BEYOND THE WALLS OF ARCHITECTURE OR THE IMPORTANCE OF WHAT IS MISSING

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Broken Nature:

OLTRE I MURI DELL’ARCHITETTURA, O DELL’IMPORTANZA DI CIÒ CHE MANCA OUTRE LES MURS DE L’ARCHITECTURE, OU DE L’IMPORTANCE DE CE QUI MANQUE BEYOND THE WALLS OF ARCHITECTURE OR THE IMPORTANCE OF WHAT IS MISSING Joseph di Pasquale

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econdo il pensiero dello psichiatra, psicanalista e filosofo francese Jaques Lacan ciò che costituisce l’essenza più profonda e centrale della condizione umana supera la dimensione del logos ed è quindi impossibile da esprimere. L’unico modo per l’uomo di avvicinarsi alla comprensione del centro dell’essere è appunto attraverso il suo principale sintomo: l’assenza, la mancanza. Se è vero che il pensiero di Lacan ha influenzato assieme ad altri grandi pensatori della seconda metà del secolo quali Rolan Barthes, Levi-Strauss, Michel Foucault, nello sviluppo della psicanalisi ma anche della critica cinematografica e artistica, la mostra “Broken Nature” (natura spezzata) con la quale si inaugura la XXII edizione della Triennale di Milano rappresenta forse la più riuscita applicazione del pensiero Lacaniano. Ed è proprio l’architettura la grande assente di “Broken Nature”. Stefano Boeri lo dice espressamente nel testo introduttivo: oltre i muri dell’architettura, superati i limiti tra spazio urbano e spazio rurale. La Tecnosfera ingloba ormai tutto l’ambiente includendo città, campagna, mare, aria, e tutta la natura in un sistema di reti fisiche e digitali che lo interconnette nella sua totalità. In effetti di muri e di architettura nella mostra non c’è nemmeno l’ombra, salvo ovviamente l’immancabile scuola d’arte de l’Avana di Vittorio Garatti di cui c’è addirittura un plastico. Per il resto di architettura nemmeno l’ombra appunto. E forse dati i presupposti è assolutamente positivo. L’obiettivo dichiarato della mostra è infatti diverso, ed è quello di rivolgersi all’uomo comune, architetti compresi, per fargli comprendere che l’intero ambiente in cui vive è un sistema complesso e soprattutto appunto connesso organicamente da milioni di anni, e composto dall’insieme di tutti gli esseri viventi di cui il genere umano rappresenta solo una parte minimale. Ciò nonostante, in modo un po’ contraddittorio in realtà, l’uomo con la sua “arroganza” sconvolge questa armonia primigenia, la sua superbia antropocentrica genera una perturbazione in questo equilibrio e le conseguenze di questo “peccato originale” contro l’ambiente sono i cambiamenti climatici, il “sudore della fronte” questa volta però generato dall’innalzamento delle temperature globali, e da tutti i squilibri ambientali ad esso collegati di cui è l’uomo stesso a pagarne per primo le conseguenze. L’iniziale “room of change” apre dando alla narrazione una visione “escatologica” complessiva e coerente: un grafico lungo una ventina di metri che occupa tre pareti della sala e su vari livelli ordina cronologicamente vari parametri del “cambiamento climatico” sviluppati negli ultimi due secoli e proiettati fino alla fine del prossimo. Non ci sono numeri né scritte ma solo la ripetizione di teorie sovrapposte di grafici: una grande iconostasi fatta di


simboli e di segni. Un testo consente l’interpretazione, un addetto spiega le immagini e interpreta le scritture. Successivamente la mostra si sviluppa configurandosi nel suo complesso come un tentativo, forse il più compiuto e ambizioso mai realizzato, di definire una sorta di sistema coerente, completo e fondativo di una pseudo-etica ad uso del designer ecologicamente corretto: narrazione sulle origini, la colpa dell’azione umana disordinata, l’elencazione delle minacce, la profezia sul futuro, le best practice, i principi e i modelli comportamentali portati ad esempio e declinati in tutti gli aspetti dell’agire umano, fino ovviamente alla condanna delle politiche di contrasto alla migrazione clandestina, del muro di Trump, e del negazionismo climatico, vale a ride il “crimine” di ipotizzare che l’innalzamento delle temperature globali sia dovuto al succedersi di cicli naturali piuttosto che all’arroganza dell’azione antropica. Io credo che la mostra sia assolutamente riuscita nel suo intento di infondere un forte sentimento di responsabilità nei confronti della natura, un misto di deferenza, mistero e fascino, una sorta di timor naturae che veicola un senso di legame e di appartenenza a un tutto del quale si intende soprattutto evidenziare la forza preponderante della collaborazione tra le specie piuttosto che della competizione distruttiva tra di esse, con particolare riferimento alla sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali da parte dell’uomo naturalmente. Si riesce inoltre a trasferire perfettamente l’importanza delle conseguenze che i nostri comportamenti anche minuti hanno sull’ambiente (il “trim tab” di Buckminster Fuller, il dispositivo che con piccoli movimenti governa il timone e la rotta di una grande nave), evidenzia inoltre come la coscienza e la responsabilità ambientali stiano finalmente iniziando a generare in tutto il mondo sempre maggiori dinamiche di ricomposizione e ripristino delle risorse e di riequilibrio del rapporto con l’ambiente. Dove invece a nostro parere la mostra risulta piuttosto incerta e, forse intenzionalmente, del tutto mancante, è proprio nel definire una strategia e un ruolo in questo contesto al design e all’architettura. Il design “ricostituente” e “riparatore” è il massimo livello di definizione che viene attribuito all’azione progettante. Il design, come scrive la stessa curatrice, Paola Antonelli, si è preso una pausa di riflessione che è tuttora in corso, rispetto alla natura del suo potere. Poco a mio avviso viene dedicato a comprendere la natura dello squilibrio dell’approccio alle risorse naturali. Il limite che la mostra rivela è proprio quello di fermarsi alla celebrazione quasi sacrale di un tutto immanentista senza andare alla radice del

Bernie Krause, United Visual Artist, The Great Animal Orchestra

Bernie Krause, United Visual Artist, The Great Animal Orchestra

Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante

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problema vale a dire le modalità dell’uso delle risorse naturali da parte dell’uomo e soprattutto lo squilibrio della loro distribuzione, che è forse il centro nodale da affrontare, la causa di tutti gli squilibri ambientali che stiamo vivendo. In un certo senso, semplificare l’anomalia del cambiamento climatico come la ribellione arrogante della sua componente umana, fa paradossalmente implodere il ragionamento riportandolo al contrasto semplicistico tra natura-umana e natura-natura. Questa, a nostro avviso, grave mancanza diventa strumentale al fine di evitare di investigare le enormi ingiustizie sociali e distributive che sono alla base del sovra-sfruttamento delle risorse naturali e che sono il vero ambito di azione del design e dell’architettura riscattandoli decisamente dal ruolo in fondo irrilevante in cui sembra relegarli l’esposizione virtuosismi intellettualistici finalizzati alla sola provocazione culturale. Occorre affrancarsi decisamente da un’idea eccessivamente sacrale della Natura per invece spingersi verso un approccio alla natura come bene da preservare e in un certo senso da coltivare, coerentemente con il dinamismo collaborativo dell’interazione trasformatrice e reciprocamente vantaggiosa propria della comunità dei viventi. In quest’ottica non può non essere posta la grande questione della destinazione universale dei beni. La natura non può essere “proprietà”, e di certo non può essere proprietà solo di qualcuno in particolare. Qui va posta la quesitone fondamentale del limite a ciò che è “privato” (nel senso di sottratto) alla condivisione, e del diritto di tutti a interagire liberamente con la porzione di natura che gli è affidata per diritto come appartenente alla comunità dei viventi. Ragionare su questo limite e sulla possibilità di relazionarlo proprio alle cause degli squilibri ambientali generati dall’uomo, sarebbe un approccio utile a immaginare delle risposte ai cambiamenti climatici “orientate al fare e all’agire” che si trasformerebbero in strumenti culturali operativi rispetto alle sfide che aspettano coloro che, ingegneri e architetti, saranno chiamati a dare forma all’ambiente costruito della tecnosfera e alle infinite ramificazioni delle sue infrastrutture fisiche e digitali nei prossimi decenni. In altre parole, risulta difficile immaginare come sia possibile spiegare il punto di vista di “Broken Nature” a un abitante di una favela brasiliana. Come possiamo spiegargli che lui in quanto appartenente al genere umano è corresponsabile dello sfruttamento “arrogante” delle risorse del pianeta? Io credo che egli avrà un’idea ben chiara sulle cause del problema delle risorse. Non è certo lui a iper-sfruttare le risorse del pianeta. Allo stesso tempo non è possibile ovviamente immaginare di ispirarsi alle baraccopoli per elaborare modelli abitativi a bassissimo impatto, realizzati con materiali di riciclo e con rifiuti, al 98 l’AI 148

fine di esportarli anche nei paesi occidentali magari per risolvere il problema dei nuovi poveri, della classe media decaduta e dei migranti. Non lo si può certo fare lasciando che allo stesso tempo capitali finanziari praticamente illimitati controllati da un numero ridottissimo di persone continuino a consumare le parte largamente preponderante delle risorse del pianeta, incrementando la polarizzazione ormai patologica della ricchezza, l’ingiustizia sociale e i conseguenti flussi migratori incontrollati. Sarebbe davvero una beffa per degli intellettuali impegnarsi a persuadere miliardi di persone a modificare i loro comportamenti per vivere senza consumare nulla facendoli sentire responsabili della devastazione del pianeta, e allo stesso tempo far finta di non vedere che un mini club di super ricchi continui a privare il resto dell’umanità della quasi totalità dei benefici e delle ricchezze provenienti dallo sfruttamento delle risorse del pianeta. Entro il 2050 le Nazioni Unite prevedono che saranno necessarie un miliardo di nuove abitazioni a causa dello svilupparsi dei fenomeni globali di inurbamento. Va benissimo quindi preoccuparsi di sensibilizzare l’uomo della strada sul cambiamento climatico, di accrescere la sua consapevolezza dell’appartenenza dell’uomo alla natura intesa come il grande e unico sistema dei viventi, ma questo non può diventare in nessun modo un’arma di distrazione di massa per evitare di puntare i riflettori sul vero macro squilibrio economico e sociale prima ancora che ambientale: vale a dire l’ormai inaccettabile polarizzazione distributiva delle risorse. Questo squilibrio basato sull’egoismo e in ultima analisi su quel “greed” (avidità) che Michael Douglas nel film Wall Street professa come la vera unica forza che spinge il mondo a competere e gli uomini a divorarsi gli uni gli altri, è probabilmente la radice vera anche del problema della “natura spezzata”. Oltre agli uomini infatti l’avidità di Wall Street (sempre il film) divora e distrugge anche la natura stessa. Proprio quella natura raccontata da “Broken Nature” rende invece evidente la necessità di pensare a modelli economici e di sviluppo alternativi, dimostrando chiaramente come le forze largamente vincenti nella storia evolutiva della natura non siano l’avidità e la competizione, ma al contrario la solidarietà e la collaborazione tra le specie viventi. E’ ancora “Broken Nature” infatti che ci illumina su come sia esattamente questa collaborazione solidale l’origine creativa (e qui ci starebbero a pieno titolo il design e l’architettura) della meravigliosa biodiversità che pervade l’intera comunità dei viventi, e non l’arroganza di una competizione distruttiva tra le specie o all’interno di una stessa specie. E’ questo il passaggio essenziale di cui assordante si manifesta la mancanza in questa esposizione!


Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante

Outre les murs de l’architecture, ou de l’importance de ce qui manque

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Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante

Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante

elon le psychiatre, psychanalyste et philosophe français Jacques Lacan, ce qui constitue l’essence la plus profonde de la condition humaine dépasse la dimension du logos et, par conséquent, est impossible à exprimer. La seule façon pour l’homme de tenter de comprendre le centre de l’être est justement à travers son symptôme principal : l’absence, le manque. S’il est vrai qu’avec d’autres grands penseurs du siècle dernier, tels que Roland Barthes, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Lacan a influencé l’évolution de la psychanalyse, mais aussi de la critique cinématographique et artistique, l’exposition “Broken Nature” (Nature brisée) qui ouvre la XXIIe édition de la Triennale de Milan représente peut-être l’application la plus réussie de la pensée lacanienne. Et c’est justement l’architecture qui est la grande absente de “Broken Nature”. Stefano Boeri le dit clairement dans le texte d’introduction : outre les murs de l’architecture, au-delà des limites entre espace urbain et espace rural. La technosphère englobe désormais tout l’environnement, c’est-àdire la ville, la campagne, la mer, les airs, et la nature tout entière dans un système de réseaux physiques et numériques qui le relie dans sa totalité. En effet, pas l’ombre de murs ni d’architectures dans cette exposition, sauf, évidemment, l’inévitable école d’art de la Havane de Vittorio Garatti, dont il existe même une maquette. Pour le reste, il n’y a pas l’ombre d’une architecture en réalité. Et peut-être que, vu la situation, c’est tout à fait positif. En fait, l’objectif déclaré de l’exposition est différent, et consiste à s’adresser à l’homme de la rue, architectes compris, pour lui faire comprendre que l’environnement dans lequel il vit est un système complexe et surtout, que tout y est organiquement lié depuis des millions d’années, qu’il est composé de tous les êtres vivants dont le genre humain ne représente qu’une infime partie. Néanmoins, de manière quelque peu contradictoire à vrai dire, l’homme, avec son “arrogance”, détruit cette harmonie primordiale, son orgueil anthropocentrique perturbe cet équilibre et les conséquences de ce “péché originel” commis contre l’environnement sont les changements climatiques, la “sueur au front” causée cette fois par l’augmentation des températures globales, et par tous les déséquilibres environnementaux qui en résultent, dont l’homme est le premier à pâtir. La “room of change” initiale s’ouvre en donnant au récit une vision “eschatologique” globale et cohérente : un graphique d’une vingtaine de mètres de long occupe trois murs de la salle et à différentes hauteurs, ordonne chronologiquement les divers paramètres du “changement climatique” développés au cours des deux derl’AI 148 99


niers siècles et allant jusqu’à la fin du prochain. Il n’y a ni chiffres ni lettres, mais seulement la répétition de théories couvertes de graphiques : une grande iconostase faite de signes et de symboles. Un texte permet de l’interpréter, un préposé explique les images et les écrits. L’exposition se développe ensuite en se présentant comme une tentative, peut-être la plus aboutie et la plus ambitieuse jamais réalisée, de définir une sorte de système cohérent, complet et fondateur d’une pseudo-éthique à l’usage du designer écologiquement correct : récit sur les origines, culpabilité de l’action chaotique des hommes, énumération des dangers, prophétie sur le futur, best practice, principes et modèles de comportement comme exemples, tenant compte de tous les aspects des agissements humains, jusqu’à, évidemment, la condamnation des politiques mises en œuvre contre l’immigration clandestine, le mur de Trump, et les négationnistes du changement climatiques, c’est-à-dire le “crime” de formuler l’hypothèse que l’augmentation des températures globales est due à la succession de cycles naturels plutôt qu’à l’arrogance de l’action anthropique. Je crois que l’exposition a parfaitement atteint son objectif, qui était d’induire un profond sentiment de responsabilité à l’égard de la nature, un mélange de déférence, de mystère et de fascination, une sorte de timor naturae qui procure un sentiment de lien et d’appartenance à un tout duquel on entend souligner avant tout la force prépondérante de la collaboration entre espèces plutôt que la concurrence destructrice, en se référant plus particulièrement à l’exploitation outrancière des ressources naturelles, par l’homme évidemment. Elle réussit notamment à transmettre parfaitement l’importance des conséquences de nos comportements sur l’environnement, même ceux de quelques minutes, (le “trim tab” [compensateur] de Buckminster Fuller, ce dispositif qui commande avec de petits mouvements le gouvernail et la route d’un grand navire), en soulignant notamment que la conscience et la responsabilité en matière d’environnement commencent finalement à générer toujours plus dans le monde entier une dynamique de recomposition et de rétablissement des ressources, et de rééquilibre de la relation avec la nature. Là où, à notre avis, l’exposition s’avère plutôt floue et, peut-être intentionnellement, totalement absente, c’est précisément dans la définition d’une stratégie et d’un rôle pour le design et l’architecture dans un tel contexte. Le design “reconstituant” et “réparateur” est le niveau de définition maximum attribué à l’action qui conçoit. Le design, comme l’écrit la curatrice Paola Antonelli, s’est accordé une pause de réflexion qui n’est pas encore terminée, sur la nature de son pouvoir. À mon avis, on ne fait pas grand-chose pour comprendre la nature du déséquilibre dans l’approche des ressources naturelles. La limite que révèle l’exposition est précisément de s’arrêter à la célébration presque sa100 l’AI 148

crée d’un tout immanentiste sans aller à la racine du problème, c’est-à-dire la manière dont l’homme utilise les ressources naturelles et surtout, l’inégalité de leur répartition, qui est peut-être le point essentiel à affronter, la cause de tous les déséquilibres environnementaux que nous vivons. Dans un certain sens, paradoxalement, simplifier l’anomalie du changement climatique comme signe de rébellion arrogante de sa composante humaine, fait imploser le raisonnement en le ramenant au conflit simpliste entre nature-humaine et nature-nature. Ce manque grave sert à d’éviter d’enquêter sur les énormes injustices sociales et l’inégalité dans la répartition des ressources qui sont à la base de la surexploitation des ressources naturelles et qui constituent le véritable champ d’action du design et de l’architecture, en les sauvant du rôle somme toute insignifiant auquel l’exposition semble les reléguer, dans une maestria intellectualiste visant uniquement la provocation culturelle. Il faut absolument s’affranchir d’une idée trop sacrée de la Nature pour se tourner en revanche vers une approche de la nature vue comme bien à préserver et dans un certain sens, à cultiver, en tenant compte du dynamisme collaboratif de l’interaction transformatrice et mutuellement avantageuse propre à la communauté des êtres vivants. Vu sous cet angle, on ne peut manquer de se poser la grande question de la destination universelle des ressources. La nature ne peut être une “propriété”, et ne peut certainement pas être la propriété de quelqu’un en particulier. Ici la question fondamentale de la limite de ce qui est “soustrait” au partage ne peut pas ne pas être posée, ainsi que celle du droit de chacun d’interagir librement avec la part de nature qui lui est confiée de droit en tant que membre appartenant à la communauté des êtres vivants. Réfléchir à cette limite et à la possibilité de la relier aux causes de déséquilibres environnementaux produits par l’homme serait une approche utile pour formuler des réponses aux changements climatiques “visant à faire et à agir” qui deviendraient des outils culturels opérationnels face aux défis qui attendent ceux, ingénieurs et architectes compris, qui seront appelés à donner forme à l’environnement bâti de la technosphère et aux ramifications infinies de ses infrastructures physiques et numériques dans les prochaines décennies. En d’autres termes, il est difficile d’imaginer comment expliquer l’approche de “Broken Nature” à un habitant d’une favela brésilienne. Comment lui expliquer que, vu qu’il appartient au genre humain, il est coresponsable de l’exploitation “arrogante” des ressources naturelles de la planète ? Je pense qu’il a une idée très claire des causes du problème lié aux ressources naturelles. Ce n’est certainement pas lui qui surexploite les ressources de la Terre. En même temps, on ne peut évidemment pas envisager de s’inspirer des bidonvilles pour développer des modèles de logements à très faible impact environnemental, réalisés avec des déchets et


des matériaux recyclés, afin de les exporter aussi dans les pays occidentaux et, tant qu’on y est, pour résoudre le problème des nouveaux pauvres, des migrants, et du déclin de la classe moyenne. Cela ne peut certainement pas être fait en continuant de laisser les capitaux financiers pratiquement illimités et contrôlés par un très petit nombre de personnes, consommer la majeure partie des ressources du globe, augmentant ainsi la polarisation désormais pathologique de la richesse, l’injustice sociale, et les flux migratoires incontrôlés qui en résultent. Ce serait vraiment un comble pour des intellectuels que de se mettre à convaincre des milliards de personnes de changer leurs comportements pour vivre en ne consommant rien, et en les faisant se sentir responsables de la dévastation de la planète, tout en feignant d’ignorer que le club très privé des super-riches du globe continue de priver le reste de l’humanité de la quasi totalité des bénéfices et des richesses provenant de l’exploitation des ressources naturelles. Selon les dernières projections de l’ONU, d’ici 2050, un milliard de nouveaux logements seront nécessaires en raison du phénomène d’urbanisation de la population mondiale. Alors c’est très bien de vouloir sensibiliser l’homme de la rue au changement climatique, de développer son sentiment d’appartenance à la nature considérée comme l’unique grand système des êtres vivants, mais encore faudrait-il que cela ne devienne pas une arme de distraction massive visant à éviter de braquer les projecteurs sur les véritables déséquilibres macroéconomiques et sociaux, et pas seulement environnementaux, c’est-à-dire la polarisation désormais inacceptable de la répartition des ressources. Ce déséquilibre fondé sur l’égoïsme et en définitive sur ce “greed” (avidité) que Michael Douglas dans le film Wall Street prétend être la seule véritable force qui pousse le monde à la concurrence et les hommes à s’entre-dévorer, est probablement aussi la vraie racine du problème de la “Nature brisée”. Outre les hommes en effet, l’avidité de Wall Street (toujours le film) dévore et détruit aussi la nature elle-même. C’est précisément cette nature que raconte “Broken Nature” qui met l’accent sur la nécessité de concevoir d’autres modèles économiques et de développement, en démontrant clairement que les forces qui gagnent haut la main dans l’histoire évolutive de la nature ne sont ni l’avidité ni la concurrence, mais bien la solidarité et la collaboration entre les espèces vivantes. Et c’est encore “Broken Nature” qui nous éclaire sur le fait que c’est précisément cette solidarité qui est l’origine créatrice (et ici le design et l’architecture trouvent une place de tout premier plan) de la merveilleuse biodiversité qui caractérise toute la communauté des êtres vivants, et non l’arrogance d’une concurrence destructrice entre les espèces ou au sein d’une même espèce. Ceci est le passage essentiel dont l’absence dans cette exposition est assourdissante !

Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante

NCS (mr. Nyein Chan Su), DreamScape Series, Shan State, 2018

Sri Lanka Pavilion, A piece of Sky

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Beyond the walls of architecture or the importance of what is missing

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ccording to Jacques Lacan, the great French psychiatrist, psychoanalyst and philosopher, man’s deepest and most profound essence cannot be grasped in words and so it cannot be expressed. The only way for man to understand the very centre of his being is through the notion of absence or of something lacking. Lacan’s thinking, which certainly influenced lots of other great late 20th-century thinkers such as Roland Barthes, Levi-Strauss and Michel Foucault, also contributed to the development of psychoanalysis and other fields of study, such as film/art criticism, and I think it would be fair to say that the exhibition entitled “Broken Nature”, which marks the opening of the XXII edition of the Milan Triennial, is perhaps the most successful application of Lacan’s line of thinking. Architecture is what is missing or absent from “Broken Nature”. Stefano Boeri openly admits this in his introductory text: beyond the walls of architecture, beyond the boundaries between open space and rural space. The Technosphere now encompasses the entire environment, covering our cities, countryside, seas, air and the entire planet with a system of physical and digital networks that interconnect it in its entirety. There is not the slightest trace of walls or architecture in the exhibition, except of course for Vittorio Garatti’s Havana School of Art, as usual, of which there is even a scale model. Other than that, there is absolutely no architecture. And, bearing in mind the assumptions on which it is based, perhaps this is a very positive thing. The exhibition’s openly-avowed intent is something quite different. It aims at making the whole of mankind, including architects, aware that the entire environment in which they live is a complex system and, more specifically, that this system has been structurally connected for millions of years and is composed of myriad living things of which human beings are only a small part. Despite this fact and (to be honest) in a rather contradictory way, man’s “arrogance” has managed to destroy this primaeval harmony, his self-centred selfishness has generated an imbalance and the consequences of this “original sin” against the environment are climate change, “a sweat brow” caused by a rise in global temperatures, and all the environmental imbalances this entails, with people themselves being the first to pay the consequences. The first so-called “room of change” describes an all-encompassing and coherent “eschatological” vi102 l’AI 148

sion: a twenty-metre graphic design taking up three walls of the room and setting down (on various levels) the various parameters of the “climate change” that has taken place over the last two centuries and how it is expected to progress through until the end of next century. There are no written numbers just reiterated theories with graphics over them: a giant iconostasis of signs and symbols. A written text provides an interpretation, and a member of staff explains the pictures and interprets the writing. The exhibition then unfolds like an attempt, perhaps the most unfinished and ambitious ever made, to define a sort of coherent, complete and explanatory rendering of a kind of eco-friendly designer-oriented pseudo-ethics: a story of its origins, the damage caused by disorderly human intervention, a list of the threats, a prophecy about the future, best practices, principles and behavioural models given as examples and referring to every aspect of human endeavour, all culminating in a condemnation of policies against illegal immigration, Trump’s wall. and climate-change denial: i.e. the “crime” of suggesting that the rise in global temperatures might be due to a sequence of natural cycles rather than the arrogance of man’s own actions. I believe the exhibition has completely succeeded in its intent of instilling a powerful feeling of responsibility towards nature, a mixture of deference, mystery and fascination, a kind of timor naturae conveying a sense of belonging to an ‘everything’, focusing more on the overwhelming force of cooperation between different species rather than any kind of destructive rivalry between them, with special reference to the so-called exploitation of natural resources by (needless to say) human beings. It also successfully conveys the importance of the consequences for the environment of even the least significant things we do (Buckminster Fuller’s “trim tab”, a device whose slightest movements control the rudder and course taken by a huge ship), also highlighting the fact that environmental awareness and responsibility are finally beginning to globally generate a general regenerating of resources and rebalancing of relations with the environment. In our opinion, the exhibition is rather uncertain and (perhaps intentionally) completely lacking when it comes to defining the strategy and role for design and architecture might play within this general framework. Design is, at most, referred to as “reconstituting” and “reparatory”. As the curator, Paola Antonelli, herself writes, design has taken time out to think about the nature of its power, a break that is still continuing. In my opinion, very little attention is paid to understanding the nature of the lack of balance in our approach to human resources. The exhibition’s


Australia Pavilion, Teatro della Terra Alienata

Agnieszka Kurant, A.A.I 7, 2015

Australia Pavilion, Teatro della Terra Alienata

shortcoming is that of merely celebrating a kind of all-pervasiveness without getting to the real root of the problem, i.e. how people use natural resources and, above all, the inequality in their distribution, which is perhaps the real issue, the cause of all the environmental imbalances we are experiencing. In a certain sense, simplifying the anomaly of climate change by attributing it solely to man’s arrogance causes, paradoxically, our reasoning to implode, resulting in a simplistic contrast between nature-humour and nature-nature. In our view, this serious shortcoming (or absence) is instrumental in preventing us from enquiring into the enormous social-distributive injustices lying at the very foundations of the over-exploitation of natural resources. This is where design and architecture could really come into their own, playing a much more important role than they have in this exhibition, where they are treated as little more than a display of intellectual virtuosity aimed at merely causing a cultural outcry. We need to break free from an excessively reverent idea of Nature, so that we can approach nature as something that needs to be looked after and (in some sense) cultivated, in line with the kind of transformative and reciprocally beneficial interaction we associate with human beings. In this context, we are bound to pose the question of what belongs to whom. Nature cannot be anybody’s “property”, let alone the property of somebody in particular. Here we need to look at the fundamental issue of the limits of what we can be deprived of sharing in and of everybody’s right to freely interact with that part of nature that belongs to them by right as a member of the community of living things. Thinking about these limits and the possibility of relating it to the causes of environmental imbalances due to people might be a useful way of coming up with solutions to climate change that are “focused on doing and taking action”, which might become cultural tools that engineers and architects could use when taking on the challenge of giving shape to the Technosphere and the endless ramifications of its physical-digital infrastructures over coming decades. In other words, it is hard to imagine how we could explain the point of view of “Broken Nature” to somebody who lives in a Brazilian favela. How can we explain to them that as a member of the human race they are co-responsible for the “arrogant” exploitation of the planet’s resources? I think they will have a very clear idea about the causes of the problem of resources. These people certainly are not responsible for over-exploiting the planet’s resources. At the same time, we clearly cannot draw inspiration from shanty towns when drawing up extremely l’AI 148 103


low-impact models of housing built out of recycled materials and waste ready to be exported to Western countries to solve the problem of a new class of poor people, the downtrodden middle classes, and migrants. We certainly cannot do this while, at the same time, allowing virtually boundless financial capital controlled by a very small number of people to keep on consuming most of the planet’s resources while increasing the almost pathological polarity in wealth and social injustice in the world and generating uncontrolled migratory flows. It would quite frankly be embarrassing for intellectuals to try and persuade billions of people to change their behaviour and live along zero-consumption lines, making them feel responsible for the devastation to our planet, while at the same time pretending not to notice that there is a tiny group of superrich people depriving the rest of mankind of almost all the benefits and riches coming from the exploitation of the planet’s resources. By 2050, the United Nations calculates that a further one billion new homes will be needed to cope with the boom in global urbanisation. This means we are quite right to be concerned about informing the man in the street about climate change, raising ordinary people’s awareness of the fact that man belongs to nature viewed as one huge system of living beings, but this must not become a means of distracting the masses to avoid focusing the spotlight on the real imbalance in society, which is more socio-economic than environmental: i.e. the now unacceptable polarisation in the distribution of resources. This imbalance, which comes from selfishness and, ultimately, from a kind of greed which, in the film Wall Street, Michael Douglas claimed was the only real force in the world driving people to complete against and devour each other, is probably the real root of the problem of our “broken nature”. The greed referred to in the film Wall Street not only devours people, it also destroys nature itself. “Broken Nature” focuses on the need to develop alternative economic models and forms of growth, clearly highlighting that the overwhelmingly successful forces in nature’s evolutionary history are not greed and competition but, on the contrary, solidarity and cooperation between living species. And here again “Broken Nature” clearly indicates that this kind of cooperation is the true creative source (and this is where design and architecture really have something to offer) of the incredible biodiversity characterising our entire community of living beings, not the arrogance of destructive competition between species or within one single species. This is the crucial point that is so deafeningly absent and missing from this exhibition! 104 l’AI 148

Roberto Feo, Rosario Hurtado, El Ultimo Grito, The Fallacy of the Closed System (Malfictions), 2017

Brecht Duijf and Lenneke Langenhuijsen of buro BELÉN, SUN+, 2012-18

Anna Citelli, Raoul Bretzel, Capsula Mundi, 2003


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