a cura di / edited by Alberto Fiz
ALFABETO SEGNICO
Sergi Barnils, Giuseppe Capogrossi, Achille Perilli, Joan Hernández Pijuan Fondazione Stelline, Milano 15 settembre | September - 29 ottobre | October 2017 CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia 4 novembre | November 2017 - 7 gennaio | January 2018
Consiglio di Amministrazione | Board of Directors
Comune della Spezia | Municipality of La Spezia
PierCarla Delpiano Presidente | President
Sindaco | Mayor Pierluigi Peracchini Assessore alla cultura | Councillor for Culture Paolo Asti
Maurizio Salerno Vicepresidente | Vice-president Camillo Fornasieri Silvana Menapace Leonardo Previ Direttore | Director Pietro Accame Responsabile Arte e Cultura | Head of Art and Culture Alessandra Klimciuk www.stelline.it
CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea Direttore musei e servizi culturali | Director of Museums and Cultural Services Marzia Ratti Conservatori | Curators Eleonora Acerbi Cinzia Compalati Ufficio amministrativo | Administration Giacomo Borrotti (responsabile | head) Flavia Rasi Ufficio prestiti e donazioni | Registrar E. Cristiana Maucci Staff allestimenti | Installations Oscar Bordoni, Alessandro Fochesato, Luigi Terziani (responsabile | head), Cooperativa Zoe
Servizi educativi e didattici | Department of Education Eleonora Acerbi e Cristiana Maucci (progettazione e coordinamento | planning and coordination) Cooperativa Artemisia, Cooperativa Zoe Laboratori Arte-terapia | Art Therapy Workshops: Daniela Binelli – Patrizia Drovandi (cure primarie e attività distrettuali ASL 5 spezzino | primary care and public health unit district 5 of La Spezia); Eva Botto e Andrea Merli (neuropsichiatria infantile ASL 5 spezzino | child neuropsychiatry public health unit district 5 of La Spezia)
Mostra e catalogo a cura di | Exhibition and catalogue curated by Alberto Fiz
Comunicazione | Communication Luca Della Torre Sara Rabuffi Federica Stellini
Gestione prestiti | Loans Manager Cristiana Maucci
Servizio prevenzione e protezione | Prevention and Protection Service Roberto Bucella
Coordinamento scientifico | Scientific Coordination Cinzia Compalati Alessandra Klimciuk Coordinamento organizzativo | Organizational Coordination Cristina Ghisolfi Organizzazione | Organization Francesca Radaelli Elena Collina con la collaborazione di | in collaboration with Sara Bossa Giulia Botta
Allestimento | Set up Fondazione Stelline Andrea Attardi Massimiliano Triacchini
Accoglienza, custodia e servizi aggiuntivi | Reception, Storage and Additional Services Marilena Bertano (gestione bookshop | bookshop management), Massimo Massi Cooperativa Zoe Auser Risorse anziani
Allestimento | Set up CAMeC Andrea Attardi Luigi Terziani (responsabile | head) Davide Bommino, Coop Zoe Massimiliano Triacchini
camec.museilaspezia.it
Assicurazioni | Insurances Lloyd’s Axa Art Synkronos
Sponsor istituzionali
Testi in catalogo | Texts in catalogue Guglielmo Capogrossi Martina Corgnati Alberto Fiz Nadja Perilli Traduzioni | Translations Joanne Roan Ufficio stampa | Press Office Studio BonnePresse, Milano Luca Della Torre, Comune della Spezia|Municipality of La Spezia Prestatori | Lenders Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto MAC - Museo d’Arte Contemporanea, Lissone Intesa Sanpaolo Galleria Marcorossi artecontemporanea, Milano Galleria Tega, Milano Tornabuoni Arte, Firenze Mazzoleni Art, London-Torino e tutti coloro che desiderano mantenere l’anonimato | and all those who prefer to remain anonymous
Ringraziamenti | Acknowledgments Eleonora Acerbi Luca Basile Michele Casamonti Clarenza Catullo Giorgia Chierici Michele Coppola Cecilia Dealessi Domitille Duprat Laura Feliciotti Silvia Foschi Luigi Franco Jose Graci Paola Ippoliti Alessia Maiuri Gianfranco Maraniello Davide Mazzoleni Susanna Milioto Marco Niccoli Sara Pozzato Marzia Ratti Marco Rossi Eleonora Tega Francesca Tega Giulio Tega Alberto Zanchetta Crediti fotografici | Photo Credits © Archivio Fotografico, Mediateca Mart
Trasporti | Transports Ars Movendi, Firenze
con il patrocinio | under the patronage
si ringraziano
sponsor tecnici
U
na città in continua crescita e fermento, pronta ad accogliere nuovi progetti. Così è Milano, una metropoli sempre più al passo con le altre realtà europee e attenta ai nuovi centri di arte moderna e contemporanea di cui il nostro Paese è ricco e con i quali il capoluogo lombardo compete per vincere la sfida della cultura come motore trainante. Un motore culturale del quale la Fondazione Stelline, che presiedo, si fa interprete, pronta a organizzare e a ospitare iniziative volte ad avvicinare il grande pubblico alla scoperta di espressioni artistiche meno immediate ma anche per questo affascinanti. Un’attenzione verso poli culturali in alcuni casi lontani dalla città che trova conferma anche in questo Alfabeto segnico, un progetto espositivo che la Fondazione Stelline ha scelto di organizzare insieme al CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea della Spezia, in un’ottica di sempre maggiore apertura verso relazioni culturali, ma anche istituzionali, che possano coinvolgere regioni diverse, come in questo caso la Liguria. Una mostra, dunque, che sta al passo con gli sviluppi dell’arte contemporanea ma che vuole, per il luogo nel quale è ospitata, sottolineare l’importanza di creare network che abbiano un valore e un significato anche per le istituzioni coinvolte. La mostra, che dopo il suo esordio in Fondazione si trasferirà nella città ligure, costituisce un progetto espositivo raffinato e parla a un pubblico sempre più sensibile a forme interpretative sofisticate anche per un osservatore più giovane seppur maturo dal punto di vista culturale. Un tipo di osservatore al quale la Fondazione guarda con sempre maggior interesse tesa com’è, attraverso l’apertura dei propri spazi, al coinvolgimento di tutte le generazioni. PierCarla Delpiano
Presidente Fondazione Stelline
A
continually growing and changing city that welcomes new projects, Milan is a metropolis that keeps up to date with developments throughout Europe, on a par with Italy’s other great centres of modern and contemporary art, competing with them to respond to the challenges of culture as a driving engine. Fondazione Stelline, a driving force under my own direction, plays a key role, organising and hosting initiatives introducing the general public to less immediate but no less fascinating forms of artistic expression. A focus on cultural centres which are in some cases far away from the city is confirmed in Alfabeto Segnico, an exhibition project Fondazione Stelline is organising with CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea in La Spezia with a view to forming cultural and institutional ties with different regions, in this case Liguria. The exhibition keeps abreast of the latest developments in contemporary art and emphasises the importance of creating networks in the city hosting it of value and significance for the institutions involved. The exhibition opens at Fondazione Stelline and then goes to La Spezia, in the region of Liguria, where it constitutes a refined exhibition project intended for a public increasingly receptive to sophisticated forms of interpretation, including younger but nonetheless culturally mature observers. Fondazione Stelline has a growing interest in this kind of observer, opening up its spaces with the aim of getting all the generations involved. PierCarla Delpiano President Fondazione Stelline
È
con grande entusiasmo che il Comune della Spezia ha contribuito alla realizzazione di un progetto così articolato – come Alfabeto segnico – che ha visto la collaborazione istituzionale della Fondazione Stelline – dove si tiene la prima presentazione della mostra – e quella scientifica di Alberto Fiz. La mostra, inoltre, è occasione per il CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea di dare impulso alla sua vocazione internazionale mettendo a confronto due grandi maestri italiani – Giuseppe Capogrossi e Achille Perilli ben testimoniati grazie a prestigiosi prestiti – con due raffinati autori catalani come Joan Hernández Pijuan e Sergi Barnils. Preme sottolineare come dagli impulsi del patrimonio civico – Capogrossi e Perilli sono infatti presenti nelle collezioni del CAMeC – possano nascere confronti, relazioni, approfondimenti di studio e di ricerca particolarmente interessanti. Infatti, grazie a questa mostra, offriamo alla città un singolare spaccato, in termini di linguaggio, sui temi dell’astrazione, del simbolo e infine del segno e conosciamo due artisti catalani di indiscusso prestigio. Pijuan – autore molto attivo a partire dagli anni cinquanta fino al 2005, anno della sua morte – ha avuto importanti riconoscimenti, quali ad esempio l’antologica Espacios de silencio realizzata nel 1993 al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid e la Retrospective sobre su obra tenutasi nel 2011 al Museo di Arte moderna di Mosca. Infine, ma non da ultimo, Barnils – che recentemente ha realizzato una grande personale, Maran Ata, alla Fundació Vila Casas di Bercellona – rappresenta la ricerca attuale sul segno, inserita nel fertile terreno catalano che ha visto Joan Miró prima e Antoni Tàpies dopo, esprimersi, ai massimi livelli, proprio attraverso questo linguaggio. Pierluigi Peracchini
Paolo Asti
Sindaco Comune della Spezia
Assessore alla Cultura Comune della Spezia
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he City of La Spezia enthusiastically contributed to the implementation of the complex project that is Alfabeto segnico, with the institutional collaboration of Fondazione Stelline – where the exhibition opens – and the scientific contribution of Alberto Fiz. The exhibition also offers an opportunity for CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea to demonstrate its international vocation, comparing two great Italian masters – Giuseppe Capogrossi and Achille Perilli, represented by prestigious works on loan – with two refined Catalonian artists, Joan Hernández Pijuan and Sergi Barnils. It is worth emphasising how the city’s heritage – seeing as works by Capogrossi and Perilli are included in CAMeC’s collections – can give rise to comparisons, relationships, and particularly interesting in-depth study and research. This exhibition allows us to offer the city an unusual cross section of the artistic idiom of abstraction, the symbol and the sign, and find out more about two very prominent Catalonian artists. Pijuan – an artist who was very active from the 1950s until his death in 2005 – has obtained prestigious acknowledgements such as the anthological exhibition Espacios de silencio held in 1993 at Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía in Madrid and the Retrospective sobre su obra held in 2011 at the Modern Art Museum in Moscow. Last but not least, Barnils – who recently held a major solo show, Maran Ata, at Fundació Vila Casas in Barcelona – expresses himself through signs, illustrating the current state of study of the sign in the fertile land of Catalonia, homeland of Joan Miró and later Antoni Tàpies. Pierluigi Peracchini
Paolo Asti
Mayor City of La Spezia
Councillor for Culture City of La Spezia
I
l segno come forma espressiva trascende ogni confine di categoria, anche di tipo cronologico: basti pensare ai graffiti preistorici e all’uso che di questi è stato fatto dal Novecento a oggi oppure al lungo viaggio dei variegati segni alfabetici creati dalle diverse civiltà del mondo. Sicuramente, nella storia recente, il segno ha intrecciato i suoi valori visivi con molti altri presi a prestito o a confronto con lo strutturalismo, con la ricerca delle forme di azzeramento dei codici linguistici, con la gestualità psicanaliticamente intesa, con le varie forme dell’astrazione. Il segno come portatore di significato soggettivamente relativo, di frequenze policentriche, reiterato poeticamente è al centro di questa mostra che propone un confronto molto interessante fra quattro artisti, due italiani del calibro di Giuseppe Capogrossi e Achille Perilli e due di cultura spagnola Sergi Barnils e Joan Hernández Pijuan. Le loro generazioni sono differenti e occorre, dunque, fare attenzione all’asse temporale come indicatore di un percorso che nasce precocemente nel Novecento e perdura nel contemporaneo, dimostrando un’energia vitale che non ha perso efficacia sia sotto il profilo delle idee sia dell’estetica e che presenta interessanti apparentamenti tra i risultati di esperienze che, pur partendo da presupposti molti diversi, raggiungono esiti degni di confronto e riflessione. Il CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea possiede di Capogrossi e Perilli opere di significativo valore che hanno ancorato a un senso concreto la scelta di collaborare attivamente alla produzione di questa esposizione. Dalla collezione Cozzani registriamo, di Capogrossi, Superficie 478 (1962, inv. 161) e Serigrafia 1969-1970 (1970, inv. 316), di Perilli Studio (1962, inv. 206) e, sempre di Perilli, una serigrafia dalla collezione Battolini, Voix (1976, inv. 217). Alle considerazioni legate al patrimonio artistico, si è unita la volontà di poter valorizzare, attraverso un’inedita formula, quattro artisti europei di prestigio, riproponendo al CAMeC un taglio espositivo internazionale che, pur non essendosi mai interrotto, si era tuttavia affievolito a causa della grande crisi finanziaria. Un felice segno di ripresa che, auspichiamo, durevole per tutti.
T
he symbol as a form of expression transcends all categorical confines, even chronological ones, as demonstrated by prehistoric graffiti and its use since the twentieth century, or the long voyage of the various alphabetic symbols created by different civilisations all over the world. In recent times, the visual value of the symbol has definitely been intertwined with many others borrowed or compared with structuralism, with the search for forms of elimination of linguistic codes, with psychoanalytical aspects of gesture, and with various forms of abstraction. The symbol as a subjectively relative carrier of meaning, of polycentric frequencies, is poetically reiterated to become the focus of this exhibition comparing four artists: the two Italians Giuseppe Capogrossi and Achille Perilli and two artists of Spanish background, Sergi Barnils and Joan Hernández Pijuan. They belong to different generations, and so we must be aware of time as an indicator of a process that began early in the twentieth century and still continues, demonstrating a vital energy that has not lost its efficacy in terms of ideas or aesthetics and reveals interesting relationships between the results of experiences which, though starting out from very different foundations, achieve results worthy of comparison and reflection. CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea has works of great value by Capogrossi and Perilli, which have given concrete meaning to the policy of actively participating in the production of this exhibition. The Cozzani collection includes Capogrossi’s Superficie 478 (1962, inv. 161) and Serigrafia 1969-1970 (1970, inv. 316), and Perilli’s Studio (1962, inv. 206) as well as a screen print from the Battolini collection entitled Voix (1976, inv. 217). Considerations linked with artistic heritage combine with the desire to come up with a new way of showcasing four prestigious European artists, bringing back to CAMeC an international form of exhibition which, though never interrupted, had been weakened due to the financial crisis. A very positive sign of what we hope will turn out to be a long-term trend for all. Marzia Ratti Director of Museums and Cultural Services
Marzia Ratti Direttore Sistema Musei e Servizi Culturali Comune della Spezia
Municipality of La Spezia
Sommario | Contents
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In hoc signo vinces Alberto Fiz
Catalogo | Catalogue 29
Sergi Barnils
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La dimora immutabile The Unchangeable Dwelling Place
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Martina Corgnati 47
Giuseppe Capogrossi
62
Attualità di Capogrossi Capogrossi’s Relevance
63
Guglielmo Capogrossi 65
Achille Perilli
78
Nel cuore del labirinto In the Heart of the Labyrinth
79
Nadja Perilli 81
Joan Hernández Pijuan
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La forma inafferrabile della pittura The Elusive Form of Painting
95
Alberto Fiz 96
Elenco delle opere | List of Works
99
Biografie | Biographies
In hoc signo vinces Alberto Fiz
“Q
uel che deve essere fatto è il ritrovare la capacità d’investire tutta la realtà dell’esistente nella traccia più elementare, nell’impronta più semplice di un segno”1. Così scriveva Achille Perilli nel primo numero della rivista “L’esperienza moderna” da lui fondata, insieme a Gastone Novelli, nel 1957 e che proseguì per due anni, sino al 1959. Sebbene furono pubblicati solo cinque numeri, rappresentò uno strumento importante all’interno del dibattito artistico mettendo in discussione i parametri, sin troppo abusati, di un informale in procinto di scivolare verso un facile accademismo che, successivamente, l’artista romano definì, con ironia, “parabola difendente” facendo riferimento a “rituali sempre ripetuti senza l’emergere di un senso o di una comunicazione”2. L’immagine, per Perilli, si lascia creare, carica di un’arcana energia vitalistica che risiede nell’inconscio. Sono tracce, impronte, umori, graffiti che ritrovano nelle grotte di Lascaux gli antenati: “L’immagine nasce allora non in conseguenza di un’elaborazione sistematica, ma per improvvisi sbalzi, per repentine riprese, per illogici ritorni”3. Il segno, del resto, è l’oggetto di un incontro che in ogni circostanza rinnova il proprio destino per la capacità di assorbire l’io e di porlo in relazione con la collettività. Ma non si limita a questo: è un luogo per interrogarsi sul proprio stato, una forma di racconto partecipativo che trasmette la parte privata del rituale senza imporre un distacco tra soggetto e oggetto; allo stesso tempo, appare come una zona di libertà incondizionata in grado di assorbire il sentimento delle cose. In base all’espressione utilizzata da Edmud Husserl, il segno è sottoposto a
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“W
hat must be done is to find once again the ability to invest all the reality of existence in the most elementary line, in the simplest print of a sign.”1 So said Achille Perilli in the first issue of L’esperienza moderna, the magazine he founded with Gastone Novelli in 1957, published for two years, until 1959. Though only five issues were published, the magazine was an important tool for artistic debate, questioning the much-abused parameters of an informal art that was about to slide into facile academicism, which the Roman artist later ironically defined as the defensive process, referring to “rituals continually repeated without the emergence of any meaning or communication.”2 Perilli views the image as something that allows itself to be created, laden with an arcane vital energy that resides in the unconscious. These are traces, impressions, humours, graffiti that our ancestors found in the Lascaux caves: “And so the image arises not as a result of systematic processing, but through sudden leaps, sharp resumptions, illogical returns.”3 After all, the sign is the subject of a meeting that in all circumstances renews its destiny for the ability to absorb the ego and relate it to the community. But it is not limited to this: it is a place for questioning oneself about one’s condition, a sort of participatory story that conveys the private part of the ritual without imposing a separation between subject and object; at the same time, it appears to be an area of unconditional freedom capable of absorbing the sentiment of things. According to an expression used by Edmud Husserl, the sign is subjected to
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una riduzione eidetica dove l’essenza del fenomeno viene colta attraverso l’intuizione sensibile che supera le contingenze e ogni forma di particolarismo. In tal senso, appare emblematica la ricerca strutturalista di Giuseppe Capogrossi che, intorno a una sola cellula, ha sviluppato una catena del DNA sottoposta a infinite varianti. Tutto si modifica all’interno di un sistema dove ogni istante appare differente dal precedente in un’iterazione progressiva degli elementi. Di fronte alla stasi dell’apparenza, l’artista romano scrive un diario inquieto e frammentato che si misura con una realtà colta nel suo continuo divenire. Fondamentalmente la cosa in sé, quella che Giuseppe Ungaretti ha definito la “serratura cabalistica”, verifica la propria esistenza solo all’interno di un sistema relazionale secondo una logica che pone Capogrossi non solo in anticipo rispetto al graffitismo di Keith Haring, ma tra i precursori di talune ricerche minimaliste. “La comparsa del segno come sintesi irreversibile di spazio e cose o dell’uno e del molteplice sta a indicare che lo spazio non può più essere concepito se non come campo di comunicazione e che ogni altra concezione dello spazio deve considerarsi esaurita e scaduta”4. La componente irrazionale di Perilli e l’ars combinatoria di Capogrossi vanno considerati due fondamentali punti di riferimento per comprendere l’attualità di un procedimento in grado d’incidere con forza su una contemporaneità dove sono state le stesse tecnologie a introdurre gli antidoti a un processo di progressiva spersonalizzazione. Se il tablet ha la stessa forma della Stele di Rosetta, la celebre “tavoletta” egizia che per prima consentì d’interpretare i geroglifici, sempre più spesso l’immagine rimpiazza la parola scritta e così Gif, sticker, emoticon rimbalzano in maniera virale da WhatsApp a Facebook
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Achille Perilli fotografato da / photographed by Mario Schifano Courtesy Archivio Achille Perilli, Roma / Rome
L’esperienza moderna, copertina del primo numero / cover of the first issue, 1957 Courtesy Archivio Achille Perilli, Roma / Rome
an eidetic reduction, in which the essence of the phenomenon is cultivated through a sensitive intuition that goes beyond contingencies and all forms of particularism. Giuseppe Capogrossi’s structuralist research appears emblematic in this sense, developing a chain of DNA subject to infinite variations all based on a single cell. Everything is modified in a system in which every instant appears different from the previous one, in a progressive repetition of elements. Before the stasis of appearances, the Roman artist writes a restless, fragmented diary that is measured against reality captured in its state of continuous flux. Essentially, the thing in itself, what Giuseppe Ungaretti called the “cabalistic lock,” only verifies its existence within a relational system based on a logic that places Capogrossi not only ahead of Keith Haring’s graffitism, but among the precursors of certain minimalist ventures. “The appearance of the sign as an irreversible synthesis of space and things, or of the one and the multitude, indicates that space can no longer be conceived of as anything other than a field of communication, and that all other concepts of space must be considered exhausted and expired.”4 Perilli’s irrational component and Capogrossi’s ars combinatoria should be seen as two key reference points for understanding the relevance of a procedure capable of forcefully impacting a contemporariness in which it is technologies themselves that introduce the antidotes to a process of progressive depersonalisation. The tablet has the same form as the Rosetta Stone, the famous Egyptian “tablet” that first permitted interpretation of hieroglyphics, and the image is more and more frequently replacing the written word, so that gifs, stickers and emoticons bounce about virally on WhatsApp and Facebook, allowing people to communicate without saying a word. The circularity of the symbol on the iPhone and the PC takes us back in time to pictographs and Sumerian ideograms. What we are seeing is the spread of Gottfried Leibniz’s principle, with his characteristica universalis, a universal idiom capable of expressing mathematical and metaphysical concepts through a series of symbols.
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consentendo di comunicare senza più pronunciare una sola sillaba. Su iPhone e PC la circolarità del segno ci riporta indietro nel tempo sino alle pittografie o alle scritture ideografiche di origine sumera. Siamo di fronte alla diffusione del principio di Gottfried Leibniz che con il suo characteristica universalis aveva ideato un linguaggio universale in grado di esprimere, attraverso una serie di simboli, concetti matematici e metafisici. Ma già Sant’Agostino aveva classificato i segni intenzionali, in grado di trasmettere un concetto, distinguendoli da quelli naturali. La galassia del segno, insomma, con le sue implicazioni di carattere semantico, semiotico, filosofico ed estetico, è così complessa che si rischia di perdersi. Ma non mancano le costanti all’interno di un procedimento cognitivo di autocoscienza dove l’artista impone un proprio tracciato che non richiede un consenso preventivo da parte dell’osservatore. “Il segno”, ha ribadito Guido Ballo, “è l’inizio di un verbo che non ammette incertezze. Questa fissità, sorta come rivelazione, è il suo fascino: perché è una fissità che alla fine avvia verso ‘un oltre’, di là dell’apparenza, ‘un oltre’ sostanziale, oggettivo, carico di mistero”5. Il segno, a ben vedere, contiene in sé la nostalgia dell’immagine di cui coglie il senso ultimo, il suo spazio interno in un processo di tipo catartico. “Una voce interrompe il dire del già detto”, ha scritto Emmanuel Lévinas. In tal senso, Joan Hernández Pijuan è un pittore di paesaggi, così come lo è, in chiave simbolica e demiurgica, Antoni Tàpies, che della natura coglie l’essenza superando lo iato tra memoria personale e collettiva. Sono archetipi, i
Sergi Barnils accanto ad una sua opera / with one of his works
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Giuseppe Capogrossi nello studio di / in his studio in via San Nicola da Tolentino a Roma / in Rome, 1954. (Da sinistra sono visibili la / From left to right, we can see Superficie 105, Superficie 107, Superficie 104). Courtesy Fondazione Archivio Capogrossi, Roma / Rome
St. Augustine had already classified intentional signs capable of conveying a concept, distinguishing them from natural signs. In short, the galaxy of the sign, with its semantic, semiotic, philosophical and aesthetic implications, is so complex that we risk losing it. But there are plenty of constants in a cognitive procedure of self-awareness, in which the artist imposes his or her own outline, requiring no prior consent from the observer. “The sign,” says Guido Ballo, “is the beginning of a verb that admits no uncertainty. This fixity, which arose as a revelation, is what makes it so fascinating: because it is a fixity that in the end goes ‘beyond,’ beyond appearances, a substantial, objective ‘beyond,’ laden with mystery.”5 If we look at it carefully, the sign contains within itself the nostalgia for an image that grasps the ultimate sense, its own space in a cathartic process. “A voice interrupts the pronunciation of what has already been said,” wrote Emmanuel Lévinas. In this sense, Joan Hernández Pijuan is a landscape painter, just like Antoni Tàpies, in a symbolic and demiurgical way, grasping the essence of nature and going beyond the hiatus between personal and collective memory. His are archetypes, suspensions of vision, bleeding margins, impressions which the Catalonian artist grasps, going beyond the physical dimension in favour of the psychic one. In short, the sign grasps that which is persistent, letting the image purify itself, lose its consistency, until it becomes a simulacrum. His is a primary architecture which reveals the primordial roots through a lens, on the basis of a process that is the reverse of what Perilli does. While Perilli felt the need to impose a presence as close as possible to the unknown that would break with tradition, Pijuan sees it as a matter of experimenting with the limitations of painting following the conceptual experience: “The first forms, the first drawings, imposed their continuation on me, and the
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Joan Hernández Pijuan nel suo studio a Barcellona / in his studio in Barcelona
Achille Perilli nello studio di / in his studio in via Falminia a Roma / in Rome, 1961 Courtesy Archivio Achille Perilli, Roma / Rome
brushstroke indicating the path loses its exclusive condition of brushstroke, of touch in a visual path, going back to the drawing and, I might say, to the force,” says the artist.6 But another Catalonian, Sergi Barnils, pursues the sources of language with a different approach, having filtered the lesson of the avant-garde movements, particularly Joan Mirò and, above all, Paul Klee. There is no citationism in any form in his work; what there is, is a desire to master signs again, with all their differences, in order to create a true langue capable of taking up time and space through a personal grapheme (words are set aside here) that appears to be produced in a trance, as if in a return to the automatisms of the surrealists. A postmodern attitude which is by no means ideological, in which culture is defined as a system suspended “between the fairy-tale and geometry,” as Sandro Parmiggiani says. Through sudden aggregations and complex miniaturisations obtained using the encaustic technique and made tactile with use of wax, elaborate filamentary meshes are created recalling memories of ancient pictographs, the original meaning of which has been lost, almost as if to evoke the mystery of prehistoric civilisations. What Barnils proposes is therefore a mantra that
suoi, sospensioni dello sguardo, smarginature, impronte che l’artista catalano coglie superando la dimensione fisica a favore di quella psichica. Il segno, insomma, afferra ciò che è persistente lasciando che l’immagine si depuri, perda la sua consistenza, sino a quando è simulacro. La sua è un’architettura primaria che, attraverso uno sguardo lenticolare, fa emergere dalla terra la radice primordiale in base a un processo inverso rispetto a quello compiuto da Perilli. Se per quest’ultimo la necessità era quella d’imporre una presenza la più possibile vicina all’ignoto che rompesse con la tradizione, per Pijuan si tratta di sperimentare i limiti della pittura in seguito all’esperienza concettuale: “Le prime forme, i primi disegni, mi impongono la loro continuazione e la pennellata che indicava il percorso perde la sua condizione esclusiva di pennellata, di tocco in un percorso visivo, recuperando il disegno e, direi, anche la forza”6, afferma l’artista. Ma è un altro catalano, Sergi Barnils, a inseguire le fonti sorgive del linguaggio attraverso un approccio differente che lascia filtrare la lezione delle avanguardie con uno sguardo privilegiato verso Joan Mirò e soprattutto Paul Klee. In lui non c’è alcuna forma di citazionismo; piuttosto il desiderio d’impadronirsi nuovamente dei segni nella loro disparità per creare una propria langue in grado di occupare tempo e spazio attraverso un personale grafema (la parole, in questo caso, viene messa da parte) che appare realizzato in
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trance, quasi a voler ripercorrere l’automatismo dei surrealisti. Un atteggiamento postmoderno, per nulla ideologizzato, dove la cultura è intesa come un sistema sospeso “tra favola e geometria”, come afferma Sandro Parmiggiani. Attraverso improvvise aggregazioni e complesse miniaturizzazioni ottenute con la tecnica a encausto e rese tattili dall’uso della cera, si creano elaborati reticoli filamentosi che recuperano la memoria di antiche pittografie di cui si è perduto il significato originale, quasi a voler evocare il mistero delle civiltà preistoriche. Quello proposto da Barnils, dunque, è un mantra che restituisce al segno la sua libertà primaria, persino infantile, in modo che l’arte, come sosteneva Klee, non si limiti a riprodurre le cose visibili ma le renda visibili. I quattro percorsi intorno al segno di artisti in apparenza così distanti spesso convergono a dimostrazione di quanto sia attuale un’ipotesi linguistica che prosegue nel tempo e in ogni circostanza ponga nuove problematiche svincolandosi talvolta dallo stile, assai più regolamentato. Il segno è una prassi individuale che ritrova una comunanza d’intenti in primo luogo attraverso la sua capacità rigenerativa che tende a recuperare le fonti primarie (Perilli), non certo per un rifiuto del presente, ma per la necessità di uscire da stereotipi sin troppo consumati. La stessa relazione con l’immagine subisce un radicale cambiamento e si sviluppa con caratteristiche proprie, spesso con esiti imprevedibili, ricostruendo la mappa del paesaggio inteso nei suoi aspetti archetipali (Pijuan). Fondamentale è, poi, l’iterazione del segno e
Giuseppe Capogrossi nel suo studio / in his studio, 1961. Courtesy Fondazione Archivio Capogrossi, Roma / Rome
Joan Hernández Pijuan, Barcellona | Barcelona Lo studio di Sergi Barnils | by Sergi Barnils’s Studio, Sant Cugat
restores the primary, even infantile freedom of the sign, so that art, as Klee said, is not limited to reproducing visible things, but makes things visible. The four paths around the sign taken by such apparently different artists often converge, demonstrating the relevance of a linguistic hypothesis that continues over time and under all circumstances, raising new issues and sometimes acting independently of style, which is much more regulated. The sign is an individual practice that restores a common intent primarily through its regenerative capacity, which tends to go back to primary sources (Perilli), not out of rejection of the present, of course, but because of the need to get away from overly consumed stereotypes. The very relationship with image undergoes radical change and develops with features of its own, often with unforeseeable results, reconstructing the map of the landscape defined in its archetypal aspects (Pijuan). Essential features are the repetition of sign and the constant process of modification that can lead to creation of an open space filled with tension, developed on the basis of the constant relationship
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il suo costante processo di modificazione che può condurre, da un lato, alla creazione di uno spazio aperto, carico di tensione, che si sviluppa in base alla relazione costante tra gli elementi (Capogrossi); dall’altro, a un pattern visivo con forme a geometria variabile che danno vita a una scrittura misteriosa composta da interpunzioni e simboli sospesi tra mito e poesia (Barnils). “Lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza”, ha sottolineato Giuseppe Capogrossi ed è proprio per merito del segno instabile e inquieto che l’intuizione può, ogni volta, rinnovarsi. In hoc signo vinces.
Joan Hernández Pijuan nel suo studio a Barcellona | in his studio in Barcelona Sergi Barnils nel suo studio a Sant Cugat | in his studio in Sant Cugat
Giuseppe Capogrossi nello studio di / in his studio in via San Nicola da Tolentino a Roma mentre dipinge / in Rome, painting Superficie 105, 1954. Courtesy Fondazione Archivio Capogrossi, Roma / Rome Achille Perilli, Roma / Rome, anni settanta / 1970s. Courtesy Archivio Achille Perilli, Roma / Rome
among the elements (Capogrossi); and on the other hand, a visual pattern with variable geometric shapes forming mysterious writing, composed of punctuation marks and symbols suspended somewhere between myth and poetry (Barnils). “Space exists within our consciousness,” emphasises Giuseppe Capogrossi, and it is precisely thanks to the unstable, restless sign that intuition can be renewed over and over again. In hoc signo vinces.
Achille Perilli, “Nuova figurazione per la pittura,” in L’esperienza moderna, no. 1, 1957, p. 19. 2 Achille Perilli, “Autoritratto,” in Achille Perilli. Gli anni dell’esperienza moderna, Bolzano, Galleria Les Chances 1
Achille Perilli, Nuova figurazione per la pittura, in “L’esperienza moderna”, n. 1, 1957, p. 19. 2 Achille Perilli, Autoritratto, in Achille Perilli. Gli anni dell’esperienza moderna, 1
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Galleria Les Chances de l’Art, Bolzano 2003, p. 10. 3 Achille Perilli, Nuova figurazione per la pittura, op. cit., p. 19. 4 Giulio Carlo Argan, Giuseppe Capogrossi, in “Flash Art”, maggio 1982.
Guido Ballo, Capogrossi e il segno, in Capogrossi, Rex, Built-In, Pordenone 1997, p. 5. 6 Joan Hernández Pijuan, Espacios de silencios 1972-1992, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid 1993, p. 37. 5
de l’Art, 2003, p. 10. Achille Perilli, “Nuova figurazione per la pittura,” op. cit., p. 19. 4 Giulio Carlo Argan, “Giuseppe Capogrossi,” in Flash Art, May 1982. 5 Guido Ballo, “Capogrossi 3
e il segno,” in Capogrossi, Pordenone, Rex, Built-In, 1997, p. 5. 6 Joan Hernández Pijuan, Espacios de silencios 19721992, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, 1993, p. 37.
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Catalogo | Catalogue
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Sergi Barnils
Dels signifers negres, 1996 olio su tela | oil on canvas 146 × 114 cm
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Primeres visions de la ciutat cèlica, 1999 olio su tela | oil on canvas 53 × 88 cm
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DĂŠu ha creat el cel i la terra, 2011 encausto su tela | encaustic on canvas 200 Ă— 400 cm
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El tercer va abocarla seva copa al rius, 2012 encausto su tela | encaustic on canvas 150 Ă— 100 cm
Blanquina, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 100 Ă— 81 cm
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Blanquina, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 100 Ă— 100 cm
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Blanquina, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 100 Ă— 100 cm
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Del verger celeste, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 200 Ă— 400 cm
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Blanquina, 2015 encausto su tavola | encaustic on board 130 Ă— 130 cm
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Blanquina, 2016 encausto su tela | encaustic on canvas 120 Ă— 120 cm
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Del verger celeste, 2016 encausto su tavola | encaustic on board 120 Ă— 120 cm
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Del verger celeste, 2016 encausto su tavola | encaustic on board 100 Ă— 100 cm
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La dimora immutabile Martina Corgnati Qualcosa di infantile. L’artista racconta che la sua caratteristica calligrafia, questo linguaggio così ben dominato e posseduto da rendere ogni sua opera riconoscibile immediatamente al primo sguardo, sia stato elaborato poco a poco in maniera assolutamente spontanea, come fosse il dono di un’infanzia mai rimossa del tutto, mai superata specie nell’incanto che essa contiene più di qualunque altra età della vita (“protetta dalla mia infanzia…” diceva Meret Oppenheim di se stessa ventenne, scaraventata di colpo fra le braccia dell’esigentissimo entourage surrealista a Parigi). Kandinskij, artista e autore amatissimo da Barnils, nello Spirituale nell’arte, parlava, com’è noto, di “necessità interiore”. Dopo una fase di formazione, anarchica ma proprio per questo molto ricca, durante la quale l’artista catalano ha appreso le tecniche e i linguaggi della “buona” pittura, educata alla figurazione tradizionale, i presupposti e i modi del naturalismo vengono abbandonati uno dopo l’altro, cadono da soli, come rami secchi su un tronco però ben vivo e vitale; e al loro posto si manifesta una scrittura, una specie di grafismo molto più essenziale, più semplice e più sensibile al valore simbolico delle varie forme sempre implicate nel racconto del viaggio delle anime, e dell’animus, lungo sfere e dimensioni intermedie, visioni, suoni, preparativi e allegrie in vista di questa specie di imprevista Gerusalemme celeste che, al tempo stesso, è una città di bambini, un luogo visto di fronte e in pianta, descritto a colori vivaci e insofferenti ai contorni tracciati dalla linea. Un linguaggio tanto libero ed essenziale da poter sembrare addirittura astratto, alle volte. Sono moltissime le variazioni in questo mondo espressivo dalla vocazione tanto precisa: in alcuni quadri, infatti, domina una specie di horror vacui, sostenuto da un segno che quasi si miniaturizza, si ostina in un gioco insistito e puntiglioso di piccole cose e tracce affollate sulla superficie. Altrove il campo pittorico si allarga, le forme si distanziano l’una dall’altra e si organizzano in una composizione più pausata e sospesa; anche il colore prende fiato e si dispiega
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in campiture più unitarie, veri e propri fondi dai quali gli oggetti possono separarsi e prendere rilievo. Colore molto vivace e variato, ma caratterizzato quasi sempre da una dominante azzurra, meglio una prevalenza azzurra che, talvolta, è come solida, altre volte quasi atmosferica, è una specie di luce che riempie gli occhi senza, tuttavia, lasciarsi situare con precisione in nessun “luogo” della superficie. Si sa, è ancora Kandinskij a precisarlo, che l’azzurro è il colore dello spirito, dell’infinito … Cerca sempre un ordine compositivo, Barnils, ma la sua ricerca non è ossessiva, non arriva mai a imprigionare le risorse, libertà immaginativa, impulsi, irrequietezze e spirito ludico, grazie a cui la mano può sempre permettersi ancora un altro gesto, un altro graffio e lo sguardo può avventurarsi alla conquista di ancora un altro dettaglio. Un particolare incerto, magari, timido, delicato, in qualche modo infantile. Se una notte d’inverno … qualcuno si è arrischiato a decretare la fine dell’esperienza pittorica, si è preoccupato di mettere un punto (teorico o dogmatico) in fondo a una frase che sembrava conclusa, ebbene questo qualcuno ha avuto torto. Drasticamente torto. All’alba di un nuovo secolo, la pittura appare straordinariamente vitale. Promettente. Insondabile in tutte le sue varianti e combinazioni possibili. Ancora più interessante perché ormai abita fianco a fianco con tante altre forme possibili del fare immagine e da queste guadagna ragioni d’essere più specifiche e puntuali. Il lavoro di Barnils va evidentemente contestualizzato su questo sfondo storico e culturale, che impreziosisce tanto le sue componenti “dotte”, il suo attingere alla lingua delle avanguardie, quanto il suo aspetto “popolare”, volutamente semplice, che lo solleva da qualsiasi sospetto di citazionismo. La pittura, fra le sue mani, è pura necessità, pura felicità di fare e di pensare facendo e di far vedere vedendo. Una bellissima conferma di quanto, fortunatamente, possiamo ancora permetterci. da La morada immutable
The Unchangeable Dwelling Place Martina Corgnati Something childlike. The artist recounts that his characteristic calligraphy, this language which is so well dominated and possessed that every work of his is immediately recognizable from the first glance, came about spontaneously over a length of time, like a gift from the childhood which is never completely outgrown, especially in the enchantment that it contains more than any other age of life (“protected by my childhood...” said Meret Oppenheim of her twenty-year-old self, suddenly thrust into the arms of the exacting surrealist entourage in Paris). Kandinsky, an artist and author much loved by Barnils, speaks in Spirituale nell’arte of “interior necessity”. After a formation phase, which was anarchic and for this reason very rich, during which the Catalan artist learnt the techniques and language of “good” painting, educated in traditional figurative language, the presuppositions and methods of naturalism were abandoned one after the other, they fell by themselves, like dry branches on a living, vital trunk; and in their place came writing, a sort of more essential and simple graphism, more sensitive to the symbolic value of the various forms included in the journey of the souls, of the spirit, along intermediate spheres and dimensions, visions, sounds, preparations and cheerfulness in view of this kind of improvised celestial Jerusalem which, at the same time, is a city of children, a place which can be seen from the front and as a plan, described in bright colours, intolerant of the lines. A language so free and essential, that it seems almost abstract, at times. There are many variations in this expressive world with its precise vocation: in some paintings, in fact, a sort of horror vacui dominates, supported by a sign that almost miniaturizes it, persisting in an insistent and obstinate game of little things and crowded traces on the surface. Elsewhere, the pictorial field widens, the forms are distanced one from the other and are organised into a suspended, more broken up composition; colours also
seem to take breath, and spread out in more unitary backgrounds, real depths from which objects can separate and be shown in relief. Colour is very bright and varied, it is often characterised by a dominant sky-blue, or rather a prevalence of sky-blue, at times seeming almost solid and at others atmospheric, like a light which fills the eyes without ever allowing to be placed with precision in any “place” of the surface. One knows, and here again it is Kandinsky who affirms this, that sky-blue is the colour of the spirit, of the infinite ... Barnils always seeks compositional order, but his search is not obsessive, and never arrives at imprisoning the resources, imaginative freedom, impulses, restlessness and spirit of play, thanks to which the hand may always be allowed another gesture, another scratch, and the glance adventure towards capturing yet another detail. A particular which is uncertain, almost timid and delicate, in some ways almost infantile. If, on a winter’s night ... someone has risked decreeing the end of pictorial experience, has put a full stop (theoretical or dogmatic) at the end of a phrase which appeared to be finished, but this someone is wrong. Drastically wrong. At the dawn of a new century, painting seems extraordinarily vital. Promising. Fathomless in all its possible variations and combinations. Even more interesting because by now it lives side by side with many other possible ways to make pictures and from these it gains the right to become more specific and exact. Barnils’ work should obviously be contextually fitted into this historical and cultural background, which enhances its “erudite” components, its drawing from avant-garde language, as much as its “popular” aspect, deliberately simple, which relieves it from any suspicion of quotation. In his hands, painting is pure necessity, pure happiness to do and to think by making and being seen. Fortunately, we can still allow ourselves a beautiful confirmation of this. from La morada immutable Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2002
Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2002
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Giuseppe Capogrossi
Superficie 678 (Cartagine), 1950 olio su carta applicata su tela | oil on paper applied to canvas 169 Ă— 88,5 cm
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Superficie 566, 1950 tecnica mista su carta intelata | mixed media on canvas-backed paper 90 Ă— 70 cm
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Superficie CP753, 1954 tempera su carta | tempera on paper 53,5 Ă— 43 cm
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Superficie 105, 1954 olio su tela | oil on canvas 180 Ă— 120 cm
Superficie 120, 1954 tempera su carta intelata | tempera on canvas-backed paper 100 Ă— 70 cm
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Superficie 710, 1954 tempera su carta intelata | tempera on canvas-backed paper 71 Ă— 100 cm
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Superficie 150, 1956 olio su tela | oil on canvas 54 × 65 cm
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Superficie 154, 1956 olio su tela | oil on canvas 80 × 100 cm
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Superficie 399, 1961 olio su tela | oil on canvas 160 × 196 cm
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Superficie 478, 1962 olio su tela | oil on canvas 43 Ă— 35 cm
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Superficie 708, 1970 rilievo, sughero su cartone| relief, cork on card 57,5 Ă— 70 cm
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I segni non sono necessariamente l’immagine di qualcosa che si è visto, ma possono esprimere qualcosa che è dentro di noi, forse la tensione che deriva dall’essere immersi nella realtà. Signs are not necessarily the image of something I’ve seen, but they may express something that is within us, such as the tension resulting from immersion in reality. Giuseppe Capogrossi
Serigrafia 1969-1970, 1970 serigrafia su carta applicata su tavola| screen print on paper applied to board 225 × 128 cm
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Attualità di Capogrossi Guglielmo Capogrossi Nel lavoro, come nella vita, Giuseppe Capogrossi è stato un uomo metodico, non certo un metodologo. Il suo impegno era rivolto a esprimere se stesso soprattutto attraverso il fare pittura. Ricordo che quando ero bambino sentivo ripetergli spesso – soprattutto, come più tardi ho capito, nei periodi per lui più difficili– una frase per me allora incomprensibile e quasi misteriosa: nulla dies sine linea. Non era loquace Capogrossi, ma forse proprio per questo le sue parole, al pari dei suoi segni, esprimevano chiaramente il senso della sua misura interiore. “Ho cercato di esprimere direttamente il senso dello spazio che era dentro di me e che realizzavo compiendo gli atti di ogni giorno.” L’attualità di queste sue parole non può essere più evidente: in armonia con gli studi psicoanalitici sull’arte, Capogrossi non poteva essere più esplicito nel mostrare di avere profondamente intuìto l’importanza del mondo interno nei processi della creazione artistica; la stessa importanza che, parallelamente, è stata poi riconosciuta alle rappresentazioni mentali nei processi di costruzione dei modelli e delle teorie nella scienza. Ma non è tutto. Dichiarando il proprio atteggiamento interiore di fronte all’azione del dipingere, di fronte “agli atti di ogni giorno”, Capogrossi riconosce implicitamente una posizione “epistemica” quanto mai attuale, cioè quella che dovrebbe assumere chiunque voglia fare della propria esperienza (persino di quella quotidiana) oggetto di ricerca. Non fu certo questo l’atteggiamento di coloro (e non furono pochi) che all’indomani del passaggio di Capogrossi all’astrazione, videro in quella particolare forma-segno che da allora in poi contraddistingue inconfondibilmente la sua pittura, soprattutto un “pettine”, una “forchetta”, un “tridente” o anche soltanto un “bacarozzetto”. Costoro potrebbero essere definiti dei “realisti sui generis”. Prima ancora che una posizione specifica nei confronti di un problema filosofico-scientifico, questo tipo di “realismo” è un atteggiamento profondo che riguarda un particolare modo di porsi di fronte alla “realtà” quotidiana, caratteristico di
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molti individui. In questo caso assume valore soprattutto ciò che le cose sono (secondo loro) piuttosto che quello che significano; in altre parole l’esistenza della “realtà” viene da essi considerata come indipendente dai processi mentali che ne determinano la conoscenza. Per Capogrossi esistenza e conoscenza si sono sempre saldate in un unico processo, vissuto “compiendo gli atti di ogni giorno” e ricercando attraverso di essi la risposta agli interrogativi perenni dell’umanità. Dal punto di vista dell’identità, il passato è sempre quello dei propri referenti interni: “I segni – afferma Capogrossi – non sono necessariamente l’immagine di qualcosa che si è visto, ma possono esprimere qualcosa che è dentro di noi, forse la tensione che deriva dall’essere immersi nella realtà”. E prosegue: “Fin da principio, infatti, ho cercato di non contentarmi dell’apparenza della natura, ho sempre pensato che lo spazio sia una realtà interna alla nostra coscienza”. Nel dispiegarsi dell’ars combinatoria tra l’invarianza del segno e le tensioni, gli strappi (come ad esempio in alcuni degli ultimi collages) prodotti dal cambiamento che possiamo osservare nelle Superfici di Capogrossi, vediamo ripetersi all’infinito l’alternanza di eros e thanatos nella quale si dibatte ogni essere vivente. E quale sarebbe la differenza con le tensioni, le lacerazioni che avvertiamo nei contrasti di idee, negli scontri tra ipotesi e modelli diversi che caratterizzano il faticoso cammino della conoscenza? A questo punto non possiamo che tornare a chiederci: a quali interrogativi esistenziali tentava di rispondere Capogrossi mentre andava svolgendo la sua ricerca formale? Quello che ci è sembrato di scorgere nelle sue Superfici, a quale livello di realtà può trovare corrispondenza? Sono dilemmi presenti in ogni tensione conoscitiva. Capogrossi continua a stupirci per la sua attualità e a spingerci a guardare, come lui ha fatto, dentro di noi se vogliamo tentare di rispondere alle domande eterne cui la vita ci pone di fronte.
Capogrossi’s Relevance Guglielmo Capogrossi In work as in life, Giuseppe Capogrossi was a methodical man, but by no means a methodologist. His concern was expressing himself, primarily through painting. I remember that when I was a child I often – especially, as I later realised, at particularly difficult times for him – heard him say something I used to find incomprehensible, and therefore mysterious: nulla dies sine linea. Capogrossi did not talk a lot, and perhaps that is why his words, like his signs, clearly expressed the sense of his interior measure. “I attempted to directly express the sense of space that was inside me, that I put into effect in my everyday acts.” The relevance of his words could not be clearer: in harmony with psychoanalytic studies of art, Capogrossi could not be more explicit in demonstrating that he had profoundly understood the importance of the whole world in the processes of artistic creation; the same importance as mental representations were later recognised as having in the processes of construction of models and theories in science. And that’s not all. By declaring his inner attitude before the act of painting, before “the acts of every day,” Capogrossi implicitly acknowledges an “epistemic” position which is highly relevant today, that is, the position anyone ought to assume if they wish to study their own experience (even everyday experience). This was by no means the attitude of those (and there were many of them) who, following Capogrossi’s transition to abstraction, saw the particular form or sign that unmistakeably identified his painting from then on as a “comb,” a “fork,” a “trident” or just a “bug.” They might be considered “realists of a particular kind.” Rather than a specific position in relation to a philosophical or scientific problem, this type of “realism” is a profound attitude applying to a particular way of approaching everyday “reality” characteristic of many
people, who assign particular value to what things are (according to them) rather than to what they mean; in other words, they view the existence of “reality” as independent of the mental processes that determine how we know it. Capogrossi has always seen existence and knowledge as a single process, experienced “performing everyday acts” and seeking an answer to humanity’s perennial questions through them. In terms of identity, the past is always that of its internal respondents: Capogrossi says that “signs are not necessarily the image of something I’ve seen, but they may express something that is within us, such as the tension resulting from immersion in reality.” And he continues: “Right from the start, I have tried not to settle for the appearance of nature; I have always thought of space as a reality within our consciousness...” In employing the ars combinatoria between the invariability of the sign and tensions and tears (as, for instance, in some of his latest collages) produced by the change we can see in Capogrossi’s Superfici (Surfaces), we see an infinite repetition of the alternation of eros and thanatos faced by every living thing. And what is the difference compared to the tensions and tears that we can see in contrasting ideas, in conflicts between different hypotheses and models characterising the difficult path of knowledge? All we can do at this point is ask ourselves once again: what existential question was Capogrossi attempting to answer in his formal research? What level of reality does what we seem to glimpse in his Superfici correspond to? These are dilemmas we experience whenever we strive for knowledge. Capogrossi continues to astound us with his relevance, encouraging us to look inside ourselves, just as he did, if we want to try to answer the eternal question life puts before us. from Attualità di Capogrossi: gouaches, collages, disegni (1950-1972) Galleria Giulia, Roma, 1990
da Attualità di Capogrossi: gouaches, collages, disegni (1950-1972) Galleria Giulia, Roma, 1990
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Achille Perilli
Dida dida dida Corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida
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Allegoria per Fidel Castro, 1958 olio e tecnica mista su tela | oil and mixed media on canvas 96 × 130 cm
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La città incantata, 1958 olio e tecnica mista su tela | oil and mixed media on canvas 65 × 81 cm
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Preparazione dei semplici, 1959, olio e tecnica mista su tela | oil and mixed media on canvas 81 Ă— 100 cm
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NUOVA
Contrastare leggermente E verificare se deve essere schiarita
L’Emploi du temps, 1959 encausto su tela | encaustic on canvas 146 × 114 cm
Tradotto dall’Assiro, 1960 tecnica mista su tela | mixed media on canvas 81 × 100 cm
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Cima del vuoto, la solidità del silenzio, 1961 tecnica mista su tela | mixed media on canvas 200 × 160 cm
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Do ut des, 1962 tecnica mista su tela | mixed media on canvas 81 × 65 cm
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Studio, 1962 tecnica mista su cartone | mixed media on card 70 Ă— 100 cm
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Quel che deve essere fatto è il ritrovare la capacità d’investire tutta la realtà dell’esistente nella traccia più elementare, nell’impronta più semplice di un segno. What must be done is to find once again the ability to invest all the reality of existence in the most elementary line, in the simplest print of a sign. Achille Perilli
Paesaggio Chiara, 1965 encausto su tela | encaustic on canvas 145 × 145 cm
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Nel cuore del labirinto Nadja Perilli Achille Perilli incominciò a dipingere nel 1947 dopo che la prima avanguardia europea aveva già scardinato molte leggi spaziali e compositive della pittura; si era già tornati all’“ordine”, nel senso che queste leggi, in alcuni casi, si erano ripristinate secondo canoni tradizionali, anche negli artisti di cultura astratta: l’ambiente europeo aveva influenzato poco il clima romano del dopoguerra che ancora satellitava intorno alla retorica guttusiana o a quel poco che si era capito del capolavoro picassiano Guernica. Perilli, insieme al gruppo Forma1, sperimentò allora, un viaggio personalissimo, partendo sì da esperienze futuriste, ma costruendo un dialogo originale con la forma; associando essa al colore, creava diversi piani spaziali di lettura, dove le stesse forme si mescolavano in un indefinito processo di sovrapposizioni il quale suggeriva un mistero percettivo. Nei viaggi a Parigi, il pittore romano, incontrò vari personaggi fondamentali della cultura surrealista e incominciò a formulare la sua idea di fusione tra una rigorosa astrazione e un’inconscia attrazione verso il segno istintivo. Elaborò, quindi, una personale trasposizione della forma nel segno, lasciando andare in modo piuttosto poetico le proprie strutture verso lo sfaldamento di uno schema, aggredendo la progettualità e il sistema, trasfigurandoli in labirinto. Già nel 1951 nel suo testo teorico Sono due spazi scriveva: “Esistono due spazi, il mio, vostro, nostro, di tutti e un altro spazio: quello dell’arte; in quest’ultimo vivono forme e colori, che noi dipingendo rendiamo solo in parte, per quel tanto che è nelle nostre capacità di rendere: vale a dire che in noi v’è la capacità di dipingere solo quello che è nostro particolare, ciò che la memoria ci restituisce da lontane regioni”. Durante tutti gli anni cinquanta Perilli sperimentò il suo tentativo di rendere l’astrattismo: il “far sorgere una specie di equazione di strutture irrazionali da risolvere logicamente”, ma la sua era una logica di tipo tutt’altro che sistematica, piuttosto sensibile a non perdere mai la natura organica dell’opera; mai derivante da nessuna realtà,
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collegata, comunque, a un discorso intimo del pensiero: il naturale perseguirsi di diramazioni, attraversava lo spazio con il preciso scopo di generare un humus, connesso con lo stato d’animo, influenzato da Kandinskij che dipingeva la musica o da Klee, descritto da Perilli nel testo a lui dedicato nella rivista di Leonardo Sinisgalli Civiltà delle macchine: “Non è più il rapporto che intercorre tra l’uomo e lo spazio, come nella prospettiva del Rinascimento, né il primo incredulo riconoscimento del tempo dei cubisti, ma qualcosa di più profondo, al di là dell’oggetto, oltre i termini del razionale, oltre ogni confine. Sentirsi elemento del cosmo e avvertire in sé qualcosa che è ancora cosmo produce quell’incontro tra poesia e pittura che è la sintesi raggiunta da Klee”. In questi anni, dunque, nasceva la “concreta” pittura di Perilli, o meglio, quella “astratta e concreta”: la necessità di stabilire sempre un rapporto tra il dipinto e la propria personalità, giocando sempre con se stesso, fino al paradosso di negarsi e di rinascere, non come tabula rasa ma portandosi dietro un elemento insostituibile. Alla fine degli anni cinquanta, Perilli si interessò completamente alla libertà espressiva, che egli definisce “segno nevrotico dell’irrazionale”, nel testo Nuova figurazione per la pittura, pubblicato sulla rivista L’esperienza moderna, nata nel 1957 in collaborazione con Gastone Novelli; le opere si spostarono verso la totale libertà dell’automatismo inteso come gesto, l’importanza del segno, in questo periodo, diventò fondamentale, anche per il coinvolgimento dell’artista verso i calligrafi moderni giapponesi e per una certa pittura informale come, per esempio, quella di Franz Kline e Hans Hartung. La sintesi di questo periodo, comunque non abbandonò mai la spiccata voglia di forma, la gestualità appariva sempre mentale, dettata da un rapporto con il mondo, si impregnava di materia, sabbia, colla, generando “geroglifici” fiabeschi, ancora collegati al contesto universale, che ha costantemente nutrito l’immaginazione di questo artista. da Nel cuore del labirinto. Achille Perilli. Opere scelte 1949/1974 FerrarinArte, Legnago, 2012
In the Heart of the Labyrinth Nadja Perilli Achille Perilli started painting in 1947, when the early European avant-garde had already done away with many of the spatial and compositional laws of painting; there had already been a return to “order,” in the sense that these laws had, in some cases, been restored in accordance with traditional canons, even by artists with a background in abstract art: the European climate had not had much of an effect on post-war Rome, which still revolved around the rhetoric of Guttuso or what little had been understood of Picasso’s masterpiece, Guernica. Perilli and the Forma1 group were at that time experimenting with a highly personal voyage, starting out with the Futurist experience but constructing an original dialogue with form; by associating it with colour, they created a number of different spatial planes of interpretation, in which the same forms were combined in an undefined process of overlapping suggesting a mystery of perception. On his trips to Paris, the Roman painter met a number of important Surrealists and began to formulate his idea of a fusion of rigorous abstraction with an unconscious attraction for the instinctive sign. He therefore came up with his personal transposition of form into sign, rather poetically allowing his structures to move toward the break-up of a scheme, attacking planning and the system and transforming them into a labyrinth. As early as 1951, in his theoretical text Sono due spazi, he wrote: “There are two spaces, my space, which is your space, our space, everyone’s space; and another space: the space of art. This is where forms and colours live, which we paint, rendering them only in part, as far as our ability allows us: this means we only have the ability to paint what is particular to us, that is, what memory returns to us from distant regions.” Throughout the 1950s Perilli experimented with his attempt to render abstractism: “Creating a sort of equation of irrational structures to be logically solved,” but his logic was anything but systematic, rather sensitive to the importance of never losing sight of the organic nature
of the work; never deriving from any reality connected in any way to an intimate thought: the natural continuation of branching, through space, with the precise purpose of generating a humus, connected with the state of mind, influenced by Kandinsky, who painted music, or by Klee, whom Perilli describes in a text on the subject in Leonardo Sinisgalli’s magazine Civiltà delle machine: “It is no longer a matter of the relationship between man and space, as in Renaissance perspective, or the first incredulous acknowledgement of time by the Cubists, but something more profound, beyond the object, beyond the terms of the rational, beyond all boundaries. Feeling like an element of the cosmos and noting something in yourself that is still the cosmos produces that meeting of poetry and painting that is the synthesis achieved by Klee.” This is when Perilli’s “concrete” painting was born, or rather, his “abstract and concrete” painting: the need to constantly establish the painting’s relationship with his own personality, always playing around with himself, to the point of denying himself, and then being reborn, not as a tabula rasa, but bringing an irreplaceable element with him. In the late 1950s, Perilli became completely interested in freedom of expression, which he called “the neurotic sign of the irrational” in his Nuova figurazione per la pittura, published in the magazine L’esperienza moderna, founded in 1957 in collaboration with Gastone Novelli; the works shifted toward total freedom of the automatism, defined as the gesture, and it was at this time that the sign came to be of fundamental importance, as the artist became involved with modern Japanese calligraphers, and a certain kind of informal painting, such as that of Franz Kline and Hans Hartung. The synthesis of this period never gave up the strong desire for form, and gestures always appeared to be mental, dictated by a relationship with the world, impregnated with matter, sand, and glue, generating fairy tale-like “hieroglyphics” which were still connected with the universal context that continued to nourish the artist’s imagination. from Nel cuore del labirinto. Achille Perilli. Opere scelte 1949/1974 FerrarinArte, Legnago, 2012
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Joan Hernรกndez Pijuan
Terres blanques 1, 1996 olio su tela | oil on canvas 195 × 195 cm
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Marc per un paisatge 1, 2001 olio su tela | oil on canvas 162 × 145 cm
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Signes, 2001 olio su tela | oil on canvas 146 × 114 cm
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Memoria del Sur 6, 2002 olio su tela | oil on canvas 147 × 125 cm
pp. 86-87 Memoria del Sur 7, 2002 olio su tela | oil on canvas 162 × 290 cm
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Camp daurat, 2002 olio su tela | oil on canvas 146 × 114
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Arbre, 2002 olio su tela | oil on canvas 89 × 116 cm
pp. 90-91 Retornant a un lloc conegut 2, 2003 olio su tela | oil on canvas 162 × 290 cm
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Blanc i casa, 2003 olio su tela | oil on canvas 41 Ă— 27 cm
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Pintura verda i negra, 2005 olio su tela | oil on canvas 180 Ă— 150 cm
La forma inafferrabile della pittura Alberto Fiz Joan Hernández Pijuan traccia i confini di una ricerca che si pone come riflessione sul tempo e sullo spazio uscendo dall’ottica della rappresentazione tradizionale. Ed è proprio questo desiderio di cogliere l’inafferrabilità della forma a contrapporsi alla quotidianità di una realtà contemporanea che appare saturata dalle immagini. La sua lezione è più che mai attuale, in quanto rappresenta l’applicazione di un processo catartico dove a essere coinvolti sono i contenuti primari dell’arte e della pittura, lasciando da parte gli aspetti squisitamente connotativi. Il quadro, dunque, coincide con il sistema stesso della rappresentazione. In questa logica, Pijuan non è un pittore astratto ma, come lui stesso ha sostenuto, è un pittore di paesaggi. “Quando guardo il campo non come una macchia di colore”, spiega, “ma dettagliando lo spazio, il cumulo di spighe forma una trama penetrabile, come in una sovrapposizione di spazi vellutati nei quali il movimento provocato dalle brezze, dai venti, dalle sottigliezze della luce crea piccoli reticoli che mi allontanano da una visione impressionista e mi fanno vedere il colore non con il nome che lo definisce, ma per ciò che rappresenta”. Il paesaggio è all’interno e deve la sua esistenza alla superficie pittorica che lo contiene e lo assorbe in un processo creativo che investe direttamente i principi della conoscenza. L’intendimento dell’artista è quello di sviluppare un linguaggio dove il luogo diventi il punto di convergenza tra la memoria personale e collettiva in un superamento della dimensione fisica a favore di quella psichica. Come ha scritto il semiologo Jean-Louis Schefer, “l’immagine non ha una struttura a priori. Ha, invece, strutture testuali di cui è il sistema”. È l’intervallo spaziale tra le cose (quello che i giapponesi definiscono Ma), a interessare Pijuan, pronto a cogliere il continuo processo di trasformazione della materia, estraendo le immagini mentali e persistenti, proprio come farebbe un cercatore d’oro nella sua affannosa ricerca di
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pepite. Pijuan supera i condizionamenti stilistici dell’arte concettuale per sviluppare un’indagine autonoma che ha il merito di esprimere un visibile universale: esalta la forza della materia pittorica realizzando opere profondamente evocative dove il colore stratificato lascia la sua impronta indelebile sulla tela. Sono sedimentazioni di carattere fisico e psicologico che si collocano con coerenza all’interno di quel solco tracciato dalla pittura spagnola che da Zurbarán giunge sino a Tàpies. Pijuan, così come Tàpies, è consapevole che lo scopo della pittura sia quello di rendere visibile, senza rinunciare a mettere in gioco l’intero sistema di conoscenza. Se per Tàpies, tuttavia, l’immagine assume un aspetto simbolico e demiurgico, per Pijuan è una necessità, una rivelazione che scaturisce dall’osservazione diretta. Il colore, infatti, coincide con la natura delle cose facendo del quadro un’ipotesi che va verificata. La sua opera si potrebbe leggere come principio di verità che si concretizza nella persistenza delle cose. I suoi segni naturalistici sono veri e propri graffiti scavati nella materia pittorica, come se, improvvisamente, ci trovassimo di fronte alle incisioni rupestri di Altamira. In quelle forme inafferrabili si nasconde l’esigenza di liberare l’immagine dal suo contenuto riportandola all’idea originaria. Sono dispositivi catartici che nascono da una spinta di carattere psicologico e si collocano come punto d’arrivo di un processo spaziale. Alberi, case, foglie, fiori non sono sovrapposizioni, ma princìpi mentali che emergono direttamente dalla superficie in un processo creativo unificante. A spiegarlo è lo stesso Pijuan: “Le prime forme, i primi disegni, mi impongono la loro continuazione, e la pennellata che indicava il percorso perde la sua condizione esclusiva di pennellata, di tocco in un percorso visivo, recuperando il disegno e, direi, anche la forza”. Per l’artista spagnolo lo spazio contiene in sé l’emozione enigmatica della pittura in un desiderio continuo di superare la contrapposizione tra visibile e invisibile. da Hernández Pijuan. Pintures i dibuixos, 1958-2003
The Elusive Form of Painting Alberto Fiz Joan Hernández Pijuan traces the boundaries of a course of study that takes the form of reflection on time and space, going beyond traditional representation. And it is precisely this desire to grasp the elusiveness of form that contrasts with the everyday nature of contemporary reality, which appears saturated with images. The lesson is more relevant than ever today, as it represents the application of a cathartic process involving the primary content of art and painting, setting aside the exquisitely connotative aspects, so that the painting coincides with the system of representation itself. According to this way of thinking, Pijuan is not an abstract painter but, as he himself has said, a landscape painter. “When I look at a field not as a patch of colour, but filling in the details of the space, the stack of sheaves of wheat forms a penetrable texture, like overlapping velvety spaces in which the motion caused by the breeze, by the wind, and the subtleties of the light create little meshes that take me farther away from an impressionistic vision and show me colour not as the name that defines it, but as what it represents.” The landscape is interior, and it owes its existence to the pictorial surface that contains it and absorbs it in a creative process directly involving the principles of knowledge. The artist’s understanding is that of developing a vocabulary in which a place becomes a point of convergence between personal and collective memory, going beyond the physical dimension in favour of the psychic one. As semiologist Jean-Louis Schefer wrote, “the image does not have a structure a priori; it has the textual structures of which it is the system.” It is the spatial interval between things (which the Japanese refer to as Ma) that interests Pijuan, ready to grasp the ongoing process of transformation of matter, extracting persistent and mental images, like a gold-seeker
relentlessly searching for nuggets. Pijuan goes beyond the stylistic conditioning of conceptual art and comes up with his own approach, which has the merit of expressing what is universally visible: it underlines the power of paint as a material, in profoundly evocative works in which stratified colour makes its indelible mark on the canvas. These are physical and psychological sedimentations which coherently fall in the line of Spanish painting from Zurbarán to Tàpies. Like Tàpies, Pijuan is aware that the purpose of painting is to make things visible without giving up on the idea of challenging our entire system of knowledge. While Tàpies, however, sees the image as of symbolical and demiurgical significance, Pijuan sees it as a necessity, a revelation that begins with direct observation. For colour coincides with the nature of things, making the painting a hypothesis to be verified. His work might be interpreted as the grain of truth that takes concrete form in the persistence of things. His naturalistic signs are true graffiti dug into the material of the paint, as if we suddenly found ourselves before the petroglyphs of Altamira. These elusive forms conceal the need to free the image of its content, restoring it to the original idea. They are cathartic devices arising out of a psychological thrust and forming the end point of a spatial process. Trees, houses, leaves, flowers are not overlapped, but are mental principles emerging directly out of the surface in a unifying creative process. Pijuan himself explains this: “The first forms, the first drawings, demand that I continue them, and the brushstroke that indicated the path loses its exclusive condition of brushstroke, of touch in a visual process, in a return to drawing and, I would say, to power.” The Spanish artist sees space as containing within itself the enigmatic emotion of painting, in an ongoing desire to go beyond the opposition of visible vs. invisible. from Hernández Pijuan. Pintures i dibuixos, 1958-2003 Acadèmia de Belles Arts de Sabadell, 2003
Acadèmia de Belles Arts de Sabadell, 2003
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Elenco delle opere | List of Works
SERGI BARNILS 30
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Dels signifers negres, 1996 olio su tela | oil on canvas 146 × 114 cm Collezione privata | Private collection, Milano Primeres visions de la ciutat cèlica, 1999 olio su tela | oil on canvas 53 × 88 cm collezione privata | private collection, Verona Déu ha creat el cel i la terra, 2011 encausto su tela | encaustic on canvas 200 × 400 cm Collezione privata | Private collection, Milano El tercer va abocarla seva copa al rius, 2012 encausto su tela | encaustic on canvas 150 × 100 cm Collezione privata | Private collection, Milano Blanquina, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 100 × 81 cm Collezione privata | Private collection, Milano Blanquina, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 100 × 100 cm Collezione privata | Private collection, Barcelona
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Blanquina, 2016 encausto su tela | encaustic on canvas 120 × 120 cm Collezione privata | Private collection, Milano
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Del verger celeste, 2016 encausto su tavola | encaustic on board 120 × 120 cm Collezione privata | Private collection, Pietrasanta Del verger celeste, 2016 encausto su tavola | encaustic on board 100 × 100 cm Collezione privata | Private collection, Milano
GIUSEPPE CAPOGROSSI 48
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Blanquina, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 100 × 100 cm Collezione privata | Private collection, Milano Del verger celeste, 2015 encausto su tela | encaustic on canvas 200 × 400 cm Collezione privata | Private collection, Verona
Blanquina, 2015 encausto su tavola | encaustic on board 130 × 130 cm Collezione privata | Private collection, Barcelona
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Superficie 678 (Cartagine), 1950 olio su carta applicata su tela | oil on paper applied to canvas 169 × 88,5 cm Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Deposito collezione privata | Private collection in storage Superficie 566, 1950 tecnica mista su carta intelata | mixed media on canvas-backed paper 90 × 70 cm Collezione privata | Private collection, Firenze Courtesy Tornabuoni Arte, Firenze Superficie CP753, 1954 tempera su carta | tempera on paper 53,5 × 43 cm Courtesy Mazzoleni Art, London-Torino
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Superficie 105, 1954 olio su tela | oil on canvas 180 × 120 cm Courtesy Galleria Tega, Milano Superficie 120, 1954 tempera su carta intelata | tempera on canvas-backed paper 100 × 70 cm Courtesy Galleria Tega, Milano
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ACHILLE PERILLI 66
Superficie 150, 1956 olio su tela | oil on canvas 54 × 65 cm Collezione Eleonora e Francesca Tega, Milano
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Superficie 399, 1961 olio su tela | oil on canvas 160 × 196 cm Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione VAF-Stiftung Superficie 478, 1962 olio su tela | oil on canvas 43 × 35 cm CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia, Collezione Cozzani Superficie 708, 1970 rilievo, sughero su cartone| relief, cork on card 57,5 × 70 cm Collezione privata | Private collection, Parma
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Superficie 710, 1954 tempera su carta intelata | tempera on canvas-backed paper 71 × 100 cm Courtesy Mazzoleni Art, London-Torino
Superficie 154, 1956 olio su tela | oil on canvas 80 × 100 cm Courtesy Collezione Intesa Sanpaolo
Serigrafia 1969-1970, 1970 serigrafia su carta applicata su tavola| screen print on paper applied to board 225 × 128 cm CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia, Collezione Cozzani
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Allegoria per Fidel Castro, 1958 olio e tecnica mista su tela | oil and mixed media on canvas 96 × 130 cm Collezione privata | Private collection, Torino La città incantata, 1958 olio e tecnica mista su tela | oil and mixed media on canvas 65 × 81 cm Courtesy Galleria Tega, Milano Preparazione dei semplici, 1959 olio e tecnica mista su tela | oil and mixed media on canvas 81 × 100 cm Collezione privata | Private collection, Torino L’Emploi du temps, 1959 encausto su tela | encaustic on canvas 146 × 114 cm MAC - Museo d’Arte Contemporanea, Lissone Tradotto dall’Assiro, 1960 tecnica mista su tela | mixed media on canvas 81 × 100 cm Courtesy Galleria Tega, Milano
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Cima del vuoto, la solidità del silenzio, 1961 tecnica mista su tela | mixed media on canvas 200 × 160 cm Courtesy Collezione Intesa Sanpaolo Do ut des, 1962 tecnica mista su tela | mixed media on canvas 81 × 65 cm Courtesy Galleria Tega, Milano Studio, 1962 tecnica mista su cartone | mixed media on card 70 × 100 cm CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia, Collezione Cozzani Paesaggio Chiara, 1965 encausto su tela | encaustic on canvas 145 × 145 cm Collezione privata | Private collection, Torino
146 × 114 cm Collezione privata | Private collection, Milano 85
Memoria del Sur 6, 2002 olio su tela | oil on canvas 147 × 125 cm Collezione privata | Private collection, Milano
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Memoria del Sur 7, 2002 olio su tela | oil on canvas 162 × 290 cm Collezione privata | Private collection, Barcelona
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Camp daurat, 2002 olio su tela | oil on canvas 146 × 114 Collezione privata | Private collection, Milano
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Arbre, 2002 olio su tela | oil on canvas 89 × 116 cm Collezione privata | Private collection, Milano
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Retornant a un lloc conegut 2, 2003 olio su tela | oil on canvas 162 × 290 cm Collezione privata | Private collection, Barcelona
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Blanc i casa, 2003 olio su tela | oil on canvas 41 × 27 cm Collezione privata | Private collection, Milano
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Pintura verda i negra, 2005 olio su tela | oil on canvas 180 × 150 cm Collezione privata | Private collection, Barcelona
JOAN HERNÁNDEZ PIJUAN 82
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Terres blanques 1, 1996 olio su tela | oil on canvas 195 × 195 cm Collezione privata | Private collection, Barcelona Marc per un paisatge 1, 2001 olio su tela | oil on canvas 162 × 145 cm Collezione privata | Private collection, Milano Signes, 2001 olio su tela | oil on canvas
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Biografie | Biographies
Dida dida dida Corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida
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Dida dida dida Corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida corpodida
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Sergi Barnils
Sergi Barnils Sergi Barnils è nato nel 1954 a Bata, capitale della Guinea Equatoriale, dove il padre, originario di Sant Cugat del Vallès, arrivò negli anni trenta. Quando nel 1956 il territorio da colonia spagnola diventa una provincia del Golfo di Guinea, la famiglia Barnils ritorna in Catalogna. Fin dalla più giovane età Barnils dimostra una chiara propensione per il disegno e porta avanti con determinazione la propria vocazione pittorica. Pur lavorando nella fabbrica di ceramica paterna, dalla metà degli anni settanta frequenta lo studio del pittore Nolasc Vals e dal 1988 la facoltà di Belle Arti di Barcellona: è in questi anni che il colore inizia ad avere un ruolo di fondamentale importanza per il suo fare arte. Dopo la chiusura della fabbrica di ceramica di famiglia, all’inizio degli anni novanta, Barnils si dedica esclusivamente alla pittura. Nel frattempo il suo linguaggio artistico raggiunge la piena maturità e la sua opera, inizialmente influenzata dalle principali correnti contemporanee, si va precisando in una forma definitivamente personale. Attraverso un segno geometrico che si stempera nell’utilizzo dei colori, protagonisti assoluti della sua pittura, Barnils è giunto, quindi, a condensare nelle proprie immagini, sia pure astratte e dense di graffiti primordiali, le sue più intime riflessioni sulla condizione umana: dalle sue opere, ma soprattutto dai suoi colori gioiosamente festanti, si sprigiona così un intenso sentimento di celebrazione della bellezza della vita, in ogni sua forma e divenire. Dopo la prima mostra personale alla galleria Maravia di Tordera nel 1980, una serie ininterrotta di esposizioni personali e collettive ha portato le sue opere in gallerie e musei della Spagna – a Barcellona, Girona, Maiorca, Saragozza, Logroño e Madrid. Negli anni novanta Barnils ha iniziato a esporre in Germania, Austria, Belgio e Olanda. Le sue opere sono state presentate in Italia per la prima volta nel 1996 a Milano, con una mostra alla galleria Spirale
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Arte. Nello stesso anno Barnils vince il Premio internazionale di pittura a Tossa de Mar (Girona). Fra le sue esposizioni, si ricordano le mostre personali a Palazzo Racani Arroni di Spoleto nel 2002 (La morada inmutable), Doxologies alla galleria Maragall di Barcellona; nel 2007 espone a Palazzo Pretorio di Castell’Arquato (PC) e nel 2008 a Clusone, al Museo del Complesso dei Disciplini. Nel 2009 Barnils viene invitato ad allestire una personale al museo di Palazzo Principi di Correggio. Nel 2011 espone in diverse gallerie in Italia e in Spagna, ma gli eventi più significativi dell’anno sono la mostra antologica Envers la Ciutat Esplendent alla Fondazione Caixa Terrassa di Barcellona e la personale Maragda alla galleria Marcorossi artecontemporanea di Milano. Nel 2012 le sue personali si svolgono a Torino e Verona, nel 2015 a Pietrasanta, nel 2016 ad Asiago ed è presente in una serie di rassegne a Firenze, al MACBA di Barcellona e in Australia. Sono del 2017 le personali Maran Ata all’Espai Volart della Fundacio´ Vila Casas di Barcellona, e Revelacio´ a Palazzo Anguissola Cimafava di Piacenza. Attualmente Sergi Barnils vive a Barcellona e lavora nel suo studio a Sant Cugat.
Sergi Barnils was born in 1954 in Bata, the capital city of Equatorial Guinea, where his father, originally from Sant Cugat del Vallès, emigrated in the 1930s. The Barnils family returned to Catalunya when what had been a Spanish colony became a province of the Gulf of Guinea in 1956. Barnils revealed a talent for drawing at a very young age, and pursued his vocation as a painter with great determination. While working in his father’s ceramic factory, from the 1970s, he frequented the studio of painter Nolasc Valls and, from 1988, the School of Fine Arts in Barcelona, and it is at this time that colour began to play a key role in his art. Barnils began painting full-time when the family closed their ceramic factory in the early 1990s. His artistic vocabulary had reached full maturity in the meantime, and his work, initially influenced by the principal currents in contemporary art, began to take on a truly personal form. Through geometric symbols involving use of colour, the keys to his painting, Barnils condensed his most intimate reflections on human nature in his images: his works, and above all his joyously festive colours, give off an intense sentiment of celebration of the beauty of life in all its forms and states. After his first solo show at Maravia Gallery in Tordera in 1980, an uninterrupted series of solo and group shows brought his work to galleries and museums all over Spain: Barcelona, Girona, Majorca, Zaragoza,
Logroño and Madrid. In the 1990s Barnils began exhibiting his work in Germany, Austria, Belgium and the Netherlands. His works were first presented in Italy in 1996 with an exhibition at the Spirale Arte Gallery in Milan. In the same year Barnils won the International Painting Prize in Tossa de Mar (Girona). His exhibitions include solo shows at Palazzo Racani Arroni in Spoleto in 2002 (La morada Inmutable), Doxologies at Maragall Gallery in Barcelona; in 2007 he exhibited at Palazzo Pretorio di Castell’Arquato (PC), and in 2008 at Museo del Complesso dei Disciplini in Clusone. In 2009 Barnils was invited to hold a solo show at Museo di Palazzo Principi in Correggio. In 2011 he exhibited in a number of galleries in Italy and Spain, but the most important events of the year were the anthological show Envers la Ciutat Esplendent at Fundacion Caixa Terrassa in Barcelona and the solo show Maragda at Marcorossi artecontemporanea Gallery in Milan. He held solo shows in Turin and Verona in 2012, in Pietrasanta in 2015, and in Asiago in 2016, and his work appeared in several group shows, in Florence, at MACBA in Barcelona and in Australia. In 2017 he held the solo shows Maran Ata at Espai Volart of Fundaciò Vila Casas in Barcelona and Revelaciò at Palazzo Anguissola Cimafava in Piacenza, Italy. Sergi Barnils currently lives in Barcelona and works in his studio in Sant Cugat.
Giuseppe Capogrossi Giuseppe Capogrossi was born in Rome on 7 March 1900. He attended the Jesuit Massimiliano Massimo high school and graduated in law from Rome University in 1922, after serving in the World War I. In accordance with his long-standing artistic aspirations, he decided to pursue a career in painting rather than law and sought the advice of his uncle Pietro Tacchi Venturi, a distinguished Jesuit, who
arranged for him to work in a studio specializing in works of religious art. In the summer of 1923, feeling the need to improve his technique, he enrolled in Felice Carena’s more modern art school. He took part in the major Vatican Missionary Exhibition held at the behest of Pius Xl in conjunction with the Holy Year of 1925 and then in shows held in Rome at the Pensione Dinesen and the Casa d’Arte Bragaglia in 1927. His training was
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Giuseppe Capogrossi Giuseppe Capogrossi nasce a Roma il 7 marzo 1900. Frequenta il liceo classico presso l’Istituto religioso della Compagnia di Gesù “Massimiliano Massimo” e, dopo aver preso parte alla Prima guerra mondiale, si laurea nel 1922 in Giurisprudenza all’Università di Roma. Da sempre animato da aspirazioni artistiche, decide di non perseguire una carriera da avvocato, ma di intraprendere la strada della pittura. Si rivolge perciò allo zio Pietro Tacchi Venturi, insigne gesuita, che lo indirizza a uno studio specializzato in lavori di arte sacra. Nell’estate del 1923, alla ricerca di un perfezionamento della sua tecnica, si iscrive ai corsi della Scuola d’arte agli Orti Sallustiani di Felice Carena di orientamento più moderno. Nel 1925 partecipa all’imponente Esposizione Missionaria Vaticana organizzata da Pio XI in occasione dell’Anno Santo e nel 1927 espone a Roma nelle mostre allestite alla Pensione Dinesen e alla Casa d’Arte Bragaglia. La sua formazione si completa con una serie di viaggi a Parigi – il primo è del 1928 – che gli permettono di conoscere la pittura impressionista e cubista. Nel 1930 viene selezionato per esporre alla XVII Biennale di Venezia e nel dicembre del 1933 partecipa con Corrado Cagli, Emanuele Cavalli ed Ezio Sciavi a una mostra collettiva presso la galleria Jacques Bonjean di Parigi. In questa occasione il critico Waldemar George utilizza l’espressione École de Rome per identificare lo stile dei pittori in mostra che vede caratterizzato da un linguaggio moderno che si struttura sulla complessa cultura artistica italiana. Alla Biennale del 1936 Capogrossi conosce Costanza Mennyey, una pittrice di origine ungherese, che diventerà la sua compagna e dalla quale avrà due figlie: Beatrice nel 1938 e Olga nel 1944. Nel 1937 l’artista partecipa con successo all’Esposizione Internazionale di Pittura organizzata dal prestigioso Carnegie lnstitute di
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Pittsburgh. Nel 1940 ottiene l’incarico di insegnante di figura disegnata presso il liceo artistico di via Ripetta a Roma, ruolo che mantiene fino al 1966 quando è chiamato all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Alla fine degli anni quaranta Capogrossi vive un periodo di profonda crisi creativa durante la quale ridipinge o addirittura distrugge quadri realizzati in precedenza; il suo stile si modifica avvicinandosi inizialmente al neocubismo e volgendosi in seguito verso il totale abbandono della pittura figurativa attraverso la definizione di una forma-segno che diviene la cifra distintiva della sua pittura. Questa produzione viene esposta per la prima volta nel 1950 in tre diverse mostre: alla Galleria del Secolo di Roma, alla galleria Il Milione di Milano, e infine a Venezia alla galleria Il Cavallino del noto mercante d’arte Carlo Cardazzo. Sebbene continui a vivere a Roma, collabora a Milano con Alberto Burri, Mario Ballocco ed Ettore Colla alla fondazione del Gruppo Origine e firma un contratto di esclusiva con Carlo Cardazzo, che gestisce gallerie a Milano e a Venezia, con il quale si avviano la diffusione e il commercio della produzione del pittore anche all’estero. Le opere di Capogrossi trovano in questo periodo adeguata collocazione all’interno delle coeve e più avanzate ricerche della pittura europea e americana. Nel 1951 Michel Tapié inserisce l’artista all’interno della storica mostra organizzata a Parigi presso la galleria Nina Dausset nella quale sono presenti, tra gli altri, Jackson Pollock, Willem de Kooning, Hans Hartung, Georges Mathieu e Wols. In questa occasione Tapié conia il fortunato termine Informel per definire lo stile e le caratteristiche del linguaggio pittorico delle opere esposte. Successivamente Capogrossi partecipa a importanti rassegne negli Stati Uniti come la collettiva del 1953-1954 al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, curata da James
completed with a series of trips to Paris, the first in 1928, which gave him first-hand knowledge of lmpressionist and Cubist painting. He was selected to exhibit work in the 1930 Venice Biennial and featured with Corrado Cagli, Emanuele Cavalli and Ezio Sciavi in a group show at the Galerie Jacques Bonjean in Paris, in December 1933. lt was on this occasion that the critic Waldemar George used the expression École de Rome or Rome School to identify the style of the painters exhibited, which he saw as characterized by a modern vocabulary developed on the basis of the complex ltalian artistic culture. Capogrossi met Costanza Mennyey, a painter of Hungarian origin, at the 1936 Venice Biennial and they embarked on a relationship that saw the birth of two daughters, Beatrice in 1938 and Olga in 1944. He showed work with marked success in the 1937 lnternational Exhibition of Painting at the prestigious Carnegie lnstitute in Pittsburgh and obtained the post of teacher of figure drawing at the art school on Via Ripetta in Rome in 1940. He continued there until 1966, when he obtained a post at the Naples Academy of Fine Arts. Capogrossi went through a period of deep creative crisis in the late 1940s, during
which he painted over and even destroyed paintings executed previously. His style altered, shifting initially toward NeoCubism and then the total abandonment of figurative painting with the definition of the comb-shaped sign that was to become the hallmark of his art. This new work was exhibited for the first time in 1950 in three different shows held at the Galleria del Secolo in Rome, the Galleria del Milione in Milan, and finally the Galleria del Cavallino of the well-known art dealer Carlo Cardazzo in Venice. While continuing to live in Rome, he founded the Origine group in Milan together with Alberto Burri, Mario Ballocco and Ettore Colla, and signed a contract for exclusive rights with Carlo Cardazzo, the owner of galleries in Milan and Venice. This marked the start of the circulation and sale of his work also outside ltaly. Capogrossi’s works of this period are in line with the most advanced developments of the day in European and American painting. Michel Tapié included him in the historic show held in 1951 at the Galerie Nina Dausset in Paris alongside figures such as Jackson Pollock, Willem de Kooning, Hans Hartung, Georges Mathieu and Wols. lt was on this occasion that Tapié coined the felicitous term ‘Art informel’ to define the style and characteristics of the pictorial language of the works exhibited. Capogrossi subsequently took part in major exhibitions in the United States, including the one organized by James Johnson Sweeney at the Solomon R. Guggenheim Museum, New York, in 1953–1954 and Andrew Carnduff Ritchie’s historic touring show of 1955, as well as a solo show at the Leo Castelli Gallery, New York, in 1958. The 1960s saw increased participation in events at the national and international level, including various editions of the São Paulo Biennial and the Guggenheim lnternational Award as well as shows in Japan, sometimes together with Lucio Fontana. Official Italian recognition of the importance of his work arrived in1962, when he was awarded the City of Venice prize at the Venice Biennial and an entire room was
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Johnson Sweeney, e la storica mostra itinerante di Andrew Carnduff Ritchie del 1955; nel 1958 inoltre allestisce un’esposizione personale nella galleria di Leo Castelli a New York. Nel corso degli anni sessanta la presenza di opere di Capogrossi nelle mostre, italiane e internazionali, si moltiplica: l’artista è presente in diverse edizioni della Biennale di San Paolo in Brasile, partecipa più volte al Guggenheim lnternational Award ed espone in Giappone anche in coppia con Lucio Fontana. Il riconoscimento ufficiale
dell’importanza del suo lavoro giunge in Italia nel 1962 quando la Biennale di Venezia, che già aveva allestito una sua sala personale in occasione dell’edizione del 1954, gli assegna il premio concesso dal Comune di Venezia e dedica un’intera sala alle sue opere. Rilevante è, nel corso degli anni cinquanta e sessanta, anche la realizzazione di opere su carta, di litografie e di opere d’arte applicata come ceramiche, gioielli e arazzi. Giuseppe Capogrossi muore a Roma il 9 ottobre 1972.
Achille Perilli Achille Perilli nasce a Roma nel 1927. Si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma nel 1945 e si laurea con una tesi su Giorgio de Chirico. Nel 1947 è tra i fondatori del gruppo Forma 1. Nel 1948 prende parte (presentato da Venturi) al “I Congresso Internazionale di Critici d’Arte” a Parigi, all’organizzazione della prima mostra d’arte astratta in Italia alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e si unisce al MAC (Movimento Arte Concreta). Insieme a Piero Dorazio e Mino Guerrini apre la libreria-galleria Age d’Or a Roma (1950) e cura la pubblicazione di Forma 2 – Omaggio a Kandinskij e la mostra Arte astratta e concreta in Italia, mentre nel 1952 prende parte alla prima mostra della Fondazione Origine. Nel 1956 tiene la sua prima mostra personale a Firenze (galleria Strozzina) e dell’anno seguente è la sua prima personale a Roma. Nello stesso anno fonda con Gastone Novelli la rivista “L’esperienza moderna”. Dopo aver partecipato alla Biennale di San Paolo del Brasile nel 1959, realizza lo spettacolo Collage al teatro Eliseo di Roma. Nel 1962 è presente alla Biennale di Venezia con una sala personale, mentre nel 1963 prende parte alla mostra L’Art et l’Écriture alla Kunsthalle di Baden Baden e allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Di quell’anno sono anche una serie di sculture in legno dipinto
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(le “colonne”). Nel 1964, dopo una mostra personale alla Kunstverein di Freiburg, fonda la rivista “Grammatica” con Alfredo Giuliani, Giorgio Manganelli e Gastone Novelli. Nel 1965 realizza le scene e i costumi per il balletto Mutazioni alla Scala di Milano, ottiene il Premio Comune di Roma alla Quadriennale e riceve l’incarico di dirigere il dipartimento di Comunicazione Visiva al corso superiore di Industrial Design di Roma.
NUOVA Sfocare tutto lo sfondo
devoted to his works, as it had been in 1954. The 1950s and 1960s also saw a considerable output of works on paper, lithographs
and works of applied art like ceramics, jewellery, and tapestries. Giuseppe Capogrossi died in Rome on 9 October 1972.
Achille Perilli Achille Perilli was born in Rome in 1927. He registered at the Faculty of Arts of Rome University in 1945 and graduated with a thesis on Giorgio de Chirico. He became one of the founding members of the “Forma 1” group in 1947; in 1948, presented by Venturi, Perilli took part in the First International Congress of Art Critics in Paris, helped organise Italy’s first exhibition of abstract art at Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Rome, and joined the MAC movement (Movimento Arte Concreta). He opened the bookshop and gallery Age d’Or in Rome with Piero Dorazio and Mino Guerrini in 1950 and curated the publication of Forma 2 – Omaggio a Kandinskij and the exhibition Arte astratta e concreta in Italia (Abstract and concrete art in Italy); in 1952 he took part in the first exhibition held by the Origine foundation. He held his own solo show at Galleria Strozzina in Florence in 1956, and he had his first solo show in Rome the following year. In the same year, he founded the magazine Esperienza Moderna with Gastone Novelli. After participating in the São Paulo Biennial, Brazil, in 1959, he produced the Collage performance at Teatro Eliseo in Rome. In 1962 Perilli had his own solo show at the Biennale in Venice, and in 1963 he took part in the exhibition L’art et l’écriture at the Kunsthalle in Baden Baden and the Stedelijk Museum in Amsterdam. That year he also produced a series of painted wooden sculptures (the “columns”). In 1964, after a solo show at the Kunstverein in Freiburg, he founded the Grammatica magazine with Alfredo Giuliani, Giorgio Manganelli and Gastone Novelli. In 1965 he created the scenery and costumes for the ballet Mutazioni at the Teatro alla Scala in Milan and was presented with the Premio Comune di
Roma at the Quadriennale; he was also appointed to direct the Department of Visual Communications in the advanced Industrial Design programme in Rome. In 1968 Perilli held his own exhibition in the Biennale in Venice. In 1972 he participated in the establishment of Altro-Lavoro Intercodice, a group he worked with until 1981 in exhibitions, performances and publications. In 1975 he wrote the manifesto Machinerie, ma chère machine. He took part in the production of the book Altro, dieci anni di lavoro intercodice (1981), then wrote the manifesto entitled Teoria dell’irrazionale geometrico and held a retrospective exhibition in San Marino entitled Achille Perilli, continuum 1947–1982. He participated in the exhibition Forma 1 1947–1987 in France and Germany (1987). In 1989 he participated in the exhibition Orientamenti dell’Arte Italiana 1947–1989 in Moscow and Leningrad. In 1994 he published the book L’Age d’Or di Forma 1 and was represented at the Forma 1 exhibitions in Parma, Verona and London. In 1996 he published the book Metek, babbecedario allunatico illustrato and began working on the wooden sculptures entitled Gli alberi, (The trees). He was presented with the Presidente della Repubblica award in 1997. He exhibited in the Forma 1 e i suoi artisti exhibition at the Imperial Stables of Prague Castle and held a solo show at the Mole Vanvitelliana in Ancona in 1998. In 2000 Perilli’s work was included in the Forma 1 e i suoi artisti review at Galleria Comunale d’Arte Moderna in Rome; in 2001 he exhibited in Cross-Roads at the Polo Museale Internazionale per l’Arte Contemporanea in Genazzano. In 2002 his work was
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Nel 1968 prende parte alla Biennale di Venezia con una sala personale. Del 1972 è la partecipazione alla costituzione del gruppo Altro-Lavoro Intercodice, con il quale collabora fino al 1981 con mostre, spettacoli e pubblicazioni. Nel 1975 redige il manifesto Machinerie, ma chère machine. Prende parte alla realizzazione del libro Altro, dieci anni di lavoro intercodice (1981), quindi scrive il manifesto Teoria dell’irrazionale geometrico e tiene una mostra retrospettiva a San Marino dal titolo Achille Perilli, continuum 1947-1982. Partecipa alle mostre Forma 1 1947-1987 allestite in Francia e in Germania (1987). Del 1989 è la partecipazione alla mostra Orientamenti dell’Arte Italiana 1947-1989, programmata a Mosca e a Leningrado. Nel 1994 pubblica il libro L’Age d’Or di Forma 1 ed è presente alle mostre di Forma 1 a Parma, Verona e Londra. Nel 1996 pubblica il libro Metek, babbecedario allunatico illustrato e inizia a realizzare le sculture in legno Gli alberi. Nel 1997 vince il Premio Presidente della Repubblica. Espone alle mostre Forma 1 e i suoi artisti alle Scuderie del Castello di Praga e tiene una personale alla Mole Vanvitelliana di Ancona nel 1998. Nel 2000 è presente alla rassegna Forma 1 e i suoi artisti alla Galleria Comunale
d’Arte Moderna di Roma. Nel 2001 espone nell’ambito di Cross-Roads (Incroci), presso il Polo Museale Internazionale per l’Arte Contemporanea di Genazzano. Nel 2002 espone nella mostra Dal Futurismo all’Astrattismo alla Fondazione Cassa di Risparmio di Roma del Museo del Corso; nel 2003 è presente in Un’esperienza d’Avanguardia nella Genova degli anni sessanta, presso il Museo di Arte Contemporanea di Villa Crocedi Genova e nel 2004 viene proposta una sua grande retrospettiva alla Mathildenhöhe di Darmstadt. Successivamente, nel 2005, partecipa a Segnali italiani dalla Collezione d’Arte Contemporanea alla Farnesina presso la galleria dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti a Belgrado e nel 2010 partecipa alla Biennale di Venezia. Nel 2014 il Centre Pompidou di Parigi ha acquistato per la sua collezione La Source, un suo importante dipinto del 1967 e nel 2015 Sky Arte ha realizzato un documentario sulla sua esperienza artistica dal titolo Un gioco complesso. Attualmente Perilli vive e lavora a Orvieto nella sua casa di campagna. Dal 2016 l’Archivio Achille Perilli sta lavorando alla pubblicazione, per i tipi di Silvana Editoriale, del catalogo generale curato da Giuseppe Appella che uscirà nel 2018.
Joan Hernández Pijuan Joan Hernández Pijuan nasce a Barcellona nel 1931. Dopo aver studiato alla scuola di arti e mestieri Llotja, tra il 1952 e il 1956 è alla Scuola di Belle Arti di Sant Jordi di Barcellona. Nel 1953 viene presentata la sua prima mostra collettiva e nel 1955 il Museo Municipale di Mataró ospita la sua prima personale con opere di matrice espressionista. Nel 1957 si trasferisce a Parigi dove studia presso la Scuola di Belle Arti incisione e litografia, tecnica che utilizzerà tutta la vita e che influenzerà molto il suo metodo di lavoro pittorico. Nel 1960
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espone alla Biennale di Venezia, dove tornerà nel 1970. Negli anni settanta la sua poetica si concentra sul tema dei paesaggi e verso la metà degli anni ottanta il suo lavoro comincia a essere caratterizzato da una tavolozza di colori essenziali: il bianco e nero, il bruno e il giallo. Dal 1977 lavora come professore presso la scuola di Belle Arti di Sant Jordi a Barcellona conciliando la sua attività creativa con l’ insegnamento. Dal 1980 partecipa alle attività del comitato Fondazione Joan Miró di Barcellona. A partire dal 1987 le sue opere giungono
included in the exhibition Dal Futurismo all’Astrattismo held by Fondazione Cassa di Risparmio di Roma at Museo del Corso, while in 2003 he was represented in Un’esperienza d’Avanguardia nella Genova degli anni sessanta at Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce in Genoa and in 2004 a major retrospective of his work was held at Mathildenhöhe in Darmstadt. In 2005 he participated in Segnali italiani dalla Collezione d’Arte Contemporanea alla Farnesina at the Gallery of the Serbian Academy of
Sciences and Arts in Belgrade, and in 2010 he participated in the Biennale in Venice. In 2014 the Centre Pompidou in Paris purchased La Source, an important painting made in 1967, for its collection, and in 2015 Sky Arte made a documentary about his artistic career entitled Un gioco complesso. Perilli now lives and works in his country home near Orvieto. In 2016 the Archivio Achille Perilli began working on publication of a General Catalogue edited by Giuseppe Appella, due to be published by Silvana Editoriale in 2018.
Joan Hernández Pijuan Joan Hernández Pijuan was born in Barcelona in 1931. After studying at the Llotja School of Arts and Professions, he attended the Sant Jordi School of Fine Arts in Barcelona between 1952 and 1956. He participated in his first group show in 1953, and in 1955 the Municipal Museum of Mataró hosted his first solo show, featuring Expressionist works. In 1957 he moved to Paris to study engraving and lithography at the School of Fine Arts, techniques he would use for the rest of his life which were to have a major impact on his style
of painting. He exhibited at the Biennale in Venice in 1960 and again in 1970. He focused on landscapes in the 1970s, and toward the middle of the 1980s his work began to be characterised by a simple colour palette: black and white, brown and yellow. He began teaching at the Sant Jordi School of Fine Arts in Barcelona in 1977, reconciling his creative work with his teaching career. In 1980 he began to participate in the work of Fundació Joan Miró in Barcelona. Since 1987 his work achieved a synthesis of a number of characteristic features of his artistic vocabulary as well as expressing new aspects such as a renewed tension between drawing and painting. Pijuan was awarded the prestigious National Prize for the Plastic Arts in 1981. He was appointed professor of painting in the Faculty of Fine Arts at Barcelona University in 1989, and appointed dean in 1992; in 1997 he became a Fine Arts Academic. In 1991 the Fine Arts Museum of Bilbao collected together a decade of his graphic art, presented in the catalogue Opera grafica 1980-1990. During Expo ’92 in Seville he participated in a group show in the Spanish Pavilion entitled Passaggi, and he exhibited in a solo show at the Catalunya Pavilion. In 1992 he was also appointed assistant
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a una sintesi di alcuni tratti caratteristici del suo linguaggio, oltre a esprimere nuovi aspetti come la rinnovata tensione tra disegno e pittura. Nel 1981 vince il prestigioso Premio Nazionale di Arti Plastiche. Dal 1989 assume la carica di professore di pittura presso la facoltà di Belle Arti dell’Università di Barcellona e nel 1992 viene nominato decano, nel 1997 diventa accademico di Belle Arti. Nel 1991 il Museo di Belle Arti di Bilbao riunisce dieci anni di opere grafiche, presentate nel catalogo Opera grafica 1980-1990. In occasione dell’Expo ’92 di Siviglia partecipa alla mostra collettiva Passaggi, nel Padiglione spagnolo, ed espone in una mostra personale nel Padiglione della Catalogna. Sempre nel 1992 viene nominato vicepreside della facoltà di Belle Arti dell’Università di Barcellona e nel 1993 il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía gli dedica una mostra antologica intitolata Spazi del silenzio. Nel 1997 espone i lavori più recenti alla galleria Accademia di Salisburgo e alla galleria Joan Prats di Barcellona. Sono opere che condividono una poetica caratteristica degli ultimi anni nella quale protagonisti sono la densità e il modo di lavorare la materia sulla tela, oltre a un disegno fatto di pure linee formali. Solchi, strade e profili di rilievi montuosi appaiono come simboli di un paesaggio che, nato dall’osservazione del reale, diviene luogo dell’immaginazione. Viene nominato accademico della Reale
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Accademia di Belle Arti di San Fernando a Madrid. Nel 1998-1999 espone a Milano alla Galleria Credito Valtellinese di Milano e, successivamente, viene proposta al Kunstverein di Francoforte la personale dal titolo Sentimento del paesaggio. Tra il 2000 e il 2002 espone in gallerie e musei in tutto il mondo: al Museum Rupertinum di Salisburgo, alla galleria Renate Bender di Monaco, alla galleria Renos Xippas di Parigi, da Ramis Barquet a New York e al Park Ryu Sook di Seul. Nel 2003 il MACBA di Barcellona gli dedica una retrospettiva dal titolo Volviendo a un lugar conocido; nel mese di marzo torna in Italia con la mostra personale Sguardi recenti alla galleria Spirale Arte di Milano e di Verona. In questi anni si consolida la sua fama, il MoMA e il Metropolitan Museum di New York acquisiscono sue opere segnalandolo come uno degli artisti spagnoli più significativi della seconda metà del XX secolo. Nel 2004 vince il Premio Ciutat de Barcelona d’Arts Plàstiques e nel 2005 partecipa nuovamente alla Biennale di Venezia e vince il Premio Nacional de Arte Gráfico. Pijuan muore nella sua casa di Barcellona il 28 dicembre 2005. Nel 2011 il Museum of Modern Art di Mosca gli ha dedicato una retrospettiva dal titolo A Private Regard on the Work of Joan Hernández Pijuan.
dean of the Fine Arts Faculty at Barcelona University, and in 1993 Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía held an anthological exhibition of his work entitled Spazi del silenzio. In 1997 he exhibited his most recent work at the Academia Callery in Salzburg and the Joan Prats Gallery in Barcelona. These works reflect the form of artistic expression characteristic of his later works, centring around density and a certain way of working with matter on canvas, drawn with pure formal lines. Ruts, streets and profiles of mountains appear as symbols of a landscape born out of observation of reality which becomes a place of the imagination. Pijuan was appointed academic at San Fernando Royal Academy of Fine Arts in Madrid. In 1998–1999 he exhibited in Milan’s Galleria Credito Valtellinese and held a solo show at the Kunstverein in Frankfurt entitled Sentimento del paesaggio. Between 2000 and 2002 he exhibited his work in galleries and museums all over the
world: at Museum Rupertinum in Salzburg, at Renate Bender Gallery in Munich, at Renos Xippas gallery in Paris, with Ramis Barquet in New York and at Park Ryu Sook in Seoul. In 2003 MACBA in Barcelona held a retrospective of his work under the title Volviendo a un lugar conocido; in March he returned to Italy with a solo show entitled Sguardi recenti at the Spirale Arte Gallery in Milan and Verona. He rose to prominence at this time, and MoMA and the Metropolitan Museum in New York purchased his works, identifying Pijuan as one of the most important Spanish artists of the second half of the twentieth century. In 2004 he was awarded the Premio Ciutat de Barcelona d’Arts Plàstiques, and in 2005 he was back in Venice for the Biennale and won the Premio Nacional de Arte Gráfico. Pijuan died in his home in Barcelona on 28 December 2005. In 2011 the Museum of Modern Art in Moscow held a retrospective of his work under the title A Private regard on the Work of Joan Hernández Pijuan.
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