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indice

 1.0 INTRODUZIONE   

Natura sito e architettura Il recinto e lo spazio Esterno ed interno

4.0

3.0

2.0 La quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “VUOTO”  

Definizione “dal colonnato all’architettura su pilotis”

 Definizione  “il basamento nell’antica Grecia”  Il Partenone

2.1 Il “vuoto” come spazio pubblico  

Armonia del tempio dorico Età ellenistica  STOA DI ATTALO  STOA DI EUMENE II

L’edifico sopraelevato  LE CORBUSIER

 

Architettura Brasiliana “Brutalismo”  LINA BO BARDI  OSCAR NEIMEYER

2.4 Il progetto moderno del “vuoto” 

Sottrazione dello spazio

PALAZZO MEDICI RICCIARDI PALAZZO RUCELLAI

 LEARNING FROM LAS VEGAS

4.2 Conclusioni provvisorie 

3.2 La Scuola di Chicago  Il pieno definisce la funzione

“Classicismo moderno”

Edifico polifunzionale  KOOHLAAS

 

2.3 

Il Big Box, ossia il monumento moderno dalle molteplici funzioni

Il “pieno” nel Rinascimento

Evoluzione del Portico

introduzione

4.1

 “Scorporazione” “rottura” tra basamento e coronamento  MIES VAN DER ROHE  CITTA’ PORTICATE

3.1

2.2 

Dalla città per punti alla città continua

La quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “PIENO”

 

LOUIS SULLIVAN FRANK LLOYD WRIGHT

3.3 Architettura Contemporanea Giapponese  Massa naturale 

TADAO ANDo

Città contemporanea




INTRODUZIONE


INTRODUZIONE QUOTA + 0,00

Natura

1.0 Introduzione alla quota 0,00 Da sempre alla parola architettura viene associato il concetto di edificio, di qualcosa che si eleva verso l’alto. Tutto ciò che è intercettato dal nostro sguardo, alla nostra altezza, e risulta essere di forma e costruzione antropica, viene considerato tale. La ricerca che ci siamo proposti di fare mira ad analizzare e a spiegare come il primo passo del fare architettura sia un tema troppo spesso trascurato in favore degli organismi edilizi, dei monumenti e della forma delle nostre città: il terreno dove ci muoviamo; il mezzo attraverso il quale esploriamo ed entriamo in contatto con gli spazi, dove tutto si incontra e si lega in un unico.

Natura, Sito e Architettura Prima di analizzare gli elementi che compongono l’attacco al suolo e le sue varie tipologie, dobbiamo soffermarci sul perché la quota zero sia così importante e propria del tema architettonico. L’assenza di architettura è la natura, poiché come asserisce lo stesso Le Corbusier: “L’architettura è la prima manifestazione dell’uomo che crea il suo universo, e lo crea a immagine della natura, aderente alle leggi della natura, alle leggi che reggono la nostra natura, il nostro universo”. La natura è disordine, è un intricato groviglio di flora e di fauna che limitano l’attività umana e la impediscono. In essa, però, è insito il concetto di spazio, così come nella foresta si identifica il primo luogo riconosciuto dall’uomo.

come una superficie sulla quale disegnare, che viene scelta per suggestione o per funzionalità. Continua Le Corbusier: “L’uomo primitivo ha fermato il carro, decide che qui sarà il suo posto. Sceglie una radura, abbatte gli alberi troppo vicini, spiana il terreno all’intorno; apre il cammino che lo collegherà al fiume…”. In altre parole, l’uomo crea il sito sul quale andrà a comporre la sua architettura, che significa organizzare e plasmare lo spazio come lui lo vuole. A questo punto verrebbe spontaneo illustrare questo passaggio all’architettura con gli esempi della capanna eroica e del tempio primitivo. Gli archetipi di architettura primitiva di cui in tanti trattati si parla, soprattutto in quel periodo in cui, grazie alla rivoluzione industriale e alla nascita della figura dell’ingegnere, l’architettura sembrava destinata al ruolo di mera decorazione e revival stilistico, non pongono la giusta attenzione su quella fase progettuale che fa nascere un’architettura ancora prima di vedere tetti e muri: il disegno di una pianta. Il primo passo dell’uomo primitivo è quello di segnare un perimetro nel sito, un “recinto” materiale o immateriale come descriveremo in seguito in questo saggio. Così facendo l’uomo definisce uno spazio cui destinare una funzione, cioè pone ordine al caos. Che sia una pavimentazione su cui radunarsi per un sacrificio o una palizzata entro cui riunirsi e difendersi, egli crea il suo spazio e compiendo queste azioni progetta architetture.

Sito

Architettura

Riprenderemo più approfonditamente il concetto di spazio. Per ora è sufficiente sapere che lo spazio è un concetto che ci proietta dalla natura al sito. Il sito è uno spazio antropizzato o non antropizzato che si presta, in modo naturale o attraverso una successiva trasformazione, allo svolgimento dell’idea progettuale. È


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Pur non essendo estremisti come Venturi, che definisce il focolare come prima tipologia architettonica, consideriamo il disegno della quota zero, ancor prima dell’organismo edilizio in quanto tale, essa stessa architettura.

modo, fa acquisire al piano un alto significato architettonico, in ragione soprattutto delle conseguenze benefiche dell’ordine derivato dalla pianta generatrice, che tanto deve essere cara a chi di architettura si vuole occupare.

“La pianta è la generatrice. Senza pianta c’è disordine, arbitrio. Nella pianta è già compreso il principio della sensazione”. (Verso un architettura-Le Corbusier)

Così per Le Corbusier la pianta è l’elemento ordinatorecatalizzatore del paesaggio di percorsi ed edifici che si stagliano contro l’osservatore. Essa conferisce ritmo e proporzione all’alternanza dei pieni e dei vuoti, suggerendo sensazioni coordinate ai sensi e allo spirito, differenziando così un’architettura da un agglomerato edilizio. Per sostenere questa tesi, viene in mente lo studio della città di Las Vegas di Venturi: “Non è l’architettura a dominare lo spazio bensì il segno, con la sua forma scultorea, il profilo, gli effetti di luce”. Venturi arriva appunto a riscontrare le qualità architettoniche della città non tanto negli edifici stessi, bensì nelle insegne, nelle strade e nella disposizione dei parcheggi che domino e caratterizzano lo spazio molto più dei fabbricati. Siamo convinti che sia architettura non solo il generare pieni e vuoti, ma anche un curato disegno della quota zero che scandisca il ritmo con percorsi e recinti che definiscono aree e funzioni. A questo proposito l’esempio proposto da Le Corbusier della cité industrielle di Garnier rimane quanto mai attuale. I quartieri operai previsti dalla città sono concepiti come una serie di semplici volumi essenziali alla funzione abitativa e di modeste dimensioni. Un felice metodo di lottizzazione, caratterizzato dall’ordine pratico e da un sistema di spazi di pertinenza e di verde continuo non delimitato in alcun


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Il Recinto e lo Spazio Per F. Purini il modello ideale dello spazio è un concetto che ci astrae dall’esperienza concreta dei luoghi ed è costituito dall’accostamento di figure chiuse semplici e complesse. Queste regioni dal perimetro continuo coprono tutta la superficie terrestre senza lasciare vuoti, in modo tale che le figure autonome sono continuamente in contatto, creando interferenze e vibrazioni. “L’architetto deve sviluppare una sensibilità acuta per la comprensione del sistema dei recinti che organizzano lo spazio“. I recinti possono essere materiali o immateriali: costituiti cioè da cinte murarie e quinte di palazzi, come nel caso di molte piazze, oppure costituiti da tracce invisibili o discontinue, avvertite inconsciamente in quanto delimitazioni implicite che definiscono un’area, generando un recinto immateriale misurato da collimazioni ottiche, da un traguardo geografico, dalle sottili differenze della quota zero nelle sue altezze e nei suoi materiali (al riguardo basti pensare ad una strada carrabile per i pedoni).

Per Purini come per Le Corbusier, nella composizione il vuoto conta come il pieno. La conferma arriva dagli esperimenti di Moretti che mostrano in positivo i vuoti degli interni. Ovviamente il vuoto degli spazi interni è circoscritto, ma anche lo spazio esterno non è infinito. Abbiamo già detto che può essere limitato in maniera implicita, tramite il suolo e la percezione visiva umana. Inoltre, se la tridimensionalità delle masse architettoniche si trasferisce alle masse aeree e le permea, queste, al ridosso dei manufatti possono concatenarsi in sequenze plastiche con un fine estetico. Citando Purini per concludere: “Il disegno di uno spazio urbano è in definitiva l’espressione di questa potenzialità, da costruire con attenzione e sapienza”.

Garnier- La città industriale: Plan del quartiere residenziale

Le regioni, continua Purini, non finiscono dove arriva il loro perimetro, ma posseggono un aura, come peraltro i corpi architettonici, che definisce il loro territorio. Ne risulta, quindi, uno spazio doppiamente articolato: sia dalle regioni e sia dai propri territori, con altrettante aree virtuali.


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Esterno e Interno Ci sembra ora indispensabile parlare del concetto di esterno e interno, poiché è proprio alla quota zero che questa coppia di definizioni si concatena e si scontra nelle soglie sotto i nostri piedi. Purini afferma che nell’entrare in un edificio si ha sempre la sensazione di trovarsi in uno spazio che sembra più grande di quello che l’involucro visto da fuori poteva contenere. Questo è dovuto al fatto che mentre all’interno ci relazioniamo con uno spazio a scala umana, all’esterno la misura dell’edificio non è apprezzabile in se stessa, ma è in funzione del rapporto con le quantità metriche da cui è circondata, quantità che esprimono distanze e dimensioni dei manufatti dell’intorno o della mole del paesaggio. Anche Le Corbusier esprime un concetto simile, legato al rapporto tra le masse dell’intorno e l’esterno dell’edificio. L’uomo, indagando lo spazio, è attratto dal centro di gravità di un luogo in tutta la sua estensione ed ecco che la relazione si estende subito all’intorno. Le case, gli elementi naturali lontani o vicini, l’orizzonte alto o basso sono masse che agiscono con la potenza della loro cubatura.

L’esempio proposto da Le Corbusier è quello dell’acropoli di Atene, dove le trabeazioni sono in accordo con il mare e la pianta, pur sembrando priva di coerenza geometrica, lo è solo ad occhi inesperti, poiché in realtà è in accordo con le vedute ed è un delicato gioco di compensazione o movimento dei contrari. L’acropoli è utile a specificare ancora meglio il concetto di sito di cui prima trattavamo. La scelta è avvenuta, ovviamente, per le sue caratteristiche naturali e la pianta generatrice rispetta il sito e ne trae forza nello scambio di cui abbiamo parlato tra esterno e interno. Qui si capisce come, trascurando la bellezza architettonica intrinseca dei templi, lo spazio così ordinato e ritmato, seppur con edifici di levatura minore, non avrebbe perso le sue qualità architettonico-spaziali. A Destra: F.Purini – La struttura ideale dello spazio, Disegno Affollare e stratificare

Oltre alla cubatura anche la densità gioca un ruolo nella gravitazione del centro. Per Le Corbusier gli elementi geometrici ordinati hanno più densità di ogni altra cosa, più di una collina, di un albero o di un muro. Una pavimentazione geometrica in marmo è percepita in maniera più densa rispetto a una capanna lignea. È proprio questa la tesi che vogliamo sposare. Per riallacciarci alla teoria di Purini, pensiamo che proprio la quota zero, con le sue soglie e differenze di quota, sia l’unico elemento che all’esterno ci riporti alla scala umana. Con l’elemento generatore della pianta, lo sottolineiamo ancora, può dare ritmo e condizionare lo spazio e il sito. In altre parole, progettarlo.


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Ora che abbiamo introdotto questi concetti necessari alla nostra trattazione, continueremo la ricerca concentrandoci sull’elemento di congiunzione tra la quota zero e l’edificio architettonico in quanto tale: il basamento. Vogliamo dimostrare come questo concetto si sia via via mischiato e poi fuso con il concetto di continuo spaziale della quota zero: uno spazio in cui interno e esterno risultano essere meno definiti.

Le Corbusier – L’acropoli e il contesto, Schizzi.


CAP 2 2.0 La quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “VUOTO”  

Definizione “dal colonnato all’architettura su pilotis”

2.1 Il “vuoto” come spazio pubblico  

Armonia del tempio dorico Età ellenistica  STOA DI ATTALO  STOA DI EUMENE II

2.2 Evoluzione del Portico 

“rottura” tra basamento e coronamento  MIES VAN DER ROHE  CITTA’ PORTICATE

2.3 “Classicismo moderno” 

L’edifico sopraelevato  LE CORBUSIER

 

Architettura Brasiliana “Brutalismo”  LINA BO BARDI  OSCAR NEIMEYER

2.4 Il progetto moderno del “vuoto” 

Sottrazione dello spazio


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2.0 La quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “vuoto” In questo capitolo ci siamo soffermati nell’ esplicare la quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “vuoto”. Siamo partiti dalle più remote considerazioni sull’organismo, concepito, semplicemente, come spazio non delimitato cioè senza limiti ben definiti, fino ad arrivare a considerarlo un punto cardine del progetto moderno e il confine tra natura e artefice.

Definizione Alcuni tendono a definire il “vuoto” come l'assenza del pieno. La negazione della materia. Ciò che non ha corpo. Ma proprio perché lo definiamo in negativo, come qualcosa che non è , il vuoto non dovrebbe esistere. Le parole di Luigi Prestinenza Puglisi possono essere considerate del tutto astratte nel nostro campo. Difatti, in architettura, noi non pensiamo al vuoto assoluto ma alla porzione di spazio che muri, diaframmi, modanature delimitano. Cioè, se vogliamo usare un termine geometrico, un volume. Esattamente come in un cilindro, un cono, una sfera c'è una superficie che delimita e un volume che è delimitato, così in una architettura ci sarà un involucro che racchiude e uno spazio interno che è racchiuso. Una cosa è infatti guardare un ambiente a partire dai muri che lo contengono, un'altra se osserviamo lo spazio che da questi muri è definito.

“dal colonnato all’architettura su pilotis” L’architettura a quota + 0,00 ha visto nel corso degli anni un evoluzione incredibile; basti pensare alla concezione antica del portico come un luogo aperto ma allo stesso

tempo costruito, spazio della collettività, considerato regolatore dello spazio soprastante. Il basamento, l’attacco a terra, è il limite che l’architettura si pone tra “esterno/ interno, sopra/ sotto, artificio/ natura”. Quando questa rappresenta un “vuoto” ci immaginiamo un edifico svuotato dalla sua integrità volumetrica alla base. L’uomo percepisce questo limite attraverso lo sguardo, la vista e la prospettiva, strumenti fondamentali delle analisi compositiva e tipologica della creazione architettonica. Questa banale considerazione ha acquisito in epoca moderna un vera e propria caratteristica strutturalecostruttiva, sia in edilizia pubblica che in edilizia privata. L’edifico soprelevato dai “pilotis” di Le Crbrusier, rimanda a un vero e proprio classicismo compositivo ma anche a l’antico legame spirituale tra architettura e luogo. I portici dell’agorà greca, le stoa, utilizzati come luoghi pubblici dove venivano svolte le attività collettive, erano situati ai margini della città perché fossero utilizzati come luoghi di accesso e di sosta. Tralasciando l’architettura religiosa e quello che ne concerne, vediamo come in epoca moderna le riflessioni riguardanti l’edifico e il suo sviluppo in elevazione abbiano dato luogo a considerazioni differenti a seconda del luogo e del contesto sociale nei quali si inseriscono. Lo stesso Le Corbuiser vedeva un simbolo nella colonna ed impiegava colonnati di specie diverse in molti suoi edifici; eppure la sua immaginazione era propensa sempre ad un’astrazione assoluta e radicale, così le sue file di pilotis e le sue sale con colonnati evocano un fortissimo richiamo arcaico. A proposito della quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “vuoto” l’opera e la riflessione di Giuseppe Samonà - inscritta nel dibattito italiano (de Solà-Morales, 2001; Capozzi, Orfeo, Visconti, 2012) sull’eredità della tradizione e l’analisi della città della storia e sul tema della continuità/discontinuità del progetto moderno è molto utile; infatti viene sintetizzata la teoria dei vuoti urbani, dal ruolo dell’edificio pubblico, e dalla ricerca sul linguaggio.

In alto: Giuseppe e Alberto Samonà, Concorso per gli Uffici della Camera dei Deputati, Roma, 1967. In basso: Giuseppe Samonà Téte-Défense, Parigi, 1982 Architettura per i Servizi (non realizzato).


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“La teoria dei vuoti urbani” (Marras, 2006) è considerata come possibilità di rendere intellegibile l’intima struttura e il carattere generale della città essa si traduce in «[…] una volontà rinnovatrice che vuol indicare come valori significanti universali quelli che la città antica configura […] istituendoli a far da stimolo per la formazione attuale della città. Con questi atti del progettare, mentre da un lato si conquista l’unità del tessuto storico, dall’altro si annulla quanto è superfetazione, ingombro, discontinuità nell’organizzazione di questa forma unitaria da definire, lasciando ai vuoti in cui più non si costruisce, dopo aver demolito le architetture incongruenti con l’antico, l’eloquenza di caratterizzarsi come vuoti architettonici, come vedute della città storica per brani di un discorso figurativo esterno, come segnali di ricchezza che, rivitalizzando le articolazioni, imprima ai monumenti un prestigio e un carattere altamente significativo che si può attribuire al segno della nostra civiltà, e non di quella antica» (Samonà, 1975). A Roma - tramite la liberazione del suolo e i grandi pilotis lobati sorreggenti volumi a réaction poétique tra le nuvole (come in El Lissitzky o in Mart Stam) e conclusi dalla mano aperta - è riconquistato il vuoto per rivelare l’intima struttura urbana fatta di parti differenti, monumenti e luoghi civili. Due progetti in cui l’edificio pubblico «si aggiunge alla città, ma è esso stesso una città, l’eterogeneo urbano, la complessità urbana con tutto il suo spessore culturale; a riprova che la scala in architettura non è mai quella banalmente fisica» (Samonà, 1975). L’Inail, con la ‘citazione’ dell’altana e le sofisticate modanature, e la Banca padovana, con le facciate bifronti (l’una porticata e merlata e l’altra vetrata e

articolata a definire un volume), paiono in bilico tra surrealismo e citazioni perrettiane/lecorbusieriane. A Venezia è riproposto il carattere ‘trasparente’ e ‘ricamato’ del palazzo patrizio riducendolo al ‘segnofacciata’ attraverso l’utilizzo di esilissime membrature ad ordini sovrapposti slittati con materiali e grane: dall’acciaio al vetro, dall’intonaco al laterizio, fino alla pietra istriana. Sempre in Italia, nella città di Padova si lavora con l’ibridazione/contrappunto degli idiomi espressivi in ragione dei caratteri urbani differenti di cui la banca è ‘specchio riflettente’ e locus di ri-composizone. Il coraggioso sperimentalismo – ricombina e sintetizza tutti i sintagmi prima indagati: il fronte come ‘repertorio’ di elementi desunti dalla tradizione (invertito nel rapporto vuoti-pieni rispetto all’Inail), lo spazio pubblico (‘ridotto’ nel portico e nella galleria trasversale), i materiali e le nuove tecniche costruttive e il montaggio di oggetti plastici con l’auto-citazione dei pilotis, chiamati a decorare e a sostenere l’angolo. Queste Architetture che richiamano le forme convenzionali «radicate nelle cose continuamente ripetute» fatte di scansioni e ripetizioni controllate in cui s’inserisce «un edificio architettonico che crea un sistema spaziale chiuso iconograficamente all’interno della fila elencale» (Samonà, 1982, 15-26) - proiettato alla città nuova e alla natura spesso negata (il Canal Grande o il canale interrato Tito Livio).

In alto: El Lissitzky , schizzo per la citta di Mosca, anni 20’.

In basso: Steven hall, Vanke Center: "Horizontal Skyscraper", Shhenzhen, China, 2010

Una natura ritrovata, un vuoto come ‘spaziatura’ che «svolge un ruolo fondamentale di elemento di riscontro della forma compiuta della città» (Marras, 2006, 132) in cui si possano «scoprire finalmente le condizioni di sintesi e di analisi con cui la natura […] presenta le sue immagini nello spazio. Queste immagini non sono più quelle di una volta […]» (Samonà, 1982, 25), sono appunto quelle del nostro tempo e del nostro abitare. "Horizontal Skyscraper":


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2.1 Il “vuoto” come spazio pubblico

Armonia del tempio dorico Indipendentemente dalla provenienza o dalla cultura delle persone, o dalle conoscenze storico-artistiche che esse possono avere, la vista di un tempio dorico viene recepita istintivamente da tutti come qualcosa di straordinario e di bello; e non certo solo per le dimensioni imponenti del tempio. Questa sensazione è dovuta all'armonia intrinseca che possiede l'ordine dorico e che deriva in larga misura dalle dimensioni dei suoi elementi e dal rapporto esistente fra le diverse parti architettoniche. Vi è una ricerca di proporzionato equilibrio fra verticali e orizzontali, fra pieni e vuoti. "I due elementi, cioè pieno e vuoto, sono oramai inscindibili, così come inscindibili sono in un testo musicale note e pause..." (Mario Napoli).

Nello sviluppo dell’architettura greca la tendenza generale, dalla accentuazione della masse al progressivo alleggerimento: le colonne più antiche erano relativamente brevi con fusto possente e pesante capitello, mentre in epoche più recenti le colonne erano più alte e sottili con capitelli più leggeri. Tali cambiamenti sono di grande importanza per la datazione relativa po

Età ellenistica Il centro cittadino in età ellenistica, cioè l’agorà, si presentava, in genere, con un impianto planimetrico di forma regolare. Atene è un esempio emblematico di questo tipo di assetto: la via principale (anche cerimoniale), della città attraversava in diagonale lo spazio, e gli edifici di varia natura (civile, religiosa, commerciale, tra i quali anche i porticati) costruiti in più e successivi momenti in base ai criteri differenti. Nelle città

ellenistiche la piazza dell’agorà risultava preferibilmente esterna alla rete delle strade. Le quali o risultavano tangenti alla piazza, nel caso in cui essa era definita da porticati disposti su tre lati (schema aperto a U), oppure ne erano del tutto separate nel caso di schemi di piazze con porticati disposti su quattro lati. Dunque agorà, il cuore della città, si proponeva come spazio scenico per le attività e le ritualità che venivano svolte. Mileto, situata in contiguità con l’area del porto settentrionale presenta due lunghe stoai che danno luogo ad un interessante e geometricamente variata sequenza spaziale. L’immagine delle città ellenistiche era marcata dalla presenza delle stoai: lunghi edifici coperti a tetto (talvolta suddivisi in due navate da una fila di colonne intermedie), destinati a più funzioni (luoghi di incontro, di sosta, di ricreazione ed altro ancora). Inizialmente erano edifici molto semplici, le stoai, proprio per la loro numerosa frequentazione, vennero in età classica, arricchite da importanti opere pittoriche, scultoree, decorative. In età preellenistica le stoai vennero anche utilizzate per importanti funzioni pubbliche. Ad Atene in occasione di una risistemazione (tra il 340 ed il 330) della Pnice, luogo dedicato allo svolgimento delle pubbliche assemblee viene iniziata la costruzione (mai terminata) di due stoai. Più avanti, tra il 196 ed il 159 Eumene II fa costruire proprio sotto le pendici dell’Acropoli una lunga stoà (Img.1) ,167 mt, che, come già accennato faceva sistema con il teatro e con altre importanti zone cittadine. La funzione principale di questo portico era quella di proteggere gli spettatori dal maltempo e dal sole. Anche Attalo II realizza tra il 159 e il 138 nell’ agorà ateniese un importante stoa (Img.2) con colonne su due piani. Insomma anche le più antiche ed importanti parti dei centri cittadini subiscono modifiche per adeguarne l’immagine alle nuove concezioni.

Img1-Stoa di Attalo II


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I portici erano gallerie colonnate aprendosi su uno spazio scoperto. Il portico poteva essere una dipendenza d'un altro edificio oppure una costruzione indipendente sul lato di una piazza pubblica oppure di una via. L'introduzione a Roma di portici di tipo greco-ellenistico si fa risalire al sec. II a. C. Il piano regolatore della Roma imperiale si valse molto di portici costruiti intorno ai templi, oltre che per ragioni religiose anche per il risanamento igienico dei quartieri popolari e per il comodo traffico dei cittadini: ciò si fece specialmente nella regione IX (Campo Marzio). Gli architetti che operarono in età ellenistica si preoccuparono di regolarizzare sempre più e rendere armonici fra loro i portici delle ἀγοραί, e ciò anche quando le città sorgevano su terreno accidentato: così ad Ege, Alinda, Asso (Asia Minore) si circondarono piazze principali o mercati con portici, sostenuti all'esterno da altissime costruzioni a più piani, ammirevoli per semplicità di disegno e perfezione di tecnica. In età cristiana l'uso dei portici continuò, soprattutto nell'atrio delle basiliche e nelle vie che conducevano ai maggiori santuarî, come quelli della via Ostiense, fra la porta e la basilica di S. Paolo. Medioevo ed età moderna. Con la fine del mondo classico il portico viene a perdere in parte la sua funzione e la sua autonomia, inoltre a indicare nell'architettura sacra una funzione comune si diffonde con il tempo l'uso di altre voci tra loro similari, quali in particolare il nartece e il protiro.

Img 2 - L’Attica

Roma , Basilica Emilia


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2.2 Evoluzione del Portico “Rottura” tra basamento e coronamento Rispetto all’antichità alcuni luoghi, come i portici e le logge al piano terra, non sono scomparsi, ma hanno subito un processo di trasformazione del loro originario significato: da edificio aperto e luogo importante e significativo politicamente e socialmente della città a percorsi coperti interni agli edifici (ballatoi). È un mutamento, questo, che interessa non solo la sua estensione e profondità, ma propriamente l’uso e il suo rapporto con la città. Nella seconda metà del XIII sec. si diffonde l’uso dei portico nei palazzi comunali, dei quali citiamo quello di Piacenza, notevole per il sovrapporsi delle ricche finestre a tutto sesto alle arcate ogivali del portico (1280), sicché diresti che il processo costruttivo proceda a ritroso da forme più moderne a forme più arcaiche. Come compiuta espressione architettonica ritroviamo più tardi il portico nel Lazio in una serie di esemplari derivanti in parte dal portico di Civita Castellana, portico questo architravato, con sei colonne ioniche. In questo periodo il portico acquista talvolta peculiarità e denominazione speciali, si tratta di quelle che furono dette logge, se pure aperte come portici ai piedi degli edifici oppure immaginate come organismi architettonici a sé stanti e indipendenti.

Infatti, la loggia mantiene tuttora la mediazione tra l’interno e l’esterno dell’edificio, divenendo in molti casi un accorgimento compositivo di grande valore formale e funzionale ma, venendo a mancare l’accesso alla loggia dal piano stradale, essa ha perduto quel rapporto di integrazione/separazione tra pubblico e privato che la caratterizzava nel passato e che, invece, è divenuto prerogativa assoluta del portico, pur con altri significati. Più complesso è parlare dei porticati, strutture antichissime impiegate per necessità religiose (templi), politiche (fori), commerciali (mercati), portuali, civili (soprattutto teatri) come elementi di integrazione tra architettura e giardino (per esempio, le ville italiane rinascimentali) e come insieme di portici delimitanti uno spazio concluso (chiostri, piazze). Da ciò risulta evidente che la funzione dei porticati va al di là dell’essere un riparo dal clima, una protezione dal traffico, un piacevole luogo di sosta e passeggio, ma acquista anche valore formale non solo riguardo al singolo edificio ma all’intera città.

Palazzo comunale di Piacenza, 1281.

In alto: Filippo Brunelleschi & Francesco della Luna, Il portico degli Innocenti, 1419, Firenze. In Basso: Ospedale del Ceppo, Pistoia, XIII sec.

Col Rinascimento il portico si amplia e acquista ulteriore leggerezza in un assoluto prevalere dei vuoti sui pieni. Del 1419 è, in Firenze, il portico degl'Innocenti di Filippo Brunelleschi e Francesco della Luna, in cui l'aerea successione degli archi sovrasta le esili colonne secondo un tipo che altri esemplari, quali la loggia di S. Paolo a Firenze o quella dell'ospedale del Ceppo a Pistoia, ci definiranno.


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Foto: I portici di Padova


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Sempre durante il Rinascimento si incomincia a considerare anche l’immagine urbana: prima ogni casa possedeva i portici, ma non erano ancora pensati in modo unitario; in seguito, strade e piazze vengono concepite globalmente e circondate da arcate continue e uniformi. Tra i teorici che hanno affrontato specificamente la questione formale dei porticati è Camillo Sitte, che, nel suo L’arte di costruire la città.

staccata dal suolo primigenio (casa Farnworth); le Corbusier (in Villa Savoye e, metodologicamente , nei “5 punti” attraverso l’utilizzo dei pilotis determina un distacco netto tra corpo architettonico e suolo matrice il quale è declassato a piano urbano di riferimento, mentre la “foresta” di pilotis assume il ruolo commisuratore dell’antico colonnato.

Se confrontiamo un qualsiasi tempio classico con il Padiglione di Barcellona si nota come nella modernità si continua a mantenere la tripartizione dell’ordine in capitello, colonna e basamento, ma si perdono le sottoarticolazioni di questi stessi elementi, al punto che dall’astrazione delle componenti classiche sorge un nuovo ordine “minimo” e ridotto al suo concetto essenziale.

MIES VAN DER ROHE «L’antico portico, spesso magnifico per i particolari architettonici, si presenta sotto vari aspetti: ora accompagna, senza soluzione di continuità, il tracciato di una via a perdita d’occhio, ora contorna ininterrottamente la piazza, ora occupa almeno uno dei suoi lati. Appunto su questa continuità riposa l’effetto d’insieme, perché essa sola permette di dare unità alla fuga degli archi. La situazione è affatto differente nel caso delle realizzazioni moderne [...nelle quali] si stenta a riconoscere l’antico modello, perché l’effetto prodotto è del tutto diverso. Le arcate sono molto più grandi e di una esecuzione più ricca che nella maggior parte delle arcate d’una volta e tuttavia non è stato ottenuto l’effetto desiderato. Perché? Ogni arcata è legata al proprio blocco di case e il taglio delle larghe strade trasversali impedisce l’effetto d’insieme per ottenere una unità che produca sicuramente un effetto piacevole, bisognerebbe mascherare lo sbocco delle strade prolungando le arcate tutt’intorno alla piazza, altrimenti il motivo resterà sempre incompleto»

Lo sviluppo “dinamico” dell’accezione concettuale che sta alla base dell’ “atto compositivo” è riferibile alla rottura della modalità classica di rapporto tra basamento e coronamento. Così se il basamento viene interpretato da Mies sia in senso classico (il basamento del Padiglione Barcellona) che in senso trasgressivo, come lastra sollevata e

Vista piscina interna

Lettura classica: Il Padiglione di Barcellona è il capolavoro del periodo europeo dell´architetto Ludwig Mies van der Rohe; il parco d´esposizione di Montjuïc presentava una composizione nello stile classico Beaux-Arts. Risale al 1915, per un´esposizione che fu rimandata fino al 1929. Il padiglione gode di una posizione più isolata e più visibile, specialmente per la posizione in cui si colloca. Il basamento del padiglione, studiato per essere un podio, esaltava l´immagine classica da tempio romano, con il suo sviluppo orizzontale e il tetto piano, se non che l´asimmetria delle pareti libere sotto il tetto. Le lastre di marmo e di vetro che sembravano fluire l´una dietro l´altra, al di sotto e oltre il tetto, creavano un movimento tutt´altro che classico. Il visitatore poteva vedere gradualmente una terrazza in travertino e una grande piscina riflettente, rivestita di vetro verde.

Ludwig Mies van der Rohe, padiglione Barcellona, 1929.Barcellona.


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Separazione tra suolo naturale e suolo artificiale: Il rapporto tra natura e artificio è un tema centrale nell’analisi delle qualità distintive di una edilizia; la tesi dell’indifferenza dell’oggetto architettonico rispetto al quadro ambientale in realtà non esprime compiutamente le sottili sfumature di questo rapporto, talvolta insite in qualità atmosferiche o in valenze percettive che vengono colte dall’osservatore solo attraverso l’esperienza diretta.

di supporto e la dichiarata artificialità dell’opera. A questo proposito è il caso esemplare della Casa della cascata (1936) di Wright. “Ricerche fondate su raffinate soluzioni tecniche, tese ad assegnare all’oggetto il parametro distintivo della leggerezza, dell’immaterialità”; (cit. L. Ippolito p. 108)

Villa Savoye (1928-30) è spesso citata per l’autonomia che manifesta rispetto al luogo e per il modo in cui dissimula il proprio contatto con il terreno. Questi caratteri chiariscono la ricerca del rapporto tra dato naturale e artificiale; tra il carattere autentico dell’ambiente e l’astrazione di una “scatola nell’aria […] dominante sul verde”.

In casa Fransworth (1946-51) la strutturazione è sintetizzabile in tre distinti elementi orizzontali fluttuanti al di sopra di un piano di campagna incontaminato. Vediamo come Mies accentua il distacco tra l’oggetto architettonico e la preesistenza naturale sopraelevando la quota 0,00 dell’edifico al primo livello e quindi a un livello superiore rispetto al terreno.

“Gli abitanti che si in siederanno […] la contempleranno, nella sua intatta armonia, dall’alto del loro giardino pensile o dai quattro lati della finestra in lunghezza”

Questa "gabbia di osservazione", calata entro il bosco, montata su una piattaforma artificiale, è una costruzione intesa a captare un ordine astratto del paesaggio, "un'impalcatura" - come la chiama El Lisickij - che tende a "caratterizzare" il paesaggio stesso.

Le Corbusier, Precisions sur un état présent de l’architecture e de l’urbanisme, Crés er Cie, Paris 1930, pp136-138.Traduzione ita., Villa Savoye e la professione dell’architetto, in H.A. Brooks, Le Corbusier. 1887-1965, Electa, Milano 1993 p.102.

È evidente come per Le Corbusier il paesaggio porta a compimento la composizione in pianta. Il tema compositivo di un volume dominante in sospensione sul livello del terreno, carattere che rende villa Savoye esemplare anche per altre opere postume, trova fondamento nel proposito di lasciare libero sviluppo al piano di campagna, conciliando peraltro il soddisfacimento di esigenze funzionali non solo accessorie. L’innalzamento dei livelli abitabili dal suolo ha avuto spazio nelle ricerche di tendenza organica, ha fornito valide motivazioni per ricerche centrate sull’autonomia dell’oggetto architettonico, sulla distinzione tra i caratteri fisici e morfologici della superficie

architettonica, in una concezione fortemente anticipatrice di tendenze contemporanee. L'essenzialità del linguaggio miesiano diviene così veicolo per un'architettura "modernissima" ma profondamente calata nei luoghi: un'architettura che dallo spirito del luogo non trae il linguaggio delle forme ma la sostanza stessa del suo vivere, ristabilendo "legami originali ed eterni con la natura, in armonia con i suoi vincoli". Sfiora la terra, vi si appoggia appena, vi naviga sopra come una zattera.

"Il vuoto, il caos, l'irrazionale divengono spazio, cioè ordine, determinatezza, natura" (De Micheli, 1959) come scrive El Lisickij. Non è tanto importante l'immagine che la casa mostra di sé entro il bosco, quanto lo è l'immagine che la casa aiuta ad estrapolare del paesaggio che le sta intorno. Mies rappresenta gli spazi delle sue case (p.es. Hubbe Haus, ma soprattutto l'americana Resor House) in prospettive, appunto, da dentro a fuori, ove emerge una lettura "razionalizzata" del paesaggio. In questo senso l'architettura diviene un tutto unico con la natura che la circonda: non certo per mimetismo, ma per essere il "prisma" attraverso il quale il mondo è percepito. Ciò spiega anche come lo spazio vuoto diventi per Mies il materiale vero della conformazione

Lina Bo Bardi, The Bardi House (glass house)e, 1951, in Morumbi, São Paulo, Brasile.


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Ludwig Mies van der Rohe, Casa Farnworth , 1945 – 1951, Chicago. In alto; vista esterna. In basso; vista interna.


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2.3 “Classicismo moderno” Nel realizzare irrefrenabile che consiste nel fare architettura risiede un bisogno di regole chiare e universalmente applicabili che rendono comprensibili i diversi linguaggi e consentano quindi la comunicazione tra loro. Chiarito quale sia l’ordinamento, i principi e le norme, è facile, scomporre il progetto nelle sue strutture, nei suoi contenuti e nelle sue gerarchie. Nelle città ellenistiche, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, le relazione “logistiche” fra i vari spazi erano dettati dal legame tra il luogo e il culto. La struttura caratteristica dell’architettura, l’idea stessa dell’architettura, il “tipo” è ciò che nonostante i cambiamenti permane sempre come costante. È strettamente connessa con la realtà, che si trasforma al trasformarsi della realtà storica, ed è un fenomeno in continua evoluzione. Questo sistema di dialogo tra le varie componenti ha portato gli architetti moderni, come Le Corbusier, ha formulare delle “regole” che dettano e controllano la natura della composizione architettonica. Lo spazio dell’edifico, alla quota con il terreno, è considerato come strumento di connessione tra il suolo pubblico e il suolo privato, ai piani superiori. Tra i più noti architetti del Movimento Moderno abbiamo riportato Le Corbusier, teorico dell’architettura e della città, architetto e urbanista, pittore e designer. La sua ricerca è sempre stata rivolta dalla volontà di dare una risposta architettonica ai problemi del modo di vivere del XX secolo. Le necessità storiche quindi sono alla base della definizione del “tipo” architettonico. Attraverso l’introduzione del concetto di geometria Le Corbusier ha stabilito i tracciati regolatori.

“La scelta e la modalità d’espressione del tracciato sono parte integrante della creazione architettonica. […] Per costruire bene e per distribuire i suoi sforzi, per solidità e utilità dell’opera, […] ha creato un modulo che regola tutta l’opera. […] È alla scala umana. Si armonizza con lui: è l’essenziale.”

Tutti questi concetti si concretizzano nei “Cinque punti” : pianta libera, facciata, finestre a nastro, pilotis, tetto giardino. La struttura portante a travi e pilastri che permette una grande libertà per la distribuzione degli ambienti e per consentire di poter cambiare disposizione all’assetto interno degli alloggi ai diversi piani (pianta libera; e inoltre consente di ampliare aperture e di disporre non rigidamente all’interno della maglia strutturaòe, che è la sola a sorreggere i carichi statici non più affidati ai muri, solo di tamponamento (facciata libera e finestre a nastro). L’uso di pilastri (pilotis), che sollevano l’edifico dal suolo, consente quasi di eliminare la tradizionale soluzione di continuità tra architettura e il terreno: il piano di campagna, o il suolo urbano, passano al di sotto dell’edifico indisturbati, conservano il loro carattere pubblico. Lo spazio aperto privato viene trasferito ai piani superiori: quello privato delle singole famiglie è rappresentato dai terrazzi giardino mentre quello pubblico condominiale dal tetto giardino.

In alto: Villa Savoye In basso: L'Unité d'Habitation

Le Corbusier, disegni per la quinta conferenza tenuta a Buonos Aires, 11 Ott. 1929.

“Tutta la struttura si innalza dalla base e si sviluppa secondo una regola impressa nella pianta. […] l’opera si sviluppa in estensione e in altezza […] seguendo la stessa legge.” Le Corbusier, Verso un architettura, Longanesi, Torino, 1923, p.33.


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LE CORBUSIER

L’edifico sopraelevato Il basamento, inizialmente terrapieno e piattaforma d’appoggio dell’edifico, si svuota per diventare spazio abitabile, a volte anche scavato nella profondità del terreno stesso. Il raccordo costruttivo, funzionale e figurativo tra il terreno e la costruzione diventa così un elemento complesso in cui i muri, ergendosi dallo scavo, non solo sostengono della costruzione sovrastante, ma garantiscono anche le diverse esigenze tecniche legate al benessere abitativo.

volutamente l'edificio dal suolo e, soprattutto, elimina definitivamente la presenza di abitazioni penalizzate dall’oscurità e dall’umidità derivanti dalla collocazione a terra. Il tetto giardino, regola fondamentale del nuovo “fare Architettura”, acquista un significato nuovo, diventando una nuova quota 0, reinterpretata da le Corbusier, infatti, la vista dall'interno comprende solo la distanza, non l'intorno. L'Unité ricostruisce la città in un doppio separato da essa: una porzione del brulichio di Marsiglia è addensata in verticale, isolata e sollevata su enormi zampe di cemento che sembrano porla in movimento. La levitazione toglie la nuova città dal terreno esistente, ma, allo stesso tempo, la rende riposizionabile in qualsiasi punto. Natura e artificio si confrontano direttamente, il gigantesco millepiedi di Le Corbusier risolve alla base il problema dell'erosione di Marsiglia staccandosi dal suolo e contemplandolo da un livello superiore. Il paesaggio viene rappresentato, è artificialmente ricostruito come surreale scultura sul tetto.

Secondo Le Corbusier attraverso l’utilizzo dei pilotis, la città ipotizzata viene vista come senza barriere, questo perché i singoli edifici vengono tutti staccati dal suolo, di conseguenza, essendo libero il suolo le strade pedonali si estendono senza trovare alcun ostacolo sul terreno. Città mobile, l'Unité anticipa gli esperimenti degli Anni Sessanta che immaginano megastrutture mobili come la Walking City degli Archigram. (Estratto da Artland , “Marsiglia interrotta” di Pietro Valle)

Le Corbusier, prospettiva della Città contemporanea, 1922. Archigram’s Walking City

In quest’ultimo caso L'Unité d'Habitation de Marseille rispecchia l’esigenza dell’architetto di distribuire gli ambienti privati e dei servizi ai piani superiori del livello 0, lasciando alla quota del terreno un spazio libero e fruibile. Lo spettatore o l’osservatore non è disturbato dall’artificio dell’uomo perche l’architetto conferisce, attraverso la sopraelevazione dei volumi pieni, un percorso di continuità nella natura. L’edificio di Marsiglia si sviluppa su 18 piani, per un'altezza complessiva di 56 metri e osservando il basamento si può notare l’adozione di grandi pilotis di forma tronco-conica che, sorreggendo tutto il corpo di fabbrica, sostituiscono i setti portanti. Inoltre, la loro funzione strutturale separa


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Le Corbusier, Villa Savoye, 1947-1952, Parigi, Francia. In alto a destra: vista piano terra (+0,00) In basso: vista posteriore e anteriore del complesso della villa


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Le Corbusier, L'Unité d'Habitation de Marseille, 1947-1952, Marseille, Francia.


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Architettura Brasiliana I progettisti di Brasilia, la nuova capitale del Brasile, usarono i canoni ed il linguaggio del razionalismo internazionale, il curtain wall (pannello), il brise soleil (frangisole), i pilotis (pilastri), che però divennero forme applicate in modo convenzionale, riconsiderate attraverso le esigenze proprie di quella realtà. La città progettata ex novo appare così, dal punto di vista formale bella in astratto, simbolica ma vuota, priva della vitalità che deve essere propria dell'ambiente urbano. La presenza di Le Corbusier nell’ambiente brasiliano allo scadere del terzo decennio ha influenzato una intera generazione di architetti, coscienti della necessità di coinvolgere l’architettura in un progetto etico e sociale di vasta portata. L’apertura al moderno non impedisce di sviluppare ricerche sull’arte popolare come il caso di Lina Bo Bardi. LINA BO BARDI

“Bruttalismo” Gli effetti travolgenti dell’urbanizzazione sollecitano per contrasto anche riflessioni sulle difficoltà di gestione dell’enorme territorio naturale, rurale e forestale, dove le condizioni di vivibilità sono legate ai mezzi primordiali e pratiche stabilizzate nel tempo. Vediamo la nascita di una coscienza etnia, con risvolti antropologici ed ecologici, con una ricerca basata sull’adattamento dell’intervento alle condizioni del luogo; Lina Bo Bardi

esclude dal sul suo manifesto la bellezza intesa come valore proprio della classicità, apre il suo sipario sulla bruttezza, , unisce l’ironia alla pietà nell’accogliere tra i materiali dell’architettura la precarietà, l’ineleganza, la deformazione, l’errore. Collocata da Zevi e da tanti altri tra i “brutalisti”. Nelle metropoli brasiliane dove non è solo l’espansione della città a creare instabilità contestuale, quanto la sua continua rapida riscrittura, questa affermazione è basilare per comprendere la strategia che edifici come il SESC o il MASP dispiegano per imporsi nel paesaggio urbano, trovando, anche in tale contesto, una dimensione iconica espressione della città in divenire. Lina sa che gli attributi necessari all’appropriazione emotiva del luogo non sono meno importanti di quelli necessari al suo uso. E’ la consapevolezza del legame che intercorre tra habitat quotidiano e corpo come ambiente dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre sensazioni al centro del suo fare. Da ciò derivano la loro forza comunicativa, antiretorica le architetture monumentali di Lina. Il rapporto dinamico che i grandi edifici urbani di Lina riescono a stabilire con la vita della città e con i suoi flussi rappresentano un elemento per capire la ragione per cui, ancora oggi, essi possano essere percepiti e vissuti come fatti collettivi. Il MASP (Museo d’Arte di San Paolo), il mastodonte con le zampe rosse che pascola sul bordo dell’Avenida Paulista, ha settanta metri di luce e si regge ancorato a due staffe gigantesche di calcestruzzo. L’invenzione strutturale non è una trovata estemporanea. Interpretando il vincolo che si impone di non ostruire la vista verso la valle dell’Anhangabaù, Lina disaggrega il complesso museale in due volumi. Il primo, la hall civica, sprofonda nel terreno in pendio e funge da basamento per due enormi portali attraverso i quali l’altro, una cassa di cemento e vetro, può sollevarsi dal suolo. La breccia lasciata aperta dal sollevamento della cassa vetrata introduce nella fitta cortina dell’Avenida Paulista un

momento di pausa. Il volume ipogeo, colmando il dislivello del terreno, fa sì che il suo piano di copertura funzioni sia da piazzale che da belvedere. Concepito come una grande agorà il vão livre generato dallo stacco tra le due casse, trapassato dall’aria, raggiunto dal sole, naturalizzato dall’erba che cresce tra i blocchi di granito posati sulla nuda terra e dall’acqua piovana delle piscine su cui l’animale affonda le sue zampe, amplifica lo spazio collettivo, a quota 0,00, a disposizione della città, definendo un tempo e uno luogo per l’incontro, il gioco, la sosta.

Lina Bo Bardi; Serviço Social do Comércio , SESC (vista interno quota 0,00) Lina Bo Bardi, Museo de Arte de São Paulo (MASP), 1968, São Paulo.


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A destra: viste quota 0,00 In basso: sezione longitudinale e trasversale


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Il Palazzo è Capanema Il palazzo risale al 1937-1945, è stato il primo pezzo di architettura modernista in Brasile ed è stato progettato da un team illustre di architetti guidati da Lucio Costa: Affonso Eduardo Reidy, Ernani Vasconcellos, Carlos Leão and Jorge Machado Moreira. Il progetto cerca di seguire molto da vicino le raccomandazioni reali di Le Corbusier per quella che considerava una "nuova architettura": il tuo blocco principale è sospeso su palafitte, ha un libero pareti divisorie interne e la struttura di supporto, ed è murato da tende di vetro. Era uno dei primi edifici del mondo, per utilizzare la funzione di brise-soleil (parasole) per evitare l'incidenza diretta della radiazione solare sulla sua facciata nord. L'edificio ha 16 piani sopra terra (su palafitte), che ha una altezza del soffitto monumentale di oltre nove metri di altezza. La trama (che occupa un intero isolato nel centro di Rio de Janeiro) diventa una piazza pubblica, perché il piano terra dell'edificio è permeabile, cioè, permette il passaggio senza ostacoli dei pedoni.

Lucio Costa con Affonso Eduardo Reidy, Ernani Vasconcellos, Carlos Leão and Jorge Machado Moreira, il Palazzo Capanema, 1937-1945, Rio de Janeiro. Viste interne del portico d’ingresso.


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La libertà plastica attraverso l’utilizzo di forme curve e dinamiche negli edifici di Niemeyer, come anche nell’architetture di Zaha Hadid, porta lo spettatore ad essere immerso in un senso di continuità spaziale tra esterno ed interno, in un senso di fluidità.

OSCAR NIEMEYER

"L’ armonizzare classico e moderno, in un'impresa senza precedenti." (Headline Review) Il metodo progettuale seguito e divulgato da Niemeyer è sempre stato legato al problema della forma, quale suggestiva manipolazione dello spazio fisico, tesa e finalizzata alla creazione della bellezza negli oggetti di architettura. Il leitmotiv dominante consiste proprio nell’esasperazione della ricerca formale che, in tale ottica interpretativa diviene essa stessa funzione per l’architettura. La forza nelle sue architetture sta anche nel sapere enfatizzare il valore emblematico dell’oggetto indipendentemente dal contesto. Dal punto di vista della linguistica architettonica Niemeyer è stato ed è in bilico tra movimento moderno e lo Stile Internazionale. E’ stato un grande innovatore, rigettando gli angoli retti e le linee dritte. Ha potuto sperimentare le ampie potenzialità del cemento, che è diventato materiale malleabile nelle sue mani. Le sue opere sono di una plasticità unica, con forme sinuose e fluide, a volte in perfetta mimesi e sintonia con il contesto circostante, a volte imposte all’ambiente. Niemeyer critica con grande convinzione la cultura architettonica del moderno che impone al cemento l’ortogonalità rigorosa, limitata al vocabolario costruttivo di pilastri, travi, solette. Egli afferma la grande potenzialità delle nuove tecniche e fa riferimento a forme astratte.

Nella Piazza dei Tre Poteri l’idea di Niemeyer era quella di proiettare un'immagine di semplicità e modernità usando linee sottili e curve per comporre i pilastri e gli esterni della struttura. Le linee longitudinali del Palácio do Planalto sono scandite da una sequenza di pilastri il cui design è una variante di quelli del Palacio de Alvorada. Il disegno risulta un lettura del linguaggio classico, con l’arco che diventa una curva sottile che tocca terra in modo quasi impercettibile, grazie alla sapienza sviluppata, esaltando le possibilità del cemento armato. Lo spazio acquisisce una notevole importanza per l’architetto brasiliano infatti viene progettato aperto senza delimitazioni di alcun genere, ma misurato e misurabile grazie alla sua composizione.

La costruzione del carattere dello spazio pubblico appare evidente nella Piazza dei Tre Poteri, qui, secondo un principio sperimentato fin dalla classicità, la grande piazza civile in cui l’intero popolo brasiliano si deve riconoscere, si realizza attraverso la relazione che tre architetture instaurano a distanza. Difatti, molti edifici sembrano posati a terra, ma in realtà, la maggior parte vi è una sorta di pausa tra suolo e volume. Questo spazio di elevazione avviene grazie a dei massicci pilastri in cemento armato, di forme sempre nuove. I tracciati regolatori di Le Corbusier vengono riletti in maniera del tutto astratta infatti la sua ricerca è quella di un’architettura nuova capace di trovare nella costruzione il mezzo d’espressione più consono. Si può parlare di un superamento che avviene attraverso una sperimentazione continua che fonda un’architettura della distanza, del territorio. Per Neimeyer la necessità costruttiva di creare questi spazi incredibili si coniuga poeticamente con l’esigenza estetica e ancora oggi le sue architetture mostrano una straordinaria qualità costruttiva e un estrema modernità ideativa del progetto.

“era la forma astratta che mi attraeva più frequentemente, pura e sottile, libera nello spazio alla ricerca dell’effetto architettonico.” (Niemeyer, 1978)

Ospedale del sud America, 1952. Schizzo. Rio de Janiero


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Oscar Niemeyer, Palácio do Planalto, 1958-1960. Piazza dei Tre Poteri, Brasilia Vista quota 0.00 accesso rampa.

(*)“i Pilotis staccati su cui regge l’edifico, le strutture indipendenti, la libertà planimetrica, il “pan de verre” impiegato come limite ideale dello spazio interno, l’isolamento del volume dell’edifico nel contesto dell’ambiente urbano, i caratteri di continuità al livello del suolo […]” (*)Bullrich, F. (1970). Orientamenti nuoci nell’architettura dell’America Latina. Electa: Milano p. 18


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Oscar Niemeyer , Palácio Itamaraty,1960-1970, Brasilia.


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Oscar Niemeyer , Ibirapuera Park,1954, São Paulo. Quota 0,00.


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2.4 Il Progetto moderno del “vuoto” Sottrazione dello Spazio Il luogo delle relazioni iter soggettive, tra diversi soggetti che fanno parte di una collettività, è sempre stato lo spazio pubblico, oggi definito come spazio relazionale, altri lo definiscono come lo scenario altre come proprietà come la flessibilità. “il vuoto inteso come mancanza di caratterizzazione dello spazio fa si che questo sia trasformabile ed adattabile ad usi alternativi”.(*) Questo è il punto di partenza teorico e pratico per quanto riguarda “l’insieme delle relazione umane e il loro contesto sociale”. Questo tipo di relazioni è centrale nell’operare di molti architetti, come abbiamo visto precedentemente, il cui obiettivo è sempre creare “sceneggiature libere che prevedono scenari aperti e molteplice”.(**) Secondo Zhumtor le cavità contengono gli spazi principali dell’edifico, mentre quelli di servizio formano la massa densa, definita da una sequenza regolare di piani. Questa inversione del rapporto tra spazio servente e servito è teorizzata da Rem Koolhaas che la definisce la strategia del vuoto. Sottolinea le parti più importanti della costruzione come assenza della costruzione. Questa teoria viene applicata per la Biblioteca di Francia a Parigi del 1989. “Tutti i magazzini potevano essere visti come un enorme cubo, mentre gli spazi pubblici andavano sempre scavati”. Il vuoto assume per Koolhaas il carattere di spazio destinato alla collettività, ai luoghi d’incontro e relazione.

I “ciottoli”, chiamati così per la loro forma, sono scavati nel basamento interrato emergono nel grande vuoto che attraversa il piano terra; questa complessità spaziale è data da un ingegnosa soluzione strutturale che riprende il tema del muro cavo di Kahn: una serie di setti paralleli spessi due o tre metri che sono scavati in modo da poter contenere i servizi e essere attraversati dalle cavità. Questi setti funzionano come grosse travi che permettono anche di lasciare libero il piano terra che è ancora concepito come grande vuoto, una piazza pubblica coperta, uno spazio di relazione, di distribuzione e di accesso alle cinque biblioteche, raggiungibili attraverso distribuzioni verticali. Il Progetto di Jean Nouvel per il Museo Gugggenheim a Guadalajara in Messico utilizza una strategia analoga a Koohlaas: gli spazi principali del museo sono ottenuti attraverso un processo di scavo all’interno di un monolito. La quota 0,00 come la intendiamo noi è sottrazione di materia e quindi uno spazio ipogeo. Questo permette all’architetto di creare degli spazi dove l’osservatore può contemplare e osservare lo spazio circostante. Il museo infatti si colloca nella sommità di un profondo canyon dove è quasi impossibile definire una quota 0,00 vera e propria. Le concavità rendono lo spazio al piano terra estremamente luminoso, continuo e definito. I “vuoti” che si descrivono sono spazi prodotti attraverso un processo di sottrazione, che estrae la materia sostituendola con lo spazio. Questa, antica modalità compositiva e costruttiva, riscoperta dal Moderno e utilizzata da molti architetti contemporanei. Questi spazi sopra citati, si collocano tra interno ed esterno, sui margini, nei luoghi di confine dell’architettura. Grazie alla sua presenza trasforma profondamente le interazione con i soggetti che li abitano e con i paesaggi urbani che li circondano.

. Jean Nouvel, Museo Gugggenheim Guadalajara in Messico

Nel progetto della biblioteca gli spazi sono generati da un processo inverso per cui gli ambienti principali sono “vuoti” scavati nella massa formata dai magazzini.


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Note: (*) Fernando Espuelas, Il vuoto Riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2004, p.231 (**) Florian Idenburg, Relazioni. Nella architettura di Kazuki Sejima e Ryue Nishizawa, Postmedia Bokks, Milano, 2010, p. 43

Rem Kooholaas (OMA), Tres Grand Bibliotheque, 1989, Parigi. (progetto non realizzato) Da sinistra a destra: Sezioni del vuoto; Assonometria; Piante del vuoto, Foto del plastico del vuoto.


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CAP 3 3.0 La quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “PIENO”  Definizione  “il basamento nell’antica Grecia”  Il Partenone

3.1 Il “pieno” nel Rinascimento  “Scorporazione”  

PALAZZO MEDICI RICCIARDI PALAZZO RUCELLAI

3.2 La Scuola di Chicago  Il pieno definisce la funzione  

LOUIS SULLIVAN FRANK LLOYD WRIGHT

3.3 Architettura Contemporanea Giapponese  Massa naturale 

TADAO ANDO


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3.0 La quota + 0,00 dell’organismo edilizio intesa come “pieno” l’Architettura, nel corso della storia, si è sempre interrogata sul modo di progettare. Sono nate così diverse scuole di pensiero che hanno dettato il modo di progettare lo spazio. Si è progettato il ‘vuoto’ (come approfondito nel capitolo precedente), ma anche il ‘pieno’; questo perché non vi è un solo modo di progettare ma solo svariati modi di interpretare.

Definizione La percezione comune che abbiamo è che le cose, tutte le cose, siano «piene», e che il vuoto sia la mancanza del pieno, il nulla. Secondo la concezione aristotelica del mondo, Naturaabhorretavacuo [la natura rifiuta il vuoto]. Aristotele era giunto a questa conclusione osservando che quando da un luogo viene tolta tutta la materia, producendo appunto il vuoto, immediatamente nuova materia vi si precipita a colmarlo, quindi la materia deve essere ovunque. Partendo da questa definizione, tantissimi progettisti procederanno per tentativi ed interpretazioni del vuoto, riempiendolo di significati propri volta per volta.

mentre quello più alto e dominante dei templi romani ha il nome di podio. Può anche indicare la parte inferiore dell'edificio, anche costituita da più piani, con forme architettoniche distinte dai piani superiori. Può infine trattarsi di un elemento autonomo che ha funzione di supporto di una statua o a una decorazione, o a qualsiasi altro oggetto , di grandi o piccole dimensioni. Nel piedistallo può essere anche un sinonimo di zoccolo. Il basamento si pone come limite del tempio ed ha una funzione importante, oltre che a livello statico, anche sociale. Si pone come un pieno che delimita una zona invalicabile all’umo (le funzioni infatti erano svolte all’esterno del tempio, nella zona antistante) e solo ai sacerdoti era permesso salire ed entrarvi. A livello funzionale, sopraelevava il piano di calpestio e quindi dva la sensazione di ascesa verso un qualcosa di inaccessibile. Il ‘pieno’ in questo caso prende la valenza di limite.

João Luís Carrilho da Graça, Scuola Superiore di Musica, 2010, Lisbona

“il basamento nell’antica Grecia” Il basamento in architettura indica una piattaforma che sostiene un edificio, in parte come elemento di fondazione e in parte come elemento architettonico visibile, su cui poggia l'elevato. Il basso basamento tipico dei templi greci prende il nome di crepidine (generico) o crepidoma (a gradini), dove il piano su cui poggiano le colonne è detto stilobate,


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“il Partenone” Il Partenone fu costruito per iniziativa di Pericle, il generale ateniese del V secolo a.C. Fu costruito dall'architetto Ictino, a prosecuzione di un progetto già avviato con Callicrate sotto Cimone. La costruzione avvenne sotto la stretta supervisione dello scultore Fidia (nominato episkopos, supervisore), che, inoltre, costruì la statua della dea Atena al suo interno, di circa 12 metri fatta in bronzo, oro e avorio. L'edificazione del tempio cominciò nel 447 a.C., e fu completata sostanzialmente attorno al 438 a.C., ma il lavoro sulle decorazioni continuò almeno fino al 432 a.C. Sappiamo che la spesa maggiore fu il trasporto della pietra dal Monte Pentelico, circa 16 chilometri da Atene, fino all'Acropoli. I fondi furono in parte ricavati dal tesoro della lega di Delo, che fu spostato dal santuario panellenico di Delo all'Acropoli nel 454 a.C.

presentano sei colonne sulla facciata e 13 sul lato lungo, il Partenone è ottastilo, ha cioè 8 colonne sul lato corto e 17 su quello lungo.

Foto e Plastico del Partenone.

Sebbene il vicino Hephaisteion sia l'esempio esistente più completo di tempio di ordine dorico, il Partenone, a suo tempo, fu considerato il migliore. Il tempio, scrisse John Norwich, "gode della reputazione di essere il più perfetto tempio dorico mai costruito. Persino nell'antichità i suoi miglioramenti architettonici erano leggendari, specialmente la sottile corrispondenza tra la curvatura dello stilobate, l'assottigliarsi dei muri del naos e l'entasis delle colonne". Lo stilobate, piattaforma sulla quale si reggono le colonne, curva in su leggermente per ragioni ottiche. L'entasis è il leggero rigonfiamento posto sul fusto a 1/3 della sua altezza che annulla l'illusione ottica che le colonne siano concave nella zona centrale. L'effetto di queste leggere curve è quello di far apparire il tempio più simmetrico di quanto realmente sia. Altra correzione ottica è la diversa distanza delle colonne per risolvere il problema dell'angolo, o la diversa forma delle colonne d'angolo per correggere il diverso intercolumnio tra i lati del tempio. A differenza dei classici templi che


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A sinistra: Foto basamento Sopra: Pianta del Partenone.


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3.1 Il “pieno” nel Rinascimento

“Scorporazione”

In questo ebbe certamente un peso determinante anche lo studio della prospettiva da parte di Filippo Brunelleschi; il Brunelleschi introdusse una visione d'interno totalizzante, elevando la prospettiva a struttura spaziale globale.

Il termine Rinascimento fu utilizzato già dai trattatisti dell'epoca per evidenziare la riscoperta dell'architettura romana, di cui nel Quattrocento sopravvivevano integre diverse vestigia. Principale indice di questa riscoperta fu la ripresa degli ordini classici, l'uso di forme geometriche elementari per la definizione delle piante, la ricerca di articolazioni ortogonali e simmetriche, nonché l'impiego della proporzione armonica nelle singole parti dell'edificio.[3] Fu privilegiato l'impiego di volte a vela su pianta quadrata (ad esempio nello Spedale degli Innocenti) e di volte a botte (come nella copertura della basilica di Sant'Andrea a Mantova di Leon Battista Alberti), senza l'uso dei costoloni e dei contrafforti gotici. In ogni caso, la sensibilità degli artisti rinascimentali non si esaurì solo nella riscoperta dell'architettura romana: infatti, i primi architetti toscani accolsero lo stile romano rifacendosi essenzialmente al protorinascimento romanico, riscontrabile ad esempio nelle forme chiare del Battistero di San Giovanni e nella basilica di San Miniato al Monte, la cui eredità classica aveva in qualche modo influenzato anche il gotico fiorentino.[3] Del resto, lo storico dell'arte Bruno Zevi ha definito il Rinascimento come una riflessione matematica svolta sulla metrica romanica e gotica, evidenziando la ricerca, da parte degli architetti dei secoli XV e XVI, di una metrica spaziale basata su rapporti matematici elementari.[4] In altre parole, la grande conquista del Rinascimento, rispetto al passato, è stata quella di aver creato negli spazi interni quello che i greci antichi avevano realizzato per l'esterno dei loro templi, dando vita ad ambienti regolati da leggi immediatamente percepibili e facilmente misurabili dall'osservatore.[4]


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Palazzo Medici Ricciardi:

Le finestre sono leggermente differenziate tra piano e piano, con cornici più larghe in alto in modo da bilanciare la minore altezza del piano. L'effetto è comunque quello di dare maggior risalto al piano nobile.

Il palazzo era ed è situato in un luogo strategico all'incrocio fra la Via Larga (l'attuale via Cavour) e via de' Gori, vicinissimo alle chiese protette dalla famiglia (San Lorenzo e San Marco) ed al Duomo. Tutta la zone viene per questo chiamata "Quartiere mediceo". Michelozzo attinse dal rigore classico di Brunelleschi per depurare ed arricchire la tradizione di stampo gotico fiorentina. La forma del palazzo originario era pressoché cubica, con un cortile centrale dal quale un portale permetteva l'accesso al giardino, circondato da alte mura.La sua facciata è un capolavoro di sobrietà ed eleganza, sebbene presenti caratteri "eccezionali" come l'uso del bugnato, che nel medioevo era riservato normalmente ai palazzi pubblici dove aveva sede un governo cittadino. L'esterno è quindi diviso in tre ordini, separati da cornici con dentelli dalla sporgenza crescente verso i piani superiori. Al contrario il bugnato è graduato in modo da essere molto sporgente al pian terreno, più appiattito al primo piano e caratterizzato da lastre lisce ed appena listate al secondo, mettendo così in rilievo l'alleggerimento dei volumi verso l'alto e sottolineando un andamento orizzontale dei volumi.

Schizzo e disegni del palazzo Medici Ricciardi.

Al pian terreno esisteva una loggia d'angolo (murata nel 1517); all'ultimo piano, al posto del cornicione a mensole scolpite erano presenti dei merli che ne accentuavano il carattere militare. Lungo i lati est e sud corre una panca di via, un alto zoccolo in pietra, che serviva per ragioni pratiche e estetiche. Le bifore scandiscono regolarmente la facciata incorniciate da una ghiera a tutto sesto con un medaglione al centro con l'arme dei Medici e rosoncini.


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Palazzo Rucellai:

La facciata, di un bugnato di pietraforte uniforme e piatto, è organizzata come una griglia, scandita da elementi orizzontali (le cornici marcapiano e la panca di via) e verticali (le paraste lisce), entro la quale si inseriscono le aperture. Al pianterreno lesene di ordine tuscanico dividono la superficie in spazi dove si aprono i due portali (in origine era uno solo, ma fu raddoppiato simmetricamente quando venne raddoppiato il palazzo e la facciata). Al piano nobile si trovano numerosi elementi classici (i portali, gli ordini architettonici dei capitelli) fusi sapientemente con elementi della tradizione medievale locale, quali il bugnato e le bifore, e con elementi celebrativi dei committenti, come lo stemma e le imprese dei Rucellai, inseriti nei fregi e nei blasoni sopra i portali. Il piano terra, più alto dei piani superiori, ha i capitelli decorati da una reinterpretazione dell'ordine dorico e due portali rettangolari classicheggianti (in epoca gotica tutti i portali erano ad arco o con arco e architrave). Vi corre davanti una "panca di via", un elemento oltre che di utilità pratica per i passanti, che creava una sorta di piano base per il palazzo, come se si trattasse di uno stilobate. Lo schienale della panca riproduce il motivo dell'opus reticulatum romano. Al primo piano (piano nobile) le paraste sono di tipo ionico e vi si aprono delle ampie bifore a tutto sesto, con cornice bugnata, colonnina e oculo al centro. All'ultimo piano si hanno paraste di tipo corinzio, alternate a bifore dello stesso tipo. La sovrapposizione degli ordini come teorizzato da Vitruvio[2], è di origine classica ed è un chiaro riferimento al Colosseo, il quale suggerisce l'uso dell'ordine dorico senza il relativo fregio a metope e triglifi.

Anche il bugnato a conci levigati si ispira all'architettura romana, come nel motivo del basamento a imitazione dell'opus reticolatum. Le paraste decrescono progressivamente verso i piani più alti, dando un effetto prospettico di maggior slanciatezza del palazzo rispetto alla sua vera altezza.

In alto il palazzo è coronato da un cornicione poco sporgente, sostenuto da mensole, oltre il quale è nascosta una loggetta ornata da pitture a monocromo del XV secolo, da alcuni attribuite alla cerchia di Paolo Uccello: l'elemento della loggia è un'ulteriore riprova della rottura con la tradizione medievale e di apertura verso la grande stagione del Rinascimento. Il fregio del piano terra contiene le insegne della famiglia Rucellai: tre piume in un anello, le vele gonfiate dal vento e lo stemma familiare, che compare anche sui blasoni sopra i portali. A destra si vede bene come la facciata sia incompleta, infatti non finisce in maniera netta, ma è frastagliata perché era prevista la continuazione con un terzo portale.

Prospetto Palazzo Rucellai.

L'effetto generale è vario ed elegante, per il vibrare della luce tra le zone chiare e lisce (lesene) e quelle scure (aperture, solchi del bugnato)[1]. Nel trattato Alberto scrisse infatti "La casa del signore sarà ornata leggiadramente, di aspetto piuttosto dilettevole che superbo".

Lo stile del palazzo costituì un punto di partenza per tutta l'architettura di residenza civile del Rinascimento, venendo citato quasi alla lettera dal suo allievo Bernardo Rossellino per il Palazzo Piccolomini a Pienza.


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Sopra: Dettaglio Palazzo Rucellai. A destra: Confronto Colosseo-Rucellai.


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3.2 La Scuola di Chicago Il pieno definisce la funzione Intorno alla prima metà dell'Ottocento, molte città americane hanno già assunto gli aspetti delle metropoli moderna e Chicago, più di qualunque altra, mostra una vertiginosa e forte tendenza all'espansione. Purtroppo nel 1871 un terribile ed enorme incendio rase al suolo quasi completamente il centro di Chicago.Questa fu la ragione del creare una scuola architettonica, un ritrovo di ingegneri ed architetti il cui scopo fu quello di ricostruire interamente Chicago. La scuola di Chicago è un movimento od una vera e propria scuola di architettura che si è formata a Chicago tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. L'ambiente in cui si sviluppò fu quello createsi dopo l'incendio della città del 1871, e ad essa parteciparono due generazioni di architetti ed ingegneri di cui la prima era forte delle esperienze maturate durante la Guerra di secessione americana. La scuola, promosse, tra le prime, l'uso della nuova tecnologia delle strutture in acciaio nella costruzione degli edifici commerciali, e sviluppò anche nuovi canoni estetici (soprattutto nel disegno ripetitivo dei motivi delle facciate), influenzata anche dal corrispondente evolversi delle avanguardie architettoniche in Europa antecedenti al Movimento Moderno. Alcune delle forme e caratteri distintivi della scuola di Chicago sono l'uso della struttura in acciaio come elemento portante degli edifici con murature di rivestimento in terracotta, larghe aree finestrate e ripetitive e un uso limitato della decorazione esterna. Elementi neoclassici comunque si ritrovano nei grattacieli della scuola di Chicago molti dei quali si riassumono in un ridisegno di colonne. Il primo piano funziona come base, i

piani intermedi come un albero di colonne verticali, mentre la cima dell'edificio è sormontata da una cornice semi-tradizionale. La "Chicago window" la "finestra di Chicago" è nata in questa scuola ed è divisa in tre parti: un largo pannello centrale in vetro affiancato a due più strette aperture dello stesso materiale. Tra gli architetti che hanno associato il loro nome con la Scuola di Chicago è opportuno citare: Daniel Burnham, Dankmar Adler, John Root, William Holabird, Martin Roche, William LeBaron Jenney e Louis Sullivan. Frank Lloyd Wright iniziò a lavorare nello studio di Adler e Sullivan ma prese ben presto le distanze dalla scuola elaborando un suo stile definito al suo nascere delle Prairie House Style. Ludwig Mies van der Rohe, che arriverà a Chicago dopo la fondamentale esperienza tedesca del Bauhaus, farà un lavoro di ricerca sulla composizione architettonica dei grattacieli, di cui il Seagram Building ne è l'espressione più alta, ed è per questo definito da alcuni, come il creatore della seconda Scuola di Chicago.

Foto a destra: Daniel Burnham, Flatiron Building, 1902, New York In basso a destra: Reliance Building, fine ‘800, Chicago.


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Louis Sullivan:

Louis Sullivan era nato a Boston, studiò architettura al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Dopo una breve esperienza nello studio di Frank Furness a Filadelfia, dove ebbe modo di sperimentare lo stile gotico "orientalizzato" -caro allo stesso Furness, si trasferì a Chicago nel 1873 prendendo parte al boom edilizio creatosi in quella città dopo l’incendio del 1871. Qui lavorò dapprima nello studio William LeBaron Jenney, che era la personalità più emergente della nascente Scuola di Chicago, considerato come il primo progettista ad aver realizzato una struttura portante in acciaio; dopo aver studiato due anni a Parigi all'École des Beaux-Arts, nel 1880 divenne socio sempre a Chicago di Dankmar Adler, con il quale ebbe inizio il periodo più produttivo della sua vita di progettista. Sullivan è il primo architetto moderno americano. La composizione architettonica dei suoi edifici, semplificata, guidata dalla natura funzionale del tema e dalla tecnologia, anticipa temi e soluzioni del

Movimento Moderno. Un'architettura regolata da necessità oggettive, che abbandoni l’ornamento. L'architettura di Sullivan ha comunque un grande fascino ed un disegno attento e "selezionato" che va dal particolare architettonico all'insieme. Tutto ciò è ben evidenziato nelle bande verticali del Wainwright Building, nell’esplosione Art Nouveau di ferro lavorato sull’entrata d’angolo dei magazzini Carson Pirie Scott, nei grifoni di terracotta della finestra circolare del Union Trust, nei bianchi angeli del Bayard Building, nell’eleganza complessiva delle tre parti in cui Sullivan divide il grattacielo (zona basamentale, parte intermedia e attico), così magistralmente esemplificati nel Buffalo, Guaranty Building.

Schizzo provvisorio del Wainwright Building.


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The Wainwright Building è una costruzione di St. Louis, Missouri. Costruito nel 1891 con il progetto di Dankmar Adler e Louis Sullivan viene talvolta considerato uno dei primi grattacieli del mondo.

Si distingue per la soppressione degli elementi orizzontali, già evidente nel Marshall Field di Richardson; È articolato da una griglia di pilastri rivestiti di mattoni, mentre gli elementi orizzontali sono arretrati e ricoperti di terracotta, così da fondersi con la finestratura. I pilastri sfilavano da un terzo sbarramento di pietra di due piani e terminano bruscamente con una cornice in cotto, massiccia e decorata.

Wqinwright Building, St. Luouis In costruzione e completato.


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Frank Lloyd Wright:

scomposizione di volumi principali in secondari e delle relazioni tra diverse forme. Questi giochi potevano infatti essere combinati in infiniti modi, bio tridimensionalmente, e, come sosteneva Fröbel, erano molto utili se usati per rappresentare con forme geometriche oggetti naturali. Molti anni dopo, famoso in tutto il mondo, Wright ebbe modo di dire:

« I lisci triangoli di cartone e i levigati blocchetti di acero restarono impressi nella mia memoria infantile e costituirono una esperienza indimenticabile. »

Frank Lloyd Wright nacque nel 1867 a Richland Center nel Wisconsin da William Russell Cary Wright, originario del Massachusetts, e da Anne Lloyd Jones appartenente ad una famiglia gallese emigrata negli Stati Uniti. La famiglia era di religione unitariana, molto diffusa ed influente nella cultura e società del Midwest. Il padre che era laureato in legge, sebbene afflitto da continui problemi finanziari, fece molti lavori, tra i quali anche il pastore. Questo comportò, per la famiglia Wright, il trasferimento per ben tre volte ancor prima che Frank compisse gli undici anni. Il rapporto che Frank Lloyd Wright nutrì per il padre fu di amore-odio; amore per la passione che gli tramandò per la musica e odio per i suoi modi autoritari ed una certa indifferenza che mostrò nei suoi confronti. Nel 1876 accompagnato dalla madre vide, all'esposizione internazionale indetta per il centenario di Philadelphia, i giochi fröbeliani. Ideati dal pedagogo tedesco Friedrich Fröbel, erano cartoni e cubi di legno dalle forme geometriche, dipinti di colori primari, che guidavano i bambini alla conoscenza della composizione, della

Schizzo Guggenheim Museum, New York.


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Museo Guggenheim di New York:

Il Solomon R. Guggenheim Museum è un museo di arte moderna e arte contemporanea, fondato nel 1937, con sede nella 5th Avenue 89, a New York, negli Stati Uniti d'America. La sua sede attuale è un'opera di Frank Lloyd Wright del 1943, tra le più importanti architetture del XX secolo. Inizialmente denominato Museo della pittura nonoggettiva (Museum of Non-Objective Painting), il Guggenheim fu costruito per esporre le avanguardie artistiche che si andavano sempre più imponendo, come l'astrattismo i cui artisti principali erano Vasilij Kandinskij e Piet Mondrian. Il museo fu trasferito nella sede attuale, quando l'edificio progettato da Frank Lloyd Wright fu completato. Il caratteristico edificio, ultimo grande lavoro di Wright, catturò subito l'attenzione dei critici architettonici, ed è ancora mondialmente riconosciuto come uno dei capolavori dell'architettura contemporanea. Dalla strada, l'edificio assomiglia a un nastro bianco che si avvolge attorno a un cilindro più ampio in cima che alla base. Il suo aspetto è in forte contrasto con i più caratteristici grattacieli di Manhattan che lo circondano, fatto molto gradito a Wright, che dichiarò che il suo museo avrebbe fatto sembrare il vicino Metropolitan Museum of Art "simile a una baracca Protestante".

esposte al suo interno e che è particolarmente difficile appendere le opere lungo i muri né piatti né verticali della spirale, non sufficientemente illuminata dalla grande vetrata centrale. Nel 1992, fu aggiunta all'edificio una torre rettangolare, più alta della spirale originale, progettata dallo studio Gwathmey Siegel and Associates Architects. L'edificio era già divenuto a tal punto un'icona che questa aggiunta al progetto di Wright fu molto contestata.

La spirale capovolta somiglia molto ad uno Ziggurat rovesciato tant'è che lo stesso Wright la denominò Taruggiz. Essa può essere vista quindi come una Torre di Babele rovesciata (che era appunto uno ziggurat) col valore simbolico di voler riunire i popoli con la cultura (esso è infatti un museo d'arte) al contrario della divisione dei popoli avvenuta nella nota vicenda biblica della Torre di Babele. Altro significato simbolico è legato al sistema di scale a spirale che consentono sempre di guardare indietro sul cammino percorso.Malgrado visivamente dia l'idea di una struttura ardita, l'edificio in realtà ha un funzionamento abbastanza classico. La rampa a spirale, a pianta circolare, è divisa in due parti. Nella parte esterna del cerchio si trova lo spazio espositivo che viene sostenuto da dei setti in cemento armato, che sono posizionati lungo i raggi del cerchio ogni 30°. All'interno del cerchio invece si trova il percorso di salita e discesa il quale è a sbalzo. I setti, di forma trapezoidale, si restringono andando dall'alto verso il basso fino ad avvicinarsi alla sezione minima di resistenza, lasciando poi il posto ad un tamburo circolare che corre lungo il perimetro esterno della spirale. In copertura i setti vengono prolungati così da formare i costoloni della cupola che sovrasta il grande spazio vuoto.

All'interno, la galleria espositiva forma una dolce spirale che sale dal piano terra fino alla cima dell'edificio. I dipinti sono esposti lungo i muri della spirale e in alcune stanze che si trovano lungo il percorso. La maggior parte di coloro che criticano l'edificio si concentrano sul fatto che questo oscura le opere

Sezione Guggenheim Museum, New York.


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Dettaglio ingresso Guggenheim Museum, New York.


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3.3 L’Architettura contemporanea

Giapponese

Massa naturale Il rapidissimo processo di sviluppo economico avutosi in Giappone nel dopoguerra, ha provocato, grazie anche alle influenze culturali di tipo occidentale che si andavano rapidamente diffondendo nel paese, un fenomeno di costante espansione in campo architettonico che si è concretizzato nel lavoro di alcune figure centrali, che hanno avviato una costante ricerca caratterizzata sia da un sapiente recupero della tradizione culturale nazionale, sia da un sapere tecnologico molto avanzato. Sono i modelli appartenenti alla corrente del funzionalismo americano quelli ad essere stati in un primo tempo oggetto di imitazione. Sul finire degli anni 1950, questa iniziale fase imitativa fu superata dai successivi sviluppi che, via via, assunsero caratteri più originali ed aderenti al nuovo contesto culturale giapponese. Uno degli iniziatori della moderna architettura giapponese fu senza alcun dubbio Kenzo Tange, recentemente scomparso. Nel Centro della Pace a Hiroshima (1951), aveva già la espresso la sua grandezza. Ma è soprattutto nelle opere come il Palazzo Comunale di Tokyo, gli Edifici per le Olimpiadi del 1964 e il Piano urbanistico di Tokyo, che Tange seppe superare le sue stesse posizioni di partenza. Altro fenomeno interessante sviluppatosi negli anni 1960 in Giappone, fu quello delle ricerche condotte dal gruppo Metabolism. Gli elementi del gruppo proposero progetti che si ponevano in aperta opposizione ai modi di organizzazione urbana e alle tipologie tradizionali. Oggi gli architetti giapponesi si inseriscono tra i principali

interlocutori a livello internazionale del dibattito architettonico. L'attuale architettura è caratterizzata dalla costante ricerca tecnologica, sull'uso di sistemi modulari da architetti come Fumihiko Maki, o dalle originali reinterpretazioni delle forme naturali espresse da Toyo Ito, o ancora dalle geometrie minimaliste delle architetture di Tadao Ando e dalle mutevoli invenzioni di Arata Isozaki. Sempre presente tuttavia è la tradizione culturale giapponese, che non viene mai trascurata nella elaborazione dei contenuti del progetto. Una recente realtà è il gruppo Sanaa (1995), studio di Tokyo, che ha firmato alcune fra le più innovative opere architettoniche del nostro tempo. Composto da Kazuyo Sejima, che ha collaborato allo studio di Toyo Ito, e da Ryue Nishizawa, Sanaa è caratterizzato da una tensione costante verso la ricerca di materiali e forme e al contempo da una sorta di insita pacatezza.

Tadao Ando , la casa 4x4, Tarumi-ku, 2005, Kobe, Hyogo, Japón

Tadao Ando, Row House, 2004, Sumiyoshi.


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Tadao Ando, Pulitzer Arts Foundation, 2001, St. Louis, Missouri.


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Tadao Ando

suoi edifici sono spesso caratterizzati da volumi stereometrici attraversati da complessi percorsi tridimensionali, che si incrociano tra spazi interni ed esterni. Elemento fondamentale è sempre la luce, che contribuisce a definire il carattere degli spazi. Nel 1969, ha aperto lo studio Tadao Ando Architects & Associates.La sua Row House (casa a schiera) in Sumiyoshi (Azuma House), una piccola casa a due piani in getto di cemento completata nel 1976, gli valse il Premio annuale dell'Architectural Institute of Japan. Anticipatrice di quello che diventerà il suo stile, consiste in tre volumi rettangolari di uguali dimensioni: due elementi di spazi interni, separati da un cortile aperto. Per la sua posizione, il cortile interno diventa parte integrale del sistema di circolazione della casa. Nel 1995 vince il Premio Pritzker. Ha donato il premio di 100.000 dollari agli orfani del Grande terremoto di Hanshin del 1995.

Tadao Ando (Osaka, 13 settembre 1941) è un architetto giapponese.Il suo approccio all'Architettura è talvolta classificato come Regionalismo critico e richiama i principi dell'estetica minimalista.Prima di dedicarsi all'Architettura da autodidatta, conduce una vita molto varia, lavorando come camionista e pugile. Fortemente influenzato dal Movimento moderno e in particolar modo da Le Corbusier, ma allo stesso modo legato all'architettura tradizionale giapponese, alle sue opere conferisce un carattere quasi "artigianale" nella definizione dei dettagli[1]. Utilizza quasi esclusivamente il cemento a vista, con casseformi che si basano sulla dimensione del tatami giapponese, e lo associa spesso al legno e alla pietra. È noto per uno stile esemplare che evoca in modo tipicamente giapponese la materialità, il collegamento e la lettura degli spazi, attraverso la comparazione estetica col modernismo internazionale. I

In Italia, Tadao Ando ha realizzato il centro di ricerca del Gruppo Benetton Fabrica a Villorba (Lancenigo) (Treviso), il progetto di risistemazione della Punta della Dogana a Venezia, sede della Fondazione François Pinault e la AB-house (la casa invisibile) a Ponzano Veneto. Per Giorgio Armani ha progettato la sede della casa di moda e il Teatro Armani a Milano.


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Foto interne e dettaglio ingresso Cappella sull’acqua.


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La Cappella sull’acqua

La cappella è inserita su un altopiano delle montagne centrali di Hokkaido, la regione più fredda del Giappone, ove la natura è decisamente selvaggia. L’intera area, verde dalla primavera all’estate, d’inverno si spoglia trasformandosi in un’unica distesa bianca. In pianta, la cappella è formata dalla sovrapposizione di due quadrati,uno piccolo e uno grande, e si affaccia su un laghetto artificiale ottenuto deviando un ruscello che scorre nelle vicinanze. Un muro indipendente, a forma di L circonda il retro dell’edificio e da un lato del laghetto. Alla cappella si accede dal retro e il percorso d’avvicinamento costeggia il muro. Il mormorio dell’acqua accompagna i visitatori lungo il percorso, senza però che essi vedano il lago. Dopo una curva di centottanta gradi, si sale per un sentiero in lieve declivio, fino a raggiungere una zona d’accesso alla Cappella chiusa sui quattro lati da vetrate, una sorta di contenitore di luce. Percorsa a scala curva che porta nella cappella, il visitatore ritrova la vista del lago: attraverso la parete a vetri davanti all’altare si scorgono la distesa d’acqua e una grande croce.

Schizzi e sezioni della Cappella sull’acqua.


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Dettaglio della Cappella sull’acqua.


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CAP 4: Quota zero come connessione

4.0 Dalla città per punti alla città continua 

Introduzione

4.1 Il Big Box, ossia il monumento moderno dalle molteplici funzioni 

Edifico polifunzionale  KOOHLAAS  LEARNING FROM LAS VEGAS

4.2 Conclusioni provvisorie 

Città contemporanea


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4.0 Dalla città per punti alla città continua Introduzione Il problema urbano, nel senso architettonico attuale del termine, nasce con la rivoluzione industriale, quando l’inarrestabile sviluppo demografico e le nuove tipologie di edifici e infrastrutture cambiano per sempre il panorama cittadino. È in questo periodo che assistiamo alla nascita di quell’urbanistica che mirava a collegare le grandi emergenze urbane attraverso degli sventramenti e le univa come costellazioni: su tutti la Parigi del barone Haussmann. Al piano monumentale di collegare i punti nevralgici dei centri urbani con vie rettilinee e di inquadrarli in piazze dall’austera geometria, si contrapponevano ancora una serie di problemi di carattere funzionale e igienico, in particolare per la questione abitativa delle classi più disagiate, e soprattutto una serie di riflessioni critiche sulla riuscita di questo tipo di interventi. Il primo a mettere in crisi l’urbanistica di fine ottocento è Camillo Sitte, con la sua opera “L’arte di costruire la città: l’urbanistica e i suoi fondamenti estetici”. Nel suo libro, Sitte invoca un’urbanistica che sia una creazione estetica, un tutto organico, un opera d’arte totale come l’architettura. Egli ricorda la bellezza delle città preindustriali e chiede una forma della città che ne tragga ispirazione senza imitarla. Per Sitte ciò che conta non è tanto la forma architettonica, quanto la creatività dello spazio urbano. Sitte contrappone la sterilità delle nuove piazze alla palpitante vita urbana che generavano piazze e vie delle città storiche e condanna, inoltre, l’ubicazione isolata delle nuove chiese e di altri edifici monumentali, così come la posizione a sé stante dei monumenti storici, spiegando come nelle città antiche edifici simili fossero integrati nell’abitato

Il piano di sventramenti del Barone Haussmann a Parigi


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Sitte individua una antitesi intrinseca tra funzione ed estetica derivata dai limiti rigidi posti dall’evoluzione tecnologica di quei tempi. Questo però non comporta la rinuncia a soluzioni estetiche, con l’obiettivo di migliorare in questo senso il tessuto urbano moderno. Ad esempio, il piano di espansione di una città, secondo Sitte non dovrebbe mai essere concepito nei particolari in base ad una griglia ordinatrice, ma piuttosto fissare solo le grandi linee, lasciando la ripartizione successiva all’iniziativa privata (pur senza trascurare nulla dal punto di vista progettuale). Le teorie di Sitte non saranno prese in considerazione e al posto della sua soluzione di migliorare il tessuto urbano e la sua “creatività”, prenderà piede la formulazione di modelli di città. Il primo modello a comparire è la Garden City di Howard, datato 1898. Pur essendo un modello di città ideale, per la prima volta l’attenzione viene spostata sull’intera espansione della città e del territorio, con i suoi collegamenti. Appare chiaro che, seppur ancora concentrato sul dualismo tra città e campagna, Howard avesse già intuito come l’antropizzazione e il modello insediativo riguardassero l’intero territorio. Questo doveva estendersi ed essere organizzato come un unico, evitando di porre l’attenzione solo sui centri cittadini e, di conseguenza, trascurando quelle che successivamente sarebbero diventate le loro periferie. Nella stessa ottica urbana della città giardino di Howard è la città industriale di Garnier (1917), già citata nell’introduzione per le qualità nobilitatrici sui volumi e gli spazi del suo disegno di pianta. La città e il suo tessuto iniziano ad essere più continui, privi di recinti. Scrive Le Corbusier al riguardo: “Da questo momento l’attraversamento della città è permesso in qualsiasi senso, indipendentemente dalle strade, che il pedone non ha più bisogno di seguire. E il suolo della città è come un grande parco”.

Tony Garnier- Una cité industrielle Viste e planimetria


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Pur anticipando entrambi lo sviluppo unificante sul territorio delle future città e l’importanza della continuità a livello pedonale di questo unico urbano, i modelli di Howard e Garnier sottovalutavano alcune realtà con cui la città del futuro avrebbe dovuto inevitabilmente scontrarsi. Innanzitutto essi facevano una divisione funzionale netta delle aree urbane, senza alcun tipo di compenetrazione tra le parti, che risultò molto difficile nell’applicazione degli schemi nella pratica. I loro modelli, inoltre, erano progettati per una densità abitativa troppo bassa per le città in forte sviluppo del tempo. È proprio questa la critica che Le Corbusier rivolge a Garnier, dopo aver lodato gli effetti benefici dell’organizzazione della quota zero sui suoi quartieri industriali. Dopo Garnier la scena dell’urbanistica passa nelle mani di Le Corbusier con “Verso una architettura” (1923) e ne subisce l’influenza per tutta l’era moderna, fino all’apice della “Carta di Atene” (1943). Partendo dall’analisi di Garnier e dal termine della città-torre di Auguste Perret in “Verso un’architettura”, Le Corbusier “pubblicizza” una serie di schemi adatti alla città del tempo delle macchine. La città-torre, come quella su pilotis o a redents, si distanzia dalla viabilità insalubre caratteristica delle città del tempo. Emergono fortemente gli aspetti tecnologici e impiantistici con cui l’architettura si stava scontrando in quel periodo e la soluzione è quella di sopraelevare il costruito per permettere il passaggio di impianti e ferrovie leggere. La vita sociale si sarebbe pertanto spostata ai piani alti, con un sistema pensile figlio della nuova epoca del cemento armato, e non nelle fumose vie dell’epoca. Edifici dalla grande densità, sullo stampo mitizzato del grattacielo americano, avrebbero donato alle zone dirigenziali e lavorative lo spazio al livello del suolo invece di congestionarlo. Tutti gli schemi condividevano un’impostazione rigorosamente geometrica del loro sviluppo di tipo lineare, radiale o a griglia. Negli scritti

successivi, come “Urbanisme”, queste idee furono convogliate fino ad arrivare ad un ipotesi di città ideale, sullo stile di quelle che abbiamo precedentemente descritto, come “La ville radieuse”, questa volta progettata, però, per tre milioni di abitanti. I vari schemi vengono mischiati per ottenere la massima funzionalità e densità. Rimane tuttavia fortemente presente l’esigenza di divisione delle funzioni, al punto che verrà concettualizzata nella parola zoning nella successiva Carta di Atene. Le tesi Corbusieriane rimangono aspramente discusse oggi come allora; tuttavia è innegabile che, seppure in una visione dirigistica dell’urbanistica, l’architetto abbia messo al centro della ricerca l’esigenza della qualità artistica eretta a criterio. Nessuno come lui ha rivendicato il ruolo fondamentale dell’architettura nell’era della modernità industriale.

Le Corbusier Città-torre viste e sezione. Città su pilotis sezione


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Con il tramonto del movimento moderno assistiamo, durante gli anni ’60 e ’70, alla nascita di una serie di correnti anti-architettoniche che portano alle estreme conseguenze i modelli di città e architetture-macchine. La ricerca di un immaginario anti-eroico idoneo al pluralismo moderno riceve sicuramente gli influssi e le suggestioni della tecnologia High-Tech e del movimento Pop Art. I due esempi più rappresentativi sono sicuramente le utopie del gruppo inglese Archigram, apparse nell’omonima rivista dal 1961, e le pubblicazioni del gruppo italiano Archizoom. La Plug-in City, uscita sui numeri di Archigram del 1964 ed ideata principalmente da Peter Cook, sintetizza la maggior parte dei temi del gruppo in una scomposta ma sempre cangiante megastruttura. La città non ospitava edifici nel senso tradizionale del termine, ma intelaiature in cui potevano essere inseriti elementi standardizzati. Le funzioni non erano più soddisfatte dalle forme, ma dai servizi meccanici ed elettronici. La distribuzione viaria e la quota pedonale si perde negli innumerevoli livelli in alzato e nel sottosuolo presenti nell’infrastruttura totalizzante della realtà urbana. Questa si estende in maniera vaga e indefinita a tutto il globo. Animati da intenti più critici ed ironici, ma con un simile background culturale, sono gli Archizoom. La serie di disegni della No-Stop City, iniziata nel 1970, non definisce il quadro coerente di una città del futuro, ma, come i Dream Beds, i Gazebi e i Discorsi per immagini, vuole creare, nelle intenzioni degli Archizoom, i presupposti per un nuovo tipo di conoscenza dei fenomeni in atto. La No-Stop City vuole essere l'ideogramma della superficie terrestre con cui mostrare il destino in atto di uno sviluppo capitalistico che è destinato, nell'ottica degli Archizoom, a raggiungere la forma estrema e "definitiva" della fabbrica-città discussa dagli intellettuali marxisti italiani. Vuole quindi mettere sotto gli occhi di tutti lo stato di fatto di un globo ormai interamente urbanizzato, dove

non esiste più l'opposizione tra artificio e natura, tra città e campagna, perché anche le zone più remote sono ormai raggiunte dai fenomeni della società dei consumi, primo tra tutti l'inquinamento. 
 
Dai diagrammi che rappresentano lo schema strutturale e distributivo fondamentale della loro città, gli Archizoom raschiano via la griglia urbana e l'articolazione in strade, piazze, isolati, edifici, case e monumenti, e prefigurano un sistema omogeneo, ripetuto un imprecisato numero di volte, senza che questa operazione generi una struttura urbana emergente nel paesaggio, perché gran parte dei piani si sviluppa in sottosuolo. In definitiva possiamo vedere come entrambi i modelli tendano a una perdita della forma e della funzione architettonica. L’urbanismo e l’edificio architettonico stesso, come vedremo nel paragrafo successivo, diventano un contenitore vuoto pronto a recepire i media e le convenzioni di una società in continuo cambiamento. Il modello è sempre totalizzante colpisce la tipologia come la funzione e la forma per estendersi sempre all’intera superficie del globo.

Archigram- Plug-in City sezione Archizoom- No-Stop City vista e sezione


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4.1 Il Big Box ossia il monumento moderno dalle molteplici funzioni L’edifico polifunzionale Verso la fine del secolo il rigoroso dualismo tra funzione e forma si era andato progressivamente sgretolando e con esso anche il ruolo dell’edificio dal punto di vista tipologico. Il primo ad affondare il colpo è Venturi che, con le sue pubblicazioni, tra il 1966 e il 1972 inizia a riscoprire una attenzione narrativa e simbolica da attribuire all’architettura. Le due figure emblematiche della sua trattazione sono l’anatra e il capannone decorato. Il ristorante di pollame a forma d’anatra è una forma simbolica che si è impossessata dell’architettura, mentre il capannone decorato è la sua antitesi, un edificio funzionale nel quale la decorazione e l’indicazione della funzione sono pressoché avulse dall’architettura. Per Venturi la storia dell’architettura dimostra che entrambi i modelli sono validi. Tuttavia ritiene che l’anatra occupi un posto troppo grande nell’architettura moderna. Per questo il capannone decorato è sincero, mentre le architetture che ricercano l’effetto eroico e artistico sono anatre non alla maniera brutale del fastfood, ma per la forma assunta come fine. L’idea è sintetizzata nella sua idea di monumento, che non è una grande forma simbolica bensì una scatola che si riferisce a se stessa con una insegna. Una volta assegnato un significato narrativo all’opera, sarà la società stessa a riempire il contenitore con le sue idee. Impossibile non percepire l’influenza di queste teorie nell’architettura successiva, in particolare quella di Koolhaas. Rem Koolhaas, con il studio O.M.A., elabora nell’analisi di Manhattan (“Delirious New York”) la società della congestione, una concentrazione estrema di stili di vita,

ideologie e funzioni eteroclite in uno spazio esiguo. Le teorie, che verranno analizzate attraverso alcuni progetti ironici di edifici polifunzionali, come ad esempio l’hotel sphinx, finiranno per condizionare la sua architettura della scatola. In particolare la mediateca di Karlsruhe e il progetto per la Grande Bibliotheque di Parigi sono intelaiature trasparenti che contengono un vuoto da colmare. Lo spazio è gerarchizzato e dispiegato in maniera narrativa da una serie di volumi sospesi illusionisticamente a mezz’aria. Essi incarnano in maniera perfetta il concetto di edificio “aperto” esposto nella teoria Purini: “il manufatto viene concepito come il terminale visibile di una rete informatica che si materializza proprio nel cosiddetto edificio intelligente… Termini come flessibilità, modificabilità nel tempo, interscambiabilità delle parti vogliono indicare un campo di interattività nel quale chi usa un edificio lo trasforma costantemente secondo una concezione biologico/metamorfica dell’ambiente artificiale creato dall’architettura. Tutto ciò per favorire una libertà interpretativa dello spazio, non più considerato come un a priori immutabile, ma ritenuto il prodotto mutevole di un’azione abitativa che in tempo reale è capace di plasmare l’ambiente di vita, di lavoro, di relazione, un ambiente inteso come una vera e propria estensione della persona, che ne è il centro”

In alto: R.Venturi- illustrazione in Learning from L.Vegas In basso: Koolhaas- Grande Biblioteca, disegno di progetto


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3.2 Conclusioni provvisorie La città contemporanea La città contemporanea è governata da macchine che preferiamo ignorare. Il piano vuole che queste macchine siano collocate nelle periferie: vere e proprie zone di impunità. Oggi la periferia non c’è più e la vecchia dicotomia tra città e paesaggio è, per lo più, scomparsa. Poiché quasi ogni porzione di superficie è occupata, gli avanzi della nostra società non possono più essere lasciati fuori da essa. Semplicemente non esiste più un fuori. La sparizione di questi spazi residui ci costringe a ripensare dalle fondamenta la condizione delle nostre infrastrutture. Le sale macchine sono ormai parte integrante del mondo che abitiamo: non possiamo più ignorare la loro esistenza, siamo costretti a conviverci. Ogni cosa è importante, ogni parte del mondo va presa sul serio, come se vivessimo in un gigantesco spazio interno. E in un mondo senza esterno, l’impunità non esiste più. In un mondo in cui la condizione e l’aspetto dei tradizionali edifici pubblici sono messi sempre più in discussione, le macchine potrebbero trovare un vuoto da riempire. La loro pura e semplice massa le rende impossibili da evitare, ma conferisce loro anche un potere non privo di fascino. E’ nostro compito piegare questo potere a vantaggio della collettività urbana, cioè della città vera e propria. La vera condizione di cittadino può essere sperimentata solo se abbiamo i nostri monumenti da condividere. I Big Box sono i monumenti del XXI secolo. Wi-fi e computer sempre più piccoli hanno eliminato in breve tempo la distinzione tecnica tra un luogo in cui abitare e uno in cui lavorare. Affascina come tutto questo abbia ridato all’ architettura stessa il potere di definire gerarchie e sequenze, ma anche di offrire spazi relativamente disgiunti da usi e funzioni. I concetti di Anatra e Capannone decorato appartengono a un’

epoca lontana; curiosamente siamo tornati al punto in cui eravamo duecento anni fa: gli edifici non hanno più bisogno di dire alcunché. Devono solo offrire delle qualità spaziali in modo intelligente, definire gerarchie e, infine, lasciare quanto più possibile intatto lo spazio circostante, per adattarsi all’ambiente urbano nel modo più economico ed ecologico. La maggior parte del tessuto della città è sempre stata progettata dall’interno. L’ esterno è considerato una conseguenza, oppure è semplicemente visto come parte di un’altra narrativa collettiva, scollegata da ciò che contiene. Ecco perché bisogna tornare a valutare gran parte dei temi architettonici come una questione spaziale interna. La quota zero dovrà anch’essa offrire qualità spaziali e suggerire gerarchie; entrare negli “scatoloni” e fondersi con essi caricandoli di possibilità e non di significati legando gli uni con gli altri nel nostro grande e unico interno che è la società-città. Il big box e lo spazio interno sono due lati della stessa medaglia. Entrambi offrono punti di ancoraggio per la vita che si sviluppa intorno a loro, che si tratti del mondo senza periferia o del paesaggio domestico individuale. In quanto vere “architetture senza contenuto”, essi forniscono i ricettacoli per i nostri desideri e per le nostre proiezioni individuali.


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O.M.A. City of the captivity Globe

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C. Bozzoni, V.F. Pardo, G. Ortolani, A. Viscogliosi, L’architettura del mondo antico, Roma-Bari2009, Gius. Laterza & Figli Sp.

Fernando Espuelas, Il vuoto Riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2004, p. 23.

Florian Idenburg, Relazioni. Nella architettura di Kazuki Sejima e Ryue Nishizawa, Postmedia Bokks, Milano, 2010, p. 43.

Toscana Esclusiva XII edizione, Associazione Dimore Storiche Italiane 2007.

Bullrich, F. (1970). Orientamenti nuoci nell’architettura dell’America Latina. Electa: Milano p. 18.

Mariella Zoppi e Cristina Donati, Guida ai chiostri e cortili di Firenze, bilingue, Alinea Editrice, Firenze 1997.

Sandra Carlini, Lara Mercanti, Giovanni Straffi, I Palazzi parte prima. Arte e storia degli edifici civili di Firenze, Alinea, Firenze 2001.

Marcello Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, Le Lettere, Firenze.

Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 2, Bompiani, Milano 1999.

Carlo Bertelli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano, Storia dell'arte italiana, Electa-Bruno Mondadori, Milano 1990

Giorgio Bejor, Marina Castoldi, Claudia Lambrugo, Arte greca. Dal decimo al primo secolo a.C., Milano, Mondadori, 2008.

Massimo Ciccotti, Estratto da articolo “La pienezza del vuoto”, 2011.

 Bibliografia: 


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