Intervista a Rossana Rossanda, in "Outis", n° 5, 1/2014

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Intervista a Rossana rossanda

Nel quinto numero di ��� Oú������������������������������������������������������ tis !������������������������������������������������ parliamo di Europa. Della sua crisi, frammentazione e forse catastrofe. L’ipotesi europea si fondava su un’idea, ad esempio il federalismo; quando poi si è manifestata, all’inizio degli anni ’90, essa è stata una pura politica monetaria (sull’euro). Tutto è stato ridotto ad un’unificazione delle monete. Questo processo pesa molto sui paesi del sud dell’Europa e crea anche le condizioni per la nascita di nuovi nazionalismi. Dappertutto si formano delle grandi sacche di destra, come in Francia, il Front National, e come in Italia, in forme diverse, dalla Lega a Grillo, passando attraverso Berlusconi, ma anche in Spagna, in Ungheria, dovunque. È un periodo di grande difficoltà perché non c’è politica da nessuna parte. Secondo noi, anzi secondo Aimé Cesaire, l’Europa dopo i disastri del nazismo e del colonialismo, si sarebbe salvata se si fosse aperta al mondo. Per dire, che non crediamo nella possibilità di costruire un’«altra» Europa, piuttosto bisogna lavorare alla fine di questa Europa, non certo in nome del vecchio Stato-nazione, ma in nome di una fratellanza fra i popoli di tutto il mondo, senza più Stati né barriere. La globalizzazione produce migranti, ma anche i muri contro i migranti. Se esiste una politica europea comune e efficace questa è quella che consiste nel respingere con sempre più brutalità i migranti sulle soglie del nostro mondo. Ma devo dire che non vedo assolutamente niente che vada nel senso della ricostruzione di una politica a livello mondiale. Già parecchio tempo prima dell’89 le politiche dei paesi del socialismo reale erano in crisi, ma l’89 è stata anche una botta contro i principi keynesiani. Vale a dire: oggi sono scomparse tutte le ipotesi di compromesso fra capitale e lavoro. La Cina è riuscita a unificare il peggio del socialismo reale con il peggio del capitalismo perché le condizioni dei lavoratori in Cina sono terrificanti; d’altronde è la stessa cosa in India. Anche in America latina non vedo dei veri miglioramenti. Per me, il segno del cambiamento si trova nei rapporti sociali innanzitutto. In quei paesi, i rapporti sociali sono molto bassi. Anche in Venezuela. Poi devo dire che il discorso di Morales sulla Madre Terra non fa per me. In questi paesi, penso soprattutto alla CIna, forse ci sono movimenti che stanno costruendo un futuro diverso. Ma non si vedono molto.


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Eppure ci sono state recentemente delle forme di resistenza a livello globale, le «Primavere arabe», «Occupy»… Le Primavere arabe sono rimaste sole. Non hanno trovato alcuna sponda in Europa. E anche dall’altra parte del Mediterraneo non hanno prodotto per il momento una nuova generazione democratica, tanto meno socialista. La Tunisia tira fuori con fatica dei lembi di democrazia. L’Egitto sembra fermo. «Occupy» è un movimento molto simpatico, ma non credo che abbia una reale efficacia. Di fronte ha una struttura capitalistica mondializzata che è governata da diversi centri di interesse, non è che occupando Wall Street si riesca ad abbattere questi poteri. È possibile agire politicamente senza passare per una struttura organizzata permanente, in un’epoca in cui tutte le figure maggiori della modernità (partito, sindacati, la stessa idea di rappresentanza) sono in crisi? È questa, ci sembra, la sfida lanciata dai movimenti che si sono manifestati a partire dall’inizio del nuovo millennio. A tale proposito, noi abbiamo parlato dell’esistenza di un «potere destituente». Senza organizzazione non si combinerà nulla. È una questione di rapporti di forza. Per esempio, anche nelle Primavere arabe, un’organizzazione vagamente a misura del potere non c’era. E forse anche per questo non sono arrivate fino in fondo. Certo, so bene che con un’organizzazione si crea una struttura verticale. Ma senza organizzazione, sono convinta, non si trova la soluzione. Poi quando vedo che voi volete destituire tutto, mi dico che tutto è già stato decostruito! C’è Renzi adesso al potere in Italia, un ragazzotto. Lui rivendica il fatto di essere un ragazzo, ma a 39 anni dovrebbe essere già adulto. Per la nostra generazione il partito era l’erede della filosofia classica tedesca, si figuri con Renzi… Proprio per le ragioni che lei dice, perché non riconoscere un valore a questi movimenti antisistemici nati dal basso? Si tratta di movimenti per lo più emotivi che occupano la scena per tre o quattro mesi. In alcuni casi, sono anche legati esclusivamente a una dimensione territoriale locale. Non so come i NO TAV possano parlare con quelli che lottano contro l’ILVA di Taranto. Viene fuori da queste lotte qualcosa di generalizzabile? I movimenti sono puntali, localizzati e, in qualche misura, rispetto al processo della globalizzazione, non prendono la misura di quello che devono buttare giù. Credo che non siano strutture di lotta sufficienti per impensierire il capitale. L’idea di una crescita esponenziale delle moltitudini ribelli affascina molti miei amici. Ma io queste moltitudini non le vedo. Giovanni Arrighi cre-


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deva che l’esistenza di un vasto proletariato diffuso comportasse subito anche una coscienza ribella diffusa. No, non è vero, c’è invece un salto fra questa esistenza e la coscienza di essere sfruttati. Chi doveva garantire quel salto, ha, in realtà, svolto spesso un ruolo oppressivo. Secondo me, i limiti vengono fuori quando i partiti, perduta un’ipotesi di cambiamento, sono diventati comitati di affari molto modesti. Ma dopo il 1917, non possiamo dire che il partito e lo Stato siano stati solo comitati d’affari. Sono stati anche, ad esempio, degli organizzatori della conoscenza. In più, non è possibile negare che non abbiano incarnato di fronte al nazismo, di fronte alla guerra e nel primo dopoguerra, un sentimento collettivo. La storia del Novecento è molto interessante, non penso che si possa solo maledirlo come fa il mio amico Revelli. Sembra che proprio questo nesso fra organizzazione e masse sia venuto meno. Noi si tratta di essere per principio contro l’organizzazione-partito. Riteniamo, però, che esso faccia parte di un’altra fase storica, di un altro mondo, di altri rapporti politici. Insomma, nella lotta contro il neo-liberismo, esso non è lo strumento idoneo per produrre speranza. Sono d’accordo nel dire che il capitalismo ha trasformato la classe operaia e si è trasformato. Oggi vince anche perché è riuscito a atomizzare la classe operaia. Questo ha determinato le condizioni per l’affermazione di un’epoca paurosamente egoistica. Tuttavia, nel dire questo, non vedo alcuno scenario positivo possibile per il futuro. Ho attraversato molti anni di vita politica e sociale, bisogna che ci mettiamo in testa che gli operai, gli sfruttati, agiscono quando c’è una speranza, non quando sono disperati. Fino agli anni 70, gli operai facevano certo fatica a vivere, ma ad ogni lotta guadagnavano qualcosa. Adesso, dagli anni 80 in poi, ad ogni lotta perdono qualcosa. Questa è la cosa drammatica. Pensi anche agli studenti che chiedevano l’impossibile nel ‘68. In Italia, nel 2010, hanno protestato contro la riforma della scuola e dell’Università del ministro Gelmini, per tornare, oggi, a prima della Gelmini… I giovani sono attualmente per lo più precari. Nel ‘77, Toni Negri prese una cantonata quando difese l’idea che il lavoro precario fosse un lavoro ridotto nel tempo e che permettesse quindi maggiore libertà di movimento. Oggi sappiamo tutti che il precariato è tremendo. Per quanto riguarda il discorso di prima sull’organizzazione, è evidente che queste nuove forme di lavoro rendano più difficile un impegno costante in un qualsiasi tipo di struttura organizzativa. Innanzitutto perché, non restando queste persone molto tempo con lo stesso posto di lavoro, è impossibile coinvolgerle. Non possono pensare ad altro che al lavoro


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perché sono sempre alla ricerca di una nuova occupazione e di un salario. L’ultima grande lotta di liberazione dal lavoro era per proibire il sabato lavorativo, adesso si sciopera per lavorare la domenica. Ma è normale perché oggi è vitale guadagnare un po’ di più dal momento che non ce la si fa a sopravvivere. Anziché aspettare che i precari entrino nei sindacati, non dovremmo valorizzare le forme di rifiuto che essi esprimono già oggi ogni giorno? Per me le forme di resistenza individuale sono importanti perché testimoniano di un’uscita da un recinto ideologico subalterno. Ma non è che il precariato esiste da due anni. Il problema è che non si è mai andati oltre queste forme. Se un operatore di call center smette di parlare è bene, ma poi? Il capitale guadagna ancora. Non vorrei equivocare. Finché rimane in piedi una resistenza, esiste una dignità, una speranza. Però siamo di fronte al fatto che queste resistenze parcellizzate non ce la fanno da sole a contrastare il capitale. L’altro rischio è che, nello scontento, venga fuori l’elemento di destra, come accade nelle rivolte bretoni. Perché nella destra anche c’è la volontà di rifiuto. Anche noi non vorremmo equivocare. Per noi il comunismo è il nome dell’alternativa a questo mondo. Ci interroghiamo sul modo di creare delle lotte, delle istituzioni degne di questa idea nel ventunesimo secolo. Ringraziamo moltissimo Rossana Rossanda per il tempo che ci ha concesso e anche perché molti di noi avevano trovato nel Manifesto un modo per tenere aperta e sveglia lungo tanti anni difficili questa interrogazione.


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