1177 a.C. Il collasso della civiltà

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Presentazione Vennero dal mare. Sappiamo il loro nome e poco altro: li chamiamo «Popoli del Mare» e al loro arrivo caddero regni millenari e l’intera Civiltà del Bronzo collassò repentinamente. Dopo, seguirono solo lunghi secoli bui. L’Età del Bronzo era stata un’epoca di fiorenti commerci, di evoluzione tecnica e culturale, di rapporti diplomatici internazionali, di sottili equilibri politici. A lungo si è pensato che il mondo di tremila anni fa fosse un luogo primitivo, con un’economia ridotta su breve scala, ma gli ultimi decenni di scavi archeologici hanno invece portato alla luce un mondo incredibilmente organizzato e vasto, sorprendentemente simile al nostro, tanto da poterlo definire «globalizzato». Il quadro archeologico ci restituisce un’organizzazione solida e funzionale, che sembrava intramontabile, come la nostra, ma che cadde di schianto. Lo stagno, necessario per ottenere il bronzo delle armi e degli utensili, proveniva dall’Afghanistan, il rame da Cipro: come il petrolio di oggi, erano le merci più ambite, e sul loro commercio era fiorita un’intesa internazionale che coinvolgeva tutti i grandi imperi del Mediterraneo e della Mezzaluna fertile. I nomi dei regni antichi evocano avvenimenti lontani – Egizi, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Mitanni, Minoici, Micenei, Amorrei, Ugariti, Cretesi, Ciprioti, Cananei –, ma le loro vicende sono così «moderne» che la loro storia suona ormai come un monito rivolto al nostro mondo. Caduto il primo anello, caddero tutti gli altri, in pochi anni, e le fiere civiltà che avevano governato su porzioni enormi del


mondo conosciuto si sciolsero come neve al sole, lasciando poco o niente della loro millenaria esistenza, se non echi lontane nelle narrazioni della guerra di Troia e dell’esodo ebraico. Fu solo a causa dei misteriosi Popoli del Mare? No, solo in parte. Una congiuntura climatica sfavorevole, il collasso del mercato internazionale, rivolte interne, sciami sismici continui e altro ancora hanno creato la «tempesta perfetta» e estinto la più complessa e organizzata civiltà del mondo antico, così simile alla nostra. A raccontarci questa storia è Eric Cline, uno dei protagonisti degli scavi archeologici dell’Età del Bronzo. Il suo racconto ha una trama narrativa irresistibile, come un giallo dell’antichità, con racconti in presa diretta e flashback che rendono viva e palpabile una vicenda così antica, eppure terribilmente vicina alla nostra. Eric H. Cline è docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e Direttore del Capitol Archaeological Institute presso la George Washington University. Ha al suo attivo 30 campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti, tra le quali nove campagne presso il sito di Megiddo (l’Armageddon della Bibbia), in Israele, di cui codirige il sito archeologico, così come codirige il sito di Tel Kabri, nello stesso Paese. Ha vinto per ben tre volte il Premio «Best Popular Book on Archaeology» della Biblical Archaeological Society, è spesso apparso in televisione e in radio ed è prolifico autore di articoli scientifici e di libri divulgativi, tra i quali The Battles of Armageddon. Megiddo and the Jezreel Valley from the Bronze Age to the


Nuclear Age (2000), Jerusalem Besieged. From Ancient Canaan to Modern Israel (2004), From Eden to Exile. Unraveling Mysteries of the Bible (2007), Biblical Archaeology. A Very Short Introduction (2009) e The Trojan War. A Very Short Introduction (2013). 1177 a.C. è il suo primo libro tradotto in italiano.



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© 2014 Princeton University Press, Princeton Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo, elettronico o meccanico, compresa la fotocopia, la registrazione e qualsiasi sistema di archiviazione e reperimento di informazioni, senza un permesso scritto da parte dell’editore. Titolo originale 1177 BC. The Year Civilization Collapsed © 2014 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol L’editore è a disposizione degli aventi diritto dai quali non fosse stato possibile ottenere l’autorizzazione a pubblicare immagini di loro proprietà, e si dichiara pronto a regolare le intese economiche in base alle norme vigenti in materia di diritto d’autore. ISBN 978-88-339-7372-2 Immagine di copertina: Head of Zeus-Oromandes, a goddess and an eagle (photo), Greek (1st century BC) / photo © The Bridgeman Art Library Schema grafico della copertina: Noorda Design Prima edizione digitale novembre 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


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Saggi Storia, filosofia e scienze sociali


1177 a.C. Dedicato a James D. Muhly, che ha affrontato tutti questi problemi e li ha proposti ai suoi studenti per quasi mezzo secolo.


Prefazione L’economia della Grecia è piombata nel caos. Rivolte intestine stravolgono il volto di Libia, Siria ed Egitto e a fomentare la rivolta ci sono mercenari e truppe straniere. Come Israele, anche la Turchia teme di venire coinvolta. I rifugiati si accalcano nella terra di Giordania. L’Iran è minaccioso e sempre più agguerrito e l’Iraq si trova in uno stato di conflitto permanente. È il 2013 d.C.? Certo! Eppure la situazione era identica nel 1177 a.C., più di tremila anni fa, quando una dopo l’altra sono crollate le civiltà mediterranee dell’Età del Bronzo, cambiando per sempre il corso della storia e il futuro dell’Occidente. Si è trattato di un momento fondamentale, di una vera e propria svolta nel mondo antico. L’Età del Bronzo nell’Egeo, in Egitto e nel Medio Oriente è durata quasi duemila anni, dal 3000 a.C. circa al 1200 a.C., o poco dopo. Quando giunse alla fine, come puntualmente avvenne dopo secoli di evoluzione culturale e tecnologica, si verificò una fase di drammatico stallo per gran parte del mondo civilizzato del bacino del Mediterraneo, in un’area molto ampia, che comprende a ovest la Grecia e l’Italia e a est giunge sino all’Egitto, alla terra di Canaan (o Cananea) e alla Mesopotamia. Grandi imperi e piccoli regni, che avevano impiegato secoli a raggiungere il loro pieno sviluppo, si disgregarono rapidamente. Con il loro declino si giunse a un periodo di transizione, che per gli studiosi di un tempo coincise con i primi secoli bui della storia. Soltanto dopo centinaia di anni, in Grecia e nelle altre regioni interessate, emerse un nuovo rinascimento culturale, che costituì la base per l’evoluzione


della società occidentale come la conosciamo oggi. Anche se questo libro intende occuparsi del crollo delle civiltà dell’Età del Bronzo e dei fattori che lo hanno determinato più di tremila anni fa, può impartire insegnamenti preziosi alle società di oggi, globalizzate e transnazionali. Per molti è semplicemente assurdo tracciare un paragone valido tra il mondo della tarda Età del Bronzo e la nostra cultura, condizionata dalla tecnologia. Ma ci sono sufficienti tratti comuni tra le due civiltà (per esempio gli embargo commerciali e le missioni diplomatiche, i rapimenti e i riscatti, gli omicidi e i crimini di corte, i matrimoni sfarzosi e gli incresciosi divorzi, gli intrighi internazionali e la deliberata disinformazione in campo militare, il mutamento climatico, la siccità e la carestia, e perfino uno o due naufragi spettacolari) per pensare che uno sguardo più attento a eventi, popoli e luoghi di un’epoca che fiorì più di tre millenni orsono non è un semplice esercizio accademico di studio della storia antica.1 Nell’economia globale di oggi e in un mondo recentemente sconvolto da terremoti e tsunami in Giappone e dalle rivoluzioni democratiche della primavera araba in Egitto, Tunisia, Libia, Siria e Yemen, i capitali e gli investimenti degli Stati Uniti e dell’Europa sono inestricabilmente collegati a un sistema internazionale che coinvolge l’Oriente asiatico e i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente. Quindi potrebbe essere potenzialmente istruttivo uno studio attento delle vestigia di queste civiltà annientate più di tremila anni fa, ma che furono anch’esse interdipendenti e collegate l’una all’altra. Analizzare il «crollo» di una civiltà e stabilire confronti sull’ascesa e la caduta dei diversi imperi non è una pratica nuova; gli studiosi la applicano almeno dal XVIII secolo, quando


Edward Gibbon scrisse la sua opera sulla caduta dell’Impero Romano. Un esempio più recente è il libro di Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di vivere e di morire.2 Questi autori, tuttavia, hanno esaminato le modalità del declino di un singolo impero o di una singola civiltà: i Romani, i Maya, i Mongoli... Qui invece prendiamo in considerazione un sistema mondiale globalizzato, in cui civiltà diverse interagiscono e, almeno in parte, dipendono le une dalle altre. Sistemi globali di questo tipo hanno solo pochi esempi nella storia: in particolare risaltano quello della tarda Età del Bronzo e quello odierno, e sono appassionanti i paralleli che si possono stabilire tra i due (sarebbe più appropriato utilizzare la parola «paragoni»). Per fare solo un esempio, Carol Bell, una studiosa inglese, ha recentemente osservato che «l’importanza strategica dello stagno nella tarda Età del Bronzo ... non era probabilmente molto diversa da quella del greggio oggi».3 A quell’epoca lo stagno abbondava solo nelle miniere della regione del Badakhshan, in Afghanistan, e doveva essere trasportato via terra nei vari luoghi della Mesopotamia (odierno Iraq) e nel nord della Siria, da dove veniva poi distribuito nelle località più a nord, a sud o a ovest, comprese diverse destinazioni nel Mar Egeo. Bell continua: «La disponibilità di una quantità sufficiente di stagno per produrre ... armi di bronzo deve aver eccitato le menti del grande re a Hattuša e del faraone di Tebe, proprio come il rifornimento di gasolio erogato ai conduttori di SUV americani a costi ragionevoli preoccupa oggi il presidente degli Stati Uniti!»4 Susan Sherratt, un’archeologa dell’Ashmolean Museum di Oxford, ora all’università di Sheffield, ha iniziato a ragionare su un parallelismo simile una decina d’anni fa. Secondo la


studiosa, ci sono «autentiche preziose analogie» tra il mondo del 1200 a.C. e quello di oggi, tra cui una sempre maggiore frammentazione politica, sociale ed economica e un sistema di scambi diretti compiuto a «un livello sociale senza precedenti e su distanze senza precedenti». In particolare, la situazione alla fine della tarda Età del Bronzo presenta analogie con la nostra «economia e la nostra cultura globali e sempre più omogenee, ma incontrollabili, in cui ... le instabilità politiche in una parte del mondo possono influire in modo drammatico sulle economie di regioni che si trovano a migliaia di chilometri di distanza».5 Lo storico Fernand Braudel scrisse una volta: «La storia dell’Età del Bronzo avrebbe potuto facilmente essere scritta sotto forma di dramma: è gremita di invasioni, guerre, saccheggi, disastri politici e durevoli tracolli finanziari, oltre ai primi “scontri tra civiltà”». Ha anche suggerito che la storia dell’Età del Bronzo potrebbe essere scritta «non solo come una saga di tragedie e violenze, ma anche come la storia di rapporti positivi e favorevoli: commerciali, diplomatici (anche allora) e soprattutto culturali».6 Ho fatto tesoro dei suggerimenti di Braudel e quindi intendo presentare la storia (o piuttosto le storie) della tarda Età del Bronzo come se si trattasse di una commedia in quattro atti: c’è una trama e ci sono i flash-back necessari a far rivivere i contesti che introducono i protagonisti principali, da quando sono apparsi sulla scena del mondo a quando si sono congedati; dal re Tudhaliya degli Ittiti e Tushratta, sovrano del regno dei Mitanni, sino a Amenofi III di Egitto e Asser-uballit dell’Assiria (un glossario, con l’elenco dei personaggi del dramma, è riportato a fine volume, per coloro che desiderano tenere a mente i nomi e le date). La nostra storia sarà come una sorta di romanzo giallo, con


svolte e colpi di scena, falsi indizi e piste concrete. Per citare Hercule Poirot, il leggendario detective belga creato da Agatha Christie – che era tra l’altro sposata con un archeologo7 – dobbiamo usare le nostre «piccole cellule grigie» per intrecciare in un unico ordito le diverse prove alla base della nostra cronaca, tentando di capire perché un sistema internazionale stabile sia crollato di colpo, dopo aver prosperato per secoli. Però, per comprendere davvero che cosa si sia spezzato nel 1177 a.C. e perché si è trattato di un momento decisivo della storia antica, dobbiamo risalire a un’età precedente, proprio come, per capire le origini dell’attuale mondo globalizzato bisognerebbe risalire al XVIII secolo d.C. e partire dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione industriale e dalla nascita degli Stati Uniti d’America. Anche se mi interessa soprattutto esaminare le possibili cause del crollo della civiltà del bronzo nel bacino del Mediterraneo, vorrei sollevare la questione su ciò che il mondo effettivamente perse in quel momento cruciale, quando andarono in frantumi gli imperi e i regni del secondo millennio a.C., e in che misura la civiltà in questa porzione del pianeta è stata bloccata per secoli e si è irrimediabilmente alterata. L’ampiezza della catastrofe fu enorme; si trattò di una perdita che il mondo non aveva mai vissuto, finché non crollò l’Impero Romano, più di millecinquecento anni dopo.


Ringraziamenti Per molto tempo ho voluto scrivere un libro come questo e quindi i miei ringraziamenti calorosi vanno soprattutto a Rob Tempio, che ha permesso l’attuazione di questo progetto e ha poi contribuito attivamente all’avventura del manoscritto attraverso le consuete vicissitudini e poi verso la sua definitiva forma stampata. È stato molto paziente nell’attesa del manoscritto definitivo, in ritardo rispetto alla scadenza pattuita. Sono felice che questo volume sia stato il primo della collana Turning Point in Ancient History, pubblicata dalla Princeton University Press, sotto la direzione di Barry Strauss e Rob Tempio. Sono anche debitore del University Facilitating Fund della George Washington University per la sua borsa estiva e devo molto a numerosi amici e colleghi, tra i quali Assaf YasurLandau, Israel Finkelstein, David Ussishkin, Mario Liverani, Kevin McGeough, Reinhard Jung, Cemal Pulak, Shirly Ben-Dor Evian, Sarah Parcak, Ellen Morris e Jeffrey Blomster, con cui ho avuto appaganti conversazioni su argomenti appassionanti. Vorrei anche ringraziare Carol Bell, Reinhard Jung, Kevin McGeough, Jana Mynarova, Gareth Roberts, Kim Shelton, Neil Silberman e Assaf Yasur-Landau per aver inviato materiale su richiesta o fornito risposte dettagliate a domande specifiche, e Randy Helm, Louise Hitchcock, Amanda Podany, Barry Strauss, Jim West e due anonimi recensori, che hanno letto e commentato l’intero manoscritto. Grazie anche alla National Geographic Society, l’Oriental Institute dell’Università di Chicago, il Metropolitan Museum of Art e la Egypt Exploration


Society, che mi hanno permesso di riprodurre alcune delle illustrazioni che appaiono in questo volume. Molto del materiale in questo libro rappresenta una sintesi aggiornata e accessibile delle mie ricerche e delle mie pubblicazioni sulle relazioni internazionali della tarda Età del Bronzo, che sono apparse nel corso degli ultimi due decenni, oltre a presentare naturalmente la ricerca e le conclusioni di molti altri studiosi. Sentiti ringraziamenti vanno anche ai redattori e agli editori delle varie riviste e dei volumi editi in cui sono apparsi alcuni dei miei articoli, perché mi hanno permesso di riprodurre qui il materiale già raccolto, sebbene rimaneggiato e aggiornato. Mi riferisco in particolare a David Davidson di Tempus Reparatum/Archaeopress, come pure a Jack Meinhardt e la rivista «Archaelogy Odyssey»; James R. Mathieu e la rivista «Expedition»; Virginia Webb e l’«Annual of the British School at Athens»; Mark Cohen e la CDL Press; Tom Palaima e «Minos»; Robert Laffineur e la collana Aegaeum; Ed White a la Recorded Books/Modern Scholar; Garrett Brown e la National Geographic Society; e Angelo Chianiotis e Mark Chalavas, tra gli altri. Ho fatto ogni possibile tentativo di documentare chiaramente con le note e la bibliografia le pubblicazioni in cui possono trovarsi le discussioni anteriori dei dati presentati nel libro. Qualsiasi frase presa a prestito da altri, sia dalle mie precedenti pubblicazioni sia da quelle di altri studiosi, che sia rimasta non attribuita è del tutto non intenzionale e se necessario sarà rettificata nelle prossime edizioni. Infine, vorrei ringraziare mia moglie Diane, per le numerose, stimolanti discussioni sui temi trattati in questo libro. Tra i suoi altri contributi, mi ha iniziato al tema dell’analisi dei social


network e a quello della teoria della complessitĂ , e ha creato alcune delle immagini qui utilizzate. Vorrei ringraziare sia lei che i nostri figli per la loro pazienza mentre io lavoravo a questo libro. Come sempre, il libro ha tratto vantaggio dal lavoro di editing e dal feedback critico di mio padre, Martin J. Cline.



Figura 1 Mappa delle civiltà della tarda Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale.


Elenco delle illustrazioni e delle tabelle fig. 1. Mappa delle civiltà della tarda Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. fig. 2. I Popoli del Mare raffigurati come prigionieri a Medinet Habu. fig. 3. La battaglia navale contro i Popoli del Mare a Medinet Habu. fig. 4. Gli “asiatici” a Beni Hasan. fig. 5. La tomba di Rekhmira con l’immagine dei popoli egei. fig. 6. I colossi e la Lista egea di Amenofi III. fig. 7. Piastra di maiolica di Amenofi III rinvenuta a Micene. fig. 8. Rete delle relazioni sociali rislutanti dalle lettere di Amrana. fig. 9. Ricostruzione della nave di Uluburun. fig. 10. Lettere reali nell’archivio di Urtenu a Ugarit. fig. 11. I siti distrutti attorno al 1200 a.C. fig. 12. Astuccio d’avorio di Ramses III trovato a Megiddo. tab. 1. Regni egizi e mediorientali della tarda Età del Bronzo. tab. 2. Aree geografiche moderne e loro probabili nomi durante la tarda Età del Bronzo.


Prologo Il crollo delle civiltà: 1177 a.C. I guerrieri fecero la loro apparizione sulla scena del mondo e si eclissarono rapidamente, lasciando morte e distruzione al loro passaggio. Gli studiosi moderni hanno inventato per loro la definizione collettiva di «Popoli del Mare», ma gli Egizi, che hanno trascritto la cronaca del loro attacco all’Egitto, hanno invece identificato gruppi separati che agivano di concerto: i Peleset, i Tjekker, i Shekelesh, i Shardana, i Danuna e i Weshesh; nomi dall’accento straniero per genti che avevano le sembianze di stranieri.1 A prescindere dalle testimonianze degli Egizi, di loro sappiamo pochissimo. Non abbiamo alcuna certezza dell’origine dei Popoli del Mare: se ci si basa su una delle possibili ipotesi, forse provenivano dalla Sicilia, dalla Sardegna e dall’Italia, oppure dal Mar Egeo o dall’Anatolia occidentale, o addirittura da Cipro e dal Mediterraneo orientale.2 Non si è stati in grado di identificare nessun sito antico che segnasse il loro punto di partenza o di arrivo. Pensiamo che si spostassero continuamente da un luogo all’altro, invadendo al loro passaggio paesi e regni. Secondo i testi egizi, si installarono in Siria prima di scendere sulla costa di Canaan (che comprende una parte dell’odierna Siria, del Libano e di Israele) e intorno al delta del Nilo in Egitto. Era il 1177 a.C. Correva l’ottavo anno del regno del faraone Ramses III.3 Secondo gli antichi Egizi e secondo le più recenti prove archeologiche, alcuni Popoli del Mare provenivano dalla terra, altri dal mare.4 Non c’è traccia di uniformi né di utensili.


Antiche illustrazioni rappresentano un gruppo con copricapo piumato e un drappello che sfoggia turbanti, altri ancora indossavano elmetti muniti di corna o andavano a capo scoperto. Alcuni portavano barbe appuntite e altri si vestivano con corti gonnelli, a torso nudo oppure con una tunica, altri erano privi di barba e baffi e indossavano abiti piÚ lunghi. Da queste osservazioni si deduce che i Popoli del Mare comprendevano gruppi diversi, provenienti da zone geografiche diverse e da culture differenti. Armati di affilate spade di bronzo, di aste di legno con punte di metallo sfavillante e di archi e frecce, veleggiavano a bordo di navi o si spostavano su carri e bighe. Anche se il 1177 a.C. è la mia data chiave, sono consapevole del fatto che gli invasori giunsero a ondate successive nel corso di un lungo periodo. A volte i guerrieri arrivavano soli, altre volte erano accompagnati dalle famiglie.

Figura 2


I Popoli del Mare raffigurati come prigionieri a Medinet Habu (da Medinet Habu, vol. 1, fig. 44. Per gentile concessione dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago).

Secondo le iscrizioni di Ramses, nessun paese fu in grado di opporsi all’invasione di questa massa di uomini. La resistenza era inutile. Le grandi potenze dell’epoca – gli Ittiti, i Micenei, i Cananei, i Ciprioti e altri – caddero l’una dopo l’altra. Alcuni riuscirono a sfuggire al massacro, altri non poterono far altro che ammassare le rovine delle loro città, un tempo floride, altri ancora si unirono agli invasori e ne ingrossarono le fila, aggiungendo complessità all’orda di migranti. Forse era il desiderio di bottino o di schiavi ad attirarne alcuni; altri si trovarono costretti dalle pressioni di altre popolazioni a prendere la strada dell’Oriente partendo dalle loro terre occidentali. Sulle pareti del suo tempio, a Medinet Habu, vicino alla Valle dei Re, Ramses dichiara: I paesi stranieri hanno organizzato una cospirazione nelle loro isole. Immediatamente le terre sono state eliminate e le genti disperse nella mischia. Nessun paese era in grado di resistere di fronte alle loro armi, da Khatti, Qode, Karkemish, Arzawa e Alashiya si veniva [subito] eliminati. [Fu allestito] un accampamento in una località a Amurru. Costernavano la loro popolazione e la loro terra non era mai stata in un simile stato. Andarono verso l’Egitto, mentre di fronte a loro era posta la barriera del fuoco. La loro confederazione era Peleset, Tjekker, Shekelesh, Danuna e Washesh, paesi tra loro uniti. Misero mano su queste terre in tutto il perimetro conosciuto, con il cuore fiducioso e pieno di speranza.5 Sappiamo che queste località furono conquistate dagli


invasori, perché nell’antichità erano famose. Khatti è la terra degli Ittiti, situata sull’altopiano interno dell’Anatolia (l’antico nome della Turchia), vicino alla moderna Ankara, e il suo impero si estendeva dalla costa egea a ovest fino alle regioni della Siria settentrionale a est. Qode è probabilmente situata in quella che è ora la Turchia sud-orientale. Karkemish è un noto sito archeologico, dove sono stati compiuti i primi scavi almeno un secolo fa, da un’équipe di archeologi tra i quali vi erano Sir Leonard Wooley, più conosciuto per i suoi scavi nella «Ur dei Caldei» di Abramo, in Iraq, e T.E. Lawrence, che ebbe una formazione di archeologo classico a Oxford prima delle sue imprese leggendarie durante la Prima guerra mondiale, dopo la quale divenne il «Lawrence d’Arabia» celebrato da Hollywood. Arzawa era una terra familiare agli Ittiti, situata come avamposto dell’Anatolia occidentale. Alashiya potrebbe essere l’attuale isola di Cipro, ricca di metalli, famosa per i suoi giacimenti di rame. Amurru era situata sulla costa della Siria settentrionale. Visiteremo una per una tutte queste località in un secondo tempo, raccontando le loro storie. I sei specifici gruppi etnici che hanno costituito i Popoli del Mare durante questa ondata di invasioni (i cinque gruppi citati sopra da Ramses nell’iscrizione di Medinet Habu e un sesto gruppo chiamato Shardana, citato in un’altra importante iscrizione) hanno origini assai più oscure delle terre da loro conquistate. Non hanno lasciato iscrizioni proprie e, dal punto di vista testuale, sono noti quasi esclusivamente in base alle epigrafi egizie.6 Gran parte di questi gruppi, inoltre, non ha riscontro archeologico, malgrado i molti sforzi di archeologi e filologi del secolo scorso per decifrarne le tracce linguistiche e poi, più


recentemente, nell’esame di vasellame, terrecotte e altri resti archeologici. I Danuna, ad esempio, sono stati a lungo identificati con i Danai di Omero, un popolo dell’Età del Bronzo dell’Egeo. Si pensa che i Shekelesh provenissero dalla Sicilia e i Shardana dalla Sardegna, basandosi in parte sulle somiglianze consonantiche delle due parole, in parte sulle iscrizioni di Ramses, che li definisce «popoli stranieri» che fecero una cospirazione «nelle loro isole» (i Shardana, in particolare, nelle iscrizioni di Ramses sono chiamati gente «del mare»).7 Tuttavia non tutti gli studiosi accettano queste indicazioni ed esiste un’intera scuola di pensiero che suggerisce che i Shekelesh e i Shardana non provenissero dal Mediterraneo occidentale, ma fossero originari del Mediterraneo orientale. Forse giunsero in Sicilia e in Sardegna in un secondo tempo, dando il loro nome a queste terre solo dopo essere stati sconfitti dagli Egizi. Conforta questa tesi il fatto che si sa che i Shardana lottarono sia a fianco sia contro gli Egizi, molto prima dell’arrivo dei Popoli del Mare. La smentisce invece l’iscrizione di Ramses III, il quale afferma di aver insediato proprio in Egitto i sopravvissuti dell’esercito invasore.8 Di tutti i gruppi stranieri attivi sulla scena, solo uno è stato identificato con certezza. I Peleset dei Popoli del Mare coincidono quasi senza dubbio con i Filistei, che, secondo la Bibbia, provenivano da Creta.9 L’identificazione linguistica sembra ovvia, tanto più che Jean-François Champollion, colui che decifrò i geroglifici egizi, lo aveva già ipotizzato prima del 1836, e la tendenza a considerare di provenienza «filistea» gli stili di terrecotte, l’architettura e gli altri resti archeologici era già iniziata nel 1899, con gli esponenti dell’archeologia biblica


che lavoravano a Tell es-Safi, il sito biblico di Gath.10 Anche se non sappiamo con precisione né le origini né le motivazioni degli invasori, conosciamo invece il loro aspetto; vediamo i loro nomi e i loro volti sulle pareti del tempio mortuario di Ramses III a Medinet Habu. Questo antico sito è ricco di pitture murali e contiene una serie impressionante di testi geroglifici. In queste rappresentazioni sono visibili con chiarezza le armature degli invasori, le loro armi, gli abiti, le imbarcazioni e i carri trainati da buoi, carichi di merci: sono immagini talmente dettagliate che gli studiosi hanno addirittura pubblicato analisi sui singoli individui e sulle imbarcazioni raffigurate in queste scene.11 Ci sono anche scenari più drammatici. Uno mostra stranieri ed Egizi impegnati in una caotica battaglia navale; alcuni soldati galleggiano a fior d’acqua, ormai cadaveri, mentre altri combattono coraggiosamente dalle loro imbarcazioni. Sin dagli anni venti del Novecento, le iscrizioni e le scene di Medinet Habu sono state studiate e copiate scrupolosamente dagli egittologi dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago. L’istituto era, ed è ancora, uno dei centri più importanti al mondo per lo studio delle civiltà antiche dell’Egitto e del Medio Oriente. James Henry Breasted lo aveva fondato al suo ritorno da un epico viaggio in Medio Oriente nel 1919 e nel 1920, con cinquantamila dollari di capitale iniziale offerti da John D. Rockefeller Jr. Gli archeologici dell’OI (acronimo di Oriental Institute) hanno da allora compiuto scavi in tutto il Medio Oriente, dall’Iran all’Egitto e oltre.


Figura 3 La battaglia navale contro i Popoli del Mare a Medinet Habu (da Medinet Habu, vol. 1, fig. 37. Per gentile concessione dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago).

Molto è stato scritto su Breasted e sul progetto OI, che esordì sotto la sua guida con gli scavi di Megiddo (l’Armageddon biblica) in Israele, dal 1925 al 1939.12 Tra i lavori più significativi ci sono le indagini epigrafiche condotte in Egitto, dove gli egittologi hanno faticosamente ricopiato i testi geroglifici e l’iconografia dei templi e dei palazzi dei faraoni in tutto il territorio. Trascrivere i geroglifici scolpiti sulle mura di pietra e sui monumenti è un lavoro monotono ed estenuante. Comporta ore di fatica, e i trascrittori di solito rimangono sotto il sole cocente, appollaiati su lunghe scale o sospesi su impalcature, concentrati su simboli molto deteriorati scritti su portali, templi e colonne. Ma i risultati sono inestimabili, soprattutto dopo che molte delle iscrizioni hanno subito danni a causa delle erosioni o dell’incuria dei turisti. Se queste iscrizioni non fossero state trascritte, inevitabilmente per le generazioni future sarebbero andate perdute. I risultati delle trascrizioni di Medinet Habu sono stati pubblicati in una serie


di volumi, il primo dei quali è stato dato alle stampe nel 1930 e i successivi negli anni quaranta e cinquanta del Novecento. Anche se il dibattito accademico rimane acceso, la maggioranza degli esperti concorda sul fatto che le battaglie per terra e per mare dipinte sulle pareti di Medinet Habu furono con ogni probabilità combattute quasi contemporaneamente in tutto il delta egiziano e nelle regioni circostanti. È possibile che rappresentino un’unica grande battaglia, che avvenne sia per mare sia per terra. Alcuni studiosi hanno suggerito che si trattasse di imboscate ai danni dell’esercito dei Popoli del Mare, colti di sorpresa dagli Egizi.13 In ogni caso, l’esito finale non è in discussione. A Medinet Habu il faraone egizio dice con chiarezza: Raggiunsero forse la frontiera delle mie terre, ma non il loro seme, e i loro cuori e le loro anime sono finiti per sempre e definitivamente. Coloro che vennero insieme al di là del mare avevano una fiamma abbacinante davanti a loro alla foce del fiume, e un’intera barriera di lance li circondava sulla riva. Furono trascinati sulla spiaggia, accerchiati e ridotti alla prostrazione, uccisi e ridotti a brandelli dalla testa ai piedi. Le navi si inabissavano e le merci cadevano in acqua. Feci in modo che queste terre evitassero (perfino) di citare l’Egitto: perché quando pronunciano il mio nome nelle loro terre, vengono bruciati all’istante.14

In un famoso documento noto come «papiro Harris», Ramses continua, nominando i suoi nemici sconfitti: Ho sconfitto coloro che li hanno invasi dalle loro terre. Ho ucciso i Danuna [che sono] nelle loro isole, i Tjekker e i Peleset furono inceneriti. I Shardana e i Weshesh del mare furono trasformati in coloro che non esistono, presi prigionieri, portati in Egitto come schiavi, come la sabbia della riva. Li ho insediati in baluardi legati al mio nome. Numerose erano le loro classi come centomila. Ho tassato ogni anno tutti loro, in stoffa e cereali dai magazzini e granai.15


Non era la prima volta che gli Egizi combattevano contro un esercito collettivo di «Popoli del Mare». Trent’anni prima, nel 1207 a.C., durante il quinto anno del regno del faraone Merenptah, un’analoga coalizione formata da questi gruppi di origine sconosciuta aveva già attaccato l’Egitto. Agli studiosi dell’antico Medio Oriente, Merenptah è noto soprattutto come il faraone che per primo utilizzò il termine «Israele» in un’iscrizione, risalente allo stesso anno (1207 a.C.). Questa iscrizione è il primo contesto in cui viene citato il nome di Israele fuori dalla Bibbia. Nell’epigrafe faraonica, il nome, scritto con un segno speciale per indicare che si tratta di un popolo e non di un luogo, appare nella breve descrizione di una campagna militare nella regione di Canaan, dove era stanziato il popolo che egli chiama «Israele».16 Le frasi in questione fanno parte di una lunga iscrizione che descrive le battaglie di Merenptah contro i Libici, che vivevano a occidente dell’Egitto. A concentrare quell’anno l’attenzione di Merenptah erano stati più i Libici e i Popoli del Mare, dunque, che non gli Israeliti. In un testo trovato nel sito di Eliopoli, datato «Anno 5, secondo mese della terza stagione (decimo mese)», viene detto: «Lo sciagurato capo della Libia ha invaso [con i] Shekelesh e ogni paese straniero che è con lui, per violare le frontiere dell’Egitto».17 La stessa dicitura è ripetuta in un’altra iscrizione, nota come «la colonna del Cairo».18 In un’iscrizione più lunga, trovata a Karnak (l’attuale Luxor), sono forniti ulteriori dettagli su questa prima ondata di incursioni da parte dei Popoli del Mare. Sono inclusi i nomi di gruppi specifici: [Iniziando dalla vittoria che sua maestà ha ottenuto nella terra di Libia] Eqwesh, Teresh, Lukka, Shardana,


Shekelesh, Popoli del nord che provengono da tutte le terre ... la terza stagione, dicendo: Lo sciagurato, decaduto capo della Libia ... è piombato sul paese di Tehenu con i suoi arcieri Shardana, Shekelesh, Eqwesh, Lukka, Teresh, che hanno preso il meglio di ogni guerriero e ogni uomo del suo paese... Ecco una lista di prigionieri di queste terre di Libia e dei popoli che il capo della Libia portò con lui: Sherden, Shekelesh, Eqwesh delle terre del mare, che non hanno prepuzio; Shekelesh, 222 uomini Il che crea 250 mani Teresh 742 uomini il che crea 790 mani Shardana – [Il che crea] – [Ek]wesh che non hanno prepuzio, ammazzati, le cui mani furono mozzate (perché) essi non hanno [prepuzio] – Shekelesh e Teresh che vennero come nemici dalla Libia – Kehek e Libici che portarono 218 uomini come prigionieri viventi.19

In queste iscrizioni sono evidenti numerosi elementi. Innanzitutto cinque gruppi, anziché sei, hanno costituito questa prima ondata di Popoli del Mare: i Shardana (o Sherden), i Shekelesh, gli Eqwesh, i Lukka e i Teresh. I Shardana e i Shekelesh parteciparono a quest’invasione e anche a quella avvenuta durante il regno di Ramses III, ma per gli altri tre gruppi le cose andarono diversamente. Inoltre, i Shardana, i Shekelesh e gli Eqwesh sono identificati come «provenienti dai paesi del mare», mentre i cinque gruppi complessivamente sono considerati «popoli del nord che provenivano da tutte le terre». Quest’ultimo fattore non sorprende, perché la maggioranza delle terre con cui i nuovi regni egiziani erano in contatto (tranne la Nubia e la Libia) si trovavano a nord dell’Egitto. Il fatto di definire i Shardana e i Shekelesh «Popoli del Mare» rinforza invece l’idea che possano essere collegati rispettivamente a Sardegna e Sicilia. Il fatto che gli Eqwesh provenissero dalle «terre del mare» ha spinto alcuni studiosi a identificarli con gli Achei di Omero,


cioè i Micenei dell’Età del Bronzo della Grecia continentale, che Ramses III due decenni prima, nelle sue iscrizioni sui Popoli del Mare, identificava forse con i Danuna. Per quanto riguarda gli ultimi due nomi, gli studiosi generalmente considerano i Lukka in riferimento ai popoli provenienti dalla Turchia sud-occidentale, nella regione che nell’età classica sarà chiamata Licia. L’origine dei Teresh è incerta, ma potrebbe essere collegata agli Etruschi dell’Italia.20 Da queste iscrizioni apprendiamo ben poco e restiamo con un’idea generica circa il luogo della battaglia (o delle battaglie). Merenptah dice soltanto che la vittoria «fu raggiunta nella terra della Libia», che più avanti identifica con «la terra di Tehenu». Tuttavia, chiaramente Merenptah rivendica la vittoria, dal momento che fa un elenco dei soldati nemici uccisi e fatti prigionieri, uomini e «mani». La pratica generale dell’epoca era quella di tagliare le mani di un nemico ucciso, come prova della propria attendibilità e in vista degli onori per la vittoria. Recentemente è anche stata trovata una testimonianza raccapricciante di questa pratica, dal periodo Hyksos in Egitto, circa quattrocento anni prima dell’epoca di Merenptah: si tratta di sedici mani destre sepolte in quattro fosse e rinvenute nel palazzo degli Hyksos ad Avaris, sul delta del Nilo.21 In ogni caso, non sappiamo se tutti i membri dei Popoli del Mare furono uccisi o se qualcuno sopravvisse, ma è certo che numerosi gruppi ritornarono con la seconda invasione, trent’anni dopo. Nel 1177 a.C., come già nel 1207 a.C., gli Egizi uscirono vittoriosi. I Popoli del Mare non ritornarono in Egitto una terza volta. Ramses si vantava che il nemico era stato «sopraffatto e


annientato nella sua terra». «I loro cuori» scrisse «sono stati strappati; la loro anima è volata via: le armi sono state disperse in mare».22 Ma fu una vittoria di Pirro. Anche se l’Egitto sotto Ramses III fu l’unica grande potenza a resistere con successo agli assalti dei Popoli del Mare, il Nuovo Regno d’Egitto non ritrovò mai l’antica prosperità, probabilmente anche a causa delle nuove difficoltà che tutto il bacino del Mediterraneo dovette affrontare, come vedremo in seguito. Per il resto del secondo millennio a.C., i faraoni successivi si accontentarono di governare su un paese che aveva perso prestigio e potere. L’Egitto diventò un impero di seconda categoria, una semplice ombra di quello che era stato in passato. Fu solo all’epoca del faraone Shoshenq, un libico che nel 945 a.C. circa fondò la Ventiduesima Dinastia (e che coincide probabilmente con il faraone Shishak della Bibbia),23 che l’Egitto rifiorì, in un sembiante dell’antico splendore. Accanto all’Egitto, di colpo o nel corso di poco più di un secolo, si avviarono al declino e uscirono di scena quasi tutti gli altri paesi e le altre potenze del secondo millennio a.C. dell’Egeo e del Medio Oriente (i protagonisti degli anni d’oro di quella che ora noi chiamiamo la tarda Età del Bronzo). Alla fine fu l’intera civiltà a essere spazzata via su un’ampia porzione di quest’area geografica. Furono vanificati molti dei progressi e delle conquiste dei secoli precedenti (se non addirittura tutti) in un vastissimo territorio, che si estendeva dalla Grecia alla Mesopotamia. Cominciò una nuova epoca di transizione: un periodo che durò almeno un secolo e, in alcune regioni, anche tre secoli. Non c’è ormai dubbio alcuno sul fatto che, in tutte queste terre, fu il terrore a prevalere negli ultimi drammatici giorni


dei regni in declino. Un caso esemplare è riportato in una tavoletta d’argilla, sulla quale è incisa una lettera del re di Ugarit, nel nord della Siria, indirizzata al re dell’isola di Cipro: Padre mio, ora sono arrivate le navi del nemico. Hanno messo a fuoco le mie città e hanno portato distruzione alla mia terra. Non sa forse mio padre che tutta la fanteria e i carri da combattimento stazionano a Khatti, e che tutte le navi sono ferme nella terra di Lukka? Non sono ancora ritornati, quindi il paese è prostrato. Mio padre sia consapevole di questo. Ora le sette navi del nemico che hanno attraccato ci recano danno. Se arrivano in porto altre navi nemiche, mandatemi un resoconto, in modo che io possa essere informato.24 Non si sa se la tavoletta d’argilla abbia mai raggiunto il suo destinatario a Cipro. Gli archeologi che l’hanno trovata hanno pensato che la lettera non fosse in effetti mai stata spedita. Originariamente si disse che era stata ritrovata in una fornace, con altre settanta tavolette, dove sembra fosse stata messa per essere cotta, e poter sopportare meglio il difficile viaggio verso Cipro.25 I responsabili degli scavi e altri studiosi in un primo tempo avevano ipotizzato che le navi nemiche fossero ritornate e avessero saccheggiato la città, prima ancora che potesse essere avanzata la richiesta d’aiuto. Questa è la storia che da allora è stata ripetuta nei libri di testo per un’intera generazione, ma oggi gli studiosi hanno dimostrato che la tavoletta non è stata affatto trovata in una fornace. Anzi, come vedremo, si trattava probabilmente della copia di una lettera originale che, in ogni caso, era stata effettivamente recapitata a Cipro. Gli studiosi di prima generazione hanno attribuito ai Popoli


del Mare la responsabilità di tutte le distruzioni avvenute in questo periodo.26 Tuttavia, sembra un po’ esagerato accusarli della fine dell’Età del Bronzo. In questo modo si dà loro un credito eccessivo, e non abbiamo prove sufficienti, a parte i testi e le iscrizioni egizie, i quali, in ogni caso, ci lasciano solo impressioni vaghe e contraddittorie. È proprio vero che i Popoli del Mare hanno occupato il Mediterraneo orientale con forze militari organizzate, come una delle Crociate più disciplinate del Medioevo, impegnata a conquistare la Terra Santa? Non si trattava piuttosto di un gruppo di predatori, poco organizzato o organizzato male, come furono più tardi i Vichinghi? O erano invece rifugiati che fuggivano il disastro e cercavano asilo in nuove terre? Per quel che ne sappiamo, la verità potrebbe comportare una combinazione di tutto o di niente di quel che abbiamo appena detto. Bisogna considerare ora la messe di nuovi dati che si sono resi disponibili negli ultimi decenni.27 Non siamo affatto certi che tutti i luoghi in cui ci sono prove sicure di distruzione siano stati rasi al suolo dai Popoli del Mare. In base alle testimonianze archeologiche possiamo dire che un sito è stato distrutto, ma non sempre sappiamo da chi e come. Inoltre, i vari siti non sono sempre stati annientati simultaneamente e neppure nello stesso decennio. Come vedremo, il loro progressivo deterioramento è avvenuto nel corso di molti decenni e forse di un secolo intero. Anche se non conosciamo con certezza la causa (o tutte le cause) del crollo del mondo dell’Età del Bronzo in Grecia, in Egitto e nel Medio Oriente, l’autorevolezza delle prove oggi disponibili suggerisce che non siano da condannare unicamente i Popoli del Mare. Sembra più verosimile che nel


crollo delle civiltà essi siano stati vittime nella stessa misura in cui sono stati aggressori.28 Un’ipotesi suggerisce che furono costretti a lasciare la loro patria in seguito a una serie di sfortunati eventi, per emigrare verso Oriente, dove trovarono regni e imperi già in declino. È anche possibile che siano riusciti ad attaccare e poi conquistare i paesi di questo vasto territorio proprio perché si trattava di monarchie già in difficoltà, in uno stato di palese debolezza. Da questa prospettiva, i Popoli del Mare sarebbero allora semplicemente degli opportunisti, come li ha definiti uno studioso: potrebbero essersi insediati nel Mediterraneo orientale in modo molto più pacifico di quanto si sia pensato in un primo tempo. Nelle pagine che seguono considereremo dettagliatamente queste possibilità. Ciononostante, la ricerca accademica per decenni ha visto nei Popoli del Mare un comodo capro espiatorio, cui si accollava le responsabilità di una situazione di per sé molto più complessa. La tendenza ora si sta invertendo, e molti studiosi hanno recentemente osservato che la «storia» dell’ondata catastrofica di distruzione indiscriminata e di migrazione dei Popoli del Mare è stata creata ad hoc, già negli anni sessanta e settanta del XIX secolo e poi consolidata nel 1901 da studiosi come Gaston Maspero, il famoso egittologo francese. Si trattava di una teoria basata esclusivamente sulle prove epigrafiche, molto prima che fossero compiuti gli scavi nelle località distrutte. In realtà, perfino gli studiosi che seguirono l’eredità di Maspero non concordavano sulla provenienza e la destinazione dei Popoli del Mare; alcuni pensavano che fossero arrivati nel Mediterraneo occidentale solo dopo essere stati sconfitti dagli Egizi, e non viceversa.29


Secondo la concezione attuale, come vedremo, i Popoli del Mare probabilmente sono stati responsabili solo di una parte della distruzione che avvenne alla fine dell’Età del Bronzo. È molto più probabile che a creare «la tempesta perfetta» che portò alla fine di quest’epoca agì una concomitanza di eventi, sia umani sia naturali, tra i quali un cambiamento climatico, un periodo di siccità e una serie di disastri sismici noti come «terremoti seriali» (earthquake storm). Tuttavia, per comprendere appieno l’importanza di questi eventi, che si situano attorno al 1177 a.C., abbiamo deciso di fare un passo indietro e cominciare la narrazione trecento anni prima. Tabella 1 Regni egizi e mediorientali della tarda Età del Bronzo menzionati nel testo, ordinati per paese/regno in ordine cronologico. Secolo

Egizi

Ittiti

Assiri

XVIII

Babilonesi

Mitanni

Ugarit

Hammurabi

XVII

Altri Zimri-Lim (Mari)

Hattušili I Muršili I

XVI

Seqenenra

Khyan (Hyksos)

Kamose

Apofi (Hyksos)

Ahmose I Thutmose I Thutmose II XV

Hatshepsut

Tudhaliya I/II

Saushtatar

Kukkuli (Assuwa)

Thutmose III XIV

XIII

Amenofi III

Šuppiluliuma AdadI nirari I

Kurigalzu I

Akhenaton

Muršili II

Kadashman- Tushratta Enlil I

Assuruballit

Tutankhamon

BurnaBuriash II

Ay

Kurigalzu II

Ramses II

Muršili II

Tukulti- Kashtiliashu Ninurta

Shuttarna II

Ammistamru Tarkhundaradu I (Arzawa) Niqmaddu II

Shattiwaza Niqmepa

Niqmepa

Shaushgamuwa (Amurru)


(segue) Merenptah

Ninurta I

(segue)

Muwattalli II

Ammistamru II

Hattušili III

Niqmaddu III

Tudhaliya IV

Ammurapi

(Amurru)

Šuppiluliuma II XII

Ramses III

Šuppiluliuma II (segue)

Ammurapi (segue)

ShutrukNakhunte (Elam)

Tabella 2 Aree geografiche moderne e loro probabili nomi durante la tarda Età del Bronzo. Area

Nome antico n. 1

Nome antico n. 2

Cipro

Alashiya

Terraferma greca

Tanaja

Ahhiyawa

Creta

Keftiu

Caphtor (Kaptaru)

Troia/Troade

Assuwa (?)

Isy (?)

Canaan

Pa-ka-na-na

Retenu

Egitto

Miṣraim

Nome antico n. 3

Hiyawa

Wilusa


1. Atto I Armi e uomini: il XV secolo a.C. Verso l’anno 1477 a.C., nella città di Peru-nefer, sul delta del Nilo, nel Basso Egitto, molto vicino alle rive del Mar Mediterraneo, il faraone Thutmose III ordinò la costruzione di un grande palazzo ornato da affreschi molto elaborati. Per dipingere gli affreschi furono ingaggiati artisti minoici provenienti dalla lontana Creta, che si trovava a ovest, nel Grande Verde (come era chiamato il Mediterraneo). Dipinsero immagini mai viste prima in Egitto (strane scene di uomini che si issavano su tori) con il colore applicato sull’intonaco ancora fresco: uno stile al fresco, in modo che i colori diventavano parte della parete stessa. Si trattava di una tecnica e di un’iconografia che in tutta evidenza era stata appresa a Creta, nell’Egeo. Le immagini dipinte in questo modo erano di moda non solo in Egitto, ma anche in palazzi che si trovavano un po’ dappertutto sulla costa, dalla terra settentrionale di Canaan fino al delta dell’Egitto, in luoghi oggi noti come Kabri in Israele, Alalakh in Turchia, Qatna in Siria e Dab’a in Egitto.1 Peru-nefer, la città sul delta, può essere identificata con la moderna Tell ed-Dab’a. È un sito dove, sin dal 1966, l’austriaco Manfred Bietak e la sua équipe dirigono i loro scavi archeologici. La città in passato era nota come Avaris, capitale degli Hyksos, i temuti invasori dell’Egitto, che governarono gran parte del paese dal 1720 circa al 1550 a.C. Dopo la sua conquista da parte dell’antenato di Thutmose, il faraone egizio Kamose, verso il 1550 a.C., Avaris fu ribattezzata Peru-nefer, e divenne una metropoli egizia di grande importanza.


Nella sua impresa di scavo di una splendida città del passato, ora sepolta da metri di sabbia e di detriti, Bietak, in quattro decenni, ha riportato alla vita sia la capitale degli Hyksos sia l’antica metropoli egizia. Sono stati anche trovati gli straordinari affreschi dipinti dai Minoici, o forse da artigiani locali formati presso la scuola minoica, che datano all’inizio della Diciottesima Dinastia (circa nel 1450 a.C.).2 È un ottimo esempio di quel mondo internazionale che cominciava a crearsi nel Mediterraneo orientale e nell’Egeo dopo l’espulsione degli Hyksos dall’Egitto. Una pausa: ritorno agli Hyksos Gli Hyksos avevano invaso l’Egitto per la prima volta nel 1720 a.C., un quarto di millennio prima dell’epoca di Thutmose III, e vi erano rimasti per circa duecento anni, fino al 1510 a.C. All’epoca della loro invasione, l’Egitto era una delle potenze più stabili del Medio Oriente antico. Le piramidi di Giza, costruite durante la Quarta Dinastia, nel periodo dell’Antico Regno, esistevano già da mille anni. Manetho, un sacerdote egizio che visse e scrisse durante il più tardo periodo ellenistico nel III secolo a.C., identificava gli Hyksos con i «re pastori», una traduzione errata della frase egizia hekau khasut, che in realtà significa «capi di terre straniere». Stranieri lo erano davvero, perché gli Hyksos erano semiti, migrati in Egitto dalla terra di Caanan, l’ampia regione oggi occupata da Israele, Libano, Siria e Giordania. Vediamo immagini di questi semiti in Egitto già nel XIX secolo a.C., per esempio nella pittura murale di un sepolcro egizio a Beni Hasan, dove sono rappresentati mercanti e commercianti «asiatici» che importavano le loro merci nel


paese.3 L’invasione degli Hyksos provocò la caduta del Regno Medio (2134-1720 a.C. circa). Il loro successo fu probabilmente il risultato di un vantaggio nella tecnologia militare e nella capacità di sferrare l’attacco iniziale: possedevano infatti archi perfezionati in grado di lanciare le frecce molto più lontano degli archi tradizionali. Avevano anche carri condotti da cavalli, di cui non c’era ancora l’equivalente in Egitto. Dopo la conquista, gli Hyksos governarono l’Egitto, soprattutto dalla capitale Avaris, sul delta del Nilo, durante il cosiddetto Secondo periodo intermedio (dinastie quindicidiciassette) per quasi duecento anni, dal 1720 al 1550 a.C.4 È uno dei pochi momenti, tra il 3000 e il 1200, in cui l’Egitto fu retto da stranieri. Storie e iscrizioni con una data approssimativamente vicina a questo periodo – circa il 1550 a.C. – raffigurano alcune delle battaglie che erano state combattute tra gli Egizi e gli Hyksos. In particolare abbiamo una storia che riferisce di un disaccordo tra due governanti, La disputa tra Apofi e Seqenenra. In questa narrazione, quasi sicuramente apocrifa, il re hyksos Apofi si lamenta di essere stato tenuto sveglio per una notte intera a causa del rumore di un ippopotamo che si trovava in uno stagno del re egizio Seqenenra, che regnava in questo stesso periodo, ma in un’altra parte dell’Egitto. La rimostranza era assurda perché parecchie centinaia di miglia separavano le due corti reali; una si trovava nell’Alto Egitto e l’altra nel Basso Egitto. Il re hyksos non poteva aver sentito l’ippopotamo, indipendentemente da quanto forte gridasse.5 Tuttavia, la mummia di Seqenenra è stata ritrovata dagli archeologi e, dalle ferite sul suo cranio, causate da un’ascia da combattimento, è


chiaro che morì in battaglia. Si trattava della battaglia con gli Hyksos? Non lo sappiamo con certezza; tuttavia è possibile che Apofi e Seqenenra combatterono l’uno contro l’altro, che si sia trattato o meno a causa dell’ippopotamo.

Figura 4 Gli «asiatici» a Beni Hasan (da Newberry 1893, tavv. XXX/XXXI. Per gentile concessione della Egypt Exploration Society).

Abbiamo anche un’iscrizione che risale al faraone Kamose, l’ultimo re della Diciassettesima Dinastia. All’epoca, Kamose governava dalla sua dimora a Tebe, nell’Alto Egitto. Egli fornisce dettagli sulla vittoriosa battaglia finale contro gli Hyksos, che definisce «asiatici», scrivendo quanto segue, nel 1550 a.C.: Navigavo a nord nel pieno della mia forza per respingere gli Asiatici ... con il mio coraggioso esercito che era davanti a me come una fiamma di fuoco e ... con gli arcieri in prima linea per distruggere le loro postazioni ... Ho trascorso la notte sulla mia nave, con l’animo sereno; e quando si levò il giorno fui sopra di lui come un


avvoltoio. Quando fu il momento della colazione, riuscii a sopraffarlo distruggendo le sue mura e massacrando il suo popolo, e obbligai sua moglie a scendere sulla riva del fiume. Gli uomini del mio esercito agirono come un leone con il bottino ... oggetti, bestiame, grasso, miele ... spartendosi i possessi con animo lieto.

Kamose parla anche del destino di Avaris: Per quanto riguarda Avaris sui Due Fiumi, la devastai senza gli abitanti; distrussi le loro città e bruciai le case fino a renderle per sempre rovine incandescenti, a causa della distruzione che avevano portato nel mezzo dell’Egitto; essi avevano accettato di rispondere alla richiesta degli Asiatici, (che) avevano lasciato all’Egitto le loro donne!6

Con questo gli Egizi espulsero gli Hyksos dalla loro terra, e loro ritornarono a Retenu (uno degli antichi nomi egizi della Siria e di Israele attuali, la stessa grande area nota anche agli Egizi come Pa-ka-na-na, ovvero Canaan). Gli Egizi, nel frattempo stabilirono la Diciottesima Dinastia, iniziata da Ahmose, figlio di Kamose, che inaugurò quello che noi chiamiamo il periodo del Nuovo Regno. Avaris e il resto dell’Egitto furono ricostituiti durante questo periodo e Avaris stessa fu ribattezzata. All’epoca di Hatshepsut e Thutmose III, circa sessanta anni dopo – nel 1500 a.C. – era di nuovo una città prospera, conosciuta con il nome di Perunefer, ornata di palazzi decorati in stile minoico, con rappresentazioni di battaglie con i tori e altre scene evidentemente più abituali a Creta che sul delta del Nilo. Un archeologo ha ipotizzato addirittura un matrimonio regale, che avrebbe avuto luogo tra un re egizio e una principessa minoica.7 Esistono sicuramente numerosi faraoni della Diciottesima e Diciannovesima Dinastia che hanno sposato principesse straniere, soprattutto per cementare legami diplomatici o per trattare con una potenza straniera, come


vedremo, ma, per spiegare la presenza delle pitture murali minoiche in Egitto, non è necessario evocare matrimoni combinati a livello politico, dal momento che c’è un’altra prova, del tutto indipendente, che attesta i contatti tra Mediterraneo orientale, Egitto e, in questo caso, l’Egeo. Un flashback: la Mesopotamia e i Minoici Da una grande quantità di dati, dagli artefatti archeologici e dalle testimonianze testuali e pittoriche, è chiaro che i Minoici di Creta erano già stati in contatto con diverse aree del Medio Oriente antico molto prima dei rapporti stabiliti con i faraoni del Nuovo Regno egizio. Ad esempio abbiamo trovato oggetti e manufatti di stile minoico che erano stati trasportati nel XVIII secolo a.C., quasi quattromila anni fa, attraverso il Mar Egeo e il Mediterraneo orientale fino alla Mesopotamia, la terra tra i due fiumi, Tigri ed Eufrate. La documentazione di questo antico commercio è stata trovata nell’antico sito di Mari, sul lato occidentale del fiume Eufrate, in quella che è ora la moderna Siria, dove, negli anni trenta, gli archeologi francesi hanno portato alla luce un patrimonio di più di ventimila tavolette d’argilla. Gli archeologi erano stati portati su quel sito dagli abitanti del luogo che, accidentalmente, avevano trovato quello che a prima vista era parso un uomo senza testa e che poi si era rivelato essere una statua di pietra, una delle tante presenti nel sito, con un’iscrizione che la identificava come il re dell’antica città di quel luogo.8 Le tavolette, incise con testi scritti in antico accadico, provenivano da un archivio di corrispondenze reali e altre cronache più mondane che appartenevano ai re di Mari,


tra i quali è particolarmente importante Zimri-Lim, che governò nel 1750 a.C. circa. Riferiscono ogni sorta di informazioni pertinenti all’amministrazione del palazzo e all’organizzazione del regno, come pure aspetti della vita quotidiana dell’epoca. Una tavoletta riguarda il ghiaccio che Zimri-Lim utilizzava per le sue bevande estive, a base di vino, birra e bibite d’orzo fermentate, addolcite con succo di melograno o con un tipo di anice simile alla liquerizia. Sappiamo che aveva ordinato che venisse costruita una casa del ghiaccio sulle rive dell’Eufrate, che doveva essere utilizzata specificamente per immagazzinare il ghiaccio raccolto durante l’inverno sulle montagne innevate, per poterlo poi utilizzare nei caldi mesi estivi. Ribadiva che nessun re in precedenza aveva mai costruito qualcosa di simile e può darsi che avesse ragione; tuttavia è bene ricordare che l’uso del ghiaccio nelle bevande non era nuovo nella regione, come dimostra il fatto che un re dovette rammentare a suo figlio di far pulire il ghiaccio ai servitori prima di metterlo nelle bevande: «Ordina loro di andare a prendere il ghiaccio. Digli di lavarlo e di nettarlo dagli sterpi, dallo sterco e dalla sporcizia!».9 Gli archivi di Mari contengono una ricca quantità di rapporti commerciali e di cronache che testimoniano i contatti con altre regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente, con particolare menzione degli articoli esotici che venivano importati. Da queste tavolette sappiamo che c’era l’abitudine di scambiare doni tra i sovrani di Mari e quelli delle altre città e degli altri regni, e che i re condividevano tra loro i servizi di medici, artigiani, tessitori, musicisti e cantanti.10 Tra gli oggetti esotici importati, registrati sulle tavolette di Mari, c’era una daga e altre armi in oro, incastonate di


lapislazzuli preziosi, come pure stoffe e tessuti «fatti alla moda di Caphtor».11 Caphtor (o Kaptaru) era il nome mesopotamico e cananeo per Creta, che gli Egizi più tardi avrebbero chiamato Keftiu. Gli articoli avevano compiuto un lungo percorso da Creta, acquisendo quello che oggi si chiama «valore aggiunto della distanza», che si somma al valore effettivo determinato dalla manodopera e dal materiale di costruzione. Abbiamo anche una tavoletta che registra una situazione anomala, in cui è scritto che Zimri-Lim, re di Mari, mandò da Creta un paio di scarpe di fattura minoica in dono al re Hammurabi di Babilonia. Il testo dice semplicemente «Un paio di scarpe di cuoio nello stile di Caphtor, che Bahdi-Lim (un ufficiale) portò al palazzo di Hammurabi, re di Babilonia, ma che venne restituito».12 Non sono spiegati i motivi per cui le scarpe furono restituite. Forse molto semplicemente non calzavano al piede del sovrano. Il codice di Hammurabi – che è il primo a contenere il detto «occhio per occhio, dente per dente», più tardi reso famoso nel Vecchio Testamento – non cita pene particolari per la restituzione di regali. È tuttavia alquanto sorprendente che Hammurabi abbia rifiutato il paio di scarpe di cuoio, indipendentemente dal fatto che calzassero o meno, perché è probabile che all’epoca fossero rare e inusuali nelle sue terre, considerata la distanza tra Creta e la Mesopotamia, che è poi la stessa che c’è ora tra la Grecia moderna e la Siria/Iraq. Un viaggio del genere sicuramente non veniva fatto alla leggera e certamente veniva compiuto per tappe, con mercanti o commercianti diversi che trasportavano le merci per tratte successive del viaggio. D’altra parte, lo scambio di doni tra i sovrani dello stesso rango era una pratica corrente nel Medio Oriente del secondo millennio a.C.13 In


questi casi, gli articoli erano portati direttamente da emissari del re, in quelle che oggi si chiamerebbero missioni diplomatiche. I Minoici: scoperta e descrizione Da quanto detto sopra, è chiaro che i Minoici di Creta erano in contatto con numerose terre del Medio Oriente antico durante l’Età del Bronzo media e tarda, almeno a partire dal 1800 a.C. Nelle lettere di Mari c’è perfino menzione dei Minoici e di un probabile interprete minoico (o un interprete per i Minoici), presente sul sito di Ugarit, nel nord della Siria, nella prima metà del XVIII secolo a.C., in cui si riceveva lo stagno che da Mari era inviato a ovest.14 Tuttavia, sembra che ci sia stata una relazione particolare con l’Egitto all’inizio del XV secolo, durante l’epoca di Hatshepsut e poi di Thutmose III: è il motivo per cui intendiamo cominciare da questo punto preciso. La civiltà minoica è stata così battezzata dall’archeologo Sir Arthur Evans all’inizio del Novecento. Non sappiamo con certezza come essi chiamassero se stessi, anche se sappiamo che gli Egizi, i Cananei e i popoli mesopotamici avevano tutti un nome per definirli. Non sappiamo neppure da dove provenissero, ma le nostre supposizioni propendono soprattutto per l’Anatolia. Sappiamo che fondarono una civiltà a Creta durante il terzo millennio a.C., che durò fino al 1200 a.C. Verso la metà di questo periodo, nel 1700 circa, l’isola fu sconvolta da un terremoto devastante, che rese necessaria la ricostruzione dei palazzi a Cnosso e in altre località. Ma i Minoici si ripresero in fretta e prosperarono ancora come civiltà indipendente, fino a


quando, a partire dal continente greco, i Micenei invasero l’isola nella seconda metà del secondo millennio; da quel momento Creta continuò sotto il governo miceneo, fino a quando tutto crollò, nel 1200 a.C. Sir Arthur Evans cominciò gli scavi archeologici a Creta dopo aver scoperto la fonte delle cosiddette galopetres, «pietre di latte», che aveva trovato al mercato di Atene. Le donne greche che avevano partorito o stavano per partorire indossavano queste «pietre di latte», che portavano inciso un simbolo che Evans non aveva mai visto prima, ma che riconobbe come un segno di scrittura. Le si faceva risalire a un sito sepolto di Cnosso (la collina di Kefala), vicino all’attuale Heraklion, a Creta – un sito che Heinrich Schliemann, che diresse gli scavi di Troia, aveva cercato inutilmente di acquistare per operarvi uno scavo. Evans riuscì a comprare la terra e cominciò a scavare nel marzo del 1900. Continuò a scavare per i decenni seguenti, consumando tutto il proprio patrimonio personale per realizzare il suo progetto, pubblicando alla fine i suoi risultati in una grandiosa opera di svariati volumi, The Palace of Minos at Knossos.15 Aiutato dal suo fidato assistente scozzese Duncan Mackenzie,16 Evans portò ben presto alla luce quello che sembrava essere un palazzo reale. Senza indugio battezzò la civiltà da poco scoperta «minoica», dal re Minosse della leggenda greca, che si dice governò Creta nei tempi antichi (leggenda che è completata da un Minotauro – mezzo uomo e mezzo toro – nelle profondità sotterranee e labirintiche del palazzo). Evans trovò numerose tavolette di argilla e altri oggetti, con segni di scrittura, sia in Lineare A (non ancora decifrata) sia in Lineare B (una prima forma di scrittura greca,


probabilmente portata a Creta dai Micenei), ma non scoprì mai il nome vero di questo popolo che, come abbiamo già detto, rimane ancora oggi sconosciuto, a dispetto di più di un secolo di scavi assidui, non solo a Cnosso, ma anche in numerosi altri siti di Creta.17 A Cnosso, Evans portò alla luce numerosi oggetti importati dall’Egitto e dal Medio Oriente, come un coperchio in alabastro che aveva inciso il seguente geroglifico: «Il buon dio, Seweserense, figlio di re, Khyan».18 Khyan, uno dei più noti re Hyksos, aveva governato durante i primi anni del VI secolo a.C. I suoi oggetti personali sono stati trovati un po’ dappertutto nel Medio Oriente antico, ma come questo coperchio sia giunto a Creta è ancora un mistero. Di grande interesse è anche un vaso egizio di alabastro trovato molti anni dopo, nel corso di un altro scavo archeologico in una tomba del sito di Katsamba, a Creta, una delle città portuali della costa settentrionale collegate a Cnosso. Vi è iscritto il nome regale del faraone Thutmose III, «il dio buono Menkheper-re, figlio di re, Thutmose perfetto nelle trasformazioni». È uno dei pochi oggetti con il suo nome che sono stati rinvenuti nell’Egeo.19 Tucidide, storico greco del V secolo a.C., sosteneva che i Minoici in quel periodo avevano una flotta e dominavano i mari (Tucidide, Guerra del Peloponneso, 1,3-8). Per gli studiosi precedenti, questa dominazione era nota come «talassocrazia minoica», da kratia che significa potere, comando, e thalassos, che significa mare. Anche se la supremazia navale minoica viene ora rimessa in discussione, ci sono citazioni che riguardano «navi Keftiu» nei resoconti egizi, ma non è chiaro se si trattasse di navi cretesi, oppure dirette a Creta o, ancora,


costruite alla maniera minoica.20 Il successore di Evans nella direzione degli scavi, John Devitt Stringfellow Pendlebury, era molto interessato ai possibili rapporti tra l’Egitto e Creta; aveva diretto gli scavi del sito egizio di Amarna (la capitale di Akhenaton, di cui parleremo ancora), oltre che a Cnosso. Pendlebury pubblicò infine una monografia sull’argomento, intitolata Aegyptiaca, in cui raccoglieva ed elencava tutti gli oggetti di importazione egizia trovati a Cnosso e altrove sull’isola. Purtroppo fu poi ucciso dalle truppe paramilitari tedesche, durante l’invasione di Creta nel 1941.21 Evans e Pendlebury trovarono altri oggetti importati a Cnosso, e nei decenni seguenti divenne sempre più evidente che i Minoici erano stati attivi sia nell’importazione sia nell’esportazione, creando un’industriosa rete commerciale con molte regioni straniere oltre all’Egitto. Per esempio, sono stati trovati in diversi siti di Creta sigilli cilindrici provenienti dalla Mesopotamia e grosse anfore per lo stoccaggio di alimenti provenienti dalla regione di Canaan, in contesti relativi alla media e tarda Età del Bronzo. Terrecotte di foggia minoica e altri oggetti rifiniti (o perlomeno riferimenti a essi) sono stati trovati in diverse località di Egitto, Israele, Giordania e Cipro, e ancora fino alla Siria e all’Iraq. Torniamo all’Egitto Dobbiamo rammentare che le merci menzionate rappresentano soltanto una piccola parte di quelle che si trovavano un tempo a bordo delle navi che solcavano il Mediterraneo: molti dei prodotti commerciati durante la tarda


Età del Bronzo erano infatti deperibili ed è impossibile che abbiano lasciato resti identificabili. Cereali, vino, spezie, profumi, legno e tessuti non hanno praticamente lasciato traccia. I materiali grezzi come l’avorio, le pietre preziose come i lapislazzuli, l’agata e la corniola, e metalli come l’oro, il rame e lo stagno, erano trasformati in oggetti, armi e gioielli. Quindi quasi tutte le prove materiali delle rotte commerciali e dei contatti internazionali sono andate perdute, si sono dissolte o comunque sono scomparse. Ma talvolta esiste ancora un cenno all’esistenza di derrate deperibili nei testi scritti o nelle raffigurazioni pittoriche che sono sopravvissute fino a noi. Le pitture, le iscrizioni e i riferimenti letterari sono tracce meno labili per capire i rapporti tra i popoli, ammesso che siano interpretati in modo corretto. Per testimoniare concretamente l’esistenza di una fitta rete diplomatica, commerciale e mercantile nel XVI e XV secolo a.C., le pitture trovate in molte tombe egizie hanno un valore inestimabile; spesso rappresentano popoli stranieri dell’epoca delle monarchie dei faraoni dei nuovi regni, da Hatshepsut ad Amenofi III.22 Durante il regno di Hatshepsut, nel XV secolo a.C., fu costruita la prima tomba nelle cui pitture murali fa la sua comparsa il popolo egeo. In questi affreschi sono raffigurati i Minoici, spesso accompagnati da oggetti e iscrizioni che dimostrano inequivocabilmente la provenienza da Creta. Per esempio, nella tomba di Senemut, architetto, consigliere e forse amante di Hatshepsut, è messa in scena una missione di Egei: sei uomini trasportano vasi di metallo di manifattura chiaramente identificabile.23 In un altro dipinto, nella tomba di Rekhmira, visir di Thutmose III (1450 circa a.C.), vediamo uomini vestiti con i tipici


gonnellini

in

stile

egeo,

che

trasportano

oggetti

inequivocabilmente provenienti da quell’area. Vicino a questi personaggi c’è un’iscrizione parzialmente intatta: «Vengono in pace dai capi di Keftiu e dall’“Isola in mezzo al mare”, si inchinano e abbassano il capo alla potenza di Sua Maestà il re dell’Alto e del Basso Egitto».24 Si tratta della rappresentazione di una delegazione egea in Egitto, una delle tante che sono state dipinte nelle tombe egizie di questo periodo.

Figura 5 La tomba di Rekhmira con l’immagine dei popoli egei (da Davies 1943, tav. XX. Per gentile concessione del Metropolitan Museum of Art).

Le popolazioni egee non sono le uniche a essere raffigurate nella tomba di Rekhmira; in altre scene, sia nella parte superiore sia in quella inferiore, sono rappresentati emissari dalla terra di Punt, dalla Nubia e dalla Siria, ciascuno con la


propria iscrizione. Per quanto non sia stato provato, sembra che rappresentino un avvenimento significativo che ebbe luogo durante il regno di Thutmose III: i delegati o i mercanti dall’Egeo sono solo alcuni esempi della folla multinazionale che si era riunita o che era stata convocata. In questo caso forse di tratta della festa di Sed, celebrata per la prima volta dal faraone dopo trent’anni di regno, e in seguito in modo irregolare; nel caso di Thutmose III, sappiamo che indisse almeno tre di queste grandi festività, il che non è sorprendente, visto che regnò per cinquantaquattro anni.25 In tutto, ci sono circa quattordici tombe risalenti al regno di Hatshepsut o a quello di Thutmose III, che appartenevano tutte a ufficiali e consiglieri di alto rango; nelle pitture vengono rappresentate delegazioni di stranieri che visitano l’Egitto, tra cui abitanti dell’area dell’Egeo, della Nubia, della regione di Canaan, e tutti esibiscono prodotti stranieri.26 Nelle nove tombe che risalgono più specificamente all’epoca di Thutmose III, spesso vediamo raffigurazioni di stranieri che offrono doni diplomatici, presentano i tributi di prammatica o partecipano alla spedizione regale che Thutmose III mandò in Libano con l’ordine di acquistare un cedro.27 Keftiu, uomini di Keftiu e navi di Keftiu sono nomi che, a partire da questo periodo, vengono citati in una miriade di altri contesti, come le iscrizioni su templi e le annotazioni su papiri di area egizia. Tra i più interessanti c’è un papiro del trentesimo anno del regno di Thutmose (il 1450 a.C. circa) che cita numerose «navi di Keftiu», riferendosi all’importazione di materiale per la flotta egizia. «Dato all’artigiano [nome dell’uomo] questo legname da copertura per una “nave di Keftiu” su sua commissione» e «Dato all’artigiano Ina per


l’altra ... “nave di Keftiu”».28 Analogamente, un’iscrizione su un muro del tempio di Amon a Karnak, del trentaquattresimo anno di Thutmose III, cita di nuovo le «navi di Keftiu».29 Anche se non si sa con certezza se queste navi provenivano da Keftiu (cioè se erano navi minoiche) oppure se erano dirette a Keftiu (e quindi erano navi egizie), è chiaro che, all’epoca di Thutmose III, esistevano contatti, probabilmente diretti, tra la Creta minoica e il Nuovo Regno d’Egitto. Grazie ai venti prevalenti, un’imbarcazione a vela (che sia oggi o 3400 anni fa) può viaggiare con relativa facilità dalle rive meridionali di Creta fino a Marsa Matruh sulla costa settentrionale dell’Egitto, e da qui nel delta del Nilo. Il viaggio di ritorno, invece, considerati i venti contrari e le correnti avverse, non è facile, ma in alcuni periodi dell’anno è possibile. Era anche possibile veleggiare con un moto antiorario, dirigendosi dall’Egitto alla terra di Canaan e a Cipro, poi in Anatolia e a Rodi, e da qui a Creta, alle isole Cicladi e alla terraferma greca, per poi ritornare di nuovo a Creta e proseguire verso sud, alla volta dell’Egitto. Dal dipinto e dall’iscrizione nella tomba di Menkheperreseneb, primo profeta di Amon,30 è chiaro che gli Egizi conoscevano l’esistenza dei membri della casa reale minoica e li consideravano di pari rango rispetto a quelli di altri paesi stranieri. Sulle pareti della tomba contempliamo il «principe di Keftiu» (Creta) in compagnia del principe degli Ittiti (dall’Anatolia), il principe di Tunip (probabilmente in Siria) e il principe di Qadeš (in Siria). Il titolo utilizzato per definire i personaggi, wr, che significa «principe» o «capo», è lo stesso in tutti i casi.31 Il dipinto suggerisce le visite in Egitto di membri della casa reale in varie circostanze, forse anche in


un’occasione molto speciale. Erano giunti tutti nello stesso periodo (forse si tratta di una prospettiva diversa sullo stesso avvenimento dipinto nella tomba di Rekhmira) oppure in momenti separati? Non possiamo esserne sicuri, ma è interessante considerare la possibilità che i grandi protagonisti della tarda Età del Bronzo si fossero uniti in occasione di un grande evento in Egitto, proprio come i dignitari si riuniscono oggi per un matrimonio della casa reale inglese o per una conferenza del G8. Lo stesso termine wr (principe o capo) è anche usato altrove da Thutmose III, all’inaugurazione del quarantaduesimo anno dei suoi Annali, dove cita il «principe di Tanaja», la parola egizia per il continente greco. C’è anche una lista degli oggetti che provenivano dall’Egeo, compreso un vaso d’argento dell’artigianato di Keftiu e quattro ciotole con manici d’argento. È assai interessante il fatto che vengono chiamati inw, un termine di solito tradotto come «tributo», ma che probabilmente in questo contesto significa «dono».32 Essere impegnati in una «normale» attività commerciale potrebbe essere stato considerato inadeguato per la dignità del re, mentre scambiarsi dei «doni» con i propri pari (o quasi pari) era perfettamente accettabile. Ne discuteremo nel prossimo capitolo, quando parleremo del commercio internazionale che, nel XIV secolo a.C., veniva travestito da scambio di doni. Hatshepsut e Thutmose III Il regno di Hatshepsut, appena precedente a quello di Thutmose III, aveva rapporti non solo con l’Egeo, ma anche con altre regioni del Medio Oriente antico. Fu Hatshepsut, la più


giovane figlia di Thutmose I e lei stessa faraone, che inaugurò la Diciottesima Dinastia aprendo la strada ai rapporti globalizzati e che, servendosi della diplomazia anziché della guerra, impose il prestigio egizio a livello internazionale. Era figlia del faraone Thutmose I e della regina Ahmose, quindi possedeva sangue reale, anche se il padre raggiunse lo statuto regale soltanto tramite il matrimonio. Hatshepsut sposò il suo fratellastro, Thutmose II, in un matrimonio combinato inteso ad aiutare il ragazzo, il quale aveva sangue reale soltanto per metà, perché sua madre non era regina, bensì donna di corte di rango minore. Il matrimonio con Hatshepsut gli accordò una legittimità maggiore di quella che avrebbe potuto raggiungere altrimenti. Dall’unione nacque una figlia ma non un figlio, il che avrebbe potuto avere conseguenze disastrose per la dinastia. Thutmose II generò tuttavia un maschio con una delle donne del suo harem, e il bambino venne educato come Thutmose III, destinato a seguire il padre sul trono. Quando Thutmose II morì accidentalmente, il figliolo non aveva ancora l’età per governare da solo. Hatshepsut quindi diventò temporaneamente reggente in suo nome. Quando giunse il momento di restituirgli il trono, rifiutò di farlo e governò per più di vent’anni, mentre Thutmose III aspettava dietro le quinte (probabilmente con impazienza).33 Durante questi due decenni, Hatshepsut cominciò a indossare la tradizionale falsa barba faraonica, altri accessori di prammatica e vestiti maschili, con un’armatura per dissimulare il seno e gli attributi femminili. La trasformazione si può vedere nelle statue che la celebrano, erette a Deir el-Bahari, il suo tempio mortuario. Cambiò anche il nome, prendendone uno con una desinenza maschile anziché femminile, per cui diventò


«Sua Maestà Hatshepsu».34 In altre parole governò come un uomo, un vero faraone maschio, non semplicemente come una reggente. Come risultato, ora è considerata una delle donne più illustri dell’antico Egitto, assieme a Nefertiti e Cleopatra. Sembra che Hatshepsut non si sia mai sposata dopo la morte di Thutmose II, ma probabilmente il suo assistente e architetto Senemut fu il suo amante; si trova una sua effigie incisa, forse in segreto, sul tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari, di cui egli stesso aveva diretto il progetto di costruzione.35 Questa sovrana eccezionale è associata a spedizioni commerciali pacifiche inviate in Fenicia (il moderno Libano), alla ricerca di legname, e nel Sinai, alla ricerca di rame e di turchesi,36 ma la delegazione più celebre fu quella inviata alla terra di Punt durante il suo nono anno di regno, il cui resoconto è iscritto sulle pareti di Deir el-Bahari. Gli studiosi non conoscono la localizzazione esatta della terra di Punt, ancora oggetto di discussioni. Alcuni eminenti accademici la situano da qualche parte nella regione tra Sudan, Eritrea ed Etiopia, mentre altri la collocano altrove, di solito lungo le coste del Mar Rosso, nella regione dove si trova l’odierno Yemen.37 La spedizione di Hatshepsut non fu la prima a essere organizzata dall’Egitto alla terra di Punt, né sarebbe stata l’ultima. Molte furono preparate durante il periodo del Medio Regno, e più tardi, verso la metà del XIV secolo a.C., anche Amenofi III mandò una sua delegazione. Tuttavia soltanto nella cronaca di Hatshepsut è raffigurata la regina di Punt, chiamata «Eti», secondo l’iscrizione che l’accompagna. L’effigie della regina straniera ha provocato molti commenti a causa della sua bassa statura, della colonna vertebrale incurvata, dei rotoli di grasso e del sedere imponente, descrizione che corrisponde


alla steatopigia (condizione del corpo in cui l’addome è abbondante e le natiche e le cosce massicce e sporgenti). Ci sono anche palme, animali esotici e altri dettagli che sottolineano la lontananza e ci sono immagini delle navi che trasportano gli Egizi alla terra di Punt e ritorno, complete di alberi maestri e di tutte le attrezzature. Nel trentatreesimo anno del suo regno, un po’ dopo il 1450 a.C., Thutmose III mandò una delegazione alla terra di Punt, come è debitamente registrato nei suoi Annali; un’altra spedizione nella stessa regione venne inviata nell’anno 38.38 Ci sono alcuni esempi, tra cui le spedizioni che inviò in Libano per comperare dei cedri, da cui possiamo dedurre l’esistenza di un fiorente commercio tra l’Egitto e una regione straniera durante il regno di Thutmose III, e sospettiamo che gran parte del «tributo» (inw) raffigurato nelle scene di nobili del suo regno fosse in realtà un commercio vero e proprio. Tra le regioni remote con cui parrebbe che l’Egitto fosse in relazione commerciale sotto Thutmose III e dalle quali egli registrò di avere ricevuto inw in tre diverse occasioni, c’era una regione nota agli Egizi come Isy, che probabilmente può essere identificata con la coalizione di città-stato situata nell’Anatolia nord-occidentale (la moderna Turchia) e nota come Assuwa, oppure con l’Alashiya, il nome con cui era chiamata Cipro nell’Età del Bronzo. Gli scribi di Thutmose citano Isy almeno quattro volte in diverse iscrizioni, accompagnata dall’appellativo Keftiu: «Ti lascerò far colpo sull’Occidente, Keftiu e Isy sono impressionati e voglio che vedano Sua Maestà come un giovane toro, coraggioso di cuore, con corna affilate, a cui non ci si può avvicinare».39 Negli Annali della sua nona campagna, nell’anno 34 (1445 a.C.), si


dice che il «Capo di Isy» abbia portato inw che consistevano in materiali grezzi: rame puro, blocchi di piombo, lapislazzuli, zanne d’avorio e legname. Analogamente, nel resoconto della sua tredicesima campagna, nell’anno 38 (1441 a.C.), apprendiamo che il «Principe di Isy» portò inw che consistevano in rame e cavalli e, nella descrizione della sua quindicesima campagna, nell’anno 40 (1439 a.C.), si dice che il «Capo di Isy» portava inw che consistevano di quaranta blocchi di rame, un blocco di piombo e due zanne d’avorio. Molti erano articoli tipici, trovati spesso tra gli scambi di doni preziosi in Medio Oriente durante l’Età del Bronzo».40 L’Egitto e Canaan alla battaglia di Megiddo, 1479 a.C. Di recente ha potuto finalmente essere identificata la mummia di Hatshepsut, che si trovava in una tomba nota come KV60 (per «King Valley», Valle dei Re, tomba 60), invece che nel suo sepolcro personale (KV20), che è situato in un altro punto della valle. Hatshepsut fu una delle poche donne a essere sepolte in questa valle riservata all’élite, di solito destinata ai re maschi d’Egitto. Se la mummia identificata è davvero quella di Hatshepsut, allora durante la vecchiaia soffrì di obesità, di problemi ai denti e fu malata di cancro.41 Quando infine morì, nel 1480 a.C. circa, Thutmose III, che è sospettato di non essere estraneo alla sua morte, non perse tempo per prenderne il posto e, nel suo primo anno di governo si impegnò con risolutezza in varie guerre. Tentò anche di cancellare il nome di Hatshepsut dalla storia, ordinando che i suoi monumenti fossero sconsacrati e il suo nome rimosso dalle iscrizioni ovunque possibile.


Quando Thutmose III cominciò la sua prima campagna di guerra – la prima di diciassette, che sferrò in più di vent’anni – riuscì letteralmente a farsi mettere nei libri di storia. Infatti l’itinerario e i dettagli del suo viaggio e delle sue conquiste del 1479 a.C. furono scorporati dai diari giornalieri tenuti lungo il percorso e incisi per la posterità sulle mura del tempio di Amon a Karnak, in Egitto. La battaglia che combatté a Megiddo (che più tardi diventò celebre con il nome di Armageddon) contro i ribelli locali della terra di Canaan è la prima battaglia che conosciamo i cui dettagli sono stati trascritti e resi noti, a vantaggio di coloro che non erano presenti. La cronaca sulle iscrizioni indica che Thutmose III ordinò la marcia delle truppe dall’Egitto verso nord per dieci giorni, sino a una località di nome Yehem. Qui si fermò per tenere un consiglio di guerra e decidere come meglio procedere contro la città fortificata di Megiddo e contro gli accampamenti temporanei, occupati dai capi cananei locali, i quali, quando era salito al trono, avevano dato inizio a una ribellione. Da Yehem c’erano tre modi per raggiungere Megiddo: un sentiero a nord, che portava alla valle di Jezreel in vicinanza a Yokneam; una strada a sud, che si apriva nella valle di Jezreel vicino a Ta’anach e un’ultimo percorso centrale, che terminava proprio a Megiddo.42 I suoi generali, secondo la cronaca scritta, suggerirono di prendere la strada a nord o quella a sud, perché esse erano più ampie e meno esposte a un’eventuale imboscata. Thutmose rispose che queste tattiche erano quelle che i Cananei si aspettavano; non avrebbero mai creduto che lui fosse così stupido da prendere la strada centrale, poiché era stretta e rischiosa. Ma proprio perché di questo i Cananei erano


convinti, decise di condurre le truppe per la strada centrale, sperando di coglierli di sorpresa; e fu esattamente quello che accadde. Gli Egizi, praticamente in fila indiana, impiegarono quasi dodici ore per raggiungere la pista centrale (nota, nelle varie epoche storiche, come Wadi Ara, Nathal Iron o Passo di Musmus), ma ne uscirono senza danni e non trovarono nessuno che sorvegliasse né Megiddo né l’accampamento temporaneo che lo circondava. L’esercito cananeo era concentrato a Yokneam, a nord, e a Ta’anach, a sud, proprio come Thutmose III aveva previsto. L’unico errore compiuto da Thutmose III fu quello di permettere ai suoi uomini di fermarsi a saccheggiare i campi nemici prima di conquistare la città. Fu un errore che lasciò il tempo di chiudere le porte della città ai pochi difensori di Megiddo, quasi tutti anziani, donne e bambini. Iniziò così un assedio prolungato, che durò più di sette mesi prima che gli Egizi fossero in grado di conquistare la città. Circa tremilaquattrocento anni dopo, il generale Edmund Allenby si servì della stessa tattica di Thutmose III, nel settembre 1918, durante la Prima guerra mondiale, con lo stesso esito positivo. Vinse la battaglia di Megiddo e fece prigionieri centinaia di soldati tedeschi e turchi senza lasciare vittime sul terreno, tranne alcuni dei suoi cavalli. Più tardi riconobbe che il fatto di aver letto la traduzione inglese di James Breasted della cronaca di Thutmose lo aveva spinto a decidere di ripetere l’esperienza. George Santayana disse una volta che coloro che non studiano la storia sono condannati a ripeterla, ma Allenby ha dimostrato che anche l’opposto può essere vero: coloro che studiano la storia possono ripeterla con successo, se scelgono di farlo.43


Egizi e Mitanni Thutmose III fece anche campagne militari nel nord della Siria, contro il regno dei Mitanni, che si era formato in quella regione verso il 1500 a.C., quando il suo antenato Thutmose I aveva già combattuto contro di loro.44 Il regno dei Mitanni continuava a espandersi e ad assimilare le regioni circostanti, come il regno degli Hurriti di Hanigalbat. Di conseguenza, era noto con nomi diversi, in base all’epoca e alle persone che avevano scritto o parlato di esso. In linea generale gli Egizi lo chiamavano «Naharin» o «Naharina»; gli Ittiti lo chiamavano «la terra di Hurri»; gli Assiri lo chiamavano «Hanigalbat»; mentre i re locali vi si riferivano come regno dei «Mitanni». La sua capitale, Waššukanni, non è mai stata trovata. È una delle poche capitali antiche del Medio Oriente che sono sfuggite agli archeologi, malgrado gli indizi seducenti sia nei resoconti degli studiosi sia nei testi antichi. Alcuni pensano che potrebbe essere situata nel tumulo di Tell al-Fakhariyeh in Siria, a est dell’Eufrate; malgrado i numerosi tentativi, però, non è mai stato dimostrato.45 Secondo numerosi testi, la popolazione di questo regno era costituita per il 90% da Hurriti locali, come erano chiamati, governati dal rimanente 10%, costituito da signori mitanni, che pare fossero di stirpe indoeuropea. Questo piccolo gruppo, che aveva conquistato la popolazione hurrita e che proveniva verosimilmente da regioni lontane, e aveva creato il regno dei Mitanni, possedeva un’élite militare nota con il nome di maryannu («guerrieri con carro»), celebri perché usavano il carro ed erano particolarmente abili nell’addestrare i cavalli. Un testo trovato a Hattuša, la capitale degli Ittiti in Anatolia,


contiene un trattato, scritto nel 1350 a.C. circa da Kikkuli, un abile allenatore di cavalli mitanno, che dava istruzioni sul modo di addestrare i cavalli per un periodo di 214 giorni. Si tratta di un testo elaborato, che occupa quattro tavolette di argilla, benché inizi con semplicità: «Così (parla) Kikkuli, l’allenatore di cavalli della terra dei Mitanni».46 Nella sua ottava campagna, durante il suo anno 33 (nel 1446 a.C. circa), Thutmose III, come suo nonno prima di lui, lanciò sia una campagna di terra sia un assalto per mare contro il regno dei Mitanni. Condusse la sua flotta su per l’Eufrate, malgrado le difficoltà di procedere controvento e controcorrente, come rappresaglia contro il sospetto coinvolgimento dei Mitanni nella rivolta dei Cananei durante il suo primo anno di regno.47 Sconfisse infine l’esercito dei Mitanni e ordinò che fosse eretta una stele incisa a nord di Karkemish, sulla riva orientale dell’Eufrate, per commemorare la sua vittoria. Tuttavia, i Mitanni non rimasero succubi a lungo. Nel corso di quindici o vent’anni il re dei Mitanni Saushtatar cominciò a espandere di nuovo il suo regno, attaccò la città di Assur, capitale degli Assiri, prendendo come bottino una porta di oro e argento che utilizzò poi per ornare il suo palazzo a Waššukanni, come siamo venuti a sapere da un testo più tardo che si trova negli archivi ittiti a Hattuša, e probabilmente affrontò anche gli Ittiti.48 In meno di un secolo, all’epoca del faraone Amenofi III, verso la metà del XIV secolo a.C., le relazioni tra l’Egitto e i Mitanni erano così cordiali che Amenofi sposò non solo una, ma due principesse mitanne. Mitanni, Assiri, Egizi: il mondo stava già tessendo una rete di relazioni, anche se a volte si trattava solo di guerre.


La rivolta di Assuwa in Anatolia È curioso che Thutmose III fosse in contatto con regioni così lontane, e forse impegnato in un attivo scambio commerciale, anche in terre situate a nord e a ovest dell’Egitto. È possibile che il contatto con la lega di Assuwa (supponendo che sia la giusta identificazione di Isy) sia stato inaugurato da Assuwa stessa e non dall’Egitto. Verso il 1430 a.C., Assuwa organizzò una rivolta contro gli Ittiti dell’Anatolia centrale e si deve considerare la possibilità che, durante il decennio che portò poi alla ribellione, Assuwa stesse cercando attivamente contatti diplomatici con le altre maggiori potenze del Mediterraneo.49 La rivolta di Assuwa, che in passato ha interessato solo pochi studiosi, divenne di primaria importanza nel 1991, quando il macchinista di un bulldozer piantò la lama del suo veicolo su una banchina stradale vicino al sito archeologico di Hattuša, capitale degli Ittiti, oggi a due ore di automobile (208 km) a est dalla moderna Ankara. La lama del bulldozer urtò contro qualcosa di metallico. L’autista fu sbalzato dal sedile, si trovò a terra tra la polvere e scoprì un oggetto lungo, sottile e sorprendentemente pesante, di un colore verde intenso. Sembrava una spada antica, supposizione poi confermata quando l’oggetto venne ripulito nel museo locale dagli archeologi della zona. Non era tuttavia una spada tipica degli Ittiti, ma un modello mai visto prima nella regione. Inoltre, conteneva un’iscrizione incisa sulla lama. Poiché la lettura dell’iscrizione sembrava più facile della comprensione della fattura dell’oggetto, fu eseguita come prima cosa la traduzione. Scritta in accadico, il


linguaggio diplomatico dell’Età del Bronzo nel Medio Oriente antico, con segni cuneiformi, l’iscrizione si legge come segue: inu-ma mDu-ut-ha-li-ya LUGAL.GALKUR URUA-as-su-wa u-hal-liq GIRHI.A an-nu-tim a-na DIskur be-li-su u-se-li. Per i pochi lettori non esperti di lingua accadica, la traduzione è la seguente: «Quando Duthaliya il Grande Re sconfisse il paese di Assuwa, dedicò queste spade al dio della tempesta, il suo signore».50 L’iscrizione si riferisce alla cosiddetta rivolta di Assuwa, che il re ittita Tudhaliya I/II sedò nel 1430 a.C. circa (lo si indica con «I/II» perché non siamo sicuri se fosse il primo o il secondo re con questo nome). La rivolta era già nota agli studiosi che hanno analizzato l’impero degli Ittiti, grazie a molti altri testi, tutti scritti in carattere cuneiforme su tavolette d’argilla ritrovate da archeologi tedeschi durante gli scavi a Hattuša all’inizio del secolo scorso. Tuttavia, la spada era la prima arma (anzi, il primo artefatto, a dire il vero) che poteva essere associato alla rivolta. È chiaro dall’iscrizione che ci sono altre spade, ma non sono state ancora ritrovate. Prima di continuare vorremmo soffermarci sugli Ittiti, localizzare Assuwa ed esaminare da vicino la rivolta. Vorremmo spiegare perché questa è la prova di un «proto-internazionalismo» e potenzialmente perfino la dimostrazione che la guerra di Troia è stata combattuta duecento anni prima di quando generalmente si crede, e per ragioni diverse da quelle addotte da Omero. Una digressione: scoperta e analisi degli Ittiti Dovremmo prima osservare che gli Ittiti, pur avendo governato su un grande impero dalla loro madrepatria,


nell’Anatolia centrale, per gran parte del secondo millennio a.C., non furono presi in considerazione dalla storia, perlomeno geograficamente, fino a circa duecento anni fa.51 Gli Ittiti erano conosciuti dagli studiosi della Bibbia, dal momento che vengono citati nell’Antico Testamento, dove sono uno dei numerosi popoli che portano il suffisso in –iti che vivevano nella terra di Canaan durante la fine del secondo millennio a.C. Avevano numerosi rapporti con gli Ebrei/Israeliti e alla fine ne furono soggiogati. Per esempio ci è stato detto che Abramo comprò un sito funerario per la moglie Sara da Efron l’Ittita (Genesi 23:3-20), che la moglie di re David, Betsabea, era precedentemente stata sposata con Uriah l’Ittita (2Sam. 11:2-27) e che il re Salomone aveva «donne ittite» tra le sue mogli (1Re 11:1). Tuttavia, i primi sforzi per localizzare gli Ittiti nelle terre bibliche rimase senza successo, malgrado la precisazione geografica individuata nella dichiarazione fatta da Mosé di fronte al roveto ardente: «Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo» (Esodo, 3:7).52 Nel frattempo, i primi esploratori del XIX secolo, come Johann Ludwig Burckhardt – un gentiluomo svizzero con uno spiccato gusto per gli abiti di foggia mediorientale (si faceva chiamare «Sceicco Ibrahim») per facilitare le sue esplorazioni – scoprirono i resti di una civiltà dell’Età del Bronzo fino ad allora sconosciuta, presente soprattutto sull’altopiano centrale della Turchia. Si riuscì alla fine ad appurare le connessioni esistenti. Nel 1879, in una conferenza tenuta a Londra, il rispettato assirologo A.H. Sayce annunciò che gli Ittiti erano


localizzati non nella terra di Canaan, ma in Anatolia; cioè, in Turchia e non nella zona corrispondente agli stati moderni di Israele, Libano, Siria e Giordania. Il suo annuncio fu accolto senza obiezioni e l’equazione è ancora valida oggi, anche se bisognerebbe domandarsi come mai nella Bibbia sia stato fatto un errore così grossolano. La risposta è logica. Come l’impero britannico si estendeva ben lontano dall’Inghilterra, così avveniva per l’impero ittita, che si sviluppava a ovest della Turchia e a sud, in Siria. E proprio come in alcune regioni del grande impero britannico hanno continuato a giocare a cricket e a bere il té pomeridiano per molto tempo dopo la scomparsa dell’impero stesso, così alcune porzioni dell’impero ittita nel nord della Siria mantennero alcuni aspetti della cultura, del linguaggio e della religione originaria, al punto che oggi noi ci riferiamo a loro come ai Neo-Ittiti, vivi e prosperi all’inizio del primo millennio a.C. Quando fu scritta la Bibbia, tra il IX e il VII secolo a.C. secondo le autorità in materia, gli Ittiti originari erano scomparsi da tempo, ma i loro successori, i Neo-Ittiti, si erano saldamente insediati nella zona settentrionale della regione di Canaan. Senza dubbio ebbero rapporti con gli Israeliti e altri popoli levantini, entrando così nei testi biblici e creando dunque, in modo non intenzionale, una grande confusione per i futuri studiosi.53 Quando gli archeologi cominciarono a scavare e poi a tradurre le numerose tavolette d’argilla trovate nei siti ittiti, fu chiaro che essi non si definivano «Ittiti». Il nome con cui si definivano era qualcosa di simile a «Neshiti» o «Neshiani», dalla città di Neša (ora ben conosciuta e oggetto di scavi archeologici, nota come Kültepe Kaneš, nella regione turca della Cappadocia). La


città fiorì per circa duecento anni come sede della locale dinastia indoeuropea, prima che un re chiamato Hattušili I (che significa «l’uomo di Hattuša») nel 1650 a.C. circa stabilisse la propria capitale un po’ più a est, in un luogo chiamato appunto Hattuša. Ancora oggi li chiamiamo Ittiti solo perché il termine è penetrato nella letteratura accademica prima che fossero tradotte le tavolette che hanno rivelato il vero nome.54 La localizzazione della nuova capitale, Hattuša, fu scelta attentamente. Le sue fortificazioni erano così solide e la sua localizzazione geografica così felice (in una stretta valle con un unico accesso alla città), che durante i suoi cinquecento anni di vita venne conquistata solo due volte, forse entrambe da parte di una popolazione vicina di nome Kaška. Durante gli scavi, condotti fin dal 1906 dagli archeologi tedeschi Hugo Winckler, Kurt Bittel, Peter Neve e Jürgen Seether, nel sito sono state trovate migliaia di tavolette d’argilla. Tra esse ci sono lettere e documenti che appartenevano a quelli che dovevano essere gli archivi di stato ufficiali, oltre a poemi, racconti, resoconti storici, trascrizioni di rituali religiosi: insomma, ogni sorta di documenti scritti. Tutti insieme ci permettono di comprendere non solo la storia dei governanti ittiti e la loro interazione con le altre popolazioni e gli altri regni, ma anche la storia della gente comune, la loro vita quotidiana, la società, i sistemi di credenze e i codici giuridici, uno dei quali contiene la seguente regola, piuttosto stravagante: «Se qualcuno morde il naso di una persona libera, pagherà 40 sicli d’argento»55 (c’è da chiedersi se succedesse spesso una cosa del genere!). Sappiamo che a un certo punto un re ittita di nome Muršili I, nipote e successore del citato Hattušili I, diresse il suo esercito verso la Mesopotamia, in un viaggio di più di mille miglia e, nel


1595 a.C., attaccò la città di Babilonia, incendiandola fino alle fondamenta e mettendo fine a una dinastia durata duecento anni e resa famosa da Hammurabi, il grande legislatore. Poi, invece di occuparla, sistemò le truppe intorno alla città e si diresse verso casa, dando vita sicuramente al più lungo driveby shooting della storia [sparare da un mezzo in movimento]. Come conseguenza accidentale delle sue azioni, un gruppo etnico prima sconosciuto, noto con il nome di Cassiti, riuscì a occupare la città di Babilonia e poi a governarla per i secoli seguenti. Mentre la prima metà della storia ittita è nota come Antico Regno, ed è comprensibilmente celebre a causa di imprese di sovrani come Muršili, è la seconda metà quella che più ci interessa qui. In questo periodo l’impero ittita fiorì, per giungere ai massimi livelli durante la tarda Età del Bronzo, iniziata nel XV secolo a.C. e durata fino ai primi decenni del XII. Tra i re più famosi, c’è Šuppiluliuma I, di cui parleremo nel prossimo capitolo, che condusse gli Ittiti al rango di massima potenza nel Medio Oriente, conquistando un’ampia porzione di territorio e trattando da pari a pari con i faraoni del Nuovo Regno d’Egitto. Una regina egizia, di recente vedova, chiese perfino a Šuppiluliuma di mandarle uno dei suoi figli come marito, dichiarando che avrebbe governato l’Egitto con lei. Non è chiaro di quale regina si tratti o di chi fosse vedova, ma alcuni studiosi bene informati pensano che si trattasse di Ankhesenamon e del re Tut, come vedremo. La rivolta di Assuwa e la questione Ahhiyawa Ritorniamo indietro nel tempo, all’anno 1430 a.C. circa,


quando gli Ittiti e il loro re Tudhaliya I/II stavano trattando con una coalizione di stati ribelli. Questi stati, noti con il nome collettivo di Assuwa, erano situati nella Turchia nordoccidentale, nella terraferma dei Dardanelli, dove, durante la Prima guerra mondiale, fu combattuta la battaglia di Gallipoli. Le tavolette ittite ci danno i nomi di ventidue di questi stati alleati, schierati nella rivolta contro gli Ittiti. La maggioranza di questi nomi non significano più nulla e non possono essere identificati con alcun luogo geografico, ma gli ultimi due nomi della lista, Wilusiya e Taruisa, probabilmente si riferiscono a Troia e alla regione circostante.56 Sembra che la rivolta sia cominciata quando Tudhaliya I/II e il suo esercito stavano ritornando da una campagna militare nell’Anatolia occidentale. Dopo aver appreso la notizia della ribellione, l’esercito ittita semplicemente fece dietro front e si diresse a nord-ovest, verso Assuwa, per sedare i rivoltosi. Nella cronaca ittita si dice che Tudhaliya diresse personalmente l’esercito e sconfisse la confederazione di Assuwa. Le cronache indicano che diecimila soldati di Assuwa, seicento quadriglie di cavalli e i loro conduttori, e «la popolazione conquistata, buoi, pecore [ottenuti con] il possesso delle terre» furono portati a Hattuša come prigionieri e come bottino.57 Tra questi c’erano il re di Assuwa e suo figlio Kukkuli, con altri membri delle maestranze di Assuwa e le loro famiglie. Alla fine, Tudhaliya nominò Kukkuli re di Assuwa e ristabilì la regione come stato vassallo del regno ittita. Kukkuli si ribellò subito dopo, solo per essere nuovamente sconfitto, alla fine fu condannato a morte e la coalizione di Assuwa fu distrutta e scomparve dalla faccia della terra. La sua eredità vive soprattutto nel nome moderno di «Asia», ma forse anche nella guerra di Troia, perché i nomi


Wilusiya e Taruisa, secondo gli studiosi, presentano una forte analogia con i nomi dell’Età del Bronzo per la città di Troia, nota anche come Ilio, e per l’area circostante, la Troade. Ed ecco che ritorna la spada trovata a Hattuša, con l’iscrizione lasciata da Tudhaliya I/II, dal momento che, come abbiamo detto prima, non si tratta di una spada di manifattura locale. La spada appartiene a un tipo utilizzato soprattutto nella terraferma greca durante il XV secolo a.C. È una spada micenea (oppure una sua ottima imitazione). Il perché una spada di questo tipo sia stata utilizzata nella rivolta di Assuwa è una bella domanda, di cui non conosciamo la risposta; era brandita da un soldato di Assuwa, da un mercenario miceneo o da qualcun altro? Ci sono cinque altre tavolette ittite che citano Assuwa e la rivolta, oltre alla tavoletta più importante con la sua lunga cronaca. Una, per esempio, conferma tutto l’evento, che comincia con la semplice dichiarazione: «Così parla ... Tudhaliya, il Grande Re: quando avevo distrutto Assuwa ed ero ritornato a Hattuša...».58 La più interessante è una lettera frammentaria, che risulta fortemente incompleta ma in cui viene comunque citato due volte il re di Assuwa e una volta Tudhaliya, e che si riferisce a una campagna militare che cita la terra di Ahhiyawa, il re di Ahhiyawa e le isole che appartenevano al re di Ahhiyawa. La lettera è deteriorata e incompleta, quindi è imprudente leggervi delle associazioni tra Assuwa e Ahhiyawa sullo stesso testo, eppure sembra che in qualche modo all’epoca fossero associate.59 Si è pensato a lungo che la lettera, nota come KUB XXVI 91, fosse stata mandata dal re ittita al re di Ahhiyawa, ma recentemente è stato suggerito che in realtà fosse stata inviata


a un re ittita da un re di Ahhiyawa, il che fa di questa lettera l’unica inviata da quella regione a quel re.60 Ma di quale regione e di quale re si tratta? Dov’è Ahhiyawa? Questa domanda ha tormentato gli studiosi per gran parte del secolo scorso e ormai molti accademici concordano sul fatto che si tratti della terraferma greca e dei Micenei, forse della stessa città di Micene. L’attribuzione è compiuta sulla base di circa venticinque tavolette dell’archivio ittita a Hattuša, che citano Ahhiyawa in vari contesti nel corso di quasi trecento anni (dal XV secolo alla fine del XII secolo a.C) e che, se analizzate in modo esaustivo, possono solo riferirsi alla Grecia e ai Micenei.61 E ancora una volta, prima di continuare la nostra storia, dobbiamo fare una breve digressione, occupandoci questa volta dei Micenei. Scoperta e analisi dei Micenei La civiltà micenea attrasse l’attenzione del grande pubblico quasi 150 anni fa, dopo la metà del XIX secolo, grazie soprattutto a Heinrich Schliemann, il cosiddetto «padre dell’archeologia micenea». È un uomo verso il quale gli archeologi moderni non risparmiano il loro astio, in parte per i suoi metodi di scavo primitivi e in parte perché non è mai stata verificata fino in fondo l’attendibilità dei suoi resoconti. Grazie ai suoi scavi condotti negli anni settanta dell’Ottocento nell’Anatolia nord-occidentale, e precisamente a Hisarlik, che lui aveva identificato con Troia, Schliemann decise che, poiché aveva trovato il lato troiano della guerra di Troia (come vedremo tra breve), era logico che avrebbe potuto trovare anche il lato miceneo.


Fu decisamente molto più facile per lui trovare Micene nella terraferma greca di quanto non fosse stato trovare Troia in Anatolia, perché ampie porzioni dell’antico sito di Micene emergevano ancora dal terreno, compresa la parte superiore della famosa Porta dei Leoni, che era già stata scoperta e parzialmente ricostruita alcuni decenni prima. Quando Schliemann vi giunse, verso il 1870, per iniziare a scavare, gli abitanti del vicino villaggio di Mykenai lo condussero volentieri sul sito. Non aveva un permesso per gli scavi, ma questo non lo aveva mai fermato prima e non lo fermò neanche allora. Ben presto fece riemergere un certo numero di tombe a cupola con scheletri, armi e oro: un bottino che andava ben al di là dei suoi sogni più audaci. Divulgò la notizia mandando un telegramma al re di Grecia, in cui sembra abbia scritto che aveva «guardato in faccia Agamennone».62 Naturalmente Schliemann (che si sbagliava clamorosamente, anche quando aveva ragione), aveva dato una datazione sbagliata alle tombe e agli altri reperti. Sappiamo ora che queste tombe a cupola (di cui ancora oggi sopravvivono a Micene due grandi cicli) risalgono all’inizio dell’epoca d’oro della città e della civiltà, cioè il 1650-1500 circa, e non all’epoca di Agamennone e di Achille (1250 a.C. circa). Si sbagliava di quattro secoli, ma perlomeno aveva scavato nel posto giusto. Schliemann non fu affatto l’unico archeologo ad analizzare questi resti dell’Età del Bronzo (altri studiosi, come Christos Tsountas e James Manatt scavarono con grande diligenza e fecero un lavoro di gran lunga migliore di quello di Schliemann), ma fu l’unico che ottenne l’attenzione del pubblico, grazie alle sue precedenti dichiarazioni su Troia e sulla guerra troiana, come vedremo.63


Schliemann scavò a Micene, nel sito vicino di Tirinto e altrove per qualche tempo ancora, prima di ritornare a Troia per condurre altri scavi nel 1878 e negli anni ottanta di quel secolo. Tentò anche di portare avanti degli scavi a Cnosso, nell’isola di Creta, ma senza successo. Per fortuna dell’archeologia questo compito fu lasciato ad altri, in particolare a un americano dell’Università di Cincinnati, di nome Carl Blegen, e a un inglese di Cambridge, Alan Wace, i quali alla fine unirono le loro forze per definire i fondamenti della civiltà micenea e il suo sviluppo complessivo. Wace fu a capo degli scavi inglesi a Micene per parecchi decenni, a partire dagli anni venti del Novecento, mentre Blegen non solo diresse gli scavi a Troia dal 1932 al 1938, ma anche a Pilo nel sud della Grecia, dove, proprio il primo giorno degli scavi, nel 1939, trovò alcune tavolette di argilla appartenenti a un immenso archivio che conteneva testi scritti in Lineare B.64 L’esordio della Seconda guerra mondiale interruppe temporaneamente il suo lavoro sul sito, ma dopo la guerra, nel 1952, gli scavi ripresero. Lo stesso anno un architetto inglese di nome Michael Ventris provò inequivocabilmente che il Lineare B era in effetti una prima versione di scrittura greca. La traduzione dei testi in Lineare B trovati nei siti di Pilo, Micene, Tirinto e Tebe, come pure a Cnosso, continua ancora oggi e ha aperto uno spiraglio sul mondo dei Micenei. Ai dettagli già noti in seguito agli scavi si è aggiunta l’evidenza testuale che ha permesso agli archeologi di ricostruire il mondo della Grecia dell’Età del Bronzo, proprio come ai loro colleghi che lavoravano nei siti in Egitto e in Medio Oriente era stato possibile studiare meglio le civiltà di questi paesi dopo la


traduzione di testi scritti in lingua egizia, ittita e accadica. Per dirla in parole semplici, è stata la combinazione di reperti archeologici e di iscrizioni testuali a permettere agli studiosi moderni la ricostruzione della storia antica. Sappiamo che la civiltà micenea iniziò nel VII secolo a.C., più o meno nello stesso periodo in cui a Creta i Minoici stavano riprendendosi dal tremendo terremoto che segna la transizione sull’isola dal primo al secondo Periodo palaziale (nomi della terminologia archeologica). Wace e Blegen hanno battezzato la periodizzazione della civiltà micenea come Tardo elladico, suddiviso in Tardo elladico I e Tardo elladico II, che vanno dal XVII secolo al XV secolo a.C. e Tardo elladico III diviso in tre sezioni: IIIA fino al XIV secolo, IIIB fino al XIII secolo e IIIC fino al XII secolo a.C.65 Le ragioni dell’ascesa della civiltà micenea sono ancora oggetto di discussione. Una prima ipotesi è che i Micenei aiutarono gli Egizi a spodestare gli Hyksos dall’Egitto, ma oggi questa non è più un’idea molto popolare. Se gli oggetti ritrovati nelle tombe a cupola a Micene sono un indizio affidabile, allora alcune delle prime influenze a Micene provennero da Creta. Evans pensava che i Minoici avessero invaso la terraferma greca, ma Wace a Blegen più tardi misero in discussione la sua ipotesi e tutti gli studiosi oggi accettano la loro posizione. Ora è chiaro che quando i Micenei conquistarono Creta si impossessarono anche delle principali rotte commerciali che portavano in Egitto e nel Medio Oriente, diventando così dei protagonisti nel mondo cosmopolita dell’epoca, un ruolo che avrebbero sfruttato per i numerosi secoli a venire, fino alla fine della tarda Età del Bronzo. Sembra che gli Egizi conoscessero i Micenei e li chiamassero


Tanaja, mentre gli Ittiti, come abbiamo visto, li chiamavano Ahhiyawa e i Cananei (se i testi trovati a Ugarit sono un indizio sufficiente) li chiamavano in modo simile, Hiyawa – o così pensiamo noi, se non altro perché questi toponimi non si adattano a nessuno se non ai Micenei. Se tali riferimenti non si riferiscono ai Micenei, allora queste popolazioni sono rimaste ignote nei testi degli Egizi e delle altre grandi potenze del Medio Oriente della tarda Età del Bronzo. Data la quantità di terrecotte e vasi micenei trovati in queste regioni in contesti che datano dal XIV al XII secolo a.C., questa ipotesi sembra tuttavia improbabile.66 Una prima guerra troiana? Se Ahhiyawa significa sia la Grecia della terraferma sia i Micenei e se la lettera nota come KUB XXVI 91 trovata a Hattuša mostra che gli Ahhiyawa erano coinvolti in qualche modo con gli Assuwa durante la rivolta contro gli Ittiti, allora cosa possiamo concludere? La lettera stessa, e tutte quelle che si riferiscono alla rivolta degli Assuwa, risalgono al periodo della guerra di Troia (che di solito è posta tra il 1250 e il 1175 a.C.). Tutti i dati presentati finora, compresa la spada micenea con l’iscrizione accadica trovata a Hattuša, potrebbero semplicemente essere una serie di fenomeni senza alcuna relazione tra loro. Tuttavia, possono anche essere interpretati come un segno che i guerrieri dell’Egeo dell’Età del Bronzo fossero coinvolti nella rivolta di Assuwa contro gli Ittiti. In questo caso, si potrebbe suggerire che il contributo dei Micenei fosse stato registrato nelle cronache ittite contemporanee e ricordato, seppur in modo più vago, nelle tradizioni letterarie


della Grecia arcaica e classica (non come guerra di Troia, ma come battaglie e incursioni pre-troiane, avvenute in Anatolia, attribuite ad Achille e ad altri leggendari eroi achei).67 Gli studiosi oggi concordano sul fatto che perfino nell’Iliade di Omero ci sono narrazioni di guerrieri e avvenimenti che provengono da secoli antecedenti alla tradizionale ambientazione della guerra di Troia del 1250 a.C. Di questi episodi fa parte la vicenda dello scudo rettangolare di Aiace, alto come una torre, un modello che era stato sostituito molto tempo prima, nel XIII secolo a.C. Ci sono anche le spade «incastonate d’argento» (phasganon argyroelon o xiphos arguroelon) appartenenti a diversi eroi, un modello di spada molto costoso, che era passato di moda molto tempo prima della guerra di Troia. Ed ecco la storia di Bellerofonte, raccontata nel libro VI dell’Iliade (178-240): un eroe greco quasi certamente antecedente alla guerra di Troia. Proteo, re di Tirinto, mandò Bellerofonte da Tirinto, sulla terraferma greca, in Licia, Anatolia. Dopo aver portato avanti con successo tre difficili imprese e superato numerosi ostacoli, fu infine ricompensato con un regno in quella regione.68 L’Iliade narra che molto prima dell’epoca di Achille, Agamennone, Elena ed Ettore (di fatto durante l’epoca di Laomedonte, padre di Priamo), l’eroe greco Eracle saccheggiò Troia: ebbe bisogno soltanto di sei navi (Iliade, libro V, 638-42): Ben altro egli era Il mio gran genitor, forza divina, Cuor di leone. Qua venuto un giorno A via menar del re Laomedonte I promessi destrieri, egli con sole Sei navi e pochi armati Ilio distrusse, E vedovate ne lasciò le vie.69


Come ho detto altrove, se bisogna trovare un evento storico con cui collegare le tradizioni pre-omeriche dei guerrieri achei che lottavano sul continente anatolico, la rivolta di Assuwa del 1430 a.C. risulterebbe uno dei maggiori eventi militari nell’Anatolia nord-occidentale precedente alla guerra di Troia e uno dei pochi avvenimenti a cui i Micenei possono essere collegati, grazie alle testimonianze dei testi e alla lettera ittita KUB XXVI 91. Potremmo anche chiederci, tuttavia, se fu davvero questo episodio a rappresentare la base storica delle narrazioni contemporanee degli Ittiti sui guerrieri e i merceneri micenei che combatterono in Anatolia e che crearono le storie delle prime imprese militari pre-troiane degli Achei sul continente anatolico.70 Potremmo anche chiederci se la causa della loro apertura nei confronti di Thutmose III tra il 1440 e il 1430 a.C. fu proprio questa rivolta imminente, che i membri della confederazione di Assuwa avevano probabilmente pianificato a lungo. Osservazioni conclusive La stimata storica dell’arte Helene Kantor una volta ha detto: «Le testimonianze giunte fino a noi e preservate dal passaggio del tempo costituiscono solo un piccolo frammento di quanto è esistito in passato. Ogni vaso che si è conservato ... rappresenta appena una traccia di quelli che sono scomparsi».71 Quasi tutte le merci esportate erano deperibili (e da allora sono evidentemente scomparse), oppure erano materie prime che venivano subito convertite in altri oggetti, come armi e gioielli. Quindi possiamo ipotizzare che il commercio tra l’Egeo, l’Egitto e il Medio Oriente durante l’Età


del Bronzo avvenne a un livello ben più intenso di quello che risulta dal quadro che ce ne siamo fatti con la lente fornita dagli scavi archeologici. È in tale prospettiva che dovremmo interessarci alle pitture di stile minoico che Manfred Bietak scoprì nel palazzo di Thutmose III a Tell ed-Dab’a sul delta egiziano. Anche se non sono state necessariamente dipinte per il capriccio di una principessa minoica, testimoniano certamente della ricchezza dei rapporti, del commercio e degli influssi internazionali che fiorivano intorno al bacino del Mediterraneo nel XV secolo a.C., e che giungevano fino alla Creta minoica. Sintetizzando possiamo considerare questo secolo come un periodo che vide l’avvento di fitte connessioni internazionali in tutto il mondo mediterraneo, dall’Egeo alla Mesopotamia. All’epoca, i Minoici e i Micenei dell’Egeo erano ben consolidati, come gli Ittiti in Anatolia. Gli Hyksos erano stati scacciati dall’Egitto e gli Egizi avevano iniziato quella che ora chiamiamo Diciottesima Dinastia e il periodo del Nuovo Regno. Tuttavia, come vedremo, questo era solo l’inizio di quella che sarebbe diventata l’«età dell’oro» dell’internazionalismo e della globalizzazione durante il seguente XIV secolo a.C. La combinazione tra i numerosi anni di campagne militari e la diplomazia di Thutmose III, che affiancano le spedizioni commerciali pacifiche di Hatshepsut e le sue imprese,72 portarono l’Egitto ai vertici del potere e della prosperità internazionali coma mai prima. Come risultato, l’Egitto divenne una delle grandi potenze per il resto della tarda Età del Bronzo, assieme gli Ittiti, gli Assiri, e i Cassiti/Babilonesi, oltre ad altri protagonisti come i Mitanni, i Minoici, i Micenei e i Ciprioti, di cui parleremo nei prossimi capitoli.


2. Atto II Una questione (egea) da ricordare: gli avvenimenti del XIV secolo Alte più di sessanta piedi e destinate a essere le custodi del luogo per i successivi tremilaquattrocento anni – anche se il tempio funebre che si ergeva dietro di loro è stato saccheggiato dei suoi magnifici blocchi di pietra e a poco a poco si è trasformato in polvere –, le due immense statue all’ingresso del tempio funerario di Amenofi III a Kom el-Hetan erano, e sono ancora, chiamati i colossi di Memnon, in seguito a un’identificazione errata con Memnon, mitico principe etiope ucciso a Troia da Achille. Ogni statua rappresenta Amenofi III seduto, il faraone che governò l’Egitto tra il 1391 e il 1353 a.C. In parte a causa di questa identificazione erronea, i colossi erano già famosi duemila anni fa, visitati dai turisti greci e dai romani dell’antichità, che conoscevano l’Iliade e l’Odissea di Omero e che incisero graffiti sulle loro zampe. Si credeva che uno dei colossi, dopo essere stato danneggiato da un terremoto nel I secolo a.C., all’alba, quando la pietra si contraeva e poi si dilatava nell’alternarsi del freddo della notte e del calore del giorno, rilasciasse un fischio misterioso. Purtroppo per la rete turistica dell’antichità, il lavoro di restauro fatto durante il periodo romano nel II secolo d.C. mise fine al quotidiano «lamento del dio».1 Tuttavia, per quanto affascinanti, non sono i due colossi ad essere emblematici per la nostra storia, ma piuttosto la quinta di cinque statue che si ergono nella fila nord-sud, nell’area dove un tempo c’era il tempio funebre. Il tempio si trovava


sulla riva occidentale del Nilo, vicino a quella che oggi è nota come la Valle dei Re, all’altezza della moderna città di Luxor. Ognuna della cinque basi sosteneva una statua del re, più grande di natura, anche se non erano alti come i colossi situati all’ingresso del tempio. Il cortile in cui si trovavano conteneva in tutto almeno quaranta statue con relative basi. La Lista egea di Amenofi III Ognuna delle cinque basi, come pure molte altre, contiene iscrizioni con una serie di toponimi scolpiti sulla pietra in quello che gli Egizi chiamavano un «ovale fortificato», un ovale allungato, scolpito, verticale, con una serie di piccole sporgenze lungo tutto il perimetro. Esso intendeva rappresentare una città fortificata, munita di torri difensive (da qui la presenza delle sporgenze). Ogni ovale fortificato era situato (o piuttosto riposizionato) sulla parte anteriore di un prigioniero incatenato, raffigurato con le armi sul dorso e legato ai polsi, a volte con una corda intorno al collo che lo legava agli altri prigionieri. Si trattava del metodo egiziano, tradizionale del Nuovo Regno, per rappresentare le città e i paesi stranieri; anche se gli Egizi non controllavano in realtà questi luoghi stranieri, né erano sul punto di conquistarli, scrivevano i nomi su questi «ovali fortificati» per una convenzione artistica e politica, forse come simbolo di dominazione simbolica. Nel loro insieme, i nomi incisi su questi piedestalli formavano una serie di liste geografiche che designavano il mondo conosciuto agli Egizi dell’epoca di Amenofi III, all’inizio del XIV secolo a.C. Erano nominati su queste liste alcuni dei luoghi e


delle popolazioni più importanti del Medio Oriente di allora, compresi gli Ittiti a nord, i Nubiani a sud e gli Assiri e i Babilonesi a est. Nell’insieme, le liste sono uniche nella storia dell’Egitto. Ma ciò che ci colpisce è che la lista scolpita dallo scalpello sul piedestallo della quinta statua contiene nomi mai citati prima nelle iscrizioni egizie. Ci sono nomi di città e di località situate a ovest dell’Egitto, nomi strani come Micene, Nauplia, Cnosso, Cidonia e Citera, scritti sul frontone sinistro e sul lato sinistro del piedestallo, e due altri nomi, scritti separatamente sul lato frontale destro del piedestallo, come se si trattasse di un titolo situato a capo della lista: Keftiu e Tanaja.


Figura 6 I colossi e la Lista egea di Amenofi III (foto di E.H. Cline e J. Strange).

Qual è il loro significato e che cosa rappresentano questi nomi? Negli ultimi quarant’anni gli archeologi e gli egittologi hanno discusso sul significato dei quindici nomi trovati sul piedestallo, che oggi viene comunemente chiamato «Lista egea». Sono stati gli archeologi tedeschi e i loro collaboratori a trovare negli anni sessanta il piedestallo della statua: poi negli anni settanta una parte venne accidentalmente distrutta. Secondo una diceria, non verificata, i membri di una tribù locale di beduini avevano fatto un fuoco sotto il piedestallo e vi avevano versato acqua fredda nel tentativo di staccare i pannelli incisi, per poterli vendere sul mercato antiquario. La versione ufficiale è che furono gli incendi boschivi della zona a provocare i danni. Chiunque sia stato il colpevole, l’intera base fu frantumata in mille pezzi. Fino a poco tempo fa, gli archeologi avevano a disposizione soltanto poche fotografie a colori del basamento originale, il che era un gran peccato, perché i nomi sulla lista erano così particolari che tredici dei quindici non erano mai stati visti prima in Egitto... e non si sarebbero visti mai più. Quello che i turisti moderni vedono ora (di solito quando passano vicino alle rovine in un autobus con l’aria condizionata mentre stanno andando nella vicina Valle dei Re) sono le basi delle statue e le statue stesse, che sono state riassemblate e sono di nuovo sotto i cieli imbevuti di sole per la prima volta dopo più di tremila anni. Nel 1998, un’équipe internazionale guidata dall’egittologa Houring Sourouzian e da suo marito Rainer Stadelmann, l’ex direttore dell’Istituto Archeologico


tedesco del Cairo, ha riaperto gli scavi a Kom el-Hetan. Gli scavi sono continuati fino a quando i due archeologi hanno trovato i frammenti del basamento della statua con la Lista egea distrutta, oltre a quelli delle statue vicine. Stanno ora per essere ricostruiti e restaurati. Gli ottocento frammenti della Lista egea da soli hanno richiesto più di cinque anni per essere ricomposti.2 Solo due dei nomi della Lista egea erano già noti agli scribi egizi e ai moderni egittologi, i due che erano utilizzati come titoli in cima alla lista: Keftiu, che era la parola egizia per l’isola di Creta, e Tanaja, che probabilmente era la parola egizia per il continente greco. Questi due nomi hanno cominciato a fare la loro apparizione nei testi egizi durante l’epoca di Hatshepsut e Thutmose III, quasi un secolo prima, ma mai in compagnia di toponimi specifici di singole città e regioni nell’Egeo. Gli altri nomi sulla lista di questo basamento sono così inusuali, e tuttavia riconoscibili quasi immediatamente, che il primo egittologo che li ha pubblicati in inglese, l’eminente professor Kenneth Kitchen, dell’Università di Liverpool, all’inizio non sapeva se suggerirne la traduzione, temendo di apparire ridicolo di fronte ai colleghi. Nella sua prima breve annotazione sull’iscrizione del basamento della statua, che nel 1965 era solo un articolo di poche pagine sulla rivista accademica «Orientalia», Kitchen dichiara con prudenza: «Sono esitante a mettere per iscritto questa idea; i lettori possono ignorarlo se lo desiderano. I due nomi Amnisa e Kanusa assomigliano in modo molto fastidioso ad Amniso(s) e ... Cnosso, celebre sito antico sulla costa settentrionale di Creta».3


Da allora, un certo numero di studiosi ha lavorato per decifrare i nomi che erano sulla lista e il loro significato nascosto. Lo studioso tedesco Elmar Edel ha pubblicato nel 1966 la prima analisi esaustiva delle liste di tutti e cinque i basamenti; una seconda edizione, aggiornata e rivista, è stata pubblicata alcuni anni dopo – quaranta in realtà –, nel 2005. In questo intervallo, nnumerosi altri studiosi hanno consacrato molti pensieri e molto inchiostro alle possibili interpretazioni della lista.4 Primo della lista, dopo i titoli di Keftiu (Creta) e Tanaja (la terraferma greca), venivano alcuni nomi di importanti siti minoici di Creta, compreso Cnosso e il suo porto di Amnisos, seguiti da Festo e Cidonia, elencati in un ordine che andava da est a ovest. Tutti possedevano un palazzo minoico oppure, nel caso di Amnisos, fungevano da porto per un vicino palazzo minoico. Successivamente, nella lista ci sono le isole di Citera, situata a metà strada tra Creta e il continente greco, e poi importanti insediamenti e siti micenei e regioni sulla terraferma greca, come Micene e il suo porto di Nauplia, la regione di Messenia e forse la città di Tebe in Beozia. Ultimi nella lista sono alcuni nomi della Creta minoica, questa volta in ordine inverso, da ovest a est, che comprendono di nuovo Amnisos. La lista somiglia stranamente a un itinerario di viaggio dall’Egitto all’Egeo e ritorno. Secondo l’ordine dei nomi, i viaggiatori dall’Egitto andavano prima a Creta, forse per visitare i membri della famiglia reale e i mercanti minoici con cui, da questo momento, l’Egitto fu in contatto per quasi un secolo. Poi continuavano, via Citera, verso la terraferma greca per visitare i Micenei, la nuova potenza sulla scena che stava


conquistando le rotte commerciali dei Minoici dirette all’Egitto e al Medio Oriente. Infine ritornavano in Egitto via Creta con la rotta più veloce e diretta, approvvigionandosi di acqua e cibo ad Amnisos, ultimo scalo nel viaggio verso la patria, così come prima tappa, all’andata, dopo la partenza. Le liste delle basi delle statue sembrano un catalogo completo del mondo conosciuto all’epoca degli Egizi di Amenofi III. La maggior parte dei nomi era già nota da altri documenti e trattati; tra i nomi familiari c’erano gli Ittiti e i Cassiti/Babilonesi (di cui parleremo in seguito), come pure le città di Canaan. I nomi di luogo nell’Egeo, tuttavia, erano (e sono ancora) eccezionali, ed erano anche incisi in un ordine peculiare. Alcuni erano addirittura riscolpiti in modo peculiare, dato che i primi tre nomi erano stati cancellati a un certo punto, prima che la lista fosse resa pubblica.5 Alcuni studiosi pensano che questa lista non sia nient’altro che propaganda, la vana vanteria di un faraone che aveva sentito parlare di luoghi lontani e desiderava conquistarli o intendeva convincere il suo popolo che l’avrebbe fatto. Altri credono invece che la lista non sia affatto un’auto-esaltazione, ma si baserebbe su una conoscenza oggettiva e su contatti reali avvenuti in quei tempi lontani. Quest’ultima spiegazione sembra la più verosimile, anche perché, da numerose altre rappresentazioni nelle tombe dei nobili che risalgono all’epoca di Hatshepsut e Thutmose III nel XV secolo a.C., sappiamo che c’erano numerosi contatti con gli Egei: missioni diplomatiche e viaggi di mercanti che venivano in Egitto a portare i loro tributi. È probabile che i contatti siano continuati nel secolo successivo, durante il regno di Amenofi III. In tal caso, potrebbe trattarsi della prima registrazione scritta di un


viaggio andata e ritorno dall’Egitto all’Egeo, un viaggio compiuto più di trentaquattro secoli fa, alcuni decenni prima che il re fanciullo Tut regnasse sulla terra eterna. L’idea che si tratti del documento di un viaggio dall’Egitto all’Egeo dell’inizio del XIV secolo, invece che la registrazione di una spedizione di Micenei e Minoici in Egitto, sembra plausibile per le seguenti, avvincenti ragioni. In sei siti disseminati intorno all’area egea (a Creta, nella terraferma greca e a Rodi), gli archeologi hanno trovato alcuni oggetti che recano incisi i cartigli (le insegne reali) di Amenofi o di sua moglie, la regina Tiyi. C’è una correlazione tra le zone di ritrovamento di questi oggetti e i siti nominati nella Lista egea: ben quattro di questi sei siti fanno parte della lista. Alcuni di questi oggetti sono semplici scarabei sacri e piccoli sigilli, ma c’è anche un vaso; tutti hanno il cartiglio del faraone o di sua moglie. Ancora più importanti sono i numerosi frammenti di piastre di maiolica, un materiale che è una via di mezzo tra la creta e il vetro, trovati a Micene, probabilmente la città più importante della Grecia del XIV secolo a.C. Questi frammenti – almeno dodici – provengono da un totale di nove piastre, ognuna delle quali misura venti centimetri di lunghezza, dieci di larghezza e due di profondità. Tutte le piastre avevano il titolo regale di Amenofi III inciso con pittura nera, leggibile sui due lati: «Il buon dio, Neb-Ma’at-Re, Amenofi, principe di Tebe, ha dato vita».6 Gli egittologi le chiamano piastre di deposito di fondazione. Almeno in Egitto, le si ritrova situate in particolari depositi sotto i templi oppure, talvolta, sotto le statue del re.7 Questi depositi funzionavano un po’ come le capsule del tempo nella nostra cultura. Il loro scopo era probabilmente quello di


assicurarsi che gli dèi e le generazioni future conoscessero l’identità e la generosità del donatore/costruttore e la data dell’edificazione del palazzo, della statua o di qualsiasi edificio. Ciò che rende uniche queste piastre a Micene è semplicemente il fatto che sono uniche nell’Egeo. In realtà, sono esclusive di Micene, impossibili da trovare nell’intero universo del Mediterraneo antico, dal momento che questi oggetti di maiolica, con il nome impresso di Amenofi, non sono mai stati rinvenuti fuori dall’Egitto. I primi frammenti a Micene furono trovati e pubblicati dagli archeologi greci alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Si pensò che fossero fatte di porcellana, e il nome di Amenofi non era ancora stato riconosciuto né decifrato. Nel corso degli anni si fecero altre scoperte, alcune delle quali compiute dall’eminente archeologo inglese Lord William Taylor, nei luoghi di culto di Micene. Il frammento più recente fu rinvenuto solo pochi anni fa, abbandonato e sepolto in profondità in una fonte di Micene, dall’archeologa Kim Shelton, dell’Università di California a Berkeley. Nessuno dei frammenti è stato trovato nel suo contesto originale. In altre parole, non abbiamo idea di come fossero utilizzati originariamente in quel sito. Ma il semplice fatto che si trovino a Micene e da nessun’altra parte indica che probabilmente esiste una stretta relazione tra questo sito e l’Egitto dell’epoca di Amenofi III. Considerando il fatto che questa regione era ai margini del grande territorio civilizzato con cui l’Egitto era in contatto, la correlazione di questi oggetti con i nomi della Lista egea suggerisce che durante il regno di Amenofi III era probabilmente avvenuto qualcosa di inusuale nei rapporti internazionali.


Figura 7 Piastra di maiolica di Amenofi III rinvenuta a Micene (fotografia di E.H. Cline).

Gli oggetti importati dall’Egitto e dal Medio Oriente trovati nell’Egeo formano un modello interessante, forse collegato alla Lista egea. Sembra che la Creta minoica abbia continuato a essere la destinazione principale delle rotte commerciali dall’Egitto e dal Medio Oriente almeno nella prima parte del XIV secolo a.C. Tuttavia, poiché si trovano oggetti dall’Egitto, da Canaan e da Cipro in quantità approssimativamente simili a quelli di Creta, è possibile che le merci dall’Egitto non fossero più il carico principale dei mercanti che navigavano tra Creta e il Mediterraneo orientale, come era stato durante i secoli precedenti. Se le rotte dell’Egeo nei primi periodi erano governate da inviati diplomatici e da commercianti egizi e minoici, ormai questi venivano raggiunti e addirittura sostituiti da altri, provenienti da Canaan e da Cipro. Questa complessa situazione internazionale continuò nel corso dei successivi due secoli, ma si assiste a una trasformazione del tipo di merci straniere già alla fine del XIV secolo. Mentre si


verificò un’improvvisa diminuzione nella quantità di oggetti importati a Creta, ci fu un incremento dell’importazione sulla terraferma greca. Se questo netto cambiamento nell’importanza dei commerci è reale, sembra possibile (anche se decisamente ipotetico) che la diminuzione e la definitiva cessazione di oggetti orientali diretti a Creta potessero essere collegate alla distruzione di Cnosso, che avvenne nel 1350 a.C. circa, e alla successiva presa di possesso da parte di Micene delle rotte commerciali verso l’Egitto e il Medio Oriente.8 La Lista egea di Amenofi III forse registra una situazione di questo tipo, visto che i luoghi elencati sul basamento della statua comprendono sia siti minoici a Creta sia siti micenei sulla terraferma greca. Se un’ambasceria egizia era stata inviata nell’Egeo durante il regno di Amenofi III, forse era perché aveva una duplice missione: rafforzare i rapporti con un partner commerciale antico e consolidato (i Minoici) e stabilire relazioni con una potenza emergente (i Micenei).9 Gli archivi di Amarna Il motivo per cui non siamo sorpresi dell’esistenza della Lista egea o delle altre liste nel tempio, che insieme riassumono il mondo come era conosciuto agli Egizi nel XIV secolo a.C., è che sappiamo da altre testimonianze che Amenofi III riconosceva l’importanza dei rapporti con le potenze straniere, in particolare con i re delle terre che avevano un’importanza diplomatica e commerciale per l’Egitto. Egli stipulò trattati con molti di questi sovrani e sposò numerose delle loro figlie per cementarli. Lo sappiamo dalla sua corrispondenza, giunta fino a noi sotto la forma di un archivio, iscritto su tavolette d’argilla


e scoperto nel 1887. La storia comunemente accettata sulla scoperta di questo archivio è che venne trovato da una contadina in cerca di combustibile nella località moderna di Tell el-Amarna, dove si trovano le rovine della città un tempo chiamata Akhetaten (che significa «Orizzonte del disco del sole»).10 Il figlio eretico di Amenofi III, Amenofi IV, più conosciuto con il nome di Akhenaton, l’aveva costruita nella metà del XIV secolo a.C. come nuova capitale. Akhenaton era il successore di Amenofi III, e probabilmente aveva avuto il ruolo di co-governante con suo padre per alcuni anni prima della morte di questi, nel 1353 a.C. Subito dopo aver assunto il potere, Akhenaton mise in atto quella che viene chiamata la «rivoluzione di Amarna». Fece chiudere i templi dedicati a Ra, Amon e agli altri dèi principali, si impossessò dei loro immensi tesori e creò per se stesso un potere senza pari, come capo assoluto del governo, dell’esercito e della religione. Condannò il culto di tutte le divinità egizie, tranne Aton, il disco del sole, che lui, e lui solo, poteva adorare direttamente. Questa politica è talvolta considerata il primo tentativo di monoteismo, poiché verosimilmente era adorato un solo dio. In realtà la questione è discutibile (ed è stata oggetto di numerose discussioni accademiche). Per gli Egizi comuni c’erano essenzialmente due dèi: Aton e Akhenaton, ma al popolo era permesso pregare soltanto il secondo; il re pregava invece Aton per conto del popolo stesso. È possibile, in effetti, che Akhenaton fosse un eretico e magari perfino un fanatico, sotto alcuni aspetti, ma, piuttosto che un esaltato, era certamente anche un calcolatore e un tiranno. La sua rivoluzione religiosa potrebbe infatti essere stata una manovra politica e


diplomatica accorta, destinata a restaurare il potere del re, che durante i regni dei faraoni precedenti era stato eroso a favore dei sacerdoti. Ma Akhenaton non distrusse tutto quello che i suoi antenati avevano creato. In particolare, capì l’importanza di mantenere rapporti internazionali, soprattutto con i re delle terre che circondavano l’Egitto. Akhenaton proseguì la tradizione, inaugurata dal padre, fatta di negoziazioni diplomatiche e di cooperazione commerciale con le potenze straniere di tutti i livelli, compreso Šuppiluliuma e gli Ittiti.11 Il faraone conservò un archivio di corrispondenze tenute con questi re e con i governatori della sua capitale, Akhetaten, e sono proprio queste le cosiddette Lettere di Amarna, iscritte su tavolette di argilla, che la contadina trovò accidentalmente nel 1887. L’archivio era stato originariamente conservato nell’«ufficio registri» della città. È una vera e propria messe di lettere inviate a re e governatori con i quali sia Amenofi sia suo figlio Akhenaton ebbero rapporti diplomatici, compresi i signori ciprioti e ittiti e i re babilonesi e assiri. Ci sono anche lettere ai governanti cassiti e le loro risposte, nelle quali troviamo AbdiHepa di Gerusalemme e Biridiya di Megiddo. Le lettere di questi signori locali, che di solito erano vassalli degli Egizi, sono colme di richieste di aiuto, ma quelle inviate dai sovrani delle grandi potenze (Assiria, Babilonia, Mitanni e Ittiti) sono di solito piene di richieste di doni e offerte a un alto livello diplomatico. L’archivio di Amarna, assieme al suo corrispettivo ritrovato a Mari, del XVIII secolo a.C., è tra i primi della storia del mondo a documentare le relazioni internazionali, effettive e consolidate, che avevano luogo nell’Età del Bronzo in Egitto e nel Mediterraneo orientale.12


Le lettere erano scritte in accadico, la lingua franca diplomatica di quell’epoca, sempre utilizzata nelle relazioni internazionali, e consistono di quasi quattrocento tavolette d’argilla. Vendute sul mercato antiquario all’epoca della scoperta, le tavolette sono ora disperse tra vari musei in Inghilterra, Egitto, Stati Uniti ed Europa, compresi il British Museum a Londra, il Museo del Cairo in Egitto, il Louvre a Parigi, l’Oriental Museum dell’Università di Chicago, il Museo Pushkin in Russia e il Vorderasiatisches Museum a Berlino (che possiede quasi i due terzi delle tavolette).13 Omaggi e relazioni familiari Queste lettere, che costituiscono le copie di quelle inviate ai governanti stranieri e le loro risposte, ci danno un’idea del commercio e dei rapporti internazionali all’epoca di Amenofi III e Akhenaton durante la seconda metà del XIV secolo a.C. È chiaro che numerosi contatti che facevano parte della cerimonia degli «omaggi» avveniva ad alto livello, tra un sovrano e l’altro. Per esempio, una lettera di Amarna, mandata ad Amenofi III da Tushratta, il re dei Mitanni nella Siria settentrionale che salì al trono nel 1385 circa, esordisce con un paragrafo che contiene i tradizionali saluti e continua parlando dei doni che il re ha inviato tramite i suoi messaggeri: Dice a Nibmuareya [Amenofi III], il re d’Egitto, mio fratello: Così [dice] Tushratta, il re dei Mitanni, tuo fratello. Per me, tutto va bene. Per te, vada tutto bene. Per KeluHepa [tua moglie], vada tutto bene. Per la tua famiglia, per le tue mogli, per i tuoi figli, per i notabili [i capi], per i tuoi guerrieri, per i tuoi cavalli, per i tuoi carri e nel tuo paese, tutto vada molto bene... Per mezzo della presente ti mando 1 carro, 2 cavalli, un servitore maschio, un’assistente femmina, dal bottino della terra di Hatti. Come omaggio di mio fratello, ti mando 5 carri, 5 formazioni di cavalli. E come omaggio a Kelu-Hepa, mia sorella, le mando 1 parure di spille perforate, 1 parure di orecchini d’oro, 1 anello


d’oro masu e un flacone di profumo colmo di «olio dolce». Per mezzo della presente mando Keliya, il mio primo ministro, e Tunip-ibri. Possa mio fratello farli venire con sollecitudine in modo che possano ritornare presto da me e ricevere i saluti di mio fratello e rallegrarmene. Possa mio fratello cercare amicizia da me e inviarmi i suoi messaggeri che mi portino i suoi saluti, che io sentirò volentieri.14

Un’altra lettera regale, da Akhenaton a Burna-Buriash II, il re cassita di Babilonia, include una lista dettagliata dei doni che egli aveva inviato. L’elenco occupa più di trecento righe di scrittura. Sono compresi oggetti d’oro, di rame, d’argento e di bronzo, flaconi di profumo e di olio dolce, anelli, braccialetti da caviglia, collane, troni, specchi, tessuti di lino, scodelle di pietra e scrigni di ebano.15 Lettere dettagliate di questo tipo, con lunghe liste analoghe di oggetti, a volte inviate per accompagnare la dote di una figlia e a volte solo come doni, provengono da altri sovrani.16 Dobbiamo anche osservare che i «messaggeri» a cui ci si riferiva in queste e altre lettere erano a volte ministri, di solito inviati come ambasciatori, ma spesso erano mercanti, che probabilmente lavoravano sia per se stessi sia per conto del sovrano. In queste lettere i re coinvolti spesso si dicevano parenti, chiamandosi l’un l’altro «fratello» o «padre/figlio», anche se in realtà non appartenevano alla stessa famiglia, allo scopo di creare un «partenariato commerciale».17 Gli antropologi hanno osservato che questi sforzi di creare relazioni familiari immaginarie accadono più spesso nelle società pre-industriali, in particolare per risolvere il problema del commercio quando non ci sono legami di consanguineità o mercati controllati dallo stato.18 Così, ad esempio, un re di Amurru scrisse al vicino re di Ugarit (le due regioni erano situate sulla costa settentrionale


della Siria): «Guarda, fratello mio: io e te, siamo fratelli. Figli di un unico uomo, siamo fratelli. Perché non dovremmo essere in buoni termini l’uno con l’altro? Qualsiasi sia il desiderio che vuoi comunicarmi per iscritto, lo soddisferò; e tu soddisferai i miei desideri. Noi formiamo un’unità».19 Evidentemente questi due re non erano necessariamente imparentati, neppure tramite il matrimonio. Non tutti lo erano e non tutti apprezzavano questa scorciatoia nelle relazioni diplomatiche. Gli Ittiti dell’Anatolia al riguardo erano particolarmente suscettibili, dal momento che un re ittita scrisse a un altro re: «Perché dovrei scriverti in termini di fratellanza? Siamo forse figli della stessa madre?».20 Non è sempre chiaro quali relazioni meritassero l’utilizzo del termine «fratello», opposto a «padre» e «figlio», ma di solito «fratello» sembra indicare eguaglianza di statuto o di età, con i termini «padre» e «figlio» riservati alle manifestazioni di rispetto. I re ittiti, per esempio, utilizzano più spesso nella loro corrispondenza i termini «padre» e «figlio» di quanto non lo facciano i sovrani di tutti gli altri grandi stati del Medio Oriente, mentre le lettere di Amarna impiegano quasi sempre il termine «fratello», sia per il potentissimo re d’Assiria sia per il meno prestigioso sovrano di Cipro. Sembra che i faraoni egizi considerassero gli altri re del Medio Oriente, che erano loro partner commerciali, come membri di una sorta di fratellanza internazionale, indipendentemente dall’età o dagli anni passati sul trono.21 In alcuni casi tuttavia i due re erano davvero imparentati tramite il matrimonio. Per esempio, nelle lettere da Tushratta dei Mitanni ad Amenofi III, il primo chiama sorella la moglie di Amenofi III, Kelu-Hepa, che però lo era davvero (suo padre


l’aveva data in sposa ad Amenofi III). Analogamente, Tushratta offrì anche la mano di sua figlia Tadu-Hepa ad Amenofi III in un altro matrimonio combinato, che rese Tushratta al contempo cognato («fratello») e suocero («padre») di Amenofi. Quindi, una delle sue lettere, in modo perfettamente lecito, comincia con «Dico al ... re dell’Egitto, mio fratello, mio cognato ... Così parla Tushratta, il re della terra dei Mitanni, il tuo suocero».22 Dopo la morte di Amenofi III, Akhenaton aveva preso (o ereditato) Tadu-Hepu come una delle sue mogli, cosa che diede a Tushratta il diritto di definirsi suocero sia di Amenofi III sia di Akhenaton in diverse lettere.23 In ogni caso, il matrimonio regale era combinato per cementare rapporti e trattati tra le due potenze, soprattutto tra i due re. Ciò diede a Tushratta il diritto di chiamare suo «fratello» Amenofi III (anche se tecnicamente era suo cognato) e di aspettarsi rapporti con l’Egitto migliori di quelli di cui aveva goduto in passato. I matrimoni erano accompagnati da doti elaborate, che sono registrate in numerose lettere di Amarna. Per esempio, una lettera da Tushratta ad Amenofi III, che è solo parzialmente intatta e non interamente leggibile, elenca 241 linee di doni, di cui egli stesso dice: «Sono questi i regali di matrimonio, di ogni tipo, che Tushratta, il re dei Mitanni, diede a Nimmureya [Amenofi III], il re d’Egitto, suo fratello e suo cognato. Glieli diede nello stesso momento in cui diede in sposa sua figlia Tadu-Hepa all’Egitto e a Nummureya».24


Figura 8 Rete delle relazioni sociali risultanti dalle lettere di Amarna (D.H. Cline).

Amenofi III probabilmente utilizzava questa versione diplomatica del matrimonio dinastico in modo molto piÚ costante di qualsiasi altro re della sua epoca, perchÊ sappiamo che sposò (e mantenne nel suo harem) le figlie dei re cassiti Kurigalzu I e Kadashman-Enlil di Babilonia, dei re Shittarna II e Tushratta dei Mitanni e del re Tarkhundaradu di Arzawa (Anatolia sud-occidentale).25 Ogni matrimonio indubbiamente cementava un altro trattato diplomatico e permetteva ai re di praticare rapporti diplomatici come se si trattasse di membri di una stessa famiglia. Alcuni re tentavano di trarre vantaggio dai legami matrimoniali e dallo scambio di doni in ugual misura. Per esempio, una lettera di Amarna, probabilmente del re cassita


Kadashman-Enlil di Babilonia ad Amenofi III, combina direttamente i due aspetti, dove Kadashman-Enlil scrive: Inoltre, tu, mio fratello ... come per l’oro di cui ti scrivo, mandami qualsiasi cosa sia a portata di mano, il più possibile, prima che [venga] da me il tuo messaggero, proprio adesso, in tutta fretta ... Se, durante quest’estate, durante i mesi di Tammuz o di Ab, mi mandi l’oro di cui ti ho parlato, ti darò mia figlia.26

Per questo atteggiamento sprezzante nei confronti di sua figlia, Amenofi III ammonì Kadashman-Enlil in un’altra lettera: «È davvero una bella cosa che tu dia le tue figlie per acquisire una pepita d’oro dai tuoi vicini!».27 E tuttavia, a un certo punto del suo regno la transazione ebbe luogo, perché sappiamo da tre altre lettere di Amarna che Amenofi III sposò davvero una figlia di Kadashman-Enlil, anche se non ne conosciamo il nome.28 Oro, pirite e commercio ad alto livello L’Egitto era particolarmente ricercato come partner commerciale dai re degli altri paesi. Non soltanto perché l’Egitto era una delle grandi potenze dell’epoca, ma anche a causa dell’oro che gli Egizi controllavano, per cortese intercessione delle miniere della Nubia. Più di un re scrisse ad Amenofi III e ad Akhenaton, chiedendo carichi d’oro, comportandosi come se si trattasse di una cosa normale; il ritornello «l’oro è come la polvere nel tuo paese» e frasi simili ricorrono spesso nelle lettere di Amarna. In una lettera, Tushratta re dei Mitanni invoca le relazioni familiari e chiede ad Amenofi III di «mandare più oro di quanto ne mandasti a mio padre», perché, come dice, «nel paese di mio fratello, l’oro è abbondante come la polvere».29


Ma sembra che l’oro non sempre fosse vero oro, come deploravano in particolare i re babilonesi. In una lettera mandata da Kadashman-Enlil ad Amenofi III, si legge: «Mi hai mandato come omaggio, l’unico in sei anni, 30 mine d’oro [mina è un’antica moneta greca] che sembravano d’argento».30 Il suo successore a Babilonia, il re cassita Burna-Buriash II, analogamente scrive in una lettera al successore di Amenofi III, Akhenaton: «Certamente mio fratello [il re d’Egitto] non ha controllato il primo [carico] d’oro che mi ha mandato. Quando misi le 40 mine d’oro che mi ha portato in una fornace, non ne vennero fuori neppure 10 mine, lo giurerei». In un’altra lettera diceva: «Le 20 mine d’oro che abbiamo portato qui non erano tutte presenti. Quando le misero nella fornace, non apparvero nemmeno 5 mine di oro. La (parte) che comparve, quando fu raffreddata, assomigliava a cenere. Quell’oro era davvero oro?».31 Da una parte ci si potrebbe chiedere perché mai i re babilonesi mettessero l’oro inviato dai re egizi in una fornace e lo fondessero. Forse si trattava di rottami di metallo mandati solo per il loro valore commerciale e non di un prodotto finito offerto in dono, proprio come oggi, a notte fonda, si vedono in televisione le pubblicità che chiedono allo spettatore vecchi gioielli usati in cambio di contanti, sapendo che l’oro verrà immediatamente fuso. Probabilmente i re avevano bisogno di pagare artigiani, architetti e altri professionisti, come peraltro dicono alcune lettere. D’altra parte dobbiamo anche chiederci se il re egizio sapesse davvero che i carichi di cui aveva ordinato l’invio non erano di oro vero, cioè se l’azione fosse deliberata, o se piuttosto l’oro vero fosse stato scambiato per strada da mercanti e messaggeri


senza scrupoli. Burna-Buriash, nel caso delle quaranta mine citate sopra, pensava che fosse vera la seconda ipotesi, o almeno offrì questa scappatoia ad Akhenaton, in un modo diplomatico di uscire da una situazione spiacevole, scrivendo: «L’oro che mio fratello mi ha mandato, mio fratello non dovrebbe lasciarne la responsabilità ad alcun delegato. Mio fratello dovrebbe fare un controllo [personale] [dell’oro], poi mio fratello dovrebbe apporre i sigilli e mandarmelo. Sicuramente mio fratello non ha controllato il primo (carico) d’oro che mio fratello mi ha mandato. Fu solo un delegato di mio fratello che lo sigillò e me lo inviò».32 Sembra inoltre che le carovane colme di doni e scambiate tra i due re fossero spesso attaccate lungo il cammino. BurnaBuriash scrive di due carovane che appartenevano a Salmu, il suo messaggero (e forse rappresentante diplomatico) mostrando di sapere che sono state oggetto di un’aggressione. Sa perfino chi è il colpevole: un uomo chiamato Biriyawaza era responsabile del primo furto, e un altro, forse di nome Pamahu (forse un nome di luogo erroneamente attribuito a una persona), commise il secondo. Burna-Buriash chiede quando Akhenaton avrebbe perseguito quest’ultimo, poiché apparteneva alla sua giurisdizione, ma non ricevette risposta, almeno per quanto è a nostra conoscenza.33 Non dobbiamo dimenticare che questi scambi di doni ad alto livello erano probabilmente la punta dell’iceberg di una vasta rete commerciale. Una situazione analoga, relativamente moderna, potrebbe essere la seguente. Negli anni venti, l’antropologo Bronisław Malinowski studiò gli abitanti delle isole Trobriand che partecipavano al cosiddetto rito di Kula (uno scambio simbolico di doni) nel Pacifico del Sud. In questo


sistema, i capi di ciascuna isola si scambiavano bracciali e collane fatti di conchiglie: durante il rito i bracciali circolavano solo in una direzione e le collane nell’altra. Il valore di ogni oggetto aumentava e diminuiva in base al lignaggio e alla storia del proprietario (gli antropologi parlano della «biografia» di un oggetto). Malinowski scoprì che, mentre i capi nei centri dediti al cerimoniale si scambiavano bracciali e collane secondo le circostanze e lo sfarzo tradizionale, gli uomini dell’equipaggio, sulle canoe, commerciavano sulla spiaggia in cibo, acqua e altri articoli con i locali.34 Queste transazioni commerciali mondane erano il vero scopo economico dello scambio cerimoniale di doni tra i capi trobriandesi, anche se essi non l’avrebbero mai ammesso. Analogamente, non dovremmo sottovalutare l’importanza dei messaggeri, dei mercanti e dei marinai che trasportavano i doni e altri articoli attraverso i deserti del Medio Oriente antico e oltremare, fino all’Egeo. È chiaro che esistevano molti contatti tra l’Egitto, il Medio Oriente e l’Egeo durante la tarda Età del Bronzo, e indubbiamente le idee e le innovazioni venivano trasmesse assieme agli oggetti. Lo scambio di idee sicuramente avvenne non solo ai livelli alti della società, ma anche nelle locande e nelle taverne dei porti e delle città lungo le rotte commerciali in Grecia, Egitto e nel Mediterraneo orientale. Per portare a buon fine trattative concrete e condividere miti, fiabe e leggende, dove mai si sarebbero incontrati i marinai o i membri dell’equipaggio mentre aspettavano i venti favorevoli o attendevano di portare a termine una missione diplomatica? Questi avvenimenti hanno probabilmente contribuito alla propagazione degli influssi culturali che si sono diffusi tra l’Egitto, il resto del Medio


Oriente e l’Egeo. Scambi simili tra culture potrebbero forse spiegare le analogie tra la Saga di Gilgamesh e la successiva Iliade di Omero o tra il Mito di Kumarbi degli Ittiti e la successiva Teogonia di Esiodo.35 Va anche notato che gli scambi di doni tra i governanti spesso includevano medici, scultori, muratori e artigiani specializzati, che venivano inviati nelle diverse corti reali. C’è poco da stupirsi che ci siano somiglianze tra le strutture architettoniche in Egitto, Anatolia, Canaan e perfino nell’Egeo, se gli stessi architetti, scultori e tagliapietre lavoravano nelle medesime regioni. Le recenti scoperte di pitture murali e di pavimenti dipinti in stile egeo a Tell ed-Dab’a in Egitto, citate nel capitolo precedente, come pure a Tel Kabri in Israele, ad Alalakh in Turchia e a Qatna in Siria, indicano che l’artigianato egeo potrebbe essere stato introdotto in Egitto e nel Medio Oriente già a partire dal XVII secolo e forse fino a tutto il XIII secolo a.C.36 Ascesa di Alashiya e dell’Assiria Dalle lettere di Amarna che risalgono specificamente all’epoca di Akhenaton sappiamo che i contatti internazionali dell’Egitto si diffusero durante il suo regno fino a comprendere la potenza emergente dell’Assiria, sotto il re Assur-uballit I, che era salito al trono nel decennio precedente la morte di Amenofi III. Ci sono anche otto lettere, e relative risposte, ai re dell’isola di Cipro, nota agli Egizi e agli altri popoli del mondo antico come Alashiya.37 Queste lettere inviate a e da Cipro, che probabilmente sono dell’epoca di Akhenaton e non di Amenofi III, sono di grande


interesse per la quantità sorprendente di rame grezzo citato in una di esse. Cipro era la fonte principale del rame per gran parte delle grandi potenze dell’Egeo e del Mediterraneo orientale durante la tarda Età del Bronzo, come è stato appurato dalle discussioni ritrovate nelle lettere, come quella in cui il re di Alashiya si scusa per aver mandato solo cinquecento talenti di rame a causa di un’epidemia che devastava l’isola.38 Oggi si pensa che il rame grezzo fosse trasportato sotto forma di lingotti «a pelle di bue», come quelli che sono stati trovati nel relitto di Uluburun, di cui parleremo nel prossimo capitolo. Ogni lingotto a pelle di bue pesava circa trenta chili, il che significa che quest’unica consegna, citata nella lettera di Amarna, sarebbe stata di circa tredici tonnellate di rame, una quantità per la quale il re cipriota (ironicamente?) si scusa! Quanto all’Assiria, ci sono due lettere nell’archivio di Amarna di Assur-uballit I, che governò il regno dal 1365 circa al 1330 a.C. Non è chiaro a quale faraone egizio queste lettere furono indirizzate, perché una comincia semplicemente così: «Dì al re d’Egitto», mentre il nome scritto nell’altra non è chiaro e la sua lettura è incerta. Precedenti traduzioni hanno suggerito che fossero state inviate ad Akhenaton, ma almeno uno studioso propone che la seconda avrebbe potuto essere indirizzata ad Ay, che salì sul trono dopo la morte di Tutankhamon.39 Tuttavia, sembra improbabile, considerando la data tardiva dell’ascesa al trono di Ay (1325 a.C. circa); è probabile che le lettere siano state inviate ad Amenofi III o ad Akhenaton, come quasi tutte le altre lettere di altri sovrani. La prima di queste lettere è semplicemente un messaggio di saluto e include una breve lista di doni, come «un bel carro,


due cavalli [e] una pietra votiva di autentici lapislazzuli».40 La seconda è più lunga e contiene la richiesta di prammatica di oro, con il solito disconoscimento: «L’oro nel vostro paese è immondizia; ci si limita a raccoglierlo»; ma contiene anche un paragone interessante con il re di Hanigalbat, cioè dei Mitanni, in cui il nuovo re di Assiria dichiara che è «l’eguale del re di Hanigalbat», un ovvio riferimento alla sua posizione nella scala gerarchica delle cosiddette grandi potenze dell’epoca, a cui l’Assiria e il suo re desideravano ardentemente partecipare.41 Sembra che quella di Assur-uballit non fosse un’oziosa vanteria, perché lui era più che un pari dell’allora re dei Mitanni, Shuttarna II. Assur-uballit sconfisse Shuttarna in battaglia, forse nel 1360 a.C., e mise fine alla dominazione dei Mitanni sull’Assiria, che era iniziata poco più di un secolo prima, quando il precedente re mitanno Saushtatar aveva rubato una porta d’oro e d’argento dalla capitale assira e l’aveva portata nella capitale mitanna di Waššukanni. Così ebbe inizio l’ascesa dell’Assiria, soprattutto a scapito dei Mitanni, e Assur-uballit diventò rapidamente une dei massimi protagonisti nel mondo internazionale della diplomazia. Combinò un matrimonio regale tra sua figlia e Burna-Buriash II, il re cassita di Babilonia, con il solo intento di invadere la città stessa di Babilonia alcuni anni più tardi, dopo che suo nipote era stato assassinato nel 1333 a.C. e mettendo poi sul trono un re fantoccio, chiamato Kurigalzu II.42 Quindi, entrano ora sulla scena i due maggiori protagonisti della tarda Età del Bronzo, l’Assiria e Cipro. Ora abbiamo tutti i personaggi: Ittiti, Egizi, Mitanni, Cassiti/Babilonesi, Assiri, Ciprioti, Cananei, Minoici e Micenei, tutti ben documentati. Tutti interagirono tra loro, sia positivamente sia


negativamente, nei secoli successivi, anche se alcuni, come i Mitanni, uscirono di scena molto prima degli altri. Nefertiti e il re Tut Subito dopo la sua morte, le riforme di Akhenaton furono accantonate e si tentò di cancellare il suo nome e la sua memoria dai monumenti e dalle cronache dell’Egitto. Questo sforzo ebbe successo, ma, grazie al lavoro degli archeologi e degli epigrafisti, ora sappiamo molto sul regno di Akhenaton, sulla capitale che porta il suo nome e anche sulla sua tomba regale. Abbiamo anche informazioni sulla sua famiglia, compresa la bellissima moglie Nefertiti, e sulle sue figlie, che sono ritratte in molte iscrizioni e monumenti. Il celebre busto di Nefertiti fu ritrovato nel 1912 da Ludwig Borchardt, l’archeologo tedesco di Amarna (Akhetaten) e portato in Germania alcuni mesi dopo. Fu esposto al pubblico soltanto nel 1924, al Museo Egizio di Berlino. La statua si trova ancora oggi a Berlino, malgrado le numerose richieste di rimpatrio avanzate dal governo egiziano, dal momento che si dice che lasciò l’Egitto in circostanze tutt’altro che idialliache. Si racconta, senza che ci sia conferma, che gli archeologi tedeschi e il governo tedesco avevano stipulato un accordo per spartirsi in parti uguali i ritrovamenti degli scavi, lasciando agli egiziani la prima scelta. I tedeschi lo sapevano, ma volevano accaparrarsi il busto di Nefertiti. Si racconta che si impossessarono della statua senza averla pulita e la misero deliberatamente alla fine di una lunga fila di oggetti. Quando le autorità egiziane passarono in rassegna i reperti, lasciarono passare la testa coperta di polvere, e i tedeschi la imbarcarono


senza indugio alla volta di Berlino. Quando finalmente fu esposta, nel 1924, gli egiziani si infuriarono e ne chiesero senza successo la restituzione.43 Oggi conosciamo anche molte cose sul figlio di Akhenaton, Tutankhaten, che cambiò il suo nome e governò utilizzando il nome con cui lo conosciamo oggi: Tutankhamon, o re Tut. Non era nato in Arizona, contrariamente a quello che disse una volta Steve Martin in Saturday Night Live, né andò mai a Babilonia.44 Salì al trono d’Egitto a un’età giovanissima, quando aveva circa otto anni, la stessa età in cui salì al trono Thutmose III quasi 150 anni prima. Fortunatamente per lui, nei paraggi non c’era Hatshepsut che governava in sua vece. Quindi Tut fu in grado di regnare per circa dieci anni, prima della sua morte prematura. Gran parte dei particolari che circondano la breve vita di Tut non sono immediatamente rilevanti per il nostro studio, ma la sua morte invece è importante, in parte perché la scoperta della sua tomba nel 1922 inaugurò la moderna ossessione per l’Egitto («egittomania») e fece di lui il re più celebre di tutti quelli che governarono durante la tarda Età del Bronzo; in parte, poi, a causa del fatto che molto probabilmente fu la sua vedova a scrivere al re ittita Šuppiluliuma I, chiedendo un marito dopo la morte di Tut. La causa della morte di Tut è stata dibattuta a lungo (si è anche pensato alla possibilità che fosse stato ucciso da un colpo inferto alla nuca), ma i più recenti studi scientifici, compresa una TAC dello scheletro, indicano come responsabile la frattura di una gamba cui seguì un’infezione.45 Che si sia rotto una gamba cadendo da un carro, come si crede, non potrà mai essere provato, ma ora è chiaro che ha sofferto di malaria,


di deformazioni congenite e anche di piede equino. Si è anche pensato che possa essere nato da una relazione incestuosa tra un fratello e una sorella.46 Tut fu sepolto in una tomba nella Valle dei Re. È possibile che la tomba non fosse originariamente destinata a lui, come i molti oggetti sfolgoranti sepolti con lui, poiché morì in modo improvviso e inaspettato. Fu anche estremamente difficile per gli egittologi localizzare la tomba, ma alla fine Howard Carter la scoprì nel 1922. Il conte di Carnarvon aveva ingaggiato Carter con l’esplicito intento di trovare la tomba di Tut. Carnarvon, come altri membri dell’aristocrazia britannica, stava cercando qualcosa da fare mentre svernava in Egitto. A differenza di alcuni dei suoi compatrioti, trascorreva ogni anno del tempo in Egitto per ragioni mediche, da quando, nel 1901, era stato coinvolto in un incidente automobilistico in Germania, dopo aver guidato all’inaudita velocità di venti miglia all’ora, e si era perforato un polmone; il suo medico temeva che non avrebbe potuto sopravvivere neanche a un solo inverno inglese. Doveva quindi trascorrere gli inverni in Egitto, dove iniziò a cimentarsi nell’attività di egittologo dilettante, prendendo alle sue dipendenze il beniamino degli egittologi.47 Carter era stato ispettore generale dei monumenti dell’Alto Egitto e aveva poi acquisito una carica ancora più prestigiosa a Saqqara. Ma aveva dovuto dare le dimissioni dopo aver rifiutato di scusarsi con un gruppo di turisti francesi che, nel 1905, avevano creato problemi al sito. Era quindi nelle condizioni ideali per essere assunto da Carnarvon, perché all’epoca era disoccupato e lavorava solo come acquerellista per i turisti. I due uomini cominciarono a lavorare insieme nel


1907.48 Dopo una decina di anni di scavi condotti con successo in numerosi siti, i due, nel 1917, iniziarono a lavorare nella Valle dei Re. Cercavano specificamente la tomba di Tut, che sapevano essere da qualche parte in quel luogo. Carter scavò per sei stagioni, parecchi mesi all’anno, finché i finanziamenti di Carnarvon, e forse anche il suo interesse, cominciarono a venire meno. Carter però insistette per scavare per un’ultima stagione, offrendosi di pagare di persona, perché c’era una località nella valle che non avevano ancora perlustrato. Carnarvon cedette e Carter ritornò alla Valle dei Re, iniziando a lavorare il 1° novembre 1922.49 Carter si rese conto che ogni stagione aveva stabilito l’accampamento nello stesso luogo, quindi quella volta trasferì il suo quartier generale e si mise a scavare proprio là dove era stato stabilito il primo campo... e tre giorni dopo un membro della sua équipe trovò i primi gradini che portavano alla tomba. Come si capì in seguito, una delle ragioni per cui la tomba era rimasta introvabile per migliaia di anni era che il suo ingresso era sepolto sotto i detriti buttati da coloro che più tardi costruirono la tomba vicina, quella di Ramses VI, morto circa un secolo dopo Tut. Carter aveva scoperto l’ingresso della tomba mentre Carnarvon era ancora in Inghilterra; gli mandò quindi subito un telegramma e si dispose ad attendere il suo arrivo. Avvertì anche i media. Quando Carnarvon arrivò in Egitto e l’équipe fu pronta ad aprire la tomba, il 26 novembre 1922, c’erano giornalisti dappertutto, come documentano le fotografie dell’epoca. Quando fu aperto un foro nella porta, Carter poté scrutare attraverso esso, verso il corridoio d’entrata della tomba.


Carnarvon tirò Carter per la giacca e gli chiese cosa vedeva. Si racconta che Carter rispose: «Vedo cose meravigliose» o qualcosa del genere, e più tardi riferì che aveva visto oro, dappertutto, uno scintillio d’oro.50 Indubbiamente, il sollievo era evidente nella sua voce, perché durante il lungo periodo in cui aveva atteso il ritorno di Carnarvon, Carter era tormentato dal pensiero che la tomba fosse stata saccheggiata almeno una, se non due volte, a giudicare dal fatto che l’ingresso era stato rintonacato, e recava i sigilli della necropoli.51 In Egitto la pena per i furti nelle tombe era la condanna a morte tramite impalamento, ma sembra che questo metodo non scoraggiasse i saccheggiatori. Quando Carter e Carnarvon riuscirono infine a entrare nella tomba, fu subito chiaro che era stata già saccheggiata, a giudicare dal caos che regnava tra gli oggetti nel vestibolo, sparpagliati ovunque come le suppellettili di un appartamento visitato dai ladri, e a giudicare anche dagli anelli d’oro avvolti in un fazzoletto e lasciati cadere nel corridoio d’ingresso, un po’ come se i ladri avessero lasciato la tomba in tutta fretta o fossero stati sorpresi dalle guardie della necropoli. Ma la quantità di oggetti rimasti nella tomba era sconcertante: Carter e i suoi collaboratori impiegarono i successivi dieci anni a completare gli scavi e a catalogare ogni articolo, anche se Carnarvon morì di avvelenamento del sangue solo otto giorni dopo che la tomba fu aperta, dando così l’avvio alla leggenda della «maledizione della mummia». Il gran numero di oggetti sepolti nella tomba di Tut spinse alcuni egittologi a chiedersi cosa avrebbe potuto esserci in quella di un faraone che aveva governato molto più a lungo, come Ramses III o perfino Amenofi III, ma tutte queste tombe


erano state saccheggiate molto tempo prima. È tuttavia probabile che la straordinaria quantità di oggetti nella tomba di Tut fosse unica nel suo genere e fosse il risultato dei doni dei sacerdoti egizi, che gli erano grati perché aveva annullato le riforme del padre e ridato potere ai sacerdoti di Amon. Ma, finché non sarà trovata un’altra tomba regale egizia intatta, non avremo nulla con cui paragonare la tomba di Tut. Quando Tut morì, lasciò vedova la giovane regina Ankhesenamon, che era anche sua sorella. Ed ecco che arriviamo alla saga del re ittita Šuppiluliuma I e del cosiddetto affaire Zannanza, uno dei più sconcertanti episodi diplomatici del XIV secolo a.C. Šuppiluliuma e l’affaire Zannanza Dopo Tudhaliya I/II, gli Ittiti dell’Anatolia avevano attraversato un periodo di stagnazione, governati da sovrani deboli e incapaci. Il loro prestigio rifiorì verso il 1350 a.C., sotto un nuovo re di nome Šuppiluliuma I, che abbiamo già citato parlando della corrispondenza negli archivi di Akhenaton. Da giovane principe agli ordini del padre, Šuppiluliuma I aveva aiutato gli Ittiti a riprendere il controllo dell’Anatolia.52 La loro riscossa in quel periodo rappresentava una minaccia per Amenofi III e il suo impero. Non sorprende quindi che i trattati da lui stipulati e i matrimoni combinati furono organizzati con i dignitari dei paesi confinanti con gli Ittiti, da Ugarit sulla costa nord della Siria, a Babilonia in Mesopotamia, sino ad Arzawa, in Anatolia. Durante il primo periodo del regno di Šuppiluliuma I, con queste manovre diplomatiche gli Egizi


miravano a trarre vantaggi della relativa debolezza degli Ittiti, ma quando, sotto il governo di Šuppiluliuma I, essi cominciarono a riprendersi, gli accordi non ebbero altra ambizione se non quella di controllare il livello delle loro attività.53 Sappiamo molto di Šuppiluliuma grazie alle cronache ittite, soprattutto quelle stilate su una serie di tavolette scritte da suo figlio e poi successore, Muršili II, che contengono le cosiddette «Preghiere della peste». Dopo circa trent’anni di regno, Šuppiluliuma I morì di peste, malattia che si era propagata in terra ittita tramite i prigionieri di guerra egizi, catturati durante una guerra combattuta nel nord della Siria. La peste portò morte e devastazione tra la popolazione ittita e molti membri della famiglia reale, compreso Šuppiluliuma, ne morirono. Muršili pensò che questi sacrifici umani, soprattutto quello di suo padre, fossero il castigo per un crimine commesso all’inizio del regno di Šuppiluliuma, per il quale il sovrano non aveva mai chiesto perdono agli dèi. Il fratello di Šuppiluliuma, un principe ittita di nome Tudhaliya il Giovane, era stato ucciso. Non è chiaro se Šuppiluliuma fosse direttamente coinvolto nel delitto, ma ne aveva tratto sicuramente vantaggio, perché Tudhaliya era destinato al trono ittita al suo posto, malgrado le grandi vittorie militari che Šuppiluliuma aveva ottenuto a nome di suo padre. Muršili scrive: Ma ora voi, o dèi, vi siete infine vendicati di mio padre per la questione di Tudhaliya il Giovane. Mio padre [morì] a causa del sangue di Tudhaliya e i prìncipi, i nobili, i comandanti di migliaia di uomini e gli ufficiali che sostituirono mio padre, anch’essi morirono per questa questione. Lo stesso problema travolse la terra di Hatti, e la popolazione della terra di Hatti cominciò a morire proprio per questo.54


Non conosciamo altri dettagli dell’ascesa al potere di Šuppiluliuma, tranne il fatto che ebbe successo. Siamo tuttavia a conoscenza di altri avvenimenti importanti del suo regno, grazie a un lungo documento intitolato Le Gesta di Šuppiluliuma, anch’esso scritto da suo figlio e successore Muršili II. I dettagli del regno di Šuppiluliuma potrebbero riempire un libro intero, che un giorno o l’altro sarà sicuramente scritto. In questo contesto ci basta dire che Šuppiluliuma ebbe la capacità di riconquistare gran parte dell’Anatolia, grazie a continue guerre e a un’accorta diplomazia. Riuscì anche ad accrescere l’influenza degli Ittiti e i confini dell’impero, sino al nord della Siria, dove probabilmente distrusse la città di Alalakh, capitale del regno di Mukish.55 Le sue numerose campagne a sud e a est alla fine provocarono una guerra contro gli Egizi, anche se soltanto all’epoca di Akhenaton. Si giunse pure a una situazione di conflitto con i Mitanni, che si trovavano più a est, durante il regno del re Tushratta. Šuppiluliuma alla fine sconfisse e conquistò il regno dei Mitanni, ma solo dopo un certo numero di tentativi, fino alla cosiddetta Grande guerra siriaca, quando Šuppiluliuma conquistò e saccheggiò la capitale Waššukanni.56 Tra le altre città che Šuppiluliuma attaccò e distrusse nelle terre dei Mitanni c’era il sito dell’antica Qatna, la moderna Tell Mishrife, che oggi è luogo di scavi archeologici italiani, tedeschi e siriani. Nell’ultimo decennio vi sono state compiute scoperte straordinarie, compresa una tomba regale intatta, pitture murali in stile egeo con motivi ornamentali di tartarughe e delfini, un pezzo di terracotta con l’incisione del nome regale di Akhenaton (forse utilizzato per sigillare un’anfora oppure apposto originariamente su una lettera), e


decine di tavolette dell’archivio reale, tutte all’interno o al di sotto del palazzo. Tra queste tavolette c’è una lettera, del 1340 a.C., di Hanutti, il comandante in capo dell’esercito ittita sotto Šuppiluliuma, che comunica al re Idadda di Qatna di prepararsi per la guerra. La lettera fu trovata tra i resti sepolti del palazzo del re, il che dimostra che gli Ittiti avevano sferrato un attacco e ne erano usciti vittoriosi.57 Šuppiluliuma non disdegnava la diplomazia, che già a quell’epoca andava di pari passo con la guerra. Sembra abbia perfino sposato una principessa babilonese, forse dopo aver ripudiato la sua prima moglie (e madre dei suoi figli) per una trasgressione di cui non si conosce la natura e averla confinata presso Ahhiyawa.58 Offrì la mano di una delle sue figlie a Shattiwaza, il figlio di Tushratta, che lui stesso aveva posto sul trono dei Mitanni come re vassallo, dopo avere mandato l’esercito per spodestare il padre. Tuttavia, il matrimonio più curioso e interessante associato al regno di Šuppiluliuma fu quello che non ebbe mai luogo e che oggi è noto come «affaire Zannanza». Siamo venuti a conoscenza dell’affaire Zannanza nelle Gesta di Šuppiluliuma, scritte da suo figlio Muršili II, autore delle Preghiere della peste. Un giorno alla corte degli Ittiti fu recapitata una lettera, si dice da parte della regina dell’Egitto. La lettera fu considerata con sospetto perché conteneva un’offerta che non era mai stata fatta prima da un sovrano egizio. Era una richiesta così sorprendente che Šuppiluliuma dubitò subito della sua autenticità. Ecco quel che vi si legge: Mio marito è morto. Non ho figli. Ma dicono che tu hai molti figli. Se mi volessi dare uno dei tuoi figli, diventerebbe mio marito. Non vorrei mai prendere uno dei miei servitori e farne un marito!59


Le Gesta raccontano che l’autore della lettera era una donna di nome Dahamunzu. Si tratta in effetti di una parola ittita che significa solo «la moglie del re». In altre parole, si pensava che fosse della regina d’Egitto. Ma la cosa non aveva senso, perché i reali egizi non sposavano stranieri. In tutti gli accordi stipulati nei suoi trattati, per esempio, Amenofi III non aveva mai offerto in sposa una donna della sua famiglia a un monarca straniero, e quindi la risposta di Šuppiluliuma alla lettera risulta del tutto comprensibile. Egli mandò in Egitto un messaggero fidato di nome Hattuša-ziti, per chiedere se la regina avesse inviato la lettera e se parlava seriamente. Hattuša-ziti partì per l’Egitto, come gli era stato richiesto, e ritornò non solo con un’altra lettera della regina, ma anche con un suo omaggio speciale, un uomo di nome Hani. La lettera era scritta in accadico e non in lingua egizia o ittita. È sopravvissuta sino ai giorni nostri in forma frammentaria dopo essere stata ritrovata a Hattuša, negli archivi ittiti, e rispecchia la collera della regina per non essere stata creduta. Citata nelle Gesta, dice quanto segue: Se avessi avuto un figlio avrei forse parlato della vergogna mia e del mio paese a un paese straniero? Voi non mi credete e parlate a me in questo tono! Colui che era mio marito è morto. Non ho figli. Mai prenderò un mio servitore per farne un marito! Non ho scritto ad altri paesi stranieri. Ho scritto soltanto a voi. Dici che hai molti figli; dammene uno dei tuoi. Diventerà mio marito. In Egitto sarà re!60

Poiché Šuppiluliuma era ancora scettico, il messaggero egizio Hani parlò subito dopo, dicendo: Oh mio Signore! Questa è la vergogna del nostro paese! Se avessi un figlio del re, dovrei forse andare in un paese straniero e chiedere un signore per la nostra terra? Niphururiya [il re egizio] è morto. Non ha figli! La moglie del nostro Signore è sola. Cerchiamo un figlio di nostro Signore [cioè, Šuppiluliuma] per il regno d’Egitto. E per la donna, nostra Signora, lo cerchiamo come marito! Inoltre non andiamo in altri


paesi, veniamo solo qui! Ora, oh nostro Signore, dacci un figlio dei tuoi!61

Secondo le Gesta, Šuppiluliuma fu infine convinto e decise di mandare in Egitto uno dei suoi figli, di nome Zannanza. Non rischiava molto, perché Zannanza era il quarto di cinque figli. I tre maggiori stavano già prestando i loro servizi in varie missioni, quindi poteva benissimo fare a meno di Zannanza. Se l’affare fosse andato in porto, il figlio sarebbe diventato re d’Egitto; se invece fosse fallito, aveva pur sempre altri quattro figli. Accadde che le cose non andarono affatto bene. Dopo diverse settimane, arrivò un messaggero e informò Šuppiluliuma che la carovana in viaggio per l’Egitto aveva subito un’imboscata e Zannanza era stato ucciso. I responsabili erano fuggiti e non erano stati ancora identificati. Šuppiluliuma era fuori di sé; non aveva dubbi sul fatto che gli Egizi avessero una parte di responsabilità per l’accaduto... e forse l’avevano addirittura indotto con l'inganno a mandare suo figlio verso la morte, come raccontano Le Gesta, Quando mio padre [Šuppiluliuma] venne a sapere dell’omicidio di Zannanza, cominciò a piangere per Zannanza e agli dèi parlò così: «O dèi! Non ho compiuto alcun male, ma il popolo di Egitto mi ha fatto questo! Hanno anche aggredito i confini del mio paese!».62

L’imboscata e l’assassinio di Zannanza è ancora un mistero irrisolto. Rimane anche una questione aperta sul nome di chi, in Egitto, avrebbe mandato la lettera a Šuppiluliuma, dal momento che ci sono due potenziali regine in quel periodo, entrambe vedove: una era Nefertiti, moglie di Akhenaton; l’altra era Ankhesenamon, moglie di re Tut.63 Tuttavia, tenuto conto delle informazioni contenute nelle lettere, in particolare


del fatto che la regina non aveva figli, e considerata la concatenazione di eventi che seguì l’uccisione di Zannanza (il trono di Egitto finì nelle mani di un uomo di nome Ay, che sposò Ankhesenamon anche se era abbastanza vecchio da poter essere suo nonno), è probabile che abbia senso identificare in Ankhesenamon l’autrice della misteriosa lettera regale. Non si sa se Ay abbia avuto qualcosa a che fare con il vero assassinio del principe ittita, ma fu lui a ottenerne maggiori vantaggi, ed è naturale che i sospetti cadano su di lui. Quando Šuppiluliuma promise di vendicarsi per la morte di suo figlio, fece progetti per attaccare l’Egitto. Ay lo avvertì di non farlo, in una corrispondenza che è giunta fino a noi in modo frammentario, ma Šuppiluliuma dichiarò guerra comunque e mandò l’esercito ittita nel sud della Siria, dove mise sotto assedio numerose città e fece migliaia di prigionieri, compresi molti soldati egizi.64 Quando ci si chiede se sia lecito dichiarare una guerra a causa di un’unica persona, il pensiero va alla guerra di Troia, nella quale i Micenei combatterono i Troiani per dieci anni a causa del rapimento della bella Elena, di cui parleremo presto. Ma un altro esempio è l’assassinio dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno 1914, che molti considerano come il motivo contingente che diede inizio alla Prima guerra mondiale. Ironicamente, come abbiamo osservato riguardo alle Preghiere della peste di Muršili, si pensa che i prigionieri di guerra egizi che furono portati in patria dall’esercito ittita abbiano portato con sé la malattia, che si diffuse rapidamente per tutto il paese. Subito dopo, nel 1322 a.C. circa, Šuppiluliuma morì di peste, forse vittima anche lui del fraintendimento egizio-ittita, come lo era stato suo figlio


Zannanza. Ittiti e Micenei Si potrebbe fare un’osservazione aggiuntiva sugli Ittiti dell’epoca. Durante il regno di Šuppiluliuma, cominciò un periodo nel quale gli Ittiti diventarono una delle massime potenze del mondo antico, allo stesso livello degli Egizi e sorpassando Mitanni, Assiri, Cassiti/Babilonesi e Ciprioti. Mantennero la loro posizione con un misto di diplomazia, minacce, guerra e commercio. Gli archeologi che hanno scavato nei siti ittiti hanno trovato merci che provenivano praticamente da tutte queste terre (potremmo chiamarli statinazione, nel linguaggio moderno). E oggetti di fattura ittita sono stati trovati in quasi tutti questi paesi. L’eccezione è l’area dell’Egeo. Gli oggetti ittiti sono quasi inesistenti nell’Età del Bronzo sulla terraferma greca, a Creta, nelle isole Cicladi e perfino a Rodi, malgrado la vicinanza di quest’ultima alla Turchia. Soltanto una dozzina di questi oggetti è venuta finora alla luce, e non c’è paragone rispetto alle centinaia di oggetti importati dall’Egitto, Canaan e Cipro trovati nelle stesse regioni. Viceversa, quasi nessun oggetto miceneo o minoico è stato importato nelle terre degli Ittiti nell’altopiano dell’Anatolia centrale, malgrado il fatto che merci importate da Cipro, dall’Assiria, da Babilonia e dall’Egitto avevano attraversato i valichi di montagna e si erano fatte strada fin lì. Questa evidente anomalia nei modelli commerciali del mondo antico del Mediterraneo non si limita all’epoca di Šuppiluliuma e al XIV secolo a.C., ma è dimostrata per almeno tre secoli, dal XV al XIII.65


Potrebbe semplicemente trattarsi del fatto che nessuno dei due lati produceva oggetti che l’altro voleva, o che gli oggetti scambiati erano deperibili (per esempio olio d’oliva, vino, legname, tessuti o metalli) e siano dunque scomparsi, oppure che siano stati riutilizzati per la costruzione di altri oggetti, ma è anche possibile che la scarsità del commercio fosse deliberata. Vedremo nel prossimo capitolo un trattato diplomatico ittita in cui è spiegato a chiare lettere un embargo economico intenzionale contro i Micenei («nessuna nave degli Ahhiyawa può andare da lui»): sembra probabile che siamo di fronte a uno dei primi esempi di embargo della storia. Come è stato osservato altrove,66 un simile scenario è supportato dal fatto che sappiamo che i Micenei incoraggiarono attivamente attività anti-ittite nell’Anatolia occidentale.67 Come abbiamo detto all’inizio di questo capitolo, se Amenofi III aveva mandato un’ambasciata nell’Egeo per aiutare a contenere la potenza emergente degli Ittiti – come viene raccontato nella cosiddetta Lista egea trovata nel suo tempio funebre a Kom el-Hetan –, è lecito aspettarsi che queste iniziative anti-ittite possano aver trovato un alleato più che bendisposto nell’Egeo. In alternativa, l’ostilità e l’assenza di commercio tra Micenei e Ittiti potrebbero essere stati il risultato di un trattato anti-ittita stipulato da Egizi ed Egei durante l’epoca di Amenofi III. Per sintetizzare, sembra che la politica, il commercio e la diplomazia di tremilacinquecento anni fa, soprattutto durante il XIV secolo a.C., non fossero affatto dissimili da quelli praticati oggi nella nostra economia globalizzata, in cui sono all’ordine del giorno embargo di tipo economico, missioni diplomatiche, doni tra sovrani e giochi di potere.


3. Atto III Lottare per gli dèi e per la patria: il XIII secolo a.C. Non sappiamo quel che successe durante gli ultimi momenti di navigazione della nave che affondò sulla costa sudoccidentale della Turchia a Uluburun (che si può approssimativamente tradurre con «grande promontorio») nel 1300 a.C. circa. Si ribaltò durante una tempesta? Andò a picco dopo aver urtato contro un oggetto sommerso? L’equipaggio la affondò intenzionalmente per evitare di essere preso prigioniero dai pirati? Gli archeologi non lo sanno, né sono sicuri dell’origine del vascello, della sua destinazione finale o dei suoi scali intermedi, ma sono riusciti a recuperare il suo carico, il che fa pensare che questa nave dell’Età del Bronzo stesse navigando dal Mediterraneo orientale all’Egeo.1 Un giovane pescatore di spugne turco scoprì il relitto nel 1982. Raccontò di aver visto, durante una delle sue prime immersioni, dei «biscotti di metallo con le orecchie» che giacevano sul letto sabbioso. Il suo capitano capì che la descrizione si accordava con quella di un lingotto a pelle di bue dell’Età del Bronzo (chiamato così perché la sua forma ricorda il pellame di un bue teso a seccare). Gli archeologi dell’Institute of Nautical Archeology (INA), all’Università del Texas, gli fecero vedere delle immagini di oggetti di quel tipo e gli dissero di fare attenzione se ne vedeva altri. Gli archeologi erano guidati da George Bass, che era stato un pioniere nel campo dell’archeologia sottomarina negli anni sessanta, mentre era ancora studente all’Università della


Pennsylvania. All’epoca, le attrezzature da immersione sottomarina con respiratore «scuba» (self-contained underwater breathing apparatus) erano ancora relativamente recenti e gli scavi di Bass sul relitto di Capo Gelidonya al largo della costa turca era stato il primo effettuato su un relitto dell’Età del Bronzo condotto da archeologi professionisti in quella regione. Quando nel 1967 apparvero le pubblicazioni ufficiali degli scavi, i risultati di Bass a Capo Gelidonya, in cui concludeva che il relitto era una nave cananea in rotta verso l’Egeo, naufragata verso il 1200 a.C., incontrarono lo scetticismo generale.2 Quasi tutti gli archeologi stentavano a credere che esistesse un commercio tra l’Egeo e il Medio Oriente in tempi così remoti, più di tremila anni fa, a prescindere dal fatto che i Cananei possedessero perizia e competenza sufficienti per avventurarsi nel Mediterraneo. Bass, a questo punto della sua carriera, scommise di trovare un’altra nave dell’Età del Bronzo e di fare altri scavi, per poter dimostrare la plausibilità delle sue conclusioni. E il suo momento giunse negli anni ottanta, con il relitto di Uluburun, che risaliva approssimativamente al 1300 a.C., circa cento anni più antico della nave di Capo Gelidonya. La nave di Uluburun Attualmente si pensa che la nave di Uluburun possa aver iniziato il suo viaggio in Egitto o a Canaan (forse ad Abu Hawam, in quella che è l’attuale Israele) e avesse fatto scalo a Ugarit, nel nord della Siria, e forse anche in un porto di Cipro. La nave si era poi diretta a ovest, attraverso l’Egeo, seguendo


la linea costiera meridionale dell’Anatolia. Durante il viaggio, l’equipaggio aveva preso a bordo carichi di vetro grezzo, anfore per lo stoccaggio di orzo, resina, spezie e forse vino e, fatto più prezioso di tutti, quasi una tonnellata di stagno grezzo e dieci tonnellate di rame grezzo, che dovevano essere fusi per formare il più straordinario dei metalli, il bronzo. In base al carico della nave, siamo ragionevolmente certi che stava viaggiando verso ovest partendo da Levante, probabilmente destinata a un porto dell’Egeo, forse uno dei due o tre porti sulla terraferma greca che servivano la capitale Micene, o forse una delle altre città più importanti della zona, come Pilo, sul continente, o Kommos, o perfino Cnosso, sull’isola di Creta. Il semplice fatto che ci fosse un’altra nave che veleggiava da est a ovest durante la tarda Età del Bronzo era sufficiente a confermare le teorie di Bass e a modificare completamente le teorie degli studiosi sulla portata del commercio di più di tremila anni fa. Oggi sono state trovate tre navi dell’Età del Bronzo, ma il relitto di Uluburun resta il più grande e il più ricco, oltre a essere quello su cui gli scavi sono stati più assidui. Continuano a rimanere sconosciuti i proprietari e i finanziatori della nave. Si potrebbe speculare, dando spiegazioni diverse quanto alle origini del vascello e alla sua destinazione ultima. Forse si trattava di un’impresa commerciale, una nave inviata dal Medio Oriente o dai mercanti egizi, magari con la benedizione del faraone egizio o del re cananeo. Oppure era stata inviata direttamente da un faraone o da un re, come omaggio da un sovrano all’altro, come era accaduto spesso durante l’epoca di Amarna, alcuni decenni prima. Forse la nave era stata mandata dai Micenei per una «spedizione


commerciale» nel Mediterreano orientale ed era affondata durante il viaggio di ritorno. I mercanti a bordo potrebbero aver acquistato le materie prime e altri beni non disponibili in Grecia, come lo stagno e il rame, come pure la tonnellata di resina di terebinto (dell’albero del pistacchio), che poteva essere utilizzata per il profumo prodotto a Pilo, in Grecia, e poi riportata via mare in Egitto e in tutto il Mediterraneo orientale. Evidentemente non mancano gli scenari più fantasiosi. Se i Micenei fossero stati i destinatari, allora è possibile che aspettassero con impazienza il carico della nave, perché conteneva abbastanza metallo grezzo da equipaggiare un esercito di trecento uomini con spade, scudi, elmi e armature di bronzo, oltre ad avorio prezioso e altri articoli esotici. Chiaramente, quando la nave affondò, quel giorno lontano del 1300 a.C., ci fu qualcuno che perse un’immensa fortuna.

Figura 9 Ricostruzione della nave di Uluburun (Rosalie Seidler/National Geographic Stock. Per gentile concessione della National Geographic Society).

La nave di Uluburun affondò in acque profonde; la poppa si trova ancora a 40 metri di profondità, con il resto della nave che si inclina verso il basso, fino a circa 50 metri di profondità. Immergersi a 40-50 metri di profondità è pericoloso, oltre i limiti di un’immersione sicura. A quella profondità, i sub che aderiscono alle federazioni internazionali possono fare solo due


immersioni al giorno, di venti minuti ciascuna. Là sotto, aumentano i livelli di gas che possono avere effetto narcotico. Bass ha detto che lavorando a quelle profondità ci si sente come se si avesse bevuto un paio di Martini, e ogni immersione o ogni movimento sott’acqua devono pertanto essere accuratamente pianificati prima di tuffarsi. Nel corso di quasi dodici stagioni, dal 1984 al 1994, l’équipe ha fatto immersioni sul relitto più di ventiduemila volte, senza avere mai incidenti di gravi entità, il che dimostra la prudenza usata, anche grazie al fatto che le immersioni erano controllate da un ex membro della Marina degli Stati Uniti.3 Il risultato finale è stato una mappa completa di un relitto antico e del suo carico, accurata al millimetro, come gli scavi compiuti a terra, malgrado la profondità in cui si trovava il reperto. Con le immersioni si sono anche recuperati migliaia di oggetti, che sono oggi ancora sotto indagine. La nave in sé era originariamente lunga quindici metri. Era ben costruita, con gli assi e la carena in cedro del Libano e con un incastro tenone/mortasa per lo scafo.4 Il primo relitto noto fino ad allora nel Mediterraneo che avesse fatto uso della tecnica tenone/mortasa era la nave di Kyrenia, un relitto mercantile trovato al largo di Cipro, di oltre mille anni posteriore (300 a.C.). Durante gli scavi fu particolarmente difficile raggiungere e portare alla superficie i lingotti di rame, che erano più di 350. Nel corso dei tremila anni in cui erano rimasti sott’acqua, impilati in quattro file separate con un incrocio a spina di pesce, molti si erano rovinati e si trovavano in uno stato di grande fragilità. Alla fine i conservatori dell’équipe archeologica che lavoravano con Bass dovettero utilizzare un


nuovo tipo di colla: un adesivo che veniva iniettato sui resti del lingotto, e che nel corso di un anno si solidificava e si induriva a contatto con l’acqua. La colla alla fine saldava insieme le diverse parti del lingotto decomposto, in modo che questo poteva infine essere trasportato intatto in superficie. A bordo c’era molto altro oltre ai lingotti di rame. Venne fuori che il carico sulla nave di Uluburun consisteva di un assortimento incredibile di merci, un vero e proprio manifesto del panorama commerciale internazionale dell’epoca. In tutto, c’erano prodotti di almeno sette paesi e imperi diversi. Oltre al carico originario di dieci tonnellate di rame cipriota, una tonnellata di stagno e una tonnellata di resina di terebinto, c’erano anche due dozzine di ceppi di ebano della Nubia; quasi duecento lingotti di vetro grezzo di Mesopotamia, per lo più colorati di blu scuro, o azzurri, porpora e perfino di una sfumatura ambrata color miele; circa 140 anfore di stoccaggio cananee di due o tre taglie diverse, che contenevano resina di terebinto, resti di grappoli d’uva, melograni e fichi, come pure spezie, come il coriandolo e il sommacco; vasellame nuovo di zecca da Cipro e da Canaan, che comprendeva lampade a olio, ciotole, boccali e anfore; scarabei sacri d’Egitto e sigilli cilindrici da vari parti del Medio Oriente; spade e pugnali da Italia e Grecia (alcuni dei quali probabilmente erano appartenuti ai membri dell’equipaggio o ai passeggeri), compresa un’impugnatura intarsiata di ebano e avorio; e perfino uno scettro-mazza di pietra dei Balcani. C’erano anche gioielli d’oro, con pendenti e un calice d’oro; scrigni per i cosmetici a forma di anitra; ciotole di rame, bronzo e stagno e altri contenitori; ventiquattro ancore di pietra; quattordici pezzi di avorio di ippopotamo e una zanna d’elefante; e una


statua di sei pollici di una divinità cananea di bronzo, coperta di placche d’oro (che, se era la divinità protettrice della nave, non portò certamente a buon fine il suo celeste compito).5 Lo stagno probabilmente proveniva dalla regione del Badakhshan, in Afghanistan, uno dei pochi luoghi dove lo si poteva estrarre nel secondo millennio a.C. I lapislazzuli presenti a bordo provenivano dalla stessa regione e avevano viaggiato per migliaia di miglia via terra prima di essere caricati sulla nave. Molti dei pezzi, come un sigillo cilindrico, erano piccoli e facili da perdersi durante gli scavi, soprattutto usando i grandi aspirapolvere che tolgono la sabbia che copre i resti. Il fatto che siano stati comunque ritrovati è la dimostrazione dell’abilità degli archeologi sottomarini che hanno compiuto gli scavi, guidati prima da Bass e poi dal suo successore Cemal Pulak. Uno degli oggetti più piccoli trovati a bordo della nave è anche uno dei più importanti: si tratta di uno scarabeo sacro egizio in oro massiccio. Già raro di per sé, era reso ancora più inconsueto dai geroglifici che vi erano incisi, nei quali si legge il nome di Nefertiti, moglie del faraone eretico Akhenaton. Il nome è scritto sullo scarabeo come «Nefer-neferu-aton»; è una grafia che Nefertiti utilizzò soltanto durante i primi cinque anni del suo regno, all’epoca in cui il marito era all’apice della sua riforma religiosa che condannava ogni divinità egizia tranne Aton, il disco del sole, che lui, e lui solo, poteva adorare direttamente.6 Gli archeologi si sono serviti dello scarabeo sacro per dare una data alla nave, dal momento che non poteva essere stato costruito prima che Nefertiti fosse giunta al potere nel 1350 a.C. Gli archeologi sono stati in grado di attribuire una data al


naufragio della nave anche con altri tre metodi. Un metodo faceva uso del carbonio 14, o radiocarbonio, applicato ai ramoscelli e alle frasche che erano utilizzati in coperta. Un altro usava la dendrocronologia (il calcolo degli anelli degli alberi), applicata alle travi di legno che costituivano lo scafo. Il terzo era dato dal vasellame miceneo e minoico trovato a bordo, che secondo gli specialisti risaliva alla fine del XIV secolo a.C. La combinazione di questi quattro metodi indipendenti di datazione indica il 1300 a.C. circa.7 A bordo sono stati anche trovati frammenti di una piccola tavoletta di legno, originariamente munita di cardini d’avorio, che si sono conservati in un’anfora, forse rimasta a galla mentre la nave affondava. Ricorda l’«apportator di chiuse funeste cifre» di Omero (Iliade, VI, 209-210), ed è più vecchia di oltre cinquecento anni rispetto alle analoghe tavolette che sono state trovate a Nimrud in Iraq. È possibile che un tempo la tavoletta abbia contenuto una registrazione dell’itinerario della nave, o forse era il documento del carico delle merci. Tuttavia, la cera su cui era incisa la scrittura nei due lati è scomparsa molto tempo fa, senza lasciare segni di quel che c’era scritto.8 È impossibile quindi dire se il carico fosse un omaggio regale, forse dal re d’Egitto al re di Micene, o se appartenesse a un mercante che esportava merci nei principali porti del Mediterraneo. Come è stato ipotizzato sopra, avrebbe potuto anche trattarsi di acquisti fatti durante un viaggio commerciale a lunga distanza, perché le materie prime a bordo sono compatibili con quello che serviva agli artigiani e ai mercanti dei palazzi micenei (come quello di Pilo) per creare gli articoli alla moda, oli e profumi, gioielli e collane di vetro. Forse non sapremo mai chi organizzò il viaggio della nave di


Uluburun, la sua destinazione e il motivo della spedizione, ma è chiaro che esso rappresenta un microcosmo del commercio e dei contatti internazionali che avvenivano nel Mediterraneo orientale, e in tutto l’Egeo, durante i primi anni del XIII secolo a.C. Non solo si trattava di merci provenienti da almeno sette regioni diverse, ma, a giudicare dai beni personali trovati sul relitto dagli archeologi, c’erano almeno due micenei a bordo, mentre la nave, a quanto pare, era cananea. Con ogni evidenza questa nave non appartiene a un mondo in cui le civiltà, i regni e i feudi erano separati e isolati, ma a un universo di commercio, migrazione, diplomazia e purtroppo di guerra, in cui tutto era interconnesso. Si tratta davvero della prima epoca globalizzata. Sinaranu di Ugarit Circa quarant’anni dopo il naufragio della nave di Uluburun, fu composto un testo che elencava alcuni dei contenuti di una nave simile, mandata da un mercante di nome Sinaranu da Ugarit, nel nord della Siria, fino all’isola di Creta. Si trattava di un documento ufficiale, scritto in accadico su una tavoletta d’argilla, con il sistema di scrittura cuneiforme, in cui si affermava che, quando la nave di Sinaranu fosse tornata da Creta, il proprietario non avrebbe pagato le tasse al re. Nella parte più significativa del Testo di Sinaranu, come viene chiamato, si legge quanto segue: «Dal giorno presente Ammistamru, figlio di Niqmeqa, re di Ugarit, dispensa Sinaranu, figlio di Siginu ... Non deve consegnare al palazzo il suo [grano], la sua birra, il suo olio d’[oliva]. Quando arriva da Creta, la sua nave ne è esentata».9


Da altre fonti sappiamo che Sinaranu era un ricco mercante di Ugarit (il termine specifico per mercante in accadico era tamkar), che visse e prosperò nell’epoca in cui regnava a Ugarit Ammistamru II. In base alle nostre recenti conoscenze delle date del regno di Ammistamru II (1260-1235 a.C. circa), sembra che Sinaranu abbia inviato la sua nave da Ugarit a Creta, e ritorno, nel 1260 a.C. circa. Non conosciamo il contenuto effettivo del carico riportato da Creta, tranne il fatto che c’erano grano, birra e olio d’oliva, ma per lo meno questa è la conferma che, verso la metà del XIII secolo a.C, esistevano contatti commerciali diretti tra il nord della Siria e Creta. Abbiamo quindi il nome di una persona coinvolta direttamente in transazioni economiche e mercantili internazionali avvenute più di tremiladuecento anni fa ed è molto probabile che la nave di Uluburun e quella che apparteneva a Sinaranu non fossero molto diverse, né nella costruzione né nel carico che portavano. Sappiamo che Sinaranu non era l’unico a mandare e a ricevere navi e carichi commerciali durante questo periodo, né era il solo mercante a cui era concessa l’esenzione dalle tasse. Ammistamru II rilasciò una dichiarazione simile per altri imprenditori le cui navi salpavano per l’Egitto, l’Anatolia e altrove: «Da questo giorno in poi, Ammistamru, figlio di Niqmeqa, re di Ugarit, ... [testo interrotto] ... Bin-yasuba e Bin? ... e i suoi figli per sempre, dai viaggi in Egitto e i viaggi a Hatti e nella terra di Z (?) sino al palazzo e al sovrintendente del palazzo, non hanno bisogno di fare alcuna relazione».10 La battaglia di Qadeš e le sue conseguenze All’epoca in cui erano attivi Sinaranu e gli altri mercanti,


Ugarit era sotto il controllo degli Ittiti di Anatolia, dei quali era uno stato vassallo. Era stato così sin dall’epoca di Šuppiluliuma I, verso la metà del XIV secolo, quando era stato firmato un trattato che elencava dettagliatamente gli obblighi di Ugarit come vassallo degli Ittiti.11 Il controllo degli Ittiti si era esteso molto a sud, nella regione di Qadeš, e ancora più a sud in Siria, ma non era andato oltre. Gli Egizi avevano tentato di ostacolare gli sforzi espansionistici degli Ittiti. Una grande battaglia tra Egizi e Ittiti fu infine combattuta nel sito di Qadeš nel 1274 a.C., quindici o vent’anni prima che Sinaranu mandasse la sua nave a Creta. Questa battaglia è una delle grandi battaglie dell’antichità e uno dei primi casi del mondo antico in cui fu deliberatamente utilizzata la disinformazione come misura per confondere il nemico. La battaglia di Qadeš fu combattuta tra Muwattalli II di Hatti, che stava tentando di espandere l’impero ittita più a sud nella terra di Canaan, e Ramses II di Egitto, che era deciso a stabilire il confine a Qadeš, dove infine rimase stabile per parecchi decenni. Anche se non sappiamo la versione della storia degli Ittiti, conosciamo virtualmente ogni dettaglio della battaglia e del suo esito, perché la versione degli Egizi è registrata in due modi diversi e in cinque templi diversi in Egitto: il Ramesseum (il tempio mortuario di Ramses II, vicino alla Valle dei Re) e i templi di Karnak, Luxor, Abydos e Abu Simbel. La versione più breve, che è associata a un bassorilievo che raffigura la battaglia, è conosciuta come «Relazione» o «Bollettino». La versione più lunga è denominata «Poema» o «Relazione letteraria».12 Sappiamo che la battaglia fu particolarmente cruenta e che entrambe le parti avrebbero potuto vincere in un momento o


nell’altro. Sappiamo anche che finì con un’impasse e che il conflitto tra le due potenze alla fine si risolse con la firma di un trattato di pace.13 La parte più drammatica di questo scontro avvenne dopo che gli Ittiti mandarono due uomini (beduini, o «Shoshu», come viene detto nella relazione egizia) per spiare l’esercito egizio, ma in modo talmente sfacciato che gli uomini vennero catturati quasi subito. Forse sotto tortura, le spie rivelarono false informazioni (forse uno dei primi esempi documentati nella storia umana) e dissero agli Egizi che l’esercito ittita non era ancora nelle vicinanze di Qadeš, bensì molto più a nord, nella regione di Amurru, nel nord della Siria. Dopo aver appreso queste notizie e senza neanche tentare di cercare una conferma, Ramses II cavalcò a grande velocità con la prima delle sue divisioni – la divisione Amon –, con l’intento di raggiungere Qadeš in anticipo sugli Ittiti.14 In realtà gli Ittiti erano già a Qadeš, e avevano compattato le truppe a nord e a est della città, all’ombra delle mura, dove non potevano essere visti dall’esercito egizio in avvicinamento da sud. Quando il reggimento di punta delle truppe egizie si accampò a nord della città, gli uomini di Ramses catturarono altre due spie ittite e questa volta appresero la verità, ma era troppo tardi. L’esercito ittita aggirò rapidamente le mura della città in senso orario e attaccò la seconda divisione egizia, quella conosciuta con il nome di Ra, che fu colta di sorpresa e quasi completamente annientata. Quel che rimase della divisione Ra, dispersa e smembrata, fuggì a nord, rincorsa da tutto l’esercito ittita e raggiunse Ramses e gli uomini della divisione Amon nel loro accampamento, prima di opporre resistenza.15


La battaglia divampò da entrambi i lati. Sappiamo che a un certo punto l’esercito egizio era vicino alla disfatta e Ramses stesso stava per essere ucciso, ma riuscì da solo a salvare se stesso e i suoi uomini. La cronaca incisa sulle mura del tempio egizio dichiara: Allora Sua Maestà si lanciò al galoppo e assalì il gruppo compatto di coloro che erano caduti a Hatti, completamente da solo e senza nessuno con lui ... E trovò 2500 carri che lo circondavano sul lato esterno, che consistevano in tutti i caduti di Hatti con tutti i paesi stranieri che erano con loro.

Poi il discorso passa alla prima persona, riferita al faraone stesso: Ti ho chiamato, Padre mio Amun, quando ero nel bel mezzo della moltitudine che non conoscevo ... ho trovato che Amun veniva quando lo chiamavo; mi diede la sua mano e mi rallegrai … Tutto quello che feci avvenne realmente ... tiravo con la mano destra e facevo prigionieri con la sinistra ... ho trovato 2500 carri, e io ero in mezzo a loro, sporgendomi dal mio cavallo. Nessuno di loro ha trovato la sua mano per combattere ... ho fatto in modo che si inabissassero nell’acqua come fanno i coccodrilli, uno sull’altro con il volto in giù. Ne ho uccisi tra loro quanti volevo.16

Anche se il racconto della prodezza è sicuramente esagerato, tanto più se compiuta completamente da solo (il faraone indubbiamente ebbe un aiuto di qualche tipo), il numero di cui si parla potrebbe non discostarsi molto dalla verità, perché in un altro punto dell’iscrizione si dice che l’esercito ittita era composto di 3500 carri, 37000 fanti e un totale di 47500 soldati.17 Malgrado la probabile esagerazione, dalle immagini che accompagnano il testo e dall’esito della battaglia è chiaro che Ramses II e le prime due divisioni egizie seppero opporre resistenza, finché non arrivarono in soccorso altre due divisioni, che raggiunsero il campo di battaglia e si opposero all’esercito ittita.18


In definitiva la battaglia si risolse con un’impasse e il confine tra le due potenze rimase fissato a Qadeš, e non fu più cambiato né messo in discussione. Quindici anni dopo, nel novembre/dicembre 1259 a.C., circa nello stesso periodo in cui Sinaranu stava mandando la sua nave a Creta da Ugarit, tra Ramses II e l’allora re ittita Hattušili III (perché Mutwattalli II era morto due anni dopo la battaglia) fu firmato un trattato di pace (uno tra i meglio conservati e tra i più studiati dell’antichità). Noto come il «Trattato d’argento», quest’accordo è sopravvissuto in numerose copie, anche perché ne erano state fatte due versioni, una da parte degli Ittiti e una da parte degli Egizi. La versione ittita, originariamente scritta in accadico e incisa su una tavoletta d’argento massiccio, fu inviata in Egitto, dove venne tradotta in lingua egizia e copiata sulle mura del Ramesseum e sul tempio di Amon a Karnak. Analogamente, la versione egizia fu tradotta in accadico e iscritta su una tavoletta d’argento, poi mandata a Hattuša, dove gli archeologi l’hanno scoperta solo pochi decenni fa.19 La versione ittita incisa sulle mura dei templi egizi inizia così: [I tre inviati regali d’Egitto] arrivarono ... insieme al primo e al secondo inviato regale di Hatti, Tili-Teshub e Ramose, e l’inviato di Karkemish, Yapusili, che portava la tavoletta d’argento che il grande re di Hatti, Hattušili, voleva fosse offerta al Faraone, con l’intermediazione del suo inviato Tili-Teshub e del suo inviato Ramose, per chiedere la pace da parte di Sua Maestà al re del Sud e del Nord dell’Egitto, Usimare Setepenra, figlio di Ra, Ramses II.20

Tredici anni dopo, probabilmente in seguito alla visita in Egitto, Ramses II sposò una delle figlie di Hattušili con una sfarzosa cerimonia regale, cementando così il trattato e i loro rapporti:21 Allora egli (Hattušili) fece in modo che fosse portata la sua figlia maggiore, con un


tributo magnifico (esibito) davanti a lei, di oro, argento e rame in abbondanza, schiavi, un numero illimitato di coppie di cavalli, bestiame, capre e pecore per decine di migliaia – illimitati erano anche i prodotti che portavano al re del Sud e del Nord dell’Egitto, Usimare Setepenra, Figlio di Ra, Ramses II. Poi uno venne a informare Sua Maestà dicendo: «Vedi, il grande governatore di Hatti ha mandato la sua figlia maggiore, con tributi di ogni sorta ... la principessa di Hatti, insieme a tutti i maggiorenti del signore di Hatti».22

Fu probabilmente un bene che Ittiti ed Egizi avessero stipulato un trattato di pace smettendo di lottare l’uno contro l’altro, perché era necessario rivolgere l’attenzione a due altri avvenimenti che ebbero probabilmente luogo proprio intorno all’anno 1250 a.C. Anche se si tratta di eventi leggendari e deve ancora essere dimostrato che siano realmente avvenuti, la loro aura continua ancora fino ai giorni nostri: in Anatolia, gli Ittiti probabilmente parteciparono alla guerra di Troia, mentre gli Egizi ebbero a che fare con l’Esodo ebraico. Prima di parlarne, però, dobbiamo delineare la scena. La guerra di Troia Circa nello stesso periodo della battaglia di Qadeš, gli Ittiti erano occupati su un secondo fronte nell’Anatolia occidentale, dove tentavano di contenere sudditi ribelli le cui attività, a quanto pare, erano sostenute dai Micenei.23 Potrebbe essere uno dei primi esempi di un governo che si impegna deliberatamente in attività destinate a indebolire un altro governo (si pensi al sostegno iraniano agli Hezbollah in Libano, tremiladuecento anni dopo). È durante il regno del re ittita Muwattalli II, tra l’inizio e la metà del XIII secolo a.C., che per la prima volta veniamo a sapere, dai testi conservati nell’archivio di stato della capitale Hattuša, di un suddito ittita rinnegato, di nome Piyamaradu, il


quale aveva tentato di destabilizzare la situazione politica nella regione di Mileto, nell’Anatolia occidentale. Un uomo chiamato Manapa-Tarhunta era già riuscito a sconfiggere il re di uno stato vassallo degli Ittiti nella stessa regione. Si pensa che Piyamaradu abbia agito per conto degli Ahhiyawa o in combutta con loro (i Micenei dell’Eta del Bronzo).24 Le attività sovversive di Piyamaradu continuarono durante il regno del re ittita successivo, Hattušili III, alla metà del XIII secolo a.C., come sappiamo dalla corrispondenza chiamata dagli studiosi «Lettera di Tawagalawa». Il re ittita mandò la lettera a un re degli Ahhiyawa, che non viene nominato, a cui si rivolge come «grande re» e «fratello», il che implica un rapporto tra pari. Abbiamo già visto che termini simili erano utilizzati quando i faraoni egizi Amenofi III e Akhenaton scrivevano ai re di Babilonia, dei Mitanni e dell’Assiria circa un secolo prima. L’interpretazione di questi testi ha gettato una nuova luce sulla situazione globale nel mondo egeo e nel Medio Oriente.25 La lettera di Tawagalawa si occupa delle attività di Piyamaradu, che continuava a fare irruzioni nel territorio ittita dell’Anatolia e che, come ci è stato detto, si era garantito il diritto di asilo nel territorio Ahhiyawa, verso il quale si era diretto con le sue navi (forse in un’isola al largo della costa occidentale dell’Anatolia).26 Da quella che una volta era la terza pagina/tavoletta della lettera (le prime due sono mancanti), abbiamo notizie su Tawagalawa in persona, che viene identificato come il fratello di un re Ahhiyawa dell’Anatolia occidentale di quel periodo, che reclutava uomini ostili agli Ittiti. Curiosamente, il documento indica che le relazioni tra Ittiti e Micenei in passato erano state migliori, e veniamo a


sapere che Tawagalawa aveva cavalcato («montato il carro») assieme al conducente personale del re ittita.27 La lettera si riferisce anche a un diverbio tra Micenei e Ittiti in relazione a una regione nota come Wilusa, localizzata nell’Anatolia nord-occidentale. Abbiamo parlato di questa regione in merito alla rivolta di Assuwa, che aveva avuto luogo duecento anni prima: sembra che gli Ittiti e i Micenei un tempo fossero in disaccordo su quel territorio, che la maggior parte degli studiosi identificano con Troia o con la regione della Troade. Considerata la data sulla lettera – la metà del XIII secolo – è ragionevole chiedersi se ci sia un legame con le successive leggende greche che riguardano la guerra di Troia.28 La leggenda della guerra di Troia, tradizionalmente raccontata dal poeta greco cieco Omero nell’VIII secolo a.C. e integrata dal cosiddetto Ciclo epico (frammenti di altri poemi epici oggi perduti) e da successive tragedie, è ampiamente nota. Paride, il figlio del re Priamo di Troia, salpò dall’Anatolia nord-occidentale verso il continente greco, in missione diplomatica presso il re Menelao di Sparta. Mentre si trovava a Sparta, Paride si innamorò di Elena, la bella moglie di Menelao. Quando ritornò in patria, Elena lo seguì, volontariamente, secondo i Troiani, oppure con la forza, come sostenevano i Greci. Infuriato, Menelao persuase suo fratello Agamennone, re di Micene e grande condottiero dei Greci, a inviare contro Troia una flotta di mille navi e un esercito di cinquantamila uomini per riportare Elena a casa. Alla fine, dopo una guerra durata dieci anni, i Greci uscirono vittoriosi, Troia venne saccheggiata, quasi tutti gli abitanti furono uccisi ed Elena fece


ritorno a Sparta da Menelao. Ci sono evidentemente molte domande senza risposta. C’è stata davvero la guerra di Troia? Troia è esistita realmente? Quanta parte di verità c’è dietro alla narrazione di Omero? Elena aveva davvero un viso di straordinaria bellezza capace di «far salpare mille navi»? La guerra di Troia è stata combattuta sul serio a causa dell’amore di un uomo per una donna... o si trattava di un semplice pretesto per dichiarare una guerra condotta per ben altre ragioni – per la terra, per il potere o per la gloria? Neppure gli antichi Greci sono sicuri della data della guerra: ci sono almeno tredici congetture diverse fornite dagli autori antichi.29 Quando Heinrich Schliemann andò a scavare nel sito di Troia, a metà del XIX secolo, gli studiosi pensavano che la guerra di Troia fosse solo una leggenda e che la città di Troia non fosse mai esistita. Schliemann voleva dimostrare che avevano torto. Con grande sorpresa di tutti, riuscì nel suo intento. La storia è stata raccontata molte volte e quindi qui non la ripeteremo nel dettaglio.30 Basti dire che l’archeologo tedesco trovò ben nove città, una sopra l’altra, nel sito di Hisarlik, ora accettato da quasi tutti gli studiosi come l’effettiva collocazione dell’antica Troia. Non fu tuttavia in grado di determinare quale delle nove città fosse la Troia di Priamo. Dopo i primi scavi di Schliemann ci sono state numerose spedizioni, tra cui quella dell’architetto Wilhelm Dörpfeld, di Carl Blegen dell’Università di Cincinnati negli anni trenta, poi di Manfred Korfmann e, infine, di Ernst Pernicka dell’Università di Tubinga, a partire dalla fine degli anni ottanta e fino a oggi. La distruzione della sesta città – Troia VI – è ancora oggetto di discussione. Inizialmente datata intorno al 1250 a.C., fu


probabilmente distrutta un po’ prima, verso il 1300 a.C.31 Era una città prospera, con oggetti importati dalla Mesopotamia, dall’Egitto e da Cipro, come pure dalla Grecia micenea. Era anche quella che si potrebbe chiamare una «periferia problematica», cioè una terra situata al confine tra il mondo miceneo e l’impero ittita, e quindi in un punto strategico, nel bel mezzo di due delle massime potenze dell’Età del Bronzo. Dörpfeld credeva che i Micenei avessero conquistato la città e l’avessero incendiata fino alle fondamenta, e che fosse stato proprio questo l’evento alla base della narrazione epica di Omero. Blegen, che organizzò gli scavi molti decenni dopo, non era d’accordo e pubblicò quella che secondo lui era la prova inconfutabile del fatto che la distruzione della città era avvenuta a causa di un terremoto. La sua argomentazione includeva prove dirette, come la caduta delle mura fuori asse e il crollo delle torri, ma anche prove «negative», dal momento che non poté trovare frecce, spade, né alcun resto che facesse pensare a uno stato di belligeranza prolungata.32 In realtà, oggi è chiaro che il tipo di danneggiamento strutturale che Blegen poté attestare era simile a quello visto in molti altri siti dell’Egeo e del Mediterraneo orientale, compresi Micene e Tirinto sul continente greco. Questi terremoti della tarda Età del Bronzo, però, non avvennero nello stesso momento, come vedremo più avanti. Blegen in effetti pensava anche che la Troia di Priamo fosse probabilmente la successiva, Troia VIIA. Ma quella città fu probabilmente distrutta nel 1180 a.C. e potrebbe essere stata invasa dai Popoli del Mare anziché dai Micenei, anche se non vi è alcun dato certo al momento. Per ora abbandoniamo questa storia, ma la ritroveremo nel prossimo capitolo, quando


discuteremo gli avvenimenti del XII secolo a.C. I contatti con gli stranieri e il continente greco nel XIII secolo a.C. Ritorniamo a Micene sul continente greco: le sue imponenti mura fortificate, oggi ancora visibili, furono erette verso il 1250 a.C., più o meno nello stesso periodo in cui erano stati condotti altri progetti strutturali (forse misure difensive), tra cui una galleria sotterranea che portava a una sorgente, a cui gli abitanti potevano avere accesso senza dover abbandonare la protezione offerta dalla città. La famosa Porta dei Leoni fu costruita all’ingresso della cittadella nello stesso periodo, come parte di una nuova cinta muraria fortificata attorno alla città. Si trattava solamente di misure protettive per la città oppure di un’esibizione di potere e di prosperità? Le mura fortificate e la Porta dei Leoni furono costruite utilizzando enormi blocchi di pietra, così grandi che oggi le mura vengono chiamate «mura ciclopiche». I Greci pensavano che soltanto i leggendari Ciclopi, con la loro forza bruta, avrebbero potuto avere la forza di collocare i blocchi di pietra in quella posizione. È curioso che un’architettura simile, con le gallerie a volta e i tunnel segreti che conducono a sistemi idrici sotterranei, si trovi non solo nei siti micenei, come Micene e Tirinto, ma anche in talune strutture ittite, anch’esse dello stesso periodo.33 Sapere come si è propagata l’influenza architettonica è un problema accademico, ma le analogie suggeriscono che queste due regioni fossero in stretto contatto tra loro e si influenzassero vicendevolmente.


Dai ritrovamenti di vasellame miceneo proveniente dal Mediterraneo orientale e risalenti al XIII secolo e di altre merci importate dall’Egitto, Cipro, Canaan e altri luoghi dell’Egeo, sappiamo che in quegli anni i Micenei commerciavano attivamente con l’Egitto, con Cipro e con altre potenze del Medio Oriente antico. Si erano ormai da tempo impadroniti delle rotte commerciali minoiche e il commercio, come sappiamo, effettivamente stava crescendo. Gli archeologi che lavorano sul sito di Tirinto, nel Peloponneso, di recente hanno trovato indizi che testimoniano della presenza di uno specifico gruppo di Ciprioti verso la fine del XIII secolo a.C., il che concorda con le indicazioni suggerite in precedenza da altri studiosi, secondo cui esisteva in quel periodo un certo tipo di relazione commerciale tra Tirinto e l’isola di Cipro. In particolare, sembra che sia esistita una speciale lavorazione del metallo, e forse anche della ceramica, che era tipica dei Ciprioti di Tirinto. A quell’epoca i contenitori di argilla micenei, di solito usati per trasportare via mare vino, olio e altri beni, prima di essere cotti venivano contrassegnati con segni ciprioto-minoici. Anche se la lingua cipriota-minoica deve ancora essere tradotta completamente, sembra chiaro che questi vasi erano stati costruiti per uno specifico mercato di Cipro.34 Stranamente, le tavolette in Lineare B trovate a Pilo e in numerosi centri micenei non menzionano esplicitamente il commercio o il contatto con il mondo esterno. Al massimo, giungono a quello che si può considerare un prestito linguistico dal Medio Oriente, poiché le merci portavano con sé anche i loro nomi stranieri, che comprendono parole che indicano il sesamo, l’oro, l’avorio e il cumino (per esempio «sesamo» in


Lineare B è sa-sa-ma, che proviene dalla parola di Ugarit ššmn, dalla parola accadica šammaššammu e dalla parola urrita sumisumi).35 Su queste tavolette ci sono anche termini come ku-pi-ri-jo, che sembra significhi «ciprioti». La parola appare almeno sedici volte nelle tavolette di Cnosso, dove viene usata per descrivere le spezie, ma è utilizzata anche per connotare la lana, l’olio, il miele, i vasi e gli ingredienti che stanno alla base degli unguenti. È anche usata a Pilo come aggettivo etnico per descrivere individui associati alla pastorizia, alla lavorazione del bronzo e a merci varie, tra cui lana, tessuti e allume, il che potrebbe significare che c’erano uomini di etnia cipriota che vivevano nella zona di Pilo alla fine del XIII secolo a.C.36 Analogamente, un secondo termine, a-ra-si-jo, potrebbe riferirsi a Cipro, dal nome con cui era conosciuta l’isola nel Mediterraneo orientale di allora, cioè Alashiya: l’accadico a-laši-ia, l’egizio ’rsꜣ, l’ittita a-la-ši-ia, e l’altyy ugaritico.37 C’è anche una serie di nomi etnici che oggi sono considerati di provenienza anatolico-orientale, soprattutto nomi di lavoratrici donne, trovati nei testi in Lineare B a Pilo. Tutti si riferiscono a regioni localizzate sulla costa occidentale dell’Anatolia – come Mileto, Alicarnasso, Cnido – e la Lidia (in Asia). Diversi studiosi hanno suggerito che si trattasse delle donne troiane citate nelle tavolette di Pilo. Si è ipotizzato che queste donne fossero le prigioniere che erano giunte in Grecia a seguito delle incursioni micenee sulla costa occidentale dell’Anatolia o sulle vicine isole del Dodecaneso.38 Ci sono ancora parole molto discusse nei testi in Lineare B, sia a Pilo sia a Cnosso; alcuni pensano siano genetliaci (nomi propri) cananei. Tra di essi, c’è Pe-ri-ta, «l’uomo che viene da Beirut»; Tu-ri-jo, «il tiriano» (l’uomo di Tiro); e po-no-ki-jo,


«della Fenicia» (attribuito a persona o a spezia). Inoltre c’è Ara-da-jo, «l’uomo di Arad (Arvad)», che si trova soltanto sulle tavolette di Cnosso.39 Ci sono nomi che sembrano di origine egizia, ma potrebbero provenire da Canaan, come per esempio mi-sa-ra-jo, «egizio», e aꜣ-ku-pi-ti-jo, «menfita» o anche «egizio». Il primo termine, mi-sa-ra-jo, che probabilmente deriva dalla parola semitica per Egitto, Miṣraim, si trova comunemente nei documenti accadici o ugaritici in Mesopotamia e a Canaan. Il secondo termine aꜣ-ku-pi-ti-jo, può anche derivare da un riferimento all’Egitto tipico del Medio Oriente, dal momento che uno dei nomi ugaritici che indicavano l’Egitto e la città di Menfi era .Hikupta. È curioso che la parola sia stata trovata in una tavoletta in Lineare B a Cnosso indicante il nome di un individuo che doveva condurre un gregge di ottanta pecore in una località cretese; era forse noto come «l’egizio»?40 Tutti questi prestiti linguistici e questi nomi in Lineare B mostrano senza ambiguità che l’universo egeo era in contatto con l’Egitto e con il Medio Oriente durante la tarda Età del Bronzo. Il fatto che non possediamo alcuna cronaca che offra dati specifici o descriva scambi particolari non è significativo, dal momento che possediamo solo i documenti dell’ultimo anno degli archivi, cioè quelle tavolette che furono coinvolte nella distruzione e vennero accidentalmente bruciate. Altrimenti, come tutte le altre, sarebbero state cancellate e riutilizzate ogni anno o ogni volta che ce ne fosse stato bisogno. Sappiamo inoltre che i Micenei utilizzavano queste tavolette soltanto per registrare alcune delle attività economiche della vita di palazzo. È plausibile che «l’archivio dell’Ufficio Esteri» si trovasse altrove, nei diversi siti micenei, come avviene per gli


analoghi archivi di Amarna in Egitto e di Hattuša in Anatolia. L’Esodo e la conquista israelita Per la guerra di Troia e la città di Troia, nel 1250 a.C. circa, possediamo una straordinaria quantità di dati, anche se non ancora definitivi. Tuttavia, per l’altro avvenimento che si pensa sia accaduto più o meno nello stesso periodo, abbiamo meno prove, e quelle di cui disponiamo sono ancora più vaghe e inconcludenti. Parliamo dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto, cioè la storia che viene raccontata nell’Antico Testamento. Secondo il racconto biblico, durante il regno di un faraone egizio di cui non viene dato il nome, Mosé liberò gli Ebrei dalla schiavitù in Egitto. È narrato che erano stati resi schiavi dopo aver vissuto come popolo libero in quel paese per molti secoli. Il libro dell’Esodo dice che sono stati in Egitto per quattrocento anni dopo l’arrivo, all’epoca di Giacobbe, uno dei patriarchi biblici, forse nel XVII secolo a.C. Se così fosse, sarebbero arrivati in Egitto durante il periodo degli Hyksos e vi sarebbero rimasti durante tutto il periodo più fiorente della tarda Età del Bronzo, incluso il periodo di Amarna. Nel 1987, l’egittologo francese Alain Zivie scoprì la tomba di un uomo chiamato AperEl, che è un nome semitico, il quale fu il visir (la massima carica ufficiale) del faraone Amenofi III e di Akhenaton, nel XIV secolo.41 In ogni caso, come racconta la Bibbia, gli Ebrei guidati da Mosé lasciarono frettolosamente l’Egitto dopo che le Dieci Piaghe – le punizioni inflitte agli Egizi dal Dio ebraico – ebbero convinto il faraone a liberare questa minoranza etnica. Si racconta che gli Ebrei iniziarono un viaggio di quarant’anni,


che alla fine li portò alla terra di Canaan e alla libertà. Si narra inoltre che, durante le loro peregrinazioni, abbiano seguito una colonna di fumo di giorno e un segnale di fuoco di notte, in talune occasioni mangiando la manna che cadeva dal cielo. Mentre erano in cammino verso Canaan, ricevettero i Dieci Comandamenti sul Monte Sinai e costruirono l’Arca dell’Alleanza, in cui li depositarono. Questa storia è diventata una delle narrazioni più celebri e durevoli dell’Antico Testamento, celebrata ancora oggi nella festa della Pasqua ebraica. Ma l’evento storico è uno dei più difficile da dimostrare, sia in base ai testi antichi per mezzo delle prove archeologiche.42 Diversi indizi nelle storie bibliche suggeriscono che se l’Esodo è effettivamente avvenuto, ha avuto luogo verso la metà del XIII secolo a.C., perché sappiamo che a quell’epoca gli Ebrei erano occupati a costruire per il faraone le «città-deposito» di nome Pitom e Rameses. Gli scavi archeologici nei siti di queste antiche città indicano che i lavori iniziarono con Seti I, nel 1290 a.C. circa, il quale avrebbe potuto essere «il faraone che conobbe Giuseppe», e furono completati da Ramses II (nel 1250 a.C. circa), il quale potrebbe essere il faraone citato nell’Esodo. Ramses II è noto ai turisti dell’Egitto e ai lettori della letteratura del XIX secolo perché è sua la statua caduta del Ramesseum (il suo tempio mortuario vicino alla Valle dei Re), che ispirò Percy Bysshe Shelley a scrivere il celebre poema Ozymandias: Incontrai un viandante di una terra dell’antichità, che andava dicendo: «Due enormi gambe di pietra stroncate Stanno imponenti nel deserto…


Nella sabbia, non lungi di là, Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte, E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità, Tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava, Che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre, Alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava: E sul piedestallo, queste parole cesellate: “Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re, Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!” Null’altro rimane. Intorno alle rovine Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate, Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine»

Il poema fu pubblicato nel 1818, solo cinque anni prima dell’opera di decifrazione dei geroglifici da parte di JeanFrançois Champollion. Shelley aveva dovuto affidarsi alla traduzione erronea dell’antico storico greco Diodoro Siculo: il nome di Ramses inciso sul trono, Ozymandias, era stato tradotto al posto del nome esatto, User-maat-re Setepen-re.43 Purtroppo, l’identificazione di Ramses II come il faraone dell’Esodo (come quasi sempre succede, sia nei libri accademici sia in quelli divulgativi) non funziona, se si desidera seguire la cronologia della Bibbia. La narrazione biblica situa l’Esodo verso il 1450 a.C. circa, basandosi su un’affermazione di 1 Re (6:1) secondo cui l’avvenimento ebbe luogo circa 480 anni prima che Salomone costruisse il Tempio a Gerusalemme (che risale al 970 a.C. circa). Tuttavia la data del 1450 a.C. coincide con la fine del regno del faraone Thutmose III, all’epoca in cui l’Egitto era una grande potenza nel Medio Oriente. Come abbiamo visto, Thutmose III controllava


saldamente la terra di Canaan, dopo che nel 1479 a.C. aveva combattuto una battaglia importante nella località di Megiddo. È molto improbabile che egli abbia permesso agli Ebrei di fuggire dall’Egitto o che il suo successore abbia consentito loro di vagabondare nei paraggi per quarant’anni, prima di insediarsi in modo stabile, visto che l’Egitto manteneva uno stretto controllo della regione. Inoltre, non ci sono prove della presenza degli Ebrei/Israeliti nella terra di Canaan nel XV o nel XVI secolo a.C., tracce che invece dovrebbero essere presenti se l’Esodo fosse avvenuto circa nel 1450 a.C. Quindi, la maggior parte degli archeologi preferisce dare all’Esodo una data alternativa, quella del 1250 a.C., che ignora la cronologia biblica, ma ha un maggior supporto dal punto di vista storico e archeologico. La data coincide infatti con il regno di Ramses II, il faraone che completò la costruzione delle città bibliche di Pitom e di Rameses. Corrisponde anche alla data approssimativa della distruzione di alcune città nella terra di Canaan ad opera di ignoti e rende plausibile il fatto che gli Ebrei abbiano vagato per quarant’anni per il deserto prima di raggiungere Canaan e conquistarla, come racconta la Bibbia: arrivarono in tempo per essere citati dal faraone Merenptah nella sua «Stele di Israele», una stele di granito con un’iscrizione che risale al 1207 a.C. e che, a parte la Bibbia, è il primo testo in cui viene citata Israele.44 L’iscrizione, che ho già citato in precedenza, risale al quinto anno del regno del faraone Merenptah. Sir William Matthew Flinder Petrie la scoprì nel febbraio 1896 nel tempio mortuario di Merenptah, vicino alla Valle dei Re, sulla sponda opposta del Nilo rispetto alla moderna città di Luxor. Sulla stele, l’iscrizione di Merenptah afferma che il faraone conquistò un


popolo conosciuto come «Israele», situato nella regione di Canaan. In particolare si legge: I prìncipi sono prostrati, e dicono “Pietà!”, nessuno solleva la testa fra i Nove Archi, una desolazione è Tehenu, Hatti è un deserto, saccheggiata è Canaan con ogni male, vinta è Ascalona, presa è Gezer, Yanoam è come se non esistesse. Israele giace devastata, il suo seme non è più, Hurru è diventata vedova a causa di Egitto. Tutte le terre sono pacificate, chiunque fosse agitato è stato legato.45

Anche se sono stati compiuti diversi scavi in siti che avrebbero potuto potenzialmente essere collegati all’Esodo, come quelli di Hazor in Israele e di Tell el-Borg nel Sinai settentrionale,46 non c’è nulla che possa attestare la storicità del racconto biblico. D’altra parte, degli Ebrei accampati nel deserto per quarant’anni, più di tremila anni fa, quali prodotti ci si poteva mai aspettare di trovare? Se erano nomadi e non vivevano in luoghi con strutture permanenti, probabilmente avevano utilizzato semplici tende, proprio come fanno oggi i beduini. Di conseguenza, un archeologo che cerca resti durevoli dell’Esodo non può aspettarsi di trovare prove di strutture permanenti, ormai da tempo sicuramente cancellate. Analogamente, sono falliti, o sono rimasti poco convincenti, i numerosi sforzi compiuti per identificare le Dieci Piaghe che hanno colpito l’Egitto – l’invasione di rane, di locuste, le ulcere, la grandine, l’uccisione dei primogeniti, ecc. –, anche se tale insuccesso non è sicuramente imputabile alla negligenza.47 Non ci sono prove neppure per supportare la narrazione biblica


della

separazione

delle

acque

del

Mar

Rosso.

Complessivamente, malgrado gli innumerevoli tentativi (molti dei quali sono diventati documentari televisivi trasmessi in tutto il mondo) le ipotesi che tentano di giustificare i fenomeni descritti nella Bibbia – compresi gli sforzi per collegare quegli avvenimenti con l’eruzione del vulcano di Santorini nell’Egeo – rimangono inconsistenti, e le presunte prove archeologiche o geologiche non convincono. C’è da chiedersi quale prova potrebbe sperare di trovare un archeologo del fatto che le acque del Mar Rosso si siano separate: i resti impregnati d’acqua degli aurighi annegati del faraone, con i loro cavalli, i carri e le armi? Nulla di questo è venuto alla luce, malgrado sporadiche prove del contrario.48 Non possiamo neppure suffragare l’affermazione che la divisione delle acque sia stata dovuta a uno tsunami seguito all’eruzione di Santorini, poiché la data dell’eruzione ora è stata arretrata almeno al 1550, ma più verosimilmente al 1628 a.C., grazie alla datazione con il radiocarbonio e alle carote di ghiaccio, mentre l’Esodo probabilmente risale al 1250 a.C. o al 1450 a.C.49 Quindi, almeno un secolo (dal 1550 al 1450), ma probabilmente quattro secoli (dal 1628 al 1250), separano i due eventi, il che significa che gli sforzi per spiegare la separazione delle acque del Mar Rosso e le piaghe della Bibbia come fenomeni collegati all’eruzione non hanno alcun fondamento. Il Libro di Giosué nel Vecchio Testamento descrive dettagliatamente la conquista delle città della terra di Canaan da parte degli Ebrei. Basandosi su questa storia, ci si potrebbe aspettare di trovare la prova di questa massiccia distruzione nei siti di Canaan, dove sono stati compiuti numerosi scavi, ad esempio a Megiddo, Hazor, Bethel e Ai. Ci sono tuttavia palesi


contraddizioni se si tiene conto anche del resoconto del Libro dei Giudici, che ci offre un quadro leggermente diverso della conquista, più pacifico e meno sanguinario, secondo cui Ebrei e Cananei hanno convissuto nelle stesse città. Il problema, come è stato sottolineato altrove,50 è che ci sono prove archeologiche assai scarse per confermare le storie bibliche della distruzione delle città cananee dell’epoca. Si pensa che i siti di Megiddo e Lachish siano stati entrambi distrutti oltre un secolo dopo, nel 1130 a.C., come vedremo, e altri siti, come Gerico, non mostrano segni di distruzione nel corso del XIII secolo a.C. e neppure nel XII. Solo Hazor rimane ancora una possibilità, perché il palazzo (o tempio) sull’acropoli della tarda Età del Bronzo venne sicuramente bruciato e almeno parte della città fu distrutta, come è dimostrato dalle travi di legno del tetto cadute e dalle anfore piene di farina bruciata. Questi edifici, costruiti durante gli anni d’oro di Hazor, nel XIV secolo a.C., come è scritto nelle lettere egizie di Amarna, subirono immensi danni durante la distruzione, come pure la porta della città, che fu distrutta «in “un’esplosione devastante”, simboleggiata dai mucchi di mattoni di fango caduti e dalle nubi di cenere che raggiungevano l’altezza di un metro e mezzo».51 Gli scavi più recenti nel tel superiore (parola che significa «collina», risultato dell’accumulo di materiali depositati dall’occupazione umana, N.d.T.) della città hanno rivelato una situazione analoga: «Spessi strati di cenere, travi di legno bruciate, lastre di basalto incrinate, mattoni di fango vetrificati, mura cadute e statue di basalto mutilate».52 In particolare, i resti dei palazzi pubblici e degli edifici di culto dello strato 1A nel recinto cerimoniale di Hazor erano «totalmente coperti da uno spesso


strato di detriti».53 La data di questa distruzione è tuttavia ancora oggetto di dibattito: il primo archeologo che fece scavi sul sito, Yigael Yadin, e Amnon Ben-Tor, uno degli attuali responsabili del sito, propendono per il 1230 a.C. Tuttavia è possibile che la devastazione sia avvenuta più tardi, addirittura all’inizio del XII secolo a.C. Per una risposta definitiva dobbiamo aspettare i risultati delle analisi basate sul carbonio 14, operate sulle anfore piene di farina trovate sul sito nell’estate del 2012. Anche l’identificazione degli autori della distruzione è ancora incerta. Gli attuali responsabili degli scavi hanno proposto validi argomenti per escludere sia gli Egizi sia i Cananei, perché le statue che appartengono alle due civiltà furono sfigurate nel corso della distruzione, azione che i soldati di questi due eserciti non avrebbero mai compiuto. Neanche i Popoli del Mare possono essere considerati responsabili, sia perché manca la possibilità di attribuire loro con certezza la terracotta trovata, sia per l’innegabile distanza del sito dal mare, anche se si tratta di argomentazioni meno convincenti. Ben-Tor, per lo più, concorda con il precedente direttore degli scavi, Yigael Yadin, secondo cui gli Ebrei sono gli autori più probabili e più logici della distruzione della città, mentre l’altro co-direttore, Sharon Zuckerman, ipotizza un periodo di declino che precedette la distruzione e suggerisce che quest’ultima sia stata determinata da una rivolta intestina, in seguito alla quale la città rimase in stato di abbandono fino a una data imprecisata nell’XI secolo a.C.54 Per riepilogare, anche se è evidente che Hazor è stata distrutta nel XIII o XII secolo a.C. ed è stata poi abbandonata per oltre un secolo, non si sa quando è stata distrutta né da chi.


Analogamente, rimane per ora irrisolto il problema dell’Esodo degli Ebrei, se sia stato un avvenimento reale oppure un mito leggendario (così interessante per tanta gente ancora oggi). La rielaborazione delle prove disponibili non permette ancora una risposta definitiva. Può darsi che il problema sarà risolto grazie a una scoperta futura o a una scrupolosa ricerca archeologica, oppure a ritrovamenti fortuiti. Può anche essere vero che una delle varie versioni bibliche della storia dell’Esodo sia corretta. C’è la possibilità che gli Ebrei abbiano approfittato del caos determinato dai Popoli del Mare per insediarsi nella regione e prenderne il controllo; oppure essi facevano effettivamente parte del gruppo, assai più numeroso, dei Cananei, che già vivevano in quella terra; oppure emigrarono pacificamente nella regione nel corso dei secoli. Se una di queste alternative costituisce la spiegazione esatta del modo tramite il quale gli Ebrei giunsero nella terra di Canaan, allora la storia dell’Esodo probabilmente è accaduta molti secoli più tardi di quanto comunemente si pensa, come hanno suggerito molti studiosi. Nel frattempo, sarà meglio essere consapevoli dei molti inganni in agguato, dal momento che sono state avanzate spiegazioni palesemente assurde sugli eventi, le persone, i luoghi e i fatti concreti connessi con la narrazione biblica. E non c’è dubbio che in futuro saranno ancora divulgate altre informazioni errate, in modo più o meno intenzionale.55 Oggi, tutto quel che possiamo dire con sicurezza è che le prove archeologiche, sotto forma di vasellame, rilievi archeologici e altri aspetti della cultura materiale, attestano che gli Ebrei, come gruppo identificabile, sono presenti con certezza a Canaan dalla fine del XIII secolo a.C., e che è stata la loro civiltà, con quella dei Filistei e dei Fenici, a prosperare


sulle ceneri della distruzione della cultura cananea, a un certo punto del XII secolo. Questo è il motivo per cui l’Esodo rappresenta qui un problema importante: perché gli Ebrei fanno parte dei popoli che diedero un nuovo ordine al mondo dopo essere emersi dal caos che coincide con la fine della tarda Età del Bronzo. Ittiti, Assiri, Amurru e Ahhiyawa Gli ultimi re degli Ittiti, soprattutto Tudhaliya IV (1237-1209 a.C.) e Šuppiluliuma II (1207- ? a.C.), furono molto attivi durante l’ultimo quarto del XIII secolo, a partire dal 1237 a.C., anche se la loro civiltà mostrava già i segni della decadenza. Tudhaliya fece sì che un intero pantheon di divinità fosse scolpito sulla roccia di uno sperone di calcare a Yazilikaya («la roccia iscritta»), insieme a un’immagine che lo rappresentava, ad appena un chilometro dalla capitale ittita Hattuša. A quell’epoca, gli Ittiti erano in guerra con gli Assiri in Mesopotamia. Abbiamo già parlato degli Assiri in un capitolo precedente, quando abbiamo discusso di Assur-uballit I, che governò all’epoca dei faraoni di Amarna e che saccheggiò Babilonia dopo che fallì un matrimonio combinato tra le due potenze.56 Gli Assiri, dopo un breve periodo di relativa tranquillità a seguito del regno di Assur-uballit, si erano riscossi sotto il nuovo re, Adad-nirari I (1307-1275). Sotto il suo governo e quello del suo successore, all’inizio del XIII secolo, diventarono infine una potenza importante nel Medio Oriente. Tra le altre imprese, Adad-nirari I lottò contro i Mitanni, conquistò Waššukanni e altre città. Mise sul trono un re fantoccio e ampliò l’impero assiro a Occidente, al punto che


ormai confinava con la patria degli Ittiti e quasi raggiungeva il Mediterraneo. La cosa potrebbe non essere stata così difficile quanto sembra, dal momento che gli Ittiti, sotto Šuppiluliuma I, avevano già inflitto una sconfitta schiacciante ai Mitanni parecchi decenni prima.57 Dopo il regno di Salmanassar I (1275-1245 a.C.), che continuò la politica di Adad-nirari e infine provocò la caduta del regno dei Mitanni,58 salì sul palcoscenico del mondo uno dei maggiori «re guerrieri» dell’Assiria, Tukulti-Ninurta I, che governò nel 1244-1208 a.C. circa. Anch’egli seguì le orme di Adad-nirari, ma, quando decise di attaccare Babilonia, forse prese ad esempio anche il suo predecessore del secolo precedente, Assur-uballit. Tuttavia, Tukulti-Ninurta I superò le imprese di Assur-uballit: non solo sconfisse in battaglia il re cassita babilonese Kashtiliashu IV e lo portò in catene ad Assur, ma conquistò l’intero regno nel 1225 circa a.C., assumendone personalmente il comando prima di insediare un re fantoccio che governasse in sua vece. Non si trattò tuttavia di una manovra felice, perché il re fantoccio in questione, Enlil-nadinshumi, fu quasi subito attaccato e detronizzato dall’esercito elamita che, dalla sua patria a Oriente, si dirigeva verso l’altopiano iraniano. Non era la prima volta che succedeva: parleremo presto nuovamente degli Elamiti.59 Oltre ad altre imprese di successo, Tukulti-Ninurta I, il re guerriero assiro, sconfisse anche gli Ittiti di Tudhaliya IV, cambiando così in modo drammatico l’equilibrio di potere del Medio Oriente antico. Si pensa che sia diventato tanto potente da inviare perfino una mina (un’unità di peso che equivale a circa mezzo chilogrammo) di lapislazzuli in dono al re miceneo di Tebe, in Beozia, sul continente greco, dall’altra parte


dell’Egeo.60 Di conseguenza, all’epoca del primo attacco dei Popoli del Mare, avvenuto nel Mediterraneo orientale nel 1207 a.C., un anno appena dopo che Tukulti-Ninurta era stato ucciso da uno dei suoi figli, l’Assiria, per quasi due secoli, era stata una delle protagoniste principali sulla scena internazionale. Era un regno che si era consolidato attraverso i secoli grazie a matrimoni combinati, a una politica intelligente, alla guerra e al commercio con Egizi, Babilonesi, Ittiti e Mitanni. Indubbiamente fu una delle grandi potenze del periodo. Durante il regno del re assiro Tukulti-Ninurta, gli Ittiti dovettero far fronte a una grave minaccia e furono occupati a impedire l’accesso a chiunque, dalla costa, penetrasse nelle loro terre per raggiungere il territorio assiro, a Oriente. Una delle strategie includeva un trattato, stipulato nel 1225 a.C. circa, tra Tudhaliya IV, re degli Ittiti e Shaushgamuwa, suo cognato. Shaushgamuwa era il re di Amurru, che controllava la regione costiera del nord della Siria, accesso potenziale alle terre assire. Nel trattato si parla del tipo di trattativa che ormai conosciamo bene: il nemico del mio amico è anche il mio nemico; l’amico del mio amico è anche il mio amico. Quindi Tudhaliya IV (che parla di sé alla terza persona con il termine «Mia Maestà») dichiara a Shaushgamuwa: Se il re dell’Egitto è l’amico di Mia Maestà, sarà il vostro amico. Ma se è il nemico di Mia Maestà, sarà il vostro nemico. E se il re di Babilonia è l’amico di Mia Maestà, sarà il vostro amico. Ma se è il nemico di Mia Maestà, sarà il vostro nemico. Poiché il re di Assiria è nemico di Mia Maestà, sarà anche lui il vostro nemico. I vostri mercanti non andranno in Assiria e non permetterete ai suoi di entrare nella vostra terra. Non attraverseranno la vostra terra. Ma se proveranno a entrare, li catturerete e li manderete al cospetto della Mia Maestà. [Che] questa argomentazione [sia sottoposta] al [vostro] giuramento.61


Per i temi di questo libro, due aspetti sono particolarmente interessanti in questo trattato di mutuo accordo. Il primo è che Tudhaliya IV dice a Shaushgamuwa: «[Voi non permetterete] a nessuna nave di Ahhiyawa di andare da lui (cioè dal re dell’Assiria)».62 Per molti studiosi si tratta di un riferimento a un embargo: quello citato alla fine del capitolo precedente. Se così fosse, anche se l’embargo di solito è considerato un concetto tipicamente moderno, si può pensare che sia stato utilizzato già più di tremila anni fa, proprio dagli Ittiti contro gli Assiri.63 Il secondo aspetto importante è il fatto che, poche linee prima, Tudhaliya IV aveva scritto: «E i re che sono i miei pari nel rango sono il re d’Egitto, il re di Babilonia, il re d’Assiria».64 La cancellatura della frase «re di Ahhiyawa» non è un errore di stampa di questo libro; è una cancellatura che è stata ritrovata così sulla tavoletta di argilla di Tudhaliya IV. In altre parole, si tratta di una bozza del trattato, in cui i vari elementi possono essere ancora cancellati, aggiunti o corretti. Ma ciò che più conta è che siamo in possesso di un documento che mostra che il re di Ahhiyawa non era più considerato di pari rango dai monarchi più prestigiosi della tarda Età del Bronzo: i re d’Egitto, di Babilonia, di Assiria e degli Ittiti. Vale la pena chiedersi che cosa era successo nell’Egeo o sulla costa occidentale dell’Anatolia per provocare una situazione del genere. Sicuramente doveva essersi verificato un fatto recente, perché durante il regno di Hattušili III, il padre di Tudhaliya IV, il re di Ahhiyawa era considerato un «grande re», «fratello» del monarca ittita. Forse un indizio si trova in uno dei testi di Ahhiyawa, la cosiddetta «lettera di Milawata». Datata approssimativamente al regno di Tudhaliya IV, la lettera


chiarisce che la città di Milawata (Mileto) e il territorio circostante sulla costa occidentale dell’Anatolia, dove si trovano le tracce più numerose della civiltà micenea di tutta la regione, non apparteneva più al re di Ahhiyawa, ma era ora sotto controllo ittita.65 Avrebbe potuto voler dire che il re Ahhiyawa non era più un «grande re» agli occhi del re ittita. Tuttavia, potremmo ipotizzare che la «retrocessione» del sovrano miceneo da parte del re ittita sia stata il risultato di qualche avvenimento più importante, forse un episodio accaduto nell’Egeo o nel continente greco, come vedremo nel prossimo capitolo. L’invasione ittita di Cipro Nel frattempo, mentre erano in corso questi eventi, Tudhaliya IV decise di attaccare l’isola di Cipro. L’isola era stata la principale fonte di rame durante tutto il secondo millennio a.C., ed è possibile che gli Ittiti avessero deciso di avere il controllo di questo metallo prezioso, così fondamentale per la fusione del bronzo. Non siamo tuttavia sicuri della motivazione che sta alla base dell’aggressione di Cipro. Potrebbe avere a che fare con la comparsa dei Popoli del Mare nella regione o con la siccità, che sembra si sia verificata in quegli anni nella zona, come mostrano le nuove scoperte e i testi, già noti, che citano un carico di cereali di emergenza inviato da Ugarit, nel nord della Siria, al porto di Ura, in Cilicia (Turchia sud-orientale).66 In un’iscrizione, scolpita originariamente su una statua di Tudhaliya ma poi ricopiata su una tavoletta dell’epoca di Šuppiluliuma II, figlio di Tudhaliya, si legge: Ho conquistato il re di Alashiya con le sue mogli e i suoi figli… Ho preso tutte le


merci, compreso l’oro e l’argento, e tutti i prigionieri e li ho portati in patria a Hattuša. Ho assoggettato il paese di Alashiya e ne ho fatto subito un popolo tributario.67

Šuppiluliuma II non solo trascrisse l’iscrizione di Tudhaliya IV, ma, per precauzione, conquistò nuovamente Cipro. Nell’iscrizione che riguarda la sua conquista militare di Cipro si legge: Io, Šuppiluliuma, Grande Re, rapidamente [ho preso] la via del mare. Le navi di Alashiya mi hanno affrontato tre volte in battaglia. Le ho sterminate. Ho abbordato le navi e le ho incendiate. Quando ho raggiunto di nuovo la terraferma, il nemico è arrivato in massa dalla terra di Alashiya [per darmi battaglia]. Li ho [combattuti].68

In tutta evidenza, Šuppiluliuma ebbe la meglio nelle battaglie navali e forse anche nell’invasione di Cipro, ma non si sa perché dovette combattere e invadere di nuovo l’isola, dopo che Tudhaliya IV l’aveva già conquistata. Il suo tentativo potrebbe semplicemente aver mirato a ottenere (o riottenere) il controllo delle fonti del rame o delle rotte commerciali internazionali in tempi sempre più tumultuosi. Ma non lo sapremo mai. Non è neppure chiaro dove sia stata combattuta l’ultima battaglia terrestre; gli studiosi hanno ipotizzato due possibilità: Cipro e la costa dell’Anatolia. Accaparrandosi il trono dopo la morte del padre, Šuppiluliuma II aveva preso il nome del suo celebre predecessore del XIV secolo, Šuppiluliuma I (anche se il nome del nuovo re aveva una grafia leggermente diversa: Šuppiluliama anziché Šuppiluliuma). Forse sperava di emulare alcuni dei suoi successi. Invece finì per essere responsabile del crollo dell’impero ittita. Mentre era impegnato in quest’impresa militare, oltre a invadere Cipro, portò di nuovo il suo esercito nell’Anatolia occidentale.69 Uno studioso osserva in un articolo


recente che molti dei documenti che risalgono all’epoca di Šuppiluliuma II «parlano di una crescente instabilità nella capitale ittita e una sfiducia sempre maggiore», anche se forse sarebbe più adatta la parola «disagio», visto quel che stava per succedere.70 I naufragi di Punta Iria e di Capo Gelidonya Un altro relitto di un antico vascello, che questa volta si pensa fosse salpato da Cipro, a giudicare dalle terrecotte che aveva a bordo, è stato esaminato nel 1993 e nel 1994 in due missioni di archeologia sottomarina al largo della costa dell’Argolide, sul continente greco, non lontano dal sito di Micene. Celebre con il nome di relitto di Punta Iria, risale al 1200 a.C. circa e potrebbe costituire la prova del fatto che il commercio tra Cipro e la Grecia micenea era già attivo a quell’epoca, nonostante le incursioni ittite a Cipro.71 Più o meno nello stesso periodo, un’altra nave affondò al largo della costa anatolica, non lontano dal luogo dove si era inabissato il vascello di Uluburun un secolo prima; si tratta del relitto di Capo Gelidonya, così chiamato dal nome del suo sepolcro sottomarino al largo della costa sud-occidentale di quella che oggi è la Turchia. Come abbiamo detto prima, questo è il relitto grazie al quale George Bass iniziò la sua carriera e inaugurò l’archeologia subacquea negli anni sessanta. Bass aveva concluso che il relitto era di una nave cananea in rotta verso l’Egeo, affondata nel 1200 a.C. circa.72 Nel corso degli anni Bass si è recato sul luogo del relitto diverse volte, per ispezionare i resti con nuove attrezzature, rese disponibili in seguito agli straordinari progressi della


tecnologia dell’esplorazione sottomarina. Sono così stati trovati nuovi oggetti che confermano la sua idea originaria secondo cui la nave era salpata dal Medio Oriente. Curiosamente, i reperti più recenti indicano però che si trattava di una nave cipriota anziché cananea, sulla base di nuove analisi compiute sull’ancora della nave e su alcune ceramiche rinvenute a bordo.73 A prescindere dalla sua origine esatta, la nave di Capo Gelidonya e il suo carico hanno una notevole importanza, anche se non sono suggestivi come quelli del relitto di Uluburun. Solitamente si crede che più un vascello era piccolo, più «saltasse» da un porto all’altro, limitandosi a scambi di prodotti di piccolo taglio, piuttosto che compiere missioni diplomatiche o commerciali di più ampia portata.74 Si tratta di una prova ulteriore del fatto che il commercio internazionale era pienamente attivo alla fine del XIII secolo a.C., anche quando nel Mediterraneo orientale e nell’Egeo la situazione cominciava a degenerare.


4. Atto IV La fine di un’epoca: il XII secolo a.C. Ecco il momento che abbiamo atteso a lungo: il culmine della storia e il drammatico inizio della fine di oltre tre secoli di economia globalizzata, che era stata il marchio distintivo della tarda Età del Bronzo. Il XII secolo a.C., come vedremo in quest’atto finale, è contraddistinto da storie di rovina e di distruzione e non più da gloriose attività di commercio e di relazioni internazionali, anche se preferiamo cominciare in bellezza, parlando appunto della ricchezza dei rapporti globali. La scoperta di Ugarit e di Minet el-Beida Fortuna audaces iuvat, dice il celebre motto, ma in alcuni casi anche gli sprovveduti sono fortunati. Perché fu la scoperta fortuita di un contadino, del tutto digiuno di archeologia, che portò alla luce la città e il regno di Ugarit, situati sulla costa settentrionale della Siria. Nel 1929 il ritrovamento di una tomba nella baia di Minet el-Beida aveva spinto un archeologo francese in quella regione. Gli scavi portarono rapidamente alla luce le rovine di una città portuale, a cui si dà lo stesso nome di Minet el-Beida. A distanza di ottocento metri, sulla terraferma, sotto una collinetta artificiale di nome Ras Shamra, qualche tempo dopo si scoprì la capitale di Ugarit.1 Ugarit e Minet el-Beida da allora sono state oggetto di scavi francesi quasi ininterrotti, prima sotto la direzione di Claude Schaeffer, dal 1929 in poi, e, più recentemente, dal 1978 al 1998, di Marguerite Yon. Dal 1999, un’équipe franco-siriana ha condotto congiuntamente gli scavi.2 Con il lavoro di tutti si è


potuto far affiorare una città commerciale prosperosa, razionale e indaffarata, dotata di un florido porto, distrutta senza preavviso e abbandonata rapidamente dopo l’inizio del XII secolo a.C. Tra le rovine sono stati trovati prodotti provenienti da tutto il Mediterraneo orientale e dall’Egeo; un magazzino a Minet el-Beida conteneva ancora ottanta anfore cananee, purtroppo scoperte negli anni trenta, per cui non fu possibile eseguire analisi scientificamente rigorose del loro contenuto.3 All’interno delle case private e del palazzo reale di Ugarit, fin dagli anni cinquanta sono venuti alla luce alcuni importanti archivi, che documentano le attività economiche di diversi mercanti e della famiglia reale. Le lettere e gli altri documenti dell’archivio furono scritti su tavolette d’argilla, come succedeva solitamente nell’Età del Bronzo, ma in questo caso le tavolette contenevano iscrizioni incise in lingue diverse: a volte l’accadico, a volte l’ittita, a volte l’egizio e a volte lingue meno utilizzate, come l’urrita. C’era anche un’altra lingua che gli studiosi non avevano mai trovato in precedenza. Fu rapidamente decifrata e ora viene chiamata lingua ugaritica. L’idioma si serve di una delle prime scritture alfabetiche finora conosciute (tranne per il fatto che, in realtà, nei testi c’erano due scritture alfabetiche, una con ventidue segni, come il fenicio, e una con otto segni aggiuntivi).4 Questi testi ugaritici, il cui corpus è talmente vasto da aver dato vita a una sezione accademica a parte (Studi ugaritici), comprendono non solo gli archivi e la corrispondenza dei mercanti e del re, ma anche esemplari di letteratura, mitologia, storia, religione e altri elementi che attestano la presenza di


una fiorente civiltà, consapevole del proprio retaggio. Quindi possiamo ricostruire la città di Ugarit dalle sue rovine e possiamo farlo in base ai testi, alla vita quotidiana e alle credenze dei suoi abitanti. È ormai appurato che gli abitanti della città adoravano un pantheon di divinità, tra cui troneggiano El e Baal. E sappiamo i nomi dei re, da Ammistamru I e Niqmaddu II, le cui lettere ad Amenofi III e ad Akhenaton si trovano nell’archivio di Amarna in Egitto, sino all’ultimo re, Ammurapi, che governò nella prima decade del XII secolo a.C. Sappiamo anche che i re di Ugarit sposavano principesse della vicina comunità di Amurru, e forse anche del più vasto regno degli Ittiti, in matrimoni dinastici arricchiti da doti regali, anche se almeno uno di questi sposalizi finì con un divorzio colmo di amarezza che si trascinò a corte per anni.5 Rapporti economici e commerciali di Ugarit e dei suoi mercanti I cittadini e i re di Ugarit ebbero floride relazioni commerciali per tutta la durata di vita della loro città. Si trattava in tutta evidenza di un grande mercato internazionale, con navi di molti paesi diversi che attraccavano nel porto di Minet el-Beida. Durante la prima metà del XIV secolo è possibile che Ugarit avesse prestato fedeltà agli Egizi, ma senza alcun dubbio dalla seconda metà del secolo in avanti fu uno stato vassallo degli Ittiti, dopo che Šuppiluliuma aveva conquistato la regione nel 1350-1340 a.C. circa. I testi presenti nel sito, trovati in archivi diversi, dei quali la maggioranza risale agli ultimi cinquant’anni di vita della città, documentano i rapporti tra Ugarit e numerose altre comunità di varia grandezza, tra cui l’Egitto,


Cipro, l’Assiria, gli Ittiti, Karkemish, Tiro, Beirut, Amurru e Mari. Recentemente, a questa lista è stato aggiunto l’Egeo.6 Le tavolette citano anche specificamente l’esportazione da Ugarit di merci deperibili, come lana tinta, abiti di lino, olio, oggetti di piombo, rame e bronzo, soprattutto verso gli Assiri, che erano situati a est, in Mesopotamia, come pure intensi erano i rapporti commerciali con Beirut, Tiro e Sidone, sulla costa fenicia.7 A Ugarit sono stati trovati anche oggetti importati dall’Egeo, da Egitto, Cipro e Mesopotamia, in particolare vasellame miceneo, una spada di bronzo che reca inciso il nome del faraone Merenptah, centinaia di frammenti di anfore d’alabastro e altri articoli di lusso.8 Queste e altre merci più banali, come vino, olio d’oliva e farina, raggiungevano Ugarit grazie all’opera di mercanti come Sinaranu, di cui abbiamo già parlato, la cui nave salpò per Creta e poi fece ritorno verso la metà del XIV secolo a.C. Sappiamo che la popolazione ugaritica era sufficientemente agiata da inviare ogni anno tributi agli Ittiti, che consistevano in cinquecento sicli d’oro, lana tinta e abiti, oltre a coppe d’oro e d’argento per il re ittita, le regine e gli alti dignitari.9 Grazie ad altre tavolette, molte delle quali sono state trovate all’interno delle case della città negli ultimi decenni (alcune hanno cambiato radicalmente quel che sapevamo sulla fine della città), abbiamo notizia di altri mercanti ugaritici, che furono attivi più tardi, all’epoca della distruzione della città, all’inizio del XII secolo.10 Una di queste case è stata battezzata la «casa di Yabninu», ed è situata nella zona meridionale, vicino al palazzo reale. Gli scavi della casa non sono stati ancora completati, ma si sa già che la sua superficie era di circa cento metri quadrati, da cui si deduce che Yabninu era un


mercante di un certo successo. Le sessanta o più tavolette che sono state scoperte tra le rovine di questa casa probabilmente erano conservate al secondo piano e comprendono documenti scritti in accadico, ugaritico e nella lingua ciprioto-minoica, che non è ancora stata decifrata e che era soprattutto utilizzata nell’isola di Cipro (si trovano iscrizioni di questo tipo anche su vasi scoperti a Tirinto, in Grecia). I testi scritti sulle tavolette, come pure gli oggetti importati trovati dentro la casa, documentano che le attività mercantili di Yabninu riguardavano rapporti con Cipro, con la costa levantina più meridionale, con l’Egitto e con il Mar Egeo.11 Un’altra serie di tavolette è stata rinvenuta nella cosiddetta «casa di Rapanu», dove furono compiuti degli scavi nel 1956 e nel 1958. Le tavolette, più di duecento, sono state subito studiate e poi pubblicate un decennio più tardi, nel 1968. Attestano che Rapanu era uno scriba e un consigliere d’alto rango del re di Ugarit, quasi sicuramente Ammistamru II (1260-1235 a.C. circa). Sembra che Rapanu sia stato coinvolto in trattative delicate ai massimi livelli, a quanto suggerisce il contenuto dei documenti. I testi includono alcune lettere scambiate tra il re di Ugarit e il re di Cipro (Alashiya), scritte all’epoca in cui i Popoli del Mare minacciavano entrambi. Ci sono anche lettere scambiate con il re della vicina Karkemish e con il più lontano faraone egizio; l’ultimo fascicolo riguarda un incidente non meglio identificato che coinvolse dei Cananei sulla costa levantina.12 Una delle lettere parla del commercio d’olio tra Ugarit e Cipro. È stata scritta da Niqmaddu III, il penultimo re di Ugarit, e fu inviata al re di Alashiya, che chiama suo «padre», definendo se stesso «tuo figlio».13 A meno che il re di Ugarit


non abbia sposato una principessa di Cipro, fatto che oggi è ormai escluso, sembra che l’uso della parola «padre» segua la terminologia generica dell’epoca, che puntava a stabilire relazioni familiari pur riconoscendo nello stesso tempo la superiorità o l’età relativa del re di Cipro sul re di Ugarit. Un’altra delle lettere rinvenute in questa casa è già stata citata: si tratta della lettera che descrive l’arrivo delle navi nemiche a Ugarit, quella che Schaeffer pensava si trovasse in una fornace, pronta per la cottura prima dell’invio a Cipro. Ne parleremo ancora nel prossimo capitolo. Alcune delle tavolette scoperte più recentemente provengono dalla cosiddetta «casa di Urtenu». Questa dimora è stata scoperta per caso nel 1973, nella zona meridionale del sito, durante la costruzione di un bunker militare. Agli archeologi venne accordato il permesso di scavare nel mucchio di detriti creato durante lo scavo, che purtroppo aveva accidentalmente distrutto il centro della casa: vennero comunque trovate le tavolette, che sono state ormai tutte pubblicate. Le più nuove provengono dai rigorosi scavi del 1986-1992 e sono state anch’esse pubblicate; quelle rinvenute negli scavi del 19942002 sono invece ancora in corso di studio. Complessivamente, in questo archivio ci sono più di 500 tavolette (di cui 134 trovate nel 1994), con alcuni testi scritti in lingua ugaritica e la maggioranza in accadico. La corrispondenza include lettere dei re d’Egitto, Cipro, Hatti, Assiria, Karkemish, Sidone, Beirut e forse Tiro.14 Sembra che una delle più antiche fosse stata inviata da un re di Assiria, forse Tukulti-Ninurta I, a un re di Ugarit, forse Ammistamru II o Ibirana, e riguarda la battaglia in cui Tukulti-Ninurta e gli Assiri sconfissero Tudhaliya IV e gli Ittiti.15


Figura 10 Lettere reali nell’archivio di Urtenu a Ugarit (schema illustrativo non esaustivo; nodi = persone che mandano o ricevono lettere; linee = coppie tra le quali vengono spedite le lettere; dimensione dei cerchi = numero di lettere. Schema di D.H. Cline).

Come ha fatto notare uno degli archeologi del sito, le tavolette dimostrano che Urtenu fu attivo all’inizio del XII secolo a.C. e che godeva di grande prestigio. Pare che fosse l’agente di un’importante ditta commerciale di proprietà del genero della regina, che aveva rapporti commerciali con la città di Emar, nell’interno della Siria, come pure con la vicina Karkemish. Stipulava anche affari con l’isola di Cipro e trattava con destinazioni ancora più lontane.16 In effetti, le cinque lettere trovate nella casa, che erano state spedite da Cipro, sono molto importanti, perché menzionano per la prima volta il nome di un re cipriota dell’Età del Bronzo: un uomo di nome


Kushmeshusha. Ci sono due lettere di questo re, e anche due lettere di autorevoli governatori della città, e perfino, fatto assai curioso, una lettera di uno scriba ugaritico che, all’epoca, viveva a Cipro. Queste cinque lettere ora si uniscono alle altre quattro di Alashiya che erano state trovate nella casa di Rapanu.17 Ci sono due ulteriori lettere nella casa, che contengono riferimenti ai due «uomini Hiyawa» che si racconta abbiano aspettato una nave proveniente da Ugarit nelle terre di Lukka (Licia), nell’Anatolia sud-occidentale. Le lettere furono mandate ad Ammurapi, l’ultimo re di Ugarit, da un re ittita, che potrebbe essere Šuppiluliuma II, e a un suo alto ufficiale. Si tratta dei primi riferimenti conosciuti al popolo egeo negli archivi di Ugarit, perché «Hiyawa» è senza dubbio collegata alla parola ittita «Ahhiyawa» che, come abbiamo visto, per molti studiosi si riferisce ai Micenei e agli Egei dell’Età del Bronzo.18 C’è anche una lettera del faraone Merenptah d’Egitto, che risponde a una richiesta dal re di Ugarit, forse Niqmaddu III, oppure Ammurapi, che chiedeva l’invio di uno scultore, in modo che si potesse scolpire una statua del faraone ed erigerla nella città, davanti al tempio di Baal. Anche se rifiuta questa richiesta, nella sua lettera il faraone fa una lista di beni di lusso che dovevano essere inviati dall’Egitto a Ugarit. Le merci dovevano venire caricate su una nave diretta a Ugarit, diceva, e dovevano comprendere più di cento tra abiti e pezze di tessuto, oltre ad altri prodotti, come ebano e lastre di pietra rossa, bianca e blu.19 Osserviamo ancora una volta che quasi tutti questi articoli erano deperibili e non poterono pertanto sopravvivere per l’indagine archeologica. È tuttavia utile che


siano citati in questo testo; in caso contrario non avremmo mai saputo della loro esistenza e degli scambi tra Egitto e Ugarit. Un’altra lettera di questo archivio proviene da un messo/rappresentante di nome Zu-Aštarti, che parla della nave a bordo della quale aveva preso il largo da Ugarit. Racconta di essere stato fatto prigioniero lungo il viaggio. Alcuni studiosi si sono chiesti se era stato rapito, ma egli scrive soltanto: «Il sesto giorno ero in mare. Quando il vento mi portò via, mi ritrovai nel territorio di Sidone. Da Sidone al territorio di Ušnatu sono stato portato e sono stato detenuto a Ušnatu. Possa mio fratello saperlo… Dite al re: “Se hanno ricevuto i cavalli che il re ha dato al messaggero della terra di Alashiya, poi un collega del messaggero verrà da voi. Possa dargli di persona questi cavalli”».20 Non è chiaro perché fosse stato «detenuto» a Ušnatu né perché la lettera si trovasse negli archivi di Urtenu, anche se è possibile che a Ugarit, in quell’epoca, il commercio di cavalli fosse un commercio protetto dallo stato. Una lettera contemporanea del re ittita Tudhaliya IV ad Ammistamru II, trovata nella casa di Rapanu, dichiara infatti che il re di Ugarit non permetteva che i cavalli venissero esportati in Egitto dai messaggeri/mercanti Ittiti o Egizi.21 Distruzioni nel nord della Siria Le prove testuali dei diversi archivi delle case di Ugarit dimostrano che il commercio e i rapporti internazionali furono fiorenti nella città sino all’ultimo momento. Uno degli studiosi che ha pubblicato le lettere della casa di Urtenu osservava, vent’anni fa, che non c’era quasi cenno di crisi, tranne una


menzione a navi straniere in una sola lettera; sembra che le rotte commerciali siano rimaste aperte fino all’ultimo.22 Lo stesso avvenne a Emar, sul fiume Eufrate, a est della Siria, dove è stato osservato che «gli scribi svolsero fino alla fine un’attività normale».23



Figura 11 I siti distrutti attorno al 1200 a.C.

Ugarit venne distrutta, in un modo quasi certamente molto violento, durante il regno del re Ammurapi, probabilmente tra il 1190 e il 1185 a.C. Non fu nuovamente abitata fino al periodo persiano, circa 650 anni dopo.24 Gli archeologi accennano a «prove di distruzione e di incendi in tutta la città», con «mura crollate, calcinacci anneriti dal fuoco e mucchi di cenere», e un livello di detriti che, in alcuni luoghi, raggiungeva i due metri. Marguerite Yon, l’attuale direttrice degli scavi, dice che i soffitti e i terrazzi nei quartieri residenziali furono trovati già collassati e che altrove le mura erano ridotte a «informi mucchi di pietrisco». Pensava che la distruzione fosse stata provocata da un attacco nemico, non da un terremoto, come era stato suggerito prima da Schaeffer, e che la città era stata teatro di una violenta battaglia, con numerosi scontri per le strade. La tesi sarebbe dimostrata dalla «presenza di numerose punte di frecce disperse tra le rovine distrutte o abbandonate» e anche dal fatto che gli abitanti – più o meno ottomila – fuggirono in tutta fretta e non fecero ritorno, neppure per riprendersi ciò che rimaneva dei loro beni, che alcuni avevano sepolto prima di fuggire.25 La data esatta della distruzione è stata recentemente oggetto di molti dibattiti. La prova più convincente è una lettera trovata nel 1986 nella casa di Urtenu. La lettera era stata inviata ad Ammurapi, il re di Ugarit, da un cancelliere egizio chiamato Bey che, come sappiamo da fonti egizie, fu condannato a morte nel quinto anno del faraone Siptah. Siptah fu il penultimo faraone della Diciannovesima Dinastia d’Egitto, che governò


nel 1195-1189 a.C. circa, cioè pochi anni prima di Ramses III, della Ventesima Dinastia. La lettera può quindi essere datata con una certa sicurezza a un’epoca precedente all’esecuzione di Bey nel 1191 a.C., il che significa che la distruzione della città non poté avvenire prima di questa data. Di solito la distruzione della città viene datata tra il 1190 e il 1185 a.C., anche se tecnicamente avrebbe potuto avvenire più tardi.26 Un recente articolo ha sottolineato che questa data può essere confermata sulla base di un’osservazione astronomica trovata a Ugarit su un’altra tavoletta. L’iscrizione racconta di un’eclisse di sole, che può essere datata al 21 gennaio 1192 a.C., il che significa che la città non poteva essere stata distrutta prima di allora.27 Contrariamente alle precedenti narrazioni divulgative sulla fine di Ugarit,28 per datare la distruzione o identificare gli aggressori probabilmente non possiamo utilizzare la celebre lettera degli Archivi del Sud, trovata nella Corte V del palazzo di Ugarit. Si tratta della lettera che Schaeffer pensava fosse stata trovata in una fornace, prima di essere inviata al re di Cipro. «Padre mio, ora le navi del nemico sono giunte. Hanno messo a fuoco le mie città e arrecato danno alla mia terra». Secondo il racconto originario, la lettera era stata trovata in una fornace, dove era stata messa per essere cotta assieme a più di settanta tavolette. Gli archeologi e altri studiosi inizialmente avevano ipotizzato che le navi nemiche fossero ritornate e avessero saccheggiato la città prima che la lettera potesse essere inoltrata con la sua urgente richiesta di aiuto: questa storia ha continuato a essere raccontata anche nelle relazioni accademiche, oltre che tra la gente comune. Ma un recente riesame del luogo di ritrovamento, svolto da nuovi


ricercatori, indica che essa non fu affatto trovata in una fornace, bensì, probabilmente, era stata conservata in un canestro caduto dal secondo piano dopo che l’edificio che la conservava era stato abbandonato.29 In sostanza, anche se la lettera può essere utilizzata per discutere della presenza delle navi nemiche e degli invasori, non è chiaro se essa risale agli ultimi giorni di Ugarit o a un periodo leggermente antecedente. E anche se fa davvero riferimento alle navi dei Popoli del Mare, non è chiaro se si riferisca alla prima ondata di invasori, quelli che attaccarono l’Egitto nel 1207 a.C., o alla seconda ondata, che combatté contro Ramses III nel 1177 a.C. Anche il sito di Emar, nell’interno della Siria, con cui Ugarit era in contatto, fu distrutto più o meno nello stesso periodo, nel 1185 a.C., come sappiamo dalla data apposta su un documento legale trovato nel sito. Tuttavia, anche a Emar non è chiaro chi provocò la distruzione. Le tavolette ritrovate si riferiscono a «orde» non meglio specificate, ma non indicano in modo particolare i Popoli del Mare, come hanno ormai osservato diversi studiosi.30 Il sito di Ras Bassit, sulla frontiera settentrionale di Ugarit, fu distrutto più o meno nello stesso periodo. Gli archeologi pensano che fosse un avamposto ugarita e sostengono che, nel 1200 a.C. circa, fu «in parte evacuato, in parte abbandonato, e poi incendiato, come gli altri siti della regione». Si attribuisce comunemente questa distruzione ai Popoli del Mare, ma l’attribuzione non è certa neppure in questo caso.31 Una situazione analoga è stata descritta a Ras Ibn Hani, sulla costa a sud di Ugarit, che si pensa sia stata una residenza secondaria dei re ugaritici durante il XIII secolo. Gli archeologi


e tutti coloro che hanno esaminato il sito immaginano che il luogo sia stato evacuato poco prima della distruzione di Ugarit e poi distrutto dai Popoli del Mare. Almeno parte del sito fu immediatamente rioccupato, come lo fu Ras Bassit, ed è sulla base del vasellame trovato in questi livelli di ri-occupazione che gli archeologi hanno identificato con i Popoli del Mare i distruttori e i ri-occupatori, problema che discuteremo in seguito.32 Forse la prova migliore, e sicuramente la più recente, di una distruzione a tappeto di tutta l’area in questo periodo è stata trovata a Tell Tweini, il sito del porto di Gibala della tarda Età del Bronzo nel regno di Ugarit, situato circa trenta chilometri a sud della moderna città di Lattakia. Qui, la città fu abbandonata dopo una «grave distruzione» alla fine della tarda Età del Bronzo. Secondo gli archeologi, «la sezione stratigrafica contiene resti che attestano un conflitto (punte di freccia di bronzo disseminate in tutta la città, mura crollate, case bruciate), cenere derivante dalla distruzione delle case e mucchi di ceramiche cronologicamente ben ordinabili e frantumate dalla distruzione della città».33 Datando la sezione stratigrafica utilizzando il radiocarbonio e servendosi di «riferimenti alle fonti antiche epigraficoletterarie, sui re ittiti-levantini-egizi e sulle osservazioni astronomiche», gli archeologi dicono che sono infine stati in grado «di datare precisamente l’invasione dei Popoli del Mare» e di «offrire la prima cronologia esatta per questo periodo chiave della società umana».34 Le date dello strato di cenere (Livello 7A) stabilite con il radiocarbonio secondo il laboratorio d’indagine risalgono al 1192-1190 a.C.35 Pur avendo attribuito una data alla distruzione di questo sito, gli archeologi hanno


offerto solo prove indiziarie per accusare i Popoli del Mare, come vedremo sotto. È anche importante sottolineare che questa data (1192-1190 a.C.) risale a 13-15 anni prima dello scontro di Ramses III con i Popoli del Mare nella battaglia del 1177 a.C. Anche le distruzioni avvenute altrove, che risalgono al 1185 a.C., risalgono a otto anni prima del conflitto. Forse dovremmo chiederci quanto abbia impiegato questa presunta ondata migratoria a farsi strada attraverso il Mediterraneo fino all’Egitto. Non è facile rispondere a questa domanda: dipende naturalmente dalla capacità organizzativa, dai mezzi di trasporto e dagli obiettivi che i Popoli del Mare si erano dati, tra gli altri fattori. Infine, dobbiamo considerare un sito che si trova più a sud: Tell Kazel, nella regione di Amurru, che potrebbe essere il sito dell’antica Sumur, la capitale di questo regno. Il sito fu distrutto alla fine della tarda Età del Bronzo e gli archeologi hanno ipotizzato, in modo plausibile, che siano stati i Popoli del Mare, specialmente perché Ramses III cita specificamente questo regno (parla di Amurru) nelle sue iscrizioni. Ma, proprio nel livello di occupazione appena precedente alla distruzione, gli archeologi hanno identificato quelli che sembrano essere vasi micenei prodotti localmente e altri indizi dell’insediamento di nuovi abitanti provenienti dall’Egeo e dal Mediterraneo occidentale.36 Per questo motivo Reinhard Jung, dell’Università di Vienna, che ha studiato i vasi di Tell Kazel, ha ipotizzato che «prima della grande distruzione dei Popoli del Mare, arrivarono per mare gruppi più esigui e si stabilirono sino a Tell Kazel in stretto contatto con la popolazione locale». Jung lo considera un modello di migrazione a piccola scala di provenienza egea,


ma lascia intendere che alcune delle popolazioni coinvolte avevano radici nell’Italia meridionale.37 Se è giusta, questa interpretazione aggiunge ulteriore complessità al periodo, al punto da far pensare che la distruzione provocata dalla seconda ondata dei Popoli del Mare, del 1177 a.C., avrebbe potuto coinvolgere migranti con le stesse origini, che erano arrivati in precedenza e si erano già insediati nel Mediterraneo orientale, forse durante o dopo le incursioni dei Popoli del Mare nel quinto anno di Merenptah, di nuovo nel 1207 a.C. Distruzione nel sud della Siria e nella terra di Canaan Durante lo stesso periodo, nel XII secolo a.C., vennero distrutte alcune città nella Siria meridionale e a Canaan. Per quanto riguarda la Siria, non si sa chi le distrusse né esattamente quando, anche se, nel livello di distruzione del piccolo sito di Deir ‘Alla, in Giordania, è stato trovato un vaso con il cartiglio della regina egizia Tausert, che era la vedova del faraone Seti II che occupò il trono tra il 1187 e il 1185 a.C. Quindi è probabile che la distruzione avvenne poco dopo questo periodo. Lo stesso vale per i siti di Akko, oggi in Israele, dove tra i cumuli di detriti è stato ritrovato uno scarabeo sacro simile a quello di Tausert.38 Forse i siti più celebri di questa regione, nei quali ci sono prove certe della distruzione, sono Megiddo e Lachish, ma la natura e la data del disastro sono ancora oggetto di dibattiti. Sembra che entrambe le città siano state distrutte parecchi decenni più tardi di quel che ci si sarebbe aspettato dalla cronologia dei siti di cui abbiamo parlato in precedenza: Megiddo e Lachish sembrano essere state rase al suolo verso il


1130 a.C. e non nel 1177 a.C.39 Megiddo A Megiddo, nella valle di Jezreel, attuale Israele – il sito della biblica Armageddon – sono stati trovati gli strati di circa venti città, una sopra l’altra. Una di queste, più precisamente la settima, mostra due fasi che sono state etichettate come VIIB e VIIA, nelle quali la città fu violentemente distrutta nel XIII e nel XII secolo a.C rispettivamente, o forse in un’unica distruzione nel XII secolo. Tradizionalmente, da quando gli archeologi dell’Università di Chicago hanno pubblicato i risultati dei loro scavi negli anni 1925-39, si accetta il fatto che lo strato VIIB fosse stato distrutto tra il 1250 e il 1200 a.C., mentre la città successiva dello strato VIIA era caduta verso il 1130 a.C. circa. In questi strati sono stati trovati i resti di un palazzo cananeo, o forse le macerie di due palazzi, uno costruito sulle rovine dell’altro. Secondo gli archeologi della scuola di Chicago, il palazzo dello strato VIIB «subì una distruzione violenta così intensa che i costruttori dello strato VIIA trovarono più opportuno livellare i detriti esistenti e costruire sopra di essi invece che rimuoverli completamente, com’era la procedura nelle tecniche di ricostruzione». Le stanze «erano colme di pietre cadute da un’altezza di almeno un metro e mezzo ... lastre orizzontali bruciacchiate trovate qua e là contro le pareti delle stanze a nord della corte ... costituiscono un pavimento unico in tutto il palazzo».40 Si pensò allora che lo strato VIIA del palazzo, costruito direttamente sopra il precedente, fosse durato almeno fino al 1130 a.C. Recentemente tuttavia, David Ussishkin, un archeologo


dell’Università di Tel Aviv, co-direttore degli scavi di Megiddo e da poco in pensione, ha suggerito, in modo assai convincente, che gli archeologi di Chicago hanno fatto un errore di interpretazione dei diversi livelli. Invece di due palazzi, uno sopra l’altro, Ussishkin pensa che dobbiamo intendere la struttura come un unico palazzo a due piani, appena ritoccato durante la transizione tra il livello VIIB e il livello VIIA nel 1200 a.C. Ci fu un’unica distruzione, dice: un grande incendio che distrusse il palazzo alla fine dello strato VIIA. Secondo Ussishkin, quello che gli archeologi di Chicago avevano interpretato come «palazzo VIIB» era invece semplicemente il piano basso, mentre il «palazzo VIIA» era il piano superiore. Il tempio principale della città (il cosiddetto Tempio della Torre) fu distrutto nello stesso periodo, ma gli scavi più recenti dimostrano che sono sopravvissuti quasi tutti i resti della città; sembra che quella volta vennero incendiate solo le aree destinate alle élite.41 La distruzione dello strato VIIA di solito è datata al 1130 a.C., sulla base di due oggetti, trovati tra le macerie, su cui è apposto il cartiglio egizio. Il primo è un astuccio d’avorio per una penna che reca inciso il nome di Ramses III e venne trovato tra altri tesori in una stanza del palazzo, in un luogo pieno dei detriti provocati dalla distruzione.42 Questo attesterebbe il fatto che la distruzione ebbe luogo durante o dopo il regno di Ramses III, nel 1177 a.C. o poco dopo. I pezzi d’avorio trovati in questa stanza del palazzo sono tra gli oggetti più noti che siano stati recuperati nel sito di Megiddo. Includono scatole e ciotole in frammenti, lapidi, cucchiai, piatti, tavolette da gioco con relative pedine, coperchi di anfore, pettini e altri articoli. Attualmente sono esposti


all’Oriental Institute dell’Università di Chicago e nel Rockefeller Museum a Gerusalemme. Non si sa perché questi oggetti fossero riuniti insieme, né perché si trovassero in quella particolare ala del palazzo. Tuttavia, hanno ricevuto molta attenzione nel corso degli anni, perché sia gli oggetti sia le scene incise su di essi mostrano uno stile che si può definire «globalizzato» e che ora si definisce Stile internazionale, che è stato trovato anche altrove, ad esempio nei siti di Ugarit e Micene. Questo particolare stile combina elementi della cultura micenea, cananea ed egizia, creando oggetti ibridi, che caratterizzano quest’epoca cosmopolita.43

Figura 12 Astuccio d’avorio di Ramses III trovato a Megiddo (da Loud 1939, tav. 62. Per gentile concessione dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago).

Il secondo oggetto importante di Megiddo è il piedestallo di una statua di bronzo che reca un’iscrizione con il nome del faraone Ramses VI, il quale regnò alcuni decenni più tardi, nel 1141-1133 a.C. circa. L’oggetto non fu rinvenuto in un contesto archeologico ben stabilito, ma sotto un muro dello strato VIIB,


nell’area residenziale del sito. Come osserva Ussishkin, non si tratta di un contesto affidabile, poiché lo strato VIIB era anteriore a Ramses VI. Evidentemente il piedestallo della statua fu deliberatamente sepolto in una fossa, scavata da un abitante di epoca successiva, nel periodo VIIA oppure nella successiva città VIB-A dell’Età del Ferro. Il basamento abitualmente è attribuito dagli archeologi allo strato VIIA, ma si tratta solamente di una congettura.44 Questi due oggetti, di Ramses III e VI, nelle pubblicazioni sono sempre discussi assieme e quindi la distruzione di Megiddo VIIA viene datata in concomitanza con il regno di Ramses VI, ovvero nel 1130 a.C. Tuttavia, poiché il piedestallo della statua di bronzo non è stato trovato nel giusto contesto, non dovrebbe essere utilizzato per datare la fine di Megiddo VIIA. D’altra parte, l’astuccio d’avorio di Ramses III era sigillato nello strato di distruzione di VIIA e quindi poteva affidabilmente essere utilizzato per attribuire una data limite, prima della quale la città non poteva essere stata distrutta, ovvero prima del regno di quel faraone. E questo concorda con la prova della distruzione di altri siti del Medio Oriente di cui abbiamo già parlato. Tuttavia, l’archeologia è un campo che evolve continuamente e si arricchisce di nuovi dati e nuove analisi, che richiedono una continua riformulazione dei concetti. Da questo punto di vista, gli studi odierni che datano i reperti del livello di distruzione di VIIA, condotti con il radiocarbonio, indicano come verosimile la data del 1130 a.C., o perfino un po’ dopo. Se ciò fosse esatto, significherebbe che Megiddo fu distrutta più di quarant’anni dopo che i Popoli del Mare arrivassero nella regione, nel 1177 a.C.45 In ogni caso, come ha osservato


Ussishkin, «la mancanza di fonti scritte lascia [aperta] la questione di chi fu il responsabile della distruzione dello strato VIIA ... la città potrebbe essere stata attaccata da gruppi invasori dei Popoli del Mare, da elementi cananei levantini, da Ebrei oppure da un’armata mista, formata da diversi gruppi».46 In altre parole, a Megiddo abbiamo la stessa situazione che abbiamo già visto a Hazor, dove erano state distrutte le zone della città destinate alle élite, e gli autori della distruzione non hanno potuto essere identificati. Lachish Se ha ragione David Ussishkin, che ha compiuto scavi dal 1973 al 1994, anche Lachish, un altro sito della moderna Israele, fu distrutta due volte, più o meno nello stesso periodo.47 Qui, in questo sito multistrato situato a sud di Gerusalemme, basandosi sui resti materiali trovati durante gli scavi, la sesta e la settima città (strati VII e VI) sono identificate come le ultime città cananee. Quello durante l’epoca del controllo egizio della regione era stato un periodo di grande prosperità per Lachish. Era une delle città più grandi di tutta la regione di Canaan, con circa seimila persone che vivevano nel suo territorio e grandi templi e palazzi pubblici all’interno della città.48 Si pensa che la città dello strato VII sia stata distrutta da un incendio nel 1200 a.C. circa, ma gli scavi non hanno permesso di comprendere la natura della distruzione o chi siano stati i responsabili. In parte questo è dovuto all’impossibilità di sapere quanta parte della città fu effettivamente distrutta. Oggi, si ha la prova di una massiccia distruzione solo sulle rovine di un tempio (il cosiddetto Tempio della fossa III) e nel


quartiere residenziale nell’Area S.49 È possibile che la distruzione sia stata provocata dalla prima ondata dei Popoli del Mare, che giunsero nella regione verso il 1207 a.C., ma non ci sono prove certe per questa attribuzione. La datazione della città dello strato VI ha attirato l’attenzione degli studiosi più delle altre. Sembra che i sopravvissuti del crollo dello strato VII si fossero limitati a ricostruire una parte della città, continuando nel sito la civiltà precedente. Si pensa che la città dello strato VI fosse ancora più ricca e prospera di quella che era stata da poco distrutta, con grandi edifici pubblici (i palazzi con le colonne) costruiti nell’Area S, dove prima si ergevano le dimore private. Fu anche costruito un nuovo tempio nell’Area P, ma ne rimane ben poco. In tutta la città, a questo livello, sono stati trovati oggetti importati dall’Egitto, da Cipro e dall’Egeo, soprattutto vasi di terracotta, il che dimostra ancora una volta l’esistenza di rapporti internazionali.50 Si pensa che nella città dello strato VI ci sia stato un forte afflusso di rifugiati poco prima della distruzione.51 Una struttura, in particolare – il palazzo con le colonne dell’Area S – «fu distrutto in modo violento e repentino; strati di cenere e di mattoni di fango caduti coprivano l’intera struttura, e sono stati ritrovati diversi scheletri di adulti, bambini e infanti che, in tutta evidenza, erano rimasti intrappolati sotto le mura crollate».52 A Lachish furono anche distrutti altri edifici in questo periodo, dopo il quale seguì una lunga pausa di abbandono, durata almeno trecento anni.53 Secondo Ussishkin «la città del livello VI fu rasa al suolo da una distruzione forsennata e violenta, di cui rimangono tracce ovunque siano stati rinvenuti resti… La distruzione fu totale, e la popolazione


massacrata o evacuata».54 In un primo tempo gli archeologi hanno pensato che la città fosse stata distrutta alla fine del XIII secolo a.C., circa nel 1230 a.C. (e che la città dello strato VII fosse stata distrutta ancora prima),55 ma ora la data della distruzione dello strato VI è stata modificata da Ussishkin in modo significativo, soprattutto in base alla scoperta di una lastra di bronzo, che probabilmente faceva parte del chiavistello di una porta, e che reca il cartiglio di Ramses III. Questa lastra faceva parte di un gruppo di oggetti di bronzo danneggiati o difettosi, sepolti sotto le macerie della città dello strato VI.56 Come nel caso dell’astuccio d’avorio di Ramses III a Megiddo, il contesto di ritrovamento di questo oggetto a Lachish indica che la distruzione della città doveva essere avvenuta durante il regno di Ramses III o subito dopo. Ussishkin aveva però datato la distruzione al 1150 a.C., basandosi sul fatto che la lastra di bronzo non avrebbe potuto essere stata prodotta prima della salita al trono di Ramses III nel 1184 a.C., e con la convinzione che ci volesse del tempo «per utilizzarla, spezzarla e infine scardinarla e buttarla tra le macerie di oggetti di bronzo rotti o difettosi».57 Più tardi Ussishkin ha cambiato la data, spostandola al 1130 a.C., in seguito alla scoperta di uno scarabeo sacro di Ramses IV, trovato nel sito, probabilmente a questo livello, dai primi archeologi inglesi, oltre che sulla base del paragone con Megiddo VII: se Megiddo era durata per tutto quel tempo, probabilmente lo stesso era avvenuto per Lachish.58 Un altro studioso ha recentemente osservato che c’era un altro probabile scarabeo di Ramses IV nella Tomba 570 a Lachish, sottolineando però che la lettura del nome su entrambi gli


scarabei non è sicura, e che la stratigrafia del luogo di ritrovamento del primo non è completamente chiara.59 Quindi, ancora una volta, come per gli altri siti che abbiamo esaminato, a Lachish non è chiaro chi o cosa abbia provocato la distruzione e neppure quando ciò sia avvenuto; tutto quello che effettivamente possiamo dire con sicurezza è che avvenne durante il regno di Ramses III o subito dopo. Come dichiara Ussishkin «le prove dimostrano la devastazione del livello VI da parte di un nemico forte e risoluto, ma i dati archeologici non forniscono un indizio diretto sulla natura e l’identità di questo nemico o sulle immediate circostanze che portarono alla caduta della città».60 Gli studiosi in passato avevano proposto tre possibili responsabili: l’esercito egizio, le tribù ebraiche e i Popoli del Mare, ma «non sono state scoperte tracce di battaglia, tranne un’unica punta di freccia di bronzo ... scoperta nel palazzo delle colonne nell’Area S».61 È improbabile che siano stati gli Egizi a provocare la distruzione, perché Lachish prosperava nel periodo della loro egemonia e aveva con loro intensi rapporti commerciali, come dimostrano numerosi oggetti trovati tra le rovine. È possibile che la distruzione sia stata causata dagli Ebrei sotto il comando di Giosué, come pensa William F. Albright della Johns Hopkins University, anche se in questo caso la data dovrebbe essere il 1230 a.C.62 Ussishkin pensa che i probabili autori della distruzione della città dello strato VI siano stati i Popoli del Mare, seguendo in questo Olga Tufnell, un’archeologa che ha lavorato a Lachish prima di lui.63 Tuttavia non fornisce prove; noi vediamo semplicemente i risultati finali della distruzione, senza nessuna prova dei responsabili. Inoltre, la data del 1130 a.C.


sembrerebbe troppo tardiva per i Popoli del Mare – di circa quattro decenni – proprio come la distruzione di Megiddo. Ussishkin potrebbe sbagliarsi a collegare la distruzione di Lachish a quella di Megiddo e a situare quest’ultima a una data più tarda; non ci sono motivi validi per associare i due eventi e converrebbe accettare la prima data fornita dall’autore, quella del 1150 a.C. (o addirittura prima, se si pensa che il catenaccio che data il luogo ai tempi di Ramses III non avrebbe potuto essere utilizzato per molto tempo). È anche possibile che un terremoto devastante abbia provocato la distruzione della città della strato VI. I corpi di quattro persone uccise nel palazzo delle colonne sono stati trovati «praticamente intrappolati e schiacciati sotto le macerie mentre cercavano di fuggire». Un bambino di due o tre anni «era buttato a faccia in giù o era morto mentre andava carponi sul terreno», mentre un infante «era stato gettato a terra o era caduto».64 Queste osservazioni, associate al fatto che non sono state ritrovate armi tra le rovine, fanno pensare che sia stata madre natura, e non gli uomini, la responsabile effettiva della distruzione, esattamente come avvenne probabilmente anche in altri siti alla fine dell’Età del Bronzo.65 Non ci sono però altre prove di un terremoto, come potrebbero essere crepe nei muri o mura crollate, e il nuovo tempio cananeo costruito nell’Area P sembra sia stato saccheggiato e razziato prima di venire incendiato, il che farebbe pensare a un coinvolgimento umano.66 Riassumendo, come per Hazor e Megiddo, non si sa chi abbia distrutto Lachish VI o la precedente città di Lachish VII. Entrambe, o nessuna, potrebbero essere state devastate dai Popoli del Mare, o da qualcuno, o qualcosa, di completamente


diverso. Come ha detto James Weinstein, della Cornell University, «mentre i Popoli del Mare possono essere stati i responsabili della fine delle guarnigioni egizie nella Palestina meridionale e occidentale, è giusto ipotizzare che a provocare la distruzione di altri siti della regione siano stati gruppi che non appartenevano ai Popoli del Mare».67 La Pentapoli filistea Di particolare interesse sono i siti della terra di Canaan meridionale, compresi quelli nominati nella Bibbia, e altrove, che appartengono alla cosiddetta Pentapoli filistea, i cinque siti principali: Ashkelon, Ashdod, Ekron, Gath e Gaza. Alla fine della tarda Età del Bronzo, le prime città cananee di Ekron e di Ashdod furono violentemente distrutte e sostituite da nuovi insediamenti, in cui si riscontra una trasformazione radicale della cultura materiale, con vasi, focolari, vasche, suppellettili da cucina e architettura differenti. Ciò indica un cambiamento di popolazione oppure l’influenza significativa di nuovi popoli, forse i Filistei, giunti in seguito alla caduta della civiltà precedente, dopo il ritiro dell’esercito egizio dalla regione.68 Trude Dothan, professoressa emerita dell’Università Ebraica di Gerusalemme ed ex direttrice degli scavi di Ekron (la moderna Tel Miqne), descrive così la fine di Ekron nella tarda Età del Bronzo: «Nel campo I, la città alta o acropoli, possiamo assistere alla totale distruzione per incendio dell’ultima città cananea della tarda Età del Bronzo. Qui la distruzione è evidente: i resti di un grande magazzino di mattoni di fango, tracce di fichi e lenticchie in anfore di stoccaggio e grandi silos ben conservati, sono sepolti sotto i mattoni di fango crollati…


La nuova città filistea si trova là dove è stato distrutto l’insediamento della tarda Età del Bronzo, nella città alta e nei dintorni della città bassa della media Età del Bronzo».69 Una situazione analoga sembra si sia verificata ad Ashkelon, dove scavi recenti hanno documentato la trasformazione dell’insediamento, da guarnigione ebraica a città portuale filistea, più o meno durante la prima metà del XII secolo, probabilmente subito dopo il regno di Ramses III, a giudicare dai numerosi scarabei sacri rinvenuti con il suo cartiglio. Ad Ashkelon, tuttavia, sembra che la transizione sia stata pacifica, almeno per quanto riguarda l’area circoscritta a cui si può dare una data. Gli archeologi hanno descritto «l’improvvisa comparsa di nuovi modelli culturali espressi nell’architettura, nella ceramica, nell’alimentazione e nell’artigianato, in particolare nella tessitura». I cambiamenti vengono collegati ai Popoli del Mare, soprattutto i Filistei, e sono descritti come il risultato di migrazioni dal mondo miceneo.70 Tuttavia, la nostra conoscenza della situazione a Canaan alla fine della tarda Età del Bronzo potrebbe ancora evolvere. Malgrado nel suo classico articolo sull’arrivo dei Filistei a Canaan, Larry Stager, della Harvard University, abbia sostenuto che i Filistei «distrussero le città indigene e le costruirono da capo in tutto il territorio conquistato»,71 Assaf Yasur-Landau dell’Università di Haifa, come vedremo in seguito, non è d’accordo. Distruzione in Mesopotamia Anche nell’Oriente più remoto, in Mesopotamia, le prove di distruzione sono evidenti in numerosi siti, Babilonia compresa,


ma chiaramente la devastazione fu provocata da forze diverse dai Popoli del Mare. Sappiamo specificamente che l’esercito elamita, che era di nuovo in marcia dall’Iran sud-occidentale, questa volta sotto il comando del re Shutruk-Nahhunte, fu il responsabile di almeno parte di questa distruzione. Shutruk-Nahhunte era salito sul trono elamita nel 1190 a.C. e aveva governato fino al 1155 a.C. Anche se la civiltà di Elam (come gli altri regni della regione) sembra aver avuto un ruolo minore sulla scena del mondo durante la tarda Età del Bronzo, gli Elamiti mantenevano rapporti con i grandi regni grazie ai matrimoni combinati. Shutruk-Nahhunte era sposato alla figlia di un re babilonese cassita, come molti dei suoi predecessori. Un altro sovrano, nel XIV secolo, aveva sposato la figli di Kurigalzu I, un altro ancora aveva sposato la sorella di Kurigalzu e un quarto aveva sposato la figlia di Burna-Buriash, sempre nello stesso secolo. La madre di Shutruk-Nahhunte era una principessa cassita, come lui scrive in una lettera indirizzata alla corte cassita, che gli archeologi tedeschi hanno trovato a Babilonia.72 In questa lettera, il re deplora il fatto di non essere stato messo sul trono babilonese malgrado ne avesse tutti i requisiti, compreso il sangue regale. La sua indignazione è palese quando scrive: «Perché io, che sono un re, figlio di un re, stirpe di re, discendente di re, che sono un re di molte terre, la terra di Babilonia e la terra di Elam, discendente della figlia maggiore di Sua Maestà il re Kurigalzu, [perché] non siedo sul trono della terra di Babilonia?». Poi minaccia vendetta, dicendo che avrebbe «distrutto le vostre città, demolito le fortezze, interrotto l’irrigazione, tagliato i frutteti», e proclama: «Voi potete salire in cielo [ma vi butterò giù], potrete andare


all’inferno, [ma vi tirerò su] per i capelli!».73 Shutruk-Nahhunte tenne fede alle sue minacce nel 1158 a.C., invadendo Babilonia, conquistando la città e detronizzando il re cassita, e quindi mettendo suo figlio sul trono. È più celebre per aver riportato nella città elamita di Susa grandi quantità di bottino da Babilonia, compresa una stele in diorite nera, alta quasi due metri e mezzo, in cui sono incise le leggi del codice di Hammurabi, come pure un monumento per la vittoria del re accadico Naram-Sin, ancora precedente, e numerosi altri oggetti. Questi tesori sono stati scoperti nel 1901 durante gli scavi francesi a Susa e mandati a Parigi, dove sono ora esposti al Louvre.74 La campagna di Shutruk-Nahhunte fu apparentemente motivata dal suo desiderio di governare sul regno babilonese e su Babilonia, ed è possibile che egli abbia approfittato del periodo tumultuoso che era in atto all’epoca nel Mediterraneo orientale. Forse sapeva che non c’era nessuno a cui il re cassita avrebbe potuto rivolgersi per chiedere aiuto. Le successive campagne in Mesopotamia, intraprese dal figlio e dal nipote di Shutruk-Nahhunte, furono probabilmente influenzate dal fatto che le grandi potenze dei secoli precedenti non esistevano più o erano molto indebolite. Tuttavia, è chiaro che nulla della distruzione causata da queste campagne militari può essere attribuito ai Popoli del Mare. Distruzione in Anatolia In Anatolia nella stessa epoca vennero distrutte varie città. Di nuovo, tuttavia, la vera ragione è difficile da appurare; e di nuovo i Popoli del Mare sono stati tradizionalmente considerati


i responsabili della distruzione solo sulla base di prove scarse o inesistenti. In alcuni casi, nuovi scavi archeologici stanno capovolgendo le vecchie congetture. Per esempio, nel sito di Tell Atchana, l’antica Alalakh, situata vicino al confine moderno tra Turchia e Siria, Sir Leonard Woolley aveva pensato che la città del livello I fosse stata distrutta dai Popoli del Mare nel 1190 a.C. Gli scavi più recenti, compiuti da Aslihan Yener, dell’Università di Chicago, hanno però ridatato questo livello al XIV secolo a.C., suggerendo che la città sia stata abbandonata verso il 1300 a.C., molto prima delle possibili incursioni dei Popoli del Mare.75 Tra i siti anatolici distrutti subito dopo il 1200 a.C., il più noto è Hattuša, la capitale degli Ittiti, sull’altopiano interno, seguito da Troia, sulla costa occidentale. In nessuno dei due casi, tuttavia, si ha la certezza che la distruzione sia stata effettivamente compiuta dai Popoli del Mare. Hattuša È chiaro che Hattuša, la capitale degli Ittiti, fu distrutta e abbandonata poco dopo l’inizio del XII secolo a.C. Gli archeologi hanno trovato «ceneri, legno bruciato, mattoni di fango, detriti formati dallo sbriciolamento di questi ultimi per il calore emanato dal combattimento».76 Ma non si sa chi abbia distrutto la città. Anche se gli studiosi e gli autori più rinomati spesso accusano i Popoli del Mare, soprattutto sulla base della dichiarazione di Ramses III secondo cui «nessuna terra poteva resistere alle loro armi, da Khatti…», in realtà non abbiamo alcuna idea se «Khatti», in questo caso, si riferisse agli Ittiti in generale o specificamente a Hattuša.77 Non è neppure chiaro quando Hattuša cadde esattamente,


soprattutto ora, poiché sembra che sia stata attaccata durante il regno di Tudhaliya IV, forse da truppe fedeli a suo cugino Kurunta, che aveva tentato di usurparne il trono.78 Come ha osservato l’eminente ittitologo dell’Università di Chicago Harry Hoffner Jr., il termine usuale per la distruzione, il terminus ante quem (cioè la data prima della quale deve essere avvenuta), è basato su una dichiarazione fatta da Ramses III nel 1177 a.C., che situerebbe probabilmente la distruzione un po’ prima di allora, forse nel 1190-1180 a.C. Non abbiamo tuttavia una vera e propria idea di quanto fosse precisa la dichiarazione di Ramses.79 Negli anni ottanta, gli ittitologi e altri studiosi hanno seriamente suggerito che un nemico più antico e assai noto, il popolo dei Kaška, situato a nord-est della madrepatria ittita, avrebbe potuto essere il vero responsabile della distruzione della città. Si pensa che questo gruppo avesse già in precedenza saccheggiato la città, in una data appena precedente la battaglia di Qadeš, all’inizio del XIII secolo, quando gli Ittiti abbandonarono temporaneamente Hattuša e trasferirono l’intera capitale a sud per qualche anno, in una regione chiamata Tarhuntassa.80 La cosa sembra sensata, perché, come ha scritto James Muhly, dell’Università della Pennsylvania, «è sempre stato difficile spiegare come gli incursori del mare (cioè i Popoli del Mare) fossero riusciti a distruggere le massicce fortificazioni … di Hattuša, situata a centinaia di miglia dal mare, in quella che oggi sembra una parte isolata e deserta dell’altopiano dell’Anatolia centrale».81 Le prove archeologiche indicano che alcune zone di Hattuša furono distrutte da un grande incendio, che corrose sia porzioni della città bassa sia della città alta, come pure


l’acropoli regale e le fortificazioni. Tuttavia, è ormai chiaro che furono distrutti solo gli edifici pubblici, il palazzo e alcuni dei templi, oltre ad alcune porte della città. Questi edifici, prima di essere incendiati, erano stati svuotati, non saccheggiati, mentre i quartieri residenziali della città bassa e della città alta non mostrano alcun segno di distruzione.82 Uno degli ultimi direttori degli scavi, Jürgen Seeher, ha suggerito che la città fosse stata attaccata solo dopo essere stata abbandonata; la famiglia reale aveva portato via tutti i suoi averi e si era trasferita altrove molto tempo prima della distruzione definitiva. In questo caso è più probabile che il responsabile della distruzione sia stato il popolo Kaška, che era stato a lungo nemico degli Ittiti, anche se questo sarebbe potuto avvenire solo dopo che l’impero ittita era stato gravemente indebolito da altri fattori, come la carestia, la fame e l’interruzione delle rotte internazionali del commercio.83 Le stesse spiegazioni possono essere date per la devastazione visibile in altri tre siti ben noti dell’Anatolia centrale, ragionevolmente vicini a Hattuša: Alaca Höyük, Alishar e Masat Höyük. Tutti furono distrutti dal fuoco più o meno nello stesso periodo, anche se non si sa chi ne sia stato responsabile: i Kaška, i Popoli del Mare o qualcun altro. Furono anche distrutte Mersin e Tarso, nell’Anatolia sud-orientale, che però più tardi si ripresero e furono di nuovo abitate.84 In quel periodo fu anche distrutto il sito di Karaoglan, che non è molto lontano, a est di Hattuša, nell’Anatolia centrale: nel livello di distruzione sono stati rinvenuti dei corpi, ma ancora una volta non si sa chi sia stato il responsabile dell’invasione.85 A ovest, sempre in Anatolia, la forza distruttrice fu relativamente meno importante. Lo studioso australiano Trevor


Bryce ha osservato che «i siti distrutti dall’incendio [in Anatolia] si limitano alle regioni a est del fiume Marassantiya ... non ci sono prove di catastrofi simili più a ovest. Indizi dagli scavi archeologici dimostrano che c’è solo un piccolo numero di siti del mondo ittita che in realtà è stato distrutto; la maggioranza dei siti fu semplicemente abbandonata».86 Troia L’unico sito occidentale che venne incendiato all’inizio del XII secolo è Troia, in particolare Troia VIIA, situata sulla costa anatolica.87 Anche se Carl Blegen, archeologo dell’Università di Cincinnati, data la sua distruzione al 1250 circa, la devastazione è stata successivamente ridatata al 1190-1180 a.C. ad opera di Penelope Mountjoy, una nota esperta di ceramica micenea.88 Gli abitanti di questa città semplicemente si impossessarono delle rovine di Troia VIH, probabilmente distrutta da un terremoto già nel 1300 a.C. (come abbiamo già detto) e ricostruirono la città. Da quel momento, le grandi case originariamente costruite durante Troia VI possedevano muri divisori e ospitavano numerose famiglie dove prima ne viveva una sola. Blegen ha considerato il comportamento degli abitanti come prova del fatto che la città fosse sotto assedio, ma Mountjoy suggerisce al contrario che la popolazione stava solo cercando di rimediare al terremoto, erigendo baracche temporanee tra le rovine.89 Tuttavia, alla fine la città venne davvero assediata, come dimostrano le prove trovate da Blegen e dal successivo capo degli scavi, Manfred Korfmann, dell’Università di Tubinga, che vi ha lavorato dal 1989 al 2005. I due archeologi hanno trovato corpi nelle strade di Troia VIIA e punte di frecce conficcate nelle mura, ed entrambi erano


convinti che la città fosse stata distrutta dalla guerra.90 Korfmann, che ha anche localizzato la città bassa di Troia, sopravvissuta più a lungo e di cui gli archeologi avevano ignorato l’esistenza, ha scritto: «Le prove ci parlano di un incendio e di una catastrofe infuocata. Poi ci sono gli scheletri; abbiamo per esempio trovato una ragazza, di sedici o diciassette anni, mezza sepolta, con i piedi bruciati dal fuoco… Era una città che aveva subito un assedio e che aveva tentato di proteggersi. Persero la guerra e ovviamente furono sconfitti».91 Tuttavia, la data della distruzione rende difficile identificare come responsabili i Micenei, come racconta Omero nell’Iliade, a meno che i palazzi micenei che si trovano sul continente greco non fossero stati attaccati e distrutti proprio perché i loro guerrieri stavano combattendo a Troia. In effetti Mountjoy suggerisce che furono i Popoli del Mare, e non i Micenei, a distruggere Troia VIIA. Questo sarebbe in accordo con la citazione da parte di Ramses III solo tre anni dopo. La studiosa, tuttavia, non fornisce prove significative per confermare la sua ipotesi, che rimane congetturale.92 Distruzioni nel continente greco Se i Micenei non furono coinvolti nella distruzione di Troia VIIA, potrebbe essere stato perché, più o meno nello stesso periodo, erano stati a loro volta attaccati su altri fronti. È universalmente accettato dagli studiosi che Micene, Tirinto, Midea, Pilo, Tebe e molti altri siti micenei nel continente greco subirono aggressioni nel medesimo periodo, alla fine del XIII secolo a.C. e all’inizio del XII.93 Un recente saggio, pubblicato


nel 2010 dall’archeologo inglese Guy Middleton, ci offre un fosco quadro dello stato di devastazione del continente greco nel periodo tra il 1225 e il 1190: «Nell’Argolide e in Corinzia ci furono massacri a Micene, Tirinto, Katsingri, Korakou e Iria ... in Laconia a Menelaion; in Messenia a Pilo; in Achea a Teikhos Dymaion, in Beozia e nella Focide a Tebe, Orchomenos, Gla ... e Krisa, mentre sembra che i seguenti siti siano stati abbandonati senza essere distrutti: in Argolide e in Corinzia, Berbati, Prosumna, Zigouries, Gonia, Tsoungiza; in Laconia, Agios Stephanos; in Messenia, Nichoria; in Attica, Brauron; in Beozia e nella Focide, Eutresis».94 Come osserva Middleton più avanti, ci furono altri luoghi distrutti durante il periodo tra il 1190 e il 1130 a.C. a Micene, Tirinto, Lefkandi e Kinos. Come scrivevano già nel 1960 Carl Blegen e Mable Lang, del Bryn Mawr College, sembra che quello sia stato «un periodo tempestoso per la storia micenea. Tutta la città di Micene subì incendi, sia dentro sia fuori dall’acropoli. Anche Tirinto ebbe la stessa sorte. Il palazzo di Tebe fu probabilmente saccheggiato e incendiato nello stesso periodo. Molti altri insediamenti furono sconfitti, abbandonati e mai più abitati: tra gli esempi più noti devono essere citati Berbati ... Prosymna ... Zigouries ... e altre località più modeste».95 È chiaro che ci furono eventi burrascosi, anche se alcuni studiosi li considerano semplicemente lo stadio finale di un processo di dissoluzione che era già iniziato nel 1250 a.C. Jeremy Rutter del Dartmouth College, per esempio, crede che «la distruzione dei palazzi non fu una catastrofe imprevista che accelerò una crisi nell’Egeo, che durava da un secolo, ma il culmine di un lungo periodo di tumulti, che avevano tormentato il mondo miceneo dal XIII secolo in avanti».96


Pilo A Pilo, la distruzione del palazzo, che in un primo tempo gli archeologi avevano datato al 1200 a.C., ora si fa risalire al 1180 circa, per le stesse ragioni per cui la distruzione di Troia è stata retrodatata, cioè in base all’attribuzione di una nuova datazione dei vasi trovati tra le rovine.97 Si pensa che la distruzione sia stata provocata dalla violenza umana, in parte perché ci sono molte tracce di incendi negli ultimi livelli del sito; in seguito il luogo venne abbandonato. Nel 1939, durante la prima stagione di scavi nel palazzo, Blegen scriveva: «Deve essersi trattato di una conflagrazione di grande intensità, perché le pareti interne in molti punti si sono fuse in masse informi, le pietre si sono calcificate e sui detriti anneriti e carbonizzati così come sulle ceneri che ricoprono il suolo c’è uno spesso strato di sottile terra secca color amaranto, forse formata dai detriti sbriciolati di mattoni grezzi, che un tempo formavano il materiale della sovrastruttura».98 Gli scavi successivi hanno confermato le sue impressioni inziali; come ha osservato in seguito Jack Davis, dell’Università di Cincinnati ed ex direttore dell’American School of Classical Studies di Atene, «l’edificio principale andò a fuoco con una tale violenza che bruciarono le tavolette in Lineare B nella Stanza degli archivi e nei magazzini le anfore addirittura si fusero».99 Lo stesso Blegen ha scritto nel 1955 che «ovunque ... si sono avute prove evidenti di devastazione ad opera del fuoco. L’uso abbondante, per non dire esagerato, di legno massiccio nella costruzione dei muri di pietra alimentò la combustione e l’intera struttura fu ridotta a un mucchio di rovine cadenti, causate da una conflagrazione a così alta temperatura da


calcificare la pietra, fino a fondere i fregi in oro».100 In precedenza gli studiosi avevano rivolto l’attenzione alle citazioni in Lineare B trovate sul sito che suggerivano che negli ultimi anni di vita del sito c’erano state delle «guardie del mare»; si era pertanto ipotizzato che gli abitanti si aspettassero l’arrivo dei Popoli del Mare e per questo stavano all’erta. Ma non è chiaro che cosa documentino esattamente queste tavolette e, anche se gli abitanti di Pilo avessero perlustrato il mare, non sappiamo perché lo facessero e cosa stessero controllando.101 In sintesi, il palazzo di Pilo fu distrutto in un cataclisma di fuoco nel 1180 a.C., ma non si sa chi (o cosa) abbia provocato l’incendio. Come con altri siti devastati nello stesso periodo, non siamo sicuri se si sia trattato di un’azione umana o naturale. Micene Micene fu pesantemente distrutta verso la metà del XIII secolo a.C., nel 1250 circa, probabilmente a causa di un terremoto. Ci fu anche una seconda distruzione, nel 1190 a.C. circa, o poco dopo, la cui causa è sconosciuta, ma che di fatto segnò la fine della città come potenza internazionale. Quest’ultima distruzione fu caratterizzata dal fuoco. Uno dei direttori più insigni degli scavi di Micene, il compianto Spyros Iakovidis, dell’Università della Pennsylvania, ha scritto che «incendi localmente limitati e non necessariamente simultanei divamparono nel centro di culto, nella casa Tsountas, in alcune parti del settore sud-occidentale della cittadella, nella casa Panagia II ... e forse nel Palazzo».102 Nel centro di culto, per esempio, «l’intensità del fuoco fu tale che preservò le mura al


loro stato originale, anche se fuori asse».103 In un deposito lì vicino, trovato sulla strada rialzata all’interno della cittadella, gli archeologi hanno rinvenuto una massa di detriti che comprendeva «pietra calcificata, mattoni di fango bruciati, mucchi di cenere e aste carbonizzate», e che «bloccava la via d’accesso alle stanze a sud-est e raggiungeva una profondità di circa due metri contro il terrapieno a nordest». Il terrapieno stesso era stato «deformato dall’intenso calore generato dal fuoco e in molti punti aveva raggiunto la consistenza del cemento». Gli archeologi ne hanno concluso che i detriti provenivano dai muri di mattoni di fango e dagli edifici della via sovrastante, che crollò in «una massa fiammeggiante».104 Non c’è tuttavia prova della causa di questa catastrofe, se si sia trattato di invasori, di una rivolta intestina o di un incidente. Una archeologa del sito di Micene, Elizabeth French, dell’Università di Cambridge, ha osservato: «Immediatamente dopo la “distruzione del 1200”, qualsiasi cosa l’abbia provocata, la cittadella di Micene era un caos. Per quel che possiamo dire, quasi tutte le strutture erano diventate inservibili. Sia l’incendio sia i crolli erano generalizzati e abbiamo prove di uno strato di fango che copriva larghe porzioni della rampa di salita, che pensiamo sia la conseguenza di una forte pioggia sulle macerie».105 Tuttavia, sia French sia Iakovidis pensano che tutto questo non segnò la fine di Micene, dal momento che la città, subito dopo, venne nuovamente abitata, anche se su più piccola scala. Come ha detto Iakovidis, «si trattò di decrescita e di regressione, ma non di minacce e disperazione».106 È interessante notare che Iakovidis ha anche scritto che «il


contesto archeologico ... non offre prove di migrazioni o invasioni di qualche tipo o di tumulti interni durante il XII e l’XI secolo a.C. L’idea di una fine violenta non si addice a Micene. La regione non fu mai ... abbandonata, ma al contempo, per ragioni interne ed esterne, la cittadella aveva perduto il suo prestigio politico ed economico. Era andato in frantumi il complesso sistema centralizzato che la città incarnava e rappresentava, l’autorità che era riuscita a crearlo non era più in grado di conservarsi; si era progressivamente avviato un declino generalizzato, durante il quale la città andò lentamente e gradualmente in rovina».107 In altre parole, secondo Iakovidis, non è chiaro che cosa abbia provocato l’incendio che distrusse una larga parte di Micene subito dopo il 1200 a.C., ma l’idea di invasioni o di altri avvenimenti drammatici viene scartata, preferendo attribuire il progressivo declino del sito durante i decenni successivi al collasso del sistema palaziale e del commercio a lunga distanza. La ricerca recente, compiuta da altri archeologi, potrebbe dimostrare che la sua tesi è corretta.108 Tirinto A pochi chilometri da Micene, sin dall’epoca di Heinrich Schliemann, alla fine dell’Ottocento, sono attivi gli scavi di Tirinto, nell’Argolide, in terraferma greca. Quasi tutti gli archeologi hanno documentato la distruzione avvenuta nel sito, in particolare Joseph Maran dell’Università di Heidelberg. Nel 2002 e nel 2003, Maran ha portato avanti gli scavi di due strutture, note come Edificio XI e XV nella Cittadella bassa, di cui alcune parti erano già state scavate dal suo predecessore, Kalus Kilian. Si pensa che i due edifici siano stati in funzione


solo per un breve tempo prima di essere distrutti. Tra le macerie, che risalgono al 1200 a.C. o poco dopo, Maran ha trovato una quantità di manufatti molto interessanti, compresa una piccola asta d’avorio con iscrizioni cuneiformi, che fu forse importata oppure fatta/utilizzata da uno straniero che viveva a Tirinto in questo periodo così tumultuoso.109 Maran racconta che la distruzione è stata la conseguenza di «una catastrofe che colpì Tirinto ... [e che] distrusse il palazzo e l’insediamento della Cittadella bassa». Sostiene, come aveva già osservato Kilian, che, in base alle «mura ondulate» visibili in alcune costruzioni, la causa probabile della distruzione sia stata un potente terremoto e che «gli scavi recenti nella vicina Midea [ora] confermano questa interpretazione».110 Kilian ha sostenuto a lungo che era stato un terremoto a distruggere Tirinto e a danneggiare anche altri siti in Argolide, come Micene; ormai anche altri archeologi concordano con questa ipotesi.111 Scriveva Kilian: «La prova consiste in rovine di edifici con mura e fondamenta inclinati e curvi, come pure scheletri di persone uccise e sepolte dal crollo delle pareti delle case».112 Abbiamo già detto che Micene subì una massiccia distruzione nel 1250 a.C., che fu probabilmente provocata da un terremoto. Come descritto più dettagliatamente oltre, ci sono prove sostanziali di uno o più terremoti che danneggiarono numerosi siti in Grecia in questo periodo, e non solo Micene e Tirinto. Tuttavia, le prove archeologiche, a partire dagli scavi attuali, hanno infine concluso che Tirinto non venne distrutta interamente. La città continuò a sopravvivere e fu ancora abitata per molti decenni, e porzioni significative dei suoi edifici vennero ricostruite, soprattutto nella città bassa.113


Distruzione a Cipro Per quanto riguarda l’area del Mediterraneo orientale, per le distruzioni avvenute a Cipro nel 1200 a.C. sono stati di nuovo accusati i Popoli del Mare. Sembrava un fatto accertato. Trent’anni orsono, Vassos Karageorghis, allora direttore degli scavi dell’isola, scriveva: «Le condizioni pacifiche ... stavano cambiando verso la fine del periodo definito tardo Cipriota II [cioè nel 1225 a.C.]. Anche se non possiamo prendere assolutamente per vera l’affermazione perentoria secondo cui gli Ittiti avevano esercitato il controllo su Cipro ... non possiamo ignorare il fatto che, durante il regno di Šuppiluliuma II, le condizioni nel Mediterraneo orientale non potevano essere state molto calme».114 Karageorghis è andato oltre, suggerendo che «molti rifugiati» lasciarono la terraferma greca quando crollò «l’impero miceneo» (come lo chiama) e diventarono quindi saccheggiatori e avventurieri, approdando infine a Cipro nel 1225 a.C., con altri gruppi non identificati. L’archeologo ha attribuito a loro la distruzione di Cipro, compresi i siti maggiori di Kition ed Enkomi, sulla costa orientale, oltre ad altre località, come MaaPalaeokastro, Kalavasos-Ayios Dhimitrios, Sinda e Maroni.115 Il piccolo sito di Maa-Palaeokastro è particolarmente interessante per il periodo finale del XIII secolo a.C. Karageorghis, che ha condotto gli scavi, lo ha descritto come «un avamposto [militare] fortificato su un promontorio della costa occidentale». Era protetto in modo naturale dai due ripidi versanti del promontorio e circondato su tre lati dal mare, in modo tale che fu necessario rinforzarlo solo nel punto in cui


raggiungeva la terraferma. Karageorghis era convinto che questo avamposto fosse stato fondato dagli invasori provenienti dall’Egeo, che avevano saccheggiato Kition ed Enkomi proprio a partire da questa testa di ponte. Alla fine fu distrutto a sua volta da un secondo flusso di invasori dell’Egeo, probabilmente nel 1225 a.C., che poi si stabilirono in modo permanente sull’isola.116 Karageorghis credeva che altri avamposti stranieri di questo tipo fossero stati costituiti in altrettanti siti ciprioti, come Sinda e Pyla-Kokkinokremos. Per esempio, notava che l’insediamento fortificato di Sinda, situato a ovest di Enkomi, era stato violentemente distrutto nel 1225 circa. Sul luogo, in seguito, furono sistemate nuove pavimentazioni e nuove costruzioni furono erette sulla superficie di distruzione, completamente bruciata, probabilmente da parte degli invasori provenienti dall’Egeo.117 Le distruzioni e costruzioni successive, tuttavia, sono probabilmente troppo antiche per coincidere con le date delle incursioni dei Popoli del Mare, per lo meno quelle descritte da Merenptah nel 1207 a.C. o da Ramses III nel 1177 a.C. Di conseguenza, Karageorghis ha suggerito che una prima ondata di popoli bellicosi, provenienti dall’Egeo, fosse arrivata a Cipro ancor prima dei Popoli del Mare, al massimo nel 1225 a.C. Si può avere una prova del successivo arrivo dei Popoli del Mare negli scavi di Enkomi, sulla costa di Cipro, che «rivela una seconda catastrofe ... da alcuni studiosi associata alle incursioni dei Popoli del Mare». Questo secondo livello di distruzione risaliva, secondo Karageorghis, al 1190 a.C.118 Non c’è tuttavia alcuna prova diretta che ci permetta di dire con certezza chi fossero i responsabili delle distruzioni dei vari


siti di Cipro tra il 1125 e il 1190 a.C. È possibile che Tudhaliya e gli Ittiti, che dopotutto avevano attaccato e conquistato Cipro all’incirca in questo periodo, abbiano provocato almeno una parte della devastazione del 1225 a.C. Inoltre, abbiamo già visto un altro attacco ittita sull’isola, che si racconta avvenne durante il regno di Šuppiluliuma II (che salì sul trono ittita nel 1207 a.C. circa), come dice lui stesso nelle sue cronache. Sarebbe quindi possibile che gli Ittiti, e non i Popoli del Mare, siano stati i responsabili di quasi tutta la distruzione di Cipro in quest’epoca. C’è perfino un testo, inviato dal governatore di Cipro (Alashiya), che sembra suggerire che le navi da Ugarit potrebbero aver provocato parte dei danni, mentre il resto della distruzione avrebbe potuto essere provocata da uno o più terremoti. A Enkomi, gli archeologi hanno scoperto i corpi di bambini uccisi dai mattoni di fango caduti dalla sovrastruttura dell’edificio, il che sembra suggerire la mano di madre natura e non quella degli uomini.119 Ma lo scenario immaginato da Karageorghis è stato ora rettificato, e le vicende di Cipro in questo periodo della tarda Età del Bronzo si delineano ormai in una forma molto più complessa. Perfino Karageorghis si era rapidamente persuaso che, in ognuno dei siti in questione, c’era stata soltanto una serie di distruzioni e non due; e che tale distruzione risaliva al periodo che va dal 1190 al 1174 a.C., e non dal 1225 a.C. in avanti.120 Una storia più recente di questo periodo, scritta dalla studiosa inglese Louise Steel, ci dice che «la visione tradizionale del ... periodo è quella di una colonizzazione micenea di Cipro (e del Levante meridionale) in seguito al crollo dei palazzi micenei. Tuttavia ... non ci fu una semplice imposizione della cultura micenea sull’isola. Invece, il ...


materiale dimostra un sincretismo delle varie influenze, che riflette la natura cosmopolita dell’identità culturale del [tardo Cipriota]. La cultura micenea (o egea) non è semplicemente stata trasposta dall’Egeo a Cipro, ma si è fusa con la cultura cipriota indigena».121 Anche Steel mette in discussione le conclusioni di Karageorghis e la visione convenzionale della colonizzazione egea di Cipro. Per esempio, invece di considerare siti come Maa-Palaeokastro e Pyla-Kokkinokremos come «avamposti difensivi» stranieri o egei, pensa che le prove confermino piuttosto che si trattasse di fortezze locali, cipriote, costruite «per garantirsi il trasporto di merci, in particolare metalli, tra i porti ciprioti … e la terraferma».122 Continua affermando che «l’interpretazione convenzionale di Maa-Palaeokastro come di una precedente fortezza egea deve ancora essere provata in modo rigoroso» e suggerisce che, sia Maa-Palaeokastro sia Pyla-Kokkinokremos, potrebbero essere esempi di baluardi ciprioti, simili ai siti difensivi costruiti più o meno nello stesso periodo nell’isola di Creta.123 Altri studiosi, come Bernard Knapp dell’Università di Edimburgo, hanno recentemente suggerito che la cosiddetta colonizzazione micenea, così di moda nella prima letteratura accademica, non era né micenea né una vera colonizzazione. Piuttosto, si trattava probabilmente di un periodo di ibridazione, durante il quale gli isolani si appropriarono di vari aspetti della cultura materiale cipriota, egea e levantina, riutilizzati a formare una nuova identità sociale.124 In altre parole, siamo di nuovo di fronte a una cultura globalizzata, che, alla fine dell’Età del Bronzo e proprio prima del suo crollo, riflette una moltitudine di influenze.


D’altra parte, abbiamo ancora a disposizione i commenti di Paul Åström sugli scavi nel sito di Hala Sultan Tekke, sulla costa di Cipro adiacente la moderna città di Larnaka, che egli descrive come «una città in parte distrutta dal fuoco e abbandonata in tutta fretta». Qui, nel 1200 circa o subito dopo, «prodotti sfusi furono abbandonati nei cortili e diversi beni furono nascosti sotto terra. Punte di frecce di bronzo, una delle quali trovata conficcata su una parete di un edificio, e numerosi proiettili di frombola in piombo sparpagliati ovunque, sono prove eloquenti di uno stato di guerra».125 Questo è uno dei pochi esempi di attaccanti nemici, che comunque non hanno lasciato un biglietto da visita, né qui né altrove. C’è ora una recente prova scientifica proveniente dalla laguna di Hala Sultan Tekke secondo cui la regione a quell’epoca probabilmente aveva subito le conseguenze di una grave carestia, di cui parleremo in seguito.126 Quindi, ci troviamo di fronte a una situazione che ci obbliga a rimettere in discussione tutte le nostre conoscenze e a capovolgere i paradigmi storici convenzionali. Anche se è evidente che a Cipro ci furono distruzioni, sia appena prima del 1200 a.C. sia subito dopo, non si sa assolutamente chi ne fosse responsabile; i colpevoli potrebbero essere stati gli Ittiti, o gli invasori dell’Egeo, o ancora i Popoli del Mare, oppure ancora i terremoti. È anche possibile che quel che vediamo negli scavi archeologici sia semplicemente la cultura materiale di coloro che trassero vantaggio da queste distruzioni e si insediarono nelle città totalmente o parzialmente abbandonate, e non la cultura materiale di coloro che erano effettivamente i responsabili della distruzione. Nonostante tutto, Cipro sembra essere rimasta intatta,


malgrado tutti i saccheggi. Ci sono prove del fatto che l’isola fosse prospera durante tutto il resto del XII secolo e poi nell’XI secolo a.C.; queste prove includono testi egizi come Il viaggio di Wenamun, che riguarda un sacerdote ed emissario egizio che fece naufragio nell’isola verso il 1075 a.C.127 La resilienza di Cipro fu il risultato di una ristrutturazione spettacolare della sua organizzazione politica ed economica, che permise all’isola e al suo sistema di governo di durare finché non giunse la fine, nel 1050 a.C. circa.128 Conflitti in Egitto e la Congiura dell’harem Ritornando per un attimo in Egitto, troviamo un quadro simile, e nello stesso tempo diverso, rispetto a quello che caratterizza i siti del Mediterraneo orientale e dell’Egeo. Gli Egizi avevano concluso il XIII secolo con un profilo relativamente alto, dopo aver sconfitto la prima ondata dei Popoli del Mare durante il regno di Merenptah, nel 1207 a.C. Il XII secolo era cominciato in modo tranquillo, con il governo di Seti II e poi con la regina Tausert, ma quando salì sul trono Ramses III la situazione si stava facendo agitata. Nel quinto anno del suo governo, e poi di nuovo nell’undicesimo, il faraone combatté importanti guerre con i vicini libici.129 Nel frattempo, nell’ottavo anno, combatté battaglie contro i Popoli del Mare, di cui abbiamo già parlato. Poi, nel 1155, dopo aver regnato trentadue anni, fu probabilmente assassinato. La storia di questo omicidio ci è stata raccontata in numerosi documenti, il più lungo dei quali è il Papiro giudiziario di Torino. Si pensa che alcuni di questi frammenti possano essere collegati ad altri e facessero parte originariamente di un unico


papiro lungo più di quattro metri, noto agli egittologi come Papiro della Congiura dell’harem. Sembra che la congiura non abbia rapporto alcuno con ciò che avveniva in quel periodo nel Mediterraneo orientale. Fu semplicemente una congiura ordita da una delle concubine del re, affinché il figlio gli succedesse al trono. Ci furono quaranta accusati di cospirazione, membri dell’harem e ufficiali di corte, che furono giudicati in quattro gruppi distinti. Alcuni di loro vennero riconosciuti colpevoli e condannati a morte; molti altri furono obbligati a suicidarsi nel tribunale stesso. La concubina e suo figlio erano tra i condannati a morte.130 Anche se è noto che Ramses III morì prima che fossero emessi i verdetti, in questi documenti non è chiaro se la congiura ebbe successo o meno. Sembra di sì, anche se la cosa è emersa solo recentemente. La mummia di Ramses III è stata ritrovata da molto tempo. Originariamente il faraone era stato sepolto nella Valle dei Re, nel suo sepolcro (noto come KV11), ma più tardi fu trasportata dai sacerdoti in un luogo più sicuro, assieme ad altre mummie regali. Furono tutte trovate nel 1881 nel cumulo di Deir elBahari, vicino al tempio mortuario di Hatshepsut.131 Nel 2012 gli egittologi e i medici legali hanno fatto un’autopsia sul corpo di Ramses III pubblicandone i risultati sul «British Medical Journal»: gli avevano tagliato la gola. L’affilato coltello che aveva provocato la ferita era stato conficcato nel collo proprio sotto la laringe, all’altezza delle vertebre cervicali, recidendo la trachea e danneggiando i tessuti molli. La morte fu istantanea. Poi, durante il processo di imbalsamazione, un amuleto protettivo con l’occhio di Horus venne collocato nella ferita, per protezione o per risanamento,


anche se era troppo tardi per aiutare il re. Inoltre, gli fu messo uno spesso collare di lino intorno al collo per nascondere la ferita lunga 7 centimetri. È stato solo durante l’analisi con i raggi X che gli scienziati sono stati in grado di guardare attraverso lo spesso tessuto e identificare la ferita che aveva ucciso il re.132 Assieme a Ramses III è stato ritrovato un secondo corpo, appartenente a un maschio di età tra i diciotto e i vent’anni e conosciuto solo come «Uomo E». Avvolto in una pelle di capra ritualmente impura e mummificato in modo incorretto, il corpo potrebbe essere quello del principe colpevole, almeno secondo i test del DNA, che lo identificano come probabile figlio di Ramses III. Le prove forensi, comprese le contratture facciali e le ferite alla gola, suggeriscono che probabilmente quest’uomo fu strangolato.133 Con la morte di Ramses III, finì la vera gloria del Nuovo Regno egizio. Ci sarebbero voluti ancora otto faraoni, durante la Dodicesima Dinastia, prima che finisse realmente, nel 1070 a.C., ma nessuno di loro compì imprese di rilievo. D’altra parte, una rinascita dell’antico prestigio sarebbe stata sorprendente, data la situazione nel resto del Mediterraneo, anche se l’ultimo re, Ramses XI, mandò il suo emissario a Biblos per acquistare dei cedri del Libano, ma il dignitario che si era imbarcato fece naufragio a Cipro nel viaggio di ritorno, nel 1075 a.C. Sintesi Anche se è chiaro che ci furono distruzioni massicce nelle regioni dell’Egeo e del Mediterraneo orientale alla fine del XIII secolo a.C. e all’inizio del XII, è lungi dall’essere stato appurato


chi, o cosa, ne sia stato il responsabile. Tra le questioni aperte c’è perfino l’identificazione degli autori delle ceramiche note come «micenee IIIC1b», che si trovano in molti siti del Mediterraneo orientale dopo la distruzione del 1200 a.C., come Ras Ibn Hani e Ras Bassit, vicino a Ugarit.134 Queste ceramiche, che in precedenza erano state considerate come il prodotto di Micenei fuggiti a Oriente dopo la distruzione della loro patria e delle città del continente greco, sembrano invece essere state prodotte a Cipro e nel Mediterrano orientale, probabilmente dopo che era cessata l’importazione delle autentiche merci egee. Come ha detto Annie Caubet, del museo del Louvre, rispetto alla ri-occupazione di Ras Ibn Hani, vicino a Ugarit: «È innegabile il reinsediamento del sito in modo stabile e continuo. Quel che deve ancora essere dimostrato è se gli abitanti facessero parte dei Popoli del Mare o della popolazione locale, ritornata dopo la fine dei tumulti».135 Altre innovazioni osservabili a Cipro e nel Levante dell’epoca, come l’uso del bugnato nelle tecniche architettoniche, nuovi rituali funerari e tipi particolari di vasi,136 potrebbero indicare contatti con l’Egeo o anche la presenza stabile di persone provenienti dall’Egeo. Si tratterebbe di una manifestazione della globalizzazione che era in atto durante gli anni che caratterizzarono la fine della tarda Età del Bronzo. Per quanto riguarda il declino, sicuramente si trattò di un fenomeno più ampio di semplici saccheggi ad opera di predatori nomadi di cui parlano gli Egizi. Spesso i Popoli del Mare sono stati additati dagli studiosi come gli unici responsabili del collasso della civiltà di quest’ampia porzione di mondo, ma è possibile che siano anche stati vittime e


oppressori insieme, come vedremo nel prossimo capitolo.


5. Una «tempesta perfetta» di calamità? Siamo ora nella posizione adatta per risolvere il nostro mistero, mettendo insieme i vari elementi che costituiscono le prove e tutti i possibili indizi, in modo da determinare perché il sistema internazionale stabile della tarda Età del Bronzo sia crollato di colpo dopo aver prosperato per secoli. Ci arriveremo liberi da pregiudizi e con l’ausilio «dell’uso scientifico dell’immaginazione» come ha detto una volta l’immortale Sherlock Holmes, perché «dobbiamo soppesare le probabilità e scegliere la più verosimile».1 Per cominciare, sarà ormai evidente che i Popoli del Mare e il cosiddetto collasso della fine della tarda Età del Bronzo sono temi che, nel corso dell’ultimo secolo, gli studiosi hanno discusso con passione. Soprattutto negli anni ottanta e novanta del Novecento, quando Nancy Sandars, nel 1985, pubblicò una nuova edizione del suo libro, intitolato semplicemente I Popoli del Mare, e, nel 1993, Robert Drews diede alle stampe il suo La fine dell’Età del Bronzo. Ci sono state almeno due conferenze accademiche consacrate esclusivamente a questi argomenti, che si sono tenute nel 1992 e nel 1997, e poi libri, tesi e conferenze più o meno indirettamente collegati alla questione.2 Tuttavia, come abbiamo notato all’inizio del libro, una grande quantità di nuovi dati si è resa disponibile negli ultimi decenni, e deve essere considerata nella nostra nuova interpretazione dei Popoli del Mare e delle forze complesse che hanno portato al declino di un’epoca caratterizzata da civiltà straordinarie.3 Come abbiamo già osservato nelle pagine precedenti, dobbiamo riconoscere innanzitutto che non è sempre chiaro


chi, 0 cosa, abbia provocato la distruzione delle città, dei regni e degli imperi dell’Egeo e del Mediterraneo orientale. La distruzione del palazzo di Nestore a Pilo, nel 1180 a.C., è un esempio eccellente, come ha detto recentemente uno studioso: «Alcuni hanno suggerito che gli agenti di questa calamità fossero invasori provenienti dall’esterno del regno; altri hanno pensato che furono gli stessi abitanti di Pilo a rivoltarsi contro il loro re. Le cause precise rimangono ignote».4 Dobbiamo quindi ammettere che non è ancora stato raggiunto un consenso accademico rispetto alla causa, o alle cause, del crollo di queste società, così strettamente interconnesse, di tremila anni fa; i colpevoli, a cui recentemente alludono gli studiosi, comprendono «gli attacchi di nemici stranieri, i tumulti sociali, le catastrofi naturali, il crollo dei sistemi e le trasformazioni dovute alla guerra».5 Proprio come hanno fatto gli studiosi per oltre ottant’anni, vale ancora la pena ora di considerare quali siano state effettivamente le cause. Dovremmo tener conto oggettivamente delle prove disponibili, che confermano o inficiano le varie ipotesi. Terremoti Per esempio, l’idea che furono i terremoti a provocare la distruzione (o a contribuirvi) di alcune delle città della tarda Età del Bronzo era stata avanzata sin dall’epoca di Claude Schaeffer, il primo archeologo di Ugarit. Egli pensava che i terremoti avessero provocato la distruzione della città, avendo trovato i segni visibili della catastrofe in un lontano passato. Le fotografie degli scavi di Schaeffer mostrano lunghi muri in pietra sconquassati e fuori asse, tipico segno di danni dovuti a


un terremoto.6 Tuttavia, le recenti congetture sul tema spostano la data del terremoto di Ugarit al 1250 a.C. o poco tempo dopo. Inoltre, dal momento che ci sono segni di attività di restauro nei decenni che intercorrono tra il terremoto e il declino finale, si pensa che il sisma avesse danneggiato la città, ma non fosse riuscito a distruggerla completamente.7 È evidentemente difficile distinguere tra una città distrutta da un terremoto e una distrutta dagli uomini e dalla guerra. Tuttavia, ci sono diversi indicatori che identificano un terremoto distruttore e che possono essere osservati dagli archeologi nel corso degli scavi. Tra questi, le mura cadute, rappezzate o rinforzate; gli scheletri schiacciati o i corpi trovati sotto le macerie; le colonne rovesciate che giacciono l’una parallela all’altra; le chiavi di volta fuori posto nelle arcate e nei vani delle porte; le mura disposte con angoli impossibili o deviati rispetto alla posizione originale.8 Al contrario, in una città distrutta dalla guerra in genere si troveranno armi tra le macerie. Nel sito di Aphek in Israele, per esempio, che fu distrutto verso la fine del XIII secolo a.C., gli archeologi hanno trovato punte di frecce conficcate nelle pareti delle case, proprio come a Troia VIIA.9 Grazie alle recenti ricerche degli specialisti di archeosismologia, oggi è chiaro che la Grecia, come gran parte dell’Egeo e del Mediterraneo orientale, aveva patito una serie di terremoti, iniziati verso il 1225 a.C. e durati cinquant’anni, fino al 1175 a.C. Il terremoto a Ugarit, identificato e descritto da Schaeffer, non fu un evento isolato; era soltanto uno dei numerosi sismi di quel periodo. Questi sconvolgimenti tellurici dell’antichità sono oggi noti come «terremoti seriali» o, in


inglese, earthquake storm, il fenomeno che si verifica quando una faglia sismica rimasta aperta provoca una serie di scosse per anni, o anche decenni, finché non viene rilasciata tutta la pressione accumulata.10 Nell’Egeo ci furono probabilmente terremoti nello stesso periodo a Micene, Tirinto, Midea, Tebe, Pilo, Cino, Lefkandi, Menelaion, Kastanas in Tessaglia, Korakou, Profitis Elias e Gla. Nel Mediterraneo orientale i danni da terremoto che risalgono a questo periodo sono visibili in numerosi siti, come Troia, Karaoglun e Hattuša in Anatolia; Ugarit, Megiddo, Ashdod e Akko nel Levante ed Enkomi a Cipro.11 Proprio come oggi la gente viene uccisa dal crollo degli edifici e resta sepolta sotto le macerie quando un terremoto colpisce una zona abitata, così sono stati ritrovati, durante gli scavi di varie città dell’Età del Bronzo, almeno diciannove corpi di persone probabilmente uccise dai sismi. A Micene, per esempio, sono stati trovati gli scheletri di tre adulti e di un bambino nel piano terra di una casa, duecento metri a nord dalla cittadella, dove erano rimasti schiacciati sotto le pietre cadute a causa di un terremoto. Analogamente, in una casa costruita sulla salita della cresta nord del tesoro di Atreo, è stato trovato nel vano della porta tra la stanza principale e l’ingresso lo scheletro di una donna di mezza età, il cui cranio risultava schiacciato da un masso caduto. A Tirinto sono stati trovati gli scheletri di una donna e di un bambino sepolti dalle mura cadute dell’Edificio X, all’interno dell’Acropoli; due altri scheletri umani sono stati rinvenuti vicino alle mura di fortificazione, resti di persone uccise e poi coperti da macerie cadute dai muri. Analogamente, nella vicina Midea, sono stati rinvenuti altri scheletri, come quello di una ragazza in una


stanza vicino alla porta orientale, il cui cranio e la cui colonna vertebrale erano stati sbriciolati dalla caduta delle pietre.12 Tuttavia, dobbiamo concludere che, anche se questi sismi indubbiamente provocarono gravi danni, è improbabile che, da soli, abbiano provocato il crollo definitivo di un’intera società, soprattutto perché è chiaro che molti siti, in tutta evidenza, sono poi stati di nuovo occupati e almeno parzialmente ricostruiti. È il caso di Micene e di Tirinto, per esempio, anche se le due città non ritrovarono più l’antico splendore.13 Dobbiamo quindi cercare altrove per avere una spiegazione diversa, o forse complementare, della fine della tarda Età del Bronzo. Cambiamento climatico, siccità e carestia Una delle interpretazioni preferite dagli studiosi, soprattutto quelli che cercano di spiegare non solo la fine della tarda Età del Bronzo, ma anche il motivo per cui i Popoli del Mare potrebbero aver dato inizio alle loro migrazioni, è quella del cambiamento climatico, in particolare della siccità, che ebbe come risultato la carestia. Anche se le teorie formulate dagli archeologi spesso riflettono le idee del momento, del decennio o perfino dell’anno in cui vengono pubblicate, le ipotesi su un possibile cambiamento climatico alla fine del secondo millennio a.C. anticipano di parecchi decenni le nostri attuali preoccupazioni sul nostro cambiamento climatico. La siccità è stata a lungo la spiegazione prediletta dei primi studiosi delle migrazioni dei Popoli del Mare, dalle aree del Mediterraneo occidentale fino alle terre d’Oriente. L’ipotesi era che la siccità dell’Europa settentrionale avesse spinto le


popolazioni a migrare verso le regioni del bacino del Mediterraneo, dove finirono per soppiantare gli abitanti di Sicilia, Sardegna e Italia, e forse anche quelli delle terre intorno all’Egeo. Se questo avvenne davvero, potrebbe aver dato inizio a una reazione a catena, che culminò con movimenti migratori lontani dal Mediterraneo orientale. Per altri esempi di siccità che hanno provocato migrazioni umane su larga scala, basta guardare agli Stati Uniti degli anni trenta e alla carestia che provocò il tristemente celebre «Dust Bowl» (una serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti e il Canada tra il 1931 e il 1939), che diede origine a migrazioni su larga scala di intere famiglie dall’Oklahoma e dal Texas verso la California. Ci si riferisce a questo tipo di migrazioni con il termine «pushpull», in cui le condizioni negative in patria spingono gli abitanti fuori dal proprio territorio e le condizioni positive nel paese di destinazione attirano i nuovi migranti in quella direzione. Come ha osservato l’archeologo inglese Guy Middleton, a questo modello possono aggiungersi le categorie dello «stanziarsi» e delle «competenze»: i fattori che contribuiscono al desiderio di rimanere in patria malgrado le circostanze avverse, e quelli che riguardano la capacità di emigrare davvero, comprese le competenze legate alla navigazione e alla scelta di rotte adeguate.14 Forse la più celebre delle argomentazioni che ipotizzano uno stato di carestia come fattore determinante nel declino dell’Età del Bronzo nell’area dell’Egeo è stata formulata cinquant’anni fa, verso la metà degli anni sessanta, da Rhys Carpenter, un professore di archeologia al Bryn Mawr College. Carpenter ha pubblicato un libro fondamentale, che è subito diventato molto


autorevole, in cui sostiene che la civiltà micenea sia stata scalzata a causa di uno stato di prolungata siccità che aveva colpito le regioni del Mediterraneo orientale e dell’Egeo. La sua ipotesi era basata sul calo drammatico della popolazione nel continente greco dopo la fine dell’Eta del Bronzo.15 Ma nuove ricerche archeologiche e nuovi scavi hanno dimostrato che la diminuzione della popolazione non era poi così drammatica come aveva ipotizzato Carpenter. C’era stato piuttosto uno spostamento migratorio verso altre regioni della Grecia, nel corso dell’Età del Ferro, che però non sembra collegato a una carestia. La geniale teoria di Carpenter per il momento è stata accantonata, anche se forse potrebbe ritornare in auge alla luce di nuovi dati (vedi oltre).16 Lasciamo ora in ombra la teoria della siccità e rivolgiamoci alla carestia: gli studiosi hanno a lungo valutato l’esistenza di testi che parlano esplicitamente di carestie e del bisogno di procacciarsi il grano, sia nell’impero ittita sia altrove.17 Ma è anche giustamente stato notato che la presenza di carestie in questa regione non era un fenomeno limitato ai soli anni conclusivi della tarda Età del Bronzo. Decenni prima, ad esempio, verso la metà del XIII secolo a.C., una regina ittita scrisse al faraone egizio Ramses II, dichiarando: «Non ho grano nelle mie terre». Subito dopo, probabilmente con una manovra ben concertata, gli Ittiti mandarono un’ambasciata in Egitto per procurarsi orzo e farina da trasportare in Anatolia.18 Un’iscrizione del faraone egizio Merenptah, in cui egli dichiara che «aveva ordinato che il grano fosse caricato sulle navi, per mantenere in vita la terra di Hatti», conferma l’esistenza di una carestia nella terra degli Ittiti verso la fine del XIII secolo a.C.19 Un’altra corrispondenza


inviata dalla capitale ittita attesta la crisi in corso durante i decenni seguenti; in particolare c’è una lettera in cui l’autore retoricamente chiede: «Sapete che c’è la carestia nelle mie terre?».20 Alcune delle lettere trovate a Ugarit riguardano l’immediato invio di grandi quantità di grano agli Ittiti. Una missiva spedita dal re ittita di Ugarit riguarda un carico di duemila unità di orzo (o semplicemente di cereali). Il re ittita finisce la sua lettera con un tono drammatico, dichiarando: «È una questione di vita o di morte!».21 Anche un’altra lettera riguarda un carico di grano, ma chiede anche l’invio di numerose navi. Questo indizio ha spinto l’archeologo che per primo se ne occupò a ipotizzare che si trattasse di una reazione alle incursioni dei Popoli del Mare, cosa che può essere vera oppure no.22 Perfino l’ultimo re di Ugarit, Ammurapi, ricevette parecchie lettere dal re ittita Šuppiluliuma II all’inizio del XII secolo a.C., tra le quali una che lo rimproverava per essere in ritardo nell’invio del prezioso carico di cibo agli Ittiti proprio negli anni prima della distruzione.23 Itamar Singer, dell’Università di Tel Aviv, era convinto che le dimensioni della carestia durante gli anni finali del XIII secolo e i primi decenni del XII fossero state senza precedenti, e che la fame avesse colpito un territorio assai più vasto della sola Anatolia. Nella sua valutazione, le prove, sia testuali sia archeologiche, indicano che «i cataclismi climatici interessavano tutto il Mediterreneo orientale verso la fine del secondo millenio a.C.».24 Forse aveva ragione, perché una delle lettere trovate nella casa di Urtenu, a Ugarit, nel nord della Siria, si riferisce a una carestia che aveva dilaniato la città di Emar, nell’interno della Siria, all’epoca in cui fu distrutta, nel


1185 a.C. Nelle linee più significative di questa lettera, probabilmente inviata da un funzionario della ditta commerciale di Urtenu che risiedeva in città, si legge: «C’è carestia nella [nostra] casa; moriremo tutti di fame. Se non arrivate in tutta fretta, anche noi moriremo di fame. Non vedrete neppure un essere vivente nelle nostre terre».25 Perfino la stessa Ugarit non era rimasta immune, come attesta una lettera inviata da Merenptah e trovata nella casa di Urtenu, che dice esplicitamente «consegne di grano mandate dall’Egitto per alleviare la fame a Ugarit»,26 inviata da un re di Ugarit a un destinatario non identificato, probabilmente un dignitario anziano di lignaggio regale, in cui si aggiunge: «Qui con me, molti [patiscono] la fame».27 C’è anche un testo del re di Tiro, città dell’area costiera dell’odierno Libano, indirizzata al re di Ugarit. Informa il re che la sua nave, che stava ritornando dall’Egitto carica di grano, era rimasta intrappolata in una tempesta: «La nave che avete mandato in Egitto perì [naufragò] in una forte tempesta vicino a Tiro. Riuscì a salvarsi e il capo del salvataggio [il capitano] prese tutto il grano dalle anfore. Ma ho preso il loro grano, la loro gente e tutti i loro averi dal capo del salvataggio [il capitano] e li ho restituiti a loro. E (ora) la vostra nave è al sicuro ad Akko, disarmata». In altre parole, la nave aveva cercato rifugio, oppure era stata messa in salvo. In ogni caso, l’equipaggio e il grano che trasportava erano in salvo e aspettavano gli ordini del re di Ugarit.28 La nave era ancorata nel porto della città di Akko, dove oggi ci si può sedere in un gradevole ristorante sul lungomare a immaginare le attività incessanti che dovevano svolgersi in quel luogo più di tremila anni fa. Resta poco chiaro quale fattore, o quale combinazione di


fattori, abbia provocato la carestia nel Mediterraneo orientale durante questi decenni. Gli elementi che potrebbero essere considerati comprendono la guerra e le invasioni di insetti, ma è più probabile che sia stato un cambiamento climatico accompagnato dalla siccità a trasformare una terra verdeggiante in un semideserto arido. Tuttavia, fino a pochi anni fa i documenti testuali ugaritici e del Mediterraneo orientale che parlano della siccità forniscono solo prove potenziali a favore del cambiamento climatico, e anche in questo caso sono solo prove indirette. Il problema è stato affrontato dagli studiosi in lungo e in largo, e per decenni, senza mai venirne davvero a capo.29 Una nuova linfa è stata apportata grazie ai risultati pubblicati da un’équipe internazionale di studiosi, tra cui Daniel Kaniewski e Elise Van Campo, dell’Università di Tolosa, in Francia, e Harvey Weiss, della Yale University, i quali suggeriscono che potrebbe esserci una prova scientifica del cambiamento climatico e della siccità nella regione del Mediterraneo alla fine del XIII secolo e all’inizio del XII. Questa ricerca, che in un primo tempo aveva ipotizzato che la fine della prima Età del Bronzo, in Mesopotamia, verso la fine del terzo millennio a.C., potesse essere dovuta a un cambiamento climatico, suggerisce che lo stesso fattore potrebbe aver causato anche la fine della tarda Età del Bronzo.30 Utilizzando i dati del sito di Tell Tweini (l’antica Gibala), nel nord della Siria, l’équipe ha osservato che avrebbe potuto esserci «un’instabilità climatica e un grave episodio di siccità» nella regione alla fine del secondo millennio a.C.31 In particolare, gli scienziati hanno studiato il polline recuperato dai depositi alluvionali vicini al sito, i quali suggeriscono che


«erano in atto condizioni climatiche più secche nella costa mediterranea della Siria dalla fine del XIII o inizio del XII secolo a.C., e sino al IX secolo a.C.».32 L’équipe di Kaniewski ha ora pubblicato altre prove di una probabile siccità a Cipro nello stesso periodo, servendosi dell’analisi del polline dal sistema lagunare, noto come il Lago Salato di Larnaka, vicino al sito di Hala Sultan Tekke.33 I dati suggeriscono che «importanti cambiamenti ambientali» avvennero in questa regione durante la fine della tarda Età del Bronzo e all’inizio dell’Età del Ferro, cioè durante il periodo che va dal 1200 a.C. all’850 a.C. In quest’epoca, la regione intorno a Hala Sultan Tekke, che in passato aveva avuto un porto importante, «si trasformò in un paesaggio arido [e] le precipitazioni e le acque sotterranee probabilmente diventarono insufficienti per mantenere un’agricoltura sostenibile nel luogo».34 Se Kaniewski e i suoi colleghi hanno ragione, hanno trovato la prova scientifica diretta che gli studiosi cercavano da anni per dimostrare che la siccità contribuì alla fine della tarda Età del Bronzo. Di fatto, i dati dalla Siria costiera e dalle coste di Cipro suggeriscono che «la crisi della tarda Età del Bronzo coincide con l’inizio di una siccità che durò 300 anni, circa 3200 anni fa. Questo cambiamento climatico aveva causato raccolti disastrosi, siccità e carestia, che precipitarono o accelerarono la crisi socio-economica e provocarono migrazioni di popolazioni alla fine della tarda Età del Bronzo nel Mediterraneo orientale e nell’Asia sud-occidentale».35 In un lavoro indipendente, Brandon Drake, dell’Università del New Mexico, ha fornito ulteriori prove e dati scientifici, che si sommano a quelli di Kaniewski e della sua équipe, e che sono


pubblicati nel «Journal of Archeological Science». Drake cita tre nuove prove che confermerebbero l’idea che la prima Età del Ferro fosse più arida della precedente Età del Bronzo. Innanzitutto, i dati ottenuti con gli isotopi dell’ossigeno dai depositi minerali (speleotemi) nella grotta di Soreq, nel nord di Israele, dimostrano che c’erano basse precipitazioni annuali durante la transizione dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro. In secondo luogo, i dati ottenuti con gli isotopi del carbonio nei pollini del lago Voulkaria, nella Grecia occidentale, dimostrano che le piante all’epoca si adattarono a un ambiente arido. Infine, le sedimentazioni del Mediterraneo rivelano che ci fu una diminuzione di temperatura sulla superficie del mare, che, a sua volta, avrebbe provocato una riduzione delle precipitazioni sulla terra (riducendo la differenza di temperatura tra mare e terra).36 Lo studio osserva che, anche se «è difficile identificare direttamente un momento cronologico in cui il clima diventò più secco», il cambiamento avvenne probabilmente prima del 1250-1197 a.C.,37 che corrisponde al periodo di cui parliamo in questo libro. Drake osserva che non ci fu solo un aumento considerevole delle temperature dell’Emisfero Nord subito prima del crollo dei centri palaziali micenei, probabilmente in seguito a una pesante siccità, ma ci fu un calo impressionante della temperatura anche nel periodo in cui questi centri furono abbandonati, il che significa che prima diventarono più caldi e poi più freddi, creando in questo modo «condizioni climatiche più fredde e più aride durante il Medioevo ellenico». Come dice Drake, questi cambiamenti climatici, con un declino della temperatura di superficie del Mar Mediterraneo precedente al 1190 a.C., il cui risultato fu un minor numero di precipitazioni


piovose (o nevose), potrebbero avere avuto un influsso senza pari sui centri palaziali, soprattutto quelli che dipendevano da alti livelli di produzione agricola, come la Grecia micenea.38 Israel Finkelstein e Dafna Langgut, dell’Università di Tel Aviv, con Thomas Litt, dell’Università di Bonn, in Germania, hanno aggiunto ulteriori dati a questo quadro. Osservano che le particelle di polline fossile di una carota geologica ottenuta con la perforazione di strati di sedimentazione sui fondali del Lago di Tiberiade indicano ancora una volta che la siccità nel Levante meridionale sarebbe effettivamente iniziata nel 1250 a.C. Una seconda sezione ricavata da un carotaggio sulla sponda occidentale del Mar Morto fornisce risultati analoghi, ma le due carote geologiche indicano anche che la siccità avrebbe potuto terminare già attorno al 1100 a.C., permettendo quindi un ripristino della vita nell’area, anche se forse con l’insediamento di popolazioni diverse.39 Ciononostante, per quanto questi risultati siano incoraggianti, a questo punto dobbiamo riconoscere che le siccità sono state frequenti nella regione per tutta la storia e non sempre hanno determinato collassi di civiltà. Sembra quindi che, di per sé, cambiamento climatico, siccità e carestia, anche se «hanno avuto un ruolo per inasprire le tensioni sociali e alla fine hanno favorito atteggiamenti antagonisti e competitivi dovuti alle risorse limitate», non bastano da soli a causare la fine della tarda Età del Bronzo. È necessario prendere in esame altri fattori concomitanti, come suggerisce Drake.40 Rivolte intestine Alcuni studiosi pensano che le rivolte intestine possano aver


contribuito allo stato di subbuglio che è proprio della fine della tarda Età del Bronzo. Le sommosse potrebbero essere state provocate dalla siccità, o essere state innescate dalle carestie, o dai terremoti e da altri disastri naturali, o ancora dall’interruzione delle rotte commerciali internazionali: ognuno di questi fattori avrebbe potuto avere un impatto drammatico sull’economia delle regioni che ci interessano, spingendo i contadini esasperati e le classi più povere a rivoltarsi contro la classe dominante, in una rivoluzione simile a quella del 1917 nella Russia zarista.41 Un quadro simile potrebbe spiegare, per esempio, la distruzione di Hazor nella terra di Canaan, dove non ci sono prove di terremoti, né indizi di un possibile stato di guerra o della presenza di invasori. Anche se Yadin e Ben-Tor, due dei primi archeologi che hanno lavorato sul sito, hanno entrambi ipotizzato una distruzione dovuta alla guerra, forse da parte degli Ebrei, il co-direttore degli scavi, Sharon Zuckerman, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha recentemente suggerito che la distruzione dello strato IA di Hazor, datata tra il 1230 e i primi decenni del XII secolo, potrebbe essere stata provocata da una rivolta intestina e non da un’invasione di popoli stranieri. Zuckerman afferma semplicemente che «nel sito non ci sono da nessuna parte prove archeologiche di uno stato di guerra, come potrebbero essere vittime umane o armi ... L’ipotesi di un crollo definitivo della tarda Età del Bronzo in seguito a un attacco improvviso e inaspettato a un regno stabile e prospero non corrisponde alle testimonianze archeologiche».42 Invece «una recrudescenza dei conflitti interni e un declino graduale, che sono culminati con un assalto finale ai principali centri politici e religiosi dell’élite cittadina,


costituiscono la struttura concettuale alternativa più plausibile alla spiegazione della distruzione e dell’abbandono di Hazor».43 Anche se non si può dubitare delle distruzioni osservabili nei vari centri palaziali micenei e nelle città cananee, francamente non si può dire se i contadini in rivolta fossero stati o meno responsabili. Rimane un’ipotesi plausibile, ma non dimostrabile. In ogni caso, molte civiltà sono sopravvissute con successo alle rivolte interne, riuscendo a rimanere prospere sotto un nuovo regime. Quindi, per rendere conto del crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale anche l’ipotesi della rivolta interna non è sufficiente. (Possibili) invasori e il crollo del commercio internazionale Tra gli avvenimenti che avrebbero potuto provocare una rivolta interna, abbiamo appena lasciato intravedere lo spettro degli invasori esterni, che potrebbero aver interrotto le rotte del commercio e sconvolto economie fragili, che forse dipendevano eccessivamente dalle materie prime straniere. Il paragone di Carol Bell tra l’importanza strategica dello stagno nell’Età del Bronzo e quella del petrolio greggio nel mondo di oggi potrebbe essere particolarmente utile per tracciare quest’ipotesi.44 Tuttavia, anche se l’esito finale non fu quello di una rivolta intestina, l’interruzione delle rotte commerciali avrebbe potuto avere un impatto grave e immediato sui regni micenei di Pilo, Tirinto e Micene, che avevano la necessità di importare ingenti quantità di materie prime supplementari, tra le quali oro, avorio, vetro, ebano e terebinto (resina di trementina), usato


nella produzione dei profumi. Anche se disastri naturali come un terremoto avrebbero potuto provocare un’interruzione temporanea del commercio, causando potenzialmente un aumento dei prezzi e forse quella che oggi si definisce inflazione, è più probabile che ostacoli più duraturi avrebbero potuto essere il risultato di invasioni straniere. Ma chi potevano essere questi invasori? È ora che invochiamo i Popoli del Mare? Invece di riferirsi ai Popoli del Mare, gli antichi Greci (storici come Erodoto e Tucidide nell’Atene del v secolo a.C., fino a Pausania) credevano che un gruppo etnico identificato con i Dori, alla fine dell’Età del Bronzo, avesse invaso la Grecia da nord, dando così inizio all’Età del Ferro.45 Questa concezione è stata a lungo discussa dagli archeologi e dagli storici dell’Egeo dell’Età del Bronzo; tutti basavano le loro considerazioni anche su un nuovo tipo di ceramica, con superficie lucida. Tuttavia, negli ultimi decenni è diventato chiaro che un’invasione da nord non è mai avvenuta in questo periodo e non c’è ragione di credere a un’«invasione dorica» che avrebbe portato alla fine la civiltà micenea. Malgrado la tradizione dei Greci dell’età classica, è chiaro che i Dori non hanno nulla a che vedere con il crollo avvenuto alla fine della tarda Età del Bronzo: il loro arrivo in Grecia è avvenuto molto tempo dopo che questi eventi si erano verificati.46 Studi recenti indicano anche che, durante il declino del mondo miceneo e dei primi anni della successiva Età del Ferro, il continente greco aveva presumibilmente conservato i suoi rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale. Ma le connessioni probabilmente non erano più sotto il controllo delle classi dominanti che avevano abitato nei palazzi dell’Età del


Bronzo.47 Nel nord della Siria, d’altra parte, abbiamo numerosi documenti che affermano che invasori provenienti dal mare avevano attaccato Ugarit proprio in questo periodo. Anche se sono poche le prove convincenti sull’origine di questi predatori, non possiamo scartare la possibilità che includessero i Popoli del Mare. Gli studiosi hanno recentemente rilevato che molte delle città-stato nel Mediterraneo orientale, e Ugarit in particolare, avrebbero potuto essere duramente colpite dal blocco delle rotte internazionali, che erano diventate facile preda del saccheggio dei pirati. Itamar Singer, per esempio, ha suggerito che la caduta di Ugarit potrebbe essere stata provocata dal «crollo improvviso delle strutture tradizionali del commercio internazionale, che costituiva la linfa della prospera economia dell’Età del Bronzo». Christopher Monroe, della Cornell University, ha collocato quest’idea in un contesto più ampio, sottolineando il fatto che le città più prospere del Mediterraneo orientale erano state le più colpite dagli avvenimenti che si erano verificati nel XII secolo a.C., perché non solo erano i bersagli più appetibili, ma anche i più dipendenti dalle rete del commercio internazionale. Monroe suggerisce che la dipendenza, o forse la dipendenza eccessiva dall’impresa capitalistica e in particolare dal commercio a lunga distanza potrebbe aver contribuito all’instabilità economica che si è verificata alla fine della tarda Età del Bronzo.48 Tuttavia, non dovremmo trascurare il fatto che Ugarit avrebbe potuto essere una meta ambita sia per gli invasori stranieri sia per i pirati locali, come pure per molti altri gruppi. A questo proposito, dovremmo riprendere in considerazione la lettera


degli Archivi del sud, trovata nel Cortile V del Palazzo di Ugarit (ma non in una fornace), che cita sette navi straniere che avevano provocato il caos nelle terre di Ugarit. Che avessero o meno a che fare con la distruzione definitiva di Ugarit, queste navi nemiche avrebbero potuto ostacolare il commercio internazionale, da cui Ugarit era totalmente dipendente. Quando simili drammatiche situazioni si verificano oggi, sembra che tutti abbiano il loro parere da dare. Le cose non erano diverse allora. Una lettera trovata a Ugarit, forse mandata da un viceré ittita di Karkemish, dà al re di Ugarit il consiglio di come trattare con le navi nemiche. Comincia: «Mi avete scritto: “ Sono state viste al largo navi nemiche!” e allora il consiglio è “Rimanete inflessibili. Cioè, per quel che riguarda voi, dove sono i soldati e i carri? Sono vicino a voi? ... Circondate le vostre città di mura. Portate la fanteria e i carri dentro la cinta. Sorvegliate i nemici e fortificatevi!».49 Sicuramente a questa è collegata un’altra lettera, trovata nella casa di Rapanu e inviata da un uomo di nome Eshuwara, che era il governatore di Cipro. Nella lettera il governatore dice che non è responsabile dei danni arrecati a Ugarit e al suo territorio dalle navi, soprattutto perché sono le navi e gli uomini di Ugarit che stanno facendo delle atrocità, e che Ugarit deve essere pronta a difendersi da sola: «Come per la questione che riguarda i nemici: (era) il popolo del vostro paese e le vostre navi a fare questo! E fu il popolo del vostro paese a essere responsabile di queste trasgressioni… Sto scrivendo per informarvi e proteggervi. State in guardia!». Poi aggiunge che c’erano venti navi nemiche, ma si dirigevano in una direzione sconosciuta.50 Infine, una lettera nell’archivio di Urtenu di un ufficiale di


Karkemish, nell’interno della Siria settentrionale, dichiara che il re di Karkemish stava ritornando con i rinforzi dal territorio degli Ittiti sino a Ugarit e che diverse persone citate nella lettera, compreso Urtenu e gli anziani della città, dovevano cercare di resistere fino al loro arrivo.51 È improbabile che siano giunti in tempo: se così avvenne, furono di poca utilità, perché un’altra lettera privata, che si pensa sia stata una delle ultime comunicazioni provenienti da Ugarit, descrive una situazione allarmante: «Quando è arrivato il vostro messaggero, l’esercito fu umiliato e la città saccheggiata. Il nostro cibo fu bruciato e le vigne distrutte. La nostra città saccheggiata. Sappiatelo! Sappiatelo!» Come abbiamo già visto, gli archeologi di Ugarit raccontano che la città fu bruciata, con un livello di distruzione che, in alcuni punti, raggiunge due metri e che numerose punte di frecce furono trovate sparpagliate tra le rovine.52 C’erano anche parecchi piccoli tesori seppelliti nella città: alcuni contenevano articoli preziosi d’oro e di bronzo, idoli, armi e attrezzi, alcuni dei quali con iscrizioni. Sembra che fossero stati tutti nascosti prima della distruzione; i loro proprietari non ritornarono mai per recuperarli.53 Tuttavia, perfino il totale annientamento di una città non spiega perché i sopravvissuti non l’abbiano poi ricostruita, a meno che proprio non ci fossero più sopravvissuti. Invece di una devastazione assoluta, potrebbero essere stati l’interruzione delle rotte commerciali e il crollo del sistema mercantile internazionale a rappresentare la spiegazione più logica e più completa del motivo per cui Ugarit non venne mai rioccupata dopo essere stata distrutta. Secondo uno studioso, «il fatto che Ugarit non rinacque mai dalle sue ceneri, come


fecero altre città della tarda Età del Bronzo nel Levante, che ebbero lo stesso destino, deve avere delle ragioni più complesse della semplice distruzione inflitta alla città».54 Una controargomentazione a questo punto s’impone. Sembra che i rapporti internazionali di Ugarit fossero continuati senza problemi fino al crollo improvviso della città; c’è una lettera del re di Beirut mandata a un ufficiale ugaritico (il prefetto) che arrivò dopo che il re di Ugarit era già fuggito dalla città.55 In altre parole, Ugarit fu distrutta dagli invasori e non fu mai ricostruita, malgrado il fatto che il commercio internazionale fosse rimasto parzialmente, se non completamente, intatto, all’epoca della distruzione. In effetti, quel che colpisce maggiormente del materiale degli archivi di Rapanu e di Urtenu è la straordinaria quantità di rapporti internazionali che ancora esistevano nel Mediterraneo orientale alla fine della tarda Età del Bronzo. È chiaro dai pochi testi pubblicati degli archivi di Urtenu che questi rapporti internazionali continuarono fino all’ultimo, poco prima della distruzione di Ugarit. Questa è la prova che la fine fu probabilmente repentina. Non ci fu un declino graduale dovuto all’interruzione delle rotte commerciali o a causa della siccità e della carestia. Ugarit fu distrutta dagli invasori, indipendentemente dal fatto che le truppe avessero o meno bloccato le rotte commerciali internazionali. Decentralizzazione e nascita della figura del mercante privato Bisogna prendere in considerazione un altro punto, che è stato suggerito recentemente e che potrebbe rappresentare un riflesso del pensiero attuale sul ruolo della decentralizzazione


nel mondo odierno. In un articolo pubblicato nel 1998, Susan Sherratt, ora all’Università di Sheffield, ha concluso che i Popoli del Mare rappresentano lo stadio finale di quello che fu un processo che sostituì i vecchi sistemi politico-economici centralizzati tipici dell’Età del Bronzo con i nuovi sistemi economici decentralizzati dell’Età del Ferro. Avvenne cioè un cambiamento dai regni e gli imperi che controllavano il commercio internazionale alle città-stato più piccole e ai singoli imprenditori, che facevano affari per conto proprio. Sherratt suggerisce che i Popoli del Mare potevano «essere considerati come un fenomeno strutturale, un prodotto dell’evoluzione naturale e dell’espansione del commercio internazionale nel terzo e nel secondo millennio a.C., che portava in nuce i semi della sovversione delle economie che facevano capo al palazzo, le quali avevano dato inizio al commercio internazionale».56 Quindi, anche se ammette la possibile interruzione delle rotte del commercio internazionale e l’effettiva coincidenza dei Popoli del Mare con alcune ondate di invasione, alla fine Sherratt conclude che non importa da dove provenissero i Popoli del Mare e neppure chi fossero o cosa facessero. È molto più importante il cambiamento sociopolitico ed economico che rappresentano e che portò da un’economia sostanzialmente controllata dal palazzo a un’altra, in cui i mercanti privati e le piccole entità commerciali riuscirono a ottenere una maggiore libertà di azione.57 Anche se l’argomentazione di Sheratt è condotta con grande perizia, altri studiosi avevano già avanzato ipotesi analoghe. Per esempio Klaus Kilian, archeologo di Tirinto, aveva scritto: «Dopo la caduta dei palazzi micenei, quando l’economia


“privata” si era stabilita in Grecia, continuarono i contatti con i paesi stranieri. Il sistema palaziale, molto ben organizzato, fu sostituito da regni locali più modesti, certamente meno potenti nella loro espansione economica».58 Michal Artzy, dell’Università di Haifa, ha dato addirittura un nome ad alcuni dei mercanti privati immaginati da Sherratt, battezzandoli i «Nomadi del Mare». Artzy pensa che erano stati a lungo attivi come intermediari e avevano portato avanti il commercio marittimo durante il XIV e il XIII secolo a.C.59 Tuttavia, gli studi più recenti non confermano la transizione economica del mondo proposta da Sherratt. Carol Bell, per esempio, mostra il suo disaccordo, pur con molto tatto: «è semplicistico ... considerare il cambiamento tra la tarda Età del Bronzo e l’Età del Ferro come una sostituzione degli scambi organizzati dal palazzo con un commercio imprenditoriale. Un cambiamento completo da un paradigma all’altro non basta a spiegare questa trasformazione e questa ristrutturazione».60 Anche se è innegabile che la privatizzazione sia cominciata come un derivato del commercio palaziale, non è chiaro se tale privatizzazione alla fine scalfì davvero l’economia da cui derivava.61 A Ugarit, per esempio, gli studiosi hanno sottolineato che, anche se in tutta evidenza la città fu incendiata e abbandonata, non ci sono prove, né nei testi trovati sul sito, né tra i resti archeologici, che la distruzione e il crollo siano stati favoriti da prepotenti imprenditori capaci di mettere in crisi il controllo centrale e in grado di indebolire lo stato e di minarne il controllo sul commercio internazionale.62 In realtà, associando le osservazioni dei testi, la prova dell’incendio di Ugarit e la presenza di armi tra le macerie, possiamo senza remore ribadire che, anche se a Ugarit


potrebbero

esserci

stati

i

presupposti

di

una

decentralizzazione, quasi certamente a provocare la distruzione furono la guerra e i combattimenti. In definitiva, i responsabili della distruzione furono gli invasori. Si tratta di uno scenario sostanzialmente diverso da quello immaginato da Sherratt e dai suoi colleghi. Tuttavia non si sa con certezza se questi invasori fossero i Popoli del Mare, anche se è interessante il fatto che uno dei testi di Ugarit citi in modo specifico i Shikila/Shekelesh, già noti dalle iscrizioni dei Popoli del Mare di Merenptah e di Ramses III. In ogni caso, anche se la decentralizzazione e l’avvento della figura del mercante come elemento privato opposto allo stato centrale sono stati sicuramenti fattori reali, sembra improbabile che abbiano provocato da soli il crollo della tarda Età del Bronzo. Invece di accettare l’idea che a compromettere l’economia dell’Età del Bronzo sia stato il commercio privato, con il suo nuovo modo di gestire gli affari, forse dovremmo prendere in considerazione una proposta alternativa: la figura del mercante indipendente emerse semplicemente dal caos dovuto al crollo del sistema, come ha suggerito vent’anni fa James Muhly, dell’Università della Pennsylavia. Per Muhly il XII secolo a.C. non è un mondo dominato da «predatori del mare, pirati e filibustieri prezzolati», ma un universo «di mercanti intraprendenti che sfruttavano le nuove opportunità economiche, i nuovi mercati e le nuove fonti di materie prima».63 Dal caos scaturiscono occasioni insperate, almeno per pochi fortunati, come è sempre successo. Si trattava davvero dei Popoli del Mare? E dove andavano?


Eccoci finalmente pronti ad abbordare il tema dei Popoli del Mare, che rimangono enigmatici e sfuggenti come sempre. Che siano stati considerati predatori o che fossero popolazioni migranti, le prove archeologiche e testuali indicano che i Popoli del Mare, malgrado il loro appellativo, probabilmente si spostavano via mare e via terra, ovvero con tutti i mezzi possibili. È probabile che coloro che provenivano dal mare seguissero la linea costiera, forse gettando l’ancora ogni sera in un porto sicuro. Tuttavia, non si sa se le navi nemiche citate nei testi ugaritici appartenessero ai Popoli del Mare o a membri rinnegati del loro stesso popolo, come sembra insinuare la lettera mandata da Eshuwara, il governatore di Alashiya.64 A questo riguardo, dovremmo tener conto di una lettera già citata, quella della casa di Urtenu a Ugarit, che menziona «il popolo Shikila», il quale, molto probabilmente, può essere identificato con gli Shekelesh delle cronache egizie. La lettera fu inviata dal re ittita, probabilmente Šuppiluliuma II, al governatore di Ugarit, e si riferisce a un giovane re di Ugarit, che «non sapeva nulla». Singer, tra gli altri studiosi, pensa che si riferisca ad Ammurapi che, all’epoca, era il nuovo re di Ugarit. Nella lettera, il re ittita dice che desidera interrogare un uomo di nome Ibnadushu, che è stato preso prigioniero dal popolo Shikila «che vive sulle navi», affinché porti maggiori informazioni su questi Shikila/Shekelesh.65 Tuttavia, non sappiamo se l’interrogatorio avvenne davvero e quali altre informazioni Ibnadushu avesse ottenuto. È generalmente accettato che questo documento contenga la sola citazione esplicita con il nome dei Popoli del Mare oltre alle cronache egizie, anche se si pensa che ce ne possano


essere altre. Il «nemico dalla terra di Alashiya» che attaccò l’ultimo re ittita, Šuppiluliuma II, dopo aver combattuto tre battaglie navali contro l’esercito di Alashiya (i Ciprioti), si riferisce forse ai Popoli del Mare. Analogamente si riferisce probabilmente a essi un’iscrizione trovata a Hattuša nel 1988, da cui si potrebbe dedurre che Šuppiluliuma II stava già combattendo i Popoli del Mare, che erano approdati sulla costa meridionale dell’Anatolia e stavano avanzando verso nord.66 Quasi tutti i documenti e le iscrizioni, diversamente dalle cronache egizie, contengono semplicemente la frase più generica «navi nemiche» e non specificamente il nome dei Popoli del Mare. Gli esponenti dei Popoli del Mare che giunsero via terra quasi sicuramente si fecero strada lungo la principale rotta costiera, dove la distruzione delle città aveva reso loro disponibili regioni intere, proprio come, quasi mille anni dopo, le battaglie di Alessandro Magno presso i fiumi Granico, Isso e Gaugamela avevano aperto le porte delle terre del Medio Oriente antico al suo esercito. Assaf Yasur-Landau, dell’Università di Haifa, ha suggerito che alcuni gruppi dei Popoli del Mare potrebbero aver iniziato il loro viaggio in Grecia e da lì aver attraversato i Dardanelli fino alla Turchia occidentale e all’Anatolia. Altri, secondo lui la maggior parte, avrebbero semplicemente cominciato la spedizione da questo punto, forse raggiungendo coloro che provenivano dall’Egeo e continuando poi la strada lungo la costa meridionale della Turchia fino alla Cilicia orientale, e poi verso il Levante meridionale, sempre lungo la costa. Se avessero seguito questa strada, avrebbero incontrato la città di Troia, i regni di Arzawa e di Tarhuntassa in Anatolia e le città di Tarso e di Ugarit, rispettivamente nell’Anatolia sud-


orientale e nel nord della Siria. Alcuni di questi siti, se non tutti, mostrano segni di distruzione e di conseguente abbandono, all’incirca nell’epoca in cui si pensa siano stati attivi i Popoli del Mare, anche se non si sa se siano stati loro i responsabili di tutto.67 Invece di puntare il dito contro i Popoli del Mare, le prove archeologiche ora sembrano suggerire che la maggioranza dei siti in Anatolia sia stata semplicemente abbandonata, completamente o parzialmente. Possiamo chiederci se il commercio internazionale, i trasporti e le rotte commerciali fossero stati interrotti dalle guerre, dalle carestie o da altri fattori e possiamo interrogarci per sapere se le città che dipendevano da queste rotte fossero sfiorite e poi perite, con il risultato di un progressivo esodo della popolazione o di una sua rapida fuga, proporzionale all’intensità del declino commerciale e culturale. Come uno studioso ha recentemente affermato, «anche se è ragionevole pensare che la Cilicia e la costa siriana siano state danneggiate dalle incursioni dei Popoli del Mare, tuttavia non c’è nessuna prova archeologica né storica di nessun tipo dell’attività dei Popoli del Mare nella patria degli Ittiti ... Le vere cause del crollo dello stato ittita sembrano essere interne e non esterne».68 Un esempio significativo, in cui si attribuiscono colpe senza prove, è la recente diatriba collegata alla datazione al radiocarbonio di Tell Tweini, il sito della città portuale di Gibala, nel regno di Ugarit. I risultati di laboratorio hanno spinto gli archeologi a concludere di aver trovato le prove della distruzione causata dai Popoli del Mare, datandola verso il 1192-1190 a.C.69 Si afferma senza mezzi termini: «I Popoli del Mare erano nemici che arrivarono via mare e avevano diverse


origini. Lanciarono un’invasione sia per terra sia per mare, che destabilizzò il potere già indebolito di imperi e regni del Vecchio Mondo, e tentarono di penetrare nel territorio egizio o di controllarlo. I Popoli del Mare simboleggiano l’ultimo stadio di una lunga e complessa spirale di declino nell’antico mondo mediterraneo».70 Anche se non ci sono dubbi che la città fu distrutta più o meno nel periodo suggerito dagli archeologi, come conferma la datazione al radiocarbonio, considerare i Popoli del Mare i soli responsabili della distruzione è una mera fantasia. Gli archeologi non hanno fornito alcuna prova definitiva che confermi il loro ruolo devastatore; hanno semplicemente indicato che la cultura materiale presente nel luogo dell’insediamento sul tel dopo la distruzione attesta «un’architettura di tipo egeo, una ceramica micenea IIIC prodotta sul posto, una ceramica brunita e dischi d’argilla di tipo egeo».71 Secondo loro, «questi materiali, che sono tipici anche degli insediamenti filistei, sono indizi culturali della presenza di coloni stranieri, quasi sicuramente Popoli del Mare».72 Anche se Tweini potrebbe essere il miglior esempio di un sito probabilmente distrutto e poi ripopolato dai Popoli del Mare, non possiamo dirlo con assoluta certezza. Come ha osservato Annie Caubet riguardo a Ras Ibn Hani (si veda sopra), non si può essere sicuri che i popoli che hanno ricreato un sito dopo la sua distruzione siano gli stessi che l’hanno distrutto in prima istanza. Possiamo fare ulteriori ipotesi sul fatto che, almeno in alcuni casi, gruppi che venivano identificati con i Popoli del Mare possano aver approfittato del vuoto creato dalla distruzione o dall’abbandono delle città e, che ne siano stati o meno gli


autori, vi si siano stabiliti senza cambiare nulla e alla fine abbiano lasciato i loro manufatti, come avvenne a Tweini. I Popoli del Mare hanno probabilmente occupato con simili modalità soprattutto, anche se non esclusivamente, le città costiere, siti come Tarsin e Mersin sulla costa dell’Anatolia sudorientale. Lo stesso probabilmente avvenne per la regione che ora si trova al confine tra la Turchia sud-occidentale e il nord della Siria, nell’area di Tell Ta’yinat, che, secondo prove recenti, dovrebbe coincidere con la «terra di Palistin (o Walistin, in aramaico)» dell’Età del Ferro.73 Effettivamente, ci sono tradizioni, soprattutto letterarie, che affermano esplicitamente che i Popoli del Mare si sono stabiliti a Tel Dor, nel nord di Israele. Ad esempio il romanzo egizio intitolato Il viaggio di Wenamun, della prima metà dell’XI secolo a.C., si riferisce a Dor come a una città dei Tjekker o dei Sikil (Shekelesh). Un altro testo egizio, l’Onomasticon di Amenemope, che risale al 1100 a.C., elenca i Shardana, i Tjekker e i Peleset, e cita anche i siti di Ashkelon, Ashdod e Gaza (tre dei cinque siti che si pensa facciano parte della Pentapoli filistea). Si è pensato che i siti lungo il litorale ai piedi del Monte Carmelo e nella valle di Akko, e anche forse Tel Dan, siano stati abitati dai Popoli del Mare, in particolare Shardana e Danuna. In molti di questi siti, compresi quelli con livelli di occupazione definiti come «filistei», come Ashdod, Ashkelon, Gaza, Ekron e altri, sono state trovate ceramiche in stile egeo, seppur ibride, e altri indizi culturali.74 Si potrebbe trattare delle uniche vestigia materiali lasciate dagli evanescenti Popoli del Mare, ma i resti archeologici in molti di questi siti, come pure più a nord, hanno probabilmente legami diretti più con Cipro che con l’Egeo. Ci sono, in ogni caso,


chiari collegamenti con popolazioni non cananee nel XII secolo a.C.75 È interessante notare che non ci sono resti analoghi, né segni di distruzione, nell’area nota come Fenicia, che corrisponde al Libano moderno. Malgrado i numerosi dibattiti accademici, il motivo è ancora poco chiaro. Potrebbe anche trattarsi semplicemente di un abbaglio, dovuto alla relativa assenza di scavi nella regione, in confronto alla copia di ricerche archeologiche nelle altre aree costiere del Medio Oriente.76 Tra le molte possibili prospettive per spiegare gli ultimi giorni della tarda Età del Bronzo, la proposta avanzata da Israel Finkelstein, dell’Università di Tel Aviv, una decina di anni fa sembra la più verosimile. Finkelstein sostiene che la migrazione dei Popoli del Mare non fu un evento unico, bensì un lungo processo che comportò diverse fasi. Il primo stadio ebbe inizio nei primi anni di Ramses III, nel 1177 a.C., e l’ultimo è finito durante la dinastia di Ramses VI, nel 1130 a.C. In particolare Finkelstein scrive: nonostante la descrizione nei testi egizi di un singolo avvenimento, la migrazione dei Popoli del Mare fu un processo che durò almeno mezzo secolo e che ebbe diverse fasi ... potrebbe essere iniziato con gruppi che, all’inizio del XII secolo a.C., seminarono la distruzione sulla costa del Levante, compresa la Filastinia settentrionale e che furono sconfitti da Ramses III nell’ottavo anno della sua dinastia. In seguito, alcuni di essi si stabilirono nelle guarnigioni egizie sul delta del Nilo. Nella seconda metà del XII secolo altri gruppi di Popoli del Mare riuscirono a porre fine al governo egizio nella terra di Canaan meridionale. Dopo aver distrutto le roccaforti egizie ... si insediarono nella Filastinia e stabilirono i loro centri principali ad Ashdod, Ashkelon, Tel Miqne e altri luoghi. Queste popolazioni (i Filistei dei testi biblici) sono facilmente identificabili da numerosi aspetti di tipo egeo che si rilevano nella loro cultura materiale.77

Quasi tutti gli studiosi concordano con Finkelstein e pensano che le prove archeologiche dovrebbero innanzitutto spingerci a


considerare tappe intermedie lungo il cammino,78 le località dell’Egeo, forse raggiunte attraverso i canali dell’Anatolia occidentale e di Cipro, invece di pensare che Sicilia, Sardegna e Mediterraneo occidentale fossero i luoghi d’origine dei Popoli del Mare. Tuttavia, Yasur-Landau suggerisce che, se erano Micenei, non si trattava comunque degli stessi che fuggirono dai palazzi in rovina, a Micene e altrove, subito dopo la loro distruzione. Infatti nei siti anatolici e cananei non ci sono tracce di scrittura in Lineare B o di altri elementi del florido periodo palaziale del XIII secolo a.C. Le tracce materiali della civiltà di questi coloni indicano piuttosto che provenivano dalla «cultura assai più modesta che venne [subito] dopo», all’inizio del XII secolo a.C. Alcuni di essi, osserva, invece che guerrieri sanguinari, avrebbero potuto essere contadini che cercavano di migliorare la loro vita spostandosi in nuove regioni. Malgrado tutto, si trattava «di un’intera popolazione di famiglie in viaggio per trovare una nuova patria».79 In ogni caso, Yasur-Landau pensa che questi migranti non fossero i responsabili del crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo nella regione, ma semplicemente degli «opportunisti», che approfittarono del declino generale per trovarsi una nuova sistemazione.80 Yasur-Landau non concorda con il quadro tradizionale di un’occupazione militare filistea della terra di Canaan. Dice: «Le circostanze dell’insediamento non rispecchiano i criteri di un’incursione violenta. Scoperte recenti ad Ashkelon mostrano che i migranti [in realtà] si insediarono in un sito deserto, sulle rovine di una guarnigione egizia … Non ci sono segni evidenti di una distruzione violenta ad Ashdod ... gli indizi di distruzione descritti dagli archeologi potrebbero non essere altro che segni di incendio ... Ekron, il piccolo villaggio della terra di Caanan ...


fu invece distrutto dal fuoco, ma ... fu sostituito da un altro villaggio cananeo ... prima dell’arrivo di altri migranti».81 Invece di un’incursione militare, Yasur-Landau pensa a matrimoni e famiglie interculturali, che conservavano la tradizione cananea ed egea, soprattutto a livello domestico. Secondo lui, «i resti materiali della Filastinia dell’Età del Ferro rivelano complesse interazioni, per lo più pacifiche, tra migranti e locali… Vorrei suggerire che la fondazione delle città filistee si associa a un’assenza generalizzata di ogni forma di violenza ... e la coesistenza di tradizioni culturali locali ed egee indica che c’era piuttosto una fusione di migranti egei e di popolazione locale e non un’opera di colonizzazione».82 Anche altri studiosi concordano, sottolineando che i Filistei distrussero solo le zone più in vista di alcuni dei siti, il palazzo e i suoi dintorni, per esempio, e che gli elementi che oggi identifichiamo come Filistei erano «di natura mista e comprendevano aspetti delle culture egea, di Cipro, dell’Anatolia e dell’Europa meridionale».83 Non sembra che elementi completamente stranieri abbiano semplicemente sostituito tutti gli aspetti materiali della precedente civiltà cananea (per esempio il vasellame, le tecniche di costruzione o altro); piuttosto, quello che oggi identifichiamo come cultura filistea può essere il risultato di un’ibridazione e di una contaminazione tra culture diverse, che contengono elementi più antichi e più moderni, sia dei Cananei sia degli invasori stranieri.84 In altre parole, anche se è fuori discussione che sono arrivate nuove popolazioni, che si sono insediate nella terra di Caanan, nel tentativo di ricostruzione storica lo spettro degli invasori – i Popoli del Mare/Filistei – è stato sostituito da un quadro


decisamente più pacifico: quello di un gruppo misto di migranti alla ricerca di un nuovo inizio in una nuova terra. Invece di un’invasione militare assetata di distruzione, sembra che ci fu un esodo di rifugiati, che non necessariamente attaccarono e conquistarono la popolazione locale, ma semplicemente si stabilirono al suo fianco. D’altra parte, è molto improbabile che siano stati questi popoli ad aver messo fine alla civiltà nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale.85 Argomentazioni in favore di un crollo dei sistemi Nel 1985, quando Nancy Sandars ha pubblicato una nuova edizione del suo classico sui Popoli del Mare, ha scritto: «Nelle terre che circondavano il Mediterraneo, c’erano sempre stati terremoti, carestie, periodi di siccità e inondazioni: i secoli bui sono un elemento ricorrente». Continua scrivendo che «le catastrofi hanno costellato la storia umana, ma in genere gli uomini sono sopravvissuti senza gravi perdite. Spesso i disastri sono stati seguiti da uno sforzo più intenso, che ha portato a un maggiore successo».86 Allora, che cosa c’era di diverso in questo periodo, la tarda Età del Bronzo? Perché la civiltà non si è semplicemente ripresa e non è andata avanti? Come specula Sandars, «sono state date molte spiegazioni e poche hanno avuto la meglio. Una serie senza precedenti di terremoti, carestie e fame, un’invasione massiccia dalla steppa, dal Danubio e dal deserto: tutto ciò ha avuto un suo ruolo. Questo tuttavia non basta».87 Aveva ragione. Dobbiamo pensare all’idea di un crollo di interi sistemi, un declino con un effetto domino e un effetto moltiplicatore. Il vivace sistema della rete intersociale, internazionale e globalizzato, tipico della tarda Età


del Bronzo non fu in grado di riscattarsi. Colin Renfrew, dell’Università di Cambridge, uno dei più eminenti scienziati che hanno studiato la regione egea della preistoria, aveva già suggerito nel 1979 l’idea di un collasso dei sistemi. All’epoca l’aveva configurato nei termini della teoria delle catastrofi, in cui «il collasso di un elemento minore dà l’avvio a una reazione a catena che si ripercuote a una scala sempre maggiore, finché l’intera struttura è portata a crollare».88 Una metafora molto utile è il cosiddetto «effetto farfalla», secondo cui il battito d’ali di una farfalla potrebbe provocare una tempesta o un tornado dall’altra parte del mondo alcune settimane dopo.89 Potremmo per esempio citare l’attacco sferrato dal re assiro Tukulti-Ninurta I all’arrogante esercito ittita. La sua capacità di sconfiggere l’armata ittita, alla fine del XIII secolo a.C. durante il regno di Tudhaliya, a sua volta potrebbe aver spinto la vicina Kaška ad attaccare e incendiare la capitale ittita, Hattuša. Renfrew analizza gli elementi generali del collasso dei sistemi, specificandoli come segue: 1) il collasso dell’organizzazione amministrativa centrale; 2) la scomparsa della classe dirigente tradizionale; 3) il collasso dell’economia centralizzata; 4) nuovi insediamenti e un declino della popolazione. Dovrebbe passare più o meno un secolo perché si verifichino tutti gli elementi di questo crollo, ha detto Renfrew, e non c’è un’unica causa ovvia. All’indomani di un simile declino ci dovrebbe essere un periodo di transizione a un livello più basso, con fenomeni quali l’integrazione sociopolitica e lo sviluppo di miti «romantici» riferiti al periodo precedente. Non solo questo corrisponde alla regione dell’Egeo e del Mediterraneo orientale verso il 1200 a.C., ma, secondo lui, descrive anche il collasso della civiltà


Maya, del Regno Antico d’Egitto e delle civiltà della Valle dell’Indo in epoche diverse.90 Come abbiamo già detto, questi argomenti sul «crollo» di una civiltà nella storia e l’ascesa e la caduta cicliche degli imperi sono stati reinterpretati anche da altri studiosi, dei quali il più noto è Jared Diamond.91 Il fatto che non tutti gli studiosi concordino con l’idea di un crollo dei sistemi alla fine della tarda Età del Bronzo non sorprende. Robert Drews, della Vanderbilt University, per esempio, respinge in linea di principio quest’idea, perché non pensa che ciò spieghi il motivo per cui i palazzi e le città vennero distrutti e incendiati.92 Tuttavia, come abbiamo visto, subito dopo il 1200 a.C., le civiltà dell’Età del Bronzo crollarono nell’Egeo, nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente, rivelando tutti gli elementi tipici delineati da Renfrew, a partire dalla scomparsa della classe dirigente tradizionale e al crollo dell’amministrazione centrale e dell’economia centralizzata, sino all’avvicendarsi di nuovi insediamenti, al calo della popolazione e alla transizione a un livello più basso di integrazione sociopolitica, per non parlare della nascita di leggende come quelle della guerra di Troia, alla fine trascritta da Omero nell’VIII secolo a.C. Più che l’avvento dei Popoli del Mare nel 1207 e nel 1177 a.C., più che i terremoti seriali che sconquassarono la Grecia e il Mediterraneo orientale per un periodo di cinquant’anni dal 1225 al 1175 a.C., più della siccità e del cambiamento climatico che tormentarono queste regioni in questo stesso periodo, quello a cui assistiamo è il risultato di una «tempesta perfetta», che portò al declino di fiorenti civiltà dell’Età del Bronzo (dai Micenei ai Minoici sino agli Ittiti, agli Assiri, ai Cassiti, ai Ciprioti, ai Mitanni, ai Cananei e perfino


agli Egizi).93 Secondo me, e secondo Sandars prima di me, nessuno di questi fattori, preso da solo, è stato sufficientemente drammatico da provocare la fine di una di queste civiltà, per non dire di tutte. Tuttavia, i fattori si sono combinati per produrre uno scenario in cui le ripercussioni di ogni fattore sono state amplificate, in quello che gli studiosi hanno definito un «effetto moltiplicatore» (vedi sopra).94 La caduta di una parte del sistema avrebbe potuto anche avere un effetto domino, in grado di provocare collassi in altre regioni. Il conseguente «collasso dei sistemi» potrebbe aver causato la disintegrazione di una società dopo l’altra, in parte anche a causa della frammentazione dell’economia globale e dell’allentarsi delle connessioni da cui le diverse civiltà erano dipendenti. Nel 1987, Mario Liverani, dell’Università di Roma, ha dato la colpa alla concentrazione di potere e di controllo nei palazzi, sostenendo che, quando questi crollarono, le dimensioni del disastro vennero amplificate. Scrive: «La concentrazione peculiare nel palazzo di tutti gli elementi organizzativi e di trasformazione e scambio (concentrazione che sembra raggiungere il massimo nella tarda Età del Bronzo) ha l’effetto di trasformare il crollo fisico del palazzo in un disastro generalizzato per il regno intero».95 In altre parole, per tradurlo in termini finanziari moderni, i governanti dell’Età del Bronzo avrebbero dovuto diversificare le loro competenze, ma non lo fecero. Due decenni dopo, Christopher Monroe ha citato l’opera di Liverani e suggerito che l’economia della tarda Età del Bronzo era diventata instabile a causa della sua crescente dipendenza


dal bronzo e da altre merci pregiate. In particolare, ha considerato «l’impresa capitalistica» (di cui faceva parte il commercio a lunga distanza e che dominava il sistema palaziale tipico della tarda Età del Bronzo) come uno dei fattori che trasformò le modalità di scambio, di produzione e di consumo della tradizionale Età del Bronzo in modo tale che, quando le invasioni straniere e le catastrofi naturali si combinarono con un «effetto moltiplicatore», il sistema fu incapace di sopravvivere.96 Delineando la situazione della fine della tarda Età del Bronzo nel suo libro Scales of Fate, Monroe descrive le interazioni dei vari poteri nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale considerandole una «rete intersociale», che coincide con il quadro che abbiamo presentato. Proprio come ho fatto io, anche lui fa notare che questo periodo è «eccezionale per quanto riguarda trattati, leggi, diplomazia e scambi, che hanno creato la prima grande era internazionale nella storia del mondo».97 Tuttavia è ancora più interessante il fatto che, secondo Monroe, questa rete di scambi possiede la chiave per differire l’inevitabile collasso, che alla fine trascinò nell’abisso tutte le società. Così scrive: «Si sedano le rivolte, si trovano materie prime, si aprono nuovi mercati, si realizzano controlli efficaci sui prezzi, si confiscano le proprietà dei mercanti, si attuano embarghi e si combatte la guerra».98 Ma «in genere i governanti ai vertici delle grandi potenze trattano i sintomi anziché le cause dell’instabilità» e, conclude Monroe, «la violenta distruzione della civiltà palaziale della tarda Età del Bronzo, come dimostrato dai testi e dalle prove archeologiche, fu il risultato inevitabile di una visione miope, come è successo


con il crollo di altre civiltà».99 Sono d’accordo con Monroe a eccezione di quest’ultimo punto, perché non penso che siamo autorizzati ad attribuire il crollo di una civiltà semplicemente a «una visione miope», considerata la pletora di altri fattori finora citati, che i governanti di quell’epoca non erano nella situazione di poter prevedere con lucidità. Sembra più probabile un imprevisto collasso di sistemi, probabilmente innescato dal cambiamento climatico, come ha recentemente ipotizzato Brandon Drake e l’équipe guidata da David Kaniewski,100 oppure accelerato da terremoti e invasioni. Le parole di Monroe possono tuttavia servire come un avvertimento per noi, oggi, dal momento che la sua descrizione della tarda Età del Bronzo, soprattutto a livello economico e politico, si potrebbe benissimo applicare alla nostra odierna civiltà globalizzata, che patisce anch’essa le conseguenze del cambiamento climatico. Una sintesi delle ipotesi esposte e la teoria della complessità Come abbiamo osservato all’inizio del capitolo, il cosiddetto collasso (o catastrofe) della tarda Età del Bronzo è stato a lungo discusso dagli studiosi. Robert Drews cerca di affrontare il problema in modo sistematico, consacrando ogni capitolo del suo libro, del 1993, a un dibattito sulle diverse cause possibili. Tuttavia potrebbe aver dato una valutazione errata di alcune di esse e averle sottovalutate; ad esempio, Drews liquida l’idea di un collasso di sistemi a favore della sua teoria, secondo cui i responsabili del declino furono i cambiamenti nell’arte della guerra, un’ipotesi su cui non tutti gli studiosi concordano.101 Ora, vent’anni dopo la pubblicazione del libro di Drews e dopo


l’ondata di pubblicazioni e di infiammati dibattiti accademici sull’argomento, non c’è ancora un consenso unanime su chi, o cosa, abbia provocato la distruzione o l’abbandono dei maggiori siti delle civiltà che giunsero alla fine con il tramonto dell’Età del Bronzo. Il problema può essere sintetizzato come segue. Osservazioni principali: 1. Ci sono alcune civiltà separate che fiorirono tra il XV e il XIII secolo a.C. nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, dai Micenei ai Minoici agli Ittiti agli Egizi, i Babilonesi, gli Assiri, i Cananei e i Ciprioti. Erano tutte indipendenti, ma interagivano tra loro, soprattutto attraverso le rotte internazionali del commercio. 2. Si sa con certezza che molte città furono distrutte e che, nel 1177 circa, o poco dopo, finirono le civiltà e la vita della tarda Età del Bronzo così come erano state sperimentate dagli abitanti nell’Egeo, nel Mediterraneo orientale, nell’Egitto e nel Medio Oriente. 3. Non sono state trovate prove inequivocabili su chi o cosa abbia provocato questo disastro, che ebbe come conseguenza il collasso di queste civiltà e la fine della tarda Età del Bronzo.

Discussioni delle varie possibilità: Ci sono alcune possibili cause, che possono aver portato al collasso della tarda Età del Bronzo, o che vi hanno contribuito, ma nessuna sembra in grado di aver provocato da sola la fine. A. In questo periodo, in tutta evidenza, ci sono stati terremoti, ma in genere le società sono in grado di riprendersi dopo simili catastrofi. B. Ci sono testimonianze testuali che attestano le carestie e anche nuove prove scientifiche circa la siccità e i cambiamenti climatici, sia nell’Egeo sia nel Mediterraneo orientale, ma ancora una volta bisogna far presente che le società in genere si rigenerano anche dopo queste calamità. C. Può esserci una prova circostanziata di rivolte intestine in Grecia e altrove, compreso il Levante, anche se non ve n’è certezza. Ancora una volta, è bene notare che di solito le società sopravvivono a questo tipo di avvenimenti. Inoltre, malgrado l’esperienza del Medio Oriente di oggi, che dimostrerebbe il contrario, è raro che le


ribellioni si prolunghino in un’area così ampia e per tempi così lunghi. D. Nel Levante, da Ugarit a nord a Lachish nel sud, i reperti archeologici dimostrano la presenza di invasori, o per lo meno di nuovi insediamenti di popolazioni, forse provenienti dall’Egeo, dall’Anatolia occidentale e da Cipro. Alcune di queste città sono state distrutte e poi abbandonate, altre sono state rioccupate e altre ancora non sono state coinvolte. E. È chiaro che ci sono state ripercussioni sulle rotte del commercio: sono state colpite, o completamente bloccate, ma non si conosce l’impatto effettivo di questo fenomeno sulle civiltà interessate, anche se alcune società erano completamente dipendenti dalle materie prime straniere per la sopravvivenza, come i Micenei.

È vero che, a volte, una civiltà non è in grado di riprendersi dalle invasioni o da un terremoto, oppure non può sopravvivere dopo una carestia o una rivolta intestina. Oggi, tuttavia, in mancanza di spiegazioni più esaurienti, pensiamo che siano stati tutti i fattori nel loro complesso a contribuire al collasso delle civiltà di questo periodo. Basandoci sulle prove disponibili, abbiamo quindi di fronte quello che si può definire il collasso di un sistema, provocato da una serie di eventi concatenati e amplificati da un «effetto moltiplicatore», in cui un singolo fattore influisce sugli altri e lo accresce. Forse gli abitanti avrebbero potuto sopravvivere a un unico disastro, come un terremoto o una carestia, ma non hanno potuto resistere agli effetti sovrapposti di terremoti, carestie e invasioni in rapida successione. Ne è scaturito un «effetto domino», in cui la disintegrazione di una civiltà ha portato al declino e alla caduta delle altre. Considerata la natura globalizzata di quel mondo, le conseguenze sulle rotte commerciali e sull’economia anche solo del declino di una sola civiltà sarebbero state sufficientemente devastanti da provocare la caduta delle altre. Se è stato così, le civiltà non erano abbastanza grandi da resistere.


Ma, a prescindere dalle mie considerazioni personali, il collasso di un sistema è una spiegazione troppo semplicistica per essere accettata come ragione unica per la fine della tarda Età del Bronzo.102 Per capire appieno ciò che ha effettivamente provocato il collasso di queste civiltà è necessario rivolgersi a quella che viene chiamata «scienza della complessità» o, più appropriatamente, «teoria della complessità». La teoria della complessità è lo studio di un sistema complesso e si propone di spiegare «i fenomeni che emergono da un insieme di oggetti interagenti». È stata utilizzata per spiegare, e a volte risolvere, problemi diversi come gli ingorghi stradali, il crollo della borsa, malattie come il cancro, i cambiamenti ambientali e perfino le guerre, come ha recentemente scritto Neil Johnson, dell’Università di Oxford.103 Anche se negli ultimi decenni tale approccio è per così dire migrato dal campo della matematica e della scienza computazionale a quello dei rapporti internazionali e degli affari, raramente è stato applicato all’archeologia. Con una sorta di presentimento, Carol Bell ha esplorato brevemente il tema nel suo libro del 2006 sull’evoluzione del commercio a lunga distanza nel Levante, dalla tarda Età del Bronzo all’Età del Ferro. Ha osservato che l’approccio teorico era molto promettente e avrebbe potuto essere utilizzato come modello interpretativo della causa del crollo e delle successive ristrutturazioni di questo periodo.104 Per far sì che un problema diventi un potenziale candidato della teoria della complessità, Johnson sostiene che deve comportare un sistema che «contiene un insieme di molti oggetti diversi, tra essi interagenti o “agenti”».105 Nel nostro caso, si tratterebbe delle diverse civiltà attive durante la tarda


Età del Bronzo. Dal punto di vista della teoria della complessità, il comportamento di questi oggetti è condizionato dalla loro memoria e dal «feedback» rispetto a quanto è accaduto in passato. Questi oggetti sono in grado di adattare le loro strategie, in parte sulla base della conoscenza della storia passata. I conduttori automobilistici, per esempio, conoscono i modelli del traffico nelle zone a loro familiari e sono in grado di prevedere i percorsi più veloci per andare a lavorare e ritornare a casa. Se si verificano degli ingorghi, sono capaci di scegliere strade alternative per evitare il problema.106 Analogamente, verso la fine della tarda Età del Bronzo, è possibile che i commercianti di Ugarit abbiano preso provvedimenti per sfuggire alle navi nemiche o per evitare le regioni in cui attraccavano navi sospette e si insediavano popoli invasori, come la porzione costiera intorno a Lukka (cioè la regione più tardi nota come Licia, nell’Anatolia sudoccidentale). Johnson sostiene anche che il sistema è «vivo», cioè che evolve in un modo non banale e spesso complesso, e che è anche «aperto», il che significa che può essere influenzato dall’ambiente esterno. Secondo lui, questo significa che oggi la borsa, di cui gli analisti finanziari parlano come se si trattasse di un essere vivente in grado di respirare, può essere influenzata, e demolita, da notizie sui profitti di una data compagnia o di qualsiasi avvenimento che si verifichi dall’altra parte del mondo. Sherratt, con la sua analogia pubblicata una decina d’anni fa e citata nella prefazione di questo libro, descrive la similitudine tra il mondo della tarda Età del Bonzo e l’«economia e la nostra cultura sempre più omogenee, ma incontrollabili, in cui ... le incertezze politiche da una parte del


mondo possono pesantemente influire sulle economie di regioni che si trovano a mille miglia di distanza».107 Questi influssi o «agenti stressanti» che agirono sul «sistema» nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale alla fine della tarda Età del Bronzo furono probabilmente terremoti, carestie, siccità, cambiamenti climatici, rivolte intestine, invasioni e interruzioni delle rotte commerciali, come abbiamo detto. La premessa essenziale, possiamo dire, è che Johnson sostiene che un sistema del genere rivela fenomeni che «sono generalmente sorprendenti e possono essere estremi». Inoltre, «significa che qualsiasi cosa può accadere e, se si aspetta abbastanza, in genere accadrà». Tutte le borse prima o poi subiranno un crollo e il traffico inevitabilmente produrrà un ingorgo. Si tratta di fenomeni che, al momento della loro comparsa, sono inaspettati e non possono essere ragionevolmente previsti in anticipo, anche se si sa che potrebbero succedere e che puntualmente succederanno.108 Nel nostro caso, poiché nella storia del mondo non è mai esistita una civiltà che alla fine non sia scomparsa, e poiché spesso le ragioni sono identiche, come hanno sostenuto Jared Diamond e molti altri, il crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo era prevedibile, ma, anche se si ha una discreta conoscenza del funzionamento di ciascuna civiltà, è difficile riuscire a prevedere quando effettivamente avverrà il crollo o addirittura capire se tutte le civiltà scompariranno nello stesso momento. Come scrive Johnson, «anche una conoscenza approfondita delle caratteristiche del motore di un’automobile, del suo colore e della sua forma, è inutile quando si cerca di prevedere dove e quando ci sarà un ingorgo in una nuova rete stradale. Analogamente, conoscere i singoli individui che si


trovano in un bar affollato non darà alcuna informazione sull’eventualità di una possibile zuffa».109 Quindi che utilità può avere la teoria della complessità per spiegare il collasso alla fine della tarda Età del Bronzo, se non ci può aiutare a prevedere quando e perché è avvenuto? Carol Bell sostiene che le reti commerciali dell’Egeo e del Mediterraneo orientale sono esempi di sistemi complessi. Cita il lavoro di Ken Dark, dell’Università di Reading, che scrive che «tali sistemi diventano più complessi e aumenta il livello di interdipendenza tra i loro elementi costitutivi, rendendo più difficile il controllo del sistema nel suo complesso».110 Conosciuto con il nome di «ipercoerenza», ciò avviene, come dice Dark «quando ogni parte di un sistema diventa talmente dipendente da ogni altra che il cambiamento in una qualsiasi delle parti produce instabilità nel sistema nel suo complesso».111 Quindi, se le civiltà della tarda Età del Bronzo erano davvero globalizzate e dipendenti l’una dall’altra, per le materie prime e i servizi, allora il cambiamento sopraggiunto anche solo in uno dei regni chiave, come quello dei Micenei o degli Ittiti, avrebbe potuto influire sugli altri, destabilizzandoli. È particolarmente importante che regni, imperi e società della tarda Età del Bronzo possano essere considerati come sistemi sociopolitici singoli. Come dice Dark, «i sistemi sociopolitici complessi mostreranno una dinamica interna che li spinge ad accrescere la loro complessità… Più un sistema è complesso, più tende a collassare».112 Quindi, nella tarda Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, abbiamo sistemi geopolitici individuali, cioè le diverse civiltà, che diventano sempre più complessi e quindi più inclini a crollare. Nello stesso tempo, abbiamo


sistemi complessi, cioè le reti commerciali, che sono interdipendenti e complessi, e, al più piccolo mutamento, sono soggetti all’instabilità. Un unico ingranaggio poco funzionale in un meccanismo per altri versi ben oliato può trasformare l’intero sistema in un cumulo di immondizia, come un’asta di ferro può demolire il motore di un’automobile. Quindi, invece di immaginare una fine apocalittica ovunque (anche se è probabile che città e regni come Ugarit abbiano in effetti subito una fine repentina e drammatica), è meglio immaginare il declino della tarda Età del Bronzo come una disintegrazione, caotica ma graduale, di regioni un tempo floride e tra loro in contatto, che deperirono e si isolarono, come Micene, a causa di cambiamenti interni ed esterni che avevano compromesso uno o più degli elementi costitutivi del sistema. È chiaro che un danno di questo tipo avrebbe condotto al crollo dell’intera rete. Possiamo immaginarci un impianto elettrico che va in tilt, magari a causa di una tempesta o di un terremoto: l’azienda elettrica è ancora in grado di produrre elettricità, ma non può più erogarla ai singoli consumatori; negli Stati Uniti assistiamo a fenomeni di questo tipo ogni anno, regolarmente provocati dai tornado o dalle tempeste di neve. Se lo sconvolgimento è permanente, come può accadere in una catastrofe di grande entità (come un’esplosione nucleare), alla fine anche la produzione dell’elettricità finirà per cessare. L’analogia può valere per la tarda Età del Bronzo, anche se a un livello tecnologico assai minore. Come ha osservato Bell, la conseguenza di una simile instabilità è che quando un sistema complesso crolla, «si decompone in elementi più piccoli», il che è esattamente quel che avvenne nell’Età del Ferro che seguì la fine delle civiltà


dell’Età del Bronzo. Sembra quindi che servirsi della teoria della complessità, che ci permette di avvalerci della teoria delle catastrofi e di quella del collasso dei sistemi, possa costituire l’approccio migliore per spiegare la fine della tarda Età del Bronzo negli anni successivi al 1200 a.C. Le vere domande non sono tanto «chi è il responsabile?» o «quale avvenimento ha provocato il collasso?», quanto «perché è successo?» e «come è successo?». Che il declino avesse potuto essere evitato, è un’altra faccenda. Tuttavia, nel proporre la teoria della complessità come ausilio all’analisi delle cause del collasso della tarda Età del Bronzo, stiamo solo applicando un termine scientifico (o pseudoscientifico) a una situazione su cui non c’è una conoscenza sufficiente per trarre conclusioni definitive. Sembra che funzioni, ma permette davvero un progresso della nostra comprensione degli eventi? Oppure è un semplice escamotage per ribadire una banalità, e cioè che le cose complicate possono andare in fumo in mille modi diversi? Non c’è dubbio che il crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo sia stato complesso sin dall’origine. Sappiamo che molte possibili variabili hanno avuto un loro ruolo, ma non siamo neppure certi di conoscere tutte le variabili e sicuramente non sappiamo quali siano state le più importanti, o se fossero importanti a livello locale ma con uno scarso effetto generale. Per riprendere l’analogia con il moderno ingorgo del traffico: in questo caso conosciamo quasi tutte le variabili. Sappiamo qualcosa sulla quantità di automobili presenti e sulle strade che percorrono (se sono strette o larghe) e siamo sicuramente in grado di prevedere ampiamente l’effetto di altre variabili, per esempio una tempesta su un’autostrada. Per quel


che riguarda invece la tarda Età del Bronzo, anche se non lo sappiamo per certo, ci sono centinaia di variabili in più rispetto a quelle che concorrono in un ingorgo del traffico. L’argomentazione secondo cui le civiltà dell’Età del Bronzo diventavano sempre più complesse e quindi erano più propense al declino in realtà non ha molto senso, soprattutto quando si considera la loro «complessità» in rapporto a quella delle civiltà dell’Europa occidentale degli ultimi trecento anni. Quindi, anche se è possibile che la teoria della complessità possa essere un sistema utile per considerare il crollo della tarda Età del Bronzo, una volta che si posseggano maggiori informazioni sui dettagli di tutte le civiltà più importanti, a questo stadio potrebbe essere di scarsa utilità. Semplicemente consolida la nostra consapevolezza del fatto che, alla fine dell’Età del Bronzo, erano presenti molti fattori che avrebbero potuto contribuire a destabilizzare e a indebolire un sistema internazionale che aveva funzionato in maniera eccellente per molti secoli. Eppure, le pubblicazioni accademiche continuano a suggerire una progressione lineare per il crollo della tarda Età del Bronzo. Ma non è esatto limitarsi ad affermare che la carestia provocò la fame, la fame spinse i Popoli del Mare all’emigrazione e alla violenza, la violenza dei Popoli del Mare provocò il collasso.113 La progressione non fu così lineare; la realtà fu molto più caotica. Probabilmente non ci fu un’unica causa scatenante, ma una serie complessa di motivi, che obbligarono la gente a reagire in modi diversi per far fronte alla situazione. La teoria della complessità, soprattutto in relazione a una progressione non lineare e alla presenza di molti elementi scatenanti, è utile sia per spiegare il crollo della


tarda EtĂ del Bronzo sia per fornire un modello che ci permetta di studiare in modo piĂš approfondito questa catastrofe.


Epilogo Le conseguenze Abbiamo visto che per più di trecento anni, dal regno di Hatshepsut verso il 1500 a.C. fino a quando tutto crollò dopo il 1200 a.C., la regione intorno al bacino del Mediterraneo è stata la patria di un universo internazionale assai complesso, in cui Minoici, Micenei, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Mitanni, Cananei, Ciprioti ed Egizi interagivano tra loro, creando un sistema cosmopolita e globalizzato che raramente si è visto prima della nostra epoca. Può essere stato questo vero e proprio internazionalismo a contribuire al disastro apocalittico che mise fine all’Età del Bronzo. Le civiltà del Medio Oriente, dell’Egitto e della Grecia, nel 1177 a.C. erano così interconnesse le une con le altre che la caduta dell’una alla fine portò alla rovina di tutte le altre, a causa delle azioni dell’uomo o della natura, oppure di una micidiale combinazione dei due fattori. Tuttavia, anche dopo tutto ciò che è stato detto, dobbiamo riconoscere che non siamo in grado di stabilire con certezza la causa precisa (o la molteplicità di cause) del collasso di queste civiltà e della successiva transizione dalla tarda Età del Bronzo all’Età del Ferro. Non siamo neppure in grado di identificare l’origine e le motivazioni dei Popoli del Mare. Ciononostante, se ricostruiamo tutti gli indizi che sono apparsi durante la discussione, ci sono alcuni elementi che possiamo affermare con una certa sicurezza su questo periodo di passaggio della storia dell’umanità. Per esempio ci sono prove sufficienti per affermare che i


contatti internazionali, e forse il commercio, siano continuati fino alla fine repentina dell’epoca, e forse addirittura dopo (se gli studi recenti lo confermeranno).1 Sembra chiaro dalle ultime lettere negli archivi di Ugarit che documentano i contatti con Cipro, l’Egitto, gli Ittiti e l’Egeo, e anche dai doni inviati dal faraone egizio Merenptah al re di Ugarit solo pochi anni prima della distruzione della città. Non ci sono prove di una diminuzione sostanziale dei contatti e del commercio nel momento in cui cominciarono i problemi, tranne per alcune sporadiche fluttuazioni di intensità. Eppure, a questo punto, il mondo come era stato conosciuto per più di tre secoli crollò e scomparve. Come abbiamo visto, la fine della tarda Età del Bronzo, in una porzione di terra che va dall’Italia e la Grecia all’Egitto e alla Mesopotamia, fu un evento fluido, che avvenne nel corso di parecchi decenni e forse perfino nell’arco di un secolo, non un singolo avvenimento che si può ascrivere a un anno particolare. Risalta specialmente, ed è rappresentativo del crollo, l’ottavo anno del regno del faraone egizio Ramses III, cioè il 1177 a.C. per essere precisi, secondo l’usuale cronologia adottata dagli egittologi moderni. Infatti fu proprio in quell’anno, secondo le cronache egizie, che i Popoli del Mare infuriarono nella regione, portando il caos per la seconda volta. Fu l’anno in cui vennero combattute battaglie per terra e per mare nel delta del Nilo, l’anno in cui l’Egitto combattè per la sua sopravvivenza, l’anno in cui le più fiorenti civiltà dell’Età del Bronzo stavano già subendo un rallentamento. In realtà, si potrebbe dire che il 1177 a.C. sia la fine della tarda Età del Bronzo come il 476 d.C. fu la fine di Roma e dell’Impero Romano d’Occidente. Si tratta cioè di date con cui


gli studiosi moderni segnano opportunamente la fine di una grande civiltà. L’Italia fu invasa e Roma fu saccheggiata parecchie volte nel V secolo d.C., ad esempio nel 410 da Alarico e dai Visigoti e nel 455 da Genserico e dai Vandali. Ci sono molte altre ragioni per spiegare la caduta di Roma oltre a queste invasioni, e la storia è molto più complessa, come qualsiasi storico della romanità sarebbe in grado di spiegare. Collegare l’invasione di Odoacre e degli Ostrogoti nel 476 alla fine dei giorni gloriosi di Roma è una convenzione, una scorciatoia considerata accettabile nel mondo accademico. La fine della tarda Età del Bronzo e la transizione all’Età del Ferro è un caso analogo, nella misura in cui il crollo e il passaggio furono avvenimenti fluidi, che si svolsero tra il 1225 e il 1175 a.C. e in alcuni luoghi fino al 1130 a.C. Tuttavia, la seconda invasione dei Popoli del Mare, che conclusero la loro lotta forsennata contro gli Egizi sotto Ramses III nell’ottavo anno della sua dinastia, è un parametro di riferimento ragionevole e ci permette di dare una data concreta alla fine di un’epoca e a un momento chiave che altrimenti rimarrebbe piuttosto evanescente. Possiamo dire con certezza che le straordinarie civiltà che, nel 1225 a.C., ancora prosperavano nell’Egeo e nel Medio Oriente avevano già cominciato a declinare nel 1177 a.C. e che nel 1130 erano praticamente tutte scomparse. Nella successiva Età del Ferro, i potenti imperi e i solidi regni dell’Età del Bronzo furono gradualmente sostituiti da città-stato di dimensioni inferiori. Di conseguenza, il nostro quadro del mondo del Mediterraneo e del Medio Oriente del 1200 a.C. è piuttosto diverso da quello del 1100 a.C. e totalmente diverso da quello del 1000 a.C. Abbiamo le prove inequivocabili che ci vollero decenni, se non


addirittura secoli in certe regioni, prima che la popolazione potesse ricostruire e restaurare una società e crearsi nuove vite, e dunque risollevarsi dall’oscurità in cui il mondo era precipitato. Jack Davis, dell’Università di Cincinnati, ha sottolineato che «la distruzione del palazzo di Nestore nel 1180 a.C. fu così devastante che né il palazzo né la comunità del luogo riuscirono mai a risollevarsi … La zona del regno di Micene a Pilo rimase incontestabilmente gravemente spopolata per più di un millennio».2 Joseph Maran, dell’Università di Heidelberg, ha osservato che, anche se non sappiamo il livello di contemporaneità delle distruzioni che avvennero in Grecia, è chiaro che, dopo che venne consumata la catastrofe, «sparirono i palazzi, divenne obsoleto l’uso della scrittura, delle strutture amministrative e della ricca gamma di istituzioni politiche dell’antica Grecia; scomparve il concetto di sovrano supremo, il wanax».3 Per quanto riguarda la cultura e la scrittura, lo stesso vale per Ugarit e per le altre comunità che erano fiorite nel Mediterraneo orientale durante la tarda Età del Bronzo, visto che con il loro declino scomparve anche la scrittura cuneiforme nel Levante, sostituita da altri sistemi di scrittura, forse più utili e più convenienti.4 Oltre ai manufatti, è con la scrittura che abbiamo prove tangibili delle interconnessioni e della globalizzazione di queste regioni in quegli anni, in particolare in termini di relazioni tra i singoli individui citati nelle lettere. Sono particolarmente importanti gli archivi delle lettere di Amarna in Egitto, dell’epoca dei faraoni Amenofi III e Akhenaton, della seconda metà del XIV secolo, gli archivi di Ugarit nel nord della Siria nel XIII secolo e all’inizio del XII, e quelli di Hattuša in Anatolia tra il XIV e il XII secolo. Le lettere in questi archivi


documentano il fatto che esistevano simultaneamente diversi tipi di reti nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale durante la tarda Età del Bronzo, tra le quali vi erano reti diplomatiche, commerciali, di trasporto e di comunicazione, necessarie per far funzionare e prosperare l’economia globalizzata dell’epoca. L’interruzione e lo smantellamento parziale di queste fitte reti avrebbe avuto un effetto disastroso, proprio come avverrebbe nel nostro mondo, oggi. Tuttavia, come con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la fine degli imperi dell’Età del Bronzo nel Mediterraneo orientale non fu il risultato di un’unica invasione o di una singola causa, ma si verificò in seguito a numerose invasioni e per una grande quantità di motivi diversi. Molti degli invasori responsabili della distruzione del 1177 a.C. erano stati attivi durante il regno del faraone Merenptah nel 1207 a.C., trent’anni prima. Terremoti, carestie e altri disastri naturali per decenni avevano sconvolto l’Egeo e il Mediterraneo orientale. Ma non si può immaginare un unico episodio che portò al declino dell’Età del Bronzo: la fine avvenne piuttosto come conseguenza di una serie complessa di eventi, che si ripercosse nei diversi regni e negli imperi e alla fine portò al collasso dell’intero sistema, come abbiamo visto. Oltre alla diminuzione della popolazione e al crollo di edifici e palazzi, sembra probabile un crollo, o perlomeno un declino significativo, dei rapporti tra le varie realtà politiche della regione. Anche se non tutte le potenze si affievolirono e crollarono nello stesso momento, verso la metà del XII secolo avevano tutte perduto i loro collegamenti e non vi era più traccia della globalizzazione che era esistita un tempo, soprattutto durante il XIV e il XIII secolo. Come afferma Marc


Van De Mieroop, della Columbia University, le élite persero la loro struttura internazionale e i contatti diplomatici che le avevano sostenute, proprio nel momento in cui venivano a mancare le materie prime e le idee che provenivano dall’estero.5 Bisognava cominciare da capo. Quando il mondo riuscì a riemergere dal collasso dell’Età del Bronzo, ci siamo trovati in un’epoca nuova, con nuove opportunità di crescita, in particolare con la caduta degli Ittiti e il declino degli Egizi che, oltre a governare sulle loro terre, avevano controllato gran parte della Siria e della terra di Canaan per un lungo periodo.6 Anche se in molte regioni ci fu una certa continuità, in particolare nella Mesopotamia dei NeoIttiti, ovunque si assistette a un riassetto e a una riorganizzazione dei poteri e a un nuovo inizio di civiltà: NeoIttiti nell’Anatolia sud-orientale, nel nord della Siria e a Oriente; Fenici, Filistei ed Ebrei in quella che un tempo era stata la terra di Canaan; e i Greci nella Grecia arcaica e poi classica. Dalle ceneri del mondo antico nacquero l’alfabeto e altre invenzioni, per non dire dell’aumento sensazionale dell’uso del ferro, che diede il suo nome alla nuova epoca. È un ciclo a cui il mondo ha assistito più e più volte, e che molti pensano come un processo inesorabile: l’ascesa e la caduta degli imperi, seguita dalla nascita di nuovi imperi, che alla fine crollano anch’essi, in una continua serie di nascita, crescita ed evoluzione, decadenza e distruzione, e quindi di rinnovamento in una forma nuova. Uno dei campi più interessanti e più fertili della nuova ricerca sul mondo antico si basa sulle considerazioni di quanto succede dopo il crollo di una civiltà, «al di là del collasso», ma questo è semmai tema per un nuovo libro.7 Un esempio di questa ricerca


è l’opera di William Dever, professore emerito all’Università dell’Arizona e al dipartimento di Archeologia mediorientale al Lycoming College, il quale ha scritto, parlando del periodo successivo nella regione di Canaan: «Forse la conclusione più importante da trarre sui “secoli bui” ... è che non accadde nulla di tutto ciò. Illuminato progressivamente dalle ricerche e dalle scoperte archeologiche, [questo periodo] emerge piuttosto come il catalizzatore di un’epoca nuova, che si costruì sulle rovine della civiltà cananea e, soprattutto grazie ai Fenici e agli Ebrei, lasciò al mondo occidentale un’eredità culturale di cui beneficiamo ancora oggi».8 Christopher Monroe ha detto che «tutte le civiltà alla fine vivono una trasformazione violenta delle realtà ideologiche e concrete, in un ciclo di distruzione e di ricreazione».9 Assistiamo attraverso i tempi a una continua caduta e ascesa degli imperi, come gli Accadi, gli Assiri, i Babilonesi, gli Ittiti, i Neo-Assiri, i Neo-Babilonesi, i Persiani, i Macedoni, i Romani, i Mongoli, gli Ottomani ecc. Né pensiamo che il nostro mondo sia invulnerabile, perché di fatto siamo più esposti alla distruzione di quanto ci piacerebbe credere. Anche se il crollo di Wall Street del 2008 negli Stati Uniti impallidisce a confronto con il collasso dell’intero mondo mediterraneo della tarda Età del Bronzo, ci sono quanti ci mettono in guardia sul fatto che qualcosa di simile potrebbe succedere, se non viene fatta immediatamente un’opera di salvataggio delle banche. Il «Washington Post» citando Robert B. Zoellick, allora presidente della Banca Mondiale, scrive che «il sistema finanziario globale potrebbe aver raggiunto un punto di non ritorno», che definisce come «il momento in cui la crisi giunge a un punto morto e per i governi diventa particolarmente


difficile contenerla».10 In un mondo complesso come il nostro, potrebbe succedere che il sistema globale venga destabilizzato, provocando un crollo. Cosa succederebbe se…? Il periodo della tarda Età del Bronzo è stato giustamente considerato come una delle età dell’oro della storia del mondo, nella quale fiorì la prima economia globale. Ci potremmo chiedere se la storia del mondo avrebbe preso una piega diversa, o avrebbe seguito un’altra strada se queste civiltà non fossero crollate. Cosa sarebbe successo se non si fossero verificati i terremoti seriali in Grecia e nel Mediterraneo orientale? E se non ci fossero state carestie e povertà, migrazioni e invasioni? La tarda Età del Bronzo sarebbe comunque finita, visto che tutte le civiltà sono destinate a un’ascesa e a un declino? Gli sviluppi che sono seguiti si sarebbero comunque verificati? Il progresso sarebbe continuato? I passi avanti nella tecnologia, nella letteratura e nella politica sarebbero accaduti prima di quanto è avvenuto in realtà? Si tratta naturalmente di domande retoriche, alle quali non si può rispondere, perché le civiltà dell’Età del Bronzo in realtà sono cadute e il mondo è rinato in una forma completamente nuova nelle regioni che vanno dal Levante alla Grecia. Si sono stanziati nuovi popoli e nuove città-stato (Ebrei, Aramei e Fenici nel Mediterraneo orientale, e più tardi Ateniesi e Spartani in Grecia). Da essi sono nate innovazioni e idee rivoluzionarie, come l’alfabeto, la religione monoteistica e alla fine la democrazia. A volte è necessario un incendio


generalizzato affinchÊ l’ecosistema di una foresta secolare si rinnovi e riparta da capo verso una nuova vita.


Lista dei personaggi La cronologia delle date dinastiche egizie segue lo schema più comunemente accettato; si veda ad esempio, Kitchen 1982 e Clayton 1994. La lista che segue non comprende tutti nomi citati nel testo, ma sono presenti quasi tutti i principali sovrani e il loro seguito. Adad-nirari I: re d’Assiria; 1307-1275 a.C. Conquistò il regno dei Mitanni. Ahmose: regina egizia, Diciottesima Dinastia; ca. 1520 a.C. Moglie di Thutmose I e madre di Hatshepsut. Ahmose I: faraone e fondatore della Diciottesima Dinastia; 1570-1546 a.C. Con suo fratello Kamose espulse gli Hyksos dall’Egitto. Akhenaton: faraone eretico, Diciottesima Dinastia; regnò nel 1353-1334 a.C. Proibì tutte le divinità tranne Aton; monoteista ante-litteram. Marito di Nefertiti; padre di Tutankhamon. Amenofi III: faraone, Diciottesima Dinastia; 1391-1353 a.C. Intensa corrispondenza con gli altri reali, trovata nel sito di Amarna; stabilì rotte commerciali fino alla Mesopotamia e all’Egeo. Ammistamru I: re di Ugarit; 1360 a.C. Ebbe una corrispondenza con i faraoni egizi. Ammistamru II: re di Ugarit; 1260-1235 a.C. In carica all’epoca in cui Sinaranu mandò le navi da Ugarit a Creta. Ammurapi: ultimo re di Ugarit. 1215-1190/85 a.C. Ankhesenamon: regina egizia, Diciottesima Dinastia; 1330 a.C. Figlia di Akhenaton e moglie di Tutankhamon. Apofi: re degli Hyksos; governò in Egitto nel 1574 a.C. circa


come parte della Quindicesima Dinastia. Si contese il potere con Seqenenra, il sovrano egizio che governò contemporaneamente nel resto del paese. Assur-uballit I: re d’Assiria; 1363-1328 a.C. Intrattenne una corrispondenza con i faraoni Amarna; uno dei maggiori protagonisti nel mondo della diplomazia. Ay: faraone, Diciottesima Dinastia; 1325-1321 a.C. Soldato, diventò faraone sposando Ankhesenamon dopo la morte di Tutankhamon. Burna-Buriash II: re cassita di Babilonia; 1359-1333 a.C. Intrattenne una corrispondenza con i faraoni Amarna. Hammurabi: re di Babilonia; 1792-1750 a.C. Noto per il suo codice giuridico. Hatshepsut: regina/faraone egizio, Diciottesima Dinastia; 1504-1480 a.C. Salì al trono come reggente del suo figliastro, Thutmose III; fu faraone per circa vent’anni. Hattušili I: re ittita; 1650-1620 a.C. Fu probabilmente il responsabile del trasferimento della capitale ittita a Hattuša. Hattušili III: re ittita; 1267-1237 a.C. Firmò il trattato di pace con il faraone egizio Ramses II. Idadda: re di Qatna; probabilmente sconfitto da Hanutti, comandante in capo dell’esercito ittita sotto Šuppiluliuma I, nel 1340 a.C. circa. Kadashman-Enlil I: re cassita di Babilonia; 1374-1360 a.C. circa. Ebbe una corrispondenza con i faraoni Amarna; la figlia sposò il faraone egizio Amenofi III. Kamose: faraone; ultimo re della Diciassettesima Dinastia; 1573-1570 a.C. Con suo fratello Ahmose espulse gli Hyksos dall’Egitto. Kashtiliashu IV: re cassita di Babilonia; 1232-1225 a.C.


circa. Sconfitto da Tukulti-Ninurta I di Assiria. Khyan: re degli Hyksos, Quindicesima Dinastia; 1600 a.C. circa. Uno dei più noti re Hyksos; oggetti con il suo nome sono stati trovati in Anatolia, Mesopotamia e nella regione dell’Egeo. Kukkuli: re di Assuwa nell’Anatolia nord-occidentale; 1430 a.C. circa. Diede inizio alla rivolta degli Assuwa contro gli Ittiti Kurigalzu I: re cassita di Babilonia; 1400-1375 a.C. circa. Intrattenne una corrispondenza con i faraoni Amarna; la figlia sposò il faraone egizio Amenofi III. Kurigalzu II: re cassita di Babilonia; 1332-1308 a.C. circa. Re fantoccio, insediato sul trono da Assur-uballit I di Assiria. Kushmeshusha: re di Cipro. Governò all’inizio del XII secolo a.C; si trova una sua lettera nella casa di Urtenu a Ugarit. Manetho: sacerdote egizio che visse e scrisse nel periodo ellenistico, nel III secolo a.C. Merenptah: faraone della Diciannovesima Dinastia; 12121202 a.C. circa. Noto per la sua stele che cita Israele e per aver combattuto la prima ondata di Popoli del Mare. Muršili I: re ittita; 1620-1590 a.C. Distrusse Babilonia nel 1595 a.C., causando la fine della dinastia di Hammurabi. Muršili II: re ittita; 1321-1295 a.C. Figlio di Šuppiluliuma I; scrisse le Preghiere della peste e altri documenti importanti dal punto di vista storico. Muwattalli II: re ittita; 1295-1272 a.C. Combatté contro il faraone egizio Ramses II nella battaglia di Qadeš. Nefertiti: regina egizia, Diciottesima Dinastia; 1350 a.C. circa. Sposata ad Akhenaton, il faraone eretico; è possibile che sia stata una donna di potere dietro le quinte. Niqmaddu II: re di Ugarit; 1350-1315 a.C. Ebbe una corrispondenza epistolare con i faraoni egizi durante il periodo


Amarna. Niqmaddu III: penultimo re di Ugarit; 1225-1215 a.C. Niqmepa: re di Ugarit; 1313-1260 a.C. circa. Figlio di Niqmaddu II e padre di Ammistamru II. Ramses II: faraone, Diciannovesima Dinastia; 1279-1212 a.C. Si oppose al re degli Ittiti Muwattalli II nella battaglia di Qadeš e più tardi stipulò un trattato di pace con Hattušili III. Ramses III: faraone, Decima Dinastia; 1184-1153 a.C. Lottò contro la seconda ondata dei Popoli del Mare; assassinato in una congiura ordita dal suo harem. Saushtatar: re dei Mitanni; 1430 a.C. circa. Allargò il regno dei Mitannia annettendo gli Assiri e probabilmente lottò contro gli Ittiti. Seqenenra: faraone, Diciassettesima Dinastia; 1574 a.C. circa. Probabilmente fu ucciso in battaglia; la sua mummia reca almeno una ferita visibile alla testa. Shattiwaza: re dei Mitanni; 1340 a.C. circa. Figlio di Tushratta. Shaushgamuwa: re di Amurru, sulla costa settentrionale della Siria; 1225 a.C. Firmò un trattato con gli Ittiti alla fine del XIII secolo a.C, citando Ahhiyawa. Shutruk-Nahhunte: re elamita nell’Iran sud-occidentale; 1190-1155 a.C. Collegato alla dinastia cassita che governò Babilonia, attaccò la città e destituì il suo sovrano nel 1158 a.C. Shuttarna II: re dei Mitanni; 1380 a.C. Intrattenne una corrispondenza con i faraoni Amarna; la figlia sposò il faraone egizio Amenofi III. Sinaranu: mercante di Ugarit; 1260 a.C. circa. Mandò una o più navi nella Creta minoica, esente da tasse. Šuppiluliuma I: re ittita; 1350-1322 a.C. circa. Re molto


potente; espanse le frontiere del regno ittita per gran parte dell’Anatolia e nel nord della Siria. Intrattenne una corrispondenza con una regina egizia che richiese uno dei suo figli in sposo. Šuppiluliuma II: ultimo re ittita; 1207 a.C. in avanti. Combatté diverse battaglie navali e invase Cipro. Tarkhundaradu: re di Arzawa, nell’Anatolia sud-occidentale; 1360 a.C. circa. Corrispose con i faraoni Amarna; la figlia sposò il faraone egizio Amenofi III. Thutmose I: faraone, Diciottesima Dinastia; 1524-1518 a.C. Padre di Hatshepsut e di Thutmose II. Thutmose II: faraone, Diciottesima Dinastia; 1518-1504 a.C. Fratellastro e marito di Hatshepshut; padre di Thutmose III. Thutmose III: faraone, Diciottesima Dinastia; 1479-1450 a.C. Uno dei più potenti faraoni egizi; combatté la battaglia di Megiddo nel primo anno del suo regno. Tiyi: regina egizia, Diciottesima Dinastia; 1375 a.C. Moglie di Amenofi III; madre di Akhenaton. Tudhaliya I/II: re ittita; 1430 a.C. circa. Sedò la rivolta di Assuwa, dedicando le spade micenee a Hattuša. Tudhaliya IV: re ittita; 1237-1209 a.C. Fece costruire il santuario di Yazlikaya, vicino a Hattuša. Tukulti-Ninurta I: re di Assiria; 1243-1207 a.C. circa. Tushratta: re dei Mitanni; 1360 a.C. Figlio di Shuttarna II; corrispose con i faraoni Amarna; la figlia sposò il faraone egizio Amenofi III. Tutankhamon: faraone, Diciottesima Dinastia; 1336-1327 a.C. Famoso faraone bambino che morì giovane, con una ricchezza favolosa lasciata nella sua tomba. Tausert: regina egizia, ultima sovrana della Diciannovesima


Dinastia; vedova del faraone Seti II; 1187-1185 a.C. Zannanza: principe ittita, figlio di Šuppiluliuma I; 1324 a.C. circa; promesso in sposo a una regina egizia, ma ucciso durante il viaggio verso l’Egitto. Zimri-Lim: re di Mari in quella che è la Siria moderna; 17761758 a.C. Contemporaneo di Hammurabi di Babilonia e autore di alcune delle «Lettere di Mari», che ci informano sulla vita in Mesopotamia durante l’VIII secolo a.C.


Note Prefazione 1. In questo, concordo con Jennings 2011, che recentemente ha scritto sulla globalizzazione e il mondo antico. Vedi anche Sherratt 2003, in un articolo pubblicato una decina d’anni prima che le correlazoni fossero evidenti, e anche la tesi di dottorato scritta da Katie Paul (2011) sotto la mia direzione. 2. Diamond 2005; vedi anche il precedente Tainter 1988 e il volume rivisto da Yoffee e Cowgill 1988; vedi inoltre il dibattito in Killebrew 2005, pp. 33-34; Liverani 2009; Middleton 2010, pp. 18-19, 24, 53; e ora Middleton 2012; Butzer 2012; Butzer e Endfield 2012. Sull’ascesa e la caduta degli imperi, in particolare da un punto di vista sistemico, che ha provocato accese discussioni, vedi Frank 1993; Frank e Gillis 1993; Frank e Thompson 2005. Inoltre, è stata tenuta da poco una conferenza a Gerusalemme (dicembre 2012) intitolata Analyzing Collapse. Destruction, Abandonment and Memory (www.collapse.huji.ac.il/the-schedule), ma gli atti non sono ancora stati pubblicati. 3. Bell 2012, pp. 180. 4. Ibid., pp. 180-81. 5. Sherratt 2003, pp. 53-54. Vedi anche Singer 2012. 6. Braudel 2001, pp. 114. 7. Mallowan 1976; McCall 2001; Trumpler 2001.


Prologo. Il crollo delle civiltà: 1177 a.C. 1. Roberts 2008: il capitolo afferma che Emmanuel de Rouge fu il primo a coniare il termine «peuples de la mer», in una pubblicazione del 1867; vedi anche Dothan e Dothan 1992, pp. 23-24; Roberts 2009; Killebrew e Lehmann 2013, p. 1. 2. Vedi, per esempio, la discussione in Killebrew 2005, YasurLandau 2010a e Singer 2012. 3. Kitchen 1982, pp. 238-39; vedi Monroe 2009, pp. 33-34 e n. 28. Alcuni egittologi situano l’ottavo anno di Ramses III un po’ prima (1186 a.C.) o un po’ dopo (1175 a.C.); le date per i faraoni dell’antico Egitto e i loro anni di regno non sono del tutto certi, ma approssimativi e spesso adattati ai capricci e ai desideri dei singoli egittologi e storici; qui si colloca il regno di Ramses III nel 1184-1153 a.C. 4. Raban e Stieglitz 1991; Cifola 1994; Wachsmann 1998, pp. 163-97; Barako 2001, 2003a, 2003b; Yasur-Landau 2003a, 2010a, pp. 102-21, 171-86, 336-42; Demand 2011, pp. 201-03. 5. Edgerton e Wilson 1936, pl. 46; trad. riv., Wilson 1969, pp. 262-63; vedi anche Dothan 1982, pp. 5-13, con illustrazioni. 6. Vedi la lista di tutte le fonti primarie, egizie e altre, che citano i vari Popoli del Mare, dall’epoca di Amenhotep III nella diciottesima dinastia sino a tutto il periodo di Ramses IX nella ventesima dinastia e oltre, di Adams e Cohen 2013 in Killebrew e Lehmann 2013, pp. 645-64 e tavv. 1-2.


7. Van De Mieroop 2007, pp. 241-43; Sandars 1985, pp. 117-37, 157-77; Vagnetti 2000; Cline e O’Connor 2003; Halpern 20067; Roberts 2008, pp. 1-8; Middleton 2010, p. 83; Killebrew e Lehmann 2013, pp. 8-11; Emanuel 2013, pp. 14-27. Vedi anche altri riferimenti sotto, che riguardano la ceramica e altre tracce di cultura materiale. 8. Vedi la discussione in Cline e O’Connor 2003; anche Sandars 1985, pp. 50, 133; e ora Emanuel 2013, pp. 14-27. Killebrew e Lehmann 2013, pp. 7-8 osservano che Lukka e Danuna sono anche citate nelle prime iscrizioni egizie, dall’epoca di Amenhotep III e Akhenaten; vedi tavole 1-2 e l’appendice di Adams e Cohen 2013, come pure Artzy 2013, pp. 329-32, nel volume rivisto da Killebrew e Lehmann. 9. Vedi Amos 9: 7 e Geremia 47: 4, dove Creta è citata con uno dei suoi nomi antichi, Caphtor. Vedi anche Hitchcock in corso di pubblicazione. 10. Dothan e Dothan 1992, pp. 13-28; Roberts 2008, pp. 1-3. Vedi anche Finkelstein 2000, pp. 159-61 e Finkelstein 2007, pp. 517 per una chiara descrizione di come i primi archeologi biblici come Albright misero in relazione Peleset e i Filistei; Dothan 1982, Killebrew 2005, pp. 206-34, e Yasur-Landau 2010a, pp. 2-3, 216-81 sul materiale di solito identificato come filisteo; e ora la discussione più recente e complessa sui Filistei di Maeir, Hitchcock e Horwitz 2013; Hitchcock e Maeir 2013; vedi anche la discussione correlata di Hitchcock 2011 e Stockhammer 2013. 11. Vedi ad esempio Cifola 1991; Wachsmann 1998; Drews


2000; Yasur-Landau 2010b, 2012b; Bouzek 2011. 12. Breasted 1930, pp. X-XI. Vedi ora la biografia di Breasted di Abt 2011. Come osserva Abt a p. 230, Rockefeller autorizzò segretamente una donazione di altri cinquantamila dollari, di cui aveva bisogno Breasted, ma non lo informò. 13. Vedi, ad esempio, Raban e Stieglitz 1991. 14. Edgerton e Wilson 1936, pl. 46; trad. riv. Wilson 1969, pp. 262-63. 15. Breasted 1906 (rist. 2001), vol. IV, p. 201; Sandars 1985, p. 133. Vedi ora Zwickel 2012. 16. Vedi più recentemente Kahn 2012, con molti riferimenti. 17. Edel 1961; vedi Bakry 1973. 18. Breasted 1906 (2001), vol. III, p. 253. 19. Ibid., pp. 241, 243, 249. 20. Vedi discussioni in Sandars 1985, pp. 105-15; Cline e O’Connor 2003; Halpern 2006-7. 21. www.livescience.com/22267-severed-hands-ancientegypt-palace.html e www.livescience.com/22266-grislyancient-practice-gold-of-valor.html (ultima visita 15 agosto 2012). 22. Edgerton e Wilson 1936, tavv. 37-39. 23. Ben Dor Evian 2011, pp. 11-22.


24. RS 20.238 (Ugaritica 5.24); trad. di Beckman 1996a, p. 27; pubblicazione originaria in Nougayrol et al. 1968, pp. 87-89. Vedi anche Sandars 1985, pp. 142-43;Yon 1992, pp. 116, 119; Lebrun 1995, p. 86; Huehnergard 1999, pp. 376-77; Singer 1999, pp. 720-21; Bryce 2005, p. 333 (con un numero sbagliato di tavolette RS). L’interpretazione precisa di questa lettera è oggetto di discussioni accademiche; non si sa se si tratti di richiesta di assistenza o di altro. 25. Schaeffer 1962, pp. 31-37; anche Nougayrol et al. 1968, pp. 87-89; Sandars 1985, pp. 142-43; Drews 1993, pp. 13-14. 26. Vedi ad esempio la discussione in Sandars 1985; Drews 1993; Cifola 1994; e gli articoli nel volume sulla conferenza di Ward e Joukowsky 1992 e Oren 1997. Ma vedi anche una contestazione in Raban e Stieglitz 1991 e ora negli articoli di Killebrew e Lehmann 2013. 27. Vedi ad esempio Monroe 2009; Yasur-Landau 2010a; e gli articoli della conferenza rivisti da Bachhuber e Roberts 2009, Galil et al. 2012, Killebrew e Lehmann 2013; vedi anche la breve sintesi di Hitchcock e Maeir 2013 e la sinossi di Strobel 2013. 28. Bryce 2012, p. 13. 29. Roberts 2008, pp. 1-19. Vedi anche la discussione in Roberts 2009; Drews 1992, pp. 21-24; Drews 1993, pp. 48-72; Silberman 1998; Killebrew e Lehmann 2013, pp. 1-2.


1. Atto I. Armi e uomini: il XV secolo a.C. 1. Cline 1995b, con riferimenti; piĂš recentemente, Cline, YasurLandau e Goshen 2011, anche con riferimenti. 2. Vedi ad esempio Bietak 1996 e 2005; anche Bietak, Marinatos e Palyvou 2007. 3. Vedi, piĂš di recente, Kamrin 2013. 4. Oren 1997. 5. Wente 2003a, pp. 69-71. 6. Trad. di Pritchard 1969, pp. 554-55; Habachi 1972, pp. 37, 49; Redford 1992, pp. 120; Redford 1997, p. 14. 7. Ad esempio Bietak 1996, p. 80. 8. Heimpel 2003, pp. 3-4. 9. Dalley 1984, pp. 89-93, in part. pp. 91-92. 10. Per simili richieste a Mari e altrove, vedi Zaccagnini 1983, pp. 250-54; Liverani 1990, pp. 227-29; Cline 1995a, p. 150. Per i contatti tra i Minoici e la Mesopotamia, vedi Heltzer 1989 e ora anche Sorensen 2009; anche Cline 1994, pp. 24-30 sul piĂš ampio problema dei contatti tra Egeo e Mesopotamia. 11. Vedi articoli elencati in Cline 1994, pp. 126-28 (D.3-12). 12. Trad. di Durard 1983, pp. 454-55; vedi anche Cline 1994, p. 127 (D.7).


13. Vedi discussioni in Cline 1994, 1995a, 1999a, 2007a e 2010, con altri riferimenti. 14. Vedi Cline 1994, p. 126 (D.2), con altri riferimenti; anche Heltzer 1989. 15. Evans 1921-35. 16. Momigliano 2009. 17. Sono stati pubblicati numerosi libri sui Minoici e sui diversi aspetti della loro società; vedi per esempio Castleden 1993 e Fitton 2002; più di recente gli articoli specialistici che si trovano in Cline 2010. 18. Sul coperchio di Khyan, vedi Cline 1994, p. 210 (n. 680) con altri riferimenti. 19. Sul vaso di Thutmose III, vedi Cline 1994, p. 217 (n. 742) con altri riferimenti. 20. Cline 1999a, pp. 129-30, con altri riferimenti. 21. Pendlebury 1930. Su Pendlebury, vedi Grundon 2007. Il libro originale di Pendlebury è ora stato superato da uno studio recente in due volumi; vedi Phillips 2008. 22. Come è stato già detto in Cline e Cline 1991. 23. Panagiotopoulos 2006, pp. 379, 392-93. 24. Trad. di Strange 1980, pp. 45-46. Vedi anche Wachsmann 1987, pp. 35-37, 94; Cline 1994, pp. 109-10 (A.12) con altre


informazioni e riferimenti; Rehak 1998; Panagiotopoulos 2006, pp. 382-83. 25. Troy 2006, pp. 146-50. 26. Panagiotopoulos 2006, pp. 379-80. 27. Ibid., pp. 380-87. 28. Trad. di Strange 1980, pp. 97-98. Vedi anche Wachsmann 1987, pp. 120-21; Cline 1994, pp. 110 (A.13). 29. Strange 1980, pp. 74; Wachsmann 1987 pp. 119-21; Cline 1994, p. 110 (A.14). 30. Panagiotopoulos 2006, pp. 380-83. 31. L’ho detto per la prima volta in un articolo per una conferenza presentato all’incontro annuale dell’Archaeological Institute of America; vedi Cline 1995a, p. 146. Vedi anche Cline 1994, pp. 110-11 (A.16); Panagiotopoulos 2006, pp. 381-82. 32. Panagiotopoulos 2006, pp. 372-73, 394; vedi anche le proteste di Liverani 2001, pp. 176-82. Vedi Cline 1995a, pp. 146-47; Cline 1994, pp. 110 (A.15). 33. Clayton 1994, pp. 101-2; Allen 2005, p. 261; Dorman 2005a, pp. 87-88; Keller 2005, pp. 96-98. 34. Tyldesley 1998, p. 1; Dorman 2005a, p. 88. Vedi anche www.drhawass.com/blog/press-release-identifyinghatshepsuts-mummy (ultima visita 29 dicembre 2010).


35. Clayton 1994, p. 105; Dorman 2005b, pp. 107-09. 36. Tyldesley 1998, p. 144. 37. Clayton 1994, pp. 106-7; Tyldesley 1998, pp. 145-53; Liverani 2001, pp. 166-69; Keller 2005, pp. 96-98; Roth 2005, p. 149; Panagiotopoulos 2006, pp. 379-80. 38. Panagiotopoulos 2006, p. 373. 39. Trad. di Strange 1980, pp. 16-20, n. 1; vedi Cline 1997a, p. 193. 40. Cline 1997a, pp. 194-96, con riferimenti. 41. Ryan 2010, p. 277; vedi anche pp. 5-28, 260-81 per una discussione generale sugli scavi di Ryan della tomba KV60. Vedi anche altri articoli come www.guardians.net/hawass/hatshepsut/search_for_hatshepsut.htm e www.drhawass.com/blog/press-release-identifyinghatshepsuts-mummy (ultima visita 29 dicembre 2010). 42. Sulla campagna di Thutmose III e la conquista di Megiddo, vedi Cline 2000, cap. 1, con altri riferimenti e una breve nota di Allen 2005, pp. 261-62. 43. Cline 2000, p. 28. 44. Darnell e Manassa 2007, pp. 139-42; Podany 2010, pp. 13134. 45. Podany 2010, p. 134.


46. La traduzione autorizzata fu pubblicata in tedesco da Kammenhuber nel 1961. Per un esempio moderno di addestramento dei cavalli secondo i metodi Kikkuli, vedi anche Nyland 2009. 47. Redford 2006, pp. 333-34; Darnell e Manassa 2007, pp. 141; Amanda Podany, com. pers. 23 maggio 2013. 48. Bryce 2005, p. 140. 49. L’ho suggerito prima in Cline 1997a, p. 196. Inoltre, per le mie precedenti discussioni sul materiale che riguarda la rivolta di Assuwa e Ahhiyawa, compresi dettagli e formulazioni analoghi nei paragrafi seguenti e oltre, vedi Cline 2013, pp. 5468; anche Cline 1996, con riferimenti precedenti e Cline 1997a. Vedi anche Bryce 2005, pp. 124-27, con riferimenti precedenti, e i capitoli importanti in Beckman, Bryce e Cline 2011. 50. Trad. e trascr. in base a Unal, Ertekin e Ediz 1991, p. 51; Ertekin e Ediz 1993, p. 721; Cline 1996, pp. 137-38; Cline 1997a, pp. 189-90. 51. Sugli Ittiti e il materiale presentato nei paragrafi seguenti, vedi soprattutto l’analisi di Bryce 2002, 2005, 2012; e Collins 2007. 52. Vedi la discussione sugli Ittiti e la Bibbia in Bryce 2012, pp. 64-75. 53. Ibid., pp. 47-49 sui Neo-Ittiti e il loro mondo. 54. Ibid., pp. 13-14; in precedenza Bryce 2005.


55. Legge ittita n. 13; trad. di Hoffner 2007, p. 219. 56. Come citato sopra, per le discussioni precedenti su questo materiale, compresi i dettagli nei paragrafi precedenti, vedi Cline 2013, pp. 54-68; di nuovo Cline 1996, con riferimenti precedenti, Cline 1997a, e i paragrafi relativi in Beckman, Bryce e Cline 2011. 57. Trad. e trascr. complete in Carruba 1977, pp. 158-61; vedi anche Cline 1996, p. 141 per altre discussioni e riferimenti importanti. 58. Trad. di Houwink ten Cate 1970, p. 62 (vedi anche p. 72, n. 99 e p. 81); vedi anche Cline 1996, p. 143, per altri riferimenti. 59. Vedi Cline 1996, pp. 145-46; Cline 1997a, p. 192. 60. Vedi referimenti in Cline 2010, pp. 177-79. 61. Vedi riferimenti in Cline 1994, 1996 e 1997a per le argomentazioni che riguardano la localizzazione corretta di Ahhiyawa; vedi anche Beckman, Bryce e Cline 2011, come pure le prospettive alternative di Kelder 2010 e Kelder 2012. 62. Per una breve introduzione a Schliemann, con bibliografia, vedi Rubalcaba e Cline 2011. 63. Vedi Schliemann 1878; Tsountas e Manatt 1897. 64. Blegen e Rawson 1966, pp. 5-6; prima, Blegen e Kourouniotis 1939, pp. 563-64. 65. Sulle teorie recenti sui Micenei vedi gli articoli in Cline


2010. 66. Sugli articoli micenei trovati in Egitto e altrove nel Medio Oriente, vedi Cline 1994 (n. ed. 2009), con altri riferimenti bibliografici. 67. Cline 1996, p. 149; vedi anche Cline 2013, pp. 54-68. 68. Vedi Cline 1997a, pp. 197-98 e Cline 2013, pp. 43-49, con altri riferimenti. 69. Trad. di Fagles 1990, p. 185. 70. Come già detto in Cline 1997a, pp. 202-03. 71. Kantor 1947, p. 73. 72. Panagiotopoulos 2006, p. 406, n. 1 dice: «Non c’è motivo di credere che Hatshepsut fosse una pacifista, poiché ci sono prove affidabili di almeno quattro, e forse sei, campagne militari durante il suo regno, di cui almeno una sotto la sua guida»; Redford 1967, pp. 57-62.


2. Atto II. Una questione (egea) da ricordare: gli avvenimenti del XIV secolo 1. Cline 1998, pp. 236-37; Sourouzian 2004. Vedi le riflessioni della classicista di Cambridge Mary Beard su queste statue, consultabile online: http://timesonline.typepad.com/dons_life/2011/01... (ultima visita 16 gennaio 2011). 2. Il lavoro compiuto sulla Lista egea è iniziato nel 2000; la base fu infine ricostituita nella primavera del 2005, ricostruita a partire da ottocento frammenti separati. Vedi discussione in Sourouzian et al. 2006, pp. 405-06, 433-35, tavv. XXII a, c. 3. Kitchen 1965, pp. 5-6; vedi anche Kitchen 1966. 4. Per la pubblicazione originaria di questi elenchi, vedi Edel 1966; Edel e Gorg 2005. Per teorie, commenti e ipotesi di altri studiosi, vedi Hankey 1981; Cline 1987 e 1998 con citazioni di pubblicazioni precedenti. 5. Cline e Stannish 2011. 6. Cline 1987, 1990, 1994 e 1998; Phillips e Cline 2005. 7. Cline 1987, p. 10; vedi anche Cline 1990. 8. Cline 1994, pp. XVII-XVIII, 9-11, 35, 106; Cline 1999a. 9. Cline 1998, p. 248; vedi anche Cline 1987 e di nuovo Cline e Stannish 2011, p. 11.


10. Mynařova 2007, pp. 11-39. 11. Vedi Amarna Letters EA 41-44; Moran 1992, pp. 114-17. 12. Vedi Cohen e Westbrook 2000. 13. Vedi Moran 1992 per la trad. ing. delle lettere. 14. Amarna Letters EA 17 [trad. ing. Moran 1992, pp. 41-42]. 15. Amarna Letters EA 14 [trad. ing. Moran 1992, pp. 27-37]. 16. Ad esempio, Amarna Letters EA 22, 24 e 25; Moran 1992, pp. 51-61, 63-84. 17. Liverani 1990; Liverani 2001, pp. 135-37. Vedi anche Mynařova 2007, pp. 125-31, soprattutto sulle Lettere Amarna. 18. Su questi studi antropologici, vedi la discussione in Cline 1995a, p. 143, con altri riferimenti e bibliografia. 19. Lettera di Ugarit RS 17.166, citata in Cline 1995a, p. 144, traduzione Liverani 1990, p. 200. 20. Lettera ittita KUB XXIII 102, I, 10-19, cit. in Cline 1995a, p. 144, trad. di Liverani 1990, p. 200. 21. Vedi di nuovo Cline 1995a, per altre discussioni sull’argomento. 22. Amarna Letters EA 24 [trad. ing. Moran 1992, p. 63]. Vedi ora discussione sui rapporti tra Tushratta e Amenhotep III in Kahn 2011.


23. Vedi Amarna Letters EA 20, mandata ad Amenofi III, Moran 1992, pp. 47-50, Amarna Letters EA 27-29, mandate poi ad Akhenaten, Moran 1992, pp. 86-99. 24. Amarna Letters EA 22, linee 43-49; [trad. ing. Moran 1992, pp. 51-61, soprattutto 57]. Questi matrimoni regali non erano inusuali nel Medio Oriente antico; vedi Liverani 1990. 25. Cline 1998, p. 248. 26. Amarna Letters EA 4 [trad. ing. Moran 1992, pp. 8-10]. 27. Amarna Letters EA 1 [trad. ing. Moran 1992, pp. 1-5]. 28. Amarna Letters EA 2-3, 5 [trad. ing. Moran 1992, pp. 6-8, 10-11]. 29. Per esempio, Amarna Letters EA 19 [trad. ing. Moran 1992, p. 4]. 30. Amarna Letters EA 3 [trad. ing. Moran 1992, p. 7]. 31. Amarna Letters EA 7 e 10 [trad. ing. Moran 1992, pp. 1216, 19-20]. Vedi anche Podany 2010, pp. 249-52. 32. Amarna Letters EA 7 [trad. ing. Moran 1992, p. 14]. 33. Ibid. Vedi anche Amarna Letters 8, in cui Burna-Buriash si lamenta presso Akhenaten per un altro attacco ai suoi mercanti, poi uccisi; Moran 1992, pp. 16-17. 34. Malinowski 1922; vedi anche Uberoi 1962; Leach e Leach 1983; Mauss 1990, pp. 27-29; e precedenti discussioni in Cline


1995a. 35. Questo è stato detto prima altrove, in Cline 1995a, pp. 14950, con altri riferimenti bibliografici. 36. È stato detto prima, in Cline 1995a, p. 150. Gli ulteriori riferimenti e la bibliografia citata comprendono Zaccagnini 1983, pp. 250-54; Liverani 1990, pp. 227-29; Niemeier 1991; Bietak 1992, pp. 26-28. Vedi anche Niemeier e Niemeier 1998; Pfalzner 2008a e 2008b; Hitchcock 2005 e 2008; Cline e YasurLandau 2013. 37. Amarna Letters EA 33-40. Il fatto di identificare Cipro con Alashiya è una storia accademica lunga e complicata. Per una polemica un po’ irriverente vedi Cline 2005. 38. Amarna Letters EA 35 [trad. ing. Moran 1992, pp. 107-09]. La parola «talenti» è stata ricostruita ma qui sembra la scelta più logica. 39. Vedi nota di Moran 1992, p. 39. 40. Amarna Letters EA 15 [trad. ing. Moran 1992, pp. 37-38]. 41. Amarna Letters EA 16 [trad. ing. Moran 1992, pp. 38-41]. 42. Van De Mieroop 2007, pp. 131, 138, 175; Bryce 2012, pp. 182-83. 43. Il busto è citato tra i dieci manufatti più importanti dal «Time Magazine»: vedi www.time.com/time/specials/packages/article... (ultima visita 18 gennaio 2011). Vedi anche l’articolo del «New York


TimesÂť:

www.nytimes.com/

2009/

10/19

worldeurope/19iht-germany.html?_r=2 (ultima visita 18 gennaio 2011). 44. Vedi il testo della canzone cantata dall’attore Steve Martin al Saturday Night Live duranti i giorni della Tut-mania negli Stati Uniti alla fine degli anni settanta. Si trovano copie di questo clip su Internet, tra cui www.hulu.com/watch/55342. 45. Hawass 2005, pp. 263-72. 46. Hawass 2010; Hawass et al. 2010. 47. Reeves 1990, p. 44. 48. Ibid., pp. 40-46. 49. Ibid., pp. 48-51. 50. Ibid., p. 10. 51. Vedi fotografie in Ibid., pp. 52-53. 52. Bryce 2005, pp. 148-59; Podany 2010, pp. 267-71. 53. Cline 1998, pp. 248-49. Sui matrimoni dinastici di Amenhotep III, vedi anche Schulman 1979, pp. 183-85, 189-90; Schulman 1988, pp. 59-60; Moran 1992, pp. 101-03. 54. Trad. di Singer 2002, p. 62; citata e discussa da Bryce 2005, pp. 154-55 (vedi anche p. 188). 55. Vedi Yener 2013a, con i precedenti riferimenti.


56. Vedi Bryce 2005, pp. 155-59, 161-63, 175-80; Bryce 2012, p. 14. 57. Richter 2005; Merola 2007; Pfalzner 2008a e 2008b. Vedi Richter e Lange 2012 per la pubblicazione completa dell’archivio e Ahrens, Dohmann-Pfalzner e Pfalzner 2012 per il sigillo di argilla di Akhenaten; e Morandi Bonacossi 2013 sulla crisi finale del 1340 a.C. circa. 58. Vedi discussioni in Beckman, Bryce e Cline 2011, pp. 15861. 59. Trad. di Bryce 2005, p. 178. Un tributo deve essere dato alla relazione trovata in Bryce 2005, pp. 178-83. Vedi anche Cline 2006, in una storia scritta per i bambini. 60. Trad. di Bryce 2005, pp. 180-81; la lettera è KBo XXVIII 51. 61. Ibid., pp. 181. 62. Ibid., pp. 182. 63. Per esempi di opinioni accademiche divergenti Bryce 2005, p. 179 dice che la regina vedova era Ankhesenamon, ma Reeves 1990, p. 23 sostiene che la regina era Nefertiti. Vedi anche Podany 2010, pp. 285-89, che crede che si tratti di Ankhesenamon. 64. Vedi Bryce 2005, p. 183 e n. 130, con riferimenti. 65. Vedi discussioni in Cline 1991a, pp. 133-43; Cline 1991b, pp. 1-9; Cline 1994, pp. 68-74.


66. Cline 1998, p. 249. 67. Vedi Bryce 1989a, pp. 1-21; Bryce 1989b, pp. 297-310.


3. Atto III. Lottare per gli dèi e per la patria: il XIII secolo a.C. 1. Le fonti e i dettagli di queste discussioni sono molteplici, ma vedi soprattutto Bass 1986, 1987, 1997 e 1998; Pulak 1988, 1998, 1999 e 2005; Bachhuber 2006; Cline e Yasur-Landau 2007. Vedi anche Podany 2010, pp. 256-58. 2. Bass 1967; Bass 1973. 3. Pulak 1998, p. 188. 4. Ibid., p. 213. 5. Oltre agli articoli di Pulak, Bass, Bachhuber, vedi la lista in Monroe 2009, pp. 11-12, con ulteriore discussione alle pp. 1315 e 234-38; anche Monroe 2010. Le informazioni aggiornate derivano dalla conferenza di Cemal Pulak, durante una lettura pubblica a Friburgo, Germania, nel maggio 2012. 6. Weinstein 1989. 7. Vedi Manning et al. 2009. 8. Payton 1991. 9. RS 16.238-254 [trad. ing. di Heltzer 1988, p. 12]. Vedi anche, tra le molte discussioni, Caubet e Matoian 1995, p. 100; Monroe 2009, pp. 165-66. 10. RS 16.386 [trad. ing. di Monroe 2009, pp. 164-65]. 11. Singer 1999, pp. 634-35. Per la corrispondenza tra i re in


questo periodo, vedi Nougayrol 1956. 12. Bryce 2005, p. 234. 13. Ibid., p. 277. 14. Ibid., p. 236, con riferimenti. 15. Ibid., pp. 236-37. 16. Ibid., pp. 237-38, seguendo Gardiner. 17. Ibid., p. 235. 18. Ibid., p. 238-39. 19. Ibid., p. 277-78. 20. Ibid., p. 277, seguendo Kitchen. 21. Ibid., pp. 277, 282, 284-85. 22. Ibid., pp. 283, seguendo Kitchen. 23. Una versione più ampia della discussione su Troia e la guerra di Troia si trova in Cline 2013, che è stato scritto nello stesso periodo di questo libro e che usa lo stesso materiale e lo stesso linguaggio, anche se in un ordine differente e con una discussione più dettagliata in alcuni punti. In due casi, la discussione è una revisione del materiale già pubblicato, con riferimenti aggiuntivi dell’autore nella Course Guide con una serie CD di quattordici conferenze, con il titolo Archaeology and the Iliad. The Trojan War in Homer and History (Recorded Books/The Modern Scholar, 2006) e qui riprodotta con il


consenso dell’editore. 24. Vedi discussione in Beckman, Bryce e Cline 2011, pp. 14044. 25. Ibid., pp. 101-22. 26. Ibid. 27. Ibid. 28. Ibid. 29. Vedi discussione, con altri riferimenti, in Cline 2013. Vedi anche, in generale, Strauss 2006. 30. Vedi ad esempio, Wood 1996; Allen 1999; ora Cline 2013. 31. Mountjoy 1999a, pp. 254-56, 258; vedi anche Mountjoy 1999b, pp. 298-99; Mountjoy 2006, pp. 244-45; Cline 2013, p. 90. 32. Vedi discussione in Cline 2013, p. 87-90. 33. Vedi per esempio Loader 1998; anche Shelmerdine 1998b, p. 87; Deger-Jalkotzy 2008, p. 388; Maran 2009, pp. 248-50; Kostoula e Maran 2012, p. 217, che cita Maran 2004. 34. Hirschfeld 1990, 1992, 1996, 1999 e 2010; Cline 1994, pp. 54, 61; Cline 1999b; Cline 2007a, p. 195; Maran 2004; Maran 2009, pp. 246-47. 35. Cline 1994, pp. 50, 128-30. Vedi anche citazioni in Monroe 2009, pp. 196-97, 226-27.


36. Cline 1994, pp. 60, 130 (Cat. nos. E13-14); Palaima 1991, pp. 280-81, 291-95; Shelmerdine 1998b. 37. Cline 1994, pp. 60, 130; vedi anche Palaima 1991, pp. 28081, 291-95; Knapp 1991. Vedi Yasur-Landau 2010a, p. 40, tav. 2.1, che fa un elenco in un’unica tabella di questi e altri nomi, ripresi sulla mappa nella fig. 2.3. 38. Cline 1994, pp. 50, 68-69, 128-31 (Cat. nos. E3, E7, E1518); vedi Latacz 2004, pp. 280-81, che cita Niemeier 1999, p. 154 per altri esempi di citazioni delle tavolette di Pilo di donne di Lemno e Chios, come forse di Troia e della Troade. 39. Cline 1994, pp. 50, 129 (Cat. nos. E8-11); in precedenza Astour 1964, p. 194; Astour 1967, pp. 336-44; vedi anche Bell 2009, p. 32. 40. Cline 1994, pp. 35, 128 (Cat. nos. E1-2); Shelmerdine 1998a. 41. Zivie 1987. 42. La discussione dell’Esodo è una versione rivista del materiale pubblicato per la prima volta, con altri riferimenti, dall’autore in Cline 2007b e qui riprodotte con il permesso dell’editore. 43. Diodoro Siculo 1.47; trad. di Oldfather 1961. 44. Vedi discussione in Cline 2007b, pp. 61-92, con altri riferimenti; vedi anche Miller e Hayes 2006, pp. 39-41; Bryce 2012, pp. 187-88.


45. Trad. di Pritchard 1969, p. 378. 46. Vedi discussione in Cline 2007b, pp. 83-85, con altri riferimenti; Hoffmeier 2005 e Ben-Tor e Rubiato 1999. 47. Vedi discussione in Cline 2007b, pp. 85-87, con altri riferimenti. 48. Si trovano questi elementi su Internet; vedi, ad esempio, www.discoverynews.us/DISCOVERY%20MUSEUM... (ultima visita 27 maggio 2013). 49. Sulla data dell’eruzione, che gli studiosi hanno dibattuto negli ultimi decenni, vedi Manning 1999, 2010, con altri riferimenti. 50. Cline 2007b, 2009a e 2009b, con altri riferimenti e bibliografia. 51. Zuckerman 2007a, p. 17, con citazioni di Garstang, Yadin e Ben-Tor. Vedi anche Ben-Tor 2013. 52. Zuckerman 2007a, p. 24. 53. Ben-Tor e Zuckerman 2008, pp. 3-4, 6. 54. Ben-Tor 1998, 2006 e 2013; Ben-Tor e Rubiato 1999; Zuckerman 2006, 2007a, 2007b, 2009 e 2010; Ben-Tor e Zuckerman 2008; vedi Ashkenazi 2012; Zeiger 2012; Marom e Zuckerman 2012. 55. Vedi discussioni, con altri riferimenti, in Cline 2007b, pp.


86-92; Cline 2009a, pp. 76-78; vedi anche Cline 2009b. 56. Bryce 2009, pp. 85. 57. Kuhrt 1995, pp. 353-54; Bryce 2012, pp. 182-83. 58. Bryce 2005, p. 314. 59. Porada 1992, pp. 182-83; Kuhrt 1995, pp. 355-58; Singer 1999, pp. 688-90; Potts 1999, p. 231; Bryce 2005, pp. 314-19; Bryce 2009, p. 86; Bryce 2012, pp. 182-85. Singer situa l’inizio del regno di Tukulti-Ninurta nel 1233 a.C. e non nel 1244 a.C. 60. Sulla battaglia contro gli Ittiti a Nihriya, nel nord della Mesopotamia, vedi Bryce 2012, pp. 54, 183-84, tra gli altri. Sui possibili doni mandati a Tebe in Beozia, vedi Porada 1981, discusso in Cline 1994, pp. 25-26. 61. Trad. di Beckman, Bryce e Cline 2011, p. 61; prec. Bryce 2005, pp. 315-19. 62. Ibid. 63. Ne ho parlato in altre pubbicazioni; vedi Cline 2007a, p. 197, con altri riferimenti. 64. Trad. di Beckman, Bryce e Cline 2011, p. 61; prec. Bryce 2005, pp. 309-10. 65. Vedi discussione in ibid., pp. 101-22; prec. Bryce 2005, pp. 306-08. 66. Bryce 2005, pp. 321-22; Demand 2011, p. 195. Vedi


Kaniewski et al. 2013 su una possibile siccitĂ a Cipro, di cui si parla piĂš avanti. 67. Trad. di Bryce 2005, p. 321, da Guterbock, e discussione alle pp. 321-22 e 333; vedi anche trad. simili in Beckman 1996b, p. 32 e la discussione di Hoffner 1992, pp. 48-49. 68. Trad. di Beckman 1996b, p. 33; vedi anche Bryce 2005, p. 332; Singer 2000, p. 27; Singer 1999, pp. 719, 721-22; Hoffner 1992, pp. 48-49; Sandars 1985, pp. 141-42. 69. Bryce 2005, pp. 323, 327-33; Singer 2000, p. 25-27; Hoffner 1992, pp. 48-49. 70. Singer 2000, p. 27. 71. Phelps, Lolos e Vichos 1999; Lolos 2003. 72. Bass 1967 e 1973. 73. Bass 1988 e 2013. 74. Cline 1994, pp. 100-01.


4. Atto IV. La fine di un’epoca: il XII secolo a.C. 1. Yon 2006, p. 7. La letteratura accademica su questi siti è immensa, ma Yon 2006 è sintetico e accessibile, come prima Curtis 1999. Sulla storia politica ed economica di Ugarit, vedi anche un’ottima sintesi in Singer 1999. Vedi anche Podany 2010, pp. 273-75. 2. Caubet 2000; Yon 2003 e 2006, pp. 7-8. 3. Vedi Yon 2006, pp. 142-43, per un’illustrazione di queste anfore cananee in situ, con discussioni e riferimenti. 4. Dietrich e Loretz 1999; Yon 2006, pp. 7-8, 44, con riferimenti. 5. Lackenbacher 1995a, p. 72; Singer 1999, pp. 623-27, 641-42, 680-81, 701-04; Yon 2006, pp. 7-8, 19, 24. Le Amarna Letters mandate dai re di Ugarit sono EA 45 e 49, e altre possono includere EA 46-48; vedi Moran 1992. 6. Van Soldt 1991; Lackenbacher 1995a, pp. 69-70; Millard 1995, p. 121; Huehnergard 1999, p. 375; Singer 1999, p. 704. Vedi Singer 2006, specialmente pp. 256-58; Bell 2006, p. 17; McGeough 2007, pp. 325-32. 7. Singer 1999, pp. 657-60, 668-73; Pitard 1999, pp. 48-51; Bell 2006, p. 2, 17; McGeough 2007; Bell 2012, p. 180. 8. Yon 2006, pp. 20-21, con oggetti illustrati e discussi alle pp. 129-72, 168-69, per la spada; Singer 1999, pp. 625, 676;


McGeough 2007, pp. 297-305. 9. Documentato sulla tavoletta RS 17.382 e RS 17.380; vedi Singer 1999, p. 635; McGeough 2007, p. 325. 10. Lackenbacher 1995a; Bordreuil e Malbran-Labat 1995; Malbran-Labat 1995. La discussione precedente sulla fine di Ugarit include Astour 1965 e Sandars 1985. 11. Yon 2006, pp. 51, 54; McGeough 2007, pp. 183-84, 254-55, 333-35; Bell 2012, pp. 182-83. Sulla civiltĂ ciprioto-minoica vedi Hirschfeld 2010, con altri riferimenti. 12. Van Soldt 1999, pp. 33-34; Bell 2006, p. 65; Yon 2006, pp. 73-77, con altri riferimenti; McGeough 2007, pp. 247-49; Bell 2012, p. 182. 13. Testo ugaritico RS 20.168; vedi Singer 1999, pp. 719-20; pubblicazione originaria in Nougayrol et al. 1968, pp. 80-83. 14. Malbran-Labat 1995; Bordreuil e Malbran-Labat 1995; Singer 1999, p. 605; van Soldt 1999, pp. 35-36; Yon 2006, pp. 22, 87-88; Bell 2006, p. 67; McGeough 2007, pp. 257-59; Bell 2012, pp. 183-84. Vedi Bordreuil, Pardee e Hawley 2012. 15. RS 34.165. Lackenbacher in Bordreuil 1991, pp. 90-100; Hoffner 1992, p. 48; Singer 1999, pp. 689-90. 16. Singer 1999, pp. 658-59; vedi Cohen e Singer 2006; McGeough 2007, pp. 184, 335. 17. Singer 1999, pp. 719-20, che sintetizza gli altri rapporti; Bordreuil e Malbran-Labat 1995, p. 445.


18. Lackenbacher e Malbran-Labat 2005, pp. 237-38 e nn. 69, 76; Singer 2006, pp. 256-58; Cline e Yasur-Landau 2007, p. 130; Bryce 2010; Bell 2012, p. 184. La lettera del re ittita (forse Suppiluliuma II) è RS 94.2530; quella dell’ufficiale maggiore ittita è RS 94.2523. 19. RS 88.2158. Lackenbacher 1995b, pp. 77-83; Lackenbacher in Yon e Arnaud, 2001, pp. 239-47; vedi discussione in Singer 1999, pp. 708-12; Singer 2000, p. 22. 20. RS 34.153; Bordreuil 1991, pp. 75-76; trad. di Monroe 2009, pp. 188-89. 21. RS 17.450A; vedi discussione in Monroe 2009, pp. 180, 188-89. 22. Malbran-Labat 1995, p. 107. 23. Millard 1995, p. 121. 24. Singer 1999, pp. 729-30 e n. 427; Caubet 1992, p. 123; Yon 2006, p. 22; Kaniewski et al. 2011, pp. 4-5. 25. Yon 1992, pp. 111, 117, 120; Singer 1999, p. 730; Bell 2006, pp. 12, 101-02. 26. Testo ugarita RS 86.2230. Vedi Yon 1992, p. 119; Hoffner 1992, p. 49; Drews 1993, p. 13; Singer 1999, pp. 713-15; Arnaud in Yon e Arnaud 2001, pp. 278-79 Yasur-Landau 2003d, p. 236; Bell 2006, p. 12; Yon 2006, p. 127; Yasur-Landau 2010a, p. 187; Kaniewski et al. 2010, p. 212; Kaniewski et al. 2011, p. 5.


27. KTU 1.78 (RS 12.061); vedi ora Kaniewski et al. 2010, p. 212 e Kaniewski et al. 2011, p. 5, che cita Dietrich Lorentz 2002. Contro Demand 2011, p. 199, che cita una precedente pubblicazione di Lipinski, è difficile che la distruzione sia avvenuta addirittura nel 1160 a.C. 28. Vedi per esempio Sandars 1985. 29. Vedi Millard 1995, p. 119 e Singer 1999, p. 705 con altri riferimenti; anche van Soldt 1999, p. 32; Yon 2006, p. 44; Van De Mieroop 2007, p. 245; McGeough 2007, p. 236-37; McGeough 2011, p. 225. 30. Yon 1992, p. 117; Caubet 1992, p. 129; McClellan 1992, p. 165-67; Drews 1993, pp. 15, 17; Singer 2000, p. 25. 31. Courbin 1990, citato in Caubet 1992, p. 127; vedi anche Lagarce e Lagarce 1978. 32. Bounni, Lagarce e Saliby 1976; Bounni, Lagarce e Saliby 1978, citato da Caubet 1992, p. 124; vedi anche Drews 1993, p. 14; Singer 2000, p. 24; Yasur-Landau 2010a, pp. 165-66; Killebrew e Lehmann 2013, p. 12. 33. Kaniewski et al. 2011, p. 1 e vedi fig. 2. Per precedenti discussioni delle scoperte fatte in questo sito, vedi Maqdissi et al. 2008; Bretschneider e Van Lerberghe 2008 e 2011; Vansteenhuyse 2010; Bretschneider, Van Vyve e Jans 2011. 34. Kaniewski et al. 2011, pp. 1-2. 35. Ibid., p. 1.


36. Vedi Badre 2003 e la discussione seguente; Badre et al. 2005; Badre 2006 e 2011; Jung 2009 e 2010, pp. 177-78. 37. Jung 2012, pp. 115-16. 38. Drews 1993, p. 7, nn. 11, 15-16; vedi Franken 1961; Dothan 1983, pp. 101, 104; Dever 1992, p. 104. Vedi Gilmour e Kitchen 2012. 39. Vedi sintesi e discussione in Dever 1992, pp. 101-02. 40. Loud 1948, p. 29 e figg. 70-71; vedi Kempinski 1989, p. 10, 76-77, 160; Finkelstein 1996, pp. 171-72; Nur e Ron 1997, pp. 537-39; Nur e Cline 2000, p. 59. 41. Ussishkin 1995; com. pers. maggio 2013. 42. Loud 1939, tav. 62, n. 377; Weinstein 1992, pp. 144-45; Ussishkin 1995, p. 214; Finkelstein 1996, p. 171. 43. Vedi Feldman 2002, 2006 e 2009; Steel 2013, pp. 162-69. Prec., Loud 1939; Kantor 1947. 44. Weinstein 1992, pp. 144-45; Ussishkin 1995, p. 214; Finkelstein 1996, p. 171; vedi Yasur-Landau 2003d, pp. 237-38; Zwickel 2012, pp. 599-600. 45. Informazioni da Israel Finkelstein, Eran Arie e Michael Toffolo; sono loro debitore per avermi permesso di citare i loro studi in corso, ancora inediti. 46. Ussishkin 1995, p. 215.


47. Ussishkin 2004b, tavv. 2.1 e 3.3. 48. Ibid., pp. 60-69. 49. Ibid., pp. 60-62. 50. Ibid., pp. 62, 65-68. 51. Ibid., p. 71; Barkay e Ussishkin 2004, p. 357. 52. Zuckerman 2007a, p. 10, Barkay e Ussishkin 2004, pp. 353, 358-61 e Smith 2004, pp. 2504-07. 53. Barkay e Ussishkin 2004, p. 361; Zuckerman 2007a, p. 10. 54. Ussishkin 2004b, p. 70; Ussishkin 1987. 55. Ussishkin 2004b, pp. 69-70, con altri riferimenti. 56. Ussishkin 1987; Ussishkin 2004b, p. 64 e tavv. a col. a p. 136; vedi anche Weinstein 1992, pp. 143-44; Giveon, Sweeney e Lalkin 2004, pp. 1626-28; Ussishkin 2004d, con tavv. Vedi Zwickel 2012, pp. 597-98. 57. Ussishkin 1987. 58. Carmi e Ussishkin 2004, pp. 2508-13, con la tav. 35.1; Barkay e Ussishkin 2004, p. 361; Ussishkin 2004b, p. 70; Giveon, Sweeney e Lalkin 2004, pp. 1627-28, con altri riferimenti. Ussishkin, com. pers. 14 maggio 2013, scrive: ÂŤPer quanto riguarda la data della distruzione di Lachish VI al 1130, lo suggerisco non sulla base di datazioni al carbonio 14, ma ipotizzando che gli Egizi abbiano conservato Lachish sino a


quando hanno conservato anche Megiddo e Beth Shean, situate più a nord, e, in base alle statue di Ramses VI a Megiddo, queste città esistevano già dal 1130. Ne sono ancora convinto». 59. Zwickel 2012, p. 598, con altri riferimenti. 60. Ussishkin 2004b, p. 70. 61. Ibid. 62. Ibid., pp. 69-72, con altri riferimenti. 63. Ussishkin 1987; Ussishkin 2004b, pp. 71-72; Zuckerman 2007a, p. 10. Vedi Zwickel 2012, pp. 597-98. 64. Ussishkin 2004b, p. 71 e tavv. a col. a p. 127; vedi anche Barkay e Ussishkin 2004, pp. 358, 363; Smith 2004, pp. 250407. 65. Vedi Nur e Ron 1997; Nur e Cline 2000 e 2001; Nur e Burgess 2008; Cline 2011. 66. Ussishkin 2004c, pp. 216, 267, 270-71. 67. Weinstein 1992, pp. 147. 68. Master, Stager e Yasur-Landau 2011, p. 276; vedi Dothan 1971, p. 25; Dothan 1982, pp. 36-37; Dever 1992, pp. 102-3; Dothan e Dothan 1992, pp. 160-61; Dothan 1993, p. 96; Dothan e Porath 1993, p. 47; Dothan 1990 e 2000; Stager 1995; Killebrew 1998, pp. 381-82; Killebrew 2000; Gitin 2005; Barako 2013, p. 41. Vedi anche una breve discussione in Demand 2011, pp. 208-10 e il dibattito dettagliato, con altri riferimenti


sulla cultura filistea e il modo in cui i Filistei interferirono con i locali Cananei in Killebrew 2005, pp. 197-245; Killebrew 20067; Killebrew 2013; Yasur-Landau 2010a, specialmente alle pp. 216-334; Faust e Lev-Tov 2011; Yasur-Landau 2012a; Killebrew e Lehmann 2013, p. 16; Sherratt 2013; e Maeir, Hitchcock e Horwitz 2013. 69. Dothan 2000, p. 147; vedi anche un’affermazione simile in Dothan 1998, p. 151. Vedi anche Yasur-Landau 2010a, pp. 22324. 70. Master, Stager e Yasur-Landau 2011, pp. 261, 274-76, e passim; vedi anche Dothan 1982, p. 36. 71. Stager 1995, p. 348, citato da Yasur-Landau 2012a, p 192. Vedi anche Middleton 2010, pp. 85, 87. 72. Potts 1999, p. 206, 233 e tavv. 7.5-7.6. Vedi anche discussione in Zettler 1992, pp. 174-76. 73. Trad. di Potts 1999, p. 233 e tav. 7.6. 74. Ibid., pp. 188, 233 e tav. 7.9; Bryce 2012, pp. 185-87. 75. Yener 2013a; Yener 2013b, p. 144. 76. Drews 1993, p. 9. 77. Vedi commenti sul tema di Guterbock 1992, p. 55, con altri riferimenti a pubblicazioni anteriori di Kurt Bittel, Heinrich Otten e altri. Vedi la discussione di Bryce 2012, pp. 14-15. 78. Neve 1989, p. 9; Hoffner 1992, p. 48; Guterbock 1992, p.


53; Bryce 2005, pp. 269-71, 319-21; Genz 2013, pp. 469-72. 79. Hoffner 1992, pp. 49, 51. 80. Hoffner 1992, pp. 46-47, con altri riferimenti a pubblicazioni anteriori di Kurt Bittel, Heinrich Otten e altri; Singer 2001; Middleton 2010, p. 56. 81. Muhly 1984, pp. 40-41. 82. Bryce 2012, p. 12; Genz 2013, p. 472. 83. Seeher 2001; Bryce 2005, pp. 345-46; Van De Mieroop 2007, pp. 240-41; Demand 2011, p. 195; Bryce 2012, p. 11; Genz 2013, pp. 469-72. 84. Drews 1993, pp. 9, 11, con riferimenti; Yasur-Landau 2010a, pp. 159-61, 186-87, con riferimenti. Su Tarso, vedi Yalcin 2013. 85. Drews 1993, p. 9, con riferimenti. 86. Bryce 2005, pp. 347-48. Altri l’hanno già notato prima; vedi per esempio Guterbock 1992, p. 53, che cita Bittel; vedi Genz 2013. 87. Come con il paragrafo del capitolo precedente su Troia e la guerra troiana, questa breve discussione su Troia VIIA e la sua distruzione ripete quello che era stato già detto in Cline 2013, scritto nello stesso periodo di questo libro. È una versione rivista del materiale pubblicato precedentemente, con riferimenti aggiuntivi dell’autore nelle Course Guide con 14 CD della serie intitolata Archaeology and the Iliad. The Trojan War


in Homer and History (Recorded Books/The Modern Scholar, 2006) e qui riprodotta con il consenso dell’editore. 88. Mountjoy 1999b, pp. 300-301 e tav. 1 p. 298; Mountjoy 2006, pp. 245-48; Cline 2013, p. 91. 89. Mountjoy 1999b, pp. 296-97; Cline 2013, pp. 93-94. 90. Vedi ad esempio, Blegen et al. 1958, pp. 11-12. 91. Trascrizione del documentario della BBC The Truth of Troy, www.bbc.co.uk/science/horizon/2004/troytrans.shtml (ultima visita 17 aprile 2012); vedi discussione in Cline 2013, pp. 94-101. 92. Vedi Mountjoy 1999b, pp. 333-34 e ora Cline 2013, p. 94. 93. Vedi ad esempio, Deger-Jalkotzy 2008, pp. 387, 390 e la lista dei siti di Shelmerdine 2001, p. 373, n. 275. 94. Middleton 2010, pp. 14-15. Vedi discussione in Middleton 2012, pp. 283-85. 95. Blegen e Lang 1960, pp. 159-60. 96. Rutter 1992, p. 70; vedi Deger-Jalkotzy 2008, p. 387. 97. Vedi Blegen e Rawson 1966, pp. 421-22. Per una cronaca della distruzione di Pilo, vedi Mountjoy 1997; Shelmerdine 2001, p. 381. 98. Blegen e Kourouniotis 1939, p. 561. 99. Davis 2010, p. 687. Vedi discussione in Davis 1998, pp. 88,


97. 100. Blegen 1955, p. 32 e vedi citazioni su Blegen e Rawson 1966. 101. Vedi Deger-Jalkotzy 2008, p. 389, con riferimenti ai pro e contro della discussione, che comprende Hooker 1982, Baumbach 1983 e Palaima 1995; Shelmerdine 1999 e Maran 2009, p. 245, con riferimenti. 102. Iakovidis 1986, p. 259. 103. Taylor 1969, pp. 91-92, 95; Iakovidis 1986, pp. 244-45, citato in Nur e Cline, 2000, p. 50. 104. Wardle, Crouwel e French 1973, p. 302. 105. French 2009, p. 108; vedi anche French 2010, pp. 676-77. 106. Iakovidis 1986, p. 259; vedi anche Middleton 2010, p. 100. 107. Iakovidis 1986, p. 260. 108. Vedi Yasur-Landau 2010a, pp. 69-71; vedi la tesi di dottorato di Murray 2013 e quella di Enverova 2012. 109. Maran 2009, pp. 246-47; Cohen, Maran e Vetters 2010; Kostoula e Maran 2012. 110. Maran 2010, p. 729, che cita Kilian 1996. 111. Vedi i riferimenti in Nur e Cline 2000, pp. 51-52, dove il materiale era stato precedentemente pubblicato; vedi anche Nur e Cline 2001.


112. Kilian 1996, p. 63, citato in Nur e Cline 2000, p. 52. 113. Vedi Yasur-Landau 2010a, pp. 58-59, 66-69, con altri riferimenti; Maran 2010; Middleton 2010, pp. 97-99; Middleton 2012, p. 284. 114. Karageorghis 1982, p. 82. 115. Ibid., pp. 82-87; aggiornato in Karageorghis 1992, pp. 7986; vedi Karageorghis 2011. Vedi anche Sandars 1985, pp. 14448; Drews 1993, pp. 11-12; Bunimovitz 1998; Yasur-Landau 2010a, pp. 150-51; Middleton 2010, p. 83; Jung 2011. 116. Karageorghis 1982, pp. 86-88, 91. 117. Ibid., p. 88; vedi anche breve discussione in Demand 2011, pp. 205-06. 118. Ibid., p. 89. 119. Sulla distruzione di Enkomi, vedi Steel 2004, p. 188, che cita precedenti scavi; Mountjoy 2005. Sul testo di Ugarit – RS20.18 (Ugaritica 5.22) – vedi Karageorghis 1982, pp. 83; pubblicazione originaria in Nougayrol et al. 1968, pp. 83-85 e con nuova traduzione citata in Bryce 2005, p. 334; vedi anche Sandars 1985, p. 142. 120. Karageorghis 1992; Drews 1993, pp. 11-12; Muhly 1984. 121. Steel 2004, p. 187. Vedi Iacovou 2008 e Iacovou 2013 (il secondo fu presentato nel 2001 e aggiornato nel 2008, ma da allora non più, secondo l’autore).


122. Ibid. p. 188. 123. Ibid., pp. 188-90; vedi la discussione sulle ceramiche in questo sito in Jung 2011. 124. Voskos e Knapp 2008; Middleton 2010, p. 84; Knapp 2012; vedi Karageorghis 2011 per la sua teoria sull’argomento. 125. Åström 1998, p. 83. 126. Kaniewski et al. 2013. 127. Karageorghis 1982, pp. 89-90. Per una traduzione de Il viaggio di Wenamun vedi Wente 2003b 128. Steel 2004, pp. 186-87, 208-13; vedi anche discussione in Iacovou 2008. 129. Kitchen 2012, pp. 7-11. 130. Snape 2012, pp. 412-13; Clayton 1994, pp. 164-65. Per la storia completa, vedi Redford 2002. 131. Clayton 1994, p. 165; Redford 2002, p. 131. 132. Vedi Zink et al. 2012, con altri articoli dei media in «Los Angeles Times», «USA Today», e in articles.latimes.com/2012/dec/18/science/la-sci-sn-egyptmummy-pharoah-ramses-murder-throat-slit-20121218, www.usatoday.com/story/tech/sciencefair/2012/12/17/ramsesramesses-murdered-mj/1775159/ e www.pasthorizonspr.com/index.php/archives... (ultima visita 29 maggio 2013).


133. Ibid. 134. Vedi Singer 2000, p. 24 e Caubet 1992, p. 124 sul reinsediamento di siti come Ras Ibn Hani da parte di popolazioni che facevano uso della ceramica LH IIIC1. Vedi Sherratt 2013, pp. 627-28. 135. Caubet 1992, p. 127; vedi Yasur-Landau 2010a, p. 166; Killebrew e Lehmann 2013, p. 12, con altri riferimenti. 136. Steel 2004, pp. 188-208, che ha citato studi anteriori; vedi anche Yasur-Landau 2010a passim.


5. Una «tempesta perfetta» di calamità? 1. Come è stato scritto da Sir Arthur Conan Doyle ne Il mastino dei Baskerville. 2. Vedi per esempio Sandars 1985; Drews 1993; e gli atti della conferenza pubblicati nel volume di Ward e Joukowsky 1992 (soprattutto la sintesi di Muhly 1992) e di Oren 1997. 3. Vedi Monroe 2009; Middleton 2010; Yasur-Landau 2010a; e gli atti della conferenza pubblicati nel volume di Bachhuber e Roberts 2009; Galil et al. 2012, e Killebrew e Lehmann 2013; anche le sintesi e le discussioni in Killebrew 2005, pp. 33-37; Bell 2006, pp. 12-17; Dickinson 2006, pp. 46-57; Friedman 2008, pp. 163-202; Dickinson 2010; Jung 2010; Wallace 2010, pp. 13, 49-51; Kaniewski et al. 2011, p. 1; Strobel 2013. 4. Davis 2010, p. 687. 5. Deger-Jalkotzy 2008, pp. 390-91; Maran 2009, p. 242. Vedi anche Shelmerdine 2001, pp. 374-76, 381 e soprattutto la disamina in Middleton 2010 e in Middleton 2012, come pure in Murray 2013 e Enverova 2012. 6. Schaeffer 1948, p. 2; Schaeffer 1968, pp. 756, 761, 763-65, 766, 768; Drews 1993, pp. 33-34; Nur e Cline 2000, p. 58; Bryce 2005, pp. 340-41; Bell 2006, pp. 12. 7. Callot 1994, p. 203; Callot e Yon 1995, p. 167; Singer 1999, p. 730.


8. Vedi Nur e Cline 2001, con discussioni e riferimenti in Nur e Cline 2000. 9. Kochavi 1977, p. 8, citato in Nur e Cline 2001, p 34; Nur e Cline 2000, p. 60. Vedi discussione in Cline 2011. 10. Vedi Nur e Cline 2000; Nur e Cline 2001; Nur e Burgess 2008. 11. Vedi Nur e Cline 2001, pp. 33-35, con discussione completa in Nur e Cline 2000, che si amplia in Drews 1993, pp. 33-47; vedi anche la discussione in Middleton 2010, pp. 38-41; Middleton 2012, pp. 283-84; Demand 2011, p. 198. Per quanto riguarda Enkomi, vedi Steel 2004, p. 188 e n. 13, con precedenti riferimenti. 12. Per tutti gli esempi, vedi Nur e Cline 2000, pp. 50-53 e figg. 12-13. 13. Stiros e Jones 1996; vedi Nur e Cline 2000; Nur e Cline 2001; anche Shelmerdine 2001, pp. 374-77; Nur e Burgess 2008. Sull’occupazione continua di Tirinto vedi Muhlenbruch 2007 e 2009; commentato da Dickinson 2010, pp. 486-87 e Jung 2010, pp. 171-73, 175. 14. Vedi Anthony 1990 e 1997; Yakar 2003, p. 13; YasurLandau 2007, pp. 610-11; Yasur-Landau 2010a, pp. 30-32; Middleton 2010, p. 73. 15. Vedi Carpenter 1968. 16. Vedi la discussione in Drews 1992, pp. 14-16 e Drews 1993,


pp. 77-84; vedi anche Drake 2012, che permette la rinascita della teoria di Carpenter, ma da un diverso punto di vista. Per un recente riesame dell’impatto della fine dell’Età del Bronzo sulla popolazione e sul commercio nella Grecia dell’Età del Ferro, vedi Murray 2013 come pure Enverova 2012. 17. Vedi Singer 1999, pp. 661-62; Demand 2011, p. 195; Kahn 2012, pp. 262-63. 18. Testo ittita KUB 21.38; trad. di Singer 1999, p. 715; vedi anche Demand 2011, p. 195. 19. Testo egizio KRI VI 5, 3; trad. di Singer 1999, pp. 707-8; vedi anche Hoffner, 1992, p. 49; Bryce 2005, p. 331; Kaniewski et al. 2010, p. 213. 20. Testo ittita KBo 2810; trad. di Singer 1999, pp. 717-18. 21. RS 20.212; trad. di Monroe 2009, p. 83; McGeough 2007, pp. 331-32; vedi Nougayrol et al. 1968, pp. 105-7, 731; Hoffner 1992, p. 49; Singer 1999, pp. 716-17, con altri riferimenti; Bryce 2005, pp. 331-32; Kaniewski et al. 2010, p. 213. 22. RS 26.158; discusso da Nougayrol et al. 1968, pp. 731-33; vedi Lebrun 1995, p. 86; Singer 1999, p. 717, n. 381. 23. La versione della lettera trovata è stata tradotta in ugaritico: KTU 2.39/RS18.038; Singer 1999, pp. 707-8, 717; Pardee 2003, pp. 94-95. Sui commenti iniziali vedi Nougayrol et al. 1968, p. 722. Vedi più recentemente, Kaniewski et al. 2010, p. 213.


24. Singer 1999, p. 717. 25. Testo ugaritico RS 34.152; Bordreuil 1991, pp. 84-86; trad. di Cohen e Singer 2006, p. 135. Vedi Cohen e Singer 2006, pp. 123, 134-35, con riferimenti a una prima pubblicazione di Lackenbacher 1995a; vedi anche Singer 1999, pp. 719, 727; Singer 2000, p. 24; e, più recentemente, Kaniewski et al. 2010, p. 213. 26. Sulla lettera dalla casa di Urtenu (RS 94.2002+2003), vedi Singer 1999, pp. 711-12; vedi Hoffner 1992, p. 49. 27. RS 18.147; trad. di Pardee 2003, p. 97. La lettera originaria, con le sue dichiarazioni, non è stata ritrovata, ma è citata nella risposta. 28. KTU 2.38/RS 18.031; trad. di Monroe 2009, p. 98 e Pardee 2003, pp. 93-94; vedi anche Singer 1999, pp. 672-73, 716, con riferimenti precedenti. 29. Carpenter 1968; Shrimpton 1987; Drews 1992 e 1993, p. 58; più di recente Dickinson 2006, pp. 54-56; Middleton 2010, pp. 36-38; Demand 2011, pp. 197-98; Kahn 2012, pp. 262-63; Drake 2012. 30. Weiss 2012. 31. Vedi Kaniewski et al. 2010 e Kaniewski, Van Campo e Weiss 2012; Kaniewski et al. 2013. 32. Kaniewski et al. 2010, p. 207. Altri studi hanno precedentemente utilizzato la carota di ghiaccio e le carote di


sedimenti; Rohling et al. 2009 e altri citati in Drake 2012. 33. Kaniewski et al. 2013. 34. Ibid., 2013, p. 6. 35. Ibid., p. 9. 36. Drake 2012, pp. 1862-65. 37. Ibid., p.1868; dice in particolare: «l’analisi con il metodo bayesiano suggerisce che il cambiamento avvenne prima del 1250-1197 a.C. e si basa sulle probabilità maggiori con le registrazioni di dinocisti». 38. Ibid., pp. 1862, 1866, 1868. 39. Vedi la stampa a www.imra.org.il/story.php3?id=62135 e le pubblicazioni ufficiali di Langgut, Finkelstein e Litt 2013. Ci può essere stato un periodo simile di siccità in Egitto più o meno nello stesso tempo; vedi Bernhardt, Horton e Stanley 2012. 40. Drake 2012, pp. 1866, 1868. 41. Carpenter 1968, p. 53; vedi anche Andronikos 1954 e Drake 2012, p. 1867. 42. Zuckerman 2007a, pp. 25-26. 43. Ibid., p. 26. Ben-Tor 2013, che non è d’accordo. 44. Bell 2012, p. 180.


45. Vedi discussioni in Carpenter 1968, pp. 40-53; Drews 1993, pp. 62-65; Dickinson 2006, pp. 44-45; Middleton 2010, pp. 4145. 46. Carpenter 1968, pp. 52-53; Sandars 1985, pp. 184-86. 47. Murray 2013. 48. Singer 1999, p. 733; Monroe 2009, pp. 361-63; citato in Bell 2006, p. 1. 49. RS 20.18 (Ugaritica 5.22), trad. cit. in Bryce 2005, p. 334 e discussione in Singer 1999, p. 721; vedi anche Sandars 1985, p. 142 e la pubblicazione originaria in in Nougayrol et al. 1968, pp. 83-85. 50. RS 88.2009; pubblicazione di Malbran-Labat in Yon e Arnaud 2001, pp. 249-50; discussione in Singer 1999, p. 729. 51. Singer 1999, p. 730. 52. Vedi la lista della localizzazione del tesoro in ibid., p. 731. 53. Ibid., p. 733. 54. RS 34.137; vedi Monroe 2009, p. 147. 55. Sherratt 1998, p. 294. 56. Ibid., p. 307; vedi anche discussione in Middleton 2010, pp. 32-36. 57. Kilian 1990, p. 467.


58. Artzy 1998. Vedi anche Killebrew e Lehmann 2013, p. 12 e Artzy 2013 nel volume a cura di Killebrew e Lehmann. 59. Bell 2006, p. 112. 60. Routledge e McGeough 2009, p. 22; Artzy 1998 e Liverani 2003. 61. Routledge e McGeough 2009, pp. 22, 29. 62. Muhly 1992, pp. 10, 19. 63. Liverani 1995, pp. 114-15. 64. RS 34.129; Bordreuil 1991, pp. 38-39; vedi Yon 1992, p. 116; Singer 1999, pp. 722, 728, con precedenti riferimenti; Sandars 1985, p. 142; Singer 2000, p. 24; Strobel 2013, p. 511. 65. Vedi Singer 2000, p. 27, citato in Hoffner 1992, pp. 48-51. 66. Yasur-Landau 2003a, 2010a (pp. 114-18) e 2012b. Vedi anche Singer 2012 e, contrario, Strobel 2013, pp. 512-13. 67. Genz 2013, p. 477. 68. Kaniewski et al. 2011. 69. Ibid., p. 1. 70. Ibid., p. 4. 71. Ibid. 72. Harrison 2009 e 2010; Hawkins 2009, 2011; Yasur-Landau


2010a, pp. 162-63; Bryce 2012, pp. 128-29; Singer 2012; Killebrew e Lehmann 2013, p. 11. Vedi Janeway 2006-7 sul Ta’yinat e nell’Egeo. 73. Yasur-Landau 2003a; vedi anche Yasur-Landau 2003b, 2003c e 2010a con precedenti riferimenti; Bauer 1998; Barako 2000, 2001; Gilboa 2005; Ben-Shlomo et al. 2008; Maeir, Hitchcock e Horwitz 2013. 74. Vedi ora discussioni di Demand 2011, pp. 210-12; Stern 2012; Artzy 2013 e Strobel 2013, pp. 526-27. Vedi anche Gilboa 1998, 2005 e 2006-7, con ulteriore bibliografia; Dothan 1982, pp. 3-4; Dever 1992, pp. 102-3; Stern 1994, 1998 e 2000; Cline e O’Connor 2003 specialmente alle pp. 112-16, 138; Killebrew 2005, pp. 204-5; Killebrew e Lehmann 2013, p. 13; Barakao 2013; Sharon e Gilboa 2013; Mountjoy 2013; Killebrew 2013; Lehmann 2013; Sherratt 2013. L’idea di Zertal del fatto che è stato trovato un sito associato ai Shardana vicino a Megiddo in Israele è stata refutata da Finkelstein; vedi Zertal 2002 e Finkelstein 2002. Per Il viaggio di Wenamun vedi Wente 2003b. 75. Bell 2006, pp. 110-11. 76. Finkelstein 2000, p. 165; vedi anche affermazioni simili in Finkelstein 1998 e vedi Finkelstein 2007. Weinstein 1992, p. 147 aveva proposto una prospettiva simile, in cui dice che il crollo dell’impero egizio di Canaan sia avvenuto in due fasi, la prima all’epoca di Ramses III e la seconda all’epoca di Ramses VI. Vedi Yasur-Landau 2007, pp. 612-13, 616 e Yasur-Landau 2010a, pp. 340-41, per opinioni simili.


77. Vedi Killebrew 2005, pp. 230-31 per una sintesi delle varie opinioni. 78. Yasur-Landau 2003a; vedi discussione in Yasur-Landau 2010a, pp. 335-45; Yasur-Landau 2012b; Bryce 2012, p. 33; Killebrew e Lehmann 2013, p. 17. 79. Yasur-Landau, com. pers., luglio 2012. 80. Yasur-Landau 2012a, pp. 193-94; vedi anche Yasur-Landau 2007, pp. 615-16, Yasur-Landau 2012b. 81. Yasur-Landau 2012a, p. 195. 82. Hitchcock e Maeir 2013, pp. 51-56, soprattutto p. 53; Maeir, Hitchcock e Horwitz 2013. 83. Vedi Hitchcock e Maeir 2013, pp. 51-56, soprattutto p. 53; Maeir, Hitchcock e Horwitz 2013. 84. Vedi anche un’importante discussione in Strobel 2013, pp. 525-26. 85. Sandars 1985, pp. 11, 19. A parte Sandars, che si considerava esperto dell’argomento, soli pochi autori hanno tentato di scrivere libri specifici sui Popoli del Mare e sul crollo dell’Età del Bronzo, tra cui Nibbi 1975 e Robbins 2003. Ma vedi la discussione di Roberts 2008 che ha lo stesso titolo di un precedente libro di Nibbi. 86. Sandars 1985, p. 11. 87. Demand 2011, p. 193, che cita Renfrew 1979.


88. Lorenz 1969 e 1972. Vedi ora Yasur-Landau 2010a, p. 334, che (indipendentemente) evoca la metafora della farfalla in relazione a questi eventi alla fine della tarda EtĂ del Bronzo. 89. Renfrew 1979, pp. 482-87. 90. Diamond 2005; vedi anche Middleton 2010 e 2012, come anche il precedente volume di Tainter 1988, e il libro di Yoffee e Cowgill 1988, oltre ai riferimenti nella n. 2 della pref., sopra. 91. Drews 1993, pp. 85-90, soprattutto p. 88; vedi anche DegerJalkotzy 2008, p. 391. 92. Vedi la breve discussione di Dever 1992, pp. 106-7 sul collasso dei sistemi che è avvenuto a Canaan in questo periodo. Vedi anche Middleton 2010, pp. 118-21 sulla concomitanza di cause nell’Egeo e Drake 2012, pp. 1866-68. 93. Liverani 1987, p. 69; anche Drews 1993, p. 86 e Monroe 2009, p. 293, che citano Liverani. 94. Liverani 1987, p. 69; vedi Monroe 2009, pp. 292-96 per una critica alle opinioni di Liverani. 95. Monroe 2009, pp. 294-96. 96. Ibid., p. 297. 97. Ibid. 98. Ibid. 99. Drake 2012, pp. 1866-68; Kaniewski et al. 2013.


100. Drews 1993; vedi la mia recensione del libro di Drews, Cline 1997b. 101. Vedi la discussione sul crollo e sulle sue possibili ragioni in Middleton 2012. 102. Johnson 2007, pp. 3-5. 103. Bell 2006, pp. 14-15. 104. Johnson 2007, p. 13. 105. Ibid., pp. 13-16. 106. Ibid., pp. 14-15; Sherratt 2003, pp. 53-54. 107. Johnson 2007, p. 15. 108. Ibid., p. 17. 109. Bell 2006, p. 15, che cita Dark 1998, pp. 65, 106 e 120. 110. Dark 1998, p. 120. 111. Ibid., pp. 120-21. 112. Bell 2006, p. 15. Vedi anche Killebrew e Lehmann 2013, pp. 16-17. 113. Vedi piĂš di recente Langgut, Finkelstein e Litt 2013, p. 166.


Epilogo. Le conseguenze 1. Vedi la dissertazione di Murray 2013. 2. Davis 2010, p. 687. 3. Maran 2009, p. 242. 4. Cfr. Millard 1995, pp. 122-24; Bryce 2012, pp. 56-57; Millard 2012; Lemaire 2012; Killebrew e Lehmann 2013, pp. 5-6. 5. Van De Mieroop 2007, pp. 252-53. 6. Sherratt 2003, pp. 53-54; Bryce 2012, p. 195. 7. Vedi i volumi a cura di Schwartz e Nichols 2006 e McAnany e Yoffee 2010, almeno parzialmente in risposta ai libri di Diamond del 2005. Una conferenza su questo tema è stata recentemente tenuta alla Southern Illinois University, il 13 marzo 2013: Beyond Collapse. Archaeological Perspectives on Resilience, Revitalization & Reorganization in Complex Societies. 8. Dever 1992, p. 108. 9. Monroe 2009, p. 292. 10. Cho e Appelbaum 2008, A1.


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(2013b)

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Alalakh:

Throne

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Indice dei nomi Abdi-Hepa Abu Hawam Abu Simbel Abydos Accadi Achei Achille Adad-nirari Afghanistan Agamennone Agios Stephanos Ahhiyawa Ahmose (regina) Ahmose I Ai Akhenaton Akko Alaca HĂśyĂźk Alalakh, vedi anche Tell Atchana Alashiya Albright, William F. Alessandro Magno Alicarnasso Alishar Allenby, Sir Edmund Amarna Amarna, lettere di Amenemope Ammistamru I Ammistamru II Ammurapi Amnisos Amon Amurru Anatolia Ankara Aper-El Apofi Argolide Armageddon Artzy, Michal Arzawa Ashdod Ashkelon


Ashkelon Asiatici Assiria Assur-uballit I Assuwa ร strรถm, Paul Atene Atreo Attica Avaris Ay Baal Babilonesi Babilonia Bass, George Basso Egitto Beirut Bell, Carol Bellerofonte Ben-Tor, Amnon Beni Hasan Beozia Berbati Bethel Bey Bibbia Biblos Bietak, Manfred Biridiya Bittel, Kurt Blegen, Carl Borchardt, Ludwig Braudel, Fernand Brauron Breasted, James Henry British Museum Burna-Buriash II Canaan Cananei Caphtor Capo Gelidonya Carnarvon, Earl Carpenter, Rhys Carter, Howard Cassiti Caubet, Annie Champollion, Jean-Franรงois Christie, Agatha Cicladi, isole Cidonia Cilicia


Cino Ciprioti Cipro Citera Cleopatra Cnido Cnosso colossi di Memnon Corinzia Creta Crociate Dab’a, vedi Tell ed-Dab’a Danai Danubio Danuna Dardanelli Dark, Ken David, re Davis, Jack Deir ‘Alla Deir el-Bahari Dever, William Diamond, Jared Diodoro Siculo Dori Dörpfeld, Wilhelm Dothan, Trude Drake, Brandon Drew, Robert Ebrei Egei Egitto Egizi Ekron El Elam Elamiti Elena Eliopoli Emar Enkomi Eqwesh Eracle


Eracle Eritrea Erodoto Eshuwara Esiodo Esodo Età del Bronzo Età del Ferro Etiopia Etruschi Ettore Eufrate Europa Eutresis Evans, Sir Arthur Fenici Ferdinand, arciduca Filistei Finkelstein, Isreal Focide French, Elizabeth Gallipoli Gath Gaugamela Gaza Genserico Gerusalemme Gezer Giappone Gibala Giordania Gonia Granico, fiume Grecia

Hala Sultan Tekke Hammurabi Hanigalbat Hanutti Hatshepsut Hatti Hattuša Hattusili I Hattusili III Hazor Heraklion Hisarlik Hiyawa


Hiyawa Hoffner, Harry Jr Hurri Hurriti Hurru Hyksos Iakovidis, Spyros Ibnadushu Idadda Ilio, vedi anche Troia Iran Iraq Israele Israeliti Isso Isy Italia Ittiti Jezreel, valle di Johnson, Neil Jung, Reinhard Kabri, vedi Tel Kabri Kadashman-Enlili I Kalavasos-Ayios Dhimitrios Kamose Kaniewski, David Kantor, Helene Kaptaru Karageorghis, Vassos Karaoglan Karkemish Karnak Kashtiliashu KaĹĄka Katsamba Katsingri Kefala, collina di Keftiu Kelu-Hepa Khatti Khyan Kikkuli Kilian, Klaus Kitchen, Kenneth Kition Knapp, A. Bernard Kom el-Hetan Kommos Korakou Korfmann, Manfred Krisa


Kukkuli Kültepe Kaneš Kurigalzu I Kurigalzu II Kushmeshusha Kyrenia Lachish Laconia Lang, Mabel Langgut, Dafna Larnaka Lattakia Lefkandi Levante Libano Libia Licia Lidia Lineare A Lineare B Litt, Thomas Liverani, Mario Lukka Luxor Maa-Palaeokastro Macedoni Mackenzie, Duncan Malinowski, Bronisław Manatt, James Manetho Mar Morto Maran, Joseph Mari Maroni Marsa, Matruth Martin, Steve maryannu Masat Höyük Maspero, Gaston Maya Medinet Habu Mediterraneo Megiddo Megiddo


Megiddo Memnon Menelaion Menelao Menkheperreseneb Merenptah Mesopotamia Messenia Micene Micenei Middleton, Guy Midea Mileto Minet el-Beida Minoici Minosse Miṣraim Mitanni Mitannian Mongoli Monroe, Christopher Mosè Mountjoy, Penelope Muhly, James Muršili I Muršili II Musmus, passo di, vedi anche Nathal Iron, Wadi Ara Muwattalli II Mykenai Naharin Naharina Nathal Iron, vedi anche Musmus, passo di, Wadi Ara Nauplion Nefertiti Neo-Assiri Neo-Babilonesi Neo-Ittiti Neša Neshiani Neshiti Nestore, palazzo di Neve, Peter Nichoria Nilo Nimrud Niqmaddu II Niqmaddu III


Niqmaddu III Niqmepa Nubia Odoacre Omero Orchomenos Ostrogoti Ottomani Pa-ka-na-na Palestina Palistin Parigi Pausania Peleset Pendlebury, John Devitt Stringfellow Pentapoli Pernicka, Ernst Persiani Peru-nefer Petrie, Sir William Matthew Flinders Pilo Pitom Piyamaradu Poirot, Hercule Popoli del mare Priamo Prosymna Pulak, Cemal Punt Punta Iria Punta Iria Pyla-Kokkinokremos QadeĹĄ Qatna, vedi anche Tell Mishrife Qode Rameses Ramesseum Ramses II Ramses III Ramses IV Ramses XI Rapanu Ras Bassit Ras Ibn Hani


Ras Shamra, vedi anche Ugarit Rekhmira Renfrew, Colin Retenu Rockefeller, John D. Jr Rodi Roma Romani Rutter, Jeremy Salomone Sandars, Nancy Santayana, George Santorini Sarajevo Sardegna Saushtatar Sayce, A.H. Schaeffer, Claude Schliemann, Heinrich Sed Seeher, JĂźrgen Senemut Seti I Seti II Shardana Shattiwaza Shaushgamuwa Shekelesh Shelley, Percey Bysshe Shelton, Kim Sherden Sherratt, Susan Shikila Shishak Shoshenq Shutruk-Nahhunte Shuttarna II Sicilia Sidone Sinai Sinaranu Sinda Singer, Itamar Siptah Siria Soreq Sourouzian, Hourig Sparta Stadelmann, Rainer Stager, Larry Stati Uniti


Stati Uniti Steel, Louise Sudan Šuppiluliuma I Šuppiluliuma II Susa Tadu-Hepa Tanaja Tarhuntassa Taruisa Tausert Tawagalawa Taylor, Lord William Tebe (Beozia) Tebe (Egitto) Tehenu Teikhos Dymaion Tel Dan Tel Dor Tel Kabri Tel Miqne Tell al-Fakhariyeh Tell Atchana, vedi anche Alalakh Tell ed-Dab’a Tell el-Amarna, vedi anche Amarna Tell el-Borg Tell es-Safi Tell Kazel Tell Mishrife Tell Ta’yinat Tell Tweini Teresh Terra Santa Thutmose I Thutmose II Thutmose III Tigri Tirinto Tiro Tiyi8 Tjekker Troade Troia Troiani Tsoungiza Tsountas, Christos Tucidide Tudhaliya I/II


Tudhaliya I/II Tudhaliya il Giovane Tudhaliya IV Tudhaliya Tufnell, Olga Tukulti-Ninurta I Tunisia Turchia Tushratta Tut Tutankhamon Tutankhaten Tweini, vedi Tell Tweini Ugarit Uluburun Ura Urtenu Ussishkin, David Valle dei Re Van Campo, Elise Van de Mieroop, Marc Vandali Ventris, Michael Vichinghi Visigoti Wace, Alan Wadi Ara, vedi anche Musmus, passo di, Wadi Ara Wall Street WaĹĄĹĄukanni Weinstein, James Weiss, Harvey Wenamun Weshesh Wilusa Wilusiya Winckler, Hugo Woolley, Sir Leonard Yabninu Yabninu Yadin, Yigael Yanoam Yasur-Landau, Assaf Yazilikaya Yehem Yemen Yener, Aslihan Yon, Marguerite Zannanza Zigouries Zimri-Lim Zivie, Alain Zoellick, Robert B.


Zuckerman, Sharon


Indice 1177 a.C. Prefazione Ringraziamenti Elenco delle illustrazioni e delle tabelle Prologo. Il crollo delle civiltà: 1177 a.C. 1. Atto I. Armi e uomini: il XV secolo a.C. Una pausa: ritorno agli Hyksos Un flashback: la Mesopotamia e i Minoici I Minoici: scoperta e descrizione Torniamo all’Egitto Hatshepsut e Thutmose III L’Egitto e Canaan alla battaglia di Megiddo, 1479 a.C. Egizi e Mitanni La rivolta di Assuwa in Anatolia Una digressione: scoperta e analisi degli Ittiti La rivolta di Assuwa e la questione Ahhiyawa Scoperta e analisi dei Micenei Una prima guerra troiana? Osservazioni conclusive

2. Atto II. Una questione (egea) da ricordare: gli avvenimenti del XIV secolo La Lista egea di Amenofi III Gli archivi di Amarna Omaggi e relazioni familiari Oro, pirite e commercio ad alto livello Ascesa di Alashiya e dell’Assiria Nefertiti e il re Tut Šuppiluliuma e l’affaire Zannanza Ittiti e Micenei

3. Atto III. Lottare per gli dèi e per la patria: il XIII secolo a.C.


La nave di Uluburun Sinaranu di Ugarit La battaglia di Qadeš e le sue conseguenze La guerra di Troia I contatti con gli stranieri e il continente greco nel XIII secolo a.C. L’Esodo e la conquista israelita Ittiti, Assiri, Amurru e Ahhiyawa L’invasione ittita di Cipro I naufragi di Punta Iria e di Capo Gelidonya

4. Atto IV. La fine di un’epoca: il XII secolo a.C. La scoperta di Ugarit e di Minet el-Beida Rapporti economici e commerciali di Ugarit e dei suoi mercanti Distruzioni nel nord della Siria Distruzione nel sud della Siria e nella terra di Canaan Distruzione in Mesopotamia Distruzione in Anatolia Distruzioni nel continente greco Distruzione a Cipro Conflitti in Egitto e la Congiura dell’harem Sintesi

5. Una «tempesta perfetta» di calamità? Terremoti Cambiamento climatico, siccità e carestia Rivolte intestine (Possibili) invasori e il crollo del commercio internazionale Decentralizzazione e nascita della figura del mercante privato Si trattava davvero dei Popoli del Mare? E dove andavano? Argomentazioni in favore di un crollo dei sistemi Una sintesi delle ipotesi esposte e la teoria della complessita

Epilogo. Le conseguenze Cosa succederebbe se...?

Lista dei personaggi Note Prefazione Prologo. Il crollo delle civiltà: 1177 a.C. 1. Atto I. Armi e uomini: il XV secolo a.C.


2. Atto II. Una questione (egea) da ricordare: gli avvenimenti del XIV secolo 3. Atto III. Lottare per gli dèi e per la patria: il XIII secolo a.C. 4. Atto IV. La fine di un’epoca: il XII secolo a.C. 5. Una «tempesta perfetta» di calamità? Epilogo

Bibliografia Indice dei nomi


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