NoN basta essere architetti per essere architetti! Joseph di Pasquale
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ella tradizione culturale dell’Occidente esiste una differenza tra belle arti e arti applicate. Come tutto ciò che riguarda le fondamenta più antiche della nostra cultura, oltre al dato puramente nozionistico esiste un radicamento profondo di questi archetipi del pensiero nelle nostre modalità percettive, cognitive e finanche nei nostri comportamenti più comuni e quotidiani. Tutto il mondo che ruota intorno alla produzione di un oggetto d’uso, sia esso un vaso miceneo dell’età del bronzo o la lampada ad arco di Achille Castiglioni, afferisce all’universo delle arti applicate, e cioè all’insieme delle applicazioni di forme d’arte alla progettazione e alla decorazione di oggetti finalizzate a renderli esteticamente gradevoli. Negli ultimi decenni, e in modo particolare negli ultimi anni, questo mondo ha avuto una fortissima espansione e addirittura potremmo dire una prevalenza di attenzione rispetto alle così dette “belle arti”. L’esplosione (anche commerciale) delle immagini di “design” e di “moda” sono forse il sintomo più evidente di questo processo che per pervasività comunicativa ha anche intaccato il linguaggio e le prassi di altri mondi della creatività, spesso configurandosi in questi contesti extra territoriali come una vera e propria affezione patologica. L’architettura non è stata affatto immune da questa pesante influenza. Come ogni influenza il sintomo principale è la “febbre”: uno stato di accelerazione dei processi fisiologici e una profonda alterazione del metabolismo che può portare anche al delirio, vale a dire a un linguaggio alterato, fuori dalla realtà e privo di senso. Questa metafora rende bene l’idea di come oggi l’architettura sembra essersi auto declassata ad arte applicata dallo status originario che le spetterebbe di “bella arte”. La competizione commerciale tra i designer sembra avvicinarsi allo scontro tra i brand della moda, e il principale obiettivo delle principali “firme” dell’architettura mondiale è quello di rafforzare il proprio “marchio” la propria identità a prescindere dal luogo e dal contesto di applicazione dei singoli edifici. Emblematiche dal punto di vista del “delirio” le recenti dichiarazioni di Patrik Schumacher (principal dello studio Zaha Hadid) secondo cui la formazione universitaria in architettura avrebbe fallito a causa di docenti ormai del tutto estranei dalla prassi professionale che usano gli studenti per portare avanti punti di vista soggettivi e incapaci di incidere sulla realtà. Schumacher non ha del tutto torto sul punto ma il rimedio che propone è davvero stupefacente. Egli infatti auspica che venga abolita d’imperio tutta questa confusa diversità formativa e venga imposto a tutti l’approccio “parametrico” a suo parere l’unico “oggettivo” e quindi l’unico degno di essere insegnato nelle scuole di architettura di tutto il mondo. A parte il tono delirante di questa dichiarazione da dittatura culturale, diciamola tutta: la metodologia parametrica è solo uno dei tanti approcci per “progettare e decorare un oggetto” (in questo caso architettonico) al fine di renderlo esteticamente gradevole”. Il layout del nuovo aeroporto di Pechino progettato dallo studio Zaha Hadid è stato infatti assunto come dato di partenza. I progettisti si sono occupati esclusivamente (e parametricamente) di generare una forma esteticamente gradevole appunto. In pratica si sono trasformati da progettisti di un’architettura a designer di un oggetto architettonico (bellissimo per altro). Quell’aeroporto può essere infatti collocato ovunque nel mondo. Il fatto che sia in Cina è solo una pura casualità così come la lampada ad arco di Castiglioni si può trovare in un appartamento a New York, a Milano, a Nairobi o in un film di Stanley Kubrick. Per un oggetto è legittimo ma per un’architettura no. Un’architettura è ancorata a un terreno che sta in un luogo fisico, geografico e culturale preciso. Questo “morbo del design” sembra stare contagiando un numero sempre maggiore di architetti. Il confronto diventa competizione incentrata esclusivamente sulla “gradevolezza estetica”, diventan12 l’AI 150
do quindi gratuita, arbitraria e quindi vanitosa, ma soprattutto relegando il ruolo dell’architetto a una posizione marginale e “decorativa”. Tornando alle definizioni nozionistiche, le belle arti dovrebbero mirare invece a dare stimoli culturali e artistici come valori superiori e distinti dalla loro specifica utilità. Soprattutto nei due mondi esiste una fondamentale differenza terminologica tra “estetica” e “bellezza” dove la seconda contiene la prima ma la declina in un contesto nel quale l’obiettivo primario è quello di elevare la condizione umana. Nei momenti generativi della storia dell’architettura era infatti su questi orizzonti che i grandi progettisti si confrontavano, su come cioè l’architettura poteva essere coerente con i nuovi comportamenti e le nuove dinamiche sociali ed economiche che nelle loro epoche si stavano vivendo. Erano personaggi quindi ben ancorati alle dinamiche sociali e culturali delle società che si andavano configurando nella loro contemporaneità, e che mettevano in gioco la loro capacità di immaginare stili di vita, comportamenti e scenari costruiti coerenti e in un certo senso induttivi rispetto a quelle dinamiche. Oggi stiamo vivendo forse la più grande rivoluzione che il genere umano abbia mai vissuto, la rivoluzione digitale, che ha modificato silenziosamente ma radicalmente i nostri comportamenti. Io penso che gli architetti debbano tornare ad avere un ruolo centrale in questi cambiamenti dal momento che solo loro possono davvero dare forma e consistenza alla speranza di cambiamento e di rinnovamento delle nostre città e dei nostri comportamenti. C’è una grande opportunità inclusiva e sociale in questa rivoluzione digitale. Oggi parliamo di smart-city ma lo facciamo impropriamente perché in nessun modo può essere smart un modello di città pensato solo per quella minoranza della popolazione mondiale composta dai “ricchi” (noi), quando invece miliardi di persone vivono ancora nelle baraccopoli, e in condizioni abitative, sociali ed economiche inaccettabili. Sono queste le autentiche sfide ambientali ed etiche che abbiamo l’obbligo di porci come architetti se vogliamo tornare al ruolo che ci spetta come intellettuali. E’ inaccettabile che mentre queste cose succedono gli architetti invece si chiamino fuori dal campo di gioco principale e si accontentino di diventare delle figure marginali, del tutto intercambiabili e in fondo superflue restando nelle retrovie della cultura dedicandosi a imbellettare più o meno gradevolmente degli edifici-oggetto. Il grande sociologo e filosofo spagnolo José Ortega y Gasset aveva lanciato un monito molto appropriato al mondo degli ingegneri per evitare che si riducessero a strumenti tecnici inconsapevoli. Egli diceva loro usando un significativo paradosso che “non basta essere ingegneri per essere ingegneri”, nel senso che gli ingegneri per svolgere a pieno il loro ruolo avevano l’obbligo di non limitarsi alla mera competenza tecnica, ma di estendere i loro interessi e la loro attenzione intellettuale alla sfera culturale, letteraria, politica, filosofica, ecc. Allo stesso modo possiamo rivolgerci agli architetti dei nostri giorni affinché stiano attenti a non ridurre l’architettura solo a una azione di design, riducendosi a diventare gli “estetisti” del mondo costruito, i “coiffeur” di acconciature sociali ed economiche elaborate e immaginate da altri. Io credo invece che per scongiurare il pericolo dell’irrilevanza culturale che questo scenario prefigura per la nostra professione, gli architetti debbano urgentemente ricentrare il loro interesse sulle dinamiche sociali, macro economiche, geopolitiche, antropologiche e comportamentali nell’ambito della rivoluzione digitale che stiamo vivendo per contribuire a orientare queste dinamiche, per dar loro forma, per ritrovare centralità del loro ruolo come intellettuali e tornare a dare il loro insostituibile contributo al miglioramento della condizione umana. Ecco perché vorrei concludere parafrasando Ortega y Gasset e dicendo che anche nel nostro ambito davvero “non basta essere architetti per essere Architetti”!!! l’AI 150 13
il Ne suffit pas d’être architecte pour être architecte ! Joseph di Pasquale
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ans la tradition culturelle occidentale, il existe une différence entre beaux arts et arts appliqués. Comme tout ce qui concerne les fondements les plus anciens de notre culture, outre les données purement notionnistes, ces archétypes de la pensée sont profondément enracinés dans nos modes de perception, de cognition, et même dans nos comportements les plus courants et quotidiens. Tout ce qui tourne autour de la production d’un objet d’usage, qu’il s’agisse d’un vase mycénien de l’âge du bronze ou du lampadaire Arco d’Achille Castiglioni, relève de l’univers des arts appliqués, c’est-àdire de l’ensemble des applications de formes d’art à la conception et à la décoration d’objets visant à les rendre esthétiquement agréables. Ces dernières décennies, et en particulier les dernières années, ce monde a connu une très forte expansion et nous pourrions même dire une prévalence de l’attention par rapport à ce qu’on appelle les “beaux arts”. L’explosion (même commerciale) des images de “design” et de “mode” est peut-être le symptôme le plus évident de ce processus qui, en raison de l’omniprésence de la communication, a également affecté le langage et les pratiques dans d’autres mondes de la créativité, en prenant souvent forme dans ces contextes extraterritoriaux comme une véritable affection pathologique. L’architecture n’est absolument pas immune à cette énorme influence. À l’instar d’un état grippal, le symptôme principal est la “fièvre” : un état d’accélération des processus physiologiques et une altération profonde du métabolisme qui peut également mener au délire, c’est-à-dire à un langage altéré, hors de toute réalité et dénué de sens. Cette métaphore rend bien l’idée de la manière dont l’architecture semble aujourd’hui avoir elle-même rétrogradé du statut d’origine de “beaux arts” qui lui reviendrait, à celui d’art appliqué. La compétition commerciale entre les designers semble se rapprocher du conflit entre les marques de mode, et l’objectif prioritaire des principales “griffes” de l’architecture mondiale est de renforcer leur “marque”, leur identité, indépendamment du lieu et du contexte d’application de chaque bâtiment. Les récentes déclarations de Patrik Schumacher (directeur de l’agence d’architecture Zaha Hadid) sont emblématiques, en termes de “délire” ; selon lui, la formation universitaire en architecture aurait échoué à cause d’enseignants devenus totalement étrangers désormais à la pratique professionnelle, de professeurs qui se servent des étudiants pour poursuivre des points de vue subjectifs et incapables d’impacter la réalité. Schumacher n’a pas tout à fait tort sur ce point, néanmoins, le remède qu’il propose est vraiment étonnant. En effet, il souhaite que soit abolie toute cette diversité d’enseignement confuse et que soit imposée à tous une approche “paramétriciste” qui, à son avis, est l’unique “objectif” et donc le seul digne d’être enseigné dans les écoles d’architecture du monde entier. À part le caractère délirant de cette déclaration digne d’une dictature culturelle, disons-le franchement : le paramétricisme n’est qu’une des nombreuses approches visant à “concevoir et à décorer un objet [dans ce cas d’architecture] afin de le rendre esthétiquement agréable”. Le plan du nouvel aéroport de Pékin, conçu par l’agence Zaha Hadid, a en fait été pris comme point de départ. Les architectes se sont occupés exclusivement (et “paramétricismement”) de générer une forme esthétiquement agréable justement. En pratique, ils sont passés de concepteurs d’une architecture à designers d’un objet architectural (très beau, du reste). De fait, cet aéroport peut être placé n’importe où dans le monde. Le fait qu’il se trouve en Chine n’est qu’un pur hasard, de même qu’on peut trouver le lampadaire Arco de Castiglioni dans un appartement à New York, à Milan, à Nairobi ou dans un film de Stanley Kubrick. Pour un objet c’est normal, mais pour une architecture, non. Une architecture est ancrée sur un terrain qui se trouve dans un lieu physique, géographique et culturel précis. Ce “mal du design” semble contaminer un nombre croissant d’architectes. La confrontation devient une compétition exclusivement axée sur le “plaisir esthétique”, devenant ainsi gratuite, arbitraire et, par consé14 l’AI 150
quent, vaniteuse, mais surtout, reléguant le rôle de l’architecte à une position marginale et “décorative”. Pour en revenir aux définitions notionnistes, les beaux-arts devraient plutôt viser à donner des stimuli culturels et artistiques comme valeurs supérieures et distinctes de leur utilité spécifique. Il existe, surtout dans ces deux mondes, une différence terminologique essentielle entre “esthétique” et “beauté”, où la première inclut la seconde mais la décline dans un contexte où le principal objectif est d’élever la condition humaine. Dans les moments qui ont généré l’histoire de l’architecture, c’était en fait sur ces horizons que les grands architectes se confrontaient, c’est-à-dire sur la manière dont l’architecture pouvait être compatible avec les nouveaux comportements et les nouvelles dynamiques sociales et économiques qu’ils vivaient à leur époque. Par conséquent, c’était des personnages bien ancrés dans les dynamiques sociales et culturelles des sociétés qui se dessinaient à leur époque, et qui mettaient en jeu leur capacité d’imaginer des styles de vie, des comportements et des scénarios construits cohérents et dans un certain sens inductifs par rapport à ces dynamiques. Nous vivons peut-être aujourd’hui la plus grande révolution que le genre humain ait jamais connue, la révolution numérique, qui a modifié nos comportements de manière silencieuse mais radicale. Je pense que les architectes doivent retrouver un rôle central dans ces changements, car ils sont les seuls à pouvoir réellement donner forme et cohérence à l’espoir de changement et de renouveau de nos villes et de nos comportements. Il y a une grande occasion inclusive et sociale dans cette révolution numérique. Nous parlons aujourd’hui de villes intelligentes, mais nous le faisons de manière inappropriée, car en aucun cas un modèle de ville conçu uniquement pour cette minorité de la population mondiale composée de “riches” (nous), ne saurait être intelligent, pendant que des milliards de personnes vivent encore dans des bidonvilles et dans des conditions sociales, économiques et de logement inacceptables. Ce sont là les véritables défis environnementaux et éthiques que nous devons obligatoirement relever en tant qu’architectes si nos voulons revenir au rôle qui nous appartient en tant qu’intellectuels. Il est inacceptable que pendant que ces choses se produisent, les architectes sont appelés hors du terrain de jeu principal et se contentent de devenir des personnages marginaux, totalement interchangeables et finalement, superflus, en restant dans les coulisses de la culture, occupés à l’embellissement plus ou moins agréable des bâtiments-objets. Le grand sociologue et philosophe espagnol José Ortega y Gasset avait donné un avertissement très approprié au monde des ingénieurs pour éviter qu’ils ne finissent par devenir des instruments techniques inconscients. Il leur disait, en employant un paradoxe significatif, qu’“il ne suffit pas d’être ingénieur pour être ingénieur”, en ce sens que pour remplir pleinement leur rôle, les ingénieurs avaient l’obligation de ne pas se limiter à une simple compétence technique, mais devaient étendre leur intérêt et leur attention intellectuelle à la sphère culturelle, littéraire, politique, philosophique, etc. De la même manière, nous pouvons nous adresser aux architectes d’aujourd’hui afin qu’ils veillent à ne pas réduire l’architecture à une simple activité de design, en se limitant ainsi à devenir les “esthéticiens” du monde bâti, les “coiffeurs” de chevelures sociales et économiques élaborées et imaginées par d’autres. Je crois en revanche que pour éviter le risque de décalage culturel que ce scénario préfigure pour leur profession, les architectes doivent de toute urgence recentrer leur intérêt sur les dynamiques sociales, macro-économiques, géopolitiques, anthropologiques et comportementales dans le cadre de la révolution numérique que nous vivons, pour contribuer à orienter ces dynamiques, pour leur donner leur forme, pour retrouver la centralité de leur rôle d’intellectuels et recommencer à donner leur contribution irremplaçable à l’amélioration de la condition humaine. Voilà pourquoi j’aimerais conclure en paraphrasant José Ortega y Gasset, en disant que, vraiment, dans notre domaine aussi “il ne suffit pas d’être architecte pour être Architecte” ! l’AI 150 15
iN order to be architects, it is Not eNough to architects! Joseph di Pasquale
In Western culture a distinction is traditionally made between the fine arts and applied arts. Just like everything else connected with the deepest roots of our culture, there are profound links between these archetypal ways of thinking about our means perception, cognition and even our ordinary day-to-day behavioural patterns. Everything that revolves around the manufacture of an ordinary object, whether it be a Mycenaean vase from the Bronze Age or the arc lamp designed by Achille Castiglioni, concerns the world of applied arts, i.e. all the various applications of art forms aimed at designing and decorating artefacts to make them pleasant to look at or admire. Over the last few decades, and most noticeably over recent years, there has been a real boom in this realm, and we might even say that it receives more attention than the so-called “fine arts”. The explosion (even on a commercial level) in “design” and “fashion” images is, perhaps, the most obvious sign of a process which, on a communications level, is also influenced by the language and methods of other realms of creativity. Indeed, we might even say that it has pathologically infected these other external contexts. Architecture has not been immune from this contagion. Indeed, as with many illnesses, its main symptom is a “fever”: a rapid escalation in physiological processes and a profound altering of the metabolism, which can even lead to delirium or, in other words, speaking in a meaningless way out of touch with reality. This metaphor provides a good idea of how architecture now seems to have demoted itself from its original status as an applied art to a “fine art”. Commercial rivalry between designers is more and more like a clash between fashion brands, and the main aim of the big “names” in global architecture is to strengthen their own “brand” or own identity, regardless of the place or context in which their individual buildings are being constructed. Emblematic of this “delirium” are certain recent statements made by Patrik Schumacher (the principal of Zaha Hadid Architects), according to whom the teaching of architecture at university has failed because university staff are now completely detached from the profession of architecture. Professors are using students to promote their own subjective viewpoints, which have absolutely no impact on reality. There may well be some truth in Schumacher’s first point, but the remedy he is suggesting is quite astonishing. He actually hopes that all this confused diversity of education will be replaced by a “parametric” approach, which, in his opinion, is the only “objective” approach worthy of being taught at schools of architecture around the world. Apart from the delirious tone of this dictatorial cultural claim, it is also worth noting that the parametric method is only one of several approaches to “designing and decorating an object (in this case an architectural artefact) to make it pleasant to look at”. The layout of Beijing’s new airport designed by Zaha Hadid Architects has, in fact, been taken has a reference point. The designers have focused exclusively (and parametrically) on generating an aesthetically pleasing form. Practically speaking, they have transformed themselves from being designers of a work of architecture into designers of an architectural artefact (beautiful indeed, it should be said). The airport could be located anywhere in the world. The fact that it is actually in China is just a mere matter of fact, in the same way that Castiglione’s Arc Lamp could be placed in an apartment in New York, Milan, Nairobi or even a film directed by Stanley Kubrick. That is all well and good in the case of an artefact, but not for a work of architecture. An architectural work is anchored to the ground in a definite physical, geographical and cultural location. This “design disease” seems to be infecting an increasing number of architects. Interaction 16 l’AI 150
turns into competition focused exclusively around “aesthetic pleasantness” making it gratuitous, arbitrary and, hence, vein, but most significantly it makes the architect’s job, something marginal and “decorative”. Returning to our earlier conceptual definitions, the fine arts should focus on cultural-artistic input as higher values serving more than just utilitarian purposes. Most importantly, in these two worlds there is a fundamental terminological difference between “aesthetics” and “beauty”, with the latter encompassing the former but setting it in a context in which its main aim is to raise the status of the human condition. In the early days of the history of architecture, these were the terms on which great architects confronted each other, focusing on how architecture could comply with new behavioural patterns and new socio-economic dynamics as they unfolded back in those times. These leading figures of architecture were perfectly in sync with the socio-cultural dynamics of the societies that were taking shape during their lifetimes. They set about envisaging lifestyles, behavioural patterns and builtscapes coherent with and, in a certain sense, inducive to these dynamics. We are currently, perhaps, experiencing the greatest revolution mankind has ever known, the digital revolution, which has quietly but radically altered our behaviour. I believe that architects must once again have a leading role in these changes, since they are the only people who can give shape and substance to the hopes for change and renewal in both our cities and our behavioural patterns. This digital revolution offers a great inclusive-social opportunity. Nowadays we talk about smart cities but inappropriately so, because there is nothing smart about a model city designed solely for a minority of the world’s population made up of “the rich” (us), while billions of people are still living in shanty towns and unacceptable socio-economic living conditions. These are the real environmental-ethical challenges we have to faceup to as architects, if we wish to win back our rightful role as intellectuals. And it is unacceptable that, while these things happen, architects continue to wander “off the main playing field” and settle for being just marginal figures, totally interchangeable and basically superfluous, shoved into the cultural background as they busy themselves with embellishing (in more or less pleasant ways) their artefact-buildings. The great Spanish sociologist and philosopher, José Ortega y Gasset, once warned the world of engineers that they were in danger of, inadvertently, becoming nothing more than just technical tools or instruments. Using a poignant paradox, he told them that “in order to be an engineer, it is not enough to be an engineer”, in the sense that in order to perform their duties properly engineers could not confine themselves to just technical expertise, but had to extend the scope of their interests and intellectual attention to the realms of culture, literature, politics, philosophy, etc. We could say the same to contemporary architects to prevent them from reducing architecture to mere design, confining themselves to being just the “beauticians” of the building world, the “stylists” making fancy “socio-economic” haircuts actually designed and envisaged by others. I believe, on the other hand, that in order to avoid the risk of architects becoming culturally irrelevant, they must urgently focus their attention on the social, macro-economic, geographical, anthropological and behavioural dynamics found in the various realms of the digital revolution we are witnessing, so as to help guide these dynamics, giving them shape and regaining their own status as intellectuals capable of making a vital contribution to improving the human condition. So, I would like to conclude by paraphrasing Ortega Y Gasset and stating that, even in our realm, “in order to be Architects, it is not enough to be architects”!!! l’AI 150 17