viaggio a Parigi e della scoperta dei grandi maestri francesi, in particolare di Eugène Delacroix a Saint-Sulpice, che modifica il sentito di Sassu quanto almeno devono aver fatto in passato Boccioni, Masolino e Beato Angelico(7). Sulla Senna, meta fondamentale per tutti gli artisti dell’epoca, Sassu muta la rappresentazione dei principali motivi trattati in precedenza, il cameratismo dei giovani diviene elegante partecipazione dei cafés-chantants, le donne non raccolgono l’invito della natura a partecipare della loro bellezza (lo specchio), ma sono emancipate compagne di emozioni: Sassu dopo Parigi non è più né utopista né primitivo né primordiale ma entra appieno nel mondo che lo circonda, ne diviene un protagonista sia nel tempo che nello spazio. Questa è la vera cesura col passato, dal sogno di una società migliore, al canto delle sue origini, fino alla constatazione dell’età contemporanea, la sua analisi e il doveroso contrasto. Perciò dissento da Raffaele Carrieri quando afferma nel suo testo, straordinario e lirico, d’introduzione al grande volume del 1971 (il primo a ordinare in maniera organica gli Uomini Rossi): «Non venitemi a parlare, per favore, di efebi e di Grecia. Fra la gente che frequentavo io queste calligrafie nessuno le sfiorava. Gli Orfei di Sassu erano dei ragazzi di Porta Garibaldi e di Porta Romana che suonavano la chitarra e cantavano in milanese le strofette della Mala(8), e il sabato correvano in bicicletta»(9). La testimonianza del grande poeta e critico d’arte toglie agli Uomini Rossi la dimensione atemporale e agenerazionale cui Sassu tende, per reperire un idioma alternativo a quello fino ad allora usufruito e sicuramente estraneo, se non per rare tangenze, con la quotidianità.

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Nella pagina accanto, Giocatori di dadi, 1931, olio su tela, cm 100x70, Lugano, Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares; in basso, Gli amanti, 1934, olio su tela, cm 98x78, Lugano, Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares

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A sinistra, La mezzana (Maison Tellier), 1947, olio su tela, cm 99x141,3, Lugano, Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares; in basso, Studio per “La morte di Cesare�, 1938, olio su tela, cm 49x63, Milano, Collezione Boschi

Nella pagina accanto, Fucilazione nelle Asturie, 1935, olio su tela, cm 64x47, collezione privata

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I martiri di piazzale Loreto, 1944, olio su tela, cm 150x200, Roma, Galleria Nazionale dʼArte Moderna

Carrieri riferisce in maniera coinvolgente di una condizione collettiva, però ridimensiona l’assetto teorico alla base dell’opera dell’amico, e coglie elementi che potrebbero adattarsi alla svolta parigina e non a questa fase anteriore. Negli Uomini Rossi si ritrova un giovane dal temperamento introverso che con timidezza scrive l’epopea dell’umanità alle sorgenti della sua storia, osservando dal profondo delle proprie emozioni un’epoca lontana e indefinita, anzi niente affatto definita o definibile: manca la speranza delle opere futuriste e la disillusione di quelle posteriori al carcere ma c’è tutta la potenza dell’incanto dinanzi alla natura dell’essere vivente, della sua biologia – in senso etimologico. Giungono poi i giorni in cui la denuncia degli orrori e degli errori, il piacere gioioso delle Maison Tellier o della luce dei paesaggi maiorchini, il profumo dei caffè e delle corse ciclistiche, dei cavalli e delle grandi battaglie, assurgono a cronaca in bilico fra ragione del creato e sogno di un creatore. Gli Uomini Rossi di Sassu, come buona parte della sua produzione, dipendono dal sistema filosofico e morale della Grecia classica, assimilato attraverso le letture, lo studio dell’arte dei maestri antichi, e quelli contemporanei, nonché dalla frequentazione degli ambienti culturali milanesi. I giovani fiammeggianti, denudati, calati nel colore rosso del tramonto, sono i discendenti dell’eroe che affronta la propria paura ed esce dalla caverna platonica, dove incontra finalmente il sole. E non importa che siano chiamati coi nomi di Orfeo, Achille o Eritteo, dei Dioscuri o di qualche altro personaggio epico, conta il gesto d’azzardo diretto contro il terrore che stringe alla gola e blocca i muscoli, nel diniego opposto ai falsi idoli che costringono i popoli deprivandoli della libertà e della dignità, li distraggono dall’essere presenti. I Giocatori di dadi sono l’esempio migliore dell’azzardo, del gioco della vita che si dispone davanti a persone nella loro giovinezza morale, privi di condizionamenti e sovrastrutture, nudi, di una nudità pura e bella, che nessun ragazzo intento a cantare le canzoni della Mala può afferrare, nessun personaggio di Porta Garibaldi o Porta Romana può capire. Forse, almeno in principio, i modelli fisici derivano dalla frequentazione dei coetanei, del fratello, delle donne e degli uomini che nella Milano degli anni Venti avvertono il fiato pesante della dittatura, oppure sono richiami ad alcuni soggetti dei maestri antichi, però sono tutti ridefiniti attraverso la masticazione di un artista dal carattere schivo, uno che il ciclista lo fa a testa bassa correndo per la propria strada. Più tardi, con la svolta parigina, entrano in campo nuove questioni e la matrice interpretativa smaglia da sola appena Sassu allarga i confini del mondo, alza lo sguardo e trova gli avventori dei caffè, i mostri della dittatura; negli Uomini Rossi non si può tuttavia avvistare l’interiorità di un dentro chiuso in sé, nonostante solo a partire dai Caffè, lentamente (fino all’incontro

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Sortita dei cavalieri veneti a Famagosta, 1940, olio su tela, cm 153x225, Lugano, Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares

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fondamentale con la cantante lirica e futura moglie Helenita negli anni Sessanta), egli cominci ad aprirsi verso qualcosa che non trattiene soltanto i caratteri solitari del sogno o dell’utopia, della purezza originale e giovanilistica. Ormai ventenne, dal 1934 Sassu ricerca il dialogo con l’esterno attraverso suoni e rumori estranei ai perfetti accordi del violino o dei musici da camera, anzi compone una metafisica nuova proprio a cominciare da questi suoni e rumori di vita, rovesciando un sistema stilistico in cui i gesti e gli sguardi sono più importanti della comunicazione verbale. I Caffè di Sassu abbassano la visuale da un piano elevato e ideale fin dentro alla società, chiamando a uscire dalle stanze e dai campi da gioco quei suoi ragazzi volterianamente candidi. Il primo passo devono essere stati gli atleti, poi i ciclisti, ma sempre in una tempistica dolce in cui non si pone alcuna barriera fra un prima e un dopo certi, ma si lascia un confine leggero tra le parti. La modalità in cui Sassu utilizza la categoria temporale è indicativa di un altro scarto fra Uomini Rossi e tematiche seguenti, sempre all’interno del suo personale Iperuranio, da cui i soggetti escono proprio a partire dalla svolta del 1934 per riappropriarsi di un tempo e di uno spazio reali. Anche i vestiti servono a marcare le differenze tra ciò che riguarda uno stato emozionale puro e una sua corruzione realista; la nudità è stata e continua a essere in Sassu sintomo di rivolta, in cui la trascrizione di un colore acceso e (in)naturale emancipa da tutto e da tutti, senza alcuna riserva. Peraltro, proprio la nudità discrimina gli Uomini Rossi dalle altre tematiche. Quando, dopo il 1934, difatti, gli Uomini Rossi si vestono per affollare i caffè, o per testimoniare il dramma cui è votata l’Europa delle dittature, allora il programma ideale si trasforma in azione concreta di rivolta, come nella metafora de La morte di Cesare (1938), oppure nei quadri diretti e potenti della Fucilazione nelle Asturie (1935) e de I Martiri di piazzale Loreto (1944), oggi conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma: uno dei manifesti più intensi della dolorosa lotta partigiana. Addirittura il tema religioso, sia quello inizialmente indotto da Persico con quel primitivismo un po’ rigido della fine degli anni Venti, poi sfociato negli intensi quadri dai rosa tenui, sia nelle più tarde scene cristologiche come la Deposizione del 1940, le crocifissioni o i concili, Sassu stabilisce un doppio registro filosofico-linguistico: da una parte appunto le immagini pastorali in cui gli elementi della cristianità sono osservati sotto la lente del nudo simbolico degli Uomini Rossi, poi invece la piena adesione a un concetto più ampio e destrutturativo, che porta a partecipare del mondo, non a sognare il mondo, e dunque di rilettura dei temi sacri in un’ottica laica e di contestazione. D’altronde, la militanza futurista non ha potuto che invitare

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Nella pagina accanto, Il Concilio di Trento, 1941-42, olio su tela, cm 107x210, Loreto, Museo della Santa Casa

Sassu a concepire il progetto di un nuovo cielo e una nuova terra, contrastando le assurdità cui è sottoposta la nostra schiatta. Questo appello alla resistenza, più o meno idealizzata, diviene per il pittore un proclama costante in tutta la sua poetica, ma specialmente negli Uomini Rossi, perché ancora essi mostrano il coraggio di essere puri, laddove i condottieri delle battaglie sposano una fazione precisa, scelgono da che parte stare. Gli Uomini Rossi di Sassu stanno dalla parte della vita, sono presenti nella loro vita. Il sangue che li anima è pulsante, scorre per rammentare a tutti, loro per primi, di giocare una chance, di tirare almeno una volta i dadi del destino e offrirsi un’opportunità di vita attenta e, appunto, presente.

NOTE

* Il testo è un estratto dal saggio pubblicato in: 1912-2012 Aligi Sassu The Heart of Innocence. A Centennial Retrospective of Aligi Sassu, testi di W. Huangsheng, W. Qi, V. Sassu Urbina, C. Dan, F. Arensi e F. Lin, Pechino, CAFA Art Museum, 2013. (1) La Galleria Centrale d’Arte di Palazzo Cova è una delle sedi principali di promozione dell’arte futurista. Sassu visita nel 1919 l’Esposizione Nazionale Futurista curata dallo stesso Marinetti. Fra il 1916 e il 1917 in quella stessa sede si tenne la grande retrospettiva di Umberto Boccioni. (2) S. Bini, Artisti, Milano 1932. (3) T. Rosina, Mezzo secolo de “La Figlia di Iorio”, Genova 1955, p. 67. (4) Sassu, Un grido di colore, Lugano 1998, p. 27. (5) Sassu, Un grido di colore, cit., pp. 29-31. (6) Nell’ampia bibliografia di Sassu, non pochi sono i volumi monografici dedicati a questo ciclo , a partire dalle dagli anni Settanta. Spesso l’analisi delle

opere coincide col triennio 1930-1933. Il libro di Raffale Carrieri del 1971 si occupa dei lavori eseguiti fra il 1929 (poiché tratta anche i disegni) e il 1933; quello del 2001 a cura di Renato Barilli e Rudy Chiappini per la mostra al Museo Civico di Belle Arti di Lugano, invece, dal 1930 al 1933. Nel catalogo Aligi Sassu, il primo dedicato al ciclo pittorico degli Uomini Rossi, con testo di Luciano Anceschi per la mostra di Corrente, Bottega degli Artisti di Ernesto Treccani del 1941, si dà conto invece delle opere comprese fra il 1928 e il ‘34, segnalando nell’elenco dei quarantuno quadri esposti (purtroppo non esistono immagini) un Caffè del 1928, datazione quanto mai strana e anticipatoria per questa tematica. Il volume di Giuseppe Bonini del 2008 Sassu. Dal mito alla realtà. Dipinti degli anni Trenta, catalogo della mostra a Palazzo Reale di Milano, accetta la datazione dei dipinti al 193034. Nel 2009 la città di Legnano dedica una mostra (F. Arensi, G.F. Sassone, V. Sassu Urbina, cit.) ai disegni, molti dei quali inediti, e data il ciclo principale come esaurito nel lustro 1929-1934.

F. Arensi, G.F. Sassone, in collaborazione con V. Sassu Urbina, Torino 2009, pp. 20-24.

(7) F. Arensi, La presenza degli Uomini Rossi, in Aligi Sassu. Uomini Rossi (1929-1934), a cura di

(9) R. Carrieri, Presentazione in Aligi Sassu. Gli uomini rossi 1929-1933, Milano 1971, p. 7.

(8) Le canzoni della Mala sono un insieme di canzoni popolari che narrano le storie della malavita milanese, portate al successo da Ornella Vanoni dalla metà degli anni Cinquanta ai primi anni Sessanta; sempre a Milano questi brani ed altri erano interpretati da Nanni Svampa e i Gufi mentre a Roma da Gabriella Ferri. Le più conosciute tra queste sono ideate dal regista Giorgio Strehler. Nel 1956 Strehler, in collaborazione con Dario Fo, Gino Negri, Fausto Amodei e Fiorenzo Carpi, si ispira a vecchie ballate dialettali per scrivere queste canzoni che parlano di furfanti, spari, poliziotti, malfattori, carcerati, balordi e minatori; queste storie sono per lo più ambientate a Milano e talvolta cantate in dialetto milanese. Strehler, per dare un certo mistero, disse che erano canzoni ritrovate su vecchi manoscritti. Dunque per quanto suggestivo il richiamo di Carrieri alle canzoni è un evidente anacronismo.

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Aligi Sassu al lavoro sul dipinto Deposizione, 1942 (oggi Città del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria dʼArte Moderna); nella pagina accanto, Autoritratto, 1933, tempera su cartoncino, cm 18,4x14,5, collezione privata

ALIGI SASSU nasce a Milano nel 1912. Suo padre, sardo, tra i fondatori del Partito Socialista di Cagliari, gli trasmette la passione politica che sfocerà nell’impegno antifascista. Trascorre l’infanzia in Sardegna a contatto con i cavalli e con il mare che saranno sempre presenti nella sua arte; da adolescente rientra a Milano dove studia disegno alle scuole serali, a causa delle ristrettezze economiche che peseranno per lunghi anni a venire. Enfant prodige della pittura, grazie alla stima di Filippo Tommaso Marinetti espone a soli 16 anni alla Biennale di Venezia e muove i primi passi nell’ambito del secondo Futurismo, di cui condivide lo slancio giovanilistico e la vocazione per la modernità. Non dimentica però la lezione dei Primitivi come Beato Angelico e Paolo Uccello: per ammirarli arriverà perfino ad andare a Firenze in bicicletta. In questi anni, in antitesi alla poetica di Novecento e al grigiore della pittura ufficiale del Regime, avvia le serie degli Uomini rossi e dei Ciclisti. Amplia la sua formazione a Parigi negli anni ’30, dove ha modo di conoscere le avanguardie europee, il post-impressionismo, Picasso, ma anche il grande vigore coloristico di Delacroix e Renoir. Nel 1937 viene arrestato per il suo impegno antifascista nella guerra civile spagnola: condannato a dieci anni di reclusione, sconta alcuni mesi nel carcere piemontese di Fossano, ma l’anno successivo riceve la grazia dal re e viene liberato. Durante la guerra perde la sua bambina di tre anni, e si riprenderà dal lutto solo molti anni dopo, grazie all’incontro con la cantante lirica colombiana Helenita Olivares, che era stata sua modella e che diventa la sua seconda moglie. Alla fine della guerra apre in Valganna una piccola officina di ceramica. L’artista ceramista Tullio d’Albisola lo ospita per alcuni mesi nella sua casa, dove Sassu trasferisce il suo mondo poetico - cavalli, cavalieri, scene di caffè ispirate al racconto della Maison Tellier di Maupassant - nella ceramica, che diventerà il suo medium preferito accanto alla pittura. Nel 1954 partecipa per la quarta volta alla Biennale di Venezia, dove presenta I martiri di Piazzale Loreto, che Giulio Carlo Argan acquista per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. A partire dalla metà degli anni ’50, con la sua produzione che spazia dalla pittura alla ceramica, alla scenografia teatrale, all’illustrazione libraria, è presente in tutte le principali rassegne di arte contemporanea in Italia e all’estero, dove è famoso per i suoi vibranti cavalli, per la sua vastissima produzione grafica (famose le illustrazioni dei Promessi sposi e della Divina Commedia), per le opere di impegno politico contro la dittatura, per le tele di carattere religioso dove i martiri della guerra diventano icona di Cristo. I temi religiosi così come quelli civili popolano una serie di affreschi e mosaici per commissioni pubbliche, tra cui si possono ricordare le decorazioni musive per la Chiesa del Carmine a Cagliari (1957), per l’abside del Duomo di Lodi (1964) e per la Chiesa di S. Andrea a Pescara (1976). Nel 1973 la Galleria d’Arte Moderna del Vaticano, appena inaugurata, dedica a Sassu una sala, dove viene esposta la grande Deposizione del 1943. Nel 1984 al Palazzo Reale di Milano è allestita una grande antologica con 270 lavori tra pittura, ceramica, scultura e opere murali. Nel corso degli anni Novanta, grazie a numerose esposizioni, l’opera di Sassu conosce in Italia e all’estero una notorietà straordinaria. Nel 1993 il pittore completa un murale in ceramica, di circa 150 metri quadrati, per la nuova sede del Parlamento Europeo a Bruxelles. Nel 1997 viene costituita a Lugano la “Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares”, e l’artista pubblica la sua autobiografia dal titolo Un grido di colore. Muore a Pollensa, in Spagna, nel 2000. A chiusura delle celebrazioni per il centenario della nascita, nel maggio 2013 la Fondazione Sassu di Pollensa Maiorca-Milano, in collaborazione con il CAFA Art Museum di Pechino (Cina), ha dato vita alla più grande esposizione dell’artista mai fatta fuori dall’Italia, con circa 160 opere dal 1927 al 1997.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

MOSAICO CONTEMPORANEO

UOMINI ROSSI DI ALIGI SASSU

Mostra dei mosaici moderni, catalogo della mostra (Ravenna), a cura di M. Valsecchi, Faenza 1959

R. Usiglio, Gli uomini rossi di Aligi Sassu, Caltanissetta-Roma 1963

Mosaico & mosaicisti, a cura di L. Gavioli, Milano 1988 G. Severini, Lezioni sul mosaico, Ravenna 1988

Gli uomini rossi di Aligi Sassu. Opere 1930-32, catalogo della mostra (Milano) a cura di R. Barletta, Milano 1970

Artinmosaico: la collezione Bisazza, catalogo della mostra (Napoli), a cura di A. Mendini, Milano 1996

Aligi Sassu. Gli uomini rossi 1929-1933, a cura di A. Paglione, presentazione di R. Carrieri, Milano 1971

Mosaico: nuove contaminazioni. Mosaico, architettura, arte, design, catalogo della mostra (Udine), a cura di I. Reale, Pordenone 1997

Sassu. Gli uomini rossi 1930-1933, catalogo della mostra (Firenze) a cura di R. De Grada, testi di G. Vigorelli e R. Barletta, Firenze 1971

Oggetti del desiderio. Mosaico e design, catalogo della mostra (Ravenna), a cura di S. Pegoraro, Milano 1997

G. Vigorelli, Gli uomini rossi. Opere dal 1929 al 1932, catalogo della mostra (Roma), s.l. [Roma] 1971

A. Mendini, Neomosaico, a cura di R. Poletti, Milano-Spilimbergo 1998

L. De Maria, Sassu futurista, Milano 1977

Frammenti di un discorso musivo, catalogo della mostra (Ravenna), a cura di I. Fiorentini, C. Spadoni, Milano 1999 Mosaici moderni, catalogo della mostra (Ravenna) a cura di C. Spadoni, Ravenna 1999 M. Tosi, Il Mosaico Contemporaneo. Tradizione, evoluzione, tecnica e conservazione, Milano 2004

Mosaicoravenna.it. I mosaici contemporanei del Museo d’Arte della città di Ravenna, a cura di C. Spadoni (Centro Internazionale di Documentazione sul Mosaico), Ravenna 2007 Architettura e Mosaico. Conversazioni sul mosaico, a cura di L. Kniffitz, Ravenna 2011

62

E. Fabiani, Gli uomini rossi di Aligi Sassu, Milano 1964

P. Bellini, Aligi Sassu. Catalogo generale dell’opera incisa e litografica, introduzione di E. Steingräber, Milano 1984

Sassu. Disegni del carcere, catalogo della mostra (Trezzo sull’Adda) a cura di M. De Micheli, Milano 1985 W. Spies, Sassu. Gli uomini rossi, Oeuvres 1929-32, catalogo della mostra (Prato), s.l. [Firenze] 1985

Aligi Sassu. Disegni inediti 1927-1987, catalogo della mostra (Treviso) a cura di I. Mussa, Milano 1987 M. Rosci, Aligi Sassu. Disegni 1929-1990, Milano 1991 C. Pedretti, F. Triaca Fabrizi, Catalogo dell’opera incisa e litografica, vol. II, Firenze 1995

V. Fagone, Sassu dal 1930 a Corrente, Quaderni della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo 1995

Aligi Sassu. Gli Uomini Rossi, catalogo della mostra (Aosta), testi di E. Dalla Noce e M. Pasquali, Milano 1996 Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares, a cura di R. Chiappini, testo di M. Pizziolo, Milano 1997 A.Sassu, Un grido di colore, Lugano 1998

Sassu. Uomini Rossi 1930-1933, catalogo della mostra (Lugano) a cura di R. Barilli e R. Chiappini, Lugano 2001 Sassu. Dal mito alla realtà. Dipinti degli Anni Trenta, catalogo della mostra (Milano), testi di G. Bonini, V. Sgarbi, W. Spiess, F. Magalhaes e G.C. Argan, Milano 2008 Aligi Sassu. Uomini Rossi, catalogo della mostra (Legnano) a cura di F. Arensi e G.F. Sassone, Torino 2009 A. Negri, C. Pirovano, Sassu. Catalogo generale della pittura. Volume primo 1926-1962, Milano 2011 A. Negri, C. Pirovano, Sassu. Catalogo generale della pittura. Volume secondo 1963-2000, Milano 2012

1912-2012 Aligi Sassu. The Heart of Innocence. A Centennial Retrospective of Aligi Sassu, Catalogo della mostra (Pechino), testi di W. Huangsheng, W. Qi, V. Sassu Urbina, C. Dan, F. Arensi e F. Lin, Pechino 2013


MONOGRAFIA 2 luglio 2013_gabbiarte 06/09/13 09.17 Pagina 63

INDICE

Il mosaico da cavalletto La Scuola del Mosaico di Ravenna di Linda Kniffitz

5

L’Arte incontra l’Arte di Cecilia Sica

25

Aligi Sassu Un grido di colore di Flavio Arensi

39

Biografia di Aligi Sassu

60

Bibliografia essenziale

62


MONOGRAFIA 2 luglio 2013_gabbiarte 06/09/13 09.17 Pagina 64

Coordinamento editoriale Cecilia Sica Progetto grafico e impaginazione Daniela Tiburtini Redazione Laura Orbicciani Grafico Fabrizio Midei Referenze fotografiche MAR, Collezione Mosaici Contemporanei, Ravenna; Orsoni Mosaici, Venezia; Mario DonĂ Mosaici, Spilimbergo; Marco Santi; Giacomo Banchelli; Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares, Pollensa Maiorca-Milano Stampa e Allestimento Marchesi Grafiche Editoriali SpA, Roma

Finito di stampare nel mese di luglio 2013


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