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Il letto dell’anguilla: mappa invisibile delle storie di Kyoto
by kotodama
di Chiara Napolitano
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Le storie di Kyoto camminano per la città sin dalla sua origine, quando si chiamava Heiankyō: hanno accumulato le energie cosmiche del feng shui, le inondazioni violente del Kamogawa, i fuochi e le grida della Guerra Ōnin, il buio pieno di occhi del Sanjūsangendō, l’odore dei mochi abbrustoliti di Kita. Per sopravvivere, hanno imparato a mimetizzarsi tra il vetro e il metallo di Shijō e Karasuma. Se si vuole snidarle, occorre inoltrarsi nei roji, che a Kyoto si pronunciano rooji, vicoli stretti e quasi invisibili, dove persino lo sguardo onnisciente di Google Maps fatica a sbirciare.
I roji sono bocche che si schiudono su un altro mondo, squarci di una Kyoto che dal dopoguerra in poi è stata lentamente erosa da calcestruzzo e plexiglass. A cielo aperto o coperti da verande sottili, dal tratto serpentino o lineare, silenziosi o pervasi da un chiacchiericcio soffuso, i roji innervano il corpo della città antica sin dal Periodo Muromachi. Quando non è stata modificata, la configurazione classica comprende uno spazio interno, che può assumere la forma di un culde-sac o di una piccola coorte. Se si obbedisse alle logiche edilizie contemporanee, questo sarebbe considerato spazio di risulta. Le manshon, i condominii, le case prefabbricate che bordano dori e oji lo riducono al minimo, perché in una città come Kyoto, che non può espandersi senza intaccare le montagne sacre attorno, ogni spazio non usato è mottainai.
Eppure, questo vuoto è essenziale per gli abitanti dei roji. A Sarashiya, i bambini lo hanno coperto con scarabocchi di gesso che disegnano la mappa affettiva della città: la scuola, il parco, la casa dei nonni. A Shikiami, ospita un modesto ma lustro altarino, da dove Jizō osserva l’imponente struttura di metallo che incapsula la casa tradizionale da cui partiranno le celebrazioni per i matsuri stagionali. In un roji senza nome, all’angolo del monumento che commemora il luogo dove morì il monaco Dōgen (1200-1253), le verande di legno creano un corridoio lungo quanto la strada, il luogo perfetto per farsi tagliare i capelli da un vicino. Lo spazio dei roji è inutile, dicono alcune agenzie, e pericoloso - soggiungono i pianificatori urbani - perché è troppo stretto per permettere a polizia e vigili del fuoco di muoversi agilmente in caso di emergenza. E dunque, nessuno si sorprende quando, dalla notte al giorno, un buco come la bruciatura di una sigaretta si apre là dove prima c’erano due o tre case adiacenti, e dove adesso figura un parcheggio a ore, o una lavanderia, o un prefabbricato della Panasonic.
I roji popolano un mondo a parte, il luogo dove le storie non raccontate della città cercano un rifugio. Il problema, con queste storie, è che non parlano la lingua dei suoni, ma quella dei segni. E interpretare lo spazio dei segni può essere molto difficile, soprattutto quando il mondo attorno non vuole più vuoto, non vuole più tempo, non vuole più nulla che sia mottainai.
Interrogare una casa, un quartiere, una strada, ha bisogno di un certo tipo di investimento: passeggiate oziose, pause superflue in café nascosti, chiacchierate a casaccio con ragazzini che imparano ad andare in bicicletta. Stringendo amicizia con questo mondo discreto, ci si accorge che le case dei roji hanno una struttura peculiare: condividono le mura esterne e si allungano verso l’interno, passando gradualmente dalla luce all’oscurità. I giapponesi dicono che le nagaya, così si chiamano, hanno una pianta “a letto d’anguilla”. Per questo sono scomode, commentano alcuni, si vive sempre in penombra, ma questa penombra racconta una storia, quella delle famiglie di artigiani e commercianti dell’epoca Tokugawa. Troppo poveri per costruirsi una dimora individuale, affittavano per un prezzo più basso il retro di queste abitazioni, dove in una sola stanza dormivano, mangiavano, si radunavano per discutere. I più fortunati avevano a disposizione shōji per dividere gli ambienti; quelli che avevano successo potevano affittare la parte anteriore per usarla come bottega o laboratorio.
La particolarità di queste case è che, prima di essere abitate dagli uomini, sono abitate dagli dèi. Se è vero che tutta la città di Kyoto è permeata dai flussi geomantici, e anche vero che gli stessi flussi vengono considerati con grande cura nella pianificazione, collocazione ed edificazione di un’unità abitativa. Non solo: anche quando si deve decidere se comprare o affittare una struttura già costruita, non è raro che ci si rivolga a un indovino ben prima di iniziare le pratiche contrattuali. La divinazione tiene conto di una serie di elementi, tra cui l’anno di edificazione, l’orientamento, la posizione delle stanze (soprattutto quella dell’ingresso) e la presenza del kimon. Il kimon, o “portale dei demoni”, è l’angolo sfortunato, corrispondente alla congiuntura Nord-Est, un punto dove le energie protettive sono vulnerabili. Malattie, eventi tragici e demoni del malaugurio sfruttano il kimon per insinuarsi all’interno dell’ambiente domestico. Le camere da letto non vanno mai posizionate a nord-est, così come l’ingresso, che dovrebbe essere idealmente orientato verso Sud.
La stessa Kyoto segue questa regola: da millenni si protegge dal kimon attraverso il Monte Hiei, che fa da barriera, e i suoi templi posti come guardiani dalle energie negative. Tra le famiglie storiche della città, molti credono che sia questo il motivo per cui l’antica capitale è stata risparmiata dalla distruzione delle guerre recenti - o meglio, non risparmiata: protetta. Nelle abitazioni tradizionali, la porta dei demoni è chiusa da un piccolo recinto di sassi bianchi; un confine sottilissimo, ma di importanza vitale. E non è l’unica forma di protezione presente nell’abitazione. Un amuleto di carta è sempre posto accanto al focolare - anche quando questo ha assunto la forma di una modernissima cucina in grais - perché, come il kimon, quello è un punto vulnerabile, e non per le energie invisibili.
In una struttura fatta quasi interamente in legno, una fiamma fuori controllo può finire col distruggere non solo la singola abitazione, ma anche quelle adiacenti. Per questo - spiegano gli abitanti dei roji - due secchi colmi d’acqua sono sempre in attesa davanti all’uscio di ogni casa del quartiere. Nel bene e nel male, il fuoco assimila il destino di tutte le famiglie, senza distinzione di responsabilità, e questo gli abitanti di Kyoto lo hanno imparato a loro spese. La fiamma in una casa è il fumo in quella vicina e la scintilla in quella dopo ancora. I due secchi non rappresentano unicamente una rapida - e, ad occhi esterni, piuttosto ingenua - contromisura, ma la anche la stipula di una promessa sociale: se accadrà, saremo pronti a reagire insieme.
Il letto dell’anguilla, il portale dei demoni e due semplici secchi d’acqua: titoli di storie che si raccontano sempre meno. Ce ne sarebbero altre ancora, come quella di Shōki, il medico cinese che si suicidò a causa di un errore e che oggi protegge le dimore dei commercianti dalle malattie.
Oppure Hotei, il dio delle sette volte: sette anni, sette altezze, sette statuine conservate sopra la dispensa per attirare prosperità. Queste sono storie di dèi, e quindi, in fondo, storie di esseri umani. È possibile leggerle negli archivi, nei libri specialistici, qualche volta nei diari di famiglia gelosamente conservati. È possibile, ma non è per questo che sono nate: non sono storie fatte per essere lette, ma per essere vissute, per muovercisi dentro e per reinventarle nei segni che hanno lasciato.
A Matsubara, c’è una nagaya, l’ultima di un antico roji. I solchi nel pavimento della bottega sono stati incisi dagli arcolai che tessevano gli obi dei kimono; una colonna in legno nudo crea un arco col muro, disegnando i bordi di un tokonoma scomparso; un lungo corridoio piastrellato nasconde il sito del vecchio pozzo. Questa nagaya è una akiya, una casa vuota, una palpebra chiusa su un occhio addormentato. Le sue storie si stanno perdendo e probabilmente scompariranno dalla memoria degli abitanti quando verrà demolita. Ma, almeno per ora, la casa le ricorda. La casa le racconta.
Glossario: feng shui (風水): antico sistema geomantico basato sulla considerazione e il posizionamento di elementi naturali e artificiali, utilizzato per stabilire dove e come costruire una casa, un edificio e – in passato – una città.
Roji (路地): strade sottili la cui bocca d’ingresso ha una larghezza inferiore ai 2 metri. A Kyoto si pronunciano rooji.
Mochi (餅): dolcetti di pasta di riso morbida. Manshon (マンション): dall’inglese mansion, si riferisce a condomini multifamiliari in stile occidentale.
Mottainai (もったいない): letteralmente, “essere uno spreco/peccato”.
Jizō (地蔵): divinità venerata in apposite edicole installate sulle strade. Protettore di bambini e viaggiatori, gli è dedicata una festività che si tiene ad agosto, il Jizōbon.
Nagaya (長屋): tipologia di abitazione tradizionale tipica dell’urbano giapponese che si diffonde a partire dal Periodo Tokugawa. Ha una pianta sottile, “a letto d’anguilla” (unagi no nedoko), e condivide almeno un muro esterno con la casa adiacente.
Kimon (鬼門): letteralmente, “portale dei demoni”, l’angolo sfortunato del feng shui corrispondente alla congiuntura Nord-Est. Il suo contrario è detto urakimon.
Akiya (空き家): casa vuota, lasciata in stato di abbandono semipermanente.