ABITARE LE ROVINE UN’IDEA DI MUSEO ALL’APERTO
UN PERCORSO espositivo ed esplorativo
Politecnico di Milano, Corso di Laurea Magistrale in Interior Design. Relatore: Andrea Branzi. Correlatore: Francesca Arista Balena Tesi di Jessica Bonaccio. Coautori Elena Jovanoska e Giada Daolio. A.A. 2011-2012
ABITARE LE ROVINE Un’idea di museo all’aperto
UN PERCORSO espositivo ed esplorativo
Politecnico di Milano, Corso di Laurea Magistrale in Interior Design. Relatore: Andrea Branzi. Correlatore: Francesca Arista Balena Tesi di Jessica Bonaccio. Coautori Elena Jovanoska e Giada Daolio. A.A. 2011-2012
INDICE Abstract 2 Introduzione 4 PARTE I. Analisi 1.
Riuso e reinterpretazione delle rovine
13
2. Il museo 27 3. La Pittura come gesto 39 3.1 L’interpretazione dello spettatore 41 3.2 L’arte informale 43 3.3 I graffiti 47 4. Gli artisti e le opere
57
5. La copia 75 6. Il fuoriscala 87 Riflessioni
101
1. 1.2 1.3 1.4
Dal contesto al progetto: il modello I tappeti I supporti appesi I suppori a terra
107 123 129 155
2.
I percorsi
173
3.
Visione nottura
193
Conclusioni
196
PARTE II. Progetto La Mostra. Un percorso esplorativo ed espositivo
Indice iconografico Bibliografia
2
Abstract Rovine, evocazioni intrise di vissuto, disseminate negli spazi urbani tra colate di cemento senza fine. Si ergono quasi dimenticate, in un intruglio di grigiore che ne spegne ogni poesia. Eppure sono vive e racchiudono il fascino e il mistero di una dimensione lontana, ma presente. Il progetto viene rappresentato tramite una falsa rovina, che in realtà fornisce campo di sperimentazione per cercare di capire come relazionarsi alle rovine reali. Si presenta sotto forma di collage, che unisce ruderi appartenenti ad epoche e luoghi diversi, in modo da astrarre il possibile riferimento ad una specifica situazione, oltre che per evidenziare il concetto di stratificazione storica. La realizzazione è basata sulla tecnica di una demolizione costruita e lo scopo è di enfattizzare l’aspetto scenografico e drammaturgico delle rovine, elemento fondamentale e connotativo del paesaggio. Viene inoltre presentata la prova teorica di recinto abitabile che circoscrive un ipotetico sito in rovina, con lo scopo di valorizzare patrimoni culturali, come Pompei o L’Aquila, rendendoli fruibili e consentendo contemporaneamente eventuali interventi specifici per la loro conservazione. In questo modo si è giunti ad un concetto innovativo di museo all’aperto in quanto le rovine, elemento scenografico inserito nel paesaggio, e l’allestimento di opere d’arte contemporanea, sono messe in relazione tramite una struttura perimetrale permeabile e leggera, che assume le caratteristiche di una teca espositiva e dell’edificio museale. La configurazione del recinto abitabile è nata proprio dall’esigenza di raccordare elementi, e relativi passaggi di scala, totalmente differenti. Le opere esposte assumeranno le dimensioni dell’architettura, instaurando un dialogo con le rovine stesse e fungendo da espediente per la loro riscoperta. In contrapposizione alla forte matericità delle rovine, l’allestimento sarà un apparato leggero e sospeso, senza percorso prestabilito, poiché sono esposte le opere e al contempo le rovine intere. Per facilitare il percorso e permettere la permeabilità su tutto il terreno, sono state progettate delle passerelle, che vanno viste come il superamento di un ostacolo, nel nostro caso le macerie depositate sul pavimento, per rendere ancora più fruibile il cammino.
4
Introduzione
“L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costante-
riguardo il progetto sul tema “Abitare le Rovine” affrontato
mente il suo “non ancora”, è anche già sempre la sua morte.”
nell’ambito del Laboratorio di Interni del primo anno di Laurea specialistica. Il tema è stato proposto dagli architetti Andrea Branzi e Michele De Lucchi come occasione di riflessio-
L’urbanizzazione del mondo si accompagna a delle modi-
ne riguardo gli eventi sismici verificatisi a L’Aquila nell’aprile
ficazioni di ciò che può essere definito «urbano». Queste
del 2009.
modificazioni sono in rapporto con l’organizzazione della cir-
Perchè, da circa un secolo ad oggi, la cultura del progetto
colazione, le migrazioni e gli spostamenti di popolazione, il
sembra aver abbandonato l’interesse per ciò che, nei secoli,
confronto fra ricchezza e povertà; ma si possono considerare,
ha costruito una solida “cultura delle rovine”? La fede nella
con una visione più larga, come un’espansione della violen-
certezza del sistema industriale ha eliminato la possibilità del
za bellica, politica e sociale. C’è infatti la violenza all’origine
fallimento proponendo unicamente soluzioni positive. Eppu-
delle ristrutturazioni urbane e soprattutto dei cantieri che in
re è palese che la situazione politica, economica, sociale e
varie parti del mondo testimoniano sia gli scontri che hanno
culturale odierna presenta tutt’altra prospettiva: viviamo in
prodotto le rovine, sia il volontarismo che presiede alle rico-
un periodo di crisi a livello globale ma il mondo del progetto
struzioni. Il crollo delle torri di Manhattan è esemplare: esso
sembra aver preso le distanze dalle problematiche della vita
esprime un cambiamento di scala e nuove forme di violenza;
reale per concentrarsi sulla produzione di una dimensione
è il frutto della guerra civile planetaria. Inoltre, in un secolo
parallella, rassicurante quanto fittizia. Invece è proprio ora
che privilegia lo stereotipo, la copia o il facsimile, diventerà
che le rovine devono tornare a insegnarci qualcosa: da quelle
ben presto l’esempio più convincente di quello che potrebbe
reali, come Pompei e L’Aquila, alle false rovine costruite e im-
essere chiamato il paradosso delle rovine: “è proprio nell’ora
maginate, come nelle rappresentazioni visionarie di Piranesi
delle distruzioni più massicce, nell’ora della massima capaci-
e di Michelucci.
tà di annientamento, che le rovine scompariranno come realtà e come concetto”.
“L’immagine degli edifici del centro storico – nei quali spesso sono rimaste in piedi solo le facciate, quinte scenografiche
Le riflessioni che Marc Augè ha espresso nel saggio Rovine
sorrette dai puntellamenti – e la sensazione che la città sia
e Macerie hanno costituito la fondamentale premessa teorica
come un diorama di un tempo perduto, sospesa tra realtà
5
e finzione, spingono a misurarsi con l’impatto devastante e
La sperimentazione sulla tipologia della falsa rovina ci ha
drammatico, non privo di un ambiguo fascino, suscitato da
permesso di essere libere nella progettazione dello spazio
questo scenario. Nel solco della “cultura delle rovine” che ha
connotato dai ruderi potendone così esplorare le potenzialità
un’importante tradizione nel pensiero occidentale, l’esperi-
a livello progettuale ed espressivo senza la necessità di con-
mento didattico ho voluto esaminare sia la visione estetizzan-
siderare la contingenza del reperto storico come documento,
te che accompagna spesso i resti, sia l’aspetto drammatico,
con tutte le problematiche che questo comporta. Infatti, nella
producendo una sorta di teatralizzazione in cui le macerie
seconda fase del Laboratorio si è avanzata l’ipotesi di rendere
sono lette come realtà espressive autonome che rappresenta-
nuovamente fruibili gli isolati in rovina tramite infrastrutture
no, con la loro fragilità, una metafora dell’attuale diffuso con-
reversibili: una rete di pilastri a traliccio e passerelle in quo-
testo di crisi che investe il mondo contemporaneo”.
ta, integrante i sistemi di risalita e alcuni servizi. Lo scopo era quello di creare un percorso continuo, sospeso e distante
Un presupposto necessario consiste nell’aver considerato le
rispetto al livello degli edifici diruti, per rendere nuovamente
rovine parte fondamentale del percorso progettuale: partendo
percorribile il sito: i ruderi diventano elemento centrale nel-
da tre isolati in scala 1:100, abbiamo imparato a progettare, a
la creazione di un paesaggio narrativo, simbolo della nuova,
costruire e anche a distruggere per dar vita ad un’interpreta-
auspicabile drammaturgia cui il progetto può far riferimento.
zione personale del concetto di rovina che, nonostante l’ine-
Riguardo alla temporaneità di questo sistema semplice e li-
vitabile rimando a quelle reali, entrano a far parte della nobile
neare, è importante sottolineare quanto tale caratteristica sia
tradizione delle false rovine.
sempre relativa alla scala e alla tipologia di intervento oltre che a una complessa varietà di altri fattori. D’altronde, le in-
“Questa prima fase del progetto ha prodotto visioni a volte
numerevoli situazioni d’emergenza post-catastrofe che sono
realistiche a volte metafisiche, una mappatura di distruzioni
state affrontate in Italia, come all’estero, costituiscono la pro-
diverse: edifici diruti, anneriti da incendi, nuovi a brandelli che
va concreta di quanto sia difficile, se non impossibile, stimare
sembrano a volte quasi sciogliersi, liquefarsi, facciate con le
Kobe, ma anche al caso limite degli abitanti di Avezzano che
finestre sfondate come da un’esplosione atomica. In questo
ancora oggi, dopo più di 100 anni, hanno adattato le soluzioni
scenario immobile il progetto è chiamato a operare con gli
abitative “temporanee” alla normale vita quotidiana; pensia-
strumenti che gli sono propri”.
mo a Nuova Gibellina, poichè la Vecchia è stata sepolta dal
6
Grande Cretto di Burri, unico modo per donare ancora signi-
pologie di rudere che, indipendentemente dal periodo storico
ficato ad un luogo altrimenti senza futuro.
d’origine o dalle cause che le hanno determinate, si possono
Pensiamo che “nei 10 o addirittura 20 anni che s’ipotizza po-
inscrivere nella duplice condizione del “sito in abbandono”
tranno passare da qui alla sua ricostruzione, L’Aquila sarà una
oppure del “sito musealizzato”.
città transitoria in cerca di una nuova forma” (Balena, 2012).
In secondo luogo l’intento che ci siamo proposte attraverso il
Dunque l’opportunità di questo approccio si rivela sotto mol-
progetto è quello di sperimentare modalità innovative di valo-
teplici aspetti tutt’altro che pindarici: da una parte l’ipotesi di
rizzazione riguardo le possibilità narrative delle rovine agendo
intervenire immediatamente, ancora prima che si pongano le
sull’intero sito, sia spazi “interni” sia immediatamente “ester-
lunghe e complesse questioni sul come gestire le rovine e
ni” ad esse, per creare una sorta di paesaggio temporale.
le macerie; dall’altra la prontezza nell’offrire una via di fuga
Paesaggio che è simultaneamente costituito da elementi na-
o, meglio, nuove prospettive alle persone cadute improvvi-
turali e da elementi appartenenti alla cultura umana. Infatti
samente in un vuoto che sembra incolmabile, soprattutto nel
consideriamo le rovine sia come entità in cui la natura ha ri-
logorio dell’attesa che qualcosa accada.
preso possesso delle tracce lasciate dall’uomo nel tempo sia
Infine cogliamo la possibilità di elaborare il disastro, che nella
come segno dell’uomo nel creato e di cui il tempo continua a
maggior parte dei casi possiamo chiamare “naturale fluire del
manipolare l’immagine. In tale contesto trovano posto anche
tempo”, come un’opportunità estremamente stimolante ri-
altre opere d’arte, appartenenti alla cultura contemporanea,
guardo la sperimentazione di scenari inediti: questa “nuova
rielaborazioni di segni primitivi che esprimono la loro forza
drammaturgia”(Branzi, 2011) paradossalmente potrebbe ri-
nell’immediatezza del gesto. Un paesaggio temporale, sim-
sollevare le sorti di una cultura del progetto che verte nell’in-
bolo del continuo mutamento e della circolarità degli eventi.
discriminante crisi della contemporaneità. In primo luogo l’in-
Dunque una dimensione preziosa, di una soave drammaticità,
tervento oggetto di questa trattazione mira a rendere fruibile
circoscritta da un recinto sottile e leggero, una struttura re-
un sito storico che, seppur immaginato, non è privo di legame
versibile ma necessaria a creare una soglia di scambio fra
con la realtà, in quanto ne costituisce una chiara rappresen-
questo “mondo” e un contesto più ampio, un vuoto di cui
tazione. Questo, che si delinea come un microcosmo, tende,
non si conosce la forma, il suono, la quantità, un “luogo” più
nel suo essere porzione di un sistema generico, a costituire
vicino al reale di quanto ogni immagine potrebbe narrare.
il simbolo di un generico stato di fatto riguardante tutte le ti-
In questo modo abbiamo elaborato un progetto costituito da
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tre parti distinte (rovine, recinto, allestimento) che concorro-
loro riscoperta. Il metodo allestitivo sarà però quasi “nullo”,
no a creare un “museo” all’aperto in cui il dialogo fra rovine e
invisibile, come se le opere esposte si trovassero lì per caso,
opere d’arte contemporanea diventa un racconto a tutto ton-
posizionate in maniera frammentata, quasi provvisoriamente.
do, spaziale e temporale, in cui i visitatori, liberi di muoversi
In contrapposizione alla forte matericità e presenza delle rovi-
sulla soglia fra due realtà, possono abitare sia un mondo che
ne, l’allestimento risulterà un apparato leggero e sospeso. Or-
l’altro, osservarli, metterli a confronto o semplicemente go-
dinato nel disordine globale delle macerie, lineare e intuitivo.
dere di un nuovo paesaggio, insieme poetico e drammatico.
Non esiste un percorso prestabilito, poiché sono esposte le
Nella seguente tesi si andrà ad analizzare la parte che riguarda
opere e al contempo le rovine intere. Il posizionamento stesso
il progetto di una mostra.
delle opere, setti inverosimilmente caduti in maniera regolare
Luoghi affascinanti da sempre, depositi di memorie dimenti-
e ortogonale, fa sì che il visitatore sia invogliato ad adden-
cate, o spazi ormai privi di funzione ma pregni di significato.
trarsi nel paesaggio, giungendo in quegli angoli di rovina ine-
Le rovine esistono oggi grazie allo sguardo che si pone su di
splorati. Per facilitare il percorso e permettere la permeabilità
esse. Di fronte alla sempre più crescente urbanizzazione, la
su tutto il terreno, sono state progettate delle passerelle, che
tesi vuole invece esplorare dimensioni fisiche evocative, at-
non nascono con l’intenzione di indicare una strada obbligata,
traverso una ricerca e una valorizzazione di quello che nella
ma anzi vanno viste come il superamento di un ostacolo, nel
nostra società viene considerato “scarto”, luoghi abbandonati
nostro caso le macerie depositate sul pavimento, per rendere
e degradati perché non più produttivi.
ancora più fruibile il cammino.
Contenitori svuotati dagli oggetti e dalle persone che li abitavano, di un’epoca che un tempo li animava. Attraverso un allestimento di opere d’arte contemporanea, si è cercato di creare un percorso insieme espositivo ed esplorativo all’interno delle rovine. Dalla volontà di non trattare il contesto come semplice contenitore di un museo a cielo aperto, le opere esposte assumeranno le dimensioni dell’architettura, instaurando quindi un dialogo con le rovine stesse e fungendo da espediente per la
PARTE I Analisi
RIUSO E REINTERPRETAZIONE DELLE ROVINE Ciò che comunemente chiamiamo scarto.
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Le rovine sono luoghi aperti a diversi tipi di interpretazioni.
destino di declino di quella presente, la tensione tra passato e
L’atteggiamento contemporaneo esprime una volontà di con-
futuro nella contemporaneità, il contrasto tra ciò che permane
frontarsi con le esperienze scioccanti per trovare nuovi modi
e quello che si sgretola. Ma la rovina ci affascina anche per un
di superarle. Nelle epoche classiche e durante il medioevo le
ulteriore elemento: essa nasce come unione creativa tra uno
rovine furono sempre una categoria scarsamente considera-
stato e il suo contrario: la natura e la cultura, la vita e la morte,
ta: persino la pittura rinascimentale dedica ai ruderi antichi
la creazione e la distruzione.
una presenza di contorno: le statue, glie elementi architet-
Ne “La rovina in scena” (2002) Franco Speroni sviluppa ap-
tonici fanno da sfondo o da supporto per il soggetto pitto-
profonditamente questo aspetto sostenendo che la grandezza
rico principale. Durante il XVI e XVII secolo si incominciano
tipica delle rovine non è esperienza della perfezione del pro-
a sentire i primi segnali di una crescente fascinazione per le
getto ma della sua perfezione nella distruzione-costruzione.
rovine. è comunque nel XVIII secolo che la rovina arriva ad
La coesistenza di forze tra loro antagoniste produce un’unità
occupare il posto centrale nell’arte europea., nella poesia, nel
formale nuova che risulta significativa in quanto racchiude in
teatro e persino nel design dei parchi e dei giardini delle ville
sè la spinta a ulteriori processi creativi. Citando Georg Sim-
nobiliari. Si sviluppa un culto per l’abbandono malinconico e
mel (1911) “La rovina è la sede della vita dalla quale la vita ha
per il pittoresco, che ritrova i suoi massimi nell’aristocrazia
preso congedo ma ciò non è nulla di semplicemente negativo
Inglese che si circonda di luoghi fittizi e di sordità architetto-
o di pensato all’occorrenza, come nelle innumerevoli cose
niche: fine rovine di templi greco-romani, di abbazie gotiche
che nuotano nel fiume della vita e che vengono gettate per
e castelli medievali, rovine abitabili. Di pari passo si sviluppa
caso nella sua riva ma che in base alla loro natura possono
una letteratura che fa prototipo alla novella gotica, fatta di
venire riafferrate dalla sua corrente”. In altri termini, rovine,
peregrinazioni ed estasi romantiche sopra i resti antichi, e di
resti e residui sono spazi aperti in cui ciò che rimane della
nuove elaborazioni estetiche come l’amore per il frammento
storia e il presente condividono una spinta creativa in che
e per l’incompiuto.
modo questa forza costruttiva si rende visibile. Il concetto di
Etimologicamente il sostantivo rovina - dal latino “ruina” da
profanazione di Giorgio Agamben (2005) spiega chiaramen-
“ruere” che significa precipitare, cadere a terra - rimanda
te questa idea: “Se consacrare era il termine che designava
a una discesa, a un movimento dall’alto verso il basso. Le
l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare si-
rovine evocano in chi le ammira la contrapposizione tra la
gnificava per converso restituire al libero uso degli uomini. ”¹
grandezza passata della civiltà che le edificò e l’ineluttabile
Profano si dice in senso proprio ciò che, da sacro o religioso
¹ Agamben, G., Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005
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che era, viene restituito all’uso e alla proprietà degli uomini.
di un leone seguito dagli applausi di una piccola folla) affidan-
L’arte contemporanea attiva in modi diversi processi di riuso,
do allo spettatore il compito di renderle visibili con la fantasia.
oggettivazione e risignificazione delle rovine. A differenza del
La mostra non era che un dettaglio tra i resti bellissimi di Villa
restauro e della conservazione, operazioni che trasformano
dei Quintili e si dimostra un esempio di come il linguaggio
la singolarità di una rovina in un’immagine da cartolina, l’uso
dell’arte può usare uno spazio architettonico per costruire
ne svela il suo carattere di dispositivo aperto, interpretabile
un senso diverso e produrre una nuova esperienza. La visita,
e abitabile. Questo risulta particolarmente evidente in alcune
così come il turismo, in questo caso, si arricchiscono quindi
recenti installazioni; Si pensi, ad esempio, alle sculture che
di contenuti, è un ritorno al concetto di viaggio, inteso come
nel 2004 Mitoraj espose ai Mercati di Traiano a Roma. Le fi-
scoperta dei luoghi e al contempo ricoperta di se stessi. Non
gure frammentate e mutilate evidenziano la violenza e l’istinto
è solo lo spostarsi da un punto all’altro ma è proprio l’atto di
autodistruttivo dell’epoca moderna in una chiave fortemen-
camminare, di vivere e guardare il paesaggio dal di dentro.
te estetica e, attraverso una perfetta compenetrazione tra il
Camminare permette all’uomo di immergersi nel paesaggio,
contesto classico e l’arte contemporanea, creano un punto di
di soffermarsi a sentire i suoni, i rumori nella mutevolezza di
vista nuovo, affascinante e irripetibile. In qualche modo quelle
questi spazi. É un viaggio non solo attraverso lo spazio, ma
statue restituirono ai Mercati Traianei restaurati il fascino
anche ne tempo. tempo in cui fu costruito quel luogo ormai
delle rovine. Se le opere di Mitoraj si andavano ad inserire
abbandonato. Il viaggio risveglia l’animo intorpidito del turi-
nell’area archeologica in modo monumentale e spettacolare,
sta, è un continuo rimando di segni e memorie del passato.
opposta era l’idea alla base della mostra “Après le diner, sur
diventa occasione “per leggere il territorio, per dare ad esso
l’herbe” di Roberto De Simone a Villa dei Quintili a Roma nel
un valore di paesaggio, riconoscendogli quelle valenze deri-
2007. Quello dell’artista era un progetto fondato sull’assenza:
vano dalla capacità di farsi spettatori attivi, e non inerti, dei
le installazioni sonore abitavano le rovine in modo impercetti-
palcoscenici che accolgono le nostre storie e le nostre gesta”
bile e invisibile riportando la vita in uno spazio immobile e so-
Fare leva proprio sull’atto del camminare. Far rallentare i ritmi
speso nel tempo. Le opere ricordavano situazioni più o meno
del turista attraverso le opere che lo spingono a guardarsi
plausibili (il rumore di un ruscello accompagnato dal canto
attorno, a porsi nuovi interrogativi. Si rivolge al “turismo
delle rane, centinaia di punti luminosi che disegnavano il mo-
della memoria” rispettoso del proprio passato e di quello al-
vimento notturno delle lucciole, il canto di un grillo, il ruggito
trui, curioso di conoscere, un turismo che oggi sta prenden-
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do sempre più piede visto la necessità dell’uomo moderno alienato, di recuperare le proprie radici, di mettersi in gioco socialmente, sentimentalmente e fisicamente. Un altro interessante processo di risignificazione delle rovine è stato realizzato in Puglia. “Lu Cafausu”, questo il nome del progetto, fa riferimento a una piccola struttura, una specie di pagoda stravagante, fragile e decadente localizzata in una piazza di San Cesario che è ciò che resta di un complesso architettonico più grande abbattuto nel corso del tempo per costruire nuovi palazzi. Lu Cafausu oggi si trova al centro di una strada ed è privo di funzione ma ha avuto per decenni (o forse secoli) tanti e svariati usi: dimora per un orfano e il suo cavallo, pollaio, vespasiano, guardiola, sito punitivo, deposito di attrezzature agricole e coffee house. Per il carattere misterioso, la forma di rovina e la memoria dei suoi molteplici sensi, la costruzione è stata l’ispirazione per quattro artisti - Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese e Cesare Pietroiusti - i quali hanno deciso di usarla come punto di partenza per scrivere delle storie e realizzare delle performance e azioni a Lecce, Rotterdam e New York. Per loro Lu Cafausu è un luogo metaforico, un territorio di accumulazione di tempo, un’elaborazione delle contraddizioni estetiche e un simbolo della perdita di senso del mondo contemporaneo. Per questi motivi è un luogo che possiede un’intrinseca energia creativa di cui i quattro artisti si servono per attuare interventi di vario tipo (distribuzione di tazzine di caffè, realizzazione di disegni che, in caso di venduta, perdono il loro valore economico, punto di arrivo di un surreale pellegrinaggio...) grazie ai quali lo spazio diventa ogni volta qualcosa di diverso. Come già anticipato, la valenza negativa della rovina, intesa cioè come perdita della funzione per cui era stata costruita, porta ad accostarla ai concetti di scarto e di rifiuto.
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Questo fa emergere un altro aspetto che si potrebbe definire il “paradosso delle rovine”: accanto al moto di discesa e alla decadenza, la rovina porta con sè un moto di ascesa. Il precipitare delle cose, l’azione del tempo, il franare del mondo in cenere, sabbia, terra, fango, polvere comporta anche una spinta, un movimento verticale verso l’alto, una resurrezione: la rovina, come lo scarto e il rifiuto, con l’accumulo e il tempo si trasforma in un “monumento analogo”. Un processo che è chiaramente descritto in una delle “Città invisibili” di Italo Calvino, Leonia, metafora della società dei consumi. Ogni mattina “i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio”² e Marco Polo, guardando attraverso le crepe delle mura della città, si domanda se la passione dei Leoniani sia l’espellere dal momento che gli spazzini sono accolti come angeli. Mentre i Leoniani sono presi nella caccia alla novità, “una fortezza di rimasugli indistruttibili sovrasta la città da ogni lato”. Molto spesso accade che l’arte anticipi la realtà, la produzione di rifiuti è parte integrante del processo produttivo ed è l’effetto della costruzione di ordine basata sul principio di utilità. Gli scarti e i rifiuti indicano la contrapposizione tra qualcosa che rimane e qualcosa che se ne va perché si consuma o non serve più; fanno riferimento a un eccesso, a qualcosa che non si assimila, non si integra e viene ricacciata fuori. L’analogia tra il concetto di rovina e quelli affini di scarto e rifiuto è presente all’interno della riflessione benjaminiana sul metodo della storiografia materialistica. Per Walter Benjamin mentre la storiografia borghese valorizza il detto e il visibile, il pienamente realizzato e soprattutto l’appartenenza a una tradizione culturale la cui capacità di riproduzione funziona come istanza di legittimazione, il materialismo storico lavora con il non detto e il non visibile, l’incompiuto, il sospeso e in particolar modo con quei materiali che quella stessa tradizione abbandona all’oblio e alla distruzione ritenendoli spuri e inutili. In un frammento della sezione N del “Passagen-Werk” (1982), in cui si tematizza il montaggio come metodo della
² Calvino I., Le città Invisibili, Mondadori, Milano, 1997
Daniel Spoerri, Prose Poems. 1959-60
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storiografia materialistica, il filosofo tedesco afferma: “non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli”. Scompare ogni criterio gerarchico e di valore nella scelta dei materiali: i più alti prodotti culturali e i più bassi detriti della vita verranno trattati allo stesso modo non per farne un elenco bensì usandoli. L’arte con il riuso e la risignificazione degli scarti mette in discussione i processi della produzione e del consumo problematizzando la distinzione tra le categorie del rifiuto e dell’utile. La distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che ha valore viene annullata nel momento in cui il processo creativo conferisce allo scarto un valore non più legato alla catena del consumo. “Per me la spazzatura non è ciò che la società rifiuta ma un materiale utile che qualcuno ha lasciato in giro. Allora lo prendo io” ³ disse l’artista francese César. L’attenzione per gli scarti è presente nella ricerca artistica del ‘900 ma è cronologicamente legata alla produzione teorica delle avanguardie, le quali affrontano in modo polemico il rapporto tra forme espressive e flussi concreti della vita, tra estetica e vissuto. Un esempio per tutti è il dadaista tedesco Kurt Schwitters che tra il 1920 e il 1936 costruì nella casa/studio di Hannover una scultura composta da materiali di scarto di vario tipo e oggetti raccolti un pò ovunque che battezzò “Merzbau” laddove la parola “merz” significa “merce”. Il sottotitolo è altrettanto degno di nota: “Cattedrale della miseria erotica”, in riferimento al venir meno della capacità attrattiva delle merci una volta consumate. L’installazione era in continuo allestimento, cresceva nel tempo e lentamente si fuse con la casa dell’artista arrivando a sfondarne il tetto. Nei “Merz” gli oggetti venivano accumulati secondo la legge del caso e la loro forma non rispondeva a un determinato progetto autoriale. Essi rappresentano l’esperienza della realtà attraverso i suoi frammenti carichi di memorie i quali, seppure non racchiudano il tutto, rimandano nella loro struttura all’incompletezza dell’esperienza, a ciò che non c’è e a quello che manca.
³ Faucherau, S., Ristat , J., Intervista a César, in “Diagraphhe”, n. 29
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Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietrouisti, Lu Cafausu.
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Anche l’esponente più noto della Pop Art, Andy Warhol, diceva che le cose che vengono scartate hanno un grande potenziale di divertimento; per lui le scene dei film senza tagli erano molto più divertenti delle scene dove le cose sono tutte a posto. Ma sul riuso degli scarti per lo sviluppo di ricerche estetiche e poetiche diverse si potrebbe andare avanti a lungo e citare i “combine paintings” di Robert Rauschenberg, la Merda d’artista di Piero Manzoni, i resti dei pasti di Daniel Spoerri, le installazioni sonore di Jean Tinguely, gli scarti di tappezzeria di Alberto Burri, la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, ecc. Oggettivazione, presa di coscienza, attualizzazione sono concetti che tornano anche nell’uso che l’arte fa dei ricordi; attraverso il recupero della memoria il passato diventa qualcosa al di fuori di noi, non solo un oggetto da analizzare e comprendere ma anche un frammento che l’uso restituisce al qui e ora attraverso i processi della produzione e del consumo culturale. Torna il parallelismo tra rovine e ricordi. In “Tristi Tropici” (1955) Lévi Strauss descrive bene il processo di oggettivazione caratteristico di entrambi: “Trascinando i miei ricordi nel suo fluire il tempo più che logorarli e seppellirli ho costruito coi loro frammenti le solide fondamenta che procurano al mio procedere un equilibrio più stabile.” Un ordine è stato sostituito con un altro. Gli spigoli si assottigliano, intere fiancate crollano. Un antico particolare insignificante emerge come un picco mentre interi strati del mio recente passato si cancellano senza lasciare traccia. Ma il fascino della rovina consiste anche nel risvegliare in chi la guarda la coscienza del tempo, nel ricordare una storia passata e, facendo ricordare, nell’esorcizzare la paura dell’oblio. L’artista francese Christian Boltanski lavora sul concetto di tempo e di memoria. Nelle sue opere egli usa gli oggetti non per se stessi o per la loro forma ma piuttosto perchè richiamano alla mente storie comuni e avvenimenti passati. Nell’installazione al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna i resti del DC9 sono circondati da 81 specchi neri (tanti quanti il numero delle vittime) che riflettono l’immagine di chi percorre il ballatoio mentre dietro a ognuno di essi degli altoparlanti raccontano la vita e i pensieri che scorrevano nella mente di ognuna delle persone a bordo. Tutt’attorno a ciò che resta del velivolo sono disposte 10 grandi casse nere in cui sono raccolti decine di oggetti personali appartenuti alle vittime. Più che un memoriale in senso classico sembra che Boltanski abbia voluto fare un “allestimento” usando tutto ciò che resta della strage, materiali visibili e invisibili, oggetti e ricordi: vita e morte, passato e presente coesistono. Chi visita il memoriale è allo stesso tempo partecipe della tragedia e spettatore di una messa in scena in chiave estetiva: ci si immedesima nella vicenda e al contempo si guarda da fuori la rovina, quello che resta di quell’evento. Boltanski in numerose installazioni alla memoria usa il formato degli almanacchi universitari americani, cosa che fa venire in mente Facebook, al momento il sito più diffuso tra quelli di social network. L’idea viene proprio dagli annuari con le foto di ogni singolo membro che alcuni college statunitensi pubblicano all’inizio dell’anno accademico. L’obiettivo iniziale del sito era infatti quello di far mantenere i contatti tra gli studenti delle università e dei licei, ora conta più di 100 milioni di utenti in tutto il mondo. Mi domando se i processi di risignificazione e di “riuso” della memoria siano presenti anche qui.
Yves Marchand e Romain Mere, Michigan Theater. 2008
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Mi sembra che siamo di fronte a una forma ibrida dove la dimensione del ricordo e del suo riuso, al di là delle intenzioni di ognuno, assume comunque un impatto estetico. Si tratta di individui e comunità che realizzano una autorappresentazione di sè: frammenti di un passato individuale vengono buttati nella rete insieme a istantanee del presente in un frullato fatto di foto da bambino, immagini di cartoon, frasi senza senso o profonde, pezzi di vita decontestualizzati. Quello che emerge è un insieme estetico che con gli scarti e i resti delle nostre vite esprime l’essenza della società dell’immagine. L’esito finale è una manifestazione estetica collettiva in cui i singoli apporti individuali si disperdono nell’insieme. Ma la modernità ha iniziato a produrre un nuovo tipo di rovine che merita una distinzione dall’idea classica alla quale siamo abituati. Si tratta di una nuova categoria di luoghi che non hanno ancora raggiunto lo status di rovina, dove sia visibile la lotta fra natura e artificio, un esempio su tutti, Detroit, e sono composti da un oceano di case abbandonate, frutto di grandi movimenti dei lavoratori della classe operaia.
Abitazione privata nella CittĂ dei morti (Qarafa, el-Arafa), Cairo, Egitto.
Il MUSEO
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Fin dall’antichità l’uomo ha sempre perpetrato una ricerca del
Rappresentativo,in questo senso, il 1759 anno in cui il British
bello, così come un culto delle emozioni, dei sentimenti e del-
Museum di Londra apre le sue sale ai visitatori.
la conoscenza; la summa evidente di tali ricerche può essere
L’apertura al pubblico costituisce oggi una caratteristica es-
individuata facilmente nell’arte, in essa, infatti, ricerchiamo
senziale del museo e segna una grande svolta nel suo per-
un piacere edonistico e una esperienza estetica, così come un
corso di trasformazione; introdotta inizialmente come una
processo di arricchimento conoscitivo, emozionale e anche
concessione diviene progressivamente un diritto e “il museo
psicologico. L’arte in quanto strumento di accrescimento per-
assunse i caratteri di un’istituzione, con finalità sia educative
sonale e di riflessione.
sia di conservazione del patrimonio culturale e dei valori della
Il termine museo deriva dal latino “museum” e indica un luo-
società dal-la quale traeva sempre più legittimazione” . È con
go sacro alle Muse che nella mitologia greca erano le protet-
la Rivoluzione francese che nasce davvero una nuova con-
trici delle arti. L’accezione moderna del termine inizia nel XVI
cezione del museo è allora, infatti, che si arriva ad affermare
secolo col Rinascimento, periodo in cui il museo era il luogo
e definire la proprietà pubblica dei beni culturali. Il grande
in cui erano conservati gli oggetti che richiamavano la civil-
patrimonio espropriato ai nobili passò sotto il controllo del-
tà classica celebrata dagli umanisti. E’ a Paolo Giovio che si
lo Stato per dare forma e sostanza al concetto di patrimonio
deve la vera codificazione del termine, quando, nel 1543, fece
nazionale e il museo diventa luogo per “permettere allo stato
erigere a Borgo Vico sul lago di Como, quello che egli stes-
un controllo su un patrimonio storico-artistico che ormai gli
so chiamò museo ad indicare una nuova struttura che aveva
apparteneva” ⁴ . In Italia, a partire del XVIII secolo, prende
come tema centrale quello delle Muse, a cui era dedicata la
il via un processo di sradicamento del museo dal territorio
sala principale. Molti aristocratici e colti borghesi aspirarono
in cui si trova inserito. Nel 1866-67 viene soppresso l’asse
da questo momento in poi a trasformare la propria dimora in
ecclesiastico e nascono i musei civici a cui viene affidato il
museo, simbolo di prestigio e affermazione sociale.
patrimonio artistico e bibliografico e nei quali convergono i
Nel Seicento il museo diventa il nome comune con cui si
beni culturali provenienti dal territorio circostante. Nel 1875
indica qualsiasi tipo di collezione. Una svolta decisiva nella
vengono svincolate dalle accademie le gallerie statali, rese
definizione di museo avvenne nel XVIII secolo quando si co-
autonome amministrativamente ed economicamente attra-
mincia a distinguere le collezioni destinate ad un uso privato
verso l’istituzione del biglietto d’ingresso. Il museo diventa
da quelle che invece iniziano ad essere aperte al pubblico.
così un luogo di concentrazione di opere provenienti anche da
⁴ Bertuglia, Infusiono, Stanghellini, Il museo educativo, 2004
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luoghi culturalmente lontani e si scelgono le opere da esporre
rimane l’aspetto più innovativo del museo del XIX secolo.
con criteri selettivi volti alla promozione di una cultura nazio-
Il suo essere pubblico, cioè di pubblica utilità, lo porta a svi-
nale uniforme.
luppare nel tempo un nuovo rapporto con i visitatori e con la
La rescissione dei legami con il territorio e l’ambiente modifi-
società. E’ nel secondo Dopo Guerra che si incomincia a par-
ca la funzione del museo che diviene un contenitore di opere
lare di un nuovo ruolo del museo che si deve svincolare dall’
d’arte indifferente alla concretezza storica delle loro origini,
idea di tempio che lo aveva finora caratterizzato per aprirsi ad
delle materie di cui sono fatte, delle tecniche che le aveva-
un pubblico più vasto.
no prodotte, della loro potenzialità documentaria, didattica,
A partire in particolare dall’ultimo trentennio del XX secolo,
scolastica ed educativa, un contenitore d’opere destinate alla
l’alfabetizzazione generalizzata, connessa a uno sviluppo eco-
contemplazione e alle emozioni estetiche private.
nomico esteso ad ogni ceto sociale, ha favorito la diffusione
Sul finire del ‘700 e nel corso del XIX secolo il museo si spe-
dei consumi culturali in strati sempre più ampi di popolazio-
cializza, le collezioni d’arte si separano da quelle di scienza e
ne. Queste dinamiche hanno portato a un aumento generaliz-
nascono i grandi musei-templi dedicati alle diverse discipline.
zato dei visitatori nei musei in tutto il mondo.
Il museo-tempio ha come missione quella di essere una strut-
Il museo si trova ad affrontare questa situazione cercando
tura pubblica col compito di elevare la cultura del paese e di
di ridefinire il proprio ruolo all’ interno della comunità e in
educare i cittadini; la scolarizzazione e la cultura in questo
relazione al territorio in cui si trova.
periodo sono ancora riservate a una ristretta élite di indivi-
Accanto alla tradizionale funzione di conservazione si pone
dui ed è a questa ristretta fascia di visitatori che il museo si
quella della valorizzazione del patrimonio che custodisce. Il
rivolge. La visita a un museo non è un’esperienza comune
ruolo del pubblico è diventato centrale all’interno delle stra-
a molti, è ancora privilegio di pochi. Fondamentale diventa
tegie museali passando da un entità indistinta e passiva ad
anche il nuovo ruolo dello Stato che inizia ad assumersi l’im-
una concezione che rispecchia la pluralità di individui che lo
pegno di conservare e rendere fruibili le raccolte con finalità
compongono, caratterizzati da esi genze, aspettative e obietti-
sia educative sia di godimento pubblico. Viene introdotto così
vi diversi cui il museo deve andare incontro.
il concetto di utilità pubblica del museo che diventa uno stru-
La missione del museo contemporaneo è strettamente legata
mento di prestigio e promozione del paese. La vocazione per
al rapporto col proprio pubblico che deve essere messo nelle
il pubblico, anche se inevitabilmente di un pubblico ristretto,
condizioni di comprendere il significato delle opere esposte
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ed essere in grado di trarre piacere dalla loro fruizione. Il museo diventa dunque un luogo di apprendimento e di trasmissione di conoscenze, ma anche un luogo dove passare in modo piacevole il proprio tempo. Per raggiungere questi obiettivi è necessario che le istituzioni museali ridefiniscano le proprie strategie comunicative ed educative. E’ necessario, pertanto, che il museo sviluppi forme alternative alla fruizione tradizionale in direzione del valore formativo dell’esperienza con l’opera d’arte. Nell’ultimo secolo il museo è stato al centro di una spinta dicotomica sul tipo di cultura che doveva rappresentare, se una elitaria rivolta a una cerchia ristretta di persone o se una di massa che fosse in grado di coinvolgere parti crescenti della collettività. L’evoluzione che ha interessato i musei negli ultimi venti anni, sia in Italia sia nel resto del mondo, ha visto il prevalere di quest’ultima direzione con un conseguente aumento del numero dei visitatori all’interno delle sale museali. L’incremento del pubblico ha portato, oltre che ad un aumento delle competenze dei visitatori anche ad una crescita della rilevanza politica degli stessi. I musei pertanto hanno dovuto rapportarsi alle esigenze di un pubblico più consapevole ed esigente, evidenziando la necessità di elaborare politiche di gestione ad-hoc. “Da qui il museo come il luogo di contraddizioni tra utilizzo economico e uso storico-artistico dei beni culturali e la susseguente comprensione della non alternatività ma anzi della inevitabile complementarietà delle due destinazioni.” Nessuna organizzazione può sottrarsi al cambiamento. Il museo non può farne a meno, può solo lasciarsi plasmare dalla corrente di questi mutamenti. L’istituzione museale negli ultimi anni ha subito evidenti e complesse trasformazioni dovute al mutamento del contesto sociologico, culturale ed economico in cui il museo vive. Lo stesso concetto di museo inteso come semplice contenitore di opere d’arte risulta oggi, come già anticipato, essere obsoleto e inadatto. Le tendenze degli ultimi decenni hanno introdotto nuove modalità di comunicazione dell’arte e che hanno mutato in maniera diretta il rapporto intersoggettivo che si viene a creare tra il fruitore e la stessa opera. Uno dei punti principali da cui partire per capire questa mutazione è la percezione dello spazio all’interno degli ambienti museali. E’ rilevante la relazione stessa che si viene a creare tra l’ oggetto osservato e l’osservatore. Nel tempo muta radicalmente questo rapporto, si ha sempre più un avvicinamento tra soggetto ed oggetto, sino a giungere in casi particolari, come nell’ arte interattiva, in cui il soggetto diviene condizione essenziale dell’opera d’arte. Dal principio del vietato toccare tipico dei musei tradizionali si giunge nei musei moderni interattivi al vietato non toccare. Il museo moderno diventa così uno spazio aperto teso in una continua relazione con i fruitori, le opere e il contesto in cui sono immersi. In questa modalità museale assumono sempre più importanza i concetti di contesto e di spazio, intesi come dei veri e propri percorsi di narrazione. Il museo moderno si può considerare innanzitutto come il luogo in cui stabilire una relazione con l’opera d’arte. L’opera mostrata all’interno di questi nuovi modi di “fare museo” non è più relegata in un contenitore anonimo e saturo di opere, ma vive in continua osmosi con l’ambiente in cui è immersa e che allo stesso tempo la completa. L’ambiente e il fruitore assumono così un ruolo fondamentale all’interno di questa particolare esperienza museale. Il fruitore non si limita più ad osservare l’opera ma riesce a coglierne il senso attraverso l’interazione. All’interno di questi ambienti museali diventa così fondamentale il meccanismo dell’esperienza, il fruitore attualizza le
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virtualità dell’opera attraverso l’esperienza stessa del segno-opera. Dall’età guttemberghiana ad oggi, abbiamo assistito ad un’evoluzione del rapporto tra l’uomo e l’arte, tra il soggetto e il modo di esperire all’interno degli spazi museali. Questa trasformazione come precedentemente analizzato avviene all’interno di profondi mutamenti sociali e individuali, lo spazio vive in continua relazione con questi cambiamenti. Dall’apparizione dello studiolo, riconosciuto come prima tipologia architettonica con funzioni di raccolta di oggetti d’arte in cui il rapporto tra soggetto e opera è prettamente individuale, riservato a pochi, alla creazione delle camere delle meraviglie dove si installa un rapporto di contatto diretto tra opera e soggetto, l’opera è esposta per essere toccata e osservata. Con la nascita della galleria, luogo dove compare un primo pubblico di massa, il rapporto tra soggetto ed opera viene capovolto e, con l’aumento del pubblico di riferimento, inversamente si installa una distanza quasi sacrale tra opera e osservatore. Muta lo spazio, muta l’esperienza di questo spazio, l’esperienza di chi osserva queste opere ed il valore stesso degli oggetti contenuti all’interno di questi spazi. Gli oggetti sono messi lì, all’interno di queste vetrine museali in quanto oggetti di una collezione, il loro valore fondamentale è strettamente connesso al ruolo che queste opere occupano all’interno di queste raccolte. Già verso la metà del Novecento si assiste ad un capovolgimento del ruolo dell’arte e dell’artista stesso. Dalla correnti dadaiste alle forme di happening all’arte del corpo, sino a giungere alle moderne videoinstallazioni. L’arte è svincolata da ogni vincolo, o quasi. In realtà a partire dal XX secolo, si assiste ad un processo di subordinamento dell’arte alle dure regole del mercato. Le opere si emancipano dalle rigide condizioni tradizionali, l’artista è libero di esprimersi attraverso ogni forma, ma i musei devono obbedire a delle specifiche logiche economiche per poter sopravvivere e l’arte e gli artisti in un certo qual modo, nel corso tempo si adeguano a ciò. Le opere, dunque, possono essere plasmate in qualunque forma e possono significare qualsiasi cosa, sino a potersi volontariamente negare. Allo stesso tempo però, in questo nuovo scenario, i prodotti artistici si devono adattare ai nuovi mezzi di comunicazione e ne devono seguire le correlate regole plastiche insite nei nuovi medium. Tutto questo processo modifica gli spazi museali, un nuovo ambiente radicalmente diverso dalle forme museali precedentemente analizzate, uno spazio dettato dalle nuove forme di tecnologia e allo stesso tempo condizionato dai moderni principi di marketing economico. Peculiare nella società post-moderna è il consumo stesso che si fa delle immagini, siamo in un tempo nel quale la maggior parte delle figure che consumiamo sono insieme mobili ed effimere, molteplici e anonime, lo sguardo è anestetizzato. E’ sempre più difficile ricondurre le immagini ad un nome, diventano sempre più anonime. Il pubblico è bombardato da immagini di ogni tipo. All’inizio del Novecento i primi passi verso le esperienze artistiche e culturali venivano mossi attraverso un libro, sino a giungere ai giorni attuali in cui la maggior parte di questo tipo di esperienza avviene attraverso uno schermo. L’ambiente antropico che ci circonda si è evidentemente trasformato. Non c’è più una società ottocentesca con una rigida gerarchia e delle relazioni interne ben definite. Ora parliamo di una “città liquida”, “fluida” dove le relazioni sono sempre meno lineari e consequenziali. Scompare una netta organizzazione, tutto si disperde in una fitta rete di attualizzazioni relazionali. In questa analisi cronologica delle varie evoluzioni degli ambienti museali dalle loro origini sino alle moderne
33 forme museali interattive è stato possibile rintracciare nelle gallerie rinascimentali, una tipologia spaziale in cui sono presenti quelle che saranno le caratteristiche tipiche del museo tradizionale. E’ proprio in questa tipologia museale che si afferma una relazione di contemplazione, un rapporto di distanza sacrale tra il fruitore e l’opera. Il visitatore può osservare l’opera e coglierne il senso solo attraverso lo sguardo. Nello stesso periodo si rintracciano nelle “camere delle meraviglie” tedesche dei primi piccoli spazi museali con delle caratteristiche affini a quelle che saranno le peculiarità dei moderni musei interattivi. In questo spazio, nella costruzione del discorso museale, sin dalla disposizione delle opere, comincia ad assumere un rilievo particolare il ruolo del fruitore. Le opere vengono disposte tenendo in considerazione la sua figura, i suoi movimenti e soprattutto le sue Esperire attraverso i media, vedere un dipinto come, ad esempio, la Gioconda, attraverso i media, restarne delusi nel momento in cui ne facciamo “diretta” esperienza è un tipico paradosso moderno. Siamo inondati di immagini, lo spettatore gode di queste fugaci forme, ne fa esperienza ma la sua capacità critica non ne esce illesa. Spesso divora le immagini senza prestarci attenzione. Spesso consuma l’opera come se stesse consumando una “caramella dietetica” tra i banchi di un supermercato. “Fa bene ma non ha sapore”. Il consumo dell’arte come consumo di un bene commerciale. Diminuisce la probabilità di poterci stupire dinnanzi ad una immagine. C’è una saturazione dello sguardo. Ma in questa visione pessimistica ritroviamo allo stesso tempo delle possibilità mai viste in altre ere. Emerge un aumento della possibilità di accesso alle immagini, al sapere, alla conoscenza in generale. Infiniti e rapidi passaggi in cui poter conoscere. La cultura si immerge in una infinita rete, diventa un immenso ipertesto. Ci si può perdere in questo ipertesto, ci si può assopire al suo interno, ma allo stesso tempo si possono intraprendere infiniti percorsi, infinite esplorazioni prima mai possibili. Nel campo dell’arte, il passaggio dalla tecnologia elettronica analogica al digitale ha trasformato i linguaggi artistici codificati, dando vita all’integrazione di precedenti forme artistiche e alla nascita di nuove. Cambiano le modalità di consumo delle immagini, viene a modificarsi il modo di apprendere e trasmettere la cultura, cambia il modo di crearla. Muta lo spazio in cui poterne fare esperienza. Tutte queste trasformazioni avvengono all’interno di una società sempre più fluida i cui confini si perdono all’interno di un unico villaggio globale. emozioni. Ogni elemento è accostato ad un altro spesso particolare secondo una esclusiva scelta strategica, il cui fine è impressionare il visitatore. Dunque l’esposizione è articolata in maniera tale da poter suscitare determinate sensazioni, l’impatto emotivo diventa centrale. Viene a mancare un rapporto di distanza tra opera e fruitore, tipico delle gallerie e delle forme tradizionali del museo. Gli oggetti in questo caso sono esposti per essere analizzati ed interpretati attraverso una manipolazione diretta, per essere toccati e non solo contemplati. Al visitatore dunque viene data la libertà di poter scegliere il punto di vista da adottare per interpretare gli oggetti in esso contenuti. In questa tipologia museale inoltre è stato possibile individuare quel particolare aspetto ludico che, anche se in forma accennata, si inscrive nell’atto di fruizione del visitatore, una caratteristica che diventerà in seguito una peculiarità degli spazi museali interattivi. Il visitatore sceglie cosa osservare e in quale maniera farlo, secondo una libertà di movimento tipica dei musei interattivi. Si delinea così, di nuovo, un rapporto tra opera e soggetto di tipo attivo. Dunque, questa articolazione museale sembra anticipare quello che sarà il moderno modo di fare museo di cui si è precedentemente parlato. In definitiva, il visitatore all’interno di questi spazi museali diventa così protagonista di sempre nuovi e possibili
Giovanni Paolo Panini - Ancient Rome (1757)
35 costellazioni di senso, abbandona il ruolo di mero contemplatore, per coglierne il senso all’interno di fluide e sinestetiche esperienze. Ciò che prima nei musei poteva essere colto solo attraverso lo sguardo, percepita quasi come immutabile ed eterna, l’arte, oggi si giunge a comprenderla toccandola, con un suono, un tocco, un semplice respiro. L’opera vive all’unisono con il tempo di chi ne fa esperienza al suo interno. Ma non solo il rapporto tra uomo e opera - museo è mutato nel tempo, anche quello tra l’arte e l’ambiente e tra il visitatore ed il museo si non modificati nel corso degli anni. Sono passati, infatti, più di cinquant’anni dalla prima mostra di scultura en plein air di Middelheim e una trentina dalle edizioni delle Biennali veneziane Arte e Ambiente (1976) e Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura (1978) ed il movimento Art in Nature ha dato vita a manifestazioni internazionali importanti, dimostrando che il dibattito internazionale sulla scultura all’aperto e sul rapporto arte-ambiente sembra ancora nel pieno delle sue energie. Giardini d’artista, parchi pubblici, grandi collezioni private di scultura all’aperto: i parchi-museo d’arte contemporanea sono tutto questo e, forse, altro ancora; per non parlare del proliferare di mostre di scultura en plein air e installazioni urbane o ambientali, cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Queste iniziative testimoniano il significativo aumento di interesse per la realizzazione di tutti quei progetti d’arte contemporanea che vertono sul rapporto arte-ambiente e che coinvolgono lo spazio pubblico, sia urbano sia naturale. Anche i siti di scultura contemporanea all’aperto sorgono numerosi su tutto il territorio italiano, grazie all’iniziativa pubblica o al mecenatismo privato, spesso ubicati in piccoli centri, fuori dai circuiti tradizionali dei musei e del turismo di massa, eppure capaci di suscitare l’interesse del pubblico. Lo spazio rappresenta una dimensione dell’ abitare un “mondo vitale” ⁵ in cui si crea una relazione di totale ed inconscio coinvolgimento con il proprio luogo, tanto da identificarsi con l’ ambiente vissuto. Il locale e la sua riscoperta sono oggi elementi in bilico fra i processi di omologazione e distinzione globalizzanti che rischiano talvolta di sfociare in nuovi localismi. La spinta verso la creazione del primo museo all’aperto giunge da una personalità carismatica e cosmopolita, il filologo Artur Hazelius, che proprio grazie ad alcune sue ricerche in campo linguistico aveva preso conoscenza della scomparsa progressiva di alcune culture contadine e che, nella seconda metà del XIX secolo, fondò il Museo Nordico a Stoccolma. Questa struttura dicarattere etnologico fu la prima ad essere diretta in maniera scientifica e grazie ad essa si darà successivamente forma al museo di Skansen, sezione dello stesso Museo nordico di Stoccolma. Proprio questi anni rappresentano per la museologia un importante punto fermo: il passaggio dal museo tradizionale in senso stretto al “museo all’aperto”. Un elemento d’innovazione fu quello di inserire nell’ esposizione arredamenti delle stanze di case contadine. Le esposizioni universali di Vienna, nel 1873, e Parigi, nel 1878, diedero importante slancio a questi nuovi modi di concepire il museo. Alle accelerazioni temporali del mondo attuale e alle conseguenti minacce di oblio, alla vaghezza del Tempo e alla precarietà dei vissuti quotidiani, il museo postmoderno oppone l’arte della memoria e il sapere dello sguardo, che trasformano il “tempo perduto” in “tempo ritrovato”⁶. In questa particolare dimensione non meraviglia che l’oggetto museale sia divenuto totalmente problematico. Intanto, il suo senso è ambivalente, per il solo fatto di essere stato sottratto all’oblio o all’indifferenza e alla distruzione acquista un valore “storico”. Se poi viene incluso in una raccolta, classificato o esposto in una mostra, guadagna un valore “culturale”: da documento diventa una “traccia”, l’impronta di una forma di vita, il frammento di una storia, il segno di una
⁵ Vidal de la Blache, 1922
⁶. Marin, 1988
differenza. La traccia non è un semplice “dato”. Lasciata in un certo tempo e in un certo luogo, la traccia indica una presenza, un’azione, un accadimento; è l’indizio di un transito, di un “passare attraverso”. Nel museo vale – in senso ricoeuriano - come “testo donato”, come “ricordanza”. Suggerisce di dare parole alle cose. Gli oggetti hanno una loro storia: sono stati fabbricati, usati, scambiati, trafugati, presi in cura e osservati. Tanto la formazione quanto la fruizione delle raccolte sono il frutto di processi di appropriazione e di sottrazione ispirati da criteri e da convenzioni locali intenzionali o ideologici. Le opere del museo sono state create in un dato tempo e in un dato luogo. Il tempo e lo spazio delle opere non sono il tempo e lo spazio del museo che le custodisce e le espone “qui ed ora”. Le opere devono perciò “situarsi” nel tempo e nello spazio del museo, devono “diventare” al di là di se stesse. Questo processo è assicurato dalla mediazione museografica, che ha il compito di marcare la differenza tra il passato che ha prodotto gli oggetti e il presente, che non li ha creati ma li accoglie e li interpreta. L’interpretazione libera le opere dall’identità su cui la tradizione le ha inchiodate e le reinventa consegnandole alla prova dell’esperienza espositiva contemporanea. La nuova collocazione del museo e delle sue opere in rapporto al tempo ci aiuta a capire meglio come mai lo scenario della museografia etnologica contemporanea sia in costante movimento. Nell’epoca del postcolonialismo e della postmodernità, infatti, le tradizioni si vanno rimodulando soprattutto attraverso il museo etnologico. Le forme museali locali e quelle dei paesi non occidentali (di quelli africani in particolare) pongono al centro delle loro ragioni la memoria e l’identità del territorio. Ma le intendono come “risorsa” culturale per il futuro e non come immobile eredità del passato. I musei “non sono la cultura che congela la vita, ma la cultura che sta nella vita, che la arricchisce, anche di prospettive materiali”. Il museo postmoderno incoraggia un atteggiamento interpretativo perché espone opere d’arte da fruire non secondo un ideale di perfezione formale ma a partire dagli effetti di spaesamento e di shock che generano e che aprono spazi di sviluppo per il dialogo con il fruitore. Il museo moderno concepisce lo sviluppo dell’arte come se la sua struttura corrispondesse a quella di un libro: si visita un museo come se si sfogliassero le sue pagine, una dopo l’altra, di capitolo in capitolo. La “lettura” di un movimento artistico presuppone quello che lo ha preceduto e, nel ricondurre la complessità a “una storia”, il rischio è di mettere ai margini della tradizione artisti “non omogenei” e di privilegiare il centro rispetto alla periferia o di giudicare artisti del passato sulla base di criteri attuali.
Alcuni cenni di cambiamento Nel corso della storia ci sono stati alcuni episodi che hanno contribuito all’evoluzione e al cambiamento della concezione classica del museo. Come abbiamo letto nei paragrafi precedenti, il visitatore abbandona poco a poco il suo ruolo passivo, per integrarsi sempre di più nel vivo della narrazione museale. Uno dei primi esempi di partecipazione risale addirittura al 1930, in cui Moholy-Nagy, per l’allestimeno della mostra Room of Our Time, utilizza svariate tecniche di rappresentazione: fotografia, film, riproduzioni di architetture, tecniche teatrali. In mezzo alla stanza era posta una macchina che generava variazioni di luci e ombre (Light prop,
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Light-space modulator). I visitatori premendo un pulsante potevano attivare il movimento delle luci astratte che venivano proiettate, in modo da creare pattern di ombre e luci sui muri e sul soffitto, alternativamente alla proiezione di film e di immagini. Questa esposizione è rientrata nella storia come una delle prime esposizioni interattive e multimediali basate sull’idea di convergenza di diversi media. Relativo ad alcuni anni dopo, precisamente al 1935, è l’interpretazione ancora diversa e mutante che il museo assume, secondo l’ottica di Alexander Dorner. Dorner invitava artisti ed architetti a sviluppare allestimenti in evoluzione per creare quello che doveva essere un “museo in movimento”, definizione che ancora al giorno d’oggi risulta essere innovativa e curiosa. Il museo doveva essere perenne stato di trasformazione, e oscillare costantemente tra oggetto e processo, senza mai definirsi, ma al contrario rivelarsi con identità multiple, dotato di allestimenti flessibili all’interno di edifici adattabili. Lo stesso concetto venne ripreso alcuni anni più tardi da Cedric Price (Fun Pavillion, 1961), che sviluppa le sue idee di un centro culturale utilizzando l’incertezza e l’incompletezza come matrici concettuali. Un museo in oscillazione tra le opere e il processo, un museo mobile, fondato su una concezione dinamica della storia dell’arte, un museo inteso come edificio flessibile. Ancora una volta egli indica l’individuazione dell’indeterminato, del flessibile, del non compiuto come componente aggiuntiva alla progettazione, come quell’invisibile dizionario di possibilità che permettono di reinventare più che soltanto migliorare o arricchire un contesto. Sullo stesso filone del museo mutevole, Cities on the move (1995-1999)è lei stessa una mostra “on the move”. L’esposizione è una ricerca in costante aggiornamento, progettata come mostra itinerante, definita come un laboratorio, visualizzabile come una rete. Ogni sede è diversa. Ogni mostra ha il suo architetto. Non c’è mai stato un elenco definitivo di architetti e artisti. In ogni città la mostra si ridefinisce e si arricchisce di contributi provenienti dalle persone e dai luoghi. L’innovazione continua, e nel 1957 Bruno Munari esprime il suo genio e la sua visione ingenua e creativa con il “Museo Inventato”: installava etichette inventate ad oggetti, sassi, legni e corde, trovati casualmente. Livellava così le gerarchie attraverso un processo creativo conferendo importanza e significato a ciò che comunemente non ne aveva o togliendone per riflesso a ciò a cui invece ne veniva attribuita troppa. Nel 1955, durante una vacanza alle isole Eolie, Bruno Munari allestì un museo immaginario con il figlio Alberto. Esplorando un sito archeologico raccolsero alcuni reperti ed altri oggetti più comuni (un pezzo di legno cotto dal sole, il coperchio tondo in ferro della cisterna di acqua piovana). Questi oggetti diventarono spunti per la ricostruzione di oggetti immaginari. Il gioco si completava con una vera e propria inaugurazione del museo Immaginario delle isole Eolie. Da museo fantasioso a museo delirante: sullo stesso piano dell’immaginazione, ma con tratti molto più accesi e frenetici, l’unico museo che interessava a Szeman era “Il museo delle ossessioni” che portava con sé, nella propria testa. Ogni sua mostra, durante il corso degli anni ‘70, veniva definita come una specie di Gastarbeit (lavoro temporaneo) al servizio di una possibile visualizzazione del museo delle ossessioni. Szeeman definiva il suo museo immaginario un’entità spirituale, una specie di sfera utopica alla quale le mostre accennano soltanto per brevi e felici momenti.
Alexander Dorner Museum mostra Room of Our Time,1930
LA PITTURA COME GESTO Il graffito e le sue parentesi nella storia dell’arte.
41 3.1 L’interpretazione dello spettatore. Al salone della Federation of Modern Painters and Sculptors, Rothko e Gottlieb aveva esposto rispettivamente Syrian Bull e The Rape of Persephone, due opere criticate sulle pagine del New York Times da Edward Alden Jewell. I due artisti, in seguito, replicarono, con la collaborazione di Barnett Newman. Infatti la loro Letter to the Editor, divenuta famosa, affermava la necessità di manifestare “l’espressione poetica dell’essenza del mito” ed esponeva alcuni principi di estetica: un’estetica da leggere esclusivamente nei loro quadri, ogni commento dei quali sarebbe stato sinonimo di travisamento, in quanto “la loro spiegazione doveva scaturire da un incontro pienamente adempiuto tra l’opera e lo spettatore”. Una posizione etica che gli autori della lettera estendono al piano direttamente estetico. Essi sottolineano infatti la necessità che l’arte abbia un contenuto ambizioso, affinché non soccomba alle futili suggestioni degli esercizi di stile. “ Noi sosteniamo che il soggetto è essenziale e che i soli temi validi sono quelli che hanno carattere tragico e atemporale.” Nel 1943 nessun artista era comunque riuscito a realizzare pienamente questo ideale programmatico. Jackson Pollok fu il primo pittore al quale la critica riconobbe il merito di aver dato corpo alle idee sviluppate sulla scena americana. Nel 1947 egli introdusse una modifica importante nei processi pittorici: la tela, di formato grande, invece di essere disposta su un cavalletto o accostata a un muro era stesa sul pavimento. Quanto al colore, Pollock lo proiettava sulla tela grazie a una tecnica che fece clamore: il dripping. Derivato dal verbo to dripp (sgocciolare). Lo stesso Pollock ha descritto la propria azione pittorica: “Io non lavoro partendo da disegni o schizzi colorati. Dipingo direttamente. E dipingo solitamente sul pavimento. Mi piace lavorare su una tela grande. Mi sento meglio, più a mio agio, in uno spazio grande. Con la tela stesa sul pavimento mi sento più vicino al quadro, più parte del quadro. In questo modo posso camminarvi attorno, aggredirlo da tutti e quattro i lati ed essere dentro al quadro. (…) Il metodo pittorico si elabora naturalmente, partendo da una necessità. Voglio esprimere i miei sentimenti più che illustrarli. La tecnica è solo un mezzo per riuscirci”⁷ Si evince quindi come, fin da subito, si è prestato attenzione sia al processo pittorico del drop painting sia al suo risultato plastico. L’arte di Pollock è emblematica dell’action painting, nuova categoria estetica canonizzata da Harold Rosenberg, il quale pone l’accento più sull’atto del dipingere che sull’esito formale conseguito. “A un certo momento i pittori americani, uno dopo l’altro, cominciarono a considerare la tela come un’arena in cui agire, invece che come uno spazio in cui riprodurre, ridisegnare, analizzare o esprimere un oggetto. La tela non era più dunque il supporto di una pittura, bensì un evento” Un evento che rimanda alla vita dell’artista dunque, o meglio, alla vita dell’artista in quel preciso momento, quello in cui il suo quadro sta prendendo forma. Un tipo di arte, di azione legato al gesto, alla spontaneità, quindi fortemente individuale. Dove non esiste progetto o disegno da seguire ma un flusso di istinitvità da cui farsi trasportare. In rapporto allo stretto contatto tra vita e pittura nell’action painting Rosenberg prosegue affermando: “Una pittura che è atto risulterà inseparabile dalla biografia dell’artista. La pittura stessa è un MOMENTO nel miscuglio compositivo della sua vita (…) la nuova pittura insomma ha tolto via ogni separazione fra arte e vita”. Risultato inevitabile di fronte a questo tipo di arte lo sforzo interpretativo dello spettatore, il quale si trova a confrontarsi con un’opera un’opera che non rappresenta nulla se non l’evento di se stessa, in cui la cultura personale non può giocare nessun ruolo, dove le conoscenze dei simboli del mondo dell’arte non riescono a trovare posto, dove solo la sensibilità individuale può aiutare a percepire il quadro. I quadri di Robert Ryman, artista statunitense legato al minimalismo e all’arte concettuale, ne sono un esempio. Generalmente bianchi, erano spesso considerati monocromi, interpretazione di fronte alla quale il pittore insorgeva. Essa tradiva, infatti, una lettura frettolosa delle sue opere, le quali esploravano le potenzialità dei pigmenti, degli utensili, dei supporti, dei modi di intervento, mettevano in mostra la struttura delle tele e comportavano, perché si rendesse loro giustizia, la necessità di identificare “il fare”. “La questione non è mai: cosa dipingere, ma solo: come dipingere”
⁷ Jackson Pollock
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3.2 L’Arte Informale Lo spettatore deve capire il processo costitutivo dell’opera dunque, per trarne semplicemente piacere. Gli artisti incoraggiano volentieri questo approccio descrittivo poiché agevola il compito di chi guarda. Il contenuto dell’opera diviene l’insieme delle procedure utilizzate. É con questa premessa che Richard Serra pubblicò nel 1972 un elenco di «cose da fare: arrotolare, pieghettare, sgualcire, rifilare, strappare». Un elenco che molto ricorda il metodo dell’Arte Informale che si è sempre distinta per la costante sperimentazione tecnico-linguistica estranea al figurativo tradizionale, ma ecletticamente innovativa dal punto di vista materico, segnico e gestuale, caratterizzata dalla ricerca dell’espressione massima del potenziale formalmente pittorico, riducendo a pittura anche le materie ad essa più estranee. Per sua stessa natura non è un movimento artistico omogeneo in quanto nata come risposta artistica alla crisi morale europea, l’Arte Informale nega tutto ciò che può essere riconducibile ad una forma. Svincolati dal filtro della ragione gli artisti di questo movimento propongono un’arte ironica e provocatoria. L’evento artistico si esaurisce soltanto con l’atto della stesso della creazione. I materiali, i mezzi e i supporti diventano quindi protagonisti dell’opera stessa e recitano la parte di veicolatori di un messaggio che è fortemente legato al modo in cui sono stati utilizzati, tagliati, bruciati, levigati. La componente fondamentale dell’Informale risulta essere, inevitabilmente, il gesto insieme alla materia.
Jean Dubuet, Landscape. 1952
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Anche qui l’Arte non è dunque la pittura realizzata ma l’atto di realizzarla, il valore artistico risiede ora nell’atto di eseguire un gesto e non più nel prodotto di quel gesto. L’artista non è più colui che crea eventi ma che li lascia accadere con la spontaneità del momento o la fantasia del sogno. Una delle personalità più influenti di questa corrente è Antoni Tàpies considerato uno degli involontari precursori del graffitismo degli anni Ottanta. Dopo il 1960 compaiono tra le sue opere rappresentazioni di oggetti e pezzi del corpo umano. Ma gli inserti non hanno riferimenti simbolici e sono un puro espediente percettivo. L’elemento figurativo diventa un tracciato pittorico sul quale trovano posto anche componenti come la scrittura e le lettere dell’alfabeto utilizzate come graffiti. “L’artista non ha bisogno di regole. Egli proietta sul materiale una sostanza psichica e questa proiezione costituisce l’essenziale. Ciò che conta, infatti, è questa sorta di elettricità, qualcosa di profondo, una qualità umana (non dico sovrumana) che occorre proiettare sull’opera d’arte. Dobbiamo essere fedeli ai nostri impulsi profondi. Sembra a volte che la nostra ricerca sia soltanto stravanganza ed immaginazione? Che importanza ha? Occorre confidare nell’istinto. Oggi gli uomini si perdono in una fioritura di artifici e di convenzioni. É grave. Dobbiamo lottare con tutte le nostre forze per trovare l’uomo in tutta la sua purezza.” ⁸
⁸ Benincasa, C., La pratica dell’Arte, I.D. 1980
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3.3 I graffiti
con le convenzioni sociali dominanti. Nel 1902 Giacomo Balla non è meno eversivo in Fallimento imbrattando un simbolo
Scritte o disegni tracciati senza autorizzazione negli spazi
della società capitalistica: la porta di un negozio. Il suo tipo di
pubblici, sono oggetto di riprovazione sociale, di condanna
raffigurazione attira doppiamente la nostra attenzione verso il
non destituita di fondamento e sancita dalla legge che, infatti,
basso: perchè Balla non solo mostra esclusivamente la parte
le vieta. Il loro risvolto pittoresco o ancor meglio la loro carica
inferiore della porta ma la presenta anche coperta di graffiti o
eversiva attirano da sempre gli artisti. Angelica e Medoro, i
scritte. Altri artisti operano, nei primi decenni del XX secolo,
due eroi dell’Ariosto, incidevano le loro iniziali intrecciate su
un’autentica mutazione concettuale nel senso che i graffiti
tronchi d’albero e capanne. Oggetto di frequenti interpretazi-
smettono di apparire come eventuali oggetti da riprodurre per
one nel XVII e XVIII secolo, il motivo favolistico fu un buon
diventare un modello operativo, un esempio da meditare e da
vincolo per introdurre il tema dei graffiti nello spazio della
seguire per pervenire a un’espressione più originale. Non
rappresentazione pittorica: un tema che da allora non doveva
si tratta più di copiare le scritte illecite ma di assimilarne lo
e non è più stato abbandonato. I graffiti infantili disegnati sui
spirito, quell’impulso che le fa comparire all’improvviso sui
pilastri delle chiese in certe vedute di Pieter Saenredam (La
muri. L’urgenza del gesto, l’autenticità del proposito e la forza
Bunkrkerk a Utrecht, 1644) o di Gerrit Houckgeest (Il Mauso-
inventiva che presiedono la loro traduzione grafica diventano
leo di Guglielmo d’Olange a Delft, 1651) hanno forse una fun-
altrettante qualità nel momento in cui la violenza e la provo-
zione polemica: alluderebbero alla relativa assenza di immag-
cazione acquisiscono una dignità e un valore estetico. Jean
ini nel templi protestanti. Nel XIX secolo, Rodolphe Töpffer si
Dubuffet adotta uno stile nel 1944 in parte ispirato ai graf-
fa conoscere attraverso le sue figure disegnate a carboncino
fiti. Egli “tiene in grande considerazione i valori della natu-
sui muri, contrapponendo l’espressività naturale delle cari-
ralià: istinto, passione, capriccio, violenza, delirio” Egli ama
cature disegnate senza alcuna preoccupazione artistica alla
«l’embrionale, il malformato, l’imperfetto, l’ibrido” e prefer-
rappresentazione fedele, governata dai modelli acquisiti.
isce “ i diamanti grezzi, ancora avviluppati nella loro ganga,
All’epoca le immagini dei graffiti potevano assumere funzione
difettosi»⁹ Detestando l’arte in alta uniforme, l’arte agghinda-
di indicatore sociale. Se il segno era ridondante si voleva riba-
ta, egli intende “nutrirsi delle impronte, delle tracce istintive”.
dire il carattere popolare del luogo, con un segno invece tras-
Negli anni cinquanta Asger Jorn fonda l’Istituto Scandinavo
gressivo si intendeva assumere un atteggiamento di rottura
del Vandalismo Comparato. Un modo per rispondere a tutti
⁹ Dubuffet J., L’homme du commun à l’ouvrage, Gallimard Paris 973,
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coloro che giudicheranno la “graffitomania” una delle forme
tiva. Alcune di queste assunsero addirittura un aspetto monu-
più nocive del “vandalismo imbecille” denunciato da Louis
mentale posizionandosi sotto l’attenzione di tutti. Si trasfor-
Réau nella sua Histoire du vandalisme. Dopo la seconda guer-
marono in graph. Il nome dell’autore rimane spesso l’unico
ra mondiale, i graffiti, da sempre rimossi, trovano finalmente
motivo conduttore di questi disegni che ricorrono sempre
una loro forma di legittimazione. Basti pensare a quali infiniti
più alle immagini iconografiche più popolari, ai fumetti e alle
rapporti tra arte e graffiti siano tessuti nelle opere di Antoni
pubblicità. Peculiarità del graffito è la sua dichiarata antitesi
Tápie, Joan Miró, Cy Tombly e molti altri. L’ultimo episodio
al quadro, dimostrata dall’appropriarsi, da parte dei graffiti,
dell’avventura congiunta dell’arte e dei graffiti vide pittori
delle mura dello spazio urbano. La matericità del supporto
realizzare opere fuorilegge nelle strade e graffitisti esporre
usato come tela per le proprie creazioni li avvicina consid-
nelle gallerie, diventare artisti. Gerard Zlotykamien fu uno dei
erevolmente all’Arte Informale a cui molti graffitisti attingono
primissimi a saldare la frattura, riuscendo in un’operazione
anche per quanto riguarda lo stile spontaneo e gestuale della
da sempre giudicata impossibile. I suoi Ephémères sorgono
rappresentazione. Richard Ambleton percorre e strade e dis-
all’improvviso sui muri delle città d’Europa: ombre leggere
egna i suoi personaggi neri sui muri delle città. Altri incidono
ma persistenti, questi personaggi restano testimonianze
le loro testimonianze nel cemento fresco dei marciapiedi o
valide per sempre. Zlotykamien getta un ponte tra l’universo
dispongono le proprie sculture sui lampioni, cornicioni o fin-
urbano e il mondo dell’arte e non si accontenta di esporre
estre degli edifici. Manifesti o staccionate offrono spazi ideali
nelle gallerie. Nonostante ciò, le autorità drammatizzano,
all’inventiva politica e il muro di Berlino fu uno dei luoghi sim-
trasformano l’artista in un imputato e lo citano in giudizio.
bolo delle testimonianze di una libertà che poteva esprimersi
Le opere murali, artistiche e trasgressive, sarebbero forse
solo a Ovest. In questo ambiente trovano posto artisti come
rimaste episodiche se il grande movimento graffitista che
Jenny Holzer, Barbara Kruger accanto a Keith Haring e Jean-
scosse gli Stati Uniti nei primi anni settanta non avesse as-
Michel Basquiat. Proprio quest’ultimo aveva fondato con
sunto dimensioni inattese. Sugli spazi di New York i giovani
degli amici, nel 1978, un gruppo informale che indondava
usciti dai ghetti lasciano le loro firme pseudonime, spesso
Manhattan di scritte firmate SAMO, di stampo giovanilistico e
abbinate ai numeri delle loro strade. Nasce così la tag, un
dal tono ribelle. L’anno dopo Basquiat continuò a scrivere da
marchio che invade la metropolitana e percorre l’intera città.
solo le riflessioni di SAMO ironizzando spesso sulle abitudini
Le bande dei quartieri rivaleggiano tra loro in energia crea-
in voga nell’ambiente dei graffitisti. Iniziò a dipingere, scrivere
Giacomo Balla, Fallimento. 1902
2
Cy Twombly, Suma. 1982
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e realizzare collage su supporti indipendenti e nel 1982, divenuto artista a tutti gli effetti, iniziò un’ascesa folgorante grazie anche alla collaborazione del 1984 con Andy Warhol. Nel 1990 la mostra «High & Love» (New York, MoMa) prevede una sezione dedicata ai rapporti tra arte e graffitismo. Il visitatore può ammirare opere di Balla, Pollock, Dubuffet, Hains, Miró, Jorn, Rauschenberg o Twombly, ma nessuna di Haring e Basquiat. In compenso il catalogo aggiunge allo spazio riservato alla mostra un capitolo, Contemporary Reflection, in cui riproduce le loro opere affiancandole a numerose immagini di graffiti e tag recenti.un’opera che non rappresenta nulla se non l’evento di se stessa, in cui la cultura personale non può giocare nessun ruolo, dove le conoscenze dei simboli del mondo dell’arte non riescono a trovare posto, dove solo la sensibilità individuale può aiutare a percepire il quadro. I quadri di Robert Ryman, artista statunitense legato al minimalismo e all’arte concettuale, ne sono un esempio. Generalmente bianchi, erano spesso considerati monocromi, interpretazione di fronte alla quale il pittore insorgeva. Essa tradiva, infatti, una lettura frettolosa delle sue opere, le quali esploravano le potenzialità dei pigmenti, degli utensili, dei supporti, dei modi di intervento, mettevano in mostra la struttura delle tele e comportavano, perché si rendesse loro giustizia, la necessità di identificare “il fare”. “La questione non è mai: cosa dipingere, ma solo: come dipingere” ¹⁰
¹⁰ Ryman R., in catalogo della mostra «Art in Process IV», Finch College Museum of Art, New York, 1969
Pieter Saenredam, Interior of the Buurkerk at Utrecht. 1664
Gerard Houckgeest, The Nieuwe Kerk in Delft. 1600
Stephen, Willats, Wall Print,‘Living in a concrete house’.1980
Robin Rhode, frame della performance Promenade. 2008
GLI ARTISTI ... e le opere
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Jean-Michel Basquiat
Jean-Michel Basquiat è stato un graffiti writer e pittore statunitense. È stato uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano, riuscendo a portare, insieme a Keith Haring, questo movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte. Nasce a Brooklyn nel 1960 e a 17 anni, con l’amico Al Diaz, inizia a fare uso di stupefacenti ed a creare graffiti per le strade di New York con l’acronimo di SAMO. Nel 1978 lascia la scuola, e facendo vita di strada conosce Henry Geldzahler ed Andy Warhol. Nel 1983 stringe una forte amicizia con Andy Warhol, il quale lo aiuta a sfondare nel mondo dell’arte come fenomeno mondiale emergente. I dipinti di Jean-Michel erano caratterizzati da immagini rozze, infantili, facendo riferimento alla Art Brut di Jean Dubuffet. L’elemento che però contraddistingue l’arte di Basquiat è essenzialmente l’utilizzo delle parole, inserite nei suoi dipinti come parte integrante, ma anche come sfondo. Nel 1984, insieme ad Andy Warhol e a Francesco Clemente, inizia una serie di collaborazioni, di dipinti a “sei mani” commissionati da Bruno Bischofberger. Ormai conosciuto espone aNew York, Zurigo, Tokio ma muore di overdose nell’agosto del 1988.
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Hans Hartung
Hans Hartung é nato a Leipzig nel 1904. Studia presso l’Akademie der schönen Kûnste della sua città (1924-1926), poi alle Belle Arti di Monaco. Hans Hartung si entusiasma per Rembrandt, Goya, El Greco, ma anche per Kokoschka e Nolde. Lascia la Germania nel 1932, viaggia in Europa e si stabilisce a Parigi nel 1935. Nel 1944 si arruola e sarà ferito: la gamba destra gli verrà amputata. Così traduce la sua sofferenza in una pittura astratta e lirica. L’artista pensa che solo il “tachisme” può trasmettere la disperazione degli orrori della guerra. Hans Hartung riceve il Gran Premio della Biennale di Venezia nel 1960. E’ in questo periodo che L’artista si sforzerà attraverso la sua opera, di fissare il dinamismo e la constanza delle forze che creano la materia, la luce e lo spirito. Nel 1986, inizia una serie di opere molto colorate in cui proietta colate su carta da imballaggio. Durante gli ultimi tre anni di vita, Hartung si rinnova profondamente con lo scopo di offrire a sé stesso e agli altri un ultimo periodo di creazione. Si spegne nel 1989 ad Antibes, dopo essere stato insignito di tutti gli omaggi e le onorificenze possibili. Ad Antibes è stato aperto al pubblico un museo e centro studi sulla sua opera (2006), che porta il suo nome.
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Antoni Tàpies
Antoni Tàpies é nato nel 1923 a Barcellona. Nel 1948 fonda con altri artisti il gruppo “Dau al Set” e la rivista che porta lo stesso nome. Dopo un periodo di opere surrealiste, si interessa alla filosofia ed all’arte orientale, soprattutto alla calligrafia. Tapies trasforma i materiali più diversi, spesso i più poveri, in segni pittorici. L’artista include colori e fossili in blocchi impastati di colla, di sabbia e di gesso che diventeranno “dei muri, testimonianza del martirio del nostro popolo”. Impiega giornali e pezzi di corda per dei collages dal contenuto sociale provocatore. Nel 1951 a Parigi incontra Braque e Picasso, e scopre l’arte informale con Dubuffet e Fautrier. L’artista ritorna a composizioni dal carattere più figurativo verso la fine degli anni ’60. La croce diventa un elemento ricorrente nella sua opera, sia dipinta che grafica. Le sue composizioni lacerate e graffiate continuano ad esprimere una posizione di contestazione. Agli inizi degli anni ’80, Tapies realizza delle “installazioni” , si dedica alle arti della ceramica e del mosaico. Antoni Tàpies e autore di diverse opere di riflessione sull’arte tra cui : Pràtica de l’art (1970), l’Art contra l’Estetica (1974). L’artista è morto il 6 febbraio 2012, aveva 88 anni.
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Camille Bryen
Giovane telegrafista, Camille Bryen non ha ancora vent’anni quando, attirato dai surrealisti, viene a Parigi nel 1926. Nato a Nantes nel 1907, pubblica una prima raccolta di poesie, “Opopanax” nel ’27. E’ del ’32 la raccolta “Expériences” che coniuga poesie, disegni e collage e prefigura i disegni automatici. Realizza nel ’36 la sua prima opera “tachista”. In questo stesso anno, Bryen partecipa alla manifestazione che celebra i vent’anni dello spirito “dada” e che si tiene alla Sorbona. Firma il manifesto “dimensionniste” con Arp, Duchamp e Picabia. In quel periodo viene considerato come un poeta postdadaista. Collabora con Ubac. Nel ’48 organizza la prima esposizione di “astrazione lirica”, nata l’anno precedente (“non figurazione psichica”). L’artista si dà all’incisione e nel ’49 comincia a dipingere a olio, ritenendo che la pittura possa aprire le porte di una libertà di espressione senza limiti. Il 1950 è l’anno della pubblicazione di “Héréphile”, una delle sue opere più famose, è anche l’anno in cui Bryen cessa completamente la sua attività poetica per dedicarsi a tempo pieno alla pittura. La sua arte evolverà verso un’astrazione delicata e misurata. Camille Bryen muore a Parigi nel 1977.
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Jean Dubuffet
Jean Dubuffet è nato a Le Havre nel 1901. Nel ’18 studia disegno all’Accademia Julian di Parigi, frequenta Suzanne Valadon e Max Jacob e Raoul Dufy. Nel 1942 decide di consacrarsi definitivamente all’arte. In questa fase pratica una pittura figurativa, sperimenta, rimette costantemente in discussione forme, materiali e tecniche. Nel 1944 si organizza la sua prima esposizione personale alla Galleria René Drouin di Parigi. A Parigi la sua arte scandalizza e disturba perché l’artista mette in mostra dei personaggi primitivi dagli organi sessuali ben visibili. La lettura dell’opera “La creazione presso i malati mentali” di Hans Prinzhorn lo spinge verso “l’art brut” un’arte informe, primitiva, “non educata”; “la pittura parla meglio delle parole”, dice l’artista. Negli anni ’50 Dubuffet usa materiali diversi per descrivere i “paesaggi mentali”. Nel decennio successivo creerà il ciclo “l’ Hourloupe”, un inventario del mondo “parallelo al nostro”. Questo inventario, terminato nel ’74, è costituito da pitture e sculture gigantesche in resine epossidiche per le quali egli contorna di nero delle forme blu, bianche e rosse. Muore a Parigi nel 1985. Viene considerato uno degli artisti più importanti del XX secolo.
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Arshile Gorky
Vostanik Manoog Adoyan (Khorkom, 15 aprile 1904 – Sherman, 21 luglio 1948), noto come Arshile Gorky (che in russo significa “amaro”), è stato un pittore armeno naturalizzato statunitense, esponente dell’espressionismo astratto. Lavorò negli Stati Uniti con gli amici Jackson Pollock, Willem de Kooning e soprattutto con Sebastian Matta, che lo influenzò con le sue teorie esistenziali-psicologiche. Morì suicida all’età di 44 anni. Di tale gesto venne accusato Sebastian Matta a causa di una sua relazione con la moglie dell’artista armeno. Harold Rosenberg scrive «Matta diventò “l’altro” di Gorky, nel senso più fatale del termine... come punto focale della sua violenta gelosia.» Nei primi dipinti si misurava ancora con i maestri del primo Novecento come Picasso nel periodo rosa e nella svolta cubista. Ma già si intravedeva nel suo stile una morfologia morbida ed elastica, senza angoli né spigoli e con colori caldi e soffici. I suoi lavori si trovano, tra gli altri, alla National Gallery of Art di Washington, al Museum of Modern Art, Metropolitan Museum of Art e Whitney Museum of American Art di New York, all’Art Institute of Chicago, e alla Tate Gallery di Londra.
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Jean-Paul Riopelle
Jean-Paul Riopelle nasce a Montreal nel 1923. Realizza le sue prime opere astratte a metà degli anni 40, anni in cui partecipa alle attività del cosiddetto gruppo degli “automatistes” canadesi. In quegli anni, a Parigi, incontra André Breton, e firma il volantino surrealista “Rottura Inaugurale”, fonte di ispirazione nel ’48 del manifesto “Rifiuto Globale” degli automatisti canadesi. E’ del ’49 la sua prima Personale a Parigi alla Galerie du Dragon. In questo stesso anno partecipa alla mostra “Veemenze a confronto” (con Pollock, Rothko, Mathieu, Sam Francis, Tobey, Hans Hartung, etc…). Grazie alla sua amicizia con lo storico d’arte Georges Duthuit, conosce, a Parigi, tutti quelli che contano in pittura, come Sam Francis, Mathieu, Nicolas de Stael, e altri. Viene allora considerato come uno dei pittori più significativi dell’ Ecole de Paris. Con l’avvento degli anni 60 Riopelle diversifica i suoi mezzi espressivi, affrontando l’inchiostro su carta, l’acquarello, la litografia, il collage e naturalmente l’olio. E’ a metà degli anni 60 che l’artista inizia la sua collaborazione con la Galleria Maeght. Importanti retrospettive del suo lavoro vengono organizzate nel mondo intero. Riopelle si è spento nel 2002 nell’ Ile aux Grues.
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Jackson Pollock
Jean-Paul Riopelle nasce a Montreal nel 1923. Realizza le sue prime opere astratte a metà degli anni ‘40, anni in cui partecipa alle attività del gruppo degli “automatistes” canadesi. Comincia nel ’46 ad esporre col gruppo. L‘anno dopo a Parigi incontra André Breton, firma il volantino surrealista “Rottura Inaugurale”, fonte di ispirazione nel ’48 per la redazione del manifesto “Rifiuto Globale” degli automatisti canadesi. E’ del ’49 la sua prima Personale a Parigi alla Galerie du Dragon. In questo stesso anno partecipa alla mostra “Veemenze a confronto”. Viene allora considerato come uno dei pittori più significativi dell’ Ecole de Paris. Con l’avvento degli anni 60 Riopelle diversifica i suoi mezzi espressivi, affrontando l’inchiostro su carta, l’acquarello, la litografia, il collage e l’olio. A metà degli anni 60 inizia la sua collaborazione con la Galleria Maeght. La sua carriera internazionale assume una nuova dimensione. Riceve il premio Paul-Emile Borduas nel 1981. Bisogna considerare Riopelle come un gigante nella storia dell’arte della seconda metà del ventesimo secolo; le sue opere figurano nelle collezioni dei grandi musei di tutto il mondo. Jean-Paul Riopelle ha vissuto nel Québec i suoi ultimi anni e si è spento nel 2002 nell’ Ile aux Grues.
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Cy Twombly
Dal 1947 al 1949 studia al School of the Museum of Fine Arts di Boston, alla Washington and Lee University e al Art Students League di New York dal 1950 al 1951. Lì conosce Robert Rauschenberg che lo accompagna al Black Mountain College, nei pressi di Asheville, nella Carolina del Nord, dove conosce anche John Cage. Nel 1951 e 1952 è discepolo di Franz Kline, Robert Motherwell e Ben Shahn. Nel 1951 organizza la sua prima mostra presso la Kootz Gallery di New York. In questo periodo le sue opere subiscono una forte influenza dall’espressionismo in bianco e nero di Franz Kline e dall’immagine di Paul Klee.
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Alfred Otto Wolfgang Schulze - Wols
Alfred Wolfgang Schulze, nasce a Berlino nel 1913. Frequenta il Bauhaus di Berlino, dove si lega a Gropius, Mies Van der Rohe e Moholy-Nagy. Arriva a Parigi nel ’33 e fa il fotografo per guadagnarsi da vivere. Raggiunge i surrealisti, si lega a Miro’, Ernst, Calder, Tanguy, Brauner e Tzara. Da queste amicizie nascono dei piccoli formati trattati all’acquerello ed all’inchiostro di china. E’ del ‘36 la sua prima mostra personale e dell’anno successivo la scelta del suo nome d’arte: Otto Wols. Nel ’38 l’artista decide di fare della sua vita un’opera d’arte totale, legando fra loro arte, scienza, filosofia e vita. Durante la guerra stette in un campo di internato civile, che gli causerà una depressione da cui non riuscirà più a ristabilirsi. Allora consacra completamente la sua vita alla pittura e affida allo scrittore Kay Boyle un centinaio di acquerelli da esporre negli Stati Uniti. Nel ’41 gli sarà infatti consacrata un’esposizione a New York. Nel ’42 Otto Wols si rifugia a Dieulefit e sprofonda nell‘alcohol: da qui la sua pittura diventa brutale, automatica, esistenziale. Otto Wols inventa il “tachisme”, corrispondente europeo dell’Action Painting americano di Jackson Pollock. A cavallo fra espressionismo e surrealismo, pittore dall’immaginazione visionaria ed allucinata, Otto Wols muore a Parigi nel 1951.
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Jean Fautrier
Jean Fautrier (Parigi 1898 – Châtenay-Malabry 1964) è stato un pittore e scultore francese, uno dei maggiori esponenti del Tachisme e una delle principali figure dell’arte informale. Partecipò alla XXX Esposizione internazionale d’arte di Venezia. Frequenta la Royal Academy e poi la Slade School of Art. Visitando la Tate Gallery scopre la pittura di Turner, che lo influenza profondamente. Durante la guerra si impegna nella resistenza contro i tedeschi e nel 1943 viene arrestato per un periodo. Dopo questo episodio si trasferisce a Chatenay, dove dipinge uno dei cicli più famosi, gli Otâges (ostaggi), opere di straordinaria intensità, ma il successo non è immediato poichè i suoi lavori sono troppo crudi e drammatici. Deluso, Fautrier si allontana dall’ambiente artistico. Si dedica, ad illustrazioni di libri per Gallimard e alla produzione di opere grafiche, gli Originaux multiples. Nel 1955 è pronto per una nuova esposizione alla Galerie Rive Droite di Parigi. Vi espone Les Objects, riscuotendo stavolta un esito migliore. L’opera di Fautrier, complice la diffusione dell’Informale, ottiene grandi riconoscimenti. Nel 1960 la sua carriera viene consacrata dal primo premio (ex equo con Hartung) alla Biennale di Venezia. Nel 1961, riceve il Gran Premio Internazionale alla Biennale di Tokyo.
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Tom Phillips
Thomas Phillips (1770 - 1845) dipinse molti grandi uomini tra cui ricercatori, artisti, scrittori, poeti. Acquisì l’arte del vetro e, dopo il 1796, si limiò principalmente alla ritrattistica. Tuttavia, il campo era molto affollato, con artisti del calibro di John Hoppner, William Owen, Thomas Lawrence e Martin Archer Shee, così i suoi lavori esposti furono principalmente ritratti di gentiluomini e dame. Nel 1804 è stato eletto un socio della Royal Academy, insieme al suo rivale, William Owen. Nel 1807 inviò alla Royal Academy il noto ritratto di William Blake, ora alla National Portrait Gallery di Londra. Nel 1825 fu eletto professore di pittura alla Royal Academy. Lasciò la cattedra nel 1832, e nel 1833 pubblicò le sue “Lezioni sulla storia dei principi della pittura”. Phillips ha dipinto ritratti di Walter Scott, Robert Southey, George Anthony Legh Keck (1830), Thomas Campbell (poeta), Samuel Taylor Coleridge, Henry Hallam, Mary Somerville, Sir Edward Parry e molti altri. Oltre a questi, dipinse due ritratti di Sir David Wilkie, il duca di York, e di Napoleone I.
LA COPIA
77
La letteratura, le arti visive, la musica, il teatro ed in generale
benze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza
qualsiasi forma di espressione artistica, sono dei fenomeni
dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo (...) La riprodu-
comunicativi. Esse usano i linguaggi della comunicazione
zione tecnica del suono venne affrontata alla fine del secolo
quotidiana come le parole, i suoni o le immagini per produr-
scorso (...) Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva rag-
re dei messaggi che hanno (o cui viene attribuito) un valore
giunto un livello, che le permetteva, non soltanto di prendere
estetico. Cosa sia esattamente questo valore estetico e se
come oggetto tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e
esso sia una qualificazione che noi destinatari attribuiamo
di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conqui-
ad un oggetto, fisico o virtuale che sia, o sia piuttosto un
starsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artistici» ¹¹
alcunché di oggettivamente esistente, è tema di discussione secolare tra artisti, filosofi e studiosi.
In questo scritto Benjamin si pone a ragionare proprio sul rapporto tra arte e tecnologie comunicative. Sulla base di
«In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riprodu-
questa analisi, infatti, si rende conto di come la comparsa
cibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere
sulla scena, a far data dalla metà dell’Ottocento, di nuove e
rifatta da uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate dagli
sempre più raffinate tecnologie di rappresentazione e comu-
allievi per esercitarsi nell’arte, dai maestri per diffondere le
nicazione stava modificando tanto il modo di fare arte quanto
opere, infine da terzi semplicemente avidi di guadagni (...) I
la concezione stessa di che cosa sia l’arte ed il suo ruolo nella
greci conoscevano soltanto due procedimenti per la riprodu-
società. L’intera storia dell’arte e della letteratura del nostro
zione tecnica delle opere d’arte: la fusione e il conio. Bron-
secolo, caratterizzata da un susseguirsi di avanguardie e di
zi, terrecotte e monete erano le uniche opere d’arte che essi
successivi ritorni all’ordine, si può interpretare alla luce di
fossero in grado di produrre in quantità. Tutte le altre erano
questo rapporto. La tesi centrale di Benjamin è quella secon-
uniche e non tecnicamente riproducibili. Con la silografia di-
do cui la disponibilità di strumenti tecnici che permettono di
venta per la prima volta riproducibile la grafica (...) Gli enormi
produrre e di riprodurre gli oggetti artistici porti finalmente
mutamenti che la stampa, cioè la riproducibilità tecnica della
a compimento il superamento della concezione idealistica
scrittura, ha suscitato nella letteratura sono noti (...) Con la
dell’arte. Quella concezione per cui l’arte è un’attività sacrale
fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano
che l’artista, individuo eccezionale, pratica in piena solitudine;
si vide per la prima volta scaricata delle più importanti incom-
di conseguenza l’opera d’arte è un oggetto unico ed irripetibi-
¹¹ Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. 1936.
Guernica, Picasso. Mostra a Palazzo reale, 1953
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le che trae il suo valore dal suo essere hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ciò che viene meno può essere riassunto con la nozione di «aura» sostenendo quindi che ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico ed il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe riformulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione si pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi e permettendo quindi alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, si attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano ad un violento sconvolgimento che investe ciò che viene tramandato - a un modificarsi della tradizione che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Tutti questi processi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Benjamin ritiene che la riproducibilità dell’arte, oltre ad aver messo in risalto il valore espositivo della stessa (prima nemmeno definibile come tale, ma attinente alla dimensione sacrale e religiosa), permette la fruizione delle opere d’arte ad un pubblico vastissimo ossia all’intera società massificata. La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del “sempre uguale” per uomini rimasti privi di saggezza; ma in questo processo, sempre secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente. «La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte dovrebbe – almeno nella lucida formulazione di Benjamin – far “vacillare” l’autorità dell’oggetto riprodotto, quell’autorità legata alla sua unicità e autenticità (...) è la stessa tecnica della riproduzione (prima ancora che gli oggetti sottoposti ad essa) che per Benjamin diviene comunicativa, significante, carica di messaggi» ¹²
¹² Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. 1936.
Antony Gormley, Field, 1989-2003
Katharina Fritsch - Company at Table, 1988
La riproducibilità elimina l’aura dall’opera d’arte, ma non per questo ne mina la funzione estetica. Piuttosto la ridefinisce in relazione alle mutate condizioni storiche ed alla nascita della società di massa. n questo nuovo contesto sociale la fruizione dell’opera d’arte diventa tanto un’esigenza quanto un’opportunità collettiva. Per questo il fondamento dell’arte passa dalla sfera del sacro e del rito a quella della politica e della comunicazione sociale. In questa tendenza si collocano sia i primi grandi autori dell’allora nascente cinematografia, sia alcuni tra i movimenti delle cosiddette avanguardie storiche (pur tra loro molti diversi). Le nuove forme d’arte sono quindi accomunate da uno stesso tratto: la riproducibilità tecnica capace di annullare la distinzione tra originale e copia, sovvertendo il tradizionale rapporto tra il pubblico e i prodotti artistici. La validità della serie è tutta contenuta in quel processo di ideazione, di previsione e di programmazione del risultato finale che vede frammentarsi la consistenza concettuale del singolo elemento, e dissolversi l’unicità e l’autenticità del prodotto. «L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso. Ma nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte» ¹³ Nell’elaborare il concetto di aura, Benjamin più volte si riferisce all’ancoraggio dell’opera d’arte entro un contesto tradizionale, nel quale si rivela la sua autenticità. Ora, proprio a partire dal ruolo della tradizione, il pensiero del filosofo si snoda su un secondo passaggio: la distinzione tra il valore culturale ed il valore espositivo dell’opera. Il valore culturale è legato alla fruizione religiosa o magica dell’opera, i cui elementi estetici sono prevalentemente tralasciati. «Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione – scrive Benjamin – trovava la sua espressione nel culto. (...) Il valore unico dell’opera d’arte autentica trova la sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo ed originario valore d’uso». ¹⁴ L’aura quindi si esprimeva prima nel radicamento nella tradizione rituale e magica, poi in quella religiosa.
¹³ ¹⁴ Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. 1936.
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Il valore espositivo si estrinseca attraverso l’affievolimento e la definitiva scomparsa del valore culturale e dall’importanza dell’aspetto estetico. In riferimento al valore culturale si può pensare ad una statua di una divinità greca, valorizzata come centro di attrazione di rituali, espressioni della dimensione divina. Se tale statua viene inserita in uno spazio museale, descritta minuziosamente nei suo aspetti stilistici, allora in questo modo si esprimerà il valore espositivo. La riproducibilità dell’arte ha sicuramente segnato questo rivoluzionario passaggio da valore culturale a un valore espositivo. Da un lato le opere del passato possono essere rese disponibili quasi a tutti, quindi il carattere della fruizione dell’arte viene alterato ma allo stesso tempo lo sviluppo tecnologico deve permettere a quella stessa massa la possibilità di creare nuove forme d’arte. L’avvento tecnologico ha quindi prodotto vantaggi creando nuove condizioni tali da aprire l’arte al grande pubblico. Benjamin quindi non solo ritiene che sia possibile l’espressione dell’arte autentica nella società di massa, ma ritiene che sia un’ottima soluzione. Fondamentale in questo contesto è la dialettica che si deve creare tra l’atteggiamento critico da un lato e il godimento nell’incontro con l’arte dall’altro. Alcune riflessioni contenute nell’opera di Benjamin possono apparire oggi datate, tuttavia, se si guarda allo sviluppo dell’attività artistica dal secondo dopoguerra, ci si rende conto di come gli assunti basilari del suo pensiero siano tuttora validi. In primo luogo il nesso tra arte e tecnologie di comunicazione di massa è divenuto l’asse centrale di gran parte della sperimentazione artistica. In secondo luogo il concetto di opera d’arte si è ulteriormente desacralizzato, integrando al suo interno una serie di attività e fenomeni comunicativi sempre più vasta, e di conseguenze rendendo sempre più labili i confini tra arte “colta” e cultura della comunicazione di massa (intesa sia come comunicazione che si rivolge ad un pubblico di massa sia come comunicazione che proviene da un numero sempre più esteso di emittenti). In terzo luogo ogni nuovo strumento tecnico di produzione e riproduzione è stato assunto nell’ambito dell’attività artistica, portando con sé nuova capacità espressive e nuovi modi di vedere e rappresentare, così come la fotografia ed il cinema avevano fatto a suo tempo. Ed infine tutti questi processi, intersecandosi con il mutare delle condizioni storico politiche hanno portato ad una socializzazione (non diremmo più oggi massificazione per via dei connotati negativi assunti da questo termine) dell’attività estetica, sia sul versante della fruizione sia su quello della produzione. A suo tempo Benjamin s’interrogava sul destino dell’arte nel contesto delle trasformazioni radicali indotte dall’invenzione e dalla diffusione di nuovi dispositivi tecnologici quali la fotografia e il cinema. Le nuove forme d’arte sono accomunate da uno stesso tratto: la riproducibilità tecnica capace di annullare la distinzione tra originale e copia, sovvertendo il tradizionale rapporto tra il pubblico e i prodotti artistici. Benjamin scorgeva il tratto distintivo della riproducibilità dell’arte che avrebbe cancellato l’aura individuata delle opere, la loro stessa presenza incantatrice. Tuttavia il nesso tra riproducibilità e tecnica dell’arte affonda immediatamente nel crinale degli effetti replicabili delle immagini, create ex novo e perciò discoste da prototipi e matrici. Le cose naturali sono esemplarmente uniche e individuate, nascono da modelli originali che riappaiono di volta
Gessi di Canova, Gipsoteca Canoviana, Possagno.
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in volta in nuove fogge. Le opere d’arte sostano invece nella loro diffe-renziazione dall’origine irreperibile, nascono cioè non già dal nulla, bensì dal senso costrutto, dall’immagine. Che si possa copiare un quadro, una scultura, un disegno è solo l’effetto di superficie, la patina ovvia del concetto di riproduzione, giacché nell’essere copia (perciò intrinsecamente riproducibile) risiede l’essenza stessa dell’opera d’arte che nasce senza modello, che sboccia per invenzione di un artefice zoppo e mostruosamente equivoco: un creatore di idoli privo di originali e sprovvisto di matrici. L’arte, laddove essa smaschera ogni origine, si manifesta nella pura esistenza che produce effetti e prodotti, generando il piacere quasi cultuale della forma che è creazione senza coito e senza corpo, bensì invenzione e contagio della copia che genera un’immagine sensibile. Se è pur vero che nessun artista si accalca ancora nei musei per riprodurre un Caravaggio, se l’aura benjaminiana che consisteva nell’unicità e nell’individualità dell’opera non è più un connotato essenziale dell’oggetto d’arte, è altresì manifesto come l’arte, in qualità di tecnica dell’immagine, precipiti, ab origine, nella ripetizione della sua replicabilità. Inventando impronte senza coni, simulacri del reale, effettività artificiali, le arti sono tecniche. L’arte è senza aura, manifesta una presenza autoreferenziale snodata da qualsivoglia principio teologico o naturale. Dunque l’arte è riproduzione diffusa, copia singolare della religione delle parti e smascheramento beffardo di ogni origine.
IL FUORISCALA ... e il fuoriluogo
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Parlando di fuori scala in termini progettuali, si può trovare
semplice, soprattutto in riferimento al contenuto di questa
infinito materiale, soprattutto risalente agli ultimi cinquanta
tesi, è la seguente: “Scala: un sistema di misura che forni-
anni, ma pochissime sono le informazioni in comune e con-
sca una proporzione adeguata tra elementi contigui”. Chiara
cordanti a partire dalla sua definizione.
e concisa, lascerebbe ben sperare in un’adeguata definizione
Pur essendo un concetto di uso quotidiano, ne manca una
del suo ipotetico contrario ma apparentemente nessun voca-
qualunque lettura comunemente accettata e questo ne ha
bolario o dizionario italiano fornisce una definizione di alcun
sostanzialmente fatto un contenitore di qualunque significato
genere.
nel tutto e nel suo contrario.
In un saggio di qualche anno fa, Lorenzo dall’Olio proponeva
Tutti sappiamo per esperienza comparativa e sensoriale cosa
questa definizione: “il fuori scala e, in particolare, ciò che non
sia un fuori scala. Più difficile è definirlo. La nostra forma
può essere contenuto in una forma avente una dimensione
mentis “europea” è ben nutrita da secoli di rappresentazioni
tale da permettere una funzione totale e immediata è, para-
di ordini, di studi del contesto, di rapporto umano, cionono-
dossalmente, la concretizzazione in un’unica opera e nello
stante abbiamo difficoltà nell’interpretare oggi quello che è
stesso tempo, dell’illimitato e del finito”. Questa definizione è
sempre stato metodo di progetto sin dai tempi più antichi.
particolarmente interessante perchè propone il tema della fru-
Il termine Fuori Scala nel linguaggio comune è una parola
izione dell’opera. Fruizione, beninteso, principalmente visiva,
spesso utilizzata apparentemente a sproposito, fuori contesto
in quanto esempio di un percorso concettuale che, partendo
o in ambiti apparentemente diversissimi. Potenzialmente tut-
dagli oggetti d’arte fuori scala arrivava ad edifici con la con-
to può essere Fuori Scala come nulla può esserlo. Per capine
notazione del fuori scala.
il significato bisogna porre questo concetto a confronto con
Nel suo Bigness del 1995, Rem Koohlaas cita questa tra i
un contesto, umano, ambientale, architettonico, urbano, se-
punti che definiscono l’esistenza della Bigness: “superata una
mantico o naturale. Ma spesso, esso viene usato nel linguag-
certa massa critica, un edificio diventa un Grande Edificio.
gio comune anche per definire qualcosa di troppo diverso
Una tale mole non riesce più ad essere controllata da un solo
rispetto a una scala di confronto. Il Fuori scala non è buono
gesto architettonico, e nemmeno da una qualsivoglia combi-
né cattivo, brutto né bello, è diverso dal suo ambito, è altro.
nazione di gesti architettonici. Questa impossibilità fa scattare
Alla definizione di scala troviamo innumerevoli esempi su
l’autonomia delle parti, il che è diverso dalla frammentazione:
ogni tipo di vocabolario, straniero e non. La più generica e
le parti restano legate al tutto”. Koohlas non parla di fuori sca-
Boris Ignatovich, Near the Hermitage. 1930
91 la in senso stretto ma il fine è di sottolineare l’unicità della fruizione visiva e fisica di un’opera di architettura. Un’altra definizione di scala e, di conseguenza, di fuori scala è la seguente: Scala: correlazione armonica fra le parti, in ossequio a rapporti gerarchici considerati abituali Fuori scala: condizione opposta al rapporto di scala, si verifica quando i rapporti dimensionali considerati abituali vengono volutamente alterati. La scala come metodo di rappresentazione è stato ricercato e studiato sin dagli albori dell’arte umana. Il fuori scala a sua volta è stato sempre al centro dell’attenzione per tali rappresentazioni quando si è voluto far emergere un’anomalia o un segno di maggior importanza. Le pitture rupestri sparse in tutta Europa danno diverse interpretazioni circa i singoli momenti della caccia. Il leader del gruppo è spesso rappresentato più grande rispetto ai suoi compagni. La preda, ingigantita, consente di dare maggiore importanza al cacciatore. Negli affreschi egizi si ha il medesimo effetto nella rappresentazione di faraoni e scribi, generalmente riportati da due o tre volte più grandi dei sudditi. In maniera intuituva si è sempre provato a lavorare sul fuori scala in mancanza di altri strumenti più atti a definire status e importanza dei personaggi delle rappresentazioni. È questo il periodo in cui si comincia a guardare alle meraviglie del mondo classico, non a caso quasi tutti dei perfetti esempi di fuori scala. L’Artemision a Mileto o il tempo di Zeus ad Agrigento, così come il Colosso di Rodi o le Piramidi ne sono dei perfetti esempi. Gli antichi erano affascinati da questi esempi di fuori scala proprio perchè erano gli elementi fuori dall’ordinario. L’effetto che si ricercava passava dall’ammirazione alla soggezione. Era una ricerca dell’effetto di meraviglia sull’osservatore. Bisogna, per certo, parlare delle piramidi come archetipo dell’architettura smisurata, architettura che tra stupore, orgoglio e oppressione rappresentava al meglio il senso del potere dell’epoca antica, non si può non approdare a quell’elenco di cosiddette Meraviglie del mondo antico che, pur cambiando i soggetti numerose volte, ha definito in maniera imperitura i canoni di ciò che il fuori scala poteva produrre in termini di rappresentazione del potere, dando peraltro ispirazione a tutta una serie di meraviglie architettoniche che nei secoli successivi, e in tutto il mondo hanno preso il posto di quelle originali nell’immaginario collettivo. Volendo elencarle, si possono citare la grande Piramide di Cheope, il Colosso di Rodi, il Faro di Alessandria, l’Artemision di Efeso, i Giardini Pensili e le mura di Babilonia, lo Zeus Fidiaco di Olimpia e il Mausoleo di Alicarnasso. E successivamente si sono volute aggiungere la Grande Muraglia Cinese, il Taj Mahal, i giganteschi Budda dell’Asia centrale, il Colosseo e altre ancora. Il dato comune a tutte queste opere è la volontà degli autori di stupire con l’uso della magnificenza, una smisuratezza estetica e dimensionale che ha condotto la fama di queste opere, pur in buona parte scomparse, ad attraversare i secoli e giungere fino a noi. A partire dal Rinascimento si ricomincia a lavorare sull’ordine e sul rapporto umano come si fosse in un continuo ciclo di morte e rinascita delle proporzioni codificate e di nuovo, come già era avvenuto nel mondo classico, la teorizzazione del ritorno all’ordine viene seguita di poco dalla ricerca del fuori scala. Le membra del David Michelangiolesco sono scalate differentemente alla ricerca del perfetto punto di osservazione del fruitore.
Christo, Wrapped Coast, Australia. 1969
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È quindi l’illusionismo abbinato al gigantismo la tecnica uti-
Questo è uno strumento ancora acerbo ma già contiene in se
lizzata per stupire e impressionare il pubblico, con l’obiettivo
tutte le caratteristiche che più avanti dittature ben più feroci
di ottenere una muta contemplazione. Tra i periodi artistici
useranno in maniera massiva e totalizzante. Lo straniamento
successivi, perlomeno in Europa, è il Neoclassicismo che si
dovuto alle proporzioni estreme dei nuovi contesti urbani
distingue maggiormente per un uso intensivo del fuori scala.
saranno un marchio indelebile per la concezione del fuori
I regimi successivi, da quelli Napoleonici a quelli della Re-
scala in architettura.
staurazione monarchica, usano tale modalità stilistica come
Fuori scala che curiosamente avrà ben altri risvolti nel corso
un’arma di convincimento sui popoli governati.
del XX secolo nel campo dell’arte. Sempre parlando di stra-
Dipinti immensi e dallo spirito educativo, realistici e mito-
niamento e decontestualizzazione, a partire dai primi anni
logici dovevano riempire l’immaginario dell’osservatore ed
venti, l’arte si interessò in maniera peculiare al tema del fuori
educarlo al contempo. Grandi mausolei con ordini giganti,
scala con finalità diverse pur se tangenziali rispetto ai risul-
giardini pubblici sconfinati, nuovi “Pantheon”, palazzi del
tati che si stavano per ottenere nel campo dell’architettura
potere alti e ingombranti stagliati su piazze ad emiciclo, qua-
Totalitaria.
si nuovi Fori imperiali.
Metafisici prima e Surrealisti poi riproporranno il tema dello
Le meraviglie del mondo antico nascono da archetipi classici
straniamento in maniera quasi scherzosa pur con radici fi-
come quello del muro, del giardino delle delizie, il mausoleo
losofiche affondanti nelle teorie psicanalitiche sviluppatesi a
cilindrico, la piramide, l’essere super umano.
seguito dell’affermazione delle teorie di Freud.
Spesso emergono da un mondo dove una definizione cano-
Oggetti di uso comune posti in un contesto diverso e stra-
nica di bellezza è già stata espressa o è comunque in piena
ordinario. Le basi sono già poste per la rivoluzione POP
maturazione, come nel contesto artistico Ellenico o della
successiva, più duratura e feconda nel rapporto diretto con
Cina dei primi imperi.
l’architettura. I Land Artist, a partire dalla fine degli anni ses-
Ma le Meraviglie sono una reazione allo splendido under-
santa propongono un’ulteriore salto concettuale e visivo.
statement della perfezione classica. Nascono per emergere.
A partire dalle sperimentazioni di Claes Oldenburg e Robert
E in un mondo dominato dalla ricerca di armonia di pro-
Smithson il fuori scala in arte ha raggiunto nuovi livelli di
porzioni, l’arma migliore per emergere è il sovvertimento di
scala ed obiettivi innovativi. Gli oggetti di uso comune esco-
ogni proporzione, l’estremizzazione di ogni misura e canone
no dalla tela surrealista e le dimensioni lievitano fino a stra-
conosciuto fino all’eccesso.
volgere il rapporto con l’unità di misura della figura umana.
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In questo caso si tratta soprattutto della volontà di modifi-
d’importanza col tempo rispetto al visibile nell’arte, così lo
care il rapporto fra l’opera e l’osservatore, di inserire l’uomo
straniamento derivato dalla decontestualizzazione del fuori
in un’ esperienza fruitiva diversa, che preveda soltanto un
scala con fine simbolico e psicanalitico aveva avuto vita bre-
“dentro” l’opera e che non consenta, invece, una visione di-
ve finendo estinto assieme alla stagione delle avanguardie.
staccata, frontale, meramente visiva.
Il seme lanciato venne comunque fatto crescere a partire
La scoperta della psicanalisi, alla fine del XX secolo, aveva
dagli anni ’60 con le nuove ricerche sul fuori scala nate
portato a guardare alla realtà con occhi nuovi. Non tutto è
nell’ambito della Pop Art e trasferitesi rapidamente all’arte
quel che sembra e per accorgersene bisognava usare stra-
seriale per eccellenza, il design. Il contesto sociale e cultura-
tagemmi, come quelli della decontestualizzazione e dello
le era però profondamente cambiato.
straniamento degli oggetti nella composizione. Dada, Meta-
Se prima, la ricerca psicologica rivestiva un’importanza
fisici e Surrealisti hanno fatto largo uso di tali strumenti, in-
fondamentale, ora l’effetto sorpresa derivato dall’anoma-
serendo spesso nelle loro opere oggetti avulsi dal contesto,
la scala degli oggetti puntava più ad una sollecitazione dei
object trouvé, e non di rado totalmente fuori scala rispetto
sensi dell’osservatore. Più azione e meno pensiero, come
a ciò che l’osservatore si aspettava di trovare.
spiegava Maurizio Calvesi a proposito di Claes Oldenburg:
L’intento di tali correnti artistiche era quello di mettere in
“Oldenburg cerca il mondo, c’è in mezzo, anche se per ricre-
discussione le certezze precedente acquisite, in particolare
arlo di dentro, a modo suo, con la visionarietà e l’ottimismo
quelle derivate dalle filosofie di tipo positivista. Stante il
niente affatto metafisici dell’ubriaco. Egli crea oggetti mi-
proposito polemico e talvolta scherzoso di tali correnti arti-
metici della realtà, che intervengono anarchicamente nella
stiche, la motivazione dello straniamento agisce prevalen-
realtà stessa per rovesciarne addirittura le leggi. Distensivo
temente a livello simbolico, come dimostrato dalle già citate
o inquietante che sia , il contatto con l’opera di Oldenburg
mele di Magritte, scoperta allusione sessuale.
non è in alcun caso contemplativo, è tutto attivo, e l’azione
L’uso di un complesso sistema di simbologie che spesso ri-
è demandata allo spettatore mediante una continua pro-
chiamano al mondo dei sogni o comunque al mondo dell’in-
vocazione sensoriale […].” 105 Calvesi, Maurizio, Le due
conscio, non può non richiamare il profondo bisogno di
avanguardie. Dal Futurismo…, Roma-Bari, Laterza, 1966-
manifestare realtà altre tramite l’uso delle figure allegoriche,
2001, p. 334-335
linguaggio predominante nel nostro passato artistico.
Gli artisti della Pop Art intuirono quello che era già nell’aria
Ma così come l’uso delle figure allegoriche aveva perso
da tempo, nella società delle immagini. Non è un caso che,
95
per la prima volta, ci fu un così forte caso di travaso tra l’arte e l’industria. Sostanzialmente l’industria aveva già travalicato i confini dell’arte, come ben notato da Bruno Munari a partire da quel periodo. “Nelle fiere campionarie c’è sempre stata quella che è stata definita Pop Art. Quindi, questi oggetti giganteschi non facevano più impressione sul pubblico, lo facevano sulla critica d’arte a proposito dell’altro caso e cioè del cambio di luogo.” Munari, Bruno, Fantasia, Roma-Bari, Laterza, 19772004, p. 91. Di fatto può sembrare che la ricerca sul fuori scala negli anni ’60 abbia avuti particolari riflessi prevalentemente sul design, ma ciò è vero solo in parte, sicuramente il rapporto tra arte e architettura è stato più sincero sul tema del fuori scala grazie soprattutto ad una trasversalità di fondo del tema, trasversalità che di fatto permette un travaso delle reciproche influenze e che in precedenza non era mai stata sfruttata pienamente. A partire quindi da Oldenburg, varie correnti artistiche hanno fatto proprio il fuori scala come strumento espressivo e artisti come Robert Smithson, Richard Serra, Sol Lewitt, Christo tra i tanti, ne hanno dato prova di un uso quanto mai vario e vitale. Come già accennato in precedenza, il design si è appropriato rapidamente del dibattito circa il fuori scala, facendolo suo tramite protagonisti spesso italiani che dalla fine degli anni Sessanta produssero oggetti celebri: “Dalla nota Big Mama di Gateano Pesce del 1969, per C&B, al guantone da baseball Joe dei DDL (De Pas, D’Urbino, Lomazzi), per Poltronova del 1971, fino ad arrivare al Pratone e al Cactus prodotti da Gufram. Oggetti che ingigantivano simboli della cultura popolare americana, o della natura con la stessa logica con cui il Design affrontava il progetto del giocattolo, e cioè attraverso una revisione scalare che crea un effetto “sorpresa”. Martino, Carlo, da Off-scale a In-scale, in «Off Scale design, DISEGNO INDUSTRIALE», 31/2009
Christo, WrappedRon Coast, Mueck, Australia. Boy. 1999 1969
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Come in un gioco al rialzo, designer e artisti, figure talvolta coincidenti, hanno portato a sempre nuovi livelli la altradimensione degli interventi. La crescita della dimensione ha portato, sin dai tempi di Oldenburg, a vivere un rapporto diverso con l’opera, ad esserne più coinvolti fino quasi a riprogettarla idealmente ad ogni nuova visita. Lo spettatore è sempre più spesso co-autore. I Land-artisti non imponevano un punto di vista, ma costringevano il visitatore a cercarne di sempre diversi. “Il fatto che i limiti dell’opera non siano più percepibili simultaneamente, eccedendo il perimetro visivo di chi osserva, richiede una partecipazione totale, un coinvolgimento maggiore; […] lo spettatore non è più spettatore, ma attore, interprete attivo. Barnett Newman, per esempio, voleva che i suoi quadri fossero guardati a distanza ravvicinata, così da poterne percepire di volta in volta solo porzioni limitate. Dall’Olio, Lorenzo, Arte e architettura. Nuove corrispondenze, Torino, Testo & immagine, 1997 Dai Land-artisti si sono succeduti sempre più numerosi quei nomi che hanno usato il fuori scala nel loro lavoro artistico, fino ad arrivare ai giorni nostri con Ron Mueck. Nel frattempo, il mondo è cambiato e lo stesso modo di vedere il fuori scala non fa più parte dello scherzo, della provocazione. L’artista australiano, naturalizzato inglese, usa il fuori scala come strumento di indagine psicologica, in maniera però ben diversa dai surrealisti. Le sue gigantesche o minuscole figure sono decontestualizzate ma non servono da oggetti simbolici, non sono figure allegoriche. Sono casse di risonanza per emozioni simboleggiate dal cambio di dimensione. E l’ultradettaglio ornisce ulteriori aiuti per definire tali emozioni e pensieri. Così il critico Craig Raine si esprime per l’opera Ghost, rappresentante una ragazza “extralarge” in costume da bagno. “In Ghost, l’aspetto fisico è realistico, ma le dimensioni alterano le emozioni interiori. La sua enormità denota autocoscienza: la sua taglia, la sua scala è come ella si percepisce tramite il suo corpo. Tecnicamente, questa dissonanza cognitiva è chiamata anosognosia, che significa che non si rende conto delle proprie condizioni.
Magritte. La corde sensible. 1960
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Lei pensa di essere l’incredibile Hulk. E’ solo malata di timidezza.” Uno dei più sensazionali esempi di Land Art fuori scala è il cretto di Gibellina, metafora della grandezza della forza delle natura e della pesantezza della storia nei confronti del vissuto umano. Grazie a questi esempi di fuori scala, possiamo mettere a fuoco le pieghe del sentimento umano (Mueck), quelle della storia (Burri), quelle del vissuto quotidiano (Oldenburg, Pesce, fra i tanti). Per l’arte e per il design, il fuori scala è una lente di ingrandimento che ci permette di comprendere come affrontare il mondo che muta attorno a noi ad una velocità non prevedibile fino a soli pochi decenni fa. E’ affascinante notare come il mondo dell’arte abbia tentato di spingere quello dell’architettura a spiegare il rapporto che c’è tra un progettista e la scala, tema evidentemente oggettivamente (e non soggettivamente quindi) non chiaro e spiegabile per nessuno, nemmeno per una scuola d’arte come la Plymouth. Come già anticipato in precedenza, non si può parlare di fuori scala senza parlare Bigness, Rem Koolhaas e della natura apparentemente incontrollabile dello stesso. “Bigness, ovvero il problema della Grande Dimensione” è un saggio breve che, pubblicato nel 1995 e raccolto in trilogia con gli altri due saggi “La città generica” e “Junkspace” è stato ripubblicato in Italia nel 2001 dai tipi della Quodlibet. “Bigness” non si occupa propriamente del fuori scala ma presenta molti punti in comune con la cosiddetta architettura del fuori scala. E’, se vogliamo, il contributo dell’architetto e teorico olandese al tema della grande dimensione applicata alla città e all’edificio. “Superata una certa scala, l’architettura assume le peculiarità della Bigness.” La Bigness è l’architettura estrema. Pare incredibile che il puro e semplice dimensionamento di un edificio possa dar vita a un programma ideologico indipendente dalla volontà dei suoi progettisti. Queste sono le prime coordinate che ci vengono fornite. Il superamento della scala, la spinta alla ricerca di tale superamento e infine la perdita di responsabilità. Tipico dell’atteggiamento di Koolhaas è il suo proporre manifesti di responsabilità come teorico per escludersene come progettista. Per Koolhaas il nuovo fuori scala, la Bigness, vive della sua capacità di indipendenza. Non dipende più dai suoi progettisti e tende a sconfiggere il mondo storico urbano possibilmente usurpandone i migliori siti infrastrutturali quando non dotandosene direttamente di indipendenti. Di fatto la Grande Dimensione si pone in stato di vittoriosa non belligeranza con la città consolidata, gli spazi che in origine erano serventi vissuti e collettivi, come strade e piazze, al cospetto della Bigness rimangono semplici spazi di risulta. Se non sono infrastrutturali, sono inutili. E d’altronde la Grande Dimensione, nella sua indipendenza urbana, non ne sente il bisogno. Il fuori scala non è quindi qui solo dimensionale, ma anche concettuale. Ci si allontana da concezioni consuete con un vero salto di scala ideale più che metrico, come nello stesso modo si recuperano archetipi antichi decontestualizzandoli fino a renderli irriconoscibili. L’Ordine gigante, le prospettive aberrate, le finte scenografie sono stati strumenti fondamentali per togliere la regola dal centro della scena: l’architettura Pop è profondamente debitrice di quella Barocca. Questo tende a mettere in secondo piano anche la stessa potenziale carica esplosiva di tali provocazioni, l’aspetto realmente anarchico e critico di queste architetture. Che è quello di porre il fruitore dell’opera nelle condizioni di riconoscere ciò che si trova di fronte ma in maniera distorta, quasi a spingerlo a riprogettare l’oggetto che sta vivendo o semplicemente osservando.
Gruppo Strum (Oggi prodotto da Gufram), Pratone. 1971
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Riflessioni Alla luce di quanto mostrato ora nella parte di ricerca il progetto che prenderà forma nella seconda parte della tesi riassume i concetti analizzati finora. Dalla volontà di ridare vita nuova a un luogo ormai senza funzione, seppur con una grande identità, mi sono posta il quesito sul come far rivivere questi spazi, cosa inserire all’interno di una rovina per far si che essa ricominci a essere guardata, osservata, rivalutata? La risposta la si trova nell’ambito di una mostra artistica, dove l’allestimento che si verrà a creare mira a rendere nuovamente fruibile il posto ma nello stesso tempo a inscenare una sorta di museo esperenziale dove il visitatore possa trovarsi a stretto contatto con la realtà della tragedia, dove le opere diventano puramente un espediente per ripercorrere a piedi quegli spazi ormai disabitati. L’intenzione è stata quella di creare un esposizione di copie d’arte contemporanea che non appartengono allo stesso periodo o al medesimo movimento ma sono accomunate da un unico tema: il gesto. Opere che sembrano dovute al caso, nate dall’espressività istintiva dell’artista. Opere disordinate così come disordinate sono le rovine e insieme le macerie. Sono disegni veloci e pennellate fugaci che non raccontano nulla, non nascondo storie né messaggi. Pura espressione di un gesto. Stilisticamente differenti dalle immagini ancora impresse sui muri delle rovine perché non vogliono avere la presunzione di mimetizzarsi nell’ambiente, ma decise a instaurare un dialogo nuovo con gli affreschi di un tempo. Proprio da questa diversità si crea una distinzione netta tra le due tipologie di immagini le quali acquisiscono così ognuna il proprio spazio, la propria importanza. Date le grandi dimensioni dello spazio da riprogettare vengono reinterpretate come copie in fuoriscala per amplificare ulteriormente questo dialogo, per far sì che esso sia sempre presente per rendere nell’insieme un’immagine di un paesaggio nuovo in cui il processo di stratificazione di storie, racconti e immagini sembra ancora possibile.
PARTE II Progetto
DAL CONTESTO AL PROGETTO La Mostra. Un percorso esplorativo ed espositivo
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La mostra prende forma in un contesto in cui le condizioni in
una simbiosi con un paesaggio in cui riesce comunque a di-
rovina delle architetture presenti smaterializzano quei limiti
stinguersi, in quanto arte, dalla vegetazione che la circonda.
di interno ed esterno che generalmente esistono nei luoghi
Allo stesso modo si è riflettuto sulla rovina inquadrandola
che abitiamo. Le crepe fanno intravedere spiragli di affreschi
come paesaggio abitato da muri ammutoliti all’esterno ma
di posti un tempo adibite a camere, e i cedimenti hanno an-
ricchi di immagini del passato all’interno che ancora hanno
nullato quella funzione protettiva che i muri dovrebbero ave-
qualcosa da raccontare. Ripulite da ogni tipo di suppellettile
re. Gli spazi interni sono stati svuotati dei loro arredi e degli
solo i muri e i pavimenti rimangono da contemplare. Per
oggetti che delineavano la funzione di un locale. Il crollo ha
seguire quindi lo stesso principio esplorativo ho preso la
cancellato tante, troppe cose ma al contempo crea una con-
scelta di creare un allestimento di copie di quadri, apparte-
dizione complessiva in cui, che tu sia all’interno della corte
nenti a movimenti diversi ma accomunati dallo stesso tema,
del chiostro o in mezzo alla grande piazza, il tuo sguardo
trattandoli, in parte, come fossero frammenti di muri rima-
non si ferma mai solo sull’involucro esterno dell’edificio ma
sti in piedi quasi miracolosamente. Ancora intatti si erigono
riesce a scorgere particolari degli spazi interni. La mostra
all’interno del paesaggio come dei monoliti contemporanei
si inserisce quindi in questo meccanismo secondo cui non
che da una parte mostrano l’opera dall’altra segnano la loro
esiste un punto di vista privilegiato poiché tutto è palesa-
presenza grazie al biancore del supporto e alle dimensioni
to all’esterno. Cosa esporre in un museo all’aperto? Siamo
fuoriscala con cui sono stati creati. Lo spazio del modello,
soliti ricondurre opere d’arte che risiedono nell’ambito del-
come già mostrato, è ampio e variegato ma l’area di pro-
la scultura quando si tratta di musei all’aperto. Numerosi
getto non finisce lì dove l’uomo può arrivare a piedi, ma si
Sculpture Park sono l’esempio eclatante di interventi in cui
innalza, grazie al recinto perimetrale, ad una quota tale da
l’arte riesce a dialogare con lo spazio in cui è stata inserita,
permettere una visione privilegiata delle rovine e delle opere
a volte con un atteggiamento antitetico rispetto al luogo, a
insieme. Questo grande recinto però non ha la sola funzio-
volte mimetico come nei casi di arte naturale al parco Arte
na esplorativa ma anzi, grazie alla fitta tessitura di cavi che
Sella dove una Cattedrale vegetale realizzata da Giuliano
lo compongono, permette di utilizzare le sue pareti effimere
Mauri sembra quasi nascere dalla terra di quel bosco che
per esporre altre opere al suo interno, formando dei semplici
protegge segretamente, lontano dalla città, moltissime altre
corridoi come fossimo in un museo tradizionale coi quadri
opere simili. In un contesto naturale come quello appena
appesi alle pareti, o creando un apparato più complesso e
citato l’arte diventa quindi l’espediente perfetto per creare
insieme scenografico, come nella piazza, in cui l’insieme di
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opere ricopre tutta l’area di una porzione di recinto, configu-
questo il mio intento. Ciò che ho voluto creare è un percorso,
randosi come un grande quadro fatto di tanti quadri.
come dice il titolo di questa tesi, espositivo e insieme esplorativo, dove insieme sta ad indicare contemporaneamente. Il visitatore esplora le rovine come in un museo archeologico
Dopo queste premesse è indispensabile specificare però
pensando di osservare una mostra di graffiti dell’arte con-
che l’allestimento che si viene a inscenare non nasce con la
temporanea, che poco hanno a che fare col contesto,ma in
presunzione di mettere in mostra se stesso, sfruttando un
realtà è immerso in un luogo in cui la sua attenzione rimbalza
sfondo tanto bello quanto oramai raro come quello di un po-
inconsapevolmente tra un Basquiat e un affresco pompeiano.
sto in rovina, ma anzi è stato pensato come pretesto per far
La scelta di utilizzare delle copie per questo progetto nasce
riscoprire ed esplorare nuovamente il luogo e non con l’oc-
anche per far riflettere, paradossalmente l’unica arte autenti-
chio del turista curioso che si reca nel teatro della tragedia
ca è la rovina. La copia non sminuisce il valore del quadro, ma
per verificare se ciò che ha visto su cartoline o sui giornali
lo reinterpreta proprio per amplificarne l’effetto. Grazie alla
sia esattamente ciò che ora vede di fronte a sè, ma con lo
copia è stato possibile utilizzare il fuoriscala come metodo
sguardo attento e meravigliato di un visitatore di fronte a un
allestitivo. In un complesso dalle dimensioni così estese ho
quadro di Géricault e insieme assorto e spontaneo come un
voluto questi quadri grandi quanto i resti delle mura ancora
viaggiatore in una città d’arte ancora sconosciuta. La rovina
in piedi degli isolati. Cercare di tessere un racconto attraverso
stessa è la vera opera d’arte di questa mostra ma come di-
di essi, innescando dei meccanismi in cui le stesse dimen-
ceva Augè “Le rovine esistono attraverso lo sguardo che si
sioni portassero il visitatore a domandarsi se quello scorcio
pone su di esse”. Ecco che il senso dell’allestimento prende
di immagine che si intravede dalla fessura di un muro sia un
posto solo nell’ottica di questo presupposto. Se all’occhio
Twombly o un immagine dell’ottocento, sia un falso d’artista
inesperto del visitatore la mostra ha le sembianze di una
o l’autentica rovina. Aumentare le misure delle opere fino ad
tipica esposizione d’arte contemporanea, dopo un attenta
arrivare ad assumere dimensioni a scala architettonica mi
analisi forse si renderà conto che il suo sguardo, passando
ha anche aiutato a rendere nel concreto la fusione delle due
tra le diverse opere, ha nel frattempo osservato le rovine
parole esplorativo ed espositivo. Utilizzando opere di dimen-
con lo stesso atteggiamento di quell’uomo che ora sta da-
sioni reali e inserendole poi negli ampi ambienti della rovina
vanti alla Zattera della Medusa nel corridoio al primo piano
avrei ottenuto come effetto una distinzione netta tra contenu-
del Louvre. Probabilmente non se ne accorgerà, ma non è
to (le opere) e contenitore (il modello).
Nelle mie intenzioni le due cose dovevano sempre coesistere poichè la rovina non doveva rappresentare una scatola, seppure aperta, in cui creare l’esposizione, doveva essere invece lei una delle protagoniste di questa mostra. Il fuoriscala mi ha quindi aiutato a ricreare attraverso le opere un paesaggio in cui il visitatore potesse, in ogni angolo e ad ogni altezza, vedere sempre sia l’una che le altre; non distinguendo più contenitore e contenuto evito il rischio di far coincidere la rovina con l’idea di un spazio da adibire a museo temporaneo. Non solo il cambio di scala, in questo progetto, mi ha permesso di instaurare questo rapporto, ma anche lo studio del posizionamento delle opere è stato indispensabile nel raggiungimento dei miei fini. Come già accennato la mostra prevede dei supporti appoggiati a terra, dei supporti sospesi e delle opere a pavimento, di cui non si era ancora fatto cenno. Utilizzando quindi quote diverse si vuole “abituare” il visitatore, quasi inconsapevole, a guardarsi attorno, come ad aiutarlo, pian piano nel percorso, a scoprire l’indole esplorativa che sta alla base di questo progetto. La scelta di collocare le opere anche in ambienti meno scenografici, come ad esempio il giardino o il cimitero, va a dar forza a questo meccanismo. Un muro bianco in fondo alla chiesa suggerisce la presenza di un opera d’arte sul lato opposto, il visitatore curioso percorrerà allora la piazza, sorpasserà la staccionata in legno che incornicia l’orto per arrivare al di là di quel setto scoprendo così la forza delle pennellate impresse da Hans Hartung ma con l’inganno sarà ora in un luogo della rovina in cui poter scorgere qualcosa di nuovo, oltre al rosone della facciata della chiesa forse già soggetto di alcune fotografie da far vedere una volta di ritorno a casa. In un luogo in cui tutto è da osservare viene facile quindi pensare che non esista un percorso prestabilito ma anzi un libero accesso in ogni sezione. Non esiste un itinerario consigliato e la progettazione di percorsi, segni bianchi all’interno delle rovine, non vogliono indicare una strada ma anzi devono essere visti come il superamento di un ostacolo, nel nostro caso le macerie depositate sul pavimento.
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la chiesa La chiesa sia nell’impianto sia negli elementi architettonici sia nell’apparato decorativo, è il risultato di una summa di parti di alcune fra le 99 chiese de L’Aquila. Nello specifico, tutta la pianta e gli interni barocchi dell’abside e del transetto riprendono quelli di Santa Maria Paganica, mentre la caratterizzazione semplice e spoglia della navata centrale e della facciata a lastra, tipiche dello stile romanico, riprende quelle della chiesa di San Silvestro.
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la piazza Spazio di respiro e incontro all’interno della rovina è caratterizzata da una grande fontana centrale. Evoca innumerevoli piazze italiane ed europee, oltre quelle de L’Aquila. Nel progetto essa è stata connotata attraverso alcuni elementi di arredo urbano tipici, quali appunto la fontana e le aiuole, e da due percorsi ortogonali che portano rispettivamente verso le rovine e verso un contesto indefinito ma possibile.
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il chiostro Edificio per la vita ecclesiastica che di solito si accompagna a quello di culto, tradizionalmente affianca la chiesa lateralmente. L’impianto e i prospetti riproducono un frammento dei chiostri della Basilica di San Bernardino mentre la seconda corte, caratterizzata da scale monumentali, e tutta la configurazione dei setti al piano superiore ricalcano la tipologia del palazzo rinascimentale riscontrabile a L’Aquila come anche a Urbino o Firenze. Sulle paretei solo alcuni affreschi del ‘500 (Luca Signorelli, Storie di San Benedetto, Chiostro Grande dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Siena, 1498) permettono di comprendere l’epoca a cui si fa riferimento.
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la domus Rappresenta una qualunque porzione del sito archeologico di Pompei. Si è scelto di far propriamente riferimento a quelle pompeiane, famose in tutto il mondo per la straordinaria qualità della conservazione degli affreschi e dei pavimenti. Riunisce affreschi rappresentati il medesimo soggetto o tema nella stessa stanza, come avveniva nel passato per identificare le diverse funzioni a cui ogni stanza era adibita, come il refettorio e la stanza degli amanti. Gli affreschi e i mosaici derivano da diverse domus appartenenti all’area archeologica di Pompei,
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la struttura Grande recinto che delinea il sito,il modello, ma che permette di visitarele rovine anche dall’esterno. Risulta essere una sorta di teca sulla quale verranno esposte le opere dell’allestimento e allo stesso tempo un ulteriore spazio per
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Riferimenti progettuali. Come già accennato il progetto dell’allestimento di opere si divide in tre parti: supporti a terra, appesi e a pavimento. I supporti a terra si inseriscono all’interno del paesaggio come dei quadri dalle dimensioni enormi ma che visti da lontano ricordano dei muri intonacati di bianco, frammenti di un luogo di oggi forse andato in rovina, ricordando per linguaggio e dimensioni le installazioni di Eduardo Souto De Moura nel Giardino delle Vergini alla Biennale di Venezia di quest’anno. Per quel che riguarda i supporti appesi si è voluto far riferimento a tutta quella sezione che riguarda l’allestimento di opere d’arte e accomunata dal tema della leggerezza e della sospensione. Esempi che ricordano gli allestimenti di Franco Albini e Renzo Piano o come nella mostra “Architettura misura dell’uomo” della IX Triennale di Ernesto Rogers nel 1951 della quale colpisce lo spirito apertamente informale che si ritrova nella strutturazione aleatoria dello spazio, nella decostruzione del percorso e nell’apparente casualità del gusto espositivo. Casualità che nel progetto che segue ritroviamo anche nella piazza in cui dei tappeti stesi a terra ricordano invece vagamente la mostra della fondazione Emilio Vedova Ciclo ...in continuum, Compenetrazioni/Traslati (con le opere di Anselm Kiefer)- 1987/88 curata da Renzo Piano.
Allestimento Architettura misura dell’uomo, IX Triennale, Ernesto
Renzo Piano, Emilio Vedova Emilio Vedova - Ciclo ...in continuum, Compenetrazioni/Traslati (opere di Anselm Kiefer)- 1987/88
Eduardo Souto del Moura, Window. Biennale di Architettura a Venezia. 2012
Allestimento Tokyo-Berlin_Berlin-Tokyo, Toyo Ito, Florian Busch and Christoph Cellarius. 2012
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1.2 i tappeti L’area di intervento è formata da tre isolati quadrati di 60 m l’uno che comprendono la chiesa, con annessi cimitero e giardino ai lati, una piazza e infine una domus e un chiostro affiancati. Al centro del modello dunque la piazza, luogo di incontri e da sempre considerato spazio della comunità. All’interno di un complesso in rovina, come nel nostro caso, rappresenta l’unico punto di respiro in cui, nell’ottica della mostra, il visitatore può soffermarsi e ammirare le architetture che la circondano. Si è scelto quindi di mantenere inalterata questa funzione con la decisione di non inserire opere a terra che avrebbero, in caso contrario, ostacolato la vista del paesaggio mutandone quindi la percezione. Ho deciso di appropriarmi, progettualmente parlando, della piazza sfruttando l’ampia area calpestabile inserendo delle opere a pavimento. I quadri riportati appartengono a Jackson Pollock e sono qui reinterpretati come fossero dei grandi tappeti stesi quasi casualmente. La scelta di collocare queste opere a pavimento rende omaggio proprio alla tecnica del dripping (sgocciolatura) inventata dall’artista e che consisteva nel posizionare le tele a terra versando e facendo colare sopra di esse gocce di colore. Pollock stesso infatti affermava «Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente “dentro” al dipinto.» In questo modo si è cercato riposizionare correttamente l’arte e l’uomo così come furono nel momento della sua creazione, innescando tra l’opera e il visitatore un contatto atipico, in relazione alle normali modalità di esposizione di un Pollock (originale) all’interno di un museo.
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Le tele dell’artista però vengono ora reinterpretate attraverso un linguaggio più morbido sia dal punto di vista visivo, grazie a della pieghe che vengono a crearsi quasi naturalmente, sia a livello tattile. In contrasto con la durezza della pietra delle rovine questi tappeti, come fogli distesi sul pavimento attutiscono il passo del visitatore evidenziando maggiormente la loro presenza. Realizzati in resina morbida si adagiano sull’arredo urbano della piazza nascondendone alcune parti, come nel caso della fontana e dell’aiuola. Anche in questo caso viene utilizzato il fuoriscala come strumento espressivo, il visitatore della mostra si troverà quindi immerso tra le macchie di colore dei quadri di Pollock senza riuscire a inquadrare chiaramente il quadro, causa della distorsione dovuta alla grandi dimensioni e al posizionamento a terra, ma potrà averne una visione complessiva solo attraverso la lunga passerella del recinto che taglia in due la piazza a quota 30 metri da terra.
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Jackson Pollock nel suo studio
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1.3 il supporto appeso
Data la forte presenza e matericità delle rovine si è scelto di utilizzare un metodo allestitivo, come già accennato, leggero e quasi trasparente. Ordinato nel disordine complessivo delle macerie, lineare e intuitivo. Non dovrà quindi avere un linguaggio caratterizzante, il quale, in tal caso, si sovrapporrebbe all’ambiente già variegato delle rovine e insieme del recinto, ma al contrario dovrà crearsi nella discrezione di un progetto che mette in mostra le opere e il paesaggio e non se stesso. Al fine di non sovraccaricare con ulteriori pilastri o sostegni si è deciso di utilizzare il sistema dei tiranti già presenti nel recinto come base su cui appendere le opere, le quali saranno realizzate in teli di Pvc stampati e appese grazie a dei ganci appositamente studiati. Saranno presenti però dei supporti appesi di dimensioni maggiori, posizionati all’interno degli isolati i quali saranno realizzati per coerenza formale con lo stesso principio dei supporti del recinto.
supporti appesi all’interno delle rovine
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Cercando di prender posto nel paesaggio senza aggiungere nulla di nuovo o con un linguaggio diverso rispetto a quelli già presenti sul posto questi sostegni nascono da terra e si innalzano fin sopra le altezze delle architetture per andare ad occupare quei grandi vuoti che si vengono a formare sopratutto nella parte dell’isolato che contiene la domus e il chiostro. Pensati come dei tiranti tesi di 1cm di diametro, sono fissati a terra con dei blocchi di cemento di 40 cm di lato che formano la base in cui avvitare il gancio che permetterà al cavo di rimanere teso. Sfrutterà i pilastri del recinto e della copertura per quanto riguarda invece la parte terminale verso l’alto. Nasce con l’idea di essere un supporto temporaneo e sopratutto flessibile. É infatti pensato come un elemento facile da spostare per un miglior adattamento alla mostra. Le opere stesse, che ricordiamo sono copie di artisti contemporanei, sono dei teli di Pvc stampati e tesi grazie a dei ganci ad anello, leggeri e quindi intercambiabili.
fronte
lato
retro
scala 1:10
il gancio è stato pensato come un elemento mobile e intercambiabile, di facile inserimento e fissaggio. Permette di utilizzare il gancio ruotandolo in direzioni diverse in base all’utlizzo.
anello per l’inserimento del gancio
telo in Pvc
supporti appesi all’interno delle rovine
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All’interno del perimetro del recinto sono invece stati progettati dei supporti simili ai primi ma con una particolarità: l’opera viene presentata due volte sullo stesso supporto, una sulla facciata interna e una che dà invece sull’esterno. Queste opere sono state pensate in dimensioni minori perché più consone al loro posizionamento, in corrispondenza delle passerelle presenti nel recinto. Si relazionano col il visitatore in maniera quindi differente poiché essendo raggiungibili vanno osservate frontalmente come dei quadri appesi al muro. La loro presenza però sarà sempre costante e anche dal livello terra sarà possibile intravederne il disegno. Appariranno in realtà dal basso come delle macchie di colore che invoglieranno il passante a salire sulla struttura per poter poi essere ispezionate con più attenzione una volta raggiunte.
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Sono quindi sempre realizzati con teli in Pvc con l’inserimento di anelli per il fissaggio ma in questo caso è stato studiato una variante di gancio che permette di introdurre due opere ai lati opposti dei tiranti.
2
fronte/retro
lato
scala 1:10
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1.4 il supporto a terra
Il supporto a terra è stato pensato, come detto in precedenza, come un setto contemporaneo nell’interno delle rovine. La sua conformazione a blocco nasconde in realtà una struttura in legno con un disegno ripreso dai puntellamenti utilizzati per la protezione delle rovine. L’incrocio di assi di legno con delle controventature sulle facciate principali viene nascosto da pannelli dello stesso materiale che andranno a formare la scatola del supporto. Il fissaggio avverrà attraverso semplici viti e bulloni per permettere un montaggio rapido e intuitivo. Per una maggior stabilità si è pensato all’inserimento di una rete nella parte bassa del supporto che funge da contenitore di macerie e detriti per aumentare il peso e per un miglior ancoraggio al terreno. Esternamente i pannelli verranno poi verniciati di bianco per creare un contrasto all’interno del paesaggio in rovina e per coprire tutti i fori del fissaggio.
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Il posizionamento. Lo schema mostra lo studio del posizionamento delle opere a terra. Seppur in maniera frammentata tali supporti si distingueranno dalle rovine per il colore ma anche per la disposizione regolare e ortogonale nel disordine complessivo in cui sono inseriti.
Supporto chiuso
alto
fronte
lato
Struttura interna
alto
fronte
lato
scala 1:10
Pannelli in legno verniciato bianco spessore 2cm
N°3 assi in legno (misure variabili) sezione 8x8cm
N°6 assi in legno (misure variabili) sezione 4x4cm
N°6 travetti in legno (misure variabili) sezione 4x4cm N°18 travetti in legno (misure variabili) sezione 4x4cm
N°2 assi in legno (misure variabili) sezione 4x8cm
Esploso
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2 i percorsi Come i supporti a terra i percorsi nascono con l’idea di differenziarsi dal contesto tramite linee pulite e semplici soluzioni, oltre ovviamente alla scelta cromatica. Sono stati pensati per un luogo che per sua natura è irregolare e imprevedibile. Risultava incorretto ipotizzare una pedana senza tener conto della presenza delle macerie, elemento fondamentale di questo modello, e di tutti quei detriti che rendono il percorso instabile e differente da zona a zona. É stato quindi indispensabile relazionarsi con questa problematica per riuscire a trovare una soluzione attuabile e insieme esteticamente corretta con l’intero apparato allestitivo. Prendendo spunto dalle passerelle veneziane utilizzate in caso di acqua alta, ho creduto fondamentale creare dei percorsi che avessero come caratteristica fondamentale la modularità e la possibilità di essere montati sul posto in relazione alla sua conformazione. Sono delle semplici pedane realizzate con una base, ricavata da degli estrusi in metallo saldati insieme, alla quale sono agganciati delle gambe dello stesso materiale con dei piedini regolabili per una miglior adattabilità al terreno. Sulla base delle assi di legno verniciate di bianco costituiscono la parte calpestabile dei percorsi. Per una questione di sicurezza sono stati affiancati dei corrimano ricavati da tubolari metallici saldati che si agganciano alla pedana tramite dei bulloni e si incastrano nel terreno e tra le macerie nella parte finale. Esiste però una variante in cui al posto della pedana in legno viene inserita una lastra in acciaio forata e verniciata dello stesso colore. Lo scopo di questa decisione risiede nella volontà di creare nei percorsi delle zone di sosta di dimensioni maggiori (in due varianti 3 e 5 metri di lato) dalle quali riesco ad avere una visione migliore di una particolare opera. Il cambio di materiale e insieme il suono diverso che il passo del visitatore fa su queste pedane in rete metallica suggerisce quindi una sosta nel percorso.
La parte inziale del percorso, il primo gradino, sarĂ ricavato da un blocco di cemento come elemento segnalatore.
le assi di legno verniciate di bianco, di spessore 3 cm formano la base della pedana
corrimano in tubolare metallico in due modelli a T e a L
base in metallo saldata e forata per l’aggancio delle gambe
gambe con piedini regolabili griglia forata per le zone di sosta
150
148
150
148
spessore 0,5
scala 1:10
4 51
55 3
85
6
4
140
tubolare Ă˜3
scala 1:10
187
Sistema di aggancio di più moduli. Il disegno sottostante mostra un’ipotesi di aggregazione di diversi moduli più il gradino in cemento inziale. Premettendo che si è pensato di realizzare i piedini in tre misure differenti (25 cm, 50 cm e 100 cm), si è pensato di ridurre al minimo il numero di gambe studiando un sistema di foratura sulla base superiore della gamba e su quella inferiore della pedana. Attraverso dei fori disposti a 45° rispetto al lato è possibile infatti agganciare due pedane con una sola gamba ruotandola fino a fare combaciare i fori.
2
scala 1:10
3 visualizzazione notturna
Se durante il giorno l’allestimento e le rovine dialogo in continuazione, sempre e ovunque, quando scende la sera e si abbassando le luci viene palesato ciò che in questa tesi fu dichiarato già dall’introduzione e cioè che le rovine, in questa mostra sono le reali opere d’arte. I quadri degli artisti contemporanei si ammutoliscono e lasciano parlare la rovina, radicata in quel luogo più di ogni altra cosa ne rivendica la sua appartenenza a luci spente. La tessitura di cavi del recinto, che di giorno sorreggono le opere appese, di notte variano la loro funzione disegnando sulla rovina, come fossero graffiti di luce, riquadri che sembrano incorniciare porzioni di chiesa e giardini non curati. L’aspetto assumerà quindi un carattere più scenografico e drammatico, evidenziando particolari che di giorno sfuggono alla vista nell’enorme insieme di frammenti da osservare.
Conclusioni Il lavoro svolto durante questo progetto ha avuto la possibilità di passare attraverso diverse fasi. La prima e la più formativa, nell’ottica del tema trattato, è stata la creazione materiale di una finta rovina durante il Laboratorio proposto da Andrea Branzi e Michele De Lucchi. Mettersi nell’ottica di progettare una rovina, crearla materialmente, con tanta cura e precisione per poi distruggerla grossolanamente ha lentamente provocato in me la consapevolezza di ciò che significa distruzione. Segni precisi e studiati sono stati poi cancellati dai nostri stessi gesti per riuscire a rendere al meglio il tema richiesto. Il materiale e il tempo hanno preso poi posto in questo processo e il nostro intervento non era più indispensabile nel continuo sgretolarsi delle pareti in cemento. Questa fase è stata ovviamente preparatoria al tema che avrei poi affrontato, rendendomi realmente cosciente dell’essenza che una rovina porta dentro di sé pur essendo vuota e disabitata, della bellezza che ne rimane dopo i crolli continui di un terremoto o del semplice passare del tempo. L’idea di pensare a una mostra che mettesse in mostra le rovine e al tempo stesso le opere è stata una scelta dettata da questa esperienza. Riuscire a far coesistere due realtà diverse come un falso d’arte contemporanea e un’autentica falsa rovina è stato il punto cardine del mio progetto, ho cercato di rappresentare un percorso in grado di far riscoprire ed esplorare il luogo in cui è collocato, con la convinzione che tutto ciò dovesse nascere spontaneamente nella mente di un possibile visitatore il quale, iniziando a camminare tra le opere e nelle macerie, avrà forse la possibilità di rendersi realmente consapevole di quanto ancora le rovine possono offrirci.
Indice iconografico
1 Daniel Spoerri, Prose Poems. 1959-60
20 Jackson Pollock
2 Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pie-
21 Cy Twombly
trouisti, Lu Cafausu.
22 Alfred Otto Wolfgang Schulze - Wols
3 Yves Marchand e Romain Mere, Michigan Theater. 2008
23 Jean Fautrier
4 Abitazione privata nella Città dei morti (Qarafa, el-Arafa),
24 Tom Phillips
Cairo, Egitto.
25 Guernica, Picasso. Mostra a Palazzo reale, 1953
5 Giovanni Paolo Panini - Ancient Rome (1757)
26 Antony Gormley, Field, 1989-2003
6 Alexander Dorner Museum mostra Room of Our Time,1930
27 Katharina Fritsch - Company at Table, 1988
7 Jean Dubuet, Landscape. 1952
28 Gessi di Canova, Gipsoteca Canoviana, Possagno.
8 Giacomo Balla, Fallimento. 1902
29 Cindy Sherman. Untitled #216
9 Cy Twombly, Suma. 1982
30 Robert Therrien, No Title (blue plastic plates). 1999
10 Gerard Houckgeest, The Nieuwe Kerk in Delft. 1600
31 Boris Ignatovich, Near the Hermitage. 1930
11 Pieter Saenredam, Interior of the Buurkerk at Utrecht.
32 Christo, Wrapped Coast, Australia. 1969
1664
33 Ron Mueck, Boy. 1999
12 Stephen, Willats, Wall Print,‘Living in a concrete hou-
34 Gruppo Strum (Oggi prodotto da Gufram), Pratone. 1971
se’.1980
35 Allestimento Architettura misura dell’uomo, IX Triennale,
13 Robin Rhode, frame della performance Promenade. 2008
Ernesto Rogers. 1951
14 Jean Michel Basquiat
36 Renzo Piano, Emilio Vedova Emilio Vedova - Ciclo ...in
15Hans Hartung
continuum, Compenetrazioni/Traslati (opere di Anselm Kie-
16 Antoni Tapies
fer)- 1987/88
17 Camille Bryen
37 Eduardo Souto del Moura, Window. Biennale di Architet-
18 Jean Dubuet
tura a Venezia. 2012
19 Arshile Gorky
38 Allestimento Tokyo-Berlin_Berlin-Tokyo, Toyo Ito, Florian
19 Jean-Paul Riopelle
Busch and Christoph Cellarius. 2012
Bibliografia Rose, Dame MacAuley, Pleasure of Ruins, Thames and Hudson, 1953 Zucker, Paul, Fascination of Decay, Gregg Press, New Jersey, 1973 Calvino I. (1993), Le città invisibili, Mondadori, Milano André Malraux, Le musée immaginaire, Paris, Gallimard, 1996 [orig. 1947] Dall’Olio, Lorenzo, Arte e Architettura. Nuove corrispondenze, Torino, Testo & Immagine, 1997 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. di Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1966, 1991 e 1998 Cardi, Maria Virginia. Le rovine abitate: invenzioni e morte in luoghi di memoria. Alinea editrice, 2000 A. Appiano, Estetica del rottame, Meltemi, 2000 Speroni, F., La rovina in scena, Roma, Meltemi, 2002 M. Augé, Rovine e macerie: il senso del tempo, Bollati Boringhieri, 2004 Eleonora Fiorani, I panorami del contemporaneo, Milano, Lupetti, 2005 Victoria Newhouse, Towards a New Museum, New York, The Monacelli Press, 2006 Branzi A., Modernità debole e diusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira, Milano, 2006
Marani C. P., Pavoni Rosanna, Musei. Trasformazioni di un’ istituzione dall’età moderna al contemporaneo, Marsilio, Venezia, 2006 AA.VV, a cura di M.C.Ruggeri Tricoli, Musei sulle rovine. Architetture nel contesto archeologico, Edizioni Lybra Immagine, Milano, 2007 T. Matteini, Paesaggi del tempo: documenti archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi, Alinea, 2009 Edensor, Tim, Industrial Ruins: Space, Aesthetic and Materiality, Bloomsbury pres., 2009