Siamo sommersi dalle scartoffie. Bollette, multe, moduli per l’iscrizione in palestra: è l’età della burocratizzazione totale. Ma come ci siamo arrivati? Di solito si pensa che la deregolamentazione sia un cambiamento positivo: meno lungaggini e meno regole che soffocano l’innovazione, il commercio e l’iniziativa individuale. E invece le riforme volte alla liberalizzazione del mercato e alla riduzione della burocrazia incrementano esponenzialmente le norme da interpretare, i moduli da riempire e le code da sopportare. La cultura burocratico-aziendale, nata nel mondo della finanza americana degli anni settanta, haprogressivamente invaso gli uffici pubblici, le università, ogni ambito della vita quotidiana. Il potere pubblico si è alleato con l’interesse privato e si è fatto strumento di un sistema sempre più arbitrario, che usa la lingua della razionalità e dell’efficienza per nascondere obiettivi irrazionali: estrarre ricchezza per il profitto dei privati. Ma c’è un problema ulteriore: perché le regole ci attraggono? I rapporti burocratici – freddi, meccanici e impersonali – sono anche facili e prevedibili, e ci offrono l’opportunità unica di sperimentare situazioni in cui tutta l’ambiguità e la complessità della vita – la comprensione delle dinamiche di una discussione in famiglia o di una rivalità sul lavoro – vengono spazzate via. È l’utopia delle regole. Il motivo ultimo e nascosto del fascino della burocrazia è la paura della libertà. Come immaginare, dunque, una società davvero libera? Dopo Debito, pubblicato dal Saggiatore e già diventato un classico, David Graeber spiega le ragioni profonde della nostra ambiguità nei confronti della burocrazia e delle regole, a cui non riusciamo a sottrarci nonostante la loro evidente stupidità. O forse proprio per questo.
La Cultura 984
David Graeber
Burocrazia Perché le regole ci perseguitano e perché ci rendono felici Traduzione di Fabrizio Saulini
© 2015 David Graeber First published in the United States by Melville House Publishing © il Saggiatore S.r.l., Milano 2016 Titolo originale: The Utopia of Rules
DELLO STESSO AUTORE Debito. I primi 5000 anni
Burocrazia
Sommario
Introduzione. La Legge ferrea del liberalismo e l’età della burocratizzazione totale 1. Le zone morte dell’immaginazione: saggio sulla stupidità strutturale 2. Sulle macchine volanti e sul declino del tasso di profitto 3. L’utopia delle regole, ovvero perché in fondo la burocrazia ci piace tanto Appendice. Su Batman e sul problema del potere costituente
Introduzione. La Legge ferrea del liberalismo e l’età della burocratizzazione totale
Oggi nessuno parla più di burocrazia. Ma a metà del secolo scorso, specialmente alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, sembrava non si parlasse d’altro. C’erano tomi di sociologia dai titoli altisonanti come Teoria generale della burocrazia, 1 The Politics of Bureaucracy («La politica della burocrazia») 2 o addirittura The Bureaucratization of the World («La burocratizzazione del mondo») 3 e best seller intitolati La legge di Parkinson, 4 Il principio di Peter 5 e Bureaucrats: How to Annoy Them («Burocrati: come farli arrabbiare»). 6 Uscivano romanzi kafkiani e film satirici. A tutti sembrava che le manie e le assurdità della vita burocratica fossero uno dei tratti caratterizzanti del mondo moderno, e che quindi fosse particolarmente importante parlarne. A partire dagli anni settanta, però, c’è stato uno strano riflusso. Prendiamo per esempio il seguente grafico, che illustra la frequenza con cui la parola «burocrazia» compare nei libri scritti in inglese nell’ultimo secolo e mezzo.
L’argomento suscita un interesse moderato fino al dopoguerra, poi cresce d’importanza negli anni cinquanta, raggiunge l’apice nel 1973 e da lì comincia un lento ma inesorabile declino. Come mai? Una spiegazione ovvia è che, banalmente, ci abbiamo fatto l’abitudine. La burocrazia è diventata come l’aria che respiriamo. Proviamo adesso a immaginare un altro grafico, che indichi quante ore un americano – o un inglese, o un thailandese – passi in media ogni anno a riempire moduli o a sbrigare pratiche puramente burocratiche (inutile dire che per la stragrande maggioranza di queste pratiche non serve più la carta). Il grafico, in teoria, dovrebbe mostrare una linea dall’andamento molto simile a quella del primo, con una lenta crescita fino al 1973. A questo punto, invece, i due grafici divergono: anziché scendere, la linea continua a salire. Anzi, la pendenza aumenta, a indicare che verso la fine del XX secolo i cittadini della classe media hanno perso sempre più tempo a combattere con reti di telefonate e interfacce web, e che i meno fortunati hanno passato diverse ore della giornata a districarsi tra complicatissime pratiche per accedere a quel poco che è rimasto dei servizi sociali. Questo ipotetico grafico sarebbe più o meno così:
Il grafico non misura le ore passate a riempire moduli, ma solo la frequenza con cui la parola paperwork («documenti cartacei», «scartoffie») è stata usata nei libri scritti in lingua inglese. In mancanza di una macchina del tempo che ci permetta di fare una misurazione più puntuale, questa è la migliore approssimazione possibile. Tra l’altro, i risultati sono quasi identici per la maggior parte delle parole simili o collegate a paperwork.
Tutti i saggi raccolti in questo volume, in un modo o nell’altro, trattano di questa discrepanza. Anche se non ci piace occuparcene, la burocrazia influenza ogni aspetto della nostra esistenza. È come se la nostra civiltà, in tutto il mondo, avesse deciso di tapparsi le orecchie e di canticchiare ogni volta che si tira fuori l’argomento. E quelle rare volte in cui se ne parla, i termini della discussione sono gli stessi degli anni sessanta e settanta. I movimenti sociali degli anni sessanta erano generalmente d’ispirazione progressista e di sinistra, ma erano anche contro la burocrazia o, per essere più precisi, contro la mentalità burocratica, contro il conformismo opprimente dello stato sociale postbellico. Di fronte ai grigi funzionari di entrambi i regimi, quello del capitalismo di stato e quello del socialismo di stato, quei contestatori si battevano per l’espressione individuale e per una convivialità spontanea, contro qualsiasi forma di controllo sociale (il motto era: «Norme e regole, a che servono?»). Con il crollo del vecchio stato sociale, tutto ciò appare decisamente superato. Mentre il linguaggio dell’individualismo antiburocratico è stato, con crescente ferocia, adottato dalla destra, che propone «soluzioni di mercato» per qualsiasi problema sociale, la sinistra moderata ormai si è ridotta a combattere una
patetica battaglia di retroguardia, provando a salvare quel che resta del welfare state: ha accettato passivamente – e spesso addirittura incoraggiato – il tentativo di rendere lo stato più «efficiente» attraverso la privatizzazione parziale dei servizi e la sempre maggiore integrazione dei «principi di mercato», degli «incentivi di mercato» e delle procedure di mercato basate su «trasparenza e responsabilità» nell’organizzazione burocratica stessa. Politicamente, il risultato è stato disastroso. Non c’è altro modo per dirlo. Ogni soluzione di sinistra «moderata» a qualsivoglia problema sociale (e oggi, quasi ovunque, le soluzioni di sinistra radicale vengono escluse tout court) si è invariabilmente rivelata una commistione da incubo tra i peggiori elementi della burocrazia e del capitalismo. È come se si fosse deciso scientemente di creare la posizione politica meno allettante possibile. Il fatto che qualcuno pensi ancora di votare per partiti che fanno scelte di questo tipo è il segno della forza intramontabile degli ideali di sinistra: se la gente continua a votare per i partiti di sinistra non è certo perché crede nelle loro politiche, ma perché queste sono le uniche che chi si definisce di sinistra è autorizzato a sostenere. Come stupirsi, quindi, se ogni volta che c’è una crisi sociale è la destra, e non la sinistra, a fare da valvola di sfogo dell’indignazione popolare? La destra, almeno, ha una posizione critica sulla burocrazia. Non è molto solida, ma almeno esiste. La sinistra non ce l’ha. Di conseguenza, quando chi si dice di sinistra vuole parlare male della burocrazia, il più delle volte è costretto a riciclare una versione annacquata delle critiche della destra. 7 Tale critica ha origine nel pensiero liberale ottocentesco 8 e può essere respinta molto facilmente. Dopo la Rivoluzione francese nei circoli della borghesia europea cominciò a diffondersi la convinzione che il mondo civilizzato stesse attraversando un passaggio graduale, disomogeneo ma inevitabile, dal dominio delle élite guerriere, con i loro governi autoritari, i dogmi sacerdotali e le stratificazioni di casta, a quello della libertà, dell’eguaglianza e degli interessi commerciali illuminati. Come brave termiti, le classi mercantili medievali avevano eroso dal basso il vecchio ordine feudale. Lo sfarzo e lo splendore degli stati assolutisti che venivano progressivamente rovesciati erano, secondo la lettura liberale della storia, gli ultimi sussulti del vecchio ordine, che sarebbe finito con il passaggio dallo stato al mercato, dalla
fede religiosa al pensiero scientifico e dagli status immutabili dei marchesi e delle baronesse ai liberi contratti tra individui. L’emergere delle burocrazie moderne era un problema perché non si conciliava con questa ricostruzione. In linea di principio, tutti quei funzionari polverosi chiusi nei loro uffici, con le loro complesse catene di comando, erano un retaggio feudale che molto presto avrebbe fatto la fine degli eserciti e dei corpi ufficiali, che si immaginava destinati a diventare a loro volta superflui. Basta aprire a caso un romanzo russo di fine Ottocento: tutti i rampolli delle vecchie famiglie aristocratiche – anzi, quasi tutti i personaggi – si sono trasformati in ufficiali dell’Esercito o funzionari pubblici (apparentemente nessuno degno di nota fa nient’altro), e le gerarchie militari e civili hanno praticamente gli stessi gradi, titoli e valori. C’era però un problema evidente. Se i burocrati erano solo un retaggio del passato, come mai dappertutto – non solo in realtà arretrate come la Russia, ma anche in società industriali in forte sviluppo come l’Inghilterra e la Germania – con il passare degli anni aumentavano? Qui entra in gioco la seconda parte dell’argomentazione: in sostanza, la burocrazia sarebbe un difetto intrinseco del progetto democratico. Il più illustre esponente di questa teoria è stato Ludwig von Mises, 9 un aristocratico austriaco in esilio, che nel suo saggio Burocrazia, del 1944, scrive che i sistemi pubblici, per loro natura, non possono organizzare le informazioni con la stessa efficienza dei meccanismi impersonali di determinazione dei prezzi di mercato. Estendere il voto agli sconfitti della partita economica porta inevitabilmente a una richiesta di intervento pubblico, che si presenta sotto forma di una serie di programmi nobili e ambiziosi per cercare di risolvere i problemi sociali con mezzi amministrativi. Von Mises riconosce che molti dei fautori di queste soluzioni sono in completa buona fede; purtroppo, i loro sforzi non fanno che peggiorare le cose. Finiscono anzi per distruggere la base politica della democrazia stessa, perché i burocrati incaricati di gestire i programmi sociali formano inevitabilmente dei blocchi di potere assai più influenti dei politici eletti alla guida del governo e promuovono riforme sempre più radicali. Secondo von Mises, lo stato sociale che in quegli anni si andava affermando in paesi come la Francia e l’Inghilterra, per non parlare della Danimarca e della Svezia, avrebbe portato inevitabilmente al fascismo nel giro di una o due
generazioni. Alla luce di questo, la crescita della burocrazia è l’esempio supremo della degenerazione delle buone intenzioni. Questo concetto è stato espresso nel modo forse più immediato ed efficace dalla celebre massima di Ronald Reagan: «Le nove parole più spaventose della nostra lingua sono “Mi manda lo stato e sono qui per aiutarvi”». Il problema è che tutto ciò ha scarsissima attinenza con la realtà dei fatti. Innanzitutto, storicamente, i mercati non nascono come baluardi autonomi della libertà, indipendenti e contrapposti alle autorità dello stato. È vero proprio il contrario. Storicamente, i mercati sono o un effetto collaterale dell’attività dello stato – soprattutto delle operazioni militari – oppure una diretta emanazione del governo. È stato così almeno fino all’invenzione della moneta, che in origine fu creata e imposta come mezzo per pagare i soldati; per gran parte della storia dell’Eurasia, la gente comune ha utilizzato strumenti di credito informali e moneta fisica d’oro, d’argento e di bronzo, e i mercati impersonali che ne scaturivano erano quasi sempre un elemento complementare della mobilitazione degli eserciti, del saccheggio delle città, della riscossione dei tributi e della vendita del bottino. Anche le banche centrali moderne sono nate per finanziare le guerre. Questo è il primo problema della ricostruzione convenzionale degli eventi storici. Ma ce n’è un altro, ancora più evidente. L’idea che il mercato sia un’entità in qualche modo indipendente e contrapposta al governo circola almeno dal XIX secolo per giustificare le politiche economiche di laissez faire, il cui scopo dovrebbe essere ridimensionare il ruolo dello stato. Questo effetto, però, non si è mai ottenuto. Il liberismo inglese non ha portato a una riduzione della burocrazia di stato; anzi, è stata una proliferazione di assistenti giudiziari, cancellieri, ispettori, notai e funzionari di polizia a rendere possibile il sogno liberale di un mondo di liberi contatti tra individui autonomi. Alla fine abbiamo scoperto che per mandare avanti un’economia di mercato servono mille volte più scartoffie che nella monarchia assoluta di Luigi XIV. Questo apparente paradosso – in base al quale una serie di misure volte a ridurre l’intervento dello stato nell’economia finisce per produrre più regole, più burocrati e più polizia – si ripete con tale regolarità che potremmo considerarlo alla stregua di una legge generale della sociologia. Propongo di
chiamarla «Legge ferrea del liberalismo»: La Legge ferrea del liberalismo stabilisce che qualsiasi riforma del mercato e qualsiasi iniziativa di governo volta a ridurre la burocrazia e a favorire le forze di mercato avrà l’effetto ultimo di incrementare il numero complessivo delle norme, la quantità complessiva delle pratiche cartacee e il numero complessivo dei burocrati al servizio dello stato. Il sociologo francese Émile Durkheim osservò questo fenomeno già alla fine del XIX secolo; 10 poi diventò impossibile ignorarlo. Alla metà del Novecento, perfino i critici di destra come von Mises ammettevano – almeno nei loro scritti accademici – che i mercati in realtà non si regolano da soli e che per mandare avanti qualsiasi sistema di mercato serve un esercito di amministrativi (per von Mises, questo esercito diventa un problema solo quando viene impiegato per alterare gli effetti di mercato che causano sofferenze ingiustificate ai poveri). 11 Tuttavia, il populismo di destra capì subito che, a prescindere dalla realtà dei fatti, prendere di mira i burocrati funzionava quasi sempre. Ecco da dove nasce la condanna inesorabile, in tutte le dichiarazioni pubbliche, di quelli che il governatore americano George Wallace, nella sua campagna del 1968 per la presidenza, chiamava i «burocrati saccenti» che vivono alle spalle dei cittadini che lavorano e pagano le tasse. Quella di Wallace, in realtà, è una figura cruciale. Oggi gli americani lo ricordano soprattutto come un reazionario fallito o come una specie di squilibrato con la bava alla bocca, l’ultimo irriducibile segregazionista del Sud con l’ascia in spalla davanti alle scuole pubbliche. Ma, se valutiamo la sua eredità in termini più generali, va considerato a suo modo uno statista geniale. Wallace è stato il primo politico di destra a dare una dimensione nazionale a una forma di populismo che ormai è diventata dilagante e che oggi, a distanza di una generazione, è adottata praticamente da tutti, senza distinzioni di parte. Ora per gli americani delle classi lavoratrici lo stato è composto da due tipologie di persone: i «politici», che sono dei parolai corrotti e bugiardi ma che attraverso il voto almeno ogni tanto possono essere mandati a casa, e i «burocrati», degli snob elitari e spocchiosi quasi impossibili da sradicare. Si pensa che ci sia una specie di tacita alleanza tra quella che viene considerata la classe parassitaria dei poveri (in America spesso rappresentati in termini
apertamente razzisti) e una classe altrettanto parassitaria di funzionari presuntuosi e moralisti che si perpetua sovvenzionando i poveri con i soldi degli altri. Anche in questo caso, la sinistra moderata – o quella che oggi si spaccia per sinistra – ha offerto al suo elettorato poco più di una versione annacquata di questa narrazione destrorsa. Bill Clinton, per esempio, nel corso della sua carriera ha bastonato talmente spesso gli impiegati statali che dopo l’attentato a Oklahoma City si è sentito in dovere di ricordare all’America che anche loro sono esseri umani, giurando di non usare più la parola «burocrate». 12 Nel populismo americano contemporaneo (e sempre di più anche nel resto del mondo) c’è soltanto un’alternativa alla «burocrazia», ed è il «mercato». A volte con questo si intende che lo stato andrebbe gestito più come un’azienda. Altre volte significa semplicemente che bisogna sbarazzarsi dei burocrati e permettere che la natura faccia il suo corso, ovvero lasciare la gente libera di gestirsi la propria vita senza il fastidioso intralcio di infinite norme e regole imposte dall’alto, e che la magia del mercato trovi le sue soluzioni. E così «democrazia» è diventata sinonimo di «mercato», mentre «burocrazia» intrusione dello stato nel mercato. Questo è più o meno il significato che la parola ha conservato fino a oggi. Non sempre è stato così. Il modello aziendale moderno che si è affermato alla fine del XIX secolo all’epoca era visto come un modo di applicare le moderne tecniche burocratiche al settore privato. Si dava per assodato che queste tecniche fossero necessarie, quando si operava su larga scala, perché erano più efficienti rispetto alla rete di rapporti personali o informali che caratterizzavano il mondo delle piccole imprese a conduzione familiare. I pionieri di queste nuove burocrazie private furono gli Stati Uniti e la Germania, e il sociologo tedesco Max Weber osservò che ai suoi tempi gli americani tendevano a considerare le burocrazie pubbliche e private sostanzialmente come la stessa cosa: Il corpo dei funzionari attivamente impegnati in un ufficio «pubblico», con le relative dotazioni di strumenti materiali e documenti, formano un «bureau». Nell’impresa privata, «il bureau» è spesso chiamato «l’ufficio» […].
La peculiarità dell’imprenditore moderno è quella di comportarsi come il «primo funzionario» della sua azienda, allo stesso modo in cui il sovrano di uno specifico stato burocratico moderno ha parlato di se stesso come del «primo servitore» dello stato. L’idea che le attività burocratiche dello stato siano di carattere intrinsecamente diverso rispetto alla gestione degli uffici economici privati è tipica dell’Europa continentale e, per contrasto, è completamente estranea al modo di pensare americano. 13 In altre parole, intorno alla fine del secolo, anziché chiedere a ogni piè sospinto che il governo fosse gestito come un’azienda, gli americani pensavano semplicemente che i governi e le aziende – perlomeno le grandi aziende – venissero gestiti allo stesso modo. È vero: per gran parte dell’Ottocento gli Stati Uniti sono stati sostanzialmente un’economia di piccole imprese familiari e alta finanza, più o meno come la Gran Bretagna del tempo. Ma l’irruzione della potenza americana sulla scena mondiale alla fine del secolo è coincisa con l’affermazione di una forma specificamente americana: il capitalismo aziendale o burocratico. Come ha osservato Giovanni Arrighi, in quegli stessi anni stava emergendo un modello analogo in Germania, e i due paesi – gli Stati Uniti e la Germania – avrebbero passato quasi tutta la prima metà del secolo successivo a contendersi il ruolo di erede dell’Impero britannico in declino e a cercare di imporre la propria visione dell’ordine economico e politico mondiale. Sappiamo tutti chi ha vinto. Ma Arrighi sottolinea un altro aspetto interessante. A differenza dell’Impero britannico, che aveva preso sul serio la retorica liberoscambista e aveva abolito le tariffe protezionistiche con il famoso AntiCorn Law Bill del 1846, né la Germania né gli Stati Uniti erano mai stati particolarmente interessati al libero commercio. Gli americani, in particolare, erano molto più preoccupati di creare strutture amministrative internazionali. La prima cosa che fecero gli Stati Uniti dopo aver raccolto ufficialmente il testimone dalla Gran Bretagna all’indomani della Seconda guerra mondiale fu creare le prime organizzazioni burocratiche autenticamente planetarie: l’Onu e le istituzioni di Bretton Woods come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Gatt, poi diventato Wto. L’Impero britannico non aveva mai tentato nulla del genere. O conquistava le altre nazioni o commerciava con loro. Gli americani, invece, volevano amministrare tutto e tutti.
Il popolo britannico, come ho osservato una volta, è molto fiero di non essere particolarmente versato nelle cose burocratiche. Gli americani, al contrario, sembrano vergognarsi del fatto che, nel complesso, la burocrazia gli si addice molto: non corrisponde all’immagine che hanno di se stessi. 14 Ci dipingiamo come individualisti che contano solo sulle proprie forze, ed è proprio per questo che la demonizzazione dei burocrati da parte della destra populista è così efficace. Rimane però il fatto che gli Stati Uniti sono – e lo sono da oltre un secolo – una società profondamente burocratica. Questo aspetto è stato spesso trascurato perché quasi tutte le abitudini e i valori burocratici americani – dall’abbigliamento al linguaggio fino al modo in cui sono concepiti i moduli e gli uffici – provengono dal settore privato. Quando i romanzieri e i sociologi descrivevano «l’uomo dell’organizzazione» o «l’uomo dal vestito grigio», un conformista senz’anima simile all’apparatčik sovietico, non parlavano dei funzionari del Dipartimento per la conservazione del patrimonio storico o della sicurezza sociale, ma dei quadri intermedi delle aziende americane. Certo, a quel tempo i burocrati che lavoravano nelle aziende non venivano definiti burocrati. Ma incarnavano comunque il modello del perfetto funzionario amministrativo. L’idea che la parola «burocrate» sia sinonimo di «impiegato statale» risale al New Deal e agli anni trenta, quando le strutture e le tecniche burocratiche divennero per la prima volta marcatamente visibili agli occhi delle persone comuni. Ma, in realtà, fin dall’inizio i funzionari del New Deal di Roosevelt avevano lavorato a stretto contatto con un esercito di avvocati, ingegneri e burocrati privati di aziende come Ford, Coca-Cola e Procter & Gamble, assimilandone lo stile e i valori. A partire dagli anni quaranta, mentre gli Stati Uniti si preparavano a entrare in guerra, lo stesso processo aveva coinvolto il gigantesco apparato della burocrazia militare americana. Naturalmente, da allora gli Stati Uniti non sono mai davvero usciti dal conflitto. Tuttavia, attraverso questi processi, la parola «burocrate» ha finito per essere associata quasi esclusivamente agli impiegati statali: né i quadri intermedi delle aziende né i funzionari dell’Esercito vengono considerati burocrati, anche se magari non fanno altro che stare alla scrivania, riempire moduli e stilare rapporti (lo stesso vale per i poliziotti o i dipendenti dell’Agenzia per la sicurezza nazionale).
Negli Stati Uniti, i confini tra pubblico e privato sono da sempre sfumati. Le Forze armate americane, per esempio, sono famose per le loro porte girevoli, con gli ufficiali responsabili degli appalti che si ritrovano regolarmente nei consigli di amministrazione delle aziende fornitrici dell’Esercito. A livello generale, l’esigenza di tutelare certi settori industriali interni per scopi militari e di svilupparne altri ha permesso al governo americano di fare una pianificazione industriale similsovietica senza dover mai ammetterlo. Qualsiasi cosa, dalla conservazione di un dato numero di acciaierie alle ricerche preliminari per mettere in piedi la rete Internet, può essere giustificata sulla base della capacità di intervento militare. Ma anche in questo caso, poiché tale pianificazione avviene attraverso una collaborazione tra burocrati militari e burocrati privati, non è mai percepita come burocratica. Con l’emergere del settore finanziario, tuttavia, c’è stato un salto di qualità che ha reso quasi impossibile dire che cosa sia pubblico e che cosa sia privato. Questo fenomeno non è dovuto soltanto al ben documentato processo di outsourcing ad aziende private di funzioni che un tempo erano affidate allo stato. È dovuto soprattutto al modo in cui le stesse aziende private hanno cominciato a operare. Faccio un esempio: qualche tempo fa mi è capitato di passare diverse ore al telefono con la Bank of America per cercare di capire come accedere dall’estero ai dati del mio conto. Ho parlato con quattro persone diverse, ho chiamato due numeri inesistenti, ho ascoltato tre lunghe spiegazioni di regole complicate e apparentemente arbitrarie e per due volte non sono riuscito a modificare il mio vecchio indirizzo e il mio vecchio numero telefonico, che risultavano su diversi sistemi informatici. Insomma, il classico girotondo burocratico (e, in più, alla fine non sono nemmeno riuscito ad accedere al conto). Non ho il minimo dubbio che, se avessi parlato con il direttore della banca e gli avessi chiesto spiegazioni, mi avrebbe risposto che la banca non c’entrava niente e che la colpa era di un arcano labirinto di regole imposte dallo stato. Ma sono altrettanto sicuro di un’altra cosa, e cioè che, se si indagasse la provenienza di quelle regole, si scoprirebbe che sono state scritte da qualche commissione bancaria parlamentare con l’aiuto dei vari lobbisti e avvocati delle banche stesse, e che i membri della suddetta commissione sono stati ricompensati con generosi contributi per le loro campagne elettorali. Lo stesso
vale per le valutazioni dell’affidabilità creditizia, i premi assicurativi, le richieste di mutuo, ma anche per operazioni più banali come l’acquisto di un biglietto aereo, la domanda per un brevetto da sub o la richiesta di una sedia ergonomica per l’ufficio in un’università che dovrebbe essere privata. Gran parte delle pratiche cartacee che gestiamo nasce in questa sorta di zona di confine, apparentemente privata, ma di fatto modellata da uno stato che stabilisce il quadro giuridico, ne puntella le regole attraverso i tribunali e i complicati meccanismi di applicazione che ne derivano, ma soprattutto lavora a stretto contatto con gli interessi privati per far sì che il risultato finale garantisca un certo tasso di profitto. In questi casi il linguaggio che utilizziamo – che ha origine nella critica di destra – è completamente inadeguato. Non ci dice nulla su quello che sta succedendo. 15 Prendiamo la parola «deregolamentazione». Nell’attuale dialettica politica, la «deregolamentazione» – come le «riforme» – è vista sempre e comunque come una cosa positiva. Deregolamentazione vuol dire meno lungaggini burocratiche e meno regole e norme che soffocano l’innovazione e il commercio. Questa accezione del termine mette la sinistra in una posizione scomoda, perché chi si oppone alla «deregolamentazione» (o si limita a osservare che è stata proprio la «deregolamentazione» selvaggia a scatenare la crisi bancaria del 2008) apparentemente chiede ancora più regole e norme e quindi più grigi funzionari in giacca e cravatta che limitano la libertà e l’innovazione e in generale dicono alla gente quello che deve fare. Questo dibattito, tuttavia, si basa su premesse false. Torniamo alle banche. Non esistono – e non possono esistere – banche «non regolamentate». Le banche sono istituzioni a cui lo stato ha dato il potere di creare denaro, o, per essere un po’ più tecnici, il diritto di emettere titoli che lo stato stesso riconosce come moneta legale e che quindi accetta per il pagamento delle tasse e per l’estinzione di altri debiti sul territorio nazionale. Ovviamente lo stato non concederà a nessuno, e tantomeno a una società con scopo di lucro, il potere di creare denaro a proprio piacimento. Sarebbe una follia. Per definizione, quello di creare denaro è un potere che lo stato può concedere soltanto a condizioni chiaramente e scrupolosamente definite (ovvero regolamentate). E infatti è ciò che succede sempre: lo stato regolamenta ogni singolo aspetto delle banche,
dalla riserva minima agli orari di apertura; da quanto possono chiedere di interessi, commissioni e penali a che tipo di misure di sicurezza possono o devono prevedere; da come devono tenere e presentare i conti a come e quando devono informare i clienti dei loro diritti e responsabilità. Che cosa si intende allora quando si parla di «deregolamentazione»? Nell’accezione comune significa «cambiare la struttura normativa come più mi piace». In pratica vuol dire tutto e il contrario di tutto. Nel caso delle compagnie aeree e delle telecomunicazioni degli anni settanta e ottanta significava passare da un sistema che avvantaggiava poche grandi aziende a uno che favoriva la concorrenza tra imprese di medie dimensioni sotto il controllo vigile dello stato. Nel caso del settore bancario spesso ha significato il contrario: si è passati da una situazione di concorrenza controllata tra soggetti di medie dimensioni a una in cui si è permesso a una manciata di conglomerati finanziari di dominare completamente il mercato. Ecco perché il termine è così popolare. Basta etichettare una nuova misura normativa come «deregolamentazione» e l’opinione pubblica si convincerà che è un modo per ridurre la burocrazia e liberare l’iniziativa individuale, anche se in pratica vuol dire quintuplicare il numero dei moduli da riempire, dei rapporti da stilare, delle regole e delle norme che gli avvocati devono interpretare e delle persone che lavorano negli uffici e che a quanto pare hanno la sola funzione di spiegare in modo contorto perché le cose non si possono fare. 16 Questo processo – la graduale fusione di potere pubblico e privato in un’unica entità portatrice di norme e regole che hanno il fine ultimo di estrarre ricchezza sotto forma di profitti – ancora non ha un nome. Il fatto di per sé è significativo. Cose del genere succedono anche perché non esiste una terminologia per discuterne. Ma gli effetti si vedono in ogni singolo aspetto della nostra vita. Passiamo le giornate tra scartoffie e moduli sempre più lunghi e complicati. Semplici bollette, multe e richieste di adesione ad associazioni sportive o culturali sono ormai regolarmente accompagnate da pagine e pagine di documentazione in legalese. Voglio inventarmi un nome. La chiamerò l’età della «burocratizzazione totale» (ero tentato di chiamarla l’età della «burocratizzazione predatoria», ma in realtà l’aspetto che mi preme sottolineare è l’onnipresenza del fenomeno). È
cominciata timidamente alla fine degli anni settanta, quando ormai non si parlava più di burocrazia, e si è consolidata negli anni ottanta. Ma è negli anni novanta che ha preso veramente il volo. In un mio precedente libro ho scritto che il passaggio storico fondamentale che ci ha portato all’attuale regime economico è avvenuto nel 1971, l’anno in cui il dollaro americano ha abbandonato il gold standard. L’uscita degli Stati Uniti dal sistema aureo ha aperto la strada alla finanziarizzazione del capitalismo, ma anche a una serie di cambiamenti molto più profondi che alla lunga segneranno la fine del capitalismo stesso. Ne sono tuttora convinto. Qui però parliamo di effetti molto più a breve termine. Che cosa ha significato la finanziarizzazione per la società profondamente burocratizzata dell’America postbellica? 17 C’è stato quello che potremmo definire un cambio di fronte da parte dei manager delle grandi aziende, che da una precaria alleanza di fatto con i lavoratori sono passati a schierarsi con gli investitori. Come osservava John Kenneth Galbraith molto tempo fa, se si crea un’organizzazione con lo scopo di produrre profumi, latticini o fusoliere d’aereo, chi ne fa parte – se gli si lascia fare – tenderà a concentrare gli sforzi per produrre più profumi, latticini e fusoliere d’aereo anziché pensare a come far guadagnare più soldi agli azionisti. Inoltre, siccome per gran parte del XX secolo lavorare in una grande azienda burocratica significava avere la garanzia del posto fisso a vita, tutti i soggetti coinvolti nel processo di produzione – manager e lavoratori – si consideravano portatori di un interesse condiviso, che era prioritario e si scontrava con le interferenze di padroni e investitori. Questa sorta di solidarietà tra classi aveva perfino un nome: si chiamava «corporativismo». Non è il caso di idealizzarlo. È stato, tra le altre cose, la base filosofica del fascismo. In realtà, il fascismo ha semplicemente fatto sua e portato alle estreme, letali conseguenze l’idea che i lavoratori e i dirigenti avevano degli interessi in comune, che le organizzazioni come le aziende e le comunità fossero entità organiche e che la finanza fosse una forza aliena e parassitaria. Anche nella sua più innocua versione socialdemocratica, in Europa come in America, il corporativismo ha assunto tinte scioviniste, 18 ma ha anche fatto sì che gli investitori fossero visti in una certa misura come un corpo estraneo, contro il quale i colletti bianchi e i colletti blu dovevano fare fronte comune.
Per i militanti radicali degli anni sessanta, che durante le manifestazioni contro la guerra si vedevano sistematicamente aggredire da camionisti e operai edili nazionalisti, i risvolti reazionari del corporativismo erano evidenti. I grandi capi e i componenti ben pagati del proletariato industriale, alla Archie Bunker, stavano chiaramente dalla stessa parte. Non c’è da stupirsi, dunque, che all’epoca chi criticava la burocrazia da sinistra dicesse che la socialdemocrazia aveva più elementi in comune con il fascismo di quanto i suoi fautori volessero ammettere. E non c’è da stupirsi che oggi questa critica sia diventata del tutto irrilevante. 19 Quello che è avvenuto negli anni settanta, e che ha aperto la strada a molti fenomeni a cui assistiamo oggi, è una specie di voltafaccia strategico da parte degli alti ranghi della burocrazia privata americana: da alleati dei lavoratori sono diventati alleati degli azionisti, e infine della finanza in generale. Le fusioni e le acquisizioni, i titoli spazzatura e gli scorpori delle attività cominciati con Reagan e Thatcher e culminati con l’emergere delle società di private equity sono soltanto alcuni dei meccanismi più evidenti attraverso i quali si è articolato questo cambio di fronte. In realtà c’è stato un doppio avvicinamento: il management delle aziende si è finanziarizzato, ma allo stesso tempo anche il settore finanziario si è «aziendalizzato», con le banche d’affari e i fondi speculativi che hanno preso il posto dei singoli investitori. Di conseguenza, è diventato quasi impossibile distinguere la classe degli investitori da quella dei dirigenti (pensiamo all’espressione «management finanziario», che si riferisce sia al modo in cui gli alti ranghi della burocrazia privata gestiscono le aziende sia al modo in cui gli investitori gestiscono il loro portafoglio). Le figure eroiche degli amministratori delegati sono state mitizzate dai mezzi di informazione, e il più delle volte il loro successo è stato misurato sul numero dei dipendenti che sono riusciti a licenziare. Con l’arrivo degli anni novanta il posto fisso a vita, anche per i colletti bianchi, è diventato un ricordo del passato. Quando le aziende vogliono assicurarsi la fedeltà dei dipendenti, sempre più spesso li pagano in stock option. 20 Nel frattempo si è affermato un nuovo credo: tutti dovevano guardare il mondo con gli occhi di un investitore. È per questo che negli anni ottanta i giornali hanno cominciato a licenziare i giornalisti e in tutti i notiziari televisivi sono comparse le sovraimpressioni con gli aggiornamenti delle quotazioni di
borsa. La narrazione ufficiale era che attraverso la partecipazione ai fondi pensione o a qualche tipo di fondo di investimento tutti avrebbero avuto un pezzo di capitalismo. In realtà, il cerchio magico è stato allargato soltanto ai professionisti meglio pagati e ai burocrati delle aziende private. Questo allargamento, tuttavia, è stato estremamente importante. Nessuna rivoluzione politica è possibile senza alleati, e cooptare un certo segmento della classe media (e soprattutto convincerne gran parte di essere in qualche modo partecipe del capitalismo finanziario) è stato fondamentale. Alla fine, la componente più liberal e progressista di questa élite professional-manageriale è diventata la base sociale di quelli che vengono spacciati per i partiti «di sinistra», mentre le organizzazioni dei lavoratori come i sindacati sono state abbandonate a se stesse (basti pensare al Democratic Party negli Stati Uniti e al New Labour in Gran Bretagna, con i rispettivi leader che hanno ripudiato in pubblico quegli stessi sindacati che storicamente hanno formato il cuore del loro elettorato). Si trattava, naturalmente, di soggetti che già lavoravano in ambienti molto burocratizzati come scuole, ospedali o studi legali di diritto societario. La classe operaia vera e propria, che tradizionalmente detestava questi personaggi, o si è ritirata completamente dalla politica o si è rifugiata nel voto di protesta per la destra radicale. 21 Non è stato solo un riallineamento politico; è stata una trasformazione culturale, che ha preparato il terreno per un processo grazie al quale gli strumenti burocratici (valutazione delle prestazioni, focus group, survey sull’allocazione del tempo…) sviluppati nei circoli finanziari e aziendali hanno invaso il resto della società – la scuola, la scienza, il governo – arrivando a permeare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana. Il modo migliore di ricostruire tale processo è partire dal linguaggio. C’è tutto un gergo che si è sviluppato inizialmente all’interno di questi circoli, fatto di parole altisonanti e vuote come visione, qualità, stakeholder, leadership, eccellenza, innovazione, obiettivi strategici e best practice (molte di queste espressioni risalgono ai movimenti di «autorealizzazione» come Lifespring, Mind Dynamics ed Est, in voga nei consigli di amministrazione delle aziende durante gli anni settanta, ma ormai sono diventate un linguaggio a sé). Proviamo a immaginare un’ipotetica mappa di una grande città con un puntino blu per ogni documento in cui ricorrono almeno tre di queste espressioni. Ora immaginiamo di assistere
all’evolversi di questa mappa nel tempo: riusciremmo a vedere le macchie blu di questa nuova cultura burocratico-aziendale allargarsi come in una capsula di Petri, prima nei distretti finanziari, poi nei consigli di amministrazione, quindi negli uffici pubblici e nelle università e infine in ogni luogo in cui ci sono persone che si riuniscono per discutere dell’allocazione di risorse di qualsiasi tipo. Pur esaltando il mercato e l’iniziativa individuale, questa alleanza tra stato e finanza spesso produce risultati che ricordano in modo impressionante i peggiori eccessi della burocratizzazione nell’ex Unione Sovietica o nelle ex colonie arretrate del Sud del mondo. Per esempio, esiste una ricca letteratura antropologica sul culto di certificati, licenze e diplomi nel mondo ex coloniale. La tesi è che in paesi come il Bangladesh, Trinidad o il Camerun, che oscillano tra l’eredità soffocante della dominazione coloniale e le tradizioni magiche autoctone, le credenziali dei funzionari vengono considerate alla stregua di un feticcio materiale – oggetti magici che conferiscono di per sé un potere completamente separato dalla conoscenza, dall’esperienza o dall’addestramento che dovrebbero rappresentare. A partire dagli anni ottanta, però, c’è stata un’esplosione del credenzialismo anche in quelle che dovrebbero essere economie più «avanzate» come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada. Come scrive l’antropologa Sarah Kendzior, «Quella statunitense è diventata la società più rigidamente credenzializzata al mondo» scrivono James Engell e Anthony Dangerfield in Saving Higher Education in the Age of Money [«Salvare l’istruzione superiore nell’età del denaro»], pubblicato nel 2005. «Serve un master in Business Administration per posizioni che nemmeno per sogno richiederebbero due anni di specializzazione a tempo pieno, figuriamoci quattro.» L’istruzione universitaria come requisito per una vita borghese […] ha portato all’esclusione di chi non ha studiato all’università dalle professioni di pubblico rilievo. Nel 1971 il 58 per cento dei giornalisti aveva la laurea. Oggi sono il 92 per cento, e in molte testate è richiesta la laurea in giornalismo, nonostante i giornalisti più famosi e stimati non abbiano mai studiato giornalismo. 22 Il giornalismo è uno dei molti campi di rilievo pubblico – come anche la
politica – in cui le credenziali equivalgono di fatto al diritto di parola, cosa che riduce le probabilità di impiego e di conservazione del posto di lavoro per tutti gli altri. Le capacità non contano niente senza le credenziali, ma la capacità di acquisire le credenziali il più delle volte dipende dal patrimonio familiare. 23 Lo stesso vale in tutti i campi, dall’assistenza ai malati all’insegnamento della storia dell’arte, dalla fisioterapia alla consulenza in politica estera. Qualsiasi attività che un tempo veniva considerata un’arte (possibilmente da apprendere attraverso la pratica) adesso richiede una formazione professionale formale e un attestato. Succede sia nel pubblico sia nel privato, perché, come abbiamo già visto, quando si parla di burocrazia tali distinzioni sono diventate prive di significato. Anche se queste misure vengono spacciate (al pari di tutte le misure burocratiche) come un modo per creare meccanismi equi e impersonali in campi storicamente dominati dalle informazioni riservate e dai rapporti sociali, l’effetto è spesso l’opposto. Come sanno tutti quelli che hanno frequentato le scuole di specializzazione, sono proprio i figli delle classi professionalmanageriali, già ricchi di famiglia e dunque meno bisognosi di sostegno economico, che sanno come orientarsi tra le scartoffie che danno accesso alle borse di studio. 24 Per tutti gli altri, l’unico risultato di anni di formazione professionale è un carico abnorme di debiti studenteschi. Quando questi poveri studenti cominceranno a lavorare, dovranno rimborsare tutti i debiti dando in pasto alla finanza buona parte del loro reddito mensile. In alcuni casi questi nuovi requisiti formativi sono delle truffe belle e buone, come quando i finanziatori, d’accordo con chi prepara i programmi di formazione, fanno pressioni sul governo affinché, per esempio, imponga a tutti i farmacisti di superare una serie di test supplementari per l’abilitazione, costringendo migliaia di persone che già praticano la professione a frequentare le scuole serali, che molti potranno permettersi solo con l’aiuto di prestiti studenteschi dagli interessi esorbitanti. 25 Di fatto, è come se i finanziatori ottenessero per legge il diritto a una quota sui redditi futuri dei farmacisti. 26 Questo può sembrare un caso estremo, ma è a suo modo rappresentativo della commistione di potere pubblico e privato all’ombra del nuovo regime finanziario. Sempre di più, i profitti delle imprese in America non vengono dal
commercio o dall’industria, ma dalla finanza: cioè, in ultima analisi, dai debiti altrui. Questi debiti non nascono per caso. Sono, in larga misura, elaborati a tavolino, e proprio da questa commistione tra potere pubblico e privato. L’aziendalizzazione dell’università; la conseguente esplosione delle rette, attraverso le quali si chiede agli studenti di pagare enormi stadi di football e analoghi capricci dei dirigenti o di contribuire alla crescita spropositata dei salari di funzionari universitari sempre più numerosi; la richiesta sempre più frequente di una laurea come certificato di accesso a qualsiasi posto di lavoro in grado di promettere un tenore di vita borghese; la conseguente crescita dell’indebitamento: tutto ciò fa parte di un’unica rete. Un primo risultato è che lo stato stesso diventa il meccanismo di estrazione dei profitti privati (pensiamo soltanto a quello che succede in caso di un’insolvenza sui prestiti studenteschi: entra in azione l’intero apparato giudiziario, minacciando di confiscare beni, pignorare salari e applicare penali per migliaia di dollari). Un altro è che costringe gli stessi debitori a burocratizzare sempre di più le loro vite e a gestirsi come delle minuscole aziende in cui si misurano le entrate e le uscite e si cerca continuamente di far quadrare i conti. Un altro aspetto importante è che questo sistema di estrazione si nasconde dietro un linguaggio di norme e regole, ma all’atto pratico non ha nulla a che fare con lo stato di diritto. Anzi, l’apparato giudiziario si fa strumento di un sistema di estrazione sempre più arbitrario. Mentre buona parte dei profitti delle banche e delle società che emettono carte di credito deriva dalle «commissioni e penali» imposte ai clienti (al punto che chi ha difficoltà ad arrivare a fine mese può tranquillamente aspettarsi una penale di ottanta dollari per uno scoperto di cinque dollari), le società finanziarie giocano ormai secondo regole completamente diverse. Una volta ho partecipato a un convegno sulla crisi del sistema bancario e ho fatto una breve chiacchierata informale con un economista di una delle istituzioni di Bretton Woods (meglio che non dica quale). Gli ho chiesto come mai nessun dirigente bancario fosse ancora stato processato per le frodi che avevano portato al crollo del 2008. FUNZIONARIO Bisogna capire che quando si parla di frodi finanziarie l’approccio
della magistratura negli Stati Uniti è sempre quello di arrivare a un patteggiamento. Non vogliono andare al processo. Quasi sempre l’istituzione finanziaria paga una multa, a volte di centinaia di milioni di
dollari, ma di fatto non ammette alcun reato. Gli avvocati si limitano a dichiarare che non contestano le accuse; l’azienda, se paga, tecnicamente non viene riconosciuta colpevole di nulla. IO Quindi sta dicendo che, se il governo scopre che la Goldman Sachs, per esempio, o la Bank of America ha commesso una frode, alla fine le fa pagare soltanto una penale. FUNZIONARIO Proprio così. IO Perciò in questo caso… ok, forse allora la domanda da fare è questa: c’è mai stato un caso in cui l’importo della multa che l’azienda ha pagato è stato superiore a quello incassato grazie alla truffa stessa? FUNZIONARIO No, non che io sappia. Di solito è molto meno. IO Di quanto parliamo, del 50 per cento? FUNZIONARIO Direi più nell’ordine del 20-30 per cento, di media. Ma varia notevolmente da caso a caso. IO Il che significa… mi corregga se sbaglio, ma questo, di fatto, significa che lo stato dice: «Potete commettere tutte le frodi che volete, ma se vi becchiamo dovete darci una percentuale». FUNZIONARIO Be’, ovviamente io non posso metterla in questi termini finché faccio questo lavoro… Naturalmente, il diritto delle banche di far pagare ai correntisti ottanta dollari per uno scoperto è garantito dallo stesso sistema giudiziario che si accontenta di un fetta della torta quando una banca commette una frode. Da una parte, sembra l’ennesimo esempio di una storia arcinota: i ricchi giocano sempre secondo regole diverse. D’altronde, se il figlio di un banchiere viene trovato in possesso di cocaina quasi sicuramente la passa liscia, mentre un povero o un nero, per lo stesso quantitativo, si fa dai dieci anni di carcere in su. Perché mai le cose dovrebbero cambiare quando il suddetto figlio cresce e si mette a fare anche lui il banchiere? Credo però che qui ci sia qualcosa di più profondo, che riguarda la natura stessa dei sistemi burocratici. Questi sistemi creano sempre una cultura di complicità. Non solo viene concesso a qualcuno di non rispettare le regole, ma la fedeltà all’organizzazione si misura in base a quanto si è disposti a far finta di niente. E, poiché la logica burocratica si estende a tutta la società, tutti noi stiamo al gioco. Vale la pena di approfondire questo aspetto. Quello che sto dicendo è che non solo ci troviamo di fronte a una doppia morale, ma che questa doppia
morale è tipica e caratteristica di tutti i sistemi burocratici. Tutte le burocrazie sono in una certa misura utopiche, nel senso che propongono un ideale astratto che le persone in carne e ossa non potranno mai rispettare. Prendiamo il credenzialismo, di cui ho parlato poco fa. Da Weber in poi, i sociologi hanno osservato che uno dei tratti caratterizzanti di qualsiasi burocrazia è che i suoi membri vengono selezionati attraverso criteri formali e impersonali, il più delle volte con una prova scritta (cioè i burocrati non vengono eletti come i politici, ma non possono nemmeno essere assunti solo perché sono parenti di qualcuno). In teoria sono meritocrazie. In pratica si sa che il sistema è compromesso in mille modi. Molti vengono assunti proprio perché sono parenti di qualcuno, e lo sanno tutti. La complicità diventa il primo criterio di fedeltà all’organizzazione. Gli scatti di carriera non dipendono dal merito, e nemmeno necessariamente dal fatto di essere parenti di qualcuno; dipendono soprattutto da quanto si è disposti a stare al gioco e a far finta che gli scatti di carriera si basino sul merito, anche se si sa che non è vero. 27 O che le regole sono uguali per tutti quando, in realtà, spesso vengono applicate per scopi totalmente arbitrari e personali. Le burocrazie tendono da sempre a funzionare in questo modo. Per gran parte della storia, però, il fenomeno ha riguardato soltanto i funzionari interni dei sistemi amministrativi, come gli aspiranti studiosi confuciani nella Cina medievale. Il resto della popolazione non aveva molto a che spartire con la burocrazia; ci entrava in contatto solo di tanto in tanto, quando arrivava il momento di denunciare i terreni e il bestiame alle autorità fiscali locali. Come ho osservato, però, negli ultimi due secoli c’è stata un’esplosione della burocrazia, e da trenta o quarant’anni i principi burocratici dominano ogni aspetto della nostra esistenza. Di conseguenza si è diffusa anche la cultura della complicità. Molta gente, per convenienza, finge di credere che i tribunali non abbiano alcun occhio di riguardo per l’establishment finanziario (e che, anzi, forse sono troppo severi) e che i comuni cittadini meritano di essere penalizzati cento volte di più per uno scoperto. Poiché le società si rappresentano come grandi meritocrazie basate sulle credenziali, invece che come meccanismi per l’estrazione arbitraria della ricchezza, tutti corrono per accattivarsi i favori del sistema fingendo di credere che sia tutto vero.
Come dovrebbe configurarsi una critica di sinistra di questa burocratizzazione totale o predatoria? Uno spunto ci arriva dalla storia del Movimento per la giustizia globale, il primo movimento ad accorgersi (non senza sorpresa) della natura del problema. Me lo ricordo bene perché all’epoca ero coinvolto in prima persona. Negli anni novanta, la «globalizzazione», nella vulgata di giornalisti come Thomas Friedman (ma in realtà di tutto l’establishment giornalistico degli Stati Uniti e di quasi tutti i paesi ricchi), veniva dipinta quasi come una forza della natura. I progressi tecnologici – in particolare Internet – avevano unificato il mondo come non era mai successo prima, la crescita delle comunicazioni aveva portato all’espansione del commercio e i confini nazionali erano diventati sempre più irrilevanti grazie ai trattati di libero scambio, che avevano creato un unico mercato mondiale. Nei dibattiti politici dell’epoca, soprattutto sui mezzi di informazione dominanti, tutto questo veniva preso come un dato di fatto, e chiunque avesse qualcosa da eccepire veniva trattato come se avesse messo in discussione le leggi fondamentali della natura. Negare la globalizzazione era come sostenere che la terra fosse piatta: chi lo diceva veniva considerato un buffone, l’equivalente di sinistra dei fondamentalisti cristiani che negavano l’evoluzione. E così, quando è nato il Movimento per la giustizia globale, i mezzi di informazione lo hanno dipinto come una retroguardia di sinistroidi grigi e malsani che volevano tornare al protezionismo, alla sovranità nazionale, alle barriere al commercio e alle comunicazioni e opporsi vanamente all’inevitabile marea della Storia. Il problema è che ovviamente non era vero. Tanto per cominciare, l’età media dei manifestanti, soprattutto nei paesi più ricchi, era di circa diciannove anni. Ma, soprattutto, c’era il fatto che il movimento era una forma di globalizzazione in sé: un’alleanza caleidoscopica di persone provenienti da ogni angolo del mondo, dalle associazioni dei contadini indiani al sindacato dei lavoratori postali del Canada, dai gruppi indigeni di Panama ai collettivi anarchici di Detroit. In più, i suoi esponenti spiegavano fino allo sfinimento che, nonostante si dicesse il contrario, quella che i mezzi di informazione chiamavano «globalizzazione» non c’entrava niente con l’abbattimento delle frontiere e il libero movimento di persone, prodotti e idee. Non era altro che un modo per intrappolare una fascia sempre più ampia della
popolazione mondiale entro confini fortemente militarizzati all’interno dei quali le forme di protezione sociale venivano sistematicamente negate, creando un bacino di lavoratori talmente disperati da essere disposti a lavorare quasi per niente. Contro questo scenario, proponevano un mondo davvero senza frontiere. Ovviamente, i sostenitori di queste idee non avevano la possibilità di andarle a spiegare in televisione o sui giornali importanti, almeno non in paesi come l’America, i cui mezzi di informazione erano e restano sotto l’attenta vigilanza della burocrazia privata. Queste tesi, di fatto, erano tabù. Ma noi del movimento avevamo scoperto che potevamo fare una cosa altrettanto efficace. Potevamo prendere d’assedio i vertici in cui si negoziavano i trattati commerciali e picchettare le riunioni annuali delle istituzioni attraverso le quali era stata costruita, codificata e imposta quella che veniva chiamata globalizzazione. Finché il movimento non arrivò in Nord America, con l’assedio del World Trade Meeting a Seattle nel novembre del 1999 (e il successivo picchettaggio delle riunioni dell’Fmi e della Banca mondiale a Washington), la maggioranza degli americani non sapeva nemmeno della sua esistenza. Quasi per magia, le manifestazioni avevano portato alla luce un mondo che doveva rimanere nascosto: era stato sufficiente tentare di bloccare l’accesso ai summit per svelare l’esistenza di una vasta burocrazia internazionale di organizzazioni intrecciate l’una con l’altra di cui nessuno doveva occuparsi troppo. E, naturalmente, erano spuntati dal nulla anche migliaia di poliziotti in assetto antisommossa pronti a spiegare al mondo quello che i suddetti burocrati erano disposti a scatenare contro chiunque provasse a mettersi sulla loro strada, anche se con metodi non violenti. Fu una strategia sorprendentemente efficace. Nel giro di due o tre anni avevamo affossato quasi tutte le nuove proposte di accordi sul commercio internazionale, e le istituzioni come l’Fmi erano praticamente scomparse dall’Asia, dall’America Latina e da quasi tutta la faccia della terra. 28 L’immagine funzionava perché era la dimostrazione che tutto quello che era stato raccontato alla gente sulla globalizzazione era una bugia. Non era un processo naturale e pacifico di sviluppo degli scambi commerciali reso possibile dalle nuove tecnologie. Quello che veniva descritto in termini di «libero scambio» e «libero mercato» era in realtà la consapevole realizzazione del
primo sistema amministrativo-burocratico su scala planetaria. 29 Le fondamenta erano state edificate negli anni quaranta, ma il sistema era entrato in funzione soltanto verso la fine della Guerra fredda. Per metterlo in piedi (come per molti altri sistemi burocratici costruiti su scala minore negli stessi anni) era stato creato un intreccio talmente complesso di elementi pubblici e privati che spesso era quasi impossibile distinguerli, anche concettualmente. Proviamo a spiegarla così: al vertice c’erano le burocrazie del commercio come l’Fmi, la Banca mondiale, il Wto e il G8, insieme alle organizzazioni nate dai trattati come il Nafta o l’Ue. Questi erano incaricati di sviluppare le politiche economiche (e anche sociali) da imporre ai presunti governi democratici del Sud del mondo. Appena sotto c’erano le grandi società finanziarie internazionali come Goldman Sachs, Lehman Brothers, American Insurance Group e istituzioni come Standard & Poor’s. Quindi venivano le grandi multinazionali (buona parte del cosiddetto «commercio internazionale» consisteva in realtà nel semplice spostamento di materiali da un ramo all’altro della stessa azienda). Infine bisognava includere le Ong, che in molte zone del mondo erogavano gran parte dei servizi sociali in precedenza forniti dallo stato, con il risultato che il piano regolatore in una città del Nepal o gli interventi sanitari in una cittadina della Nigeria spesso venivano decisi in un ufficio a Zurigo o a Chicago. Al tempo non descrivevamo le cose in questi termini. Non dicevamo, cioè, che dietro il «libero scambio» e il «libero mercato» si nascondeva la creazione di una rete di strutture amministrative globali con lo scopo primario di assicurare la corresponsione dei profitti agli investitori, o che «globalizzazione» in realtà significasse burocratizzazione. Spesso c’eravamo arrivati vicini. Ma raramente lo dicevamo a voce alta. Col senno di poi, penso che avremmo dovuto sottolineare proprio questo aspetto. Anche l’invocazione di nuove forme di processi democratici che era al cuore del movimento – le assemblee, gli spokescouncils e così via – era più che altro un modo di dimostrare che era possibile relazionarsi con gli altri (e perfino prendere decisioni importanti e realizzare progetti collettivi complessi) senza dover riempire moduli, senza rivolgersi a un tribunale e senza minacciare di chiamare la sicurezza o la polizia. Il Movimento per la giustizia globale è stato, a suo modo, il primo grande
movimento antiburocratico di sinistra dell’età della burocratizzazione totale. Ecco perché penso che possa essere di insegnamento per tutti coloro che vogliono portare avanti una critica simile. Lasciatemi concludere con tre esempi.
1. Non sottovalutare l’importanza della pura violenza fisica I poliziotti armati fino ai denti che spuntano dal nulla per aggredire i manifestanti non sono un bizzarro effetto collaterale della «globalizzazione». Quando si comincia a sentir parlare di «libero mercato» è buona norma guardarsi intorno e cercare l’uomo con la pistola. Non è mai molto lontano. Il liberismo del XIX secolo ha coinciso con l’invenzione della polizia e delle agenzie investigative private moderne 30 e, gradualmente, anche con l’idea che la polizia abbia giurisdizione su ogni minimo aspetto della vita urbana, dalla regolamentazione dei venditori ambulanti al livello di rumore tollerato nelle feste private fino alla risoluzione delle risse tra parenti o coinquilini. Ci siamo talmente abituati all’idea di poter chiamare la polizia per risolvere qualsiasi problema che a volte non riusciamo nemmeno a immaginare che cosa facesse la gente prima che ci fosse questa possibilità. 31 In realtà, la stragrande maggioranza delle persone nel corso della storia – anche chi viveva nelle grandi città – non aveva nessuna autorità a cui rivolgersi in queste circostanze. O, almeno, nessuna autorità burocratica e impersonale che, come la polizia moderna, avesse il potere di imporre risoluzioni arbitrarie dietro la minaccia dell’uso della forza. Credo che a questo punto possiamo aggiungere una specie di corollario alla Legge ferrea del liberismo. La storia dimostra non solo che le politiche che favoriscono «il mercato» fanno aumentare il numero degli amministrativi negli uffici, ma anche che accrescono il numero e la proporzione delle relazioni sociali regolate attraverso la minaccia della violenza. Questo, ovviamente, contraddice tutto quello che ci hanno detto sul mercato, ma basta osservare la realtà per accorgersi che è così. In un certo senso, anche chiamarlo «corollario» è fuorviante, perché parliamo di due modi diversi di descrivere lo stesso fenomeno. La burocratizzazione della vita quotidiana comporta l’imposizione di
regole e norme impersonali; ma queste regole e norme impersonali, a loro volta, hanno bisogno della minaccia della violenza per funzionare. 32 E infatti, in quest’ultima fase della burocratizzazione totale, abbiamo visto materializzarsi ovunque telecamere di sicurezza, scooter della polizia, soggetti autorizzati al rilascio di documenti temporanei d’identità e donne e uomini in vari tipi di uniforme, a titolo pubblico o privato, che vengono addestrati alla minaccia, all’intimidazione e all’uso della violenza fisica. Ce li ritroviamo dappertutto: perfino in luoghi in cui cinquant’anni fa la loro presenza sarebbe stata considerata scandalosa o quantomeno bizzarra, come i campi sportivi, le scuole elementari, i campus universitari, gli ospedali, le biblioteche, i parchi e le spiagge. In tutto questo, i teorici sociali si ostinano a sostenere che il ricorso diretto alla forza è sempre meno un fattore per la conservazione delle strutture di controllo sociale. 33 Anzi, più si legge di studenti universitari tramortiti con le pistole elettriche per essere entrati in biblioteca senza autorizzazione, o di professori di lettere arrestati e incriminati per non aver attraversato la strada sulle strisce all’interno del campus, più si ribatte sprezzanti che quello che conta davvero è il sottile potere simbolico esercitato dai professori di lettere. Tutto ciò sembra nascere dal rifiuto disperato di accettare che i meccanismi del potere a volte sono davvero rozzi e semplicistici come appaiono nella realtà quotidiana. A New York, dove sono nato, ho assistito alla proliferazione delle filiali bancarie. Quando ero piccolo, gli uffici delle banche erano quasi sempre grandi edifici indipendenti che ricordavano l’architettura dei templi greci o romani. Negli ultimi trent’anni, le tre o quattro banche principali hanno aperto uffici al pubblico ogni tre isolati nelle zone più ricche di Manhattan. In tutta l’area di New York ci sono letteralmente migliaia di filiali bancarie, spuntate al posto di vecchi negozi che un tempo trattavano beni materiali o servizi di qualche tipo. In un certo senso sono il simbolo perfetto della nostra epoca: stores che vendono pura astrazione, scatole immacolate contenenti poco più che vetro, pannelli divisori d’acciaio, monitor di computer e guardie giurate armate. Sono il punto di convergenza assoluto tra armi e informazione, perché di fatto dentro non c’è altro. E questa convergenza è diventata la cornice di ogni altro aspetto della nostra vita.
Quando pensiamo a tutto ciò, di solito diamo per scontato che sia un semplice effetto della tecnologia: il nostro è un mondo nato dai computer, e ne ha anche l’aspetto. Non a caso, gli ambienti di queste nuove banche somigliano in modo impressionante alla spoglia realtà virtuale dei videogiochi degli anni novanta. È come se finalmente fossimo riusciti a portare quella realtà virtuale nel mondo fisico e, così facendo, avessimo ridotto anche le nostre vite a una specie di videogioco in cui cerchiamo di orientarci nei labirinti delle nuove burocrazie. In questo videogioco, infatti, nulla viene prodotto davvero: semplicemente spunta da un momento all’altro, e noi passiamo le nostre giornate ad accumulare punti e a schivare gente armata. Ma la sensazione di vivere in un mondo creato dai computer, a sua volta, è un’illusione. Dire che è un effetto dello sviluppo tecnologico e non di forze sociali e politiche è un terribile errore. Anche qui, la lezione della «globalizzazione», che sarebbe stata creata chissà come da Internet, è di cruciale importanza.
2. Non sopravvalutare l’importanza della tecnologia come fattore scatenante Come la cosiddetta «globalizzazione» è stata in realtà il prodotto di nuove alleanze, nuove decisioni politiche e nuove burocrazie (le tecnologie fisiche come i container per i trasporti marittimi e Internet sono arrivati solo in un secondo momento), così la burocratizzazione dilagante e quotidiana resa possibile dai computer non è, di per sé, il prodotto dello sviluppo tecnologico. Se mai, è il contrario. Il cambiamento tecnologico non è una variabile indipendente. La tecnologia va avanti, e spesso in modi sorprendenti e imprevedibili. Ma la direzione che prende dipende da fattori sociali. È facile dimenticarsene perché la nostra esperienza immediata e quotidiana della burocratizzazione è legata a doppio filo alle nuove tecnologie: Facebook, i servizi bancari via smartphone, Amazon, PayPal e un’infinità di dispositivi portatili che riducono il mondo che ci circonda a mappe, forme, codici e grafici. Ma i movimenti fondamentali che hanno permesso tutto questo risalgono agli anni settanta e ottanta. L’alleanza tra burocrati delle aziende private e finanza,
la nuova cultura aziendale che ne è scaturita e la conseguente invasione dei circoli scolastici, scientifici e statali hanno portato a una fusione delle burocrazie pubbliche e private e a una massa di documenti cartacei studiati ad arte per facilitare l’estrazione di ricchezza dai cittadini alle imprese. Questo non è stato un prodotto delle nuove tecnologie, che, anzi, ci hanno messo anni per adeguarsi. Negli anni settanta i computer erano ancora poco più che una barzelletta. Le banche e gli uffici pubblici ne erano già utilizzatori entusiasti, ma per la maggior parte degli utenti erano la definizione stessa della stupidità burocratica; ogni volta che qualcosa andava male, la reazione era sempre alzare gli occhi al cielo e dare la colpa a un generico «computer». Oggi, dopo quarant’anni di investimenti infiniti in ricerca nelle tecnologie informatiche, siamo arrivati al punto in cui i computer impiegati e messi a disposizione dalle banche sono diventati la definizione stessa di un’efficienza infallibile e magica. Prendiamo gli sportelli Atm. Non mi ricordo una sola volta negli ultimi trent’anni in cui ho prelevato a un Atm e ho ricevuto l’importo sbagliato. E non conosco nessuno a cui sia mai capitato. È talmente vero che dopo le elezioni presidenziali americane del 2000, quando circolavano statistiche sui margini di errore del 2,8 o dell’1,5 per cento di questa o quella macchina elettorale, qualcuno ebbe l’ardire di osservare che in un paese che si definisce la più grande democrazia del mondo, in cui le elezioni sono sacre, si accetta senza battere ciglio che le macchine elettorali sbaglino regolarmente a contare i voti mentre ogni giorno ci sono centinaia di milioni di transazioni su Atm con un margine complessivo di errore pari a zero. Che conclusione dobbiamo trarne sulle reali priorità degli americani? Da oggetto di scherno, la tecnologia finanziaria è diventata una realtà talmente affidabile da formare la presunta spina dorsale della nostra società. Nessuno si chiede mai se prelevando a un Atm riceverà l’importo giusto. Se la macchina funziona, non sbaglia. Tutto questo dà alle astrazioni finanziarie un alone di certezza assoluta – la capacità di «essere alla mano», per dirla con Martin Heidegger. Sono diventate una parte talmente essenziale dell’infrastruttura materiale dei nostri progetti e affari quotidiani che non pensiamo mai che esistano in sé. Nel frattempo l’infrastruttura fisica fatta di strade, scale mobili, ponti e metropolitane si sbriciola davanti ai nostri occhi, e il paesaggio che circonda le grandi città è costellato di visioni futuristiche delle
passate generazioni lasciate a marcire nella puzza, nella sporcizia o nell’abbandono. Nulla di tutto ciò è successo per caso. È il frutto di precise priorità nazionali, di decisioni politiche che allocano sistematicamente ogni finanziamento, dalla tutela del patrimonio culturale a determinate tipologie di ricerca scientifica. Questo è il mondo che hanno prodotto i documenti su «visione», «qualità», «leadership» e «innovazione». Più che la causa della nostra situazione attuale, la direzione che ha preso il cambiamento tecnologico è essa stessa, in larga misura, una funzione del potere della finanza.
3. Alla fine è sempre una questione di valore (o meglio: tutte le volte che qualcuno vi dice che il suo valore più grande è la razionalità, dice così perché non vuole ammettere qual è veramente il suo valore più grande) La filosofia dell’«autorealizzazione» da cui nasce buona parte di questo nuovo linguaggio burocratico dice che viviamo in un presente senza tempo, che la storia non significa nulla e che ciascuno di noi crea il mondo intorno a sé con la propria forza di volontà. È una specie di individualismo fascista. Al tempo in cui si diffondeva questa filosofia, negli anni settanta, c’erano dei teologi cristiani conservatori che la pensavano più o meno allo stesso modo: il denaro elettronico era una specie di estensione della forza creatrice di Dio che si trasformava in realtà materiale grazie alle menti ispirate degli imprenditori. È facile capire come tutto questo porti alla creazione di un mondo in cui le astrazioni finanziarie diventano la colonna portante della realtà, e non a caso molti degli ambienti in cui viviamo sembrano stampe tridimensionali uscite dallo schermo di un computer. In effetti, la sensazione che sto descrivendo – quella di vivere in un mondo digitalizzato – può essere considerata come l’esemplificazione perfetta di un’altra legge sociale (o, almeno, a me sembra che dovrebbe essere considerata come tale): se si dà abbastanza potere sociale a una classe di persone con le convinzioni più strampalate, queste persone, consapevolmente o meno, alla fine si sforzeranno di creare un mondo organizzato in modo da consolidare nei modi più sottili l’impressione che le loro convinzioni siano palesemente fondate.
Nei paesi del Nord Atlantico, tutto ciò è il culmine di un lungo sforzo di trasformazione delle idee più diffuse sull’origine del valore. La maggioranza degli americani, per esempio, un tempo aderiva a una sorta di versione rudimentale della teoria del valore lavoro. Sembrava una cosa logica e intuitiva in un mondo in cui c’erano quasi soltanto contadini, meccanici o negozianti: le cose belle della vita esistevano perché la gente si prendeva la briga di produrle; per questo servivano sia il cervello sia i muscoli, di solito in proporzioni più o meno uguali. A metà del XIX secolo perfino i politici moderati usavano un linguaggio che sembrava preso direttamente da Karl Marx. Così, per esempio, diceva Abramo Lincoln: Il lavoro viene prima del capitale e ne è indipendente. Il capitale è solo il frutto del lavoro, e non sarebbe mai potuto esistere se prima non fosse esistito il lavoro. Il lavoro è superiore al capitale, e merita una considerazione molto più alta. 34 L’ascesa del capitalismo burocratico nell’età dell’oro si accompagnò allo sforzo consapevole, da parte dei nuovi magnati dell’epoca, di mettere da parte questo linguaggio e di diffondere quella che al tempo era considerata la nuova filosofia (il magnate dell’acciaio Andrew Carnegie parlava di «vangelo della ricchezza»), cioè che il valore derivava proprio dal capitale. Carnegie e i suoi alleati si impegnarono in una ben sovvenzionata campagna di diffusione del nuovo vangelo, non solo nei Rotary Club e nelle camere di commercio di tutto il paese, ma anche nelle scuole, nelle chiese e nelle associazioni civiche. 35 La tesi di fondo era che l’efficienza dei nuovi colossi industriali guidati da questi uomini fosse in grado di produrre una tale ricchezza materiale che gli americani si sarebbero realizzati attraverso i consumi anziché attraverso il lavoro. Alla luce di ciò, il valore era il frutto proprio dell’organizzazione burocratica dei nuovi conglomerati. Il Movimento per la giustizia globale ci ha insegnato che la politica, in fin dei conti, è una questione di valore. Ma ci ha insegnato anche un’altra cosa, e cioè che i creatori dei grandi sistemi burocratici non ammetteranno mai quali sono i loro veri valori. Questo era vero al tempo dei Carnegie ed è vero ancora oggi. Normalmente, come i robber barons alla fine dell’Ottocento, dicono di agire nel nome dell’efficienza o della «razionalità». Ma in realtà questo linguaggio si
rivela sempre intenzionalmente vago, per non dire assurdo. Prendiamo per esempio la parola «razionalità». Un individuo «razionale» è in grado di fare collegamenti logici elementari e di valutare la realtà in modo oggettivo. In altre parole, non è pazzo. Perciò, chiunque dica di basare le proprie convinzioni politiche sulla razionalità (e questo vale sia per la destra sia per la sinistra) in pratica dice che tutti quelli che non sono d’accordo con lui sono squilibrati. Difficile pensare a un atteggiamento più arrogante. Oppure, la parola «razionalità» viene usata come sinonimo di «efficienza tecnica». In questo caso ci si concentra sul come si persegue un obiettivo perché non si vuole parlare di qual è l’obiettivo che si persegue. L’economia neoclassica è nota per questo tipo di approccio. Quando un economista tenta di dimostrare che è «irrazionale» votare alle elezioni nazionali (perché lo sforzo a carico dell’elettore è maggiore del probabile vantaggio che ne ricava), in realtà non ha il coraggio di dire «irrazionale per tutti quei soggetti per i quali la partecipazione civile, gli ideali politici e il bene comune non sono valori in sé, ma che valutano la cosa pubblica solo in termini di vantaggio personale». Non si capisce davvero perché non si possa calcolare il modo migliore di far valere i propri ideali politici attraverso il voto. Ma, secondo i preconcetti degli economisti, chiunque ci provi è un malato di mente. Insomma, parlare di efficienza razionale diventa un modo per evitare di dire a che cosa serve realmente l’efficienza, e cioè a perseguire quegli obiettivi sostanzialmente irrazionali che vengono spacciati come il fine ultimo del comportamento umano. Anche in questo caso, i mercati e le burocrazie parlano la stessa lingua. Entrambi dicono di agire soprattutto in nome della libertà individuale e dell’autorealizzazione personale attraverso il consumo. Anche i sostenitori del vecchio stato burocratico prussiano ottocentesco come Hegel e Goethe dicevano che il pugno autoritario dello stato poteva essere giustificato dal fatto che assicurava ai cittadini la piena sicurezza della proprietà privata e che quindi in casa loro li lasciava liberi di fare tutto ciò che volevano: dedicarsi alle arti, alla religione, agli affetti, alla speculazione filosofica o semplicemente decidere da soli quale birra bere, che tipo di musica ascoltare o quali vestiti indossare. Quando è apparso negli Stati Uniti, il capitalismo burocratico si è giustificato in modo analogo, stavolta però in chiave consumista: era lecito chiedere ai lavoratori di rinunciare a ogni controllo sulle condizioni di lavoro, a
patto che si mettesse a loro disposizione una gamma più vasta e più a buon mercato di prodotti da usare a casa. 36 Si dava per assodata la sinergia tra un’organizzazione impersonale e vincolata dalle regole (sia nella sfera pubblica sia in quella produttiva) e un’assoluta libertà di espressione individuale nei club, nei bar, in casa o nelle gite di famiglia (all’inizio, naturalmente, questa libertà era limitata ai maschi capifamiglia; con il passare del tempo è stata estesa a tutti, almeno in linea di principio). L’eredità più profonda del dilagare delle forme di organizzazione burocratica negli ultimi duecento anni è stata rendere scontata questa distinzione intuitiva tra i mezzi tecnici razionali e i fini sostanzialmente irrazionali per i quali questi mezzi vengono impiegati. Ciò vale a livello nazionale, dove i funzionari pubblici si vantano di trovare gli strumenti più efficienti per realizzare gli obiettivi che i governanti hanno deciso di perseguire, qualunque essi siano: dalla ricerca dell’eccellenza culturale all’imperialismo, dalla realizzazione di un ordinamento sociale autenticamente egualitario all’applicazione letterale della legge biblica. Ma è vero anche a livello individuale, dove tutti diamo per scontato che le persone si rivolgono al mercato unicamente per calcolare il modo più efficiente per arricchirsi, anche se una volta che hanno i soldi in mano non c’è modo di stabilire che cosa ne faranno: comprare una villa o una macchina da corsa, mettersi a indagare sulle sparizioni a opera degli Ufo o semplicemente spenderli per i figli. Sembra tutto talmente ovvio che è difficile rendersi conto che in ogni società storicamente esistita questa divisione non avrebbe avuto alcun senso. In tutte le epoche e a tutte le latitudini, il modo in cui si fanno le cose dovrebbe essere l’espressione ultima di chi si è. 37 Sembra quasi, però, che nel momento in cui si dividono queste sfere (da una parte quella della pura competenza tecnica, dall’altra quella dei valori supremi) l’una cominci inevitabilmente a cercare di invadere l’altra. Alcuni diranno che la razionalità, o l’efficienza, sono valori in sé, addirittura valori supremi, e che in qualche modo bisognerebbe creare una società «razionale» (qualunque cosa significhi). Altri diranno che la vita deve diventare una forma d’arte o di religione. Tutti questi movimenti, tuttavia, si basano sulla stessa divisione che dicono di voler superare. Nell’insieme, quindi, non importa se il mondo viene riorganizzato secondo l’efficienza burocratica o la razionalità del mercato: i presupposti di base sono
sempre gli stessi. Ecco spiegato perché è così facile passare da un modello all’altro, come hanno fatto quei funzionari ex sovietici che con disinvoltura hanno abbandonato il controllo totale dello stato sull’economia per abbracciare la mercatizzazione totale (e così facendo, nel pieno rispetto della Legge ferrea, sono riusciti a moltiplicare il numero dei burocrati impiegati nel paese). 38 O in che modo i due modelli si fondono in un tutto unico, come nell’età della burocratizzazione totale di oggi. Per chi è stato un rifugiato, o magari ha solo dovuto compilare un modulo di quaranta pagine per richiedere l’ammissione di sua figlia a una scuola di musica londinese, l’idea che la burocrazia possa avere qualcosa a che fare con la razionalità o l’efficienza suona strana. Ma vista dall’alto sembra proprio così. Da dentro il sistema, infatti, le formule matematiche e gli algoritmi attraverso i quali viene valutato il mondo diventano non solo misure del valore, ma la sua stessa origine. 39 L’attività principale dei burocrati è valutare. Sono continuamente impegnati a misurare, controllare, confrontare e soppesare i meriti di piani, proposte, domande, linee d’azione e candidati alla promozione diversi. Le riforme di mercato rafforzano questa tendenza. Succede a tutti i livelli. Quelli che ne subiscono di più gli effetti sono i poveri, tenuti costantemente sotto osservazione da un esercito di burocrati moralisti e invadenti che, spuntando delle caselle, valutano le loro capacità genitoriali, sbirciano nella credenza per controllare se abitano davvero con il partner, tentano di capire se hanno provato a cercarsi un lavoro o se le loro condizioni di salute sono realmente così gravi da impedire loro di svolgere un lavoro manuale. In tutti i paesi ricchi ci sono ormai schiere di funzionari la cui mansione primaria è far sentire in colpa i poveri. Ma la cultura della valutazione è, se possibile, ancora più dilagante nel mondo ipercredenzializzato delle classi professionali, in cui domina il controllo contabile e nulla vale se non può essere quantificato, incasellato o inserito in qualche tipo di interfaccia o di relazione trimestrale. Questo mondo non è un mero prodotto della finanziarizzazione, ne è il prolungamento naturale. Che cos’è infatti il mondo dei derivati cartolarizzati, delle Cdo e di altri strumenti finanziari esotici se non l’apoteosi del principio che il valore è un prodotto della carta, la vetta estrema di una montagna di documenti di valutazione che comincia con il fastidioso assistente sociale che decide se sono abbastanza povero da meritare
un’esenzione sulle cure mediche dei miei figli e finisce con i mediatori finanziari in giacca e cravatta che si scambiano freneticamente scommesse su quando non riuscirò più a pagare il mutuo? Una critica della burocrazia adeguata ai tempi deve tirare tutti questi fili (finanziarizzazione, violenza, tecnologia, commistione di pubblico e privato) e tesserli insieme in un’unica rete coerente. Grazie al processo di finanziarizzazione, una percentuale sempre maggiore dei profitti d’impresa deriva in un modo o nell’altro dalla riscossione di una rendita. Visto che si tratta più o meno di una estorsione legalizzata, la finanziarizzazione è accompagnata da un numero crescente di regole e norme che vengono imposte attraverso la minaccia sempre più sottile e onnipresente dell’uso della violenza fisica. Questa minaccia è diventata talmente diffusa che non ci accorgiamo più di essere minacciati: anzi, non riusciamo nemmeno a immaginare come sarebbe non esserlo. Intanto, una percentuale dei profitti che provengono dalla riscossione delle rendite viene riciclata per selezionare pezzi della classe professionale o per creare nuove schiere di burocrati passacarte nelle aziende private. Tutto questo favorisce un fenomeno di cui ho scritto altrove: il proliferare, negli ultimi decenni, di «mestieri del cazzo» palesemente inutili e superflui (coordinatore della visione strategica, consulente per le risorse umane, analista legale e simili), nonostante chi ricopre queste posizioni spesso sia il primo a sapere di non dare alcun contributo all’azienda. Alla fine, siamo davanti a un’estensione della logica del riallineamento di classe cominciato negli anni settanta e ottanta, quando le burocrazie private sono diventate a loro volta un’appendice del sistema finanziario. Di tanto in tanto spunta un caso che consente di mettere insieme tutti i pezzi. Nel settembre del 2013 sono andato a visitare una fabbrica di tè occupata dagli operai fuori Marsiglia. Da più di un anno c’era un’impasse con la polizia del luogo. Come ci si era arrivati? Mentre facevo il giro dello stabilimento, un operaio di mezza età mi spiegò che ufficialmente il problema era la decisione di spostare la fabbrica in Polonia perché lì il lavoro costava meno, ma che in realtà il nodo era l’allocazione dei profitti. Gli operai più anziani ed esperti (erano circa un centinaio) lavoravano da anni per cercare di migliorare l’efficienza delle grandi macchine utilizzate per confezionare le bustine da tè.
La produzione era aumentata e anche i profitti. Ma che cosa aveva fatto la proprietà con quei soldi? Aveva dato un aumento agli operai per ricompensarli dell’aumento della produttività? Ai vecchi tempi keynesiani, negli anni cinquanta e sessanta, sarebbe quasi certamente stato così. Invece no. Avevano assunto più operai e aumentato la produzione? Ancora una volta, no. Avevano assunto dei dirigenti. Per anni, mi spiegò, nello stabilimento c’erano stati solo due dirigenti: il capo e il responsabile delle risorse umane. Poi, a mano a mano che i profitti erano aumentati, erano aumentati anche i dirigenti: adesso erano una dozzina. Anche se avevano incarichi dai nomi complicatissimi, in pratica non avevano nulla da fare, perciò passavano tutto il tempo a fare avanti e indietro per la fabbrica, a controllare gli operai, a preparare indici di valutazione e a scrivere piani e rapporti. Alla fine avevano avuto la bella idea di spostare tutta l’attività all’estero: soprattutto, secondo lui, perché era un modo per giustificare a posteriori la loro presenza, ma anche perché, mentre gli operai si sarebbero ritrovati quasi tutti senza lavoro, loro con ogni probabilità sarebbero stati assegnati a una destinazione migliore. Poco dopo gli operai avevano occupato la fabbrica e l’edificio era stato circondato da poliziotti in assetto antisommossa. Quella che manca, quindi, è una critica di sinistra della burocrazia. Questo libro non è un primo abbozzo di tale critica. E non è nemmeno, a nessun livello, il tentativo di elaborare una teoria generale della burocrazia o una storia della burocrazia, o anche solo dell’età della burocratizzazione totale in cui viviamo. È una raccolta di saggi, ognuno dei quali indica alcune possibili direzioni per una critica di sinistra della burocrazia. Il primo parla di violenza, il secondo di tecnologia e il terzo di razionalità e valore. I capitoli non formano una tesi unica. Potremmo dire che ruotano attorno a una tesi, ma sono soprattutto il tentativo di far partire una discussione. Sarebbe ora. È un problema che ci riguarda tutti. Siamo strangolati dalle pratiche, dalle abitudini e dai valori burocratici. L’organizzazione della nostra vita si basa ormai sulla compilazione di moduli. Eppure, il linguaggio che utilizziamo per descrivere questo fenomeno non solo è tremendamente inadeguato, ma forse è
stato addirittura studiato per aggravare il problema. Dobbiamo trovare il modo di spiegare che cosa non ci sta bene di questo processo e parlare con franchezza della violenza che lo circonda, ma allo stesso tempo dobbiamo capire che cosa lo rende attraente, che cosa lo sostiene, quali elementi varrebbe la pena di mantenere in una società davvero libera, quali possono essere considerati i prezzi inevitabili da pagare per vivere in una società complessa e quali invece possono e devono essere eliminati del tutto. Se questo libro riuscirà anche solo ad accendere la scintilla di questa discussione, avrà dato il suo contributo alla vita politica contemporanea.
Note 1
Elliott Jaques, Isedi, Torino 1979.
2
Gordon Tullock, Public Affairs Press, Washington 1965.
3
Henry Jacoby, University of California Press, Berkeley 1973.
4
Cyril Northcote Parkinson, Monti & Ambrosini, Pescara 2011. «In un’organizzazione il lavoro si espande fino a riempire tutto il tempo a disposizione per completarlo.» 5
Laurence J. Peter e Raymond Hull, Calypso, Milano 2008. È il famoso libro che descrive come nelle organizzazioni ogni lavoratore «sale di grado fino al suo livello di incompetenza»; è diventato anche un programma televisivo molto popolare in Gran Bretagna. 6
R.T. Fishall, Arrow Books, London 1982. Si dice che il vero autore di questo testo su come disorientare e sconcertare i burocrati, ormai diventato un classico, sia l’astronomo e conduttore televisivo della Bbc Sir Patrick Moore. 7
Si potrebbe continuare. La sinistra «accettabile», come ho detto, ha sposato simultaneamente la burocrazia e il mercato. La destra libertaria almeno esprime una critica della burocrazia. La destra fascista esprime una critica del mercato: in genere è fautrice delle politiche sociali, che però vuole limitare ai membri di un particolare gruppo etnico. 8
Per una serie di circostanze storiche, negli Stati Uniti la parola liberal («liberale») non ha più lo stesso significato che ha nel resto del mondo. Il termine originariamente si applicava ai sostenitori del libero mercato, e in quasi tutto il mondo è ancora così. Negli Stati Uniti è stata adottata dai socialdemocratici, e per questo è diventata anatema per la destra; i sostenitori del libero mercato sono stati costretti a adottare il termine libertarian («libertario»), che all’inizio era l’equivalente di «anarchico» e veniva usato nello stesso significato in definizioni come «socialista libertario» o «comunista libertario». [La lingua italiana consente di aggirare almeno in parte l’ambiguità sottolineata dall’autore. Per evitare confusioni, si è preferito tradurre
liberalism/liberal con «liberalismo»/«liberale» se inteso in senso classico, e con «liberismo»/«liberista» se riferito all’ambito economico; libertarian è stato tradotto ora con «libertariano» ora con «libertario di destra» per distinguerlo da «anarchico». N.d.T.] 9
In realtà, la posizione di Ludwig von Mises è intrinsecamente antidemocratica, almeno nella misura in cui tende a rifiutare soluzioni statali di qualsiasi tipo e allo stesso tempo si oppone a tutte le soluzioni antistataliste di sinistra che propongono la creazione di forme di autorganizzazione democratica al di fuori dello stato. 10
Nella tradizione durkheimiana è noto come «l’elemento non contrattuale del contratto», di certo una delle espressioni sociologiche meno orecchiabili di tutti i tempi. La discussione parte dalla Division du travail social, Puf, Paris 2007 [1893]. 11
I saggi di Michel Foucault sul neoliberismo insistono sul punto che questa è la differenza tra la vecchia e la nuova versione: i sostenitori dei mercati oggi capiscono che i mercati non si formano spontaneamente, ma devono essere coltivati e mantenuti attraverso l’intervento del governo; cfr. Naissance de la biopolitique, a cura di Michel Senellart, Gallimard, Paris 2004. 12
«Non so quante volte ho usato il termine “burocrate pubblico”. E non troverete mai un politico che non lo usi in un’accezione vagamente peggiorativa. Ciò vuol dire che noi sappiamo che ai contribuenti dà fastidio dare soldi allo stato e quindi cerchiamo di fare bella figura dicendo che trattiamo male i burocrati o sminuendoli… Ma ricordate, queste persone, nella maggior parte dei casi, sono esattamente come voi. Amano i loro figli. Ogni mattina si svegliano e vanno a lavorare. Fanno del loro meglio… Dopo tutto quello che ci è capitato in quest’ultimo mese, dopo quello che ho visto negli occhi dei figli di quei burocrati pubblici che lavoravano per noi in quel giorno fatale a Oklahoma City, o negli occhi dei genitori che stavano lavorando per noi mentre i loro figli erano in quell’asilo, non userò mai più queste parole»; cfr. www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=51382. 13
Max Weber, «Bureaucracy», in From Max Weber: Essays in Sociology, a cura di Hans Heinrich Gerth e Charles Wright Mills, Oxford University Press, New York 1946, pp. 197-198.
14
Sotto molti aspetti, gli Stati Uniti sono un paese tedesco che, per via di quella rivalità che risale al primo Novecento, rifiuta di riconoscersi come tale. Nonostante l’uso della lingua inglese, ci sono molti più americani di origine tedesca che inglese (basti pensare ai due piatti più caratteristici della cucina americana, l’hamburger e l’hot dog o frankfurter). La Germania, al contrario, è un paese molto orgoglioso della sua efficienza nelle questioni burocratiche, e la Russia, per completare il quadro, può essere considerata un paese in cui la gente pensa che dovrebbe migliorare nelle questioni burocratiche e si vergogna un po’ di non essere all’altezza. 15
Un impiegato di banca britannico recentemente mi ha spiegato che di solito su tali questioni c’è una sorta di consapevole ipocrisia anche da parte di chi lavora in banca. Nelle comunicazioni interne si parla sempre delle norme come se fossero imposte dall’alto («Il cancelliere ha deciso di aumentare gli assegni Isa»; «Il cancelliere ha introdotto un regime pensionistico più liberale» e così via), anche se in realtà tutti sanno che i dirigenti delle banche sono stati ripetutamente a cena con il cancelliere in questione facendo lobby per convincerlo a introdurre quelle leggi e quelle norme. C’è una specie di gioco in cui i grandi dirigenti fingono sorpresa o addirittura costernazione quando i loro suggerimenti vengono recepiti. 16
Le uniche misure che non possono essere definite «deregolamentazione» sono quelle che puntano a smantellare altre misure già etichettate come tali; all’interno di questo gioco, quindi, vince chi fa passare per primo le proprie misure come «deregolamentazione». 17
Il fenomeno che sto descrivendo è planetario, ma è cominciato negli Stati Uniti e sono state le élite statunitensi quelle più aggressive nel cercare di esportarlo; perciò mi sembra corretto partire da quanto è successo in America. 18
In un certo senso, il famoso personaggio televisivo di Archie Bunker (Arcibaldo), uno scaricatore di porto ignorante che può permettersi una casa in un quartiere residenziale con una moglie che non lavora, e che per di più è bigotto, sessista e completamente allineato allo status quo che gli garantisce sicurezza e prosperità, è la quintessenza dell’età del corporativismo. 19
È singolare che questa equiparazione tra comunismo, fascismo e stato sociale burocratico, che ha origine nel radicalismo anni sessanta, oggi sia stata
adottata dalla destra populista americana. Internet trabocca di questa retorica. Basti pensare alla riforma sanitaria di Obama, che viene continuamente collegata al socialismo e al nazismo, spesso contemporaneamente. 20
William Lazonick ha documentato a fondo questo passaggio e ha osservato che si tratta di un cambiamento dei modelli di impresa; gli effetti di globalizzazione e delocalizzazione in realtà cominciano dopo, alla fine degli anni novanta e all’inizio degli anni duemila (cfr., per esempio, «Financial Commitment and Economic Performance: Ownership and Control in the American Industrial Corporation», in Business and Economic History, seconda serie, 17, 1988, pp. 115-128; «The New Economy Business Model and the Crisis of U.S. Capitalism», in Capitalism and Society, 4, 2, 2009, articolo 4; «The Financialization of the U.S. Corporation: What Has Been Lost, and How It Can Be Regained», in Inet Research Notes, 2012). Un approccio marxiano allo stesso riallineamento di classe si trova in Gérard Duménil e Dominique Lévy, Capitale Risorgente: alle radici della rivoluzione liberista, Abiblio, Trieste 2010, e The Crisis of Neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge, MA 2013. Di fatto, la classe degli investitori e quella dirigente sono diventate la stessa cosa – si sono sposate tra loro – e le carriere divise a metà tra mondo finanziario e management d’impresa sono diventate la norma. Dal punto di vista economico, secondo Lazonick, l’effetto più deleterio è stato la prassi del riacquisto delle azioni. Negli anni cinquanta e sessanta, un’azienda che avesse speso milioni di dollari per comprare le proprie azioni in modo da fare aumentare il valore del titolo in borsa con ogni probabilità sarebbe stata incriminata per manipolazione illecita del mercato. A partire dagli anni ottanta, quando i dirigenti hanno cominciato a essere pagati in azioni, è diventata una prassi standard, e letteralmente migliaia di miliardi di fatturato che in passato sarebbero stati investiti per espandere le attività, per assumere dipendenti o per la ricerca sono stati dirottati nuovamente verso Wall Street. 21
Una formula molto popolare dagli anni ottanta in poi è «liberal nello stile di vita, conservatore in materia fiscale». Si riferisce a tutte quelle persone che hanno interiorizzato i valori sociali della controcultura degli anni sessanta ma hanno imparato a vedere l’economia con gli occhi degli investitori. 22
Tanto per essere chiari: questo non è assolutamente il caso di grandi giornali come il New York Times e il Washington Post o di riviste come il New Yorker, l’Atlantic o Harper’s. In queste testate una laurea in giornalismo
probabilmente sarebbe considerata un punto a sfavore. Almeno finora, ciò vale soltanto per le pubblicazioni minori. Ma la tendenza generale è quella di un sempre maggiore credenzialismo, in tutti i campi. 23
www.aljazeera.com/indepth/opinion/2014/05/college-promise-economy‐ does-no-201451411124734124.html. Il testo citato è in Saving Higher Education in the Age of Money, University of Virginia Press, Charlottesville 2005, p. 85. Continua così: «Perché gli americani pensano che sia un buon requisito, o quantomeno necessario? Perché è vero che lo pensano. Abbiamo abbandonato la sfera della ragione e siamo entrati in quella della fede e del conformismo di massa». 24
Questa è stata certamente la mia esperienza personale. Ero uno dei pochi studenti di estrazione operaia del mio corso di laurea, e i professori mi dicevano sempre che per loro ero il migliore studente del mio anno – forse dell’intero Dipartimento –, salvo poi alzare le mani e spiegarmi che non potevano fare niente quando mi vedevano arrancare con poco o nessun sostegno e arrangiarmi a fare mille lavori, mentre gli studenti figli di medici, avvocati e professori rastrellavano quasi in automatico tutte le borse di studio e i finanziamenti. 25
Non è possibile attingere ai prestiti diretti del governo per proseguire l’istruzione, perciò gli studenti sono costretti a ricorrere a prestiti privati con tassi di interesse molto più alti. 26
Un amico mi fa l’esempio del master in scienze bibliotecarie: oggi è richiesto per tutti i posti nelle biblioteche pubbliche, anche se il corso di studi dura un anno e in genere non dà alcuna competenza essenziale che non possa essere acquista in un paio di settimane di addestramento sul lavoro. Il risultato principale è che per i primi dieci o vent’anni di carriera un bibliotecario deve destinare il 20-30 per cento del suo stipendio a ripagare i prestiti: nel caso del mio amico, mille dollari al mese, di cui circa la metà va all’università (quota capitale) e metà alla società che eroga il prestito (interessi). 27
Questa logica della complicità può essere estesa alle organizzazioni più impensabili. La direttrice di uno dei principali giornali di sinistra in America è una miliardaria che sostanzialmente si è comprata la posizione. Ovviamente, la strada principale per fare carriera nel giornale è la disponibilità a far finta che
ci sia qualche altro motivo, oltre ai soldi, che giustifichi il suo incarico. 28
Ho spiegato per sommi capi che cosa è successo in un saggio intitolato «The Shock of Victory». Ovviamente, la burocrazia mondiale è rimasta al suo posto, ma le misure come l’aggiustamento strutturale imposto dal Fmi sono state sospese, e la cancellazione dei prestiti dell’Argentina nel 2002, sotto forti pressioni dei movimenti sociali, ha avviato una catena di eventi che di fatto hanno messo fine alla crisi del debito del Terzo mondo. 29
Fino agli anni settanta la Lega delle nazioni e l’Onu erano fondamentalmente dei salotti dove si faceva conversazione. 30
In Inghilterra, per esempio, la legislazione Anti-Corn Law, che ha eliminato le protezioni tariffarie in Gran Bretagna ed è considerata l’atto di inizio dell’età liberale, è stata introdotta dal primo ministro conservatore Sir Robert Peel, famoso soprattutto per aver creato la prima forza di polizia britannica. 31
Questa cosa mi è stata ricordata qualche anno fa addirittura da Julian Assange, quando un gruppo di attivisti di Occupy ha partecipato al suo programma televisivo The World Tomorrow. Sapendo che eravamo quasi tutti anarchici, ci ha fatto quella che secondo lui era una domanda scomoda: immaginate di essere in un campeggio e che ci siano persone che suonano i tamburi per tutta la notte e non fanno dormire nessuno, che cosa proponete di fare? Il sottinteso era che la polizia, o qualcosa di simile – una forza impersonale capace di minacciare l’uso della violenza – fosse semplicemente necessaria in quella situazione. Assange si riferiva a un episodio realmente accaduto: a Zuccotti Park c’erano stati dei suonatori di tamburi molesti. In realtà, però, gli occupanti avevano trovato un compromesso con loro, convincendoli a suonare solo in certe ore. Non c’era stato bisogno di minacciare violenza. Tutto questo a riprova del fatto che, per la stragrande maggioranza degli uomini nel corso della storia, non c’è mai stata una polizia o qualcosa di simile a cui rivolgersi in situazioni del genere. Eppure si è sempre trovata una soluzione. Non si ha notizia di cittadini turbati dal chiasso dei vicini nelle antiche civiltà della Mesopotamia, della Cina e del Perù. 32
È possibile che esistano relazioni di mercato che non necessariamente funzionano in questo modo. Anche se storicamente i mercati impersonali
furono quasi sempre una creazione degli stati, di solito per fare da supporto alle operazioni militari, si sono avuti momenti in cui stati e mercati hanno viaggiato separati. Molte idee di Adam Smith e di altri sostenitori del mercato durante l’Illuminismo traggono ispirazione da uno di questi periodi storici, in particolare dal mondo islamico medievale, in cui i tribunali della sharia garantivano il rispetto dei contratti commerciali senza un intervento diretto del governo, basandosi unicamente sulla reputazione (e dunque sulla solvibilità) dei mercanti. Un mercato di questo tipo per vari aspetti funziona in modo molto diverso da quello a cui siamo abituati: per esempio, l’attività di quei mercati si basava molto più sulla cooperazione che sulla concorrenza (cfr. David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano 2011, pp. 263274). Nel mondo cristiano la tradizione è diversa: il commercio era sempre intrecciato con la guerra, e i comportamenti puramente competitivi, specialmente in assenza di legami sociali preesistenti, richiedono quasi per necessità un’istituzione come la polizia per garantire che le persone rispettino le regole. 33
È possibile che la situazione negli ultimi anni stia cambiando. Ma, nella mia esperienza, tutte le volte che ho presentato un testo per spiegare che le forme di controllo sociale in ultima analisi sono rese possibili dal monopolio della violenza da parte dello stato, immediatamente mi sono sentito ribattere su basi foucaultiane, gramsciane o althusseriane che questo tipo di analisi è sciocca e datata: o perché i «sistemi disciplinari» non funzionano più così, o perché abbiamo capito che non lo hanno mai fatto. 34
The Collected Works of Abraham Lincoln, a cura di Roy P. Basler, Rutgers University Press, New Brunswick 1953, vol. V, p. 52. L’antropologa Dimitra Doukas fa un’ottima ricostruzione storica di come questa trasformazione si è sviluppata in alcune piccole città dello stato di New York in Worked Over: The Corporate Sabotage of an American Community, Cornell University Press, Ithaca 2003. Cfr. anche E. Paul Durrenberger e Dimitra Doukas, «Gospel of Wealth, Gospel of Work: Counter-Hegemony in the U.S. Working Class», in American Anthropologist, 110, 2, 2008, pp. 214-225, sul conflitto in corso tra i due diversi punti di vista dei lavoratori americani contemporanei. 35
Sarebbe interessante confrontare questa campagna con il tentativo, altrettanto ben sovvenzionato, di promuovere le ideologie di libero mercato a partire dagli anni sessanta e settanta, con la creazione di think tank come
l’American Enterprise Institute. Questo secondo tentativo è partito da un segmento più ristretto delle classi capitalistiche e ci ha messo di più per dispiegare i suoi effetti sull’opinione pubblica, ma alla fine è stato ancora più efficace. 36
Anche nella burocrazia sovietica l’esaltazione del lavoro coesisteva con un impegno a lungo termine a creare un’utopia dei consumatori. Si noti che negli anni ottanta l’amministrazione Reagan ha di fatto disapplicato le normative antitrust modificando i criteri per l’approvazione delle fusioni tra aziende: la discriminante non è più la «restrizione del commercio», ma il «beneficio per il consumatore». Il risultato è che in quasi tutti i settori, dall’agricoltura alla vendita al dettaglio dei libri, l’economia americana è dominata da pochi grandi monopoli o oligopoli burocratici. 37
Per motivi analoghi nel mondo classico, o in quello della cristianità medievale, la razionalità difficilmente poteva essere considerata uno strumento perché era letteralmente la voce di Dio. Affronterò questi temi più dettagliatamente nel terzo capitolo. 38
Numero totale di dipendenti pubblici impiegati in Russia nel 1992: 1 milione. Numero totale nel 2004: 1,26 milioni. È particolarmente sorprendente visto che buona parte di questo periodo è stato caratterizzato da un rapido declino economico, e dunque c’erano molte meno attività da amministrare. 39
La logica è analoga alla concezione marxiana del feticismo, in base alla quale le creazioni dell’uomo sembrano prendere vita e controllare i loro creatori anziché il contrario. Probabilmente va considerata una sottospecie dello stesso fenomeno.
1. Le zone morte dell’immaginazione: saggio sulla stupidità strutturale
Vi racconto una storia sulla burocrazia. Nel 2006 mia madre ebbe una serie di ictus. Era chiaro che non sarebbe stata più in grado di stare in casa senza essere assistita. Visto che la sua assicurazione non copriva l’assistenza domestica, vari impiegati dei servizi sociali ci consigliarono di fare domanda per Medicaid. Per accedere a Medicaid, però, bisognava avere un reddito non superiore ai seimila dollari. Facemmo in modo di spostare i suoi risparmi (era tecnicamente una truffa, ma una truffa sui generis visto che lo stato pagava e paga migliaia di impiegati dei servizi sociali che, evidentemente, si occupano soprattutto di spiegare ai cittadini come compiere la suddetta truffa), ma poco dopo mia madre ebbe un altro gravissimo ictus e andò in riabilitazione in una casa di cura. Una volta uscita, naturalmente, la questione dell’assistenza domestica si sarebbe ripresentata, ma c’era un problema: l’assegno della previdenza sociale le veniva versato direttamente, e lei era a malapena in grado di mettere una firma. Perciò, a meno che non avessi ottenuto la procura sul suo conto corrente, riuscendo così a pagare l’affitto mensile al suo posto, l’importo si sarebbe immediatamente sommato al suo reddito facendole perdere il diritto all’assistenza, e io avevo già compilato l’enorme pila dei moduli richiesti da Medicaid. Andai alla banca di mia madre, presi i moduli necessari e li portai alla casa di cura. La documentazione doveva essere autenticata. L’infermiera del piano mi disse che c’era un notaio interno, ma che riceveva solo su appuntamento. Alzò il telefono e mi passò una voce incorporea, che mi mise in contatto con il notaio. Questi, a sua volta, mi informò che prima serviva l’autorizzazione del responsabile dei servizi sociali, e attaccò. Mi procurai nome e numero di stanza del responsabile dei servizi sociali, andai con l’ascensore al piano indicato e mi presentai nel suo ufficio, ritrovandomi davanti la voce incorporea che mi aveva
detto di rivolgermi al notaio. L’uomo alzò la cornetta e disse: «Marjorie, ero io, con tutte queste sciocchezze stai facendo impazzire questo signore e stai facendo impazzire anche me». Poi, dopo un breve cenno di scuse, mi fissò un appuntamento con il notaio per l’inizio della settimana successiva. La settimana dopo incontrai il notaio. Mi accompagnò al piano di sopra, controllò che avessi compilato la mia parte del modulo (come mi aveva ripetutamente invitato a fare) e poi, in presenza di mia madre, compilò la sua. Ero un po’ stupito che non le avesse chiesto di firmare niente e avesse fatto fare tutto a me, ma probabilmente, pensai, sapeva quello che faceva. Il giorno dopo portai il modulo in banca. L’impiegata allo sportello gli diede un’occhiata, mi chiese perché non l’avesse firmato mia madre e lo fece vedere al direttore, che mi disse di riprendermelo e di compilarlo bene. Evidentemente, il notaio non sapeva quello che faceva. Mi feci consegnare nuovamente i moduli, compilai la mia parte e fissai un altro appuntamento. Il giorno dell’appuntamento, dopo qualche commento imbarazzato su quanto erano pignole le banche (perché ogni banca aveva un modulo diverso per la procura?), il notaio mi accompagnò di nuovo al piano di sopra. Firmai il modulo, lo firmò anche mia madre (con qualche difficoltà, visto che non riusciva nemmeno a stare seduta) e il giorno dopo tornai alla banca. Una diversa impiegata a un diverso sportello controllò i moduli e mi chiese perché avevo firmato dove c’era scritto di mettere il mio nome in stampatello e avevo scritto in stampatello dove c’era scritto di firmare. «Ah sì? Ho fatto esattamente quello che mi ha detto il notaio.» «Ma qui c’è scritto chiaramente “firma”.» «Ah, già, è vero. Mi sa che mi ha dato l’indicazione sbagliata. Di nuovo. Comunque… le informazioni ci sono tutte, no? Ci sono soltanto due parti invertite. È un grosso problema? La cosa è un po’ urgente, e non vorrei dover aspettare un altro appuntamento.» «Be’, di solito i moduli non li accettiamo nemmeno se non sono presenti tutti i firmatari.» «Mia madre ha avuto un ictus. Non può muoversi dal letto. Per questo mi serve la procura.» Disse che avrebbe chiesto al direttore. Tornò dopo dieci minuti, seguita dal direttore, e mi disse che la banca non poteva accettare i moduli così com’erano,
ma anche se fossero stati compilati correttamente dovevo comunque portare un certificato del medico in cui si diceva che mia madre era mentalmente in grado di firmare un documento del genere. Feci notare che nessuno mi aveva mai detto niente di questa lettera. «Che cosa?» intervenne improvvisamente il direttore. «Chi è che le ha dato questi moduli e non le ha detto della lettera?» Visto che il colpevole era uno degli sportellisti più comprensivi schivai la domanda, 1 osservando che sul libretto bancario c’era scritto chiaramente «cointestato a David Graeber». Il direttore, ovviamente, rispose che valeva soltanto in caso di morte. Di lì a poco il problema divenne accademico: mia madre morì nel giro di poche settimane. Per me, all’epoca, fu un’esperienza sconvolgente. Avendo vissuto la maggior parte della mia vita come uno studente bohémien mi ero sempre tenuto relativamente lontano da queste faccende. Parlando con i miei amici, mi chiedevo: è veramente questa la vita che fa la gente normale? Correre avanti e indietro tutto il giorno come un imbecille? Essere messo in condizione di comportarsi da imbecille? Molti avevano il sospetto che fosse proprio così. Certo, il notaio era stato di rara incompetenza. Poco tempo dopo, però, passai un mese a combattere con i vari annessi e connessi dell’errore di un anonimo funzionario della Motorizzazione di New York che mi aveva ribattezzato «Daid». Per non parlare dell’impiegato della Verizon che aveva scritto che mi chiamavo «Grueber». Le burocrazie pubbliche e private – per chissà quali ragioni storiche – sembrano organizzate in modo tale da far sì che buona parte delle persone non riesca a portare a termine le proprie attività nei modi e nei tempi previsti. È questo che intendo quando dico che le burocrazie sono forme utopiche di organizzazione. In fondo, non è quello che diciamo di tutti gli utopisti: che ripongono una fiducia ingenua nella perfettibilità della natura umana e si rifiutano di accettare l’uomo per quello che è? E non è questo che li porta a fissare standard impossibili per poi dare la colpa ai singoli perché non riescono a rispettarli? 2 Tutte le burocrazie lo fanno: fanno richieste che secondo loro sono ragionevoli e poi, dopo aver scoperto che ragionevoli non sono (perché una buona parte delle persone non riuscirà mai a rispettare le aspettative), concludono che il problema non è nella richiesta ma
nell’inadeguatezza individuale del singolo. A livello puramente personale, la cosa più spiacevole era stata rendermi conto che per compilare quei moduli ero diventato stupido anch’io. Come avevo fatto a non accorgermi che stavo scrivendo il mio nome in stampatello dove si diceva «firma»? Era scritto proprio lì! Mi piace pensare che di solito non sono una persona particolarmente stupida. In effetti, si può dire che la mia carriera consiste nel convincere gli altri che sono intelligente. Eppure stavo facendo cose chiaramente stupide. E non perché fossi distratto, anzi: stavo dedicando alla pratica tutte le mie energie mentali ed emotive. Il problema non era che non mi sforzavo, ma che tutti i miei sforzi erano rivolti a cercare di capire e influenzare quelli che, al momento, sembravano avere un potere burocratico su di me, quando in realtà bastava solo interpretare in modo giusto un paio di parole in latino e svolgere correttamente alcune funzioni puramente meccaniche. Ero così impegnato a preoccuparmi di non far pesare al notaio la sua incompetenza o a cercare di mostrarmi comprensivo nei confronti dei vari impiegati della banca che non mi ero accorto che mi dicevano di fare delle cose stupide. Era chiaramente la strategia sbagliata, perché, ammesso che ci fosse qualcuno che aveva il potere di fare uno strappo alla regola, di sicuro non era nessuno di quelli con cui avevo parlato. E, se mai avessi incontrato chi in effetti questo potere ce l’aveva, mi avrebbe informato direttamente o indirettamente che se per qualsiasi motivo mi fossi lamentato, anche per un’assurdità puramente strutturale, avrei ottenuto l’unico risultato di far passare dei guai a un piccolo funzionario alle prime armi. Da antropologo, per me tutto questo era stranamente familiare. Noi antropologi studiamo i rituali legati alla nascita, al matrimonio, alla morte e ad analoghi riti di passaggio. Ci interessano in particolare i gesti rituali che hanno un’efficacia sociale, dove cioè il semplice atto di dire o fare qualcosa lo rende socialmente vero (pensiamo a enunciati come «Mi scuso», «Mi arrendo» o «Vi dichiaro marito e moglie»). Poiché l’uomo è una creatura sociale, la nascita e la morte non sono mai semplici eventi biologici. Ci vuole un grande lavoro per trasformare un neonato in un individuo con un nome, una relazione sociale (madre, padre…) e una casa, per farlo diventare una persona verso la quale gli altri hanno responsabilità e che a sua volta, un giorno, avrà responsabilità verso gli altri. Normalmente, tale lavoro si svolge attraverso rituali. Questi,
come si osserva in antropologia, possono variare molto nella forma e nel contenuto: possono prevedere battesimi, cresime, fumigazioni, tagli di capelli, isolamenti, dichiarazioni, incantesimi, oggetti rituali da costruire, sventolare, bruciare o seppellire. La morte è ancora più complicata perché le relazioni sociali che l’individuo ha costruito in vita devono essere gradualmente recise e ricomposte. Spesso ci vogliono anni, ripetute sepolture (e addirittura reinumazioni), ossa bruciate, sbiancate e spostate, banchetti e cerimonie prima che qualcuno sia considerato definitivamente morto. In molte delle società di oggi non sempre questi rituali vengono espletati, ma sono proprio i documenti cartacei, più di qualsiasi altra forma di rituale, a garantire questo livello di efficacia sociale e a produrre effettivamente il cambiamento. Mia madre, per esempio, aveva chiesto di essere cremata senza alcuna cerimonia; io però mi ricordo soprattutto l’impiegato paffuto e cordiale delle pompe funebri e il documento di quattordici pagine che dovette compilare per chiedere il certificato di morte, scritto a penna su carta carbone per produrlo in triplice copia. «Quante ore al giorno passa a riempire moduli come questi?» gli chiesi. «Non faccio altro» sospirò, tenendosi la mano fasciata per una forma incipiente di sindrome del tunnel carpale. Era obbligato. Senza quei moduli, né mia madre né nessuna delle persone cremate dalla sua agenzia sarebbero state legalmente – e dunque socialmente – morte. Perché allora, mi chiedevo, non ci sono grandi tomi etnografici sui riti di passaggio americani o britannici con lunghi capitoli dedicati ai moduli e alle scartoffie? La risposta è ovvia. Le scartoffie sono noiose. Si possono descrivere i rituali collegati a esse. Si può osservare il modo in cui le persone ne parlano e reagiscono. Ma quando si arriva ai documenti in sé, semplicemente non ci sono cose interessanti da dire. Com’è impaginato il modulo? Qual è la combinazione dei colori? Perché si è scelto di richiedere certe informazioni e non altre? Perché il luogo di nascita e non, per esempio, dove si è frequentata la scuola elementare? Perché è così importante la firma? Ma poi anche il commentatore più fantasioso si ritrova a corto di domande. In realtà, si potrebbe andare più a fondo. Le scartoffie devono essere noiose. E lo diventano sempre di più. Le carte medievali erano quasi sempre bellissime, piene di caratteri calligrafici e abbellimenti araldici. Alcuni di questi elementi
c’erano ancora nel XIX secolo: ho una copia del certificato di nascita di mio nonno, rilasciato a Springfield, Illinois, nel 1958, ed è una pergamena piena di colori, caratteri gotici e cherubini (e interamente scritta in tedesco). Quello di mio padre, invece, rilasciato nel 1914 a Lawrence, Kansas, è monocromatico e del tutto spoglio, solo linee e caselle, anche se compilate con una bella scrittura fiorita. Il mio, rilasciato a New York nel 1961, non ha neanche quella: è scritto a macchina e timbrato e manca completamente di personalità. Le interfacce informatiche che si usano oggi per quasi tutti i documenti sono ancora più noiose. È come se ci fosse la volontà di spogliarli gradualmente di qualsiasi tratto vagamente profondo o lontanamente simbolico. Non c’è da sorprendersi che gli antropologi si disperino per questo. Siamo attirati dalle aree di densità. Gli strumenti interpretativi a nostra disposizione ci fanno orientare attraverso reti complesse di senso e significato: cerchiamo di interpretare complicati simbolismi rituali, drammi sociali, forme poetiche e reti di parentela. Tutti questi elementi sono accomunati dal fatto di essere infinitamente ricchi e, allo stesso tempo, aperti. Per esaurire tutti i possibili significati, le motivazioni o i collegamenti di un rito del raccolto romeno, o di un’accusa di stregoneria nella società zande, o di una saga familiare messicana ci vorrebbe una vita intera – o anche più di una, in realtà, a voler ricostruire l’intero ventaglio di relazioni con gli elementi sociali e simbolici che questo lavoro inevitabilmente porta alla luce. La documentazione cartacea, invece, è pensata per essere il più possibile semplice e chiusa. Anche quando si parla di moduli complessi (magari incredibilmente complessi), la complessità deriva da una stratificazione di elementi molto semplici ma apparentemente contraddittori, come un labirinto formato dalla giustapposizione infinita di due o tre motivi geometrici elementari. E, come un labirinto, la documentazione cartacea è chiusa in se stessa. Quindi non c’è molto da interpretare. Clifford Geertz è diventato famoso per la sua «descrizione densa» dei combattimenti dei galli a Bali: osservando ciò che succede in un singolo incontro, scrive, è possibile capire l’intera società balinese, dalla concezione della condizione umana, della società, della gerarchia e della natura ai dilemmi e alle passioni fondamentali dell’esistenza. Tutto questo semplicemente non si può fare con un modulo di richiesta di mutuo, per quanto «denso»; e anche se qualche temerario si mettesse a scrivere un’analisi del genere – magari solo per provare
che è possibile – difficilmente qualcuno vorrebbe leggerla. Si potrebbe obiettare che molti grandi narratori hanno scritto brillanti opere letterarie sulla burocrazia. È vero. Ma per farlo hanno dovuto calarsi nella stessa circolarità e vacuità – o, meglio, stupidità – della burocrazia, trasferendo sul piano letterario le stesse forme labirintiche e assurde. Ecco perché la grande letteratura in materia prende spesso la forma della commedia dell’orrore. Il paradigma è ovviamente Il processo di Franz Kafka (e anche Il castello), ma se ne possono citare molti altri: da Memorie trovate in una vasca da bagno di Stanislaw Lem, che ricalca in tutto e per tutto Kafka, a Il palazzo dei sogni di Ismail Kadare, da Tutti i nomi di José Saramago a qualsiasi opera che in qualche modo possiamo considerare figlia dello spirito burocratico, come gran parte della produzione di Italo Calvino e di Borges. Comma 22 di Joseph Heller, sulla burocrazia militare, e il seguente È successo qualcosa, sulla burocrazia nelle aziende, sono considerati moderni capolavori del genere, al pari dell’incompiuto Il re pallido di David Foster Wallace, una originale riflessione sulla noia ambientata nel Midwest in un ufficio dell’Internal Revenue Service, l’agenzia federale del fisco statunitense. La cosa interessante è che molte di queste opere letterarie, oltre a sottolineare l’assurdità grottesca della vita burocratica, aggiungono anche una sottile vena di violenza. In alcuni autori (Kafka e Heller, per esempio) questo aspetto è più evidente che in altri, ma comunque la violenza sembra sempre in agguato. Del resto, molta narrativa contemporanea che si occupa esplicitamente di violenza spesso si occupa anche di burocrazia: la maggior parte degli atti di violenza estrema o si svolgono in ambienti burocratici (eserciti, carceri…) o comunque sono al centro di procedure burocratiche (reati, arresti). I grandi scrittori, dunque, sanno come affrontare il vuoto. Lo abbracciano. Guardano negli occhi l’abisso e si lasciano guardare a loro volta. La teoria sociale, al contrario, aborre il vuoto, almeno a giudicare dal suo approccio alla burocrazia. La stupidità e la violenza sono proprio le cose di cui meno preferisce parlare. 3 La mancanza di critica stupisce in modo particolare perché si direbbe che il mondo accademico sia nella posizione più adatta per parlare delle assurdità della vita burocratica. Gli accademici, in fondo, sono anche (e sempre di più)
burocrati. Le «responsabilità amministrative» – partecipare ai consigli di dipartimento, compilare domande, scrivere e leggere lettere di raccomandazione, placare gli animi e i capricci dei presidi di facoltà – sono una parte sempre maggiore del lavoro accademico. Ma gli accademici sono burocrati riluttanti, nel senso che, anche quando il lavoro amministrativo diventa preponderante, viene sempre trattato come un’incombenza sgradita. Non è ciò per cui sono qualificati e certamente non definisce ciò che sono. 4 Sono degli studiosi: il loro lavoro è ricercare, analizzare e interpretare. Sempre più spesso, però, l’anima dello studioso è intrappolata in un corpo da burocrate. Teoricamente, la reazione di un accademico dovrebbe essere quella di ricercare, analizzare e interpretare questo stesso fenomeno: perché passiamo sempre più tempo in mezzo alle scartoffie? Qual è il significato ultimo dei documenti cartacei? Che dinamiche sociali ci sono dietro? Per qualche motivo, però, questo non succede mai. 5 Nella mia esperienza, quando i professori si incontrano al distributore dell’acqua (o l’equivalente universitario del distributore dell’acqua, che di solito è la macchinetta del caffè) difficilmente parlano del loro «vero» lavoro e passano quasi tutto il tempo a lamentarsi delle attività amministrative. E anche nei rari momenti in cui possono dedicarsi a pensieri profondi, questa sembra l’ultima delle loro preoccupazioni. Secondo me, però, c’è qualcosa di ancora più profondo, che riguarda la natura stessa delle università e del motivo per cui esistono. Prendiamo per esempio la straordinaria rilevanza di due teorici europei per la scienza sociale americana del dopoguerra: il sociologo tedesco Max Weber negli anni cinquanta e sessanta e lo storico e filosofo sociale francese Michel Foucault dagli anni sessanta in poi. Entrambi hanno avuto negli Stati Uniti un’egemonia intellettuale che non hanno mai avuto in patria. Che cosa li ha resi così rilevanti agli occhi del mondo accademico americano? Sicuramente la loro popolarità c’entra con il fatto che potevano essere facilmente letti in chiave antimarxista: le loro teorie sono state citate (spesso in forma brutalmente semplificata) per sostenere che il potere non è soltanto o soprattutto una questione di controllo dei mezzi di produzione, ma è un tratto diffuso, sfaccettato e inevitabile di qualsiasi realtà sociale. Ma secondo me il loro successo c’entra soprattutto con il loro atteggiamento
verso la burocrazia. A volte sembra quasi che nel XX secolo Weber e Foucault siano stati gli unici uomini di intelletto a credere che il potere della burocrazia si fondi sulla sua efficacia. Ovvero, che la burocrazia funzioni. Per Weber, le forme di organizzazione burocratica sono l’incarnazione stessa della Ragione nelle cose umane, e sono talmente superiori a qualsiasi forma di organizzazione alternativa che minacciano di assorbire tutto, rinchiudendo l’umanità in una triste «gabbia di ferro» priva di qualsiasi spirito e carisma. Foucault è più sovversivo, ma è sovversivo nel senso che attribuisce al potere burocratico ancora più efficacia. Nelle sue opere su manicomi, cliniche, carceri ecc., ogni aspetto della vita umana – la salute, la sessualità, il lavoro, la morale, la stessa concezione della verità – non esiste in sé e per sé, ma è il mero prodotto di una qualche forma del discorso professionale o amministrativo. Attraverso concetti come governamentalità e biopotere, Foucault sostiene che le burocrazie statali finiscono per dare forma ai parametri dell’esistenza umana a un livello molto più intimo di quanto Weber abbia mai immaginato. Per Foucault, tutte le forme di conoscenza diventano forme di potere, e plasmano le nostre menti e i nostri corpi con mezzi in gran parte amministrativi. È difficile sfuggire al sospetto che la popolarità di Weber e Foucault sia dovuta soprattutto al fatto che in quegli anni il sistema universitario americano stava diventando a sua volta un’istituzione preposta alla creazione di funzionari di un apparato amministrativo imperiale operante su scala mondiale. Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, mentre gli Stati Uniti si apprestavano a mettere in piedi il loro apparato amministrativo globale, tutto questo era molto esplicito. Sociologi come Talcott Parsons e Edward Shils 6 erano parte integrante dell’establishment della Guerra fredda a Harvard, e la loro versione ridotta all’osso della teoria di Weber fu ulteriormente sintetizzata e adottata come «teoria dello sviluppo» dai funzionari del Dipartimento di stato e della Banca mondiale, che la proposero come un’alternativa al materialismo storico marxista sul campo di battaglia dei paesi del Sud del mondo. All’epoca, anche antropologi come Margaret Mead, Ruth Benedict e Clifford Geertz non si facevano scrupoli a collaborare con i servizi segreti militari o con la Cia. 7 Tutto cambiò con la Guerra del Vietnam. Durante le mobilitazioni dei campus americani contro la guerra queste complicità vennero alla luce, e Parsons (e con lui Weber) finì per essere considerato come
l’incarnazione di tutto ciò che i radicali rifiutavano. Con Weber ormai detronizzato, all’inizio non era chiaro chi avrebbe potuto prenderne il posto. Per un po’ ci fu grande interesse per il marxismo tedesco: Adorno, Benjamin, Marcuse, Lukács, Fromm. Poi l’attenzione si spostò sulla Francia, dove la rivolta del maggio ’68 portò a una fioritura di teorie sociali molto creative (in Francia chiamate semplicemente «pensiero del ’68») in cui l’anima radicale si combinava con l’ostilità verso tutte le manifestazioni riconducibili alla sinistra politica tradizionale, dall’organizzazione sindacale all’insurrezionalismo. 8 Diversi teorici entrarono in auge e passarono di moda, ma a partire dagli anni ottanta Foucault riuscì ad affermarsi come nessuno (neanche Weber) prima o dopo di lui, almeno nell’ambito di quelle discipline che si consideravano in qualche modo antagoniste. In definitiva, potremmo parlare di una sorta di divisione del lavoro intellettuale all’interno del sistema di istruzione superiore americano, con la rielaborazione (in forma ancora più semplificata) degli aspetti più ottimistici della teoria di Weber sotto il nome di «teoria della scelta razionale», destinata alla formazione dei burocrati, e gli aspetti più pessimistici relegati ai foucaultiani. L’egemonia di Foucault, a sua volta, si manifestava proprio in quei settori del mondo accademico che attiravano gli ex radicali dei campus universitari o chi si identificava con loro. Queste discipline erano quasi completamente scollate dal potere politico, e spesso non avevano alcuna influenza neanche sui movimenti sociali – una distanza che dava un fascino particolare alla riflessione foucaultiana sul nesso «potere-conoscenza», l’idea cioè che le forme di conoscenza sono sempre anche forme di potere sociale; anzi, le forme più importanti di potere sociale. Mi rendo conto che questo mio sunto storico in versione tascabile suona inevitabilmente un po’ scorretto e caricaturale. Credo però che contenga una verità di fondo. Non solo noi accademici siamo attirati dalle aree di densità, dove le nostre capacità di interpretazione si esprimono al meglio: tendiamo sempre di più a far coincidere ciò che è interessante con ciò che è importante, e a dare per scontato che i luoghi di densità siano anche luoghi di potere. Il potere della burocrazia dimostra che in molti casi è vero esattamente il contrario. Ma questo capitolo non parla soltanto – o principalmente – di burocrazia.
Parla principalmente di violenza. Voglio dire che le situazioni determinate dalla violenza (in particolare la violenza strutturale, ovvero le forme di ineguaglianza sociale diffusa che vengono sempre accompagnate dalla minaccia di danni fisici) tendono inevitabilmente a generare anche quella tipica, ostinata ottusità che di solito associamo alle procedure burocratiche. In parole povere: il punto non è che le procedure burocratiche sono intrinsecamente stupide o che tendono a provocare comportamenti che esse stesse definiscono stupidi (anche se indubbiamente è così); il punto è che sono sempre un modo per gestire situazioni sociali già stupide a monte, perché fondate sulla violenza strutturale. Questo approccio, credo, può dirci molto su quanto la burocrazia sia arrivata a permeare ogni aspetto della nostra vita e sul perché non ce ne accorgiamo. Ammetto che questa insistenza sulla violenza può sembrare strana. Non siamo abituati a considerare le case di cura, le banche o anche le assicurazioni sanitarie come istituzioni violente, se non nel senso più astratto e metaforico. Ma la violenza a cui mi riferisco in questo caso non è astratta. Non sto parlando di violenza concettuale. Sto parlando di violenza in senso letterale: quella, per intenderci, di quando uno prende a randellate un altro. Tutte le istituzioni che abbiamo citato si occupano dell’allocazione di risorse all’interno di un sistema di diritti di proprietà regolati e garantiti dagli stati in un’architettura che, in ultima analisi, si fonda sulla minaccia dell’uso della forza. «Forza», a sua volta, è un eufemismo per violenza: la capacità, cioè, di chiamare individui in divisa disposti a minacciare di prendere a randellate il prossimo. La cosa curiosa è che raramente i cittadini delle democrazie industriali riflettono su questo aspetto; anzi, istintivamente ne sottovalutano l’importanza. Per esempio, gli studenti universitari sono capaci di passare giorni e giorni in biblioteca a studiare trattati teoretici di ispirazione foucaultiana sul calo dell’importanza della coercizione come fattore nella vita moderna senza mai pensare che, se per caso rivendicassero il diritto di entrare in biblioteca senza mostrare un documento d’identità regolarmente stampato e autorizzato, degli uomini armati verrebbero chiamati ad allontanarli con la forza. La sensazione è che più permettiamo agli aspetti della nostra esistenza quotidiana di entrare nella sfera d’influenza delle normative burocratiche, più ci rendiamo complici nel sottovalutare il dato di fatto (del tutto ovvio per chi gestisce il sistema) che
in fondo tutto si basa sulla minaccia della violenza fisica. In realtà, l’uso stesso dell’espressione «violenza strutturale» è un esempio calzante. Quando ho cominciato a scrivere questo capitolo ho dato semplicemente per scontato che l’espressione si riferisse alla violenza che opera in forma indiretta. Prendiamo per esempio una ipotetica tribù guerriera (chiamiamoli Alfa) che viene dal deserto e conquista un pezzo di terra abitato da un gruppo di pacifici agricoltori (li chiameremo Omega). Anziché imporre dei tributi, confiscano tutta la terra coltivabile e fanno in modo che i loro figli abbiano un accesso privilegiato a tutte le forme di educazione pratica. Poi fondano una religione che stabilisce che gli Alfa sono esseri intrinsecamente superiori, più raffinati, più belli e più intelligenti e che gli Omega, ormai ridotti in schiavitù, sono stati maledetti da dio per un terribile peccato originale e sono diventati stupidi, brutti e rozzi. E forse, a questo punto, gli Omega interiorizzano la loro disgrazia e cominciano a comportarsi come se fossero davvero colpevoli. In un certo senso, magari, lo pensano davvero. Ma, a un livello più profondo, non ha senso chiedersi se si sentano colpevoli o no. L’intero sistema è frutto della violenza e si tiene in piedi soltanto grazie alla minaccia continua della violenza. Gli Omega sono perfettamente consapevoli che se provassero a mettere in discussione i diritti di proprietà o il sistema di accesso all’istruzione verrebbero sguainate le spade e quasi certamente rotolerebbero delle teste. In casi come questi, ciò che definiamo in termini di «credo» non è altro che l’espediente psicologico che le vittime sviluppano per adattarsi alla realtà. Non abbiamo idea di come si comporterebbero o di che cosa penserebbero se per caso gli Alfa perdessero il controllo dei mezzi di imposizione della violenza. Era a questo che mi riferivo quando parlavo di «violenza strutturale»: a tutte quelle strutture, cioè, che possono essere create e tenute in piedi solo dalla minaccia della violenza, anche se la violenza fisica non è materialmente necessaria per il loro normale funzionamento quotidiano. Riflettendoci, lo stesso si può dire di molti fenomeni definiti di «violenza strutturale» in letteratura (razzismo, sessismo, privilegio di classe), anche se la loro modalità di funzionamento è infinitamente più complessa. Probabilmente sono stato influenzato dalla letteratura femminista, che spesso descrive la violenza strutturale in questi termini. 9 È stato osservato,
per esempio, che le percentuali delle aggressioni a sfondo sessuale aumentano vertiginosamente proprio nel momento in cui le donne cominciano a mettere in discussione le «norme di genere» sul lavoro, sulla condotta o sul modo di vestire. È praticamente lo stesso meccanismo dei conquistatori che rimettono mano alle spade. La maggioranza degli accademici, tuttavia, non usa l’espressione in questi termini. L’accezione attuale risale in realtà agli «studi per la pace» degli anni sessanta e si usa in riferimento alle «strutture» che, si dice, producono gli stessi effetti della violenza, anche se non prevedono necessariamente atti fisici di violenza. 10 L’elenco delle strutture è più o meno lo stesso (razzismo, sessismo, povertà ecc.), ma il sottinteso è che può esistere, per esempio, un sistema patriarcale in grado di operare senza ricorrere alla violenza domestica o all’aggressione a sfondo sessuale, oppure un sistema razzista non legato al rispetto dei diritti di proprietà garantito dallo stato (anche se, per quanto ne so, non esistono esempi empirici né dell’uno né dell’altro). 11 Ancora una volta, non si capisce perché portare avanti una tesi del genere, a meno che, per qualche motivo, non si voglia sostenere che la violenza fisica non è l’elemento essenziale e che non è di quella che bisogna occuparsi. Porre direttamente la questione della violenza, evidentemente, aprirebbe una serie di porte che molti accademici preferiscono tenere chiuse. Molte di queste porte si aprono sul problema di quello che chiamiamo «lo stato» e sulle strutture burocratiche attraverso le quali esso esercita concretamente il potere. Il problema è la rivendicazione del monopolio della violenza da parte dello stato? Oppure lo stato è un elemento fondamentale di ogni possibile soluzione? È la pratica stessa di stabilire regole e di minacciare di danni fisici chiunque non le rispetti a essere discutibile? Oppure sono le autorità a non esercitare queste minacce nel modo giusto? Parlare di razzismo, sessismo ecc. come di strutture astratte che galleggiano nel vuoto è il modo migliore di evitare queste domande. In molte comunità rurali studiate dagli antropologi, le tecniche amministrative moderne vengono esplicitamente viste come imposizioni incomprensibili, e la situazione ricorda molto il precedente esempio degli Alfa e degli Omega. Di solito abbiamo a che fare con popolazioni conquistate, e dunque con soggetti fortemente consapevoli che lo stato di fatto attuale è frutto di violenza. Alla
luce di ciò, a nessuno verrebbe mai in mente di negare che il governo è un’istituzione fondamentalmente coercitiva – anche se qualcuno magari concederà che, sotto certi aspetti, può anche essere benevola. Nelle zone del Madagascar rurale in cui ho svolto il mio lavoro sul campo, per esempio, tutti davano per scontato che gli stati operassero principalmente incutendo paura. Questo valeva sia per i vecchi regni malgasci sia per il successivo regime coloniale francese, e anche per il regime malgascio contemporaneo che ne aveva preso il posto ed era sostanzialmente considerato una versione riveduta e corretta di quello vecchio. D’altra parte, questa paura era un fenomeno decisamente sporadico, perché in realtà lo stato o i suoi rappresentanti non si facevano vedere quasi mai. Il governo non si occupava di regolamentare le minuzie della vita quotidiana: non c’erano norme edilizie, non c’erano leggi sul divieto di bere in pubblico, non c’erano autorizzazione e assicurazione obbligatoria per i veicoli, non c’erano regole che stabilivano chi poteva comprare, vendere, fumare, costruire, mangiare e bere che cosa, dove si poteva ascoltare musica o custodire gli animali. O comunque, se c’erano, nessuno lo sapeva perché non venivano mai fatte rispettare, nemmeno dalla polizia, nemmeno nelle città e tantomeno nelle campagne, dove queste faccende erano disciplinate dai costumi, dalle delibere delle assemblee comuni o dai tabù magici. In questo contesto era ancora più evidente che il principale interesse della burocrazia statale era la denuncia delle proprietà tassabili e il mantenimento dell’infrastruttura che permetteva a chi riscuoteva le imposte di presentarsi e portare via il bottino. Questa situazione, in realtà, poneva alcuni dilemmi interessanti per il mio lavoro. Avevo già fatto parecchie ricerche negli archivi nazionali del Madagascar prima di partire per la campagna. Nel XIX secolo il regno Merina aveva fatto arrivare alcuni missionari stranieri per formare i dipendenti pubblici; i registri erano ancora tutti lì, e c’erano anche quelli del regime coloniale. Per il periodo che andava dal 1875 al 1950, quindi, avevo dati in abbondanza sulla comunità che stavo studiando: censimenti, registri scolastici e soprattutto dati precisi sulle dimensioni di ogni famiglia e dei rispettivi possedimenti in terra e in bestiame (e, nel periodo precedente, anche schiavi). Una volta arrivato in campagna, però, scoprii che quelle erano esattamente le cose che la gente si aspettava di sentirsi chiedere da un estraneo che veniva
dalla capitale, e quindi erano anche quelle che avevano meno voglia di raccontare. Volevano parlare di tutt’altro. Perciò avevo dati quasi completamente diversi per il periodo storico considerato. Conoscendo meglio le persone, mi ero reso conto che non solo lo stato non si occupava di disciplinare la vita quotidiana, ma che sotto molti aspetti non faceva niente. Nella storia del Madagascar il potere statale tende a procedere per alti e bassi, e quella era sicuramente una fase di bassi. Ovviamente c’erano uffici pubblici con impiegati che battevano a macchina e archiviavano, ma era quasi tutto per finta: venivano pagati poco e niente, non avevano nemmeno il materiale di cancelleria (dovevano comprarsi la carta da soli), mentivano sulla dichiarazione dei redditi e non pagavano le tasse. La polizia si limitava a pattugliare l’autostrada e in campagna non si faceva mai vedere. Eppure tutti parlavano del governo come se effettivamente ci fosse, sperando che gli esterni non se ne accorgessero, perché in tal caso qualcuno, in qualche ufficio della capitale, avrebbe potuto decidere di prendere in mano la situazione. Da un lato, quindi, il potere burocratico non aveva praticamente alcun effetto sulla gente. Dall’altro permeava tutto. In parte ciò era dovuto all’impatto iniziale della conquista di un secolo prima. Al tempo molti abitanti del regno Merina erano proprietari di schiavi, e facevano parte di un grande regno. Una cosa importante da ricordare sulla schiavitù è che non viene mai considerata – davvero da nessuno – come una relazione di tipo morale, ma come il semplice esercizio di un potere arbitrario: il padrone può ordinare allo schiavo di fare tutto ciò che vuole, e lo schiavo non può farci nulla. 12 Nel 1895, quando i francesi rovesciarono il regno Merina e conquistarono il Madagascar, abolirono immediatamente la schiavitù e istituirono a loro volta un governo che non faceva nemmeno finta di essere legittimato da un contratto sociale o dalla volontà dei governati, ma si basava semplicemente sulla superiorità delle armi. Com’era prevedibile, molti malgasci ritennero di essere stati sostanzialmente ridotti in schiavitù. Tutto ciò ebbe un effetto profondo sul modo in cui le persone si relazionavano tra loro. Qualsiasi relazione di comando – ovvero qualsiasi relazione in corso tra adulti laddove una parte rende l’altra una mera estensione della propria volontà – era considerata moralmente discutibile, di fatto una versione riveduta e corretta della schiavitù o dello stato. La gente del Madagascar non si comportava in
questo modo. Perciò, anche se il governo del Madagascar era lontano, la sua ombra era dappertutto. Nella comunità che studiavo, queste cose venivano spesso alla luce quando si parlava delle grandi famiglie schiaviste del XIX secolo, i cui rampolli erano diventati il nucleo della classe dirigente dell’età coloniale, soprattutto (come veniva sempre sottolineato) grazie alla devozione allo studio e alla capacità di districarsi tra le scartoffie, e i cui discendenti lavoravano ancora quasi tutti negli eleganti uffici della capitale, lontani dalle preoccupazioni e dalle responsabilità della vita rurale. In altri ambiti le relazioni di comando, soprattutto negli ambienti burocratici, erano linguisticamente codificate e strettamente associate al francese. Il malgascio, invece, era considerata la lingua più appropriata per deliberare, spiegare e prendere decisioni a maggioranza. I funzionari minori, quando volevano imporre decisioni arbitrarie, passavano quasi inevitabilmente al francese. Mi ricordo che una volta in cui un affabile funzionario minore con cui avevo parlato tante volte in malgascio si era innervosito perché mi ero presentato nel momento esatto in cui tutti avevano deciso di andare a casa per guardare una partita di calcio (come ho già detto, in realtà negli uffici pubblici non si fa niente). «L’ufficio è chiuso» mi disse, in francese, assumendo una posa insolitamente impettita e formale. «Se ha delle pratiche da svolgere in ufficio deve tornare domani alle otto.» Ero confuso. Sapeva che la mia lingua madre era l’inglese; sapeva che parlavo correntemente il malgascio; non poteva sapere se conoscevo il francese o no. Finsi di non capire e risposi in malgascio: «Prego? Scusi, non la capisco». Si mise ancora più impettito e ripeté la stessa formula, stavolta più lentamente e a voce più alta. Di nuovo finsi di non capire. «Non capisco» dissi «perché mi sta parlando in una lingua che neanche conosco?» Per la terza volta ripeté il messaggio. Di fatto era incapace di ripetere la frase in vernacolo o di aggiungere qualsiasi altra cosa in malgascio. Il motivo, pensai, era che se fosse passato alla lingua di tutti i giorni non si sarebbe sentito in diritto di essere così perentorio. Qualche tempo dopo ebbi la conferma che era proprio così: se avesse parlato in malgascio avrebbe dovuto quantomeno spiegare perché l’ufficio era chiuso in un orario così insolito. Nel malgascio letterario, il francese viene definito ny
teny baiko, «la lingua del comando». Il francese era tipico dei contesti in cui non era prevista alcuna spiegazione o delibera né, in fin dei conti, alcuna approvazione, perché la premessa era quella di un accesso ineguale alla pura forza fisica. Nel mio caso, i mezzi per esercitare concretamente quella forza non c’erano più. Il funzionario non poteva chiamare la polizia e non voleva nemmeno chiamarla: voleva soltanto che me ne andassi, come puntualmente feci dopo averlo tormentato un po’ con i miei giochi linguistici. Ma non avrebbe potuto nemmeno assumere l’atteggiamento che quel potere presupponeva senza evocare l’ombra dello stato coloniale. In Madagascar, il potere burocratico si riscattava in qualche modo agli occhi della gente perché si legava all’istruzione, che godeva di una considerazione quasi universale. Entrare nel mondo del governo, dei bureau e delle gendarmerie voleva dire entrare nel mondo dei romanzi, della storia del mondo, della tecnologia e dei viaggi all’estero. Non era, quindi, qualcosa di irrimediabilmente sbagliato o intrinsecamente assurdo. Ma lo stato del Madagascar non era particolarmente violento. L’analisi comparata dice che esiste una relazione diretta tra il livello di violenza all’interno di un sistema burocratico e il livello di assurdità e ignoranza che produce agli occhi dei cittadini. Keith Breckenridge, per esempio, ha documentato diffusamente i regimi del «potere senza conoscenza» tipici del Sudafrica coloniale, 13 dove la coercizione e l’uso della documentazione cartacea sostituivano regolarmente l’esigenza di comprendere i temi africani. Il passaggio all’apartheid negli anni cinquanta, per esempio, fu anticipato da un sistema di pass pensato per semplificare le regole preesistenti, che obbligavano i lavoratori africani a portarsi dietro l’intera documentazione contrattuale del rapporto di lavoro: fu introdotto un unico libretto di identità, contrassegnato con «nome, località, impronte digitali, status fiscale e il riconoscimento ufficiale del “diritto” di vivere e lavorare nei paesi e nelle città» e nient’altro. 14 I funzionari del governo apprezzavano il nuovo sistema perché snelliva le procedure amministrative, e la polizia perché sollevava gli agenti dal dover parlare con i lavoratori africani. Questi ultimi, da parte loro, avevano ribattezzato il nuovo documento dompass o «pass stupido» proprio per quel motivo. Il brillante studio etnografico di Andrew Mathews sul servizio forestale
messicano nell’Oaxaca dimostra a sua volta che è proprio la totale disparità di potere tra funzionari dello stato e agricoltori locali che permette alle guardie forestali di restare sospese in una sorta di bolla ideologica e di conservare (per esempio) idee manichee sugli incendi. Il risultato è che le guardie forestali sono ormai le uniche in Oaxaca a non capire gli effetti pratici delle loro normative. 15 Ci sono tracce del collegamento tra coercizione e assurdità anche nel modo in cui la lingua inglese descrive la burocrazia: per esempio, molti termini colloquiali che si riferiscono in modo specifico alla stupidità burocratica – Snafu (Situation Normal, All Fucked Up, «situazione normale, tutto a puttane»), Comma 22 ecc. – derivano dal gergo militare. Più in generale, i politologi riscontrano da tempo una «correlazione negativa», come dice David Apter, 16 tra coercizione e informazione: vale a dire che, mentre i regimi relativamente democratici tendono ad avere una sovrabbondanza di informazioni, con un bombardamento di spiegazioni e richieste rivolte alle autorità politiche, più un regime diventa autoritario e repressivo meno i cittadini hanno interesse a informarlo: ecco perché questi regimi tendono molto spesso ad affidarsi a spie, servizi di intelligence e polizie segrete. Ovviamente, è proprio la capacità di imporre con la violenza decisioni arbitrarie, e dunque di evitare i dibattiti, i chiarimenti e i negoziati tipici delle relazioni sociali più egualitarie, a far sì che le vittime vedano come stupide o irragionevoli le procedure create su basi violente. La maggior parte delle persone è in grado di ricavare un’impressione superficiale di ciò che pensano o provano gli altri anche solo osservando il tono della voce o il linguaggio del corpo. Di solito non è difficile farsi un’idea delle intenzioni e delle motivazioni immediate delle persone, ma andare oltre questo livello superficiale spesso richiede un grande sforzo. Buona parte della vita lavorativa o sociale quotidiana, in effetti, consiste nel provare a decifrare le motivazioni e le percezioni degli altri. Lo chiameremo «sforzo interpretativo». Possiamo dire che chi fa leva sulla minaccia dell’uso della forza non è obbligato a fare un grande sforzo interpretativo, e quindi, in genere, non lo fa. Da antropologo, so di camminare su un campo minato. Quando si occupano di violenza, gli antropologi tendono a sottolineare esattamente l’aspetto opposto: ovvero il modo in cui gli atti di violenza riescono a essere significativi
e comunicativi, e addirittura ad avvicinarsi alla poesia. 17 Chiunque provi a dire il contrario viene accusato all’istante di essere un filisteo: «Stai dicendo veramente che la violenza non è simbolicamente potente, che proiettili e bombe non vogliono comunicare qualcosa?». Quindi, per la cronaca, no, non sto dicendo questo. Sto dicendo che forse questa non è la domanda più importante. Prima di tutto, perché parte dal presupposto che la parola «violenza» si riferisca principalmente agli atti concreti di violenza – spintoni, pestaggi, pugnalate o esplosioni – anziché alla minaccia della violenza e alle relazioni sociali che questa minaccia onnipresente rende possibili. 18 Secondo, perché questa è una materia in cui gli antropologi, e più in generale gli accademici, spesso sono vittime della confusione tra profondità interpretativa e rilevanza sociale. Vale a dire che partono dal presupposto che gli aspetti più interessanti della violenza siano anche i più importanti. Affrontiamo questi punti uno alla volta. È corretto dire che gli atti di violenza sono, generalmente parlando, atti comunicativi? Certo. Ma ciò vale per qualsiasi forma di azione umana. L’aspetto che più mi colpisce, e che secondo me è davvero importante, è che la violenza è forse l’unica forma di azione potenzialmente capace di produrre effetti sociali senza essere comunicativa. Per essere più precisi: la violenza è forse l’unico modo attraverso il quale una persona è in grado di fare qualcosa che avrà effetti relativamente prevedibili sulle azioni di un’altra della quale non capisce nulla. Di norma, per provare a influenzare le azioni di altre persone bisogna almeno avere un’idea di chi siano, di chi siamo noi per loro, di che cosa possano volere nella situazione data, delle loro avversioni e inclinazioni e così via. Basta una botta in testa, e tutto questo diventa irrilevante. È vero che gli effetti che si possono produrre rendendo invalido o uccidendo qualcuno sono molto limitati. Ma sono reali e, soprattutto, è possibile sapere in anticipo quali saranno. Qualsiasi forma di azione alternativa non può avere effetti prevedibili senza fare appello a intese o significati condivisi. Anche i tentativi di influenzare gli altri con la minaccia della violenza richiedono una qualche forma di intesa condivisa, ma spesso queste intese sono minime. Gran parte delle relazioni umane – specie quelle correnti, o tra amici o tra nemici di lunga data – sono estremamente complicate, gravide di storia e di significati. Per portarle avanti serve uno sforzo costante e spesso sottile di immaginazione,
in cui si cerca continuamente di vedere il mondo con gli occhi dell’altro. È quello che prima ho definito «sforzo interpretativo». Minacciare l’altro di danni fisici permette di superare tutto questo. Rende possibili relazioni molto più semplici e schematiche («Supera questa linea e ti sparo», «Un’altra parola e finite tutti in galera»). Ecco perché la violenza è spesso l’arma preferita dagli stupidi. Potremmo anzi chiamarla la carta vincente degli stupidi, perché (e questa è sicuramente una delle tragedie dell’esistenza umana) è l’unica forma di stupidità alla quale è molto difficile dare una risposta intelligente. A questo punto va fatta una precisazione importante. Tutto si basa sui rapporti di forza. Se due contendenti si affrontano in uno scontro violento ad armi relativamente pari – per esempio, due generali al comando di due eserciti nemici – hanno ottimi motivi per cercare di entrare l’uno nella testa dell’altro. È solo quando una parte ha un vantaggio schiacciante sull’altra che questo bisogno viene meno. Tutto ciò ha implicazioni molto profonde, perché significa che l’effetto più caratteristico della violenza, ossia la capacità di ovviare alla necessità dello «sforzo interpretativo», diventa più saliente quando la violenza è meno visibile, quando cioè gli atti di violenza più eclatanti hanno meno probabilità di verificarsi. Sono le situazioni che ho appena definito di violenza strutturale, dove ci sono disparità sistematiche perpetuate e consolidate dalla minaccia dell’uso della forza. Proprio per questo, le situazioni di violenza strutturale producono sempre strutture di identificazione immaginativa estremamente sbilanciate. Tali effetti di solito sono più visibili quando le strutture della disuguaglianza assumono le forme più profondamente internalizzate. Ancora una volta, il genere è un esempio calzante. Nelle sit-com americane degli anni cinquanta c’era una costante: le battute sull’impossibilità di capire le donne. Le battute (recitate ovviamente dagli uomini) rappresentavano sempre la logica femminile come fondamentalmente aliena e incomprensibile. «Bisogna amarle per forza» era il messaggio «ma chi è che capisce davvero come ragionano queste creature?» Non si aveva mai l’impressione, invece, che le donne avessero problemi a capire gli uomini. Il motivo è chiaro. Le donne non avevano scelta: dovevano capirli per forza. In America, gli anni cinquanta sono stati l’età dell’oro di un certo ideale di famiglia patriarcale monoreddito, e tra le fasce più ricche della popolazione questo ideale spesso corrispondeva alla realtà. Le
donne che non avevano redditi o risorse proprie non avevano altra scelta che impiegare buona parte del tempo e delle energie a capire che cosa avessero in testa i loro mariti. 19 La retorica sui misteri del genere femminile sembra un tratto immutabile di queste strutture patriarcali. Di solito si accompagna con l’idea che, anche se illogiche e inspiegabili, le donne siano comunque depositarie di una saggezza misteriosa, quasi mistica («l’intuito femminile»), inaccessibile agli uomini. Ovviamente questi schemi si ripetono in tutte le relazioni caratterizzate da estrema disuguaglianza: i contadini, per esempio, vengono sempre rappresentati come dei sempliciotti che, chissà perché, possiedono anche una saggezza mistica. Generazioni di narratrici – il pensiero va immediatamente alla Virginia Woolf di Gita al faro – hanno raccontato l’altra faccia della medaglia: gli sforzi continui che le donne facevano per controllare, preservare e correggere l’ego di uomini ignari e presuntuosi attraverso un lavoro continuo di identificazione immaginativa o sforzo interpretativo. Questo lavoro avviene a tutti i livelli. Le donne, in ogni luogo, sono sempre chiamate a domandarsi qual è la situazione agli occhi degli uomini. Agli uomini non si chiede mai di fare lo stesso con le donne. Tale modello è talmente interiorizzato che molti uomini, quando viene loro suggerito che potrebbero comportarsi diversamente da come fanno, reagiscono all’indicazione come se fosse un atto di violenza. Un famoso esercizio di scrittura creativa nelle scuole americane consiste nel chiedere agli studenti di immaginare di cambiare sesso per un giorno e di provare a descrivere la loro giornata. I risultati sono sorprendentemente omogenei. Le ragazze scrivono temi lunghi e dettagliati, segno che hanno passato molto tempo a immaginare una situazione del genere. La maggior parte dei ragazzi, invece, si rifiuta addirittura di fare l’esercizio. E quei pochi che lo fanno mettono subito in chiaro che non hanno la minima idea di come sia stare nei panni di una ragazza e che considerano un affronto il fatto stesso di doverci pensare. 20 Nulla di ciò che sto dicendo suonerà particolarmente nuovo per chiunque abbia dimestichezza con la teoria femminista del punto di vista o con gli studi critici della razza. In effetti, queste mie riflessioni sono state ispirate da un passaggio di bell hooks:
Anche se negli Stati Uniti non c’è mai stato un organismo ufficiale di neri che si siano riuniti in quanto antropologi e/o etnografi per studiare la condizione dei bianchi, i neri, dalla schiavitù in poi, hanno condiviso nelle loro conversazioni un’altra «speciale» conoscenza della condizione bianca, maturata attraverso uno studio ravvicinato dei bianchi. Va considerata speciale perché non si tratta di una modalità di conoscenza compiutamente registrata in forma scritta; il suo scopo era aiutare i neri a cavarsela e a sopravvivere in una società caratterizzata dalla supremazia bianca. Per anni i servitori domestici neri che lavoravano nelle case dei bianchi si sono comportati come informatori che riportavano notizie alle comunità segregate: dettagli, fatti, letture psicoanalitiche dell’«Altro» bianco. 21 Se c’è un limite nella letteratura femminista, secondo me, è che paradossalmente è troppo generosa e tende a evidenziare la capacità di intuizione degli oppressi rispetto alla cecità o alla stupidità degli oppressori. 22 È possibile costruire una teoria generale dello sforzo interpretativo? Probabilmente dobbiamo cominciare con il riconoscere che ci sono due elementi cruciali che, benché collegati, vanno formalmente distinti. Il primo è il processo di identificazione immaginativa come forma di conoscenza, il fatto che, all’interno delle relazioni di dominio, è quasi sempre ai subordinati che spetta lo sforzo di capire come funzionano in concreto le relazioni in questione. Chiunque abbia lavorato nella cucina di un ristorante, per esempio, sa che se qualcosa va storto e arriva il padrone inferocito per capire che cosa sia successo, difficilmente farà un’indagine approfondita o darà credito alla versione dei lavoratori. Molto probabilmente dirà a tutti di stare zitti e farà una ricostruzione arbitraria che gli permetterà di giungere subito a una conclusione, per esempio: «Tu, Joe, non puoi fare un errore del genere; tu, Mark, sei nuovo, quindi devi aver sbagliato tu – se lo fai ancora sei licenziato». È a chi non ha il potere di assumere e licenziare che spetta il compito di capire veramente che cosa è successo e di fare in modo che non si ripeta. Di solito lo stesso succede nelle relazioni correnti: tutti sanno che i servi conoscono sempre molte cose sulle famiglie dei loro datori di lavoro, mentre non succede quasi mai il contrario.
Il secondo elemento è il modello risultante dall’identificazione simpatetica. Curiosamente, è stato Adam Smith, nella sua Teoria dei sentimenti morali, a osservare per primo il fenomeno che oggi descriviamo come compassion fatigue o «affaticamento da compassione». Gli esseri umani, sosteneva Smith, sono portati non solo a identificarsi mentalmente con i loro simili, ma anche, e spontaneamente, a viverne le gioie e i dolori. I poveri, tuttavia, versano in condizioni talmente disperate che un osservatore compassionevole se ne sente sopraffatto ed è portato, senza nemmeno accorgersene, a rimuovere completamente la loro esistenza. E così, mentre chi sta alla base della piramide sociale passa molto tempo a immaginare le prospettive (e a interessarsi sinceramente) di chi sta in cima, il contrario non accade quasi mai. Che riguardi servi e padroni, uomini e donne, datori di lavoro e dipendenti, ricchi e poveri, la disuguaglianza strutturale (quella che chiamo violenza strutturale) crea sempre strutture dell’immaginazione fortemente sbilanciate. Poiché ritengo che Smith avesse ragione a osservare che l’immaginazione va a braccetto con la compassione, la conseguenza è che le vittime della violenza strutturale tendono a interessarsi dei suoi beneficiari molto più di quanto essi si interessino di loro. Questa, dopo la violenza stessa, è probabilmente la forza più potente che tiene insieme tali relazioni. A questo punto possiamo tornare alla questione della burocrazia. Nelle società industrializzate contemporanee, la legittima amministrazione della violenza viene delegata a quella che viene eufemisticamente chiamata «applicazione della legge penale» e in particolare agli agenti di polizia. Dico «eufemisticamente» perché generazioni di sociologi hanno osservato che solo una piccolissima parte delle attività della polizia riguarda l’applicazione della legge penale o questioni penali di qualsiasi tipo. Gran parte di queste attività ha a che fare con gli aspetti normativi o, per essere un po’ più tecnici, con l’applicazione scientifica della forza fisica, o con la minaccia della forza fisica, per contribuire alla risoluzione di problemi amministrativi. 23 In altre parole, la polizia passa la maggior parte del tempo a far rispettare una serie infinita di norme e regole su chi può comprare, vendere, fumare, costruire, mangiare e bere che cosa e dove. Norme e regole che in posti come il Madagascar rurale o di provincia non esistono.
In parole povere, i poliziotti sono burocrati armati. Pensandoci bene, è un trucco veramente ingegnoso. Nella testa della maggior parte delle persone, infatti, la polizia non applica norme, ma combatte la criminalità. E quando diciamo «criminalità» pensiamo alla criminalità violenta. 24 Anche se, in realtà, la polizia fa esattamente il contrario: fa valere la minaccia della forza per avere la meglio in situazioni che altrimenti non c’entrerebbero nulla con la forza. Lo riscontro continuamente nelle discussioni pubbliche. Quando si vuole fare un esempio di una situazione in cui è coinvolta la polizia, si pensa sempre a un atto di violenza interpersonale: un’aggressione o una rapina. Basta riflettere un momento, però, per rendersi conto che, quando questi atti di violenza accadono nella realtà, anche in grandi città come Marsiglia, Montevideo o Minneapolis (violenza domestica, scontri tra bande rivali, risse tra ubriachi), la polizia non è coinvolta. La maggior parte delle volte la polizia viene chiamata solo se c’è un morto o se qualcuno è finito in ospedale. Ma questo succede unicamente perché nel momento in cui qualcuno chiama l’ambulanza ci sono anche delle carte da firmare: se bisogna fare delle medicazioni all’ospedale bisogna specificare la causa dell’infortunio, le circostanze diventano rilevanti, la polizia deve fare rapporto. Se poi c’è un morto, c’è un’infinità di carte da riempire, comprese le statistiche municipali. Quindi, le uniche zuffe in cui la polizia viene sicuramente coinvolta sono quelle da cui nasce qualche scartoffia. La maggior parte delle aggressioni e dei furti non viene nemmeno denunciata, a meno che non ci siano moduli dell’assicurazione da riempire o documenti persi che vanno duplicati, cosa che si può fare sporgendo denuncia. Per la maggior parte dei reati violenti la polizia non interviene. Provate invece a girare in auto senza targa per le strade di una di queste città. Sappiamo tutti che cosa succede in questi casi. Appaiono quasi istantaneamente degli agenti in divisa armati di manganelli, pistole, fucili e/o pistole elettriche, e se vi rifiutate di seguire le loro istruzioni quasi sicuramente useranno le maniere forti. Perché abbiamo le idee così confuse su quello che fa la polizia? La spiegazione più ovvia è che nella cultura popolare degli ultimi cinquant’anni i poliziotti sono diventati oggetto di una identificazione immaginativa quasi ossessiva. Siamo arrivati al punto che non è insolito per un cittadino di una
democrazia industrializzata contemporanea passare diverse ore al giorno a leggere libri, a vedere film o a guardare programmi tv che lo spingono a interpretare il mondo con gli occhi della polizia e a partecipare indirettamente ai suoi exploit. E, in effetti, questi poliziotti immaginari passano quasi tutto il tempo a combattere reati violenti o ad affrontarne le conseguenze. Se non altro, tutto ciò getta una strana luce sui famosi timori di Weber sulla gabbia di ferro: il pericolo che le società moderne sarebbero state talmente ben organizzate da tecnocrati senza volto che gli eroi carismatici, il fascino e il romanticismo sarebbero scomparsi del tutto. 25 In realtà, come abbiamo visto, anche le società burocratiche tendono a produrre i loro eroi carismatici. Dalla fine del XIX secolo, questi eroi hanno assunto le sembianze di mitici investigatori, agenti di polizia e spie – tutte figure, non a caso, che per mestiere operano proprio nella zona di confine tra le strutture burocratiche preposte all’ordinamento delle informazioni e l’applicazione materiale della violenza fisica. La burocrazia, del resto, esiste da migliaia di anni, e le società burocratiche, dai sumeri agli egizi alla Cina imperiale, hanno sempre prodotto grande letteratura. Il primato delle società nordatlantiche moderne è di aver creato un genere letterario in cui gli eroi sono burocrati che operano all’interno di un contesto burocratico. 26 La contemplazione del ruolo della polizia nella nostra società ci permette di trarre alcune conclusioni interessanti sulla teoria sociale. Ammetto che nel corso di questo capitolo non sono stato particolarmente tenero con gli accademici e con buona parte delle loro abitudini e inclinazioni. Non mi sorprenderebbe se qualcuno interpretasse quanto ho scritto come una denuncia della sostanziale inutilità della teoria sociale – fantasie velleitarie di una élite chiusa in se stessa che rifiuta di accettare la semplice realtà del potere. Ma non è affatto ciò che voglio dire. Anche questo capitolo è un esercizio di teoria sociale e, se non pensassi che esercizi come questi possano fare luce su questioni che altrimenti resterebbero oscure, non lo avrei scritto. Il punto è quale tipo di questioni, e a quale scopo. In questo senso, il raffronto tra conoscenza burocratica e teorica è illuminante. La conoscenza burocratica è una questione di schematizzazione. In pratica, avviare una procedura burocratica significa inevitabilmente ignorare le sottili sfumature dell’esistenza sociale reale e ridurre tutto a formule
meccaniche o statistiche prestabilite. Che si parli di moduli, regole, statistiche o questionari, è sempre una questione di semplificazione. Di solito, non siamo molto lontani dal concetto del padrone del ristorante che entra in cucina e decide arbitrariamente e su due piedi che cosa è andato storto: in entrambi i casi si applicano modelli preesistenti molto semplici a situazioni complesse e ambigue. Il risultato è che chi tratta con l’amministrazione burocratica spesso ha l’impressione di trovarsi davanti persone che per qualche motivo hanno deciso di mettersi un paio d’occhiali che permettono di vedere solo il 2 per cento della realtà. Sicuramente qualcosa di molto simile succede anche nella teoria sociale. Gli antropologi amano riempirsi la bocca di «descrizioni dense», ma in realtà una descrizione etnografica, anche se molto precisa, coglie nella migliore delle ipotesi solo il 2 per cento di quello che succede durante una faida Nuer o un combattimento di galli a Bali. Un lavoro teorico basato su descrizioni etnografiche tipicamente si concentrerà su una parte minuscola del fenomeno, estraendo uno o forse due filamenti da un tessuto complesso di interazioni umane e usandoli come base per fare delle generalizzazioni, per esempio sulle dinamiche del conflitto sociale, sulla natura della performance o sul principio di gerarchia. Non voglio dire che c’è qualcosa di sbagliato in questo lavoro di riduzione teorica. Al contrario, sono convinto che in parte sia un processo necessario se si vuole dire qualcosa di totalmente nuovo sul mondo. Prendiamo il ruolo dell’analisi strutturale, diventata famosa negli anni sessanta e settanta grazie al lavoro di antropologi come Claude Lévi-Strauss o classicisti come Paul Vernant. Oggi l’analisi strutturale è considerata completamente superata dalla moda accademica, e molti studenti di antropologia trovano alquanto ridicola l’intera opera di Lévi-Strauss. Secondo me è un peccato. Certo, quando lo strutturalismo si proponeva come un’unica grande teoria della natura del pensiero, del linguaggio e della società, capace di fornire la chiave di tutti i misteri della cultura umana, cadeva effettivamente nel ridicolo, ed è stato giustamente abbandonato. Ma l’analisi strutturale non era una teoria: era una tecnica. E sbarazzarsi anche di quella, come in gran parte è stato fatto, ci toglie uno degli strumenti più ingegnosi che abbiamo a disposizione. Il grande merito dell’analisi strutturale, infatti, è che ci offre una tecnica quasi infallibile per fare ciò che ogni buona teoria dovrebbe fare:
semplificare e schematizzare materiali complessi in modo da riuscire a dire qualcosa di inaspettato. Per inciso, è così che sono arrivato alla mia riflessione su Weber e gli eroi della burocrazia di qualche paragrafo fa. Tutto è nato da un esperimento per spiegare l’analisi strutturale agli studenti di un seminario a Yale. Il principio fondamentale dell’analisi strutturale, spiegavo, è che gli elementi di un sistema simbolico non esistono isolati: non sono pensati in termini di ciò che «rappresentano», ma sono definiti dalle loro relazioni reciproche. Per prima cosa va delimitato il campo, poi vanno ricercati gli elementi che all’interno di quel campo sono opposti sistematici l’uno dell’altro. Prendiamo i vampiri. Prima vanno collocati: i vampiri sono figure ricorrenti dei film dell’orrore americani. Questi costituiscono una specie di cosmologia, un universo a sé. Poi va posta la domanda: all’interno di tale cosmo, qual è il contrario di un vampiro? La risposta è ovvia. Il contrario di un vampiro è un licantropo. Da un certo punto di vista sono la stessa cosa: sono mostri che mordono e, mordendo, trasformano la vittima in uno dei loro. Da tutti gli altri punti di vista, però, sono l’uno l’esatto opposto dell’altro. I vampiri sono ricchi. Di solito sono aristocratici. I licantropi sono sempre poveri. I vampiri sono fermi nello spazio: hanno castelli o cripte dove devono ritirarsi durante il giorno; i licantropi sono quasi sempre dei derelitti senza dimora, viaggiatori, oppure in fuga. I vampiri controllano altre creature (pipistrelli, lupi, uomini e donne che ipnotizzano o riducono in schiavitù). I licantropi non controllano neanche se stessi. Eppure – ed è davvero il fattore decisivo in questo caso – entrambi possono essere annientati dalla loro rispettiva negazione: i vampiri da un paletto, un semplice bastone appuntito che i contadini usano per costruire le staccionate; i licantropi da una pallottola d’argento, un oggetto fatto letteralmente di denaro. Osservando questi assi di inversione, possiamo farci un’idea di che cosa rappresentino davvero tali simboli: che i vampiri, per esempio, non rappresentino necessariamente la morte o la paura, ma il potere, il senso di attrazione e repulsione che le relazioni di dominio tendono a creare. Ovviamente questo è un esempio molto semplice. Quello che ho descritto è solo il primo passo: normalmente c’è una serie di passi successivi molto più complicati – opposti degli opposti, termini di mediazione, livelli di estensione
gerarchica… Non c’è bisogno di approfondire in questa sede. Ciò che voglio dire è che spesso basta questo primo passo per scoprire qualcosa di inaspettato. È un modo di semplificare drasticamente la realtà che porta a intuizioni che quasi certamente sfuggirebbero se si provasse a decifrare il mondo in tutta la sua complessità. Ho fatto spesso questo esempio per spiegare l’analisi strutturale agli studenti, e loro lo hanno sempre apprezzato. Una volta ho proposto di provare tutti insieme a cimentarci con un’analisi su una figura analoga della cultura popolare, e qualcuno ha proposto James Bond. Mi sembrava una buona scelta: James Bond era chiaramente una figura mitica. Ma chi era il suo opposto mitico? Anche in questo caso, la risposta era ovvia. James Bond è l’opposto strutturale di Sherlock Holmes. Entrambi vivono a Londra e combattono il crimine, ed entrambi sono eterni adolescenti dal carattere singolare, moderatamente sociopatici, ma per il resto sono l’uno l’opposto dell’altro. Mentre Holmes è asessuato ma amante della cocaina e dell’oppio, Bond è sessuomane ma disinteressato alle droghe, a parte l’alcol. Holmes è un dilettante, Bond è la quintessenza del professionista: apparentemente non ha una vita al di fuori del lavoro. Holmes, però, è un dilettante disciplinato e competente a livelli quasi soprannaturali, molto più dei professionisti di Scotland Yard, mentre Bond è un professionista che si permette continue distrazioni: fa saltare la sua copertura, si fa catturare e disobbedisce agli ordini del suo superiore. 27 Tutto questo prepara il terreno per l’inversione chiave, che riguarda ciò che l’uno e l’altro concretamente fanno: Sherlock Holmes cerca informazioni su atti passati di violenza nel suo paese, mentre James Bond cerca informazioni su atti di violenza futuri all’estero. È stato dopo aver mappato il campo che ho capito che tutto ruotava precisamente attorno alla relazione tra informazione e violenza, e che Sherlock Holmes e James Bond, messi insieme, sono la quintessenza dell’eroe carismatico della burocrazia. Il classico poliziotto della tv o l’eroe delle centinaia di film sul «poliziotto cane sciolto che va contro le regole» che Hollywood continua a sfornare dagli anni sessanta è chiaramente una sintesi di queste due figure: un nemico del crimine che si muove all’interno del sistema burocratico (ma che cerca costantemente di uscirne), il cui significato e la cui
intera esistenza sono definiti dal sistema burocratico. 28
Si potrebbe obiettare che questa è la semplificazione di una tradizione della cultura popolare molto più ricca, complessa e sfaccettata. Certo che lo è. È
proprio questo il punto. Una simile analisi strutturale fa della semplificazione una virtù. Per quanto mi riguarda, anche Lévi-Strauss è una specie di figura eroica, un uomo che ha avuto il coraggio intellettuale di spingere al limite pochi semplici principi anche di fronte a risultati apparentemente assurdi o manifestamente sbagliati (la storia di Edipo è tutta una questione di occhi e piedi; tutte le organizzazioni sociali sono meri sistemi per lo scambio delle donne) o, se preferite, a una palese violenza alla realtà. Perché si tratta di una violenza produttiva. E nessuno si fa male. Fin quando si resta nel campo della teoria, quindi, secondo me la semplificazione non è necessariamente una forma di stupidità; anzi, può essere una forma di intelligenza. Perfino di genialità. I problemi nascono nel momento in cui la violenza non è più metaforica. Proviamo, per esempio, a passare dai poliziotti immaginari a quelli reali. Jim Cooper, ex agente del Dipartimento di polizia di Los Angeles diventato sociologo, 29 ha osservato che la stragrande maggioranza di coloro che vengono picchiati o seviziati dalla polizia non ha commesso alcun reato. «I poliziotti non picchiano i ladri» scrive. Il motivo è semplice: se c’è una cosa che dà la certezza di scatenare una reazione violenta da parte della polizia è mettere in discussione il suo diritto di «definire la situazione». Del tipo: «No, questo non è un reato, è semplicemente una situazione in cui un cittadino che paga le tasse, e quindi il vostro stipendio, sta portando a spasso il cane, perciò levatevi dai piedi»; per non parlare del catastrofico: «Aspettate, perché lo state ammanettando? Non ha fatto niente!». È sempre il «parlare dietro» che porta ai pestaggi, perché significa sfidare una categoria amministrativa (folla turbolenta o non turbolenta? Veicolo registrato correttamente o non correttamente?) che l’agente applica secondo il suo giudizio discrezionale. Il manganello è esattamente il punto di convergenza tra l’imperativo burocratico dello stato di imporre un semplice schema amministrativo e il monopolio della forza di coercizione. È del tutto logico, quindi, che la violenza burocratica si esprima innanzitutto aggredendo chi insiste su schemi di interpretazione alternativi. Allo stesso tempo, se accettiamo la famosa definizione di Jean Piaget, che descrive l’intelligenza matura come la capacità di coordinare tra loro prospettive (o possibili prospettive) multiple, possiamo osservare come il potere burocratico, nel momento in cui ricorre alla violenza, diventi letteralmente una forma di
stupidità infantile. Anche questa analisi è indubbiamente una semplificazione, ma è una semplificazione produttiva. Proverò a dimostrarlo servendomi di alcune di queste intuizioni per interpretare le dinamiche politiche che possono emergere all’interno di una società fondamentalmente burocratica. Una delle tesi centrali di questo capitolo è che la violenza strutturale crea strutture dell’immaginazione sbilanciate. Chi sta in basso deve impiegare molta energia immaginativa per cercare di capire le dinamiche sociali circostanti – oltre a dover immaginare la prospettiva di chi sta in alto –, mentre chi sta in alto può sostanzialmente non curarsi di quello che gli succede intorno. I deboli, quindi, non solo devono sobbarcarsi gran parte del lavoro fisico necessario per mandare avanti la società, ma svolgono anche buona parte del lavoro interpretativo. Questo succede tutte le volte in cui ci si trova di fronte a una disuguaglianza sistematica. Era così nell’India dell’antichità e nella Cina medievale ed è così ancora oggi. E presumibilmente continuerà a essere così finché dureranno le disuguaglianze strutturali. La nostra civiltà burocratica, tuttavia, introduce un elemento ulteriore. Le burocrazie, come ho osservato, non sono tanto forme di stupidità in sé, quanto modi di organizzare la stupidità e di gestire rapporti che sono già caratterizzati da strutture dell’immaginazione estremamente inique, che esistono perché esiste la violenza strutturale. È per questo che le burocrazie producono sempre assurdità, anche quando vengono create in assoluta buona fede. Ed è per questo che, da parte mia, ho cominciato questo capitolo con la storia di mia madre. Non ho motivo di dubitare che tutti i soggetti coinvolti nella vicenda della procura di mia madre (compreso il direttore di banca) fossero animati dalle migliori intenzioni. Eppure è partita una girandola assurda e apparentemente infinita. Perché succede questo? Perché anche le burocrazie più benevole in realtà non fanno altro che assumere la prospettiva fortemente schematica e ottusa tipica del potere, trasformandosi in strumenti che nella migliore delle ipotesi limitano quel potere o ne riducono gli effetti più perniciosi. Non c’è dubbio che così facendo le attività burocratiche abbiano portato enormi benefici al mondo. Lo stato sociale europeo, che garantisce a tutti istruzione e assistenza sanitaria
gratuite, può giustamente essere considerato – come ha osservato una volta Pierre Bourdieu – una delle più grandi conquiste della civiltà. Ma, allo stesso tempo, si è scavato la fossa da solo cedendo a tutte quelle forme di deliberata cecità tipiche del potere e dando loro un’autorevolezza scientifica – per esempio, attraverso l’adozione di una serie di postulati sul significato di lavoro, famiglia, quartiere, conoscenza, salute, felicità e successo che non avevano praticamente nulla a che fare con la vita reale dei poveri e delle classi lavoratrici, tantomeno con i loro reali bisogni. È stato proprio il disagio creato da tale ottusità ai beneficiari stessi del welfare state che, a partire dagli anni ottanta, ha permesso alla destra di mobilitare il sostegno popolare per le politiche che hanno tagliato e distrutto i programmi sociali più efficaci. E come si esprimeva tale disagio? In gran parte, attraverso la sensazione che l’autorità burocratica, per sua stessa natura, rappresentasse una specie di guerra all’immaginazione umana. Ciò è particolarmente chiaro se guardiamo ai movimenti di rivolta giovanile, dalla Cina al Messico fino a New York, che culminarono con l’insurrezione del maggio ’68 a Parigi. Quelle del ’68 furono tutte ribellioni contro l’autorità burocratica; tutte la vedevano come un elemento che soffocava lo spirito umano, la creatività, la convivialità, l’immaginazione. Il famoso slogan «Tutto il potere all’immaginazione», scritto sui muri della Sorbona, ci perseguita da allora, riprodotto all’infinito su poster, spille, volantini, manifesti, film e testi di canzoni, in gran parte perché sembra incarnare un elemento fondamentale non solo dello spirito della ribellione degli anni sessanta, ma dell’essenza stessa di quella che chiamiamo «la sinistra». È un punto importante. Forse il più importante. Penso infatti che ciò che è successo nel ’68 riveli una contraddizione che fin dall’inizio è maturata nel cuore del pensiero di sinistra e che si è pienamente rivelata proprio nel momento della sua massima affermazione storica. Nell’introduzione ho osservato che la sinistra contemporanea soffre della mancanza di una critica coerente alla burocrazia. Ma se torniamo alle origini – all’idea emersa ai tempi della Rivoluzione francese che l’arco politico si divida sostanzialmente in una destra e una sinistra – è chiaro che la sinistra, nella sua essenza, è una critica della burocrazia, anche se, nel corso degli anni, si è dovuta piegare a quelle stesse strutture e mentalità burocratiche che inizialmente intendeva combattere. 30
In questo senso, l’attuale incapacità della sinistra di formulare una critica della burocrazia che possa parlare a quella che un tempo era la sua base costituente è il paradigma stesso del suo declino. Senza questa critica, il pensiero radicale perde il suo centro vitale e collassa in una frammentazione disarticolata di proteste e rivendicazioni. Apparentemente, tutte le volte che la sinistra decide di imboccare una strada sicura e «realistica» si scava una fossa ancora più profonda. Per capire come è successo, e soprattutto per cercare di fare qualcosa, è necessario riesaminare alcuni assunti fondamentali: innanzitutto, che cosa vuol dire essere «realisti».
«Siate realisti: pretendete l’impossibile» (un altro slogan del ’68) Finora ho parlato del modo in cui la violenza strutturale crea strutture sbilanciate dell’immaginazione e la burocrazia diventa uno strumento per gestire queste situazioni (oltre alle forme di ottusità e stupidità strutturale che inevitabilmente comportano). Anche nel migliore dei casi, le procedure burocratiche sono un modo di aizzare la stupidità, per così dire, contro se stessa. Perché i movimenti che sfidano tali strutture quasi inevitabilmente finiscono a loro volta per creare delle burocrazie? Di solito per una sorta di compromesso. Bisogna essere realisti e non pretendere troppo. Riformare lo stato sociale sembra più realistico che chiedere una ridistribuzione generale della proprietà; una fase «di transizione» del socialismo di stato sembra più realistica che bruciare le tappe e dare immediatamente il potere ad assemblee di lavoratori democraticamente organizzate e così via. Ma tutto ciò solleva un’altra questione. Quando parliamo di essere «realisti», esattamente a quale realtà ci riferiamo? A questo proposito, penso che possa essere istruttivo un aneddoto su un gruppo di attivisti di cui un tempo facevo parte. Dall’inizio del 2000 alla fine del 2002 ho collaborato con il New York Direct Action Network, che a quel tempo organizzava azioni di massa nell’ambito del Movimento per la giustizia globale a New York. Lo chiamo «gruppo», anche se tecnicamente il Dan non era affatto un gruppo, ma una rete decentrata che
operava secondo principi di democrazia diretta mediante un processo di approvazione complicato ma molto efficace. Il Dan aveva un ruolo centrale nel tentativo che si stava facendo di creare nuove forme di organizzazione, ed esisteva in uno spazio puramente politico: non aveva risorse materiali da amministrare, nemmeno un fondo cassa degno di questo nome. Un giorno qualcuno regalò al Dan un’automobile. Quest’auto scatenò una crisi, piccola ma persistente. Scoprimmo che era impossibile per una rete decentrata possedere legalmente un’automobile. Una macchina può essere intestata a una persona fisica, a una società (cioè a una persona giuridica) o allo stato. Ma non può essere intestata a una rete. A meno di trasformarci giuridicamente in un’associazione senza scopo di lucro (il che ci avrebbe costretto a riorganizzarci da zero e ad abbandonare quasi del tutto i nostri principi egualitari), l’unico espediente era trovare un volontario disposto a dichiarare di essere il proprietario dell’auto. Ma poi questo volontario sarebbe stato chiamato a rispondere di tutte le multe e delle assicurazioni in essere, e avrebbe dovuto rilasciare un permesso scritto per autorizzare qualsiasi soggetto terzo a guidare l’auto fuori dei confini dello stato. E, ovviamente, soltanto lui avrebbe potuto ritirare il veicolo in caso di sequestro. Un volenteroso attivista accettò di prendersi la responsabilità, ma le nostre riunioni settimanali finirono per essere monopolizzate dalle discussioni sui suoi problemi legali. La macchina del Dan era diventata una tale sterminata fonte di guai che alla fine organizzammo una raccolta fondi: in cambio di un contributo di cinque dollari invitavamo i partecipanti a prenderla a martellate. Capii che c’era un aspetto profondo in questa storia. Perché i progetti come il Dan – cioè quelli che hanno l’obiettivo di democratizzare la società – spesso vengono percepiti come vaghe chimere che si dissolvono non appena si scontrano con la dura realtà? Nel nostro caso, almeno, l’inefficienza non c’entrava niente: i capi della polizia di tutto il paese ci avevano definito il movimento meglio organizzato con cui avessero mai avuto a che fare. A me sembra che questo «effetto realtà» (se così vogliamo chiamarlo) derivi piuttosto dal fatto che i progetti radicali tendono a naufragare – o almeno a diventare sempre più complicati – nel momento in cui entrano in un mondo di oggetti grandi e pesanti: palazzi, automobili, trattori, barche, macchinari industriali. Non perché questi oggetti siano intrinsecamente difficili da
amministrare in maniera democratica (la storia è piena di comunità che sono riuscite ad amministrare democraticamente risorse comuni), ma perché, come l’automobile del Dan, sono circondati da un’interminabile regolamentazione pubblica, ed è sostanzialmente impossibile sottrarli all’attenzione dei rappresentanti armati dello stato. In America ho assistito a infiniti esempi di questo paradosso. Una casa occupata viene legalmente riconosciuta dopo una lunga battaglia; poi, improvvisamente, arriva l’ispettore e dice che ci vogliono diecimila dollari di lavori per metterla a norma. A questo punto gli occupanti passano giorni e giorni a organizzare vendite di torte e a raccogliere donazioni. Ciò significa aprire dei conti in banca, il che, a sua volta, significa rispettare una serie di norme giuridiche che stabiliscono come deve essere organizzato un gruppo che riceve fondi o ha rapporti con la pubblica amministrazione (ancora una volta, non come un collettivo paritario). Tutte queste norme vengono fatte rispettare con la violenza. Certo, nella vita di tutti i giorni è raro che la polizia si presenti armata di manganelli per far rispettare le norme edilizie, ma, come spesso hanno sperimentato gli anarchici, se si fa finta che lo stato e le sue regole non esistano, alla fine succederà. La sporadicità dell’uso dei manganelli contribuisce a rendere più difficile vedere la violenza. Ciò, a sua volta, crea l’impressione che gli effetti di tutte queste norme (le quali spesso partono dal presupposto che le relazioni tra individui siano mediate dal mercato e che i gruppi si organizzino internamente attraverso rapporti di gerarchia e comando) derivino non dal monopolio dell’uso della forza da parte dello stato, ma dalla grandezza, solidità e pesantezza degli oggetti stessi. Quando si parla di essere «realisti», quindi, la realtà che siamo chiamati a riconoscere non è quella dei fatti naturali e materiali né una ipotetica, triste verità sulla natura umana. Essere «realisti» di solito significa prendere sul serio gli effetti della minaccia sistematica della violenza. Questa possibile minaccia influenza anche il nostro linguaggio. Per esempio, perché un palazzo viene definito real estate? La parola «reale» in questa accezione non deriva dal latino res, «cosa»: viene dallo spagnolo real, che significa «reale» nel senso di «appartenente al re». Tutta la terra che sta all’interno di un territorio sovrano appartiene al sovrano, e giuridicamente è ancora così. È per questo che lo stato ha il diritto di imporre le sue norme. Ma la sovranità, in definitiva, si riduce a un monopolio, che viene eufemisticamente definito della «forza», cioè della
violenza. Come osserva il filosofo italiano Giorgio Agamben, dal punto di vista del potere sovrano una cosa è viva se è possibile ucciderla, quindi la proprietà è «reale» perché lo stato può confiscarla o distruggerla. Allo stesso modo, quando qualcuno mantiene una posizione «realista» nelle relazioni internazionali, vuol dire che sa che gli stati useranno tutti gli strumenti a loro disposizione, compresa la forza delle armi, per perseguire i propri interessi nazionali. Quale «realtà» stiamo riconoscendo? Certamente non la realtà materiale. L’idea che le nazioni siano entità antropomorfe con scopi e interessi umani è puramente metafisica. Il re di Francia ha scopi e interessi. Non «la Francia». Se questa idea sembra «realistica» è semplicemente perché chi ha il controllo degli stati-nazione ha il potere di radunare eserciti, di ordinare invasioni e di bombardare paesi e città, e può minacciare l’uso della violenza organizzata nel nome di quelli che vengono definiti «interessi nazionali». Ignorare questa possibilità sarebbe sciocco. Gli interessi nazionali sono reali perché possono uccidere. Il termine cruciale qui è «forza», come in «monopolio dell’uso coercitivo della forza da parte dello stato». Ogni volta che sentiamo invocare questo concetto, ci troviamo in presenza di un’ontologia politica in cui il potere di distruggere, di infliggere dolore agli altri o di minacciare di spezzare, danneggiare o mutilare i corpi (o di rinchiuderli in una stanza minuscola per il resto della vita) è considerato l’equivalente sociale dell’energia che manda avanti il cosmo. Prendiamo, per esempio, le metafore e le sostituzioni che rendono possibile costruire le due frasi seguenti: Gli scienziati indagano la natura delle leggi fisiche al fine di comprendere le forze che governano l’universo. La polizia è esperta nell’applicazione scientifica della forza fisica per far rispettare le leggi che governano la società. Questa secondo me è l’essenza del pensiero di destra: un’ontologia politica che con mezzi sottili permette alla violenza di definire i parametri stessi dell’esistenza sociale e del senso comune. 31 Perciò dico che la sinistra, nella sua ispirazione, è sempre stata antiburocratica: perché si è sempre basata su un diverso insieme di presupposti riguardo a ciò che è reale, e cioè sui fondamenti stessi dell’essere politico.
Ovviamente chi è di sinistra non nega la realtà della violenza. Anzi, molti teorici di sinistra l’hanno studiata a lungo. La differenza è che non le riconoscono lo stesso status fondativo. Direi anzi che il pensiero di sinistra si fonda su quella che chiamerò «ontologia politica dell’immaginazione» (ma potrebbe analogamente definirsi ontologia della fantasia, della creazione o dell’invenzione). Oggi molti riconducono questa tendenza all’eredità di Marx e all’enfasi sulla rivoluzione sociale e sulle forze della produzione materiale. Ma Marx, alla fine, era un uomo del suo tempo, e il suo lessico nasceva da discussioni molto più ampie sul valore, sul lavoro e sulla creatività che prendevano corpo nei circoli radicali dell’epoca, dal movimento operaio ai diversi filoni del Romanticismo e della bohème a Parigi e a Londra. Lo stesso Marx, pur disprezzando i socialisti utopisti della sua epoca, non smise mai di sostenere che ciò che distingue gli esseri umani dagli animali è che gli architetti, a differenza delle api, realizzano le loro strutture prima nell’immaginazione. La caratteristica distintiva dell’uomo, secondo Marx, è che prima immagina le cose e soltanto dopo le mette in atto. È questo il processo che definisce «produzione». Più o meno nello stesso periodo, i socialisti utopisti come Saint-Simon sostenevano che gli artisti dovessero diventare l’«avanguardia» di un nuovo ordine sociale e produrre le grandi visioni che l’industria finalmente era in grado di mettere in atto. Quella che al tempo poteva sembrare la fantasia di un pamphlettista eccentrico divenne l’atto costitutivo di un’alleanza sporadica, incerta, ma apparentemente inossidabile, che dura ancora oggi. Se le avanguardie artistiche e rivoluzionarie hanno mantenuto da allora una particolare affinità, prendendo in prestito terminologie e idee le une dalle altre, è perché entrambe sono rimaste attaccate alla convinzione che la verità ultima e nascosta del mondo sia che esso è qualcosa che noi creiamo e che potremmo facilmente crearlo in modo diverso. In questo senso una frase come «Tutto il potere all’immaginazione» esprime la quintessenza della sinistra. Da una prospettiva di sinistra, quindi, la realtà nascosta della vita umana è che il mondo non succede punto e basta. Non è un fatto naturale, anche se tendiamo a considerarlo così: esiste perché tutti noi, collettivamente, lo creiamo. Immaginiamo le cose che ci piacciono e le realizziamo. Ma, una volta che si comincia a ragionare in questi termini, è evidente che qualcosa non è
andato per il verso giusto. Chi, infatti, potendo immaginare e quindi creare il mondo a suo piacimento, creerebbe un mondo come questo? 32 Probabilmente, i valori di sinistra sono stati espressi nella loro forma più pura dal filosofo marxista John Holloway, che una volta voleva intitolare un libro Smettiamo di fare il capitalismo. 33 Il capitalismo, osserva Holloway, non è una cosa che ci viene imposta da una forza esterna. Esiste soltanto perché ogni giorno ci svegliamo e continuiamo a produrlo. Se una mattina ci svegliassimo e tutti insieme decidessimo di produrre qualcos’altro, il capitalismo non ci sarebbe più. La domanda rivoluzionaria fondamentale, allora, è: quali condizioni devono verificarsi per convincerci a fare questo passo, ovvero svegliarci e immaginare (e produrre) qualcos’altro? Quando si pone l’accento sulle forze della creatività e della produzione, la destra di solito risponde che i rivoluzionari trascurano sistematicamente l’importanza sociale e storica dei «mezzi di distruzione»: stati, eserciti, boia, invasioni barbariche, criminali, folle inferocite e così via. Far finta che queste cose non esistano o che possano essere semplicemente scacciate perché non ci piacciono, sostengono, fa sì che i regimi di sinistra creino in realtà più morte e distruzione di quelli che hanno l’accortezza di adottare un approccio più «realistico». Ovviamente è una semplificazione, e si possono fare infiniti distinguo. La borghesia dell’epoca di Marx, per esempio, sposava una filosofia estremamente produttivista, e infatti Marx la vedeva come una forza rivoluzionaria. Alcuni elementi della destra hanno flirtato con l’ideale artistico, mentre i regimi marxisti del XX secolo hanno sposato teorie del potere sostanzialmente di destra e hanno rispettato solo a parole il ruolo determinante della produzione. D’altra parte, l’ossessione di incarcerare poeti e drammaturghi, da cui questi regimi si sentivano minacciati, era il segno di una fede profonda nell’arte e nella creatività e nel loro potere di cambiare il mondo (i regimi capitalisti contemporanei se ne sono preoccupati di rado, sapendo che sarebbe bastato mantenere saldo il controllo dei mezzi di produzione – e naturalmente dell’Esercito e della polizia – e il resto si sarebbe sistemato da solo). È difficile rendersi conto di tutto ciò anche perché la parola «immaginazione» può significare molte cose diverse. In varie definizioni moderne essa è
contrapposta alla realtà; le cose «immaginarie» sono in primo luogo ed essenzialmente cose che in realtà non ci sono. Questo può generare confusione quando ne parliamo in astratto, perché sembra che l’immaginazione abbia più a che fare con la Regina delle fate di Spenser che con un gruppo di cameriere che cercano di capire come calmare la coppia al tavolo 7 prima che arrivi il proprietario del ristorante. Questo modo di vedere l’immaginazione è relativamente nuovo, e continua a coesistere con altri molto più vecchi. Nella concezione comune antica e medievale, per esempio, quella che oggi noi chiamiamo «l’immaginazione» non era vista necessariamente in contrapposizione alla realtà, ma come una sorta di zona di passaggio che collegava la realtà materiale e l’anima razionale. Ciò era particolarmente vero per quelli che vedevano la ragione essenzialmente come una manifestazione di Dio, e che dunque ritenevano che il pensiero fosse parte del divino e in nessun modo della realtà materiale, e che anzi ne fosse completamente estraneo (questa divenne la posizione dominante nel Medioevo cristiano). E allora, come era possibile per la mente razionale ricevere impressioni sensoriali dalla natura? La soluzione era postulare una sostanza intermedia, fatta della stessa materia delle stelle, lo «pneuma», una specie di sistema circolatorio attraverso il quale passavano le percezioni del mondo materiale, che nel loro percorso si caricavano di emozioni e si mischiavano con ogni sorta di fantasmi prima che la mente razionale riuscisse ad afferrarne il significato. Le intenzioni e i desideri facevano il percorso inverso, attraversando l’immaginazione prima di poter essere realizzati nel mondo. Soltanto dopo Cartesio, in realtà, la parola «immaginario» ha preso il significato specifico di «tutto ciò che non è reale»: creature immaginarie, luoghi immaginari (Narnia, pianeti di galassie lontane, il regno di Prete Gianni), amici immaginari. Secondo questa definizione, una «ontologia politica dell’immaginazione» non può che essere una contraddizione in termini. L’immaginazione non può essere la base della realtà. È, per sua stessa natura, ciò che possiamo pensare ma che non esiste nella realtà. Definirò quest’ultimo come «concetto trascendente dell’immaginazione», poiché sembra prendere a modello i romanzi o altre opere di narrativa che creano mondi immaginari che presumbilimente rimangono gli stessi a ogni
nuova lettura. Le creature immaginare – elfi, unicorni o poliziotti della tv – non sono influenzate dal mondo reale. Non possono esserlo, perché non esistono. L’immaginazione di cui parlo in questo capitolo, invece, è molto più vicina alla vecchia concezione immanente. Soprattutto, non è affatto statica o vaga, ma è legata a filo doppio a progetti e azioni che tendono ad avere effetti reali nel mondo materiale, e dunque è in costante cambiamento e adattamento. Questo vale sia quando si intaglia un coltello o un gioiello, sia quando si cerca di non ferire i sentimenti di un amico. È stato proprio tra la metà e la fine del XVIII secolo, con l’avvento del capitalismo industriale, della società burocratica moderna e della divisione politica tra destra e sinistra, che il nuovo concetto trascendente dell’immaginazione ha assunto importanza. Per i romantici, in particolare, l’immaginazione prendeva il posto che una volta era dell’anima: anziché mediare tra l’anima razionale e il mondo materiale, era l’anima, e questa era ciò che andava oltre la mera razionalità. È facile capire come l’avvento di un ordine impersonale e burocratico fatto di uffici, fabbriche e amministrazione razionale potesse favorire questo tipo di concezione. Ma nella misura in cui l’immaginazione diventava una categoria residuale – tutto ciò che il nuovo ordine non era – era anche non puramente trascendente; anzi, diventava necessariamente una specie di folle pot-pourri di quelli che ho descritto come principi trascendenti e immanenti. Da una parte l’immaginazione era considerata la fonte dell’arte e della creatività in generale. Dall’altra era il fondamento della compassione umana, e dunque della morale. 34 Duecentocinquant’anni dopo, forse dovremmo cominciare a risolvere la questione. Perché, onestamente, la posta in gioco è molto alta. Per provare a capire fino a che punto lo sia, torniamo per un momento a quello slogan del ’68: «Tutto il potere all’immaginazione». Di quale immaginazione stiamo parlando? Se ci riferiamo all’immaginazione trascendente – ovvero al tentativo di imporre una sorta di visione utopica prefabbricata – gli effetti rischiano di essere disastrosi. Storicamente, spesso ciò ha comportato la creazione di una vasta macchina burocratica che ha cercato di imporre queste visioni utopiche attraverso la violenza. Il risultato più probabile è un livello insostenibile di atrocità. D’altro canto, da una prospettiva rivoluzionaria, per la stessa ragione si potrebbe
sostenere che non dare tutto il potere all’altra immaginazione, quella immanente (l’immaginazione pratica e di buon senso di semplici cuochi, infermieri, meccanici e giardinieri), rischia di produrre esattamente gli stessi effetti. Tale confusione, tale commistione di concezioni diverse dell’immaginazione, attraversa tutta la storia del pensiero di sinistra. Questa tensione si osserva già in Marx. C’è uno strano paradosso nel suo approccio alla rivoluzione. Come ho osservato, Marx sostiene che a renderci umani sia il fatto che, anziché affidarci agli istinti inconsci come i ragni e le api, prima costruiamo strutture nella nostra immaginazione e poi proviamo a realizzarle. Quando un ragno tesse la sua tela, agisce per istinto. L’architetto, invece, prima fa un progetto, e solo dopo comincia a costruire le fondamenta dell’edificio. Ciò, afferma Marx, vale per tutte le forme di produzione materiale, dalla costruzione di un ponte alla manifattura di un paio di stivali. Quando però Marx parla di creatività sociale, il suo esempio principe (anzi, l’unico tipo di creatività sociale di cui parla) è sempre la rivoluzione e, una volta che introduce l’argomento, è come se improvvisamente cambiasse le carte in tavola. Di fatto, si contraddice. Il rivoluzionario non deve mai procedere come l’architetto: non deve mai partire da un progetto di società ideale e poi pensare a come realizzarlo. Questo sarebbe utopismo. E per l’utopismo Marx prova solo profondo disprezzo. La rivoluzione è la prassi immanente e concreta del proletariato, e alla fine darà frutti che dalla nostra prospettiva attuale è impossibile immaginare. Come si spiega questa contraddizione? La spiegazione più generosa, secondo me, è che Marx avesse capito, almeno a livello intuitivo, che nella sfera della produzione materiale l’immaginazione funziona diversamente dalla sfera delle relazioni sociali; ma non aveva una teoria adeguata per dire il perché. Forse, scrivendo a metà del XIX secolo, molto prima dell’ascesa del femminismo, semplicemente gli mancavano gli strumenti intellettuali. 35 Date le considerazioni già accennate in questo capitolo, possiamo confermare che è così. In termini marxiani: in entrambe le sfere si può parlare di alienazione. Ma in ciascuna l’alienazione funziona in modo profondamente diverso. Riassumendo: le disuguaglianze strutturali creano sempre quelle che ho chiamato «strutture sbilanciate dell’immaginazione», ovvero la divisione tra la
classe delle persone che finiscono per fare tutto il lavoro immaginativo e le altre. Tuttavia, la sfera della produzione in fabbrica di cui si occupa Marx è piuttosto atipica sotto questo aspetto. È uno dei pochi contesti in cui la classe dominante finisce per svolgere più lavoro immaginativo, e non meno. Creatività e desiderio – che in termini politico-economici spesso traduciamo come «produzione» e «consumo» – sono essenzialmente veicoli dell’immaginazione. Le strutture della disuguaglianza e del dominio – la violenza strutturale, se vogliamo – tendono a distorcere l’immaginazione. La violenza strutturale può creare situazioni in cui i lavoratori sono costretti a mestieri ripetitivi, noiosi e meccanici, e solo a una élite ristretta è concesso il lavoro d’immaginazione; tutto ciò porta alla sensazione, nei lavoratori, di essere alienati dal loro lavoro, e che i loro stessi gesti appartengano a qualcun altro. Ma può anche creare situazioni in cui sovrani, politici, celebrità e amministratori delegati se ne vanno in giro tutti impettiti e completamente ignari di ciò che li circonda, mentre i loro partner, domestici, collaboratori e sottoposti passano tutto il tempo a fare il lavoro di immaginazione che serve per mandare avanti le loro fantasie. Credo che in tutte le situazioni di disuguaglianza ci sia una combinazione di questi elementi. L’esperienza soggettiva di vivere all’interno di queste strutture sbilanciate dell’immaginazione – che, di conseguenza, la distorcono e distruggono – è ciò che chiamiamo «alienazione». La tradizione dell’economia politica, di cui Marx faceva parte, tende a vedere il lavoro nella società moderna come diviso in due sfere: il lavoro salariato, per il quale il paradigma è sempre la fabbrica, e il lavoro domestico – le faccende di casa, la cura dei figli –, delegato soprattutto alle donne. Il primo è visto principalmente come un’attività di creazione e conservazione di oggetti fisici. Il secondo, più che altro, come creazione e conservazione di persone e relazioni sociali. La distinzione, ovviamente, è un po’ caricaturale: non è mai esistita una società, neanche la Manchester di Engels o la Parigi di Victor Hugo, in cui quasi tutti gli uomini lavorano in fabbrica e quasi tutte le donne esclusivamente in casa. Questo ci aiuta però a capire in che termini inquadriamo la questione ancora oggi. E soprattutto ci porta alla radice del problema di Marx. Nella sfera industriale, di solito, sono i vertici ad avocare a sé le attività più immaginative (per esempio, la progettazione dei prodotti e l’organizzazione della
produzione), mentre, quando emergono delle disuguaglianze nella sfera della produzione sociale, è la base che deve sobbarcarsi gran parte del lavoro immaginativo – in particolare, quello che ho chiamato lo «sforzo interpretativo» che permette alla vita di andare avanti. 36 Finora ho osservato che le procedure burocratiche, che hanno la capacità sorprendente di far sembrare degli idioti anche le persone più intelligenti del mondo, non sono tanto forme di stupidità in sé quanto modi per gestire situazioni stupide in partenza per via degli effetti della violenza strutturale. Di conseguenza, tali procedure diventano parte della stessa ottusità e stupidità che cercano di gestire. Nel migliore dei casi, diventano un modo di ritorcere la stupidità contro se stessa, come si potrebbe dire della violenza rivoluzionaria. Ma la stupidità in nome della correttezza e della dignità è pur sempre stupidità, e la violenza in nome della liberazione dell’uomo è pur sempre violenza. Non è un caso che le due vadano spesso a braccetto. Per buona parte del secolo scorso, dunque, la grande questione rivoluzionaria è stata: come avviare un cambiamento radicale nella società senza mettere in moto un processo che finisca con il creare una nuova forma di violenza burocratica? Il problema è l’utopismo, ovvero l’idea stessa di immaginare un mondo migliore e provare a realizzarlo? Oppure il problema è nella natura della teoria sociale? Dovremmo quindi abbandonarla? Oppure è il concetto di rivoluzione a essere sostanzialmente sbagliato? Dagli anni sessanta in poi, una soluzione comune è stata di cominciare a mirare più in basso. Negli anni che portarono al maggio del ’68, i situazionisti dissero che era possibile arrivare allo scopo attraverso atti di sovversione creativa che mettessero in discussione la logica di quello che definivano «lo Spettacolo», che ci rendeva consumatori passivi. Attraverso tali atti era possibile, almeno per un istante, riappropriarsi del potere immaginativo. Allo stesso tempo, i situazionisti erano convinti che questi atti fossero una specie di prova generale in scala ridotta per il grande momento insurrezionale a cui necessariamente avrebbero portato – «la» rivoluzione propriamente detta. Tutto ciò adesso non esiste più. Se gli eventi del maggio del ’68 ci hanno insegnato qualcosa, è che se non si mira a conquistare il potere dello stato non può esserci un momento fondamentale, unico, di rottura. Di conseguenza, tra i
rivoluzionari contemporanei l’elemento millenarista è quasi del tutto venuto meno. Nessuno pensa più che da un momento all’altro si apriranno i cieli. C’è una consolazione, però: che proprio per questo, laddove è effettivamente possibile arrivare a sperimentare un’autentica libertà rivoluzionaria, si può iniziare a sperimentarla immediatamente. Vediamo questo brano del collettivo CrimethInc., forse il movimento anarchico giovanile più interessante tra quelli che oggi si rifanno alla tradizione situazionista: Dobbiamo costruire la nostra libertà facendo dei buchi nel tessuto di questa realtà, plasmando nuove realtà che a loro volta ci modelleranno. Metterci in sempre nuove situazioni è l’unico modo di far sì che le nostre decisioni non siano condizionate dall’inerzia dell’abitudine, dei costumi, della legge o del pregiudizio, e sta a noi creare queste situazioni. La libertà esiste solo nel momento della rivoluzione. E questi momenti non sono così rari come possiamo pensare. Il cambiamento, il cambiamento rivoluzionario, va avanti sempre e dappertutto – e tutti hanno una parte in esso, consciamente o no. Che cos’è questa se non una elegante formulazione della logica dell’azione diretta: una sfida ad agire come se si fosse già liberi? 37 La domanda che nasce spontanea è come questo approccio possa contribuire a una strategia generale, capace di portare, se non a un momento unico di riscatto rivoluzionario, almeno a un movimento continuativo verso un mondo senza stati e capitalismo. Su questo punto nessuno ha delle certezze. Molti pensano che non potrà che essere un processo di improvvisazione continua. Insurrezioni ce ne saranno sicuramente. Forse saranno numerose. Ma probabilmente saranno parte di un processo rivoluzionario molto più complesso e sfaccettato i cui contorni, per ora, non possono essere compiutamente anticipati. Con il senno di poi, ciò che più sorprende è l’ingenuità della vecchia convinzione che una rivolta isolata o una guerra civile vinta potessero, per così dire, neutralizzare l’intero apparato della violenza strutturale, almeno all’interno di un particolare territorio nazionale: che all’interno di quel territorio, cioè, le realtà di destra potessero essere semplicemente spazzate via per lasciare il campo al libero sgorgare della creatività rivoluzionaria. Ma la
cosa ancora più sorprendente è che, in alcuni momenti della storia dell’uomo, le cose sembrano essere andate proprio così. Credo che, se vogliamo riuscire ad afferrare il nuovo concetto emergente di rivoluzione, dobbiamo partire dal riconsiderare la natura di questi momenti insurrezionali. Uno degli aspetti più degni di nota di queste sollevazioni insurrezionali è che in apparenza nascono dal nulla e poi, spesso, si spengono con altrettanta velocità. Com’è possibile che lo stesso «pubblico» che due mesi prima della Comune di Parigi o della Guerra civile spagnola vota per un regime socialdemocratico moderato improvvisamente sia disposto a rischiare la vita per un gruppo di ultraradicali che due mesi prima ha preso appena una manciata di voti? O, tornando al maggio del ’68, com’è possibile che lo stesso pubblico che in apparenza sosteneva o quantomeno simpatizzava fortemente con la rivolta degli studenti e dei lavoratori subito dopo torna alle urne ed elegge un governo di destra? La spiegazione storica più comune, cioè che i rivoluzionari in realtà non rappresentano il pubblico e i suoi interessi, ma che alcune parti del pubblico a volte si fanno prendere da una sorta di effervescenza irrazionale, sembra proprio inadeguata. Innanzitutto, parte dal presupposto che «il pubblico» sia un’entità con opinioni, interessi e alleanze che possiamo considerare relativamente coerenti nel tempo. In realtà, quello che chiamiamo «il pubblico» è il prodotto di istituzioni specifiche che consentono alcune forme di azione – rispondere a sondaggi, guardare la televisione, votare, firmare petizioni, scrivere lettere a funzionari eletti o partecipare ad audizioni pubbliche – e non altre. La cornice in cui si svolgono tali azioni presuppone un certo modo di parlare, pensare, discutere e deliberare. Lo stesso «pubblico» che fa uso di sostanze chimiche a scopo ricreativo può votare sistematicamente per rendere illegale quell’uso; la stessa composizione di cittadini è capace di prendere decisioni completamente diverse su questioni che riguardano la comunità a seconda che sia organizzata in un sistema parlamentare, in un sistema di plebisciti informatici o in una rete di assemblee pubbliche locali. Di fatto, l’intero progetto anarchico di reinventare la democrazia diretta si basa su questa convinzione. Per spiegare meglio ciò che voglio dire, basti pensare che nei paesi di lingua inglese la stessa composizione di persone che all’interno di un certo ambito viene definita «il pubblico», in un altro può essere definita «la forza lavoro».
Ovviamente, diventa «forza lavoro» quando è impegnata in un diverso tipo di attività. Il «pubblico» non lavora: una frase come «Gran parte del pubblico americano lavora nel settore dei servizi» non verrebbe mai riportata da una rivista o da un giornale, e se un giornalista provasse a scriverla la redazione la modificherebbe. La cosa è particolarmente curiosa perché in realtà il pubblico deve andare a lavorare: infatti, come lamentano i critici di sinistra, i mezzi di informazione sottolineano sempre che, per esempio, uno sciopero dei trasporti crea disagi al pubblico (composto in questo caso dai pendolari), ma non pensano mai che anche gli scioperanti sono parte del pubblico, e che se riescono a ottenere un aumento salariale ci sarà un vantaggio pubblico. E certamente il «pubblico» non scende in piazza. Il suo ruolo è quello di fruitore degli spettacoli pubblici e di consumatore dei servizi pubblici. Quando acquista o usa beni e servizi erogati dai privati, la stessa composizione di persone diventa qualcos’altro («consumatori»), e allo stesso modo in altri ambiti viene rietichettato come «nazione», «elettorato» o «popolazione». Tutte queste entità sono il prodotto di burocrazie e prassi istituzionali che, a loro volta, definiscono determinati orizzonti di possibilità. Ecco perché quando si vota alle elezioni per il Parlamento spesso ci si sente obbligati a fare una scelta «realistica»; in una situazione insurrezionale, invece, improvvisamente tutto sembra possibile. Ciò che «il pubblico», «la forza lavoro», «l’elettorato», «i consumatori» e «la popolazione» hanno in comune è che sono il frutto di cornici di azione istituzionalizzate e intrinsecamente burocratiche e, dunque, profondamente alienanti. Le cabine elettorali, gli schermi televisivi, i cubicoli degli uffici, gli ospedali, i riti che li circondano: potremmo dire che sono il meccanismo stesso dell’alienazione. Sono gli strumenti attraverso i quali l’immaginazione umana viene distrutta e fatta in mille pezzi. I momenti insurrezionali, al contrario, sono i momenti in cui l’apparato burocratico viene neutralizzato. Questo processo ha sempre l’effetto di spalancare gli orizzonti delle possibilità, il che non sorprende visto che una delle molte cose che l’apparato fa è imporre orizzonti molto limitati (ecco perché, come ha brillantemente osservato Rebecca Solnit, 38 le persone spesso vivono un’esperienza simile durante le calamità naturali). Tutto ciò spiegherebbe per quale ragione i momenti rivoluzionari sembrino sempre seguiti da un’esplosione di creatività sociale,
artistica e intellettuale. Le strutture diseguali di identificazione immaginativa vengono spezzate; tutti provano a vedere il mondo da punti di vista inconsueti; tutti sentono non solo il diritto, ma di solito anche il bisogno immediato e pratico di ricreare e ripensare ciò che li circonda. Il problema, ovviamente, è come fare in modo che chi vive questa esperienza non venga immediatamente catalogato sotto una nuova voce – il popolo, il proletariato, la moltitudine, la nazione, la umma ecc. –, con la conseguente costruzione di un nuovo sistema di regole, norme e istituzioni burocratiche che inevitabilmente verrà fatto rispettare con la forza da nuove categorie di polizia. In realtà, penso che da questo punto di vista siano stati fatti progressi. Gran parte del merito è del femminismo. A partire almeno dagli anni settanta, tra i sostenitori del cambiamento radicale c’è stato uno sforzo consapevole volto a spostare l’attenzione dai sogni millenaristi a questioni molto più immediate sul modo di organizzare non burocraticamente quei famosi «buchi nel tessuto della realtà», così da poter mantenere a lungo almeno una parte del potere immaginativo. Questo era già vero per i grandi Festival di resistenza organizzati dal Movimento per la giustizia globale durante i summit delle istituzioni internazionali dal 1998 al 2003, in cui gli intricati dettagli del processo di pianificazione democratica delle azioni erano più importanti delle azioni stesse, ma è diventato ancora più vero nel 2011 con gli accampamenti della Primavera araba, le grandi assemblee in Grecia e in Spagna e il movimento Occupy negli Stati Uniti. Queste esperienze erano contemporaneamente azioni dirette, dimostrazioni pratiche di come la democrazia possa essere sbattuta in faccia al potere ed esperimenti che mostrassero quale aspetto abbia un autentico ordine sociale non burocratizzato, basato sul potere dell’immaginazione pratica. Credo che questo sia l’insegnamento per la politica. Se si resiste all’effetto realtà creato dalla presenza diffusa dalla violenza strutturale (il modo in cui le norme burocratiche scompaiono nella stessa massa e solidità degli oggetti grossi e pesanti che ci circondano, come palazzi, veicoli e grandi strutture di cemento, facendo sembrare naturale e inevitabile un mondo regolato da quei principi e qualsiasi altra cosa una fantasia) è possibile dare potere all’immaginazione. Ma ci vuole anche un’enorme quantità di lavoro.
Il potere impigrisce. Se c’è una cosa che la nostra precedente discussione teorica sulla violenza strutturale ci ha rivelato è questa: chi si trova in una posizione di potere e privilegio sente un grande fardello di responsabilità sulle spalle, ma nella maggior parte dei casi, la maggior parte delle volte, il potere si fonda proprio sul non doversi preoccupare, non dover sapere, non dover fare. Le burocrazie possono democratizzare questo potere, almeno in una certa misura, ma non possono sbarazzarsene. Diventa una forma di pigrizia istituzionalizzata. Il cambiamento rivoluzionario può portare a un’esaltante liberazione dalle catene dell’immaginazione, o a un’improvvisa presa di coscienza che le cose impossibili non sono affatto impossibili, ma significa anche che molte persone dovranno superare questa pigrizia profondamente radicata e cominciare a dedicarsi a lungo allo sforzo interpretativo (immaginativo) per consolidare queste realtà. Ho passato buona parte degli ultimi vent’anni a pensare al modo in cui la teoria sociale può contribuire a questo processo. Come ho sottolineato, la stessa teoria sociale può essere considerata una specie di semplificazione radicale, una forma di ignoranza calcolata, un paio di paraocchi speciali che rivelano forme e strutture che altrimenti sarebbe impossibile vedere. Quello che sto provando a fare, dunque, è mettermi dei paraocchi che mi consentano di vederne altri. Ecco perché sono partito dalle scartoffie legate alla malattia e alla morte di mia madre. Volevo portare la teoria sociale nei luoghi a essa apparentemente più ostili. Ci sono zone morte che ci affliggono l’esistenza, aree talmente prive di profondità interpretativa da respingere ogni tentativo di dar loro un valore o un significato. In questi spazi, ho scoperto, lo sforzo interpretativo non funziona più. Non è certo un caso che non ci piaccia parlarne. Respingono l’immaginazione. Credo anche, però, che abbiamo la responsabilità di affrontarli, perché se non lo facciamo rischiamo di diventare complici della stessa violenza che li crea. Mi spiego meglio. Nella teoria sociale attualmente c’è una tendenza a romanticizzare la violenza, a trattare i gesti violenti innanzitutto come un modo di mandare messaggi forti, di giocare con i simboli del potere assoluto, della purificazione e del terrore. Non dico che queste cose siano completamente false. Tanti atti di violenza sono anche – in questo senso molto letterale – atti di terrorismo. Ma dico anche che concentrarsi sugli aspetti più drammatici
della violenza rischia di far passare in secondo piano il fatto che uno dei tratti salienti della violenza, e delle situazioni che crea, è che è profondamente noiosa. Nelle carceri americane, che sono luoghi straordinariamente violenti, la forma peggiore di punizione consiste semplicemente nel rinchiudere per anni una persona in una stanza vuota senza niente da fare. Questo svuotamento di ogni possibilità di comunicazione o di significato è la vera essenza di ciò che la violenza è e fa. Sì, mettere qualcuno in isolamento è un modo per mandare un messaggio a lui e agli altri detenuti. Ma l’atto consiste soprattutto nel soffocare la possibilità di mandare altri messaggi di qualsiasi tipo. Una cosa è dire che quando il padrone frusta lo schiavo compie un’azione comunicativa piena di significato, che esprime il bisogno di un’obbedienza incondizionata e allo stesso tempo cerca di evocare l’immagine terrificante e mitica di un potere assoluto e arbitrario. Tutto ciò è vero. Un’altra cosa però è dire che questa è l’unica cosa che sta succedendo o l’unica di cui vale la pena parlare. Alla fine, se non ci chiediamo che cosa significa davvero «incondizionata» (la facoltà del padrone di restare totalmente privo di ogni capacità di comprendere ogni situazione relativa allo schiavo, l’impossibilità dello schiavo di dire alcunché, anche quando si accorge di una profonda incongruenza pratica nel ragionamento del padrone, le forme di ottusità e stupidità che ne derivano, il fatto che queste ultime obbligano lo schiavo a dedicare ancora più energie a cercare di capire e anticipare le percezioni fallaci del padrone) non stiamo facendo lo stesso lavoro della frusta, anche se in scala ridotta? Non stiamo mettendo a tacere le sue vittime? Infine, non stiamo partecipando al processo che chiude loro la bocca? C’è un altro motivo che mi ha spinto a cominciare con la storia di mia madre e del notaio. Come dimostra la mia confusione a prima vista inspiegabile sulle firme, queste zone morte possono almeno temporaneamente far sembrare stupido chiunque. La prima volta in cui ho proposto questa tesi, in realtà non sapevo che la maggior parte di questi concetti era stata già espressa dalla «teoria femminista del punto di vista». La teoria stessa era stata talmente marginalizzata che ne ero solo vagamente al corrente. Questi territori si presentano con un tale groviglio burocratico di ottusità, ignoranza e assurdità che è più che mai comprensibile che le persone per bene cerchino di evitarli (anzi, la strategia di liberazione politica più efficace fino a questo momento sta
precisamente nell’evitarli), ma, allo stesso tempo, fare semplicemente finta che non ci siano è a nostro rischio e pericolo.
Note 1
Questa particolare strategia è talmente comune che bisognerebbe trovarle un nome. Propongo di chiamarla «un’altra parola e me la prendo con il gatto!». Di fronte a una lamentela per un problema burocratico, si fa capire chiaramente che l’unico risultato sarà mettere nei guai qualche sottoposto, anche se il malcapitato non ha nulla a che fare con il problema iniziale. A quel punto l’utente, a meno che non sia insolitamente vendicativo e crudele, ritirerà immediatamente la protesta. Nel mio caso, qualcuno si era effettivamente dimenticato di passarmi un’informazione importante, ma ho avuto la stessa esperienza quando il problema era chiaramente causato dal responsabile con cui mi stavo lamentando. 2
Per esempio: «Ci aspettiamo che tutti lavoriate quanto più duramente possibile per il bene comune senza aspettarvi una ricompensa! Chi non è all’altezza di questo compito è evidentemente un parassita borghese individualista e controrivoluzionario e dovremmo mandarlo in un gulag». 3
Ammesso che esistano studi antropologici della burocrazia – il classico in questo campo può essere considerato Michael Herzfeld, The Social Production of Indifference: Exploring the Symbolic Roots of Western Bureaucracy, Berg, New York 1992 –, non descrivono quasi mai queste situazioni come sciocche o stupide. Quelle poche volte in cui viene affrontato, il punto di vista della «burocrazia come stupidità» viene generalmente attribuito alle fonti, rappresentate come il volgo ingenuo di cui l’antropologo deve spiegare l’esistenza. Perché gli abitanti dei paesini greci o i negozianti del Mozambico – si chiedono gli antropologi – raccontano un sacco di barzellette sui funzionari locali in cui questi vengono rappresentati come sciocchi e sprovveduti? L’unica risposta che non viene mai presa in considerazione è che la gente si limiti a descrivere la realtà. Attenzione: non sto dicendo che gli antropologi e altri scienziati sociali non sanno che i codici e i regolamenti burocratici spingono regolarmente le persone a comportarsi in un modo che in qualsiasi altro contesto sarebbe considerato stupido. Tutti sanno dalle proprie esperienze personali che è così. Tuttavia, ai fini dell’analisi culturale, le verità ovvie non sono interessanti. Al massimo ci si può aspettare un «sì, ma…» – dove si presuppone che il «ma» introduca ciò che è veramente importante.
4
In una certa misura tutto ciò è in aperta contraddizione con il modo in cui l’istituto li incoraggia a vedere il mondo: recentemente ho dovuto compilare on-line un «rapporto sull’allocazione del tempo» per la mia università. C’erano circa trenta voci sul lavoro amministrativo e nessuna voce «scrivere libri». 5
«Mai» è certamente un’esagerazione. Ci sono alcune eccezioni. Molto poche. Nel campo dell’antropologia, l’ottimo libro di Marilyn Strathern, Audit Cultures: Anthropological Studies in Accountability, Ethics and the Academy, Routledge, London 2000, è la più importante. 6
Talcott Parsons e Edward A. Shils, Toward a General Theory of Action, Harvard University Press, Cambridge, MA 1951. 7
Eric Ross, «Cold Warriors Without Weapons», in Identities, 4, 3-4, 1998, pp. 475-506. Tanto per dare un’idea delle relazioni, a Harvard Geertz era un allievo di Clyde Kluckhohn, che era non solo «un importante canale per i fondi agli studi in area Cia», ma aveva contribuito alla sezione sull’antropologia del famoso manifesto weberiano di Parsons e Shils per le scienze sociali, Toward a General Theory of Action. Kluckhohn aveva messo in contatto Geertz con il Center for International Studies del Mit, allora diretto dall’ex responsabile della ricerca economica della Cia, che a sua volta lo aveva convinto a lavorare sullo sviluppo in Indonesia. 8
È interessante notare che prima del 1968 lo stesso Foucault, un vecchio arcistrutturalista che aveva passato molti anni in esilio in Norvegia, Polonia e Tunisia, era un personaggio relativamente oscuro in Francia. Di fatto, dopo l’insurrezione era stato cacciato dalla Tunisia e gli era stata proposta la posizione più prestigiosa che Parigi avesse da offrire, una cattedra al College de France. 9
In campo antropologico, cfr. per esempio Nancy Scheper-Hughes, Death Without Weeping: The Violence of Everyday Life in Brazil, University of California Press, Berkeley 1992; Carolyn Nordstrom e Joann Martin, The Paths to Domination, Resistance, and Terror, University of California Press, Berkeley 1992. 10
L’espressione risale ai dibattiti degli «studi per la pace» degli anni sessanta. È stata coniata da Johann Galtung («Violence, Peace, and Peace
Research», in Journal of Peace Research, 6, 1969, pp. 167-191; Peace: Research, Education, Action. Essays in Peace Research, Christian Ejlers, Copenhagen 1982, vol. I; Peter Lawler, A Question of Values: Johann Galtung’s Peace Research, Lynne Rienner, Boulder 1995) per rispondere all’obiezione secondo la quale definire la «pace» come la mera assenza di atti di aggressione fisica voleva dire sottovalutare la prevalenza di strutture molto più insidiose di sfruttamento. Secondo Galtung, il termine «sfruttamento» era troppo carico di significati per via della sua identificazione con il marxismo, e propose come alternativa «violenza strutturale», ovvero qualsiasi assetto istituzionale che, per il suo stesso funzionamento, provochi regolarmente danni fisici o psicologici a una certa parte della popolazione o imponga limiti alla sua libertà. La violenza strutturale, dunque, può essere distinta sia dalla «violenza personale» (la violenza commessa da un agente umano identificabile) sia dalla «violenza culturale» (le credenze e i pregiudizi sul mondo che giustificano l’uso della violenza). Questo è il processo attraverso il quale il termine è stato adottato anche nella letteratura antropologica (cfr. Philippe Bourgois, «The Power of Violence in War and Peace: Post-Cold War Lessons from El Salvador», in Ethnography, 2, 1, 2001, pp. 5-34; Paul Farmer, «An Anthropology of Structural Violence», in Current Anthropology, 45, 3, 2004, pp. 305-325; Pathologies of Power: Health, Human Rights, and the New War on the Poor, University of California Press, Berkeley 2005; Arun Gupta, Red Tape: Bureaucracy, Structural Violence, and Poverty in India, Duke University Press, Durham 2012). 11
Dato il mondo attuale, ciò chiaramente non ha senso. Se, per esempio, ci sono certi spazi da cui le donne sono escluse per paura di un’aggressione fisica o sessuale, non è possibile fare una distinzione tra quella paura, le motivazioni che spingono gli uomini a perpetrare quelle aggressioni e la polizia a ritenere che la vittima «se la sia cercata» e la conseguente sensazione di molte donne di non avere il diritto di occupare quegli spazi. Né è possibile distinguere questi fattori dalle implicazioni «economiche» per le donne che, di conseguenza, non possono essere assunte per certi tipi di incarichi lavorativi. Tutto questo costituisce un’unica struttura di violenza. Il problema fondamentale dell’approccio di Johann Galtung, come osserva Catia Confortini («Galtung, Violence, and Gender: The Case for a Peace Studies/Feminism Alliance», in Peace and Change, 31, 3, 2006, pp. 333-367), è che considera le «strutture» come entità astratte e fluttuanti, mentre in realtà ci stiamo riferendo a processi materiali, in cui la violenza, e la minaccia della violenza, hanno un ruolo
cruciale e costitutivo. Potremmo anzi sostenere che proprio questa tendenza all’astrazione permette a tutti i soggetti coinvolti di immaginare che la violenza che preserva il sistema sia in qualche modo non responsabile dei suoi effetti violenti. 12
È vero che la schiavitù è spesso presentata come una relazione di tipo morale (il padrone avrebbe un interesse paterno al benessere spirituale degli schiavi, o qualcosa di simile), ma, come è stato spesso osservato, si tratta di una finzione a cui non credono né i padroni né gli schiavi; anzi, la capacità di costringere gli schiavi a adeguarsi a questa ideologia palesemente falsa è essa stessa un modo di affermare il potere puro e arbitrario del padrone. 13
Keith Breckenridge, «Power Without Knowledge: Three Nineteenth Century Colonialisms in South Africa», in Journal of Natal and Zulu History, 26, 2008, pp. 3-31. 14
Keith Breckenridge, «Verwoerd’s Bureau of Proof: Total Information in the Making of Apartheid», in History Workshop Journal, 59, 1985, p. 84. 15
Andrew Mathews, «Power/Knowledge, Power/Ignorance: Forest Fires and the State in Mexico», in Human Ecology, 33, 6, 2005, pp. 795-820; Instituting Nature: Authority, Expertise, and Power in Mexican Forests, 1926-2011, Mit Press, Cambridge, MA 2011. 16
David Apter, The Politics of Modernization, University of Chicago Press, Chicago 1965; Choice and the Politics of Allocation: A Developmental Theory, Yale University Press, New Haven 1971. 17
«Le azioni violente, non meno di qualsiasi altro tipo di espressione comportamentale, sono profondamente permeate di significato culturale e sono il momento dell’agire individuale all’interno di modelli di comportamento storicamente radicati. L’agire individuale, che utilizza forme, simboli e icone culturali esistenti, può dunque essere considerata “poetica” per il substrato governato dalle regole che la sottende, e per come questo substrato viene impiegato, attraverso il quale emergono nuovi significati e nuove forme di espressione culturale» (Neil Whitehead, «On the Poetics of Violence», in Violence, a cura di James Currey, Sar Press, Santa Fe 2004, pp. 9-10). 18
Dal punto di vista penale, tendiamo a considerare il fatto di puntare una
pistola alla testa di qualcuno e chiedergli del denaro come un reato violento, anche se materialmente non c’è alcun contatto fisico. Tuttavia, alcune definizioni più progressiste di violenza evitano di descrivere la minaccia di un danno fisico come una forma di violenza in sé per via delle implicazioni sovversive di questo approccio. Di conseguenza, i progressisti tendono a definire violenti gli atti che provocano danni non consensuali, mentre i conservatori definiscono violenti gli atti che provocano danni non consensuali e che non sono stati approvati da autorità legittime – il che ovviamente rende impossibile per lo stato, o per qualsiasi stato da essi approvato, rendersi responsabile di «violenza» (cfr. C.A.J. Coady, «The Idea of Violence», in Journal of Applied Philosophy, 3, 1, 1986, pp. 3-19; e anche il mio Direct Action: An Ethnography, Ak Press, Oakland 2009, pp. 448-449). 19
Spero che non ci sia bisogno di sottolineare che gli assetti patriarcali di questo tipo sono esempi prima facie di violenza strutturale, le cui norme vengono sanzionate attraverso la minaccia del danno fisico in molteplici forme, più o meno sottili. 20
Dopo la prima stesura di questo passaggio ho provato invano a ritrovare il saggio in cui avevo letto per la prima volta di questi esperimenti (mi era capitato di leggerli in una rivista che avevo sfogliato al consolato americano ad Antananarivo intorno al 1990, mentre svolgevo il mio lavoro sul campo; l’articolo parlava del film Tootsie). Spesso, quando lo racconto, mi sento rispondere che il vero motivo per cui i maschi adolescenti si rifiutano di immaginarsi nei panni di una ragazza è l’omofobia pura e semplice, ed è sicuramente vero, in una certa misura. Poi però bisogna domandarsi perché l’omofobia sia così forte, e perché prenda questa particolare forma. In fondo, molte ragazze adolescenti sono altrettanto omofobe, ma evidentemente si divertono lo stesso a immaginarsi in panni maschili. 21
hooks bell, «Representations of Whiteness», in Black Looks: Race and Representation, South End Press, Boston 1992, pp. 165-178. 22
I testi chiave della teoria del punto di vista di Patricia Hill Collins, Donna Haraway, Sandra Harding, Nancy Hartsock e altre autrici sono raccolti in un volume a cura di Sandra Harding, The Feminist Standpoint Theory Reader: Intellectual and Political Controversies, Routledge, London 2004. Potrei aggiungere che la storia di questo saggio è un esempio rivelatore dello
strabismo di genere che sto descrivendo. Quando ho cominciato a occuparmi del problema non ero nemmeno al corrente di questa letteratura, anche se era chiaro che la mia tesi ne era stata indirettamente influenzata. È stato solo dopo l’intervento di una mia amica femminista che mi sono reso conto dell’origine di molte di quelle idee. 23
Egon Bittner, Aspects of Police Work, Northeastern University Press, Boston 1970; anche «The Capacity to Use Force as the Core of the Police Role», in Moral Issues in Police Work, a cura di Frederick A. Elliston e Michael Feldberg, Rowman and Littlefield, Savage 1985, pp. 15-26; P.A. Waddington, Policing Citizens: Authority and Rights, University College London Press, London 1999; Mark Neocleous, The Fabrication of Social Order: A Critical Theory of Police Power, Pluto Press, London 2000. 24
Questo paragrafo, naturalmente, è rivolto soprattutto a coloro che appartengono a un certo ceto sociale: ho più volte osservato che la vera definizione di «classe media» dipende dalla reazione che ciascuno ha quando vede un poliziotto per la strada, se si sente più o meno sicuro. È per questo che soltanto una piccolissima percentuale di nigeriani, indiani o brasiliani, tanto per fare degli esempi, sente di appartenere alla classe media, al contrario della maggioranza dei danesi o degli australiani bianchi. In molte grandi città d’Europa o del Nord America anche la razza è un fattore importantissimo, e ciò nonostante gli stessi destinatari della violenza più diretta e razzista da parte della polizia siano i primi a insistere che la polizia non fa altro che combattere la criminalità. 25
Sono consapevole del fatto che Weber non ha detto esattamente questo. Anche «gabbia di ferro» è probabilmente una traduzione sbagliata di un’espressione che in realtà voleva dire «scatola di metallo lucente» o qualcosa del genere – non una squallida prigione, ma un involucro tecnologico a suo modo affascinante, almeno in superficie. Ciononostante, questo è il modo in cui Weber è stato interpretato per gran parte del XX secolo, e in un certo senso l’interpretazione popolare è stata più importante, e certamente più influente, di ciò che l’autore voleva dire davvero. 26
Nell’antico Egitto, al contrario, si assiste alla proliferazione di interi generi letterari volti a mettere in guardia i giovani studenti dai mestieri avventurosi. All’inizio si domanda al lettore se ha mai sognato di diventare
capitano di una nave o auriga reale, quindi si spiega quanto è infelice la vita di chi sceglie un mestiere apparentemente così affascinante. La conclusione è sempre la stessa: non fatelo! Diventate burocrati. Avrete un mestiere prospero e potrete dare ordini a soldati e marinai che vi tratteranno come un dio. 27
La cosa più divertente dei film di James Bond, a me sembra, è che Bond è una pessima spia. Le spie sono discrete e poco appariscenti. James Bond è tutto l’opposto. Riesce a ovviare al fatto di essere una pessima spia perché sa fare qualsiasi cosa apparentemente senza sforzo e con una facilità soprannaturale, eccetto la spia. Quanto alle sue inversioni con Sherlock Holmes, si potrebbe andare avanti all’infinito: Holmes ha una storia familiare, Bond sembrerebbe orfano o comunque non ha legami familiari, e oltretutto ha continuamente rapporti sessuali senza mai fare figli. Holmes lavora con un unico partner maschio che beneficia del loro sodalizio, Bond con una serie di donne che il più delle volte muoiono. 28
Un’argomentazione più articolata porterebbe via molto più spazio e non è questa la sede adatta, ma si noti che il film poliziesco del genere «poliziotto ribelle che infrange le regole», diventato ormai lo standard per il cinema d’azione hollywoodiano, non è esistito fino agli anni settanta. Anzi, nei primi cinquant’anni di storia del cinema americano non c’è traccia di film che espongano il punto di vista del poliziotto. Il genere «poliziotto ribelle» nasce quando scompare il western ed è sostanzialmente una trasposizione delle trame western in un’ambientazione urbana e burocratica. Clint Eastwood ha ben impersonato questo passaggio: dall’Uomo senza nome della Trilogia del dollaro di Sergio Leone (1964, 1965, 1966) all’ispettore Callaghan (1971). Come altri hanno osservato, la trama western è quasi sempre il tentativo di creare un contesto all’interno del quale una persona fondamentalmente per bene è giustificata a fare cose che in qualsiasi altra situazione sarebbero assolutamente ingiustificabili. La trasposizione di questa logica in un contesto burocratico urbano ha implicazioni inquietanti: potremmo dire che Jack Bauer è la naturale evoluzione del genere. 29
Marc Cooper, «Dum Da Dum-Dum», in Village Voice, 16 aprile 1991, pp. 28-33. 30
Può sembrare un destino simile a quello delle idee liberiste o libertarie di destra sul mercato libero che combattono l’interferenza dello stato ma che,
secondo quella che definisco la Legge ferrea del liberismo, finiscono comunque per produrre più burocrazia. Non credo, tuttavia, che le idee di sinistra creino sempre e necessariamente burocrazia allo stesso modo. In realtà, i momenti insurrezionali solitamente cominciano con l’azzeramento completo della burocrazia esistente, e anche se alla fine le strutture burocratiche rientrano dalla finestra, questo avviene solo quando i rivoluzionari cominciano a operare attraverso lo stato: quando riescono a conservare enclavi autonome, come per esempio gli zapatisti, questo non succede. 31
Uso la parola «ontologia» con qualche esitazione perché di recente nella sua accezione filosofica se n’è abusato molto. Tecnicamente, l’ontologia è la teoria della natura della realtà, a differenza dell’epistemologia, che è la teoria di ciò che è possibile conoscere della realtà. Nelle scienze sociali, «ontologia» è diventato semplicemente un modo più pretenzioso di dire «filosofia», «ideologia» o «insieme di assunti culturali», spesso in forme che i filosofi troverebbero scandalose. Qui la uso nel senso specifico di «ontologia politica», che in effetti è un’accezione inventata da me, ma che si riferisce a un insieme di assunti sulla realtà. Quando qualcuno dice «Siamo realisti», a quale realtà si riferisce? Qual è la realtà nascosta, l’insieme delle forze implicite che si presume si muovano sotto la superficie degli eventi politici? 32
Anche i ricchi e i potenti riconoscono che il mondo è un luogo triste e infelice per molti dei suoi abitanti, ma aggiungono che tutto questo è inevitabile e che ogni tentativo di cambiarlo inevitabilmente lo peggiorerà; nemmeno loro pensano che viviamo in un ordine sociale ideale. 33
Purtroppo non lo ha mai fatto. Lo ha chiamato Crack Capitalism (DeriveApprodi, Roma 2012), un titolo decisamente di minore qualità. 34
I testi chiave qui sono: James Engell, The Creative Imagination: Enlightenment to Romanticism, Harvard University Press, Cambridge, MA 1981; Thomas McFarland, Originality and Imagination, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1985. 35
Potrei aggiungere che il fatto stesso che la teoria femminista sia stata così rapidamente relegata in un sottogenere senza avere praticamente alcun impatto sul lavoro di molti teorici maschi la dice lunga sugli effetti della violenza strutturale sull’immaginazione.
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Senza dubbio così diventa più facile vedere le due attività come fondamentalmente diverse, il che ci rende più difficile riconoscere lo sforzo interpretativo (per esempio; oppure gran parte di quello che consideriamo il lavoro femminile) come lavoro vero e proprio. Per come la vedo io, probabilmente sarebbe meglio riconoscerlo come la forma primaria di lavoro. Ammesso che si possa fare una distinzione chiara, sono aspetti come la cura, l’energia e il lavoro diretto verso gli esseri umani che dovrebbero essere considerati fondamentali. Le cose di cui ci importa di più – amore, passione, rivalità, ossessione – sono sempre collegate ad altre persone, e in molte società non capitalistiche si dà per scontato che la produzione dei beni materiali sia un momento subordinato a un processo più ampio di formazione delle persone. Anzi, direi che uno degli aspetti più alienanti del capitalismo è che ci costringe a far finta che sia il contrario, e che le società esistano in primo luogo per aumentare la produzione di beni. 37
Cfr. il mio libro Progetto democrazia, il Saggiatore, Milano 2014. Il titolo che avevo scelto era «Come se fossimo già liberi», ma – ironia della sorte – alla fine non sono stato libero di usarlo. 38
Un paradiso all’inferno, Fandango, Roma 2009.
2. Sulle macchine volanti e sul declino del tasso di profitto
La realtà contemporanea è la versione beta di un sogno di fantascienza. RICHARD BARBROOK
C’è una sensazione segreta di vergogna che aleggia su tutti noi nel XXI secolo. E a quanto pare nessuno vuole riconoscerlo. Vale soprattutto per chi ha quaranta o cinquant’anni ed è nel pieno della maturità, ma più in generale riguarda tutti. È un sentimento radicato in un senso di delusione per il mondo in cui viviamo, di promessa non mantenuta: una promessa solenne che ci era stata fatta da bambini su come sarebbe stato il nostro mondo da adulti. Non sto parlando delle false promesse che si fanno sempre ai bambini (che il mondo è giusto, che le autorità agiscono a fin di bene, che chi lavora duramente verrà ricompensato), ma di una promessa generazionale molto specifica – fatta soprattutto a chi era bambino negli anni cinquanta, sessanta, settanta e anche ottanta – che non è stata mai esplicitata in quanto tale, ma piuttosto attraverso una serie di supposizioni su come sarebbe stato il mondo una volta che fossimo diventati adulti. E, siccome questo mondo non ci è mai stato veramente promesso, ora che non si è avverato siamo confusi: siamo indignati, ma allo stesso tempo anche imbarazzati per la nostra indignazione. Ci vergogniamo di essere stati così sciocchi da credere ai nostri genitori. Naturalmente, sto parlando dell’evidente assenza di macchine volanti nel 2015. Va bene, sì, non solo delle macchine volanti. In realtà non mi importa niente delle macchine volanti, anche perché non so guidare. Sto parlando di tutte le meraviglie tecnologiche che ogni bambino cresciuto nella seconda metà del XX
secolo dava per scontato sarebbero esistite nel 2015. L’elenco lo conosciamo tutti: campi di forza, teletrasporto, campi antigravitazionali, tricorder, raggi traenti, elisir di vita eterna, animazione sospesa, androidi, colonie su Marte. Che ne è stato? Ogni tanto viene strombazzato ai quattro venti che una di queste cose sta per diventare realtà – i cloni, per esempio, o la criogenia, o le cure anti-invecchiamento, o i mantelli dell’invisibilità –, ma anche quando non si rivelano false promesse (e di solito è così) si scopre che non funzionano. La reazione più comune a questo tipo di osservazioni è il rimando di rito alle meraviglie dell’informatica – a che serve una slitta antigravitazionale quando c’è Second Life? –, come se fossero una specie di risarcimento inatteso. Ma, anche in questo caso, non ci avviciniamo neanche a dove pensavamo di arrivare negli anni cinquanta. Ancora non esistono computer con cui fare conversazione, o robot che portano a spasso il cane o piegano i panni. Quando l’Apollo atterrò sulla Luna avevo otto anni, e ricordo benissimo che calcolavo che nel magico anno 2000 avrei avuto trentanove anni e mi domandavo come sarebbe stato il mondo intorno a me. Mi aspettavo veramente tutte queste meraviglie? Certo. Tutti se le aspettavano. E quindi adesso mi sento defraudato? Naturalmente sì. Ovvio, non pensavo di veder realizzate tutte le cose di cui leggevamo nei romanzi di fantascienza (a meno che qualche nuovo elisir di lunga vita non mi avesse allungato la vita di qualche secolo). Se qualcuno all’epoca me lo avesse chiesto, avrei detto circa la metà. Ma non avrei mai immaginato di non vederne nessuna. Il silenzio pressoché totale su questo tema nel dibattito pubblico mi ha sempre disorientato e affascinato. Ogni tanto su Internet si sente qualcuno che si lamenta per la mancanza delle macchine volanti, ma sono voci in sordina o molto marginali. Anzi, l’argomento è considerato quasi tabù. Alla svolta del millennio, per esempio, mi aspettavo una valanga di riflessioni da parte dei quarantenni su come ci aspettavamo che fosse il 2000 e sul perché ci eravamo sbagliati così tanto. Non ne ho trovata neanche una. Tutte le voci più autorevoli – sia di destra sia di sinistra – partivano dall’assunto che un mondo di meraviglie tecnologiche era effettivamente arrivato. In larga misura, il silenzio è dovuto al timore di essere messi alla berlina come degli sciocchi ingenui. Quando si prova a sollevare la questione, spesso ci si sente rispondere: «Ah, vuoi dire la roba tipo I Jetsons?». Come a dire, ma
quella era roba per bambini! Certo, da persone adulte dovremmo capire che il futuro dei Jetsons era altrettanto irrealistico del passato dei Flintstones. Ma ovviamente non c’era solo quello. Tutti i programmi scientifici per bambini negli anni cinquanta, sessanta, settanta e ottanta – Scientific American, i programmi educativi alla tv, le visite ai planetari nei musei –, tutte le voci autorevoli che ci dicevano com’era fatto l’universo e perché il cielo era azzurro, che ci spiegavano la tavola periodica degli elementi, ci assicuravano anche che nel futuro ci sarebbero stati davvero i robot, le colonie sugli altri pianeti, gli strumenti per la trasformazione della materia e un mondo molto più vicino a Star Trek rispetto al nostro. Il fatto che tutte queste voci si siano dimostrate false non solo crea un senso profondo di tradimento quasi inesprimibile: pone anche una serie di problemi concettuali sul modo in cui dovremmo parlare della storia ora che le cose non sono andate come pensavamo. Ci sono ambiti in cui non è possibile scacciare con un gesto della mano la discrepanza tra aspettativa e realtà. Uno di questi è la fantascienza. Nel XX secolo, i creatori dei film di fantascienza ipotizzavano date concrete in cui ambientare le loro fantasie sul futuro. Spesso non si andava più in là di una generazione. Nel 1968, per esempio, Stanley Kubrick immaginava che il pubblico avrebbe ritenuto perfettamente naturale che soltanto trentatré anni dopo, nel 2001, avremmo avuto voli commerciali sulla Luna, stazioni spaziali simili a città e computer dalla personalità umana capaci di tenere gli astronauti in animazione sospesa mentre andavano su Giove. 1 Di fatto, l’unica nuova tecnologia di 2001: Odissea nello spazio diventata realtà è il videotelefono, che però era tecnicamente realizzabile già nel 1968 (ma all’epoca era impossibile metterlo sul mercato perché nessuno lo voleva). 2 Problemi simili si presentano ogni volta che un particolare scrittore o un programma prova a creare una mitologia di grande respiro. Nell’universo ideato da Larry Niven – che ho imparato a conoscere quando ero adolescente – nel decennio attuale (gli anni 2010) l’umanità è governata a livello mondiale dall’Onu e sta creando la prima colonia sulla Luna; nel frattempo è alle prese con le conseguenze sociali dei progressi medici che hanno dato vita a una classe di ricchi immortali. Nella mitologia di Star Trek dello stesso periodo, invece, l’umanità di oggi si sta riprendendo dalle Guerre eugenetiche degli anni novanta contro una razza di superuomini geneticamente modificati, poi
imprigionati nello spazio in sospensione criogenica. Negli anni novanta gli autori di Star Trek hanno dovuto cominciare a giocare con cronologie e realtà alternative per non far crollare tutto l’impianto narrativo. Nel 1989, quando i creatori di Ritorno al futuro – parte II misero macchine volanti e tavole antigravitazionali nelle mani di teen-ager comuni nell’anno 2015, non era chiaro se la loro fosse una previsione seria, un omaggio alla fantascienza del passato o uno scherzo dal sapore un po’ amaro. In ogni caso, è stato uno degli ultimi esempi di questo tipo. Il futuro immaginato dalla fantascienza negli anni successivi è quasi sempre distopico, come in Cloud Atlas, dove da un cupo tecnofascismo si passa a una sorta di barbarie da età della pietra, oppure è studiatamente ambiguo: gli autori restano vaghi sulle date, trasformando «il futuro» in una zona di pura fantasia, non diversa dalla Terra di Mezzo o da Cimmeria. A volte, come in Guerre stellari, il futuro è nel passato, «tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana». Questo futuro, il più delle volte, non è neanche un futuro, ma una specie di dimensione alternativa, un tempo del sogno, un Altrove tecnologico che esiste nel futuro non diversamente dal modo in cui gli elfi e gli sterminatori di draghi sono esistiti nel passato: l’ennesimo schermo su cui proiettare drammi morali e fantasie mitologiche. Oggi la fantascienza è diventata un altro set in costume in cui ci si può vestire per un western, per un film di guerra, per un film dell’orrore, per un thriller di spionaggio o per una favola. Credo che sarebbe sbagliato, tuttavia, dire che la nostra cultura ha completamente evitato la questione della delusione tecnologica. Visto che ci crea imbarazzo, tendiamo piuttosto a non affrontarla esplicitamente. Come per molti altri traumi culturali, il dolore viene rimosso: ne parliamo soltanto quando crediamo di parlare d’altro. Con il senno di poi, a me sembra che l’intero approccio culturale fin de siècle che va sotto il nome di «postmodernismo» possa essere considerato come una sorta di meditazione prolungata sui cambiamenti tecnologici che non si sono avverati. Ho avuto per la prima volta questa intuizione guardando uno dei nuovi episodi della saga di Guerre stellari. Il film era bruttissimo, ma non si poteva fare a meno di apprezzare la qualità degli effetti speciali. Ricordando i goffi effetti dei film di fantascienza degli anni cinquanta, con le astronavi di
latta tirate da fili quasi invisibili, continuavo a pensare a quanto il pubblico di allora sarebbe rimasto impressionato se avesse saputo quello che possiamo fare adesso. Poi mi sono detto: «No. Non sarebbe stato impressionato per niente. Al tempo pensavano che queste cose le avremmo fatte, non che avremmo trovato un modo più sofisticato per simularle». Quest’ultima parola, «simulare», è la chiave. Gli unici progressi tecnologici che abbiamo visto dagli anni settanta in poi sono stati nelle tecnologie informatiche, cioè in tecnologie della simulazione, di quello che Jean Baudrillard e Umberto Eco chiamavano l’«iper-reale», ovvero la capacità di rendere l’imitazione più realistica dell’originale. Tutta la sensibilità postmodernistica, la sensazione di essere in qualche modo approdati a una nuova fase storica senza precedenti in cui abbiamo capito che non c’è niente di nuovo, che le grandi narrazioni storiche di progresso e liberazione non hanno alcun significato, che oggi tutto è simulazione, ripetizione ironica, frammentazione e parodia – tutto ciò ha una logica soltanto in un ambiente tecnologico in cui le uniche grandi conquiste sono quelle che facilitano la creazione, il trasferimento e la riorganizzazione di proiezioni virtuali di cose che o già esistevano o (adesso finalmente lo abbiamo capito) non esisteranno mai. Certo, se passassimo le vacanze in una cupola geodetica su Marte o ce ne andassimo in giro con in tasca una minicentrale di fusione nucleare o un apparecchio per la lettura telecinetica della mente, oggi nessuno parlerebbe così. Il momento «postmodernistico» non è altro che il tentativo disperato di dare una veste epocale, elettrizzante e nuova a quella che altrimenti ci sembrerebbe una tremenda delusione. Vale la pena di sottolineare che nelle precedenti formulazioni del postmodernismo, provenienti in gran parte dalla tradizione marxista, molto di questo sottotesto tecnologico non era nemmeno un sottotesto, ma era abbastanza esplicito. Ecco un brano tratto da Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, scritto da Fredric Jameson nel 1984: Mi sembra giusto ricordare l’entusiasmo per le macchine nel momento del capitale precedente il nostro, in particolare l’eccitazione futurista e la celebrazione marinettiana della mitragliatrice e dell’automobile. Sono emblemi ancora visibili, nodi scultorei di energia, che rendono tangibili e raffigurabili le energie motrici di quel primo momento della
modernizzazione. […] il modo in cui alcuni artisti rivoluzionari o comunisti degli anni trenta […] tentarono di fare proprio questo entusiasmo per l’energia della macchina in vista di una ricostruzione prometeica dell’intera società umana. È immediatamente evidente che l’odierna tecnologia non possiede più questa capacità di rappresentazione: non la turbina, né i montacarichi per il grano o le ciminiere di Sheeler, e neppure le elaborazioni barocche di condotti e cinghie di trasmissione o i profili aerodinamici dei treni – veicoli veloci ancora concentrati in stato di riposo –, ma piuttosto il computer, il cui involucro esterno non ha alcun potere emblematico o visivo, o persino i rivestimenti dei vari media, come quell’elettrodomestico chiamato televisione che non articola niente, e anzi implode e porta dentro di sé la propria superficie di immagini appiattite. 3 Mentre un tempo la pura potenza fisica delle tecnologie stesse ci dava il senso della storia che avanzava a grandi passi, oggi ci siamo ridotti a un gioco di schermi e immagini. Originariamente Jameson propose il termine «postmodernismo» in riferimento alla logica culturale più appropriata per una nuova fase del capitalismo, che Ernest Mandel, già nel 1972, aveva definito «terza rivoluzione tecnologica». L’umanità, sosteneva Mandel, era sull’orlo di una trasformazione non meno profonda della rivoluzione agricola e di quella industriale, una trasformazione in cui computer, robot, nuove fonti energetiche e nuove tecnologie informatiche avrebbero di fatto sostituito la vecchia manodopera industriale (la «fine del lavoro», come è stata poi chiamata), tramutandoci tutti in designer e tecnici informatici alle prese con le folli visioni prodotte dalle fabbriche cibernetiche. 4 Le tesi sulla fine del lavoro divennero molto diffuse a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, con i pensatori radicali che si interrogavano su che cosa sarebbe stato della lotta di classe tradizionale una volta scomparsa la classe operaia (risposta: si sarebbe trasformata in politica dell’identità). Jameson si considerava un esploratore delle forme di coscienza e dei valori storici destinati a emergere da questa nuova fase. Ovviamente, come sappiamo, tali conquiste tecnologiche non si sono materializzate. È successo invece che la
diffusione delle tecnologie informatiche e di nuovi modi di organizzare i trasporti (le spedizioni via container, per esempio) ha permesso l’esternalizzazione di quello stesso lavoro industriale nel Sudest asiatico, in America Latina e in altri paesi in cui la disponibilità di manodopera a basso costo ha consentito agli industriali di impiegare tecniche di produzione molto meno evolute tecnologicamente di quelle che avrebbero dovuto usare in patria. È vero: per chi vive in Europa e in Nord America, o anche in Giappone, superficialmente i risultati sembrano molto vicini alle previsioni. Le ciminiere vanno effettivamente scomparendo; nel lavoro c’è un livello inferiore di semplici addetti ai servizi e un livello superiore di persone che giocano con i computer all’interno di bolle asettiche. Ma alla base di tutto ciò c’è l’amara consapevolezza che la fantomatica nuova civiltà postlavoro è fondamentalmente una truffa. Le nostre scarpe da ginnastica hi-tech non vengono prodotte da cyborg intelligenti o da nanotecnologie molecolari autoreplicanti; vengono cucite con l’equivalente delle vecchie macchine Singer dalle figlie dei contadini messicani e indonesiani allontanati dalle loro terre ancestrali per effetto degli accordi commerciali promossi dal Wto o dal Nafta. C’è questa colpevole consapevolezza, a me sembra, dietro la sensibilità postmodernistica, dietro la sua celebrazione del gioco infinito di immagini e superfici, dietro l’insistenza sul fatto che tutte le narrazioni moderniste che avrebbero dovuto dare profondità e realtà a quelle immagini alla fine erano soltanto menzogne. E allora: perché l’esplosione della crescita tecnologica che tutti si aspettavano – le basi lunari, le fabbriche robotizzate – non c’è stata? A logica, ci sono soltanto due possibilità. O le nostre aspettative sulla velocità del cambiamento tecnologico erano irrealistiche, e in questo caso dobbiamo chiederci perché tante persone intelligenti pensavano il contrario, oppure le nostre aspettative non erano intrinsecamente irrealistiche, e allora dobbiamo chiederci che cosa ha fatto deragliare il treno dello sviluppo tecnologico. Quando oggi gli studiosi dei fenomeni culturali affrontano il problema – e succede di rado – scelgono sempre la prima opzione. Spesso si riconduce tutto alle illusioni alimentate dalla corsa allo spazio della Guerra fredda. Perché, si sono domandati in molti, negli anni cinquanta, sessanta e settanta gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica si erano fissati con l’idea di mandare la gente nello spazio? Non era certo il modo più efficiente di affrontare la ricerca scientifica. Non c’entrava forse il fatto che sia gli americani sia i russi nel secolo precedente erano stati dei pionieri, i primi con la conquista della Frontiera, i secondi con l’espansione in Siberia? Non fu forse la stessa dedizione collettiva al mito di un futuro di conquiste senza limiti e di colonizzazione umana di vasti spazi vuoti a convincere i leader delle due superpotenze di essere entrati in una nuova «età dello spazio» in cui si combatteva per il controllo del futuro stesso? E questa battaglia non produsse, da ambo le parti, concezioni del tutto irrealistiche di come sarebbe stato quel futuro? 5 Ovviamente c’è della verità in tutto ciò. Si scontravano miti molto forti. D’altra parte, quasi tutti i grandi progetti dell’uomo sono radicati in una qualche visione mitica, cosa che di per sé non prova nulla, in un senso o nell’altro, sulla fattibilità del progetto stesso. In questo capitolo voglio esplorare la seconda possibilità. Credo che ci siano buoni motivi per ritenere che almeno alcune di quelle visioni non fossero intrinsecamente irrealistiche, e che almeno alcune di quelle fantasie fantascientifiche (a questo punto non possiamo sapere quali) sarebbero potute essere realizzate. Nel passato, per esempio, succedeva regolarmente. Se un lettore di Jules Verne o di H.G. Wells cresciuto a cavallo tra XIX e XX secolo avesse provato a immaginare il mondo nel 1960, avrebbe pensato ad apparecchi volanti, razzi, sottomarini, nuove forme di energia e comunicazioni senza fili… e più o meno così è stato. Se nel 1900 non era irrealistico sognare l’uomo sulla Luna, perché negli anni sessanta doveva essere irrealistico sognare zainetti jet e robot che piegano i panni? Se dal 1750 al 1950 erano state scoperte regolarmente nuove fonti di energia (vapore, elettricità, petrolio, nucleare…), era così irragionevole pensare di vederne almeno un’altra dal 1950 in poi? Probabilmente già negli anni cinquanta e sessanta il passo dell’innovazione tecnologica stava cominciando a rallentare rispetto al ritmo frenetico della prima metà del secolo. Negli anni cinquanta ci fu una specie di ultima ondata di invenzioni in rapida successione, con il forno a microonde (1954), la pillola anticoncezionale (1957) e il laser (1958). Da allora, le conquiste tecnologiche più importanti sono state o nuove combinazioni di tecnologie esistenti (come nella corsa allo spazio) o nuovi modi di estendere le tecnologie esistenti all’uso dei
consumatori (l’esempio più ovvio è la televisione, inventata nel 1926 ma prodotta in serie soltanto tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, nel tentativo consapevole di creare una nuova domanda di consumi per evitare che l’economia americana scivolasse di nuovo nella depressione). La corsa allo spazio, tuttavia, contribuì ad alimentare l’idea che quelli fossero anni di grandi progressi, e negli anni sessanta la percezione popolare dominante era che il passo del cambiamento tecnologico stesse accelerando in modo pauroso e incontrollabile. Lo choc del futuro, il dirompente best seller di Alvin Toffler del 1970, può essere considerato lo spartiacque di questa linea di pensiero. Con il senno di poi, è una lettura affascinante e rivelatrice. 6 Secondo Toffler, quasi tutti i problemi sociali degli anni sessanta potevano essere ricondotti alla velocità dei cambiamenti tecnologici. Mentre il torrente infinito del progresso scientifico modificava le basi stesse della nostra esistenza quotidiana, scriveva Toffler, gli americani erano alla deriva, senza più un’idea chiara di che cosa fosse una vita normale. Tutto ciò era particolarmente evidente nella famiglia, dove non solo la pillola, ma anche la prospettiva della fecondazione in vitro, i bambini in provetta e le donazioni di sperma e ovuli stavano per rendere obsoleta l’idea della maternità. Ma lo stesso succedeva in ogni sfera della vita sociale: nulla poteva essere dato per scontato. E l’uomo non era psicologicamente pronto per la velocità del cambiamento. Toffler coniò un termine per descrivere il fenomeno: «spinta accelerativa». L’accelerazione del progresso tecnologico era cominciata probabilmente con la Rivoluzione industriale, ma, scriveva Toffler, il fenomeno era diventato inequivocabile intorno al 1850. Non solo tutte le cose intorno a noi stavano cambiando, ma la maggior parte di queste – la massa stessa della conoscenza umana, le dimensioni della popolazione, la crescita industriale, la quantità di energia consumata – stava cambiando a un tasso esponenziale. L’unica soluzione, secondo Toffler, era creare una forma di controllo democratico di questo processo, attraverso istituzioni in grado di valutare le tecnologie emergenti e i loro probabili effetti, di vietare quelle dagli effetti socialmente più distruttivi e di guidare il cambiamento in una direzione che favorisse l’armonia sociale. Molti dei trend descritti da Toffler erano reali, ma – e questo è l’aspetto più interessante – il libro uscì proprio nel momento esatto in cui stavano quasi tutti per esaurirsi. Per esempio, fu proprio intorno al 1970 che il numero delle
pubblicazioni scientifiche a livello mondiale (un dato che dal 1685 circa raddoppiava ogni quindici anni) cominciò a ristagnare. Lo stesso avveniva per libri e brevetti. In altri settori la crescita si fermò completamente. La scelta della parola «accelerazione» da parte di Toffler si rivelò particolarmente infelice. Per gran parte della storia, la velocità massima alla quale l’uomo potesse viaggiare è stata di circa 40 km/h. Nel 1900 è passata a 160 km/h, e nei successivi settant’anni è effettivamente aumentata in modo esponenziale. Nel 1970, al tempo in cui scriveva Toffler, la velocità massima a cui l’uomo avesse mai viaggiato erano i 39 897 km/h raggiunti nel 1969, appena un anno prima, dall’equipaggio dell’Apollo 10 mentre rientrava nell’atmosfera terrestre. A tassi così elevati, era ragionevole supporre che nel giro di pochi decenni l’umanità avrebbe cominciato a esplorare nuovi sistemi solari. Dal 1970, però, non c’è stato alcun progresso. Il record di velocità di un essere umano resta quello dell’equipaggio dell’Apollo 10. È vero che un anno dopo, nel 1971, è stato stabilito il record di velocità di un volo commerciale, con i 2179 km/h del Concorde. Da allora, però, la velocità dei voli di linea non solo non è aumentata, ma dalla dismissione del Concorde, nel 2003, è addirittura diminuita. 7
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Il fatto che Toffler si sbagliasse praticamente su tutto non ha avuto
ripercussioni negative sulla sua carriera. I profeti carismatici raramente pagano un prezzo quando le loro profezie non si avverano. Toffler ha continuato semplicemente a riciclare la sua analisi e a fare nuovi proclami più o meno ogni decennio, guadagnandosi applausi e riconoscimenti pubblici. Nel 1980 ha scritto un libro intitolato La terza ondata, 9 attingendo a piene mani dalla tesi della «terza rivoluzione tecnologica» di Ernest Mandel. Ma, mentre Mandel sosteneva che i cambiamenti tecnologici avrebbero segnato la fine del capitalismo, per Toffler, semplicemente, il capitalismo non sarebbe mai morto. Nel 1990 Toffler è diventato il guru personale del deputato repubblicano Newt Gingrich, che ha detto che il suo «contratto con l’America» del 1994 era stato ispirato in parte dalla consapevolezza che gli Stati Uniti dovevano abbandonare la vecchia mentalità industriale, antiquata e materialista, e passare alla nuova civiltà della «terza ondata», caratterizzata dal libero mercato e dall’informatica. In questa vicenda ci sono tanti aspetti paradossali. Uno dei risultati più tangibili di Lo choc del futuro, per esempio, è stato aver convinto il governo degli Stati Uniti a istituire l’Office of Technology Assessment (Ota, «Ufficio per la valutazione tecnologica») nel 1972, più o meno in linea con la richiesta di Toffler di una sorta di supervisione democratica sulle tecnologie potenzialmente più disgreganti. Ebbene, una delle prime iniziative di Gingrich una volta preso il controllo del Congresso nel 1995 è stata togliere i finanziamenti all’Ota, considerato un esempio di spreco di stato. Di nuovo, tutto ciò non ha affatto turbato Toffler, che del resto aveva già rinunciato da un pezzo a influenzare la politica rivolgendosi all’opinione pubblica, o anche solo contribuendo al dibattito pubblico. Ormai si guadagnava da vivere tenendo seminari per gli amministratori delegati e i soci delle fondazioni private. Le sue riflessioni, di fatto, erano state privatizzate. Gingrich amava definirsi un «futurologo conservatore». Sembra un ossimoro, ma in realtà, guardando all’opera di Toffler con il senno di poi, l’approccio politico del guru è perfettamente in linea con quello del suo allievo, ed è strano che qualcuno possa averlo scambiato per qualcos’altro. La tesi di Lo choc del futuro è la definizione stessa del conservatorismo. Il progresso è sempre presentato come un problema da risolvere. È vero, la soluzione proposta da Toffler è apparentemente quella di creare forme di controllo democratico, ma di fatto «democratico» significa «burocratico»: creare
comitati di esperti per determinare quali invenzioni approvare e quali mettere in soffitta. In un certo senso, Toffler può essere considerato una versione moderna e intellettualmente più leggera di Auguste Comte, il teorico sociale dei primi dell’Ottocento. Anche Comte sentiva di essere alla vigilia di una nuova epoca – nel suo caso, l’età industriale – caratterizzata dal progresso inesorabile della tecnologia, e riteneva che i cataclismi sociali del suo tempo fossero dovuti all’incapacità di adattarsi del sistema sociale. Il vecchio ordine feudale aveva prodotto non soltanto la teologia cattolica, un modo di concepire il posto dell’uomo nel cosmo che si adattava perfettamente al sistema sociale del tempo, ma anche una struttura istituzionale, la Chiesa, che veicolava e imponeva quei precetti dando a ciascun individuo un senso di importanza e di appartenenza. Anche l’età industriale aveva prodotto il suo sistema di idee – la scienza –, ma gli scienziati non erano riusciti a creare nulla che somigliasse alla Chiesa cattolica. Secondo Comte, dunque, bisognava costruire una nuova scienza, da lui denominata «sociologia», e i sociologi dovevano diventare i sacerdoti di una nuova «religione della società» che avrebbe insegnato alle masse l’amore per l’ordine, la comunità, la disciplina del lavoro e i valori della famiglia patriarcale. Toffler era meno ambizioso: i suoi futurologi non dovevano avere il ruolo di sacerdoti. Condivideva però la stessa idea di una tecnologia che aveva portato l’uomo sull’orlo di una grande discontinuità storica, la stessa paura della disgregazione sociale, e anche la stessa fissazione con la necessità di difendere il ruolo sacro della maternità: Comte voleva addirittura mettere l’immagine di una donna incinta sulla bandiera del suo movimento religioso. Gingrich aveva in effetti anche un guru religioso: George Gilder, teologo libertario e autore, tra le altre cose, di un periodico chiamato Gilder Technology Report. Gilder era a sua volta ossessionato dal rapporto tra tecnologia e cambiamento sociale, ma stranamente era molto più ottimista. In un’interpretazione ancora più radicale della tesi della terza ondata di Mandel, sosteneva che quello a cui avevamo assistito dagli anni settanta in poi con l’avvento dei computer fosse un vero e proprio «spodestamento della materia». La vecchia società industriale materialista, in cui il valore derivava dal lavoro fisico, stava cedendo il passo all’età dell’informazione, in cui il valore scaturiva direttamente dalla mente degli imprenditori: proprio come il mondo era
comparso ex nihilo dalla mente di Dio e proprio come il denaro, in un’economia dell’offerta, nasceva ex nihilo dalla Federal Reserve riversandosi nelle mani di capitalisti fantasiosi e creatori di valore. Le politiche economiche dell’offerta, spiegava Gilder, avrebbero continuato a distogliere gli investimenti da vecchi carrozzoni statali come il programma spaziale e a indirizzarli verso le più produttive tecnologie informatiche e mediche. Gilder, che aveva cominciato la sua carriera dichiarando di aspirare al ruolo di «primo antifemminista d’America», spiegava anche che questi salutari sviluppi potevano essere assicurati soltanto da una rigida osservanza del valori tradizionali della famiglia. Non proponeva una nuova religione della società. Non riteneva di averne bisogno, dato che la stessa funzione poteva essere svolta dal Movimento cristiano evangelico, che stava già stringendo la sua strana alleanza con la destra libertaria. 10 Non è il caso di soffermarsi troppo su questi personaggi eccentrici, per quanto influenti. Tanto per cominciare, sono arrivati in ritardo. Se gli investimenti si sono consapevolmente, o semiconsapevolmente, spostati dalla ricerca sui razzi e sui robot a quella che ha portato alle stampanti laser e alle macchine per la Tac, questo processo è cominciato ben prima dell’uscita di Lo choc del futuro di Toffler (1970), per non parlare di Wealth and Poverty («Ricchezza e povertà») di Gilder (1981). 11 Il successo di tali personaggi dimostra solo che le questioni da loro sollevate – il timore che i modelli di sviluppo tecnologici esistenti provochino disordini sociali, l’esigenza di guidare lo sviluppo tecnologico in una direzione che non metta in discussione le strutture di autorità esistenti – hanno trovato terreno fertile nelle stanze del potere. Probabilmente gli uomini di stato e i capitani d’industria ci stavano pensando già da un po’ di tempo. 12 Che cosa è successo allora? Nel resto di questo capitolo, che è diviso in tre parti, prenderò in esame una serie di fattori che secondo me hanno contribuito a far sì che il futuro tecnologico che tutti ci aspettavamo non si realizzasse mai. Questi fattori si dividono in due grandi temi. Uno è politico, e riguarda i consapevoli cambiamenti nell’allocazione dei fondi destinati alla ricerca; l’altro è burocratico, e riguarda il cambiamento della natura stessa dei sistemi che amministrano la ricerca scientifica e tecnologica.
Tesi A partire dagli anni settanta c’è stato un profondo cambiamento nell’allocazione degli investimenti in tecnologia: dal finanziamento delle tecnologie collegate alla possibilità di futuri alternativi si è passati al finanziamento delle tecnologie collegate al mantenimento della disciplina sul lavoro e al controllo sociale. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. […] Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci. (Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, Red Star Press, Roma 2014, pp. 34-35) Ho detto anche che il divertimento era molto importante, che c’era un rifiuto esplicito dell’etica e della morale che venivano spacciate in tutto il paese per tenere la gente impegnata a lavorare in una corsa dei topi che non aveva alcun senso, perché nel giro di pochi anni le macchine avrebbero comunque fatto tutto il lavoro, che c’era tutto un sistema di valori che venivano insegnati alla gente per convincerla a rimandare il piacere, a mettere tutti i soldi in banca, a fare l’assicurazione sulla vita, tutta una serie di cose che per la nostra generazione non avevano nessun senso. (Abbie Hoffman, dal processo ai Sette di Chicago, 1970) Fin dai suoi inizi, nel XVIII secolo, il sistema che conosciamo come «capitalismo industriale» ha favorito un tasso estremamente rapido di progresso scientifico e innovazione tecnologica, a livelli che non si erano mai visti nella storia dell’uomo. I suoi fautori hanno sempre sottolineato questo aspetto per giustificare lo sfruttamento, l’infelicità e la distruzione delle comunità prodotti dal sistema. Perfino i suoi più famosi detrattori, Karl Marx e Friedrich Engels, erano disposti a esaltare il capitalismo – se non altro – per il suo magnifico sprigionamento delle «forze produttive». Marx ed Engels pensavano anche che
quella stessa tendenza, o, per essere più precisi, il bisogno del capitalismo di rivoluzionare continuamente i mezzi di produzione industriale, avrebbe segnato la sua stessa rovina. È possibile che avessero ragione? Ed è possibile che negli anni sessanta i capitalisti, intesi come classe, avessero cominciato a capirlo? La tesi di Marx era che, per certe ragioni tecniche, il valore, e quindi il profitto, possa essere estratto soltanto dal lavoro dell’uomo. La concorrenza obbliga i proprietari delle fabbriche a meccanizzare la produzione per ridurre il costo della manodopera, ma, se nel breve termine questo processo avvantaggia la singola impresa, l’effetto complessivo della meccanizzazione è un abbassamento generale del tasso di profitto di tutte le imprese. Ormai da quasi due secoli gli economisti discutono se sia vero o no. Ma, se è vero, allora la decisione degli industriali, altrimenti misteriosa, di non investire nelle fabbriche robotizzate che tutti immaginavano negli anni sessanta e di spostare invece le attività produttive in impianti ad alta intensità di lavoro e a bassa tecnologia in Cina o nel Sud del mondo è del tutto logica. 13 Come ho già osservato, è probabile che il ritmo dell’innovazione tecnologica nei processi produttivi – le fabbriche stesse – avesse cominciato a rallentare notevolmente già negli anni cinquanta e sessanta. Naturalmente, al tempo non sembrava così. A dare questa sensazione erano soprattutto gli effetti collaterali della rivalità tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il fenomeno era duplice. Da una parte c’era una politica consapevole: durante la Guerra fredda i responsabili della pianificazione industriale statunitense 14 cercarono spasmodicamente di trovare nuovi modi di dare le tecnologie esistenti in pasto ai consumatori per creare un senso di ottimismo, di prosperità e di progresso che, si sperava, avrebbe ridimensionato la minaccia del radicalismo operaio. Questo intento fu dichiarato esplicitamente durante il famoso «dibattito in cucina» tra Richard Nixon e Nikita Chruščëv nel 1959: «Il vostro “stato dei lavoratori” comunista ci avrà anche battuto nello spazio» argomentò efficacemente Nixon «ma è il capitalismo che crea tecnologie come le lavatrici, che migliorano concretamente la vita delle masse dei lavoratori». Dall’altra parte c’era la corsa allo spazio. Nell’uno e nell’altro caso, a fare la prima mossa fu l’Unione Sovietica. Per gli americani è difficile ricordarsi di tutto questo, perché nell’immaginario collettivo, dopo la fine della Guerra fredda, l’Urss è
passata dall’essere un rivale temibile all’essere un caso disperato, tipico esempio di un modello che «semplicemente non ha funzionato». In realtà, negli anni cinquanta i responsabili della pianificazione in America sospettavano che il sistema sovietico funzionasse molto meglio del loro. Di certo ricordavano bene che negli anni trenta, mentre gli Stati Uniti erano impantanati nella depressione, l’Unione Sovietica avanzava a tassi di crescita quasi da record, tra il 10 e il 12 per cento l’anno. Poco dopo arrivò la produzione delle grandi armate di carri che sconfissero Hitler e, ovviamente, il lancio dello Sputnik nel 1957, seguito dall’invio della prima navicella spaziale pilotata da un uomo, la Vostok, nel 1961. Quando Chruščëv assicurava che nel giro di sette anni il tenore di vita in Unione Sovietica avrebbe superato quello americano, molti americani temevano che fosse possibile. Si dice spesso che lo sbarco dell’Apollo sulla Luna sia stato il più grande traguardo storico del comunismo sovietico. Di sicuro, gli Stati Uniti non avrebbero mai pensato di avventurarsi in un’impresa del genere se non fosse stato per le ambizioni spaziali del Politburo. Anche porre la questione in questi termini è sorprendente. «Ambizioni spaziali?» Siamo abituati a pensare al Politburo come a un gruppo di grigi burocrati senza fantasia. Ma, se l’Unione Sovietica era governata da burocrati (e certamente lo era), almeno erano burocrati che sognavano in grande. Il sogno della rivoluzione mondiale era stato solo l’inizio. Ovviamente, molti dei loro ambiziosissimi progetti – cambiare il corso dei fiumi e cose del genere – si sono dimostrati ecologicamente e socialmente disastrosi oppure non sono mai partiti, come il Palazzo dei Soviet progettato da Stalin, che doveva avere cento piani e una statua di Lenin di cinquanta metri sul tetto. E dopo il successo iniziale del programma spaziale sovietico molti progetti sono rimasti sulla carta. Ma la leadership sovietica non ha mai smesso di sfornarne altri. Perfino negli anni ottanta, quando gli Stati Uniti stavano lavorando sul loro ultimo progetto ambizioso (a sua volta abortito) delle Guerre stellari, i sovietici stavano ancora studiando ed escogitando modi per trasformare il mondo attraverso l’uso creativo della tecnologia. Pochi, al di fuori della Russia, ricordano questi progetti, a cui pure sono state destinate immense risorse. Vale anche la pena di sottolineare che a differenza di Guerre stellari, che era un programma puramente militare studiato per affondare l’Unione Sovietica, molti di questi
progetti erano pacifici, come il tentativo di risolvere il problema della fame nel mondo coltivando laghi e oceani con un batterio commestibile chiamato spirulina, o quello di risolvere i problemi energetici lanciando in orbita centinaia di centrali solari e trasformando i raggi in energia elettrica per la Terra. 15 Anche l’età dell’oro della fantascienza, che ebbe il suo apice negli anni cinquanta e sessanta e che creò il primo repertorio standard delle invenzioni future – campi di forza, raggi traenti, propulsioni a curvatura – che ogni bambino di otto anni oggi conosce benissimo (come sa che l’aglio, le croci, i paletti e la luce del sole servono ad ammazzare i vampiri) ha attraversato simultaneamente gli Stati Uniti e l’Urss. 16 Pensiamo a Star Trek, la quintessenza della mitologia americana. La Federazione dei pianeti, con il suo nobile idealismo, la rigida disciplina militare e l’apparente mancanza di differenze di classe e di una democrazia pluripartitica, non è una versione americanizzata di una Unione Sovietica più morbida e gentile, e soprattutto in grado di «funzionare»? 17 Quello che più mi colpisce di Star Trek è che non solo non ci sono tracce evidenti di democrazia, ma che quasi nessuno sembra sentirne la mancanza. È vero, l’universo di Star Trek ha subito infinite trasformazioni, con molteplici telefilm, libri, film e fumetti, addirittura enciclopedie, per non parlare delle pluridecennali elucubrazioni dei fan, perciò il nodo della costituzione politica della Federazione prima o poi doveva venire al pettine. E, quando è successo, non c’era motivo di sostenere che non fosse una democrazia. E così sono stati buttati lì un paio di riferimenti al fatto che la Federazione aveva un presidente eletto e un’assemblea legislativa. Ma non ha importanza. Nell’universo di Star Trek non c’è traccia di vita democratica: nessun personaggio fa mai un riferimento anche casuale a elezioni, partiti politici, temi di dibattito, sondaggi, slogan, plebisciti, proteste o campagne. La «democrazia» della Federazione funziona secondo un modello partitico? In tal caso, quali sono i partiti? Che tipo di filosofia o di elettorato rappresentano? In 726 episodi non ci viene dato alcun indizio. 18 Si potrebbe obiettare: i personaggi fanno parte anche loro della Flotta stellare. Sono nelle Forze armate. Sì, ma nelle vere società democratiche, o anche nelle repubbliche costituzionali come gli Stati Uniti, soldati e marinai
esprimono regolarmente opinioni politiche su ogni genere di questioni. Non si sente mai nessuno della Flotta stellare dire «Non avrei mai dovuto votare per quegli imbecilli che hanno voluto la politica di espansione, adesso guarda in che casino ci hanno messo nel Settore 5» oppure «Quando andavo a scuola ho partecipato alla campagna per vietare la terraformazione sui pianeti di classe C, ma oggi non so più se facevamo bene o no». Quando ci sono problemi politici, e ci sono regolarmente, gli inviati sono sempre burocrati, diplomatici e ufficiali. I personaggi di Star Trek si lamentano in continuazione dei burocrati. Non si lamentano mai dei politici, perché i problemi politici vengono affrontati esclusivamente con mezzi amministrativi. 19 Ma questo, naturalmente, è proprio ciò che succede in uno stato socialista. Tendiamo a dimenticare che quei regimi si dichiaravano invariabilmente democratici. Sulla carta, l’Urss di Stalin aveva una costituzione esemplare, con molti più controlli democratici rispetto ai sistemi parlamentari europei dell’epoca. Il problema era che, come nella Federazione, non c’era alcuna relazione con la vita di tutti i giorni. La Federazione, quindi, è il leninismo elevato al suo massimo successo cosmico, una società in cui la polizia segreta, i campi di rieducazione e i processi farsa non servono perché una felice congiuntura di abbondanza materiale e conformismo ideologico fa in modo che il sistema si governi completamente da solo. Mentre nessuno sembra badare troppo alla forma politica della Federazione, il suo sistema economico, dagli anni ottanta in poi, è stato oggetto di grande curiosità e interminabili dibattiti. I personaggi di Star Trek vivono in un regime esplicitamente comunista. Le classi sociali sono state eliminate, e così le divisioni basate su razza, genere e origine etnica. 20 L’esistenza stessa del denaro in epoche precedenti è considerata una strana e divertente curiosità storica. I lavori più umili sono stati automatizzati fino a scomparire. I pavimenti si puliscono da soli. Cibo, abiti, attrezzi e armi vengono creati dal nulla con il minimo spreco di energia, e l’energia stessa non sembra essere razionata. Tutto questo ha infastidito qualcuno, e sarebbe interessante scrivere una storia politica del dibattito sull’economia del futuro che si è scatenato intorno a Star Trek negli anni ottanta e novanta. Il regista Michael Moore, in un dibattito con la redazione di The Nation, osservò che Star Trek era la
dimostrazione che la classe operaia americana era molto più favorevole alle politiche apertamente anticapitaliste rispetto alla sinistra «progressista» moderata. È stato sempre in quegli anni che i conservatori e i libertariani hanno cominciato a prendere d’assalto i newsgroup e i forum digitali su Internet denunciando la propaganda sinistrorsa della serie. 21 Poi, tutto a un tratto, abbiamo scoperto che il denaro non era completamente scomparso. C’era il latinum. A utilizzarlo, però, era una odiosa razza apparentemente modellata sullo stereotipo cristiano medievale degli ebrei, soltanto con le orecchie grandi (anziché il naso). Curiosamente, il loro nome, ferengi, 22 in arabo e in hindi significa «persona fastidiosa dalla pelle bianca». D’altra parte, l’idea che la Federazione incoraggiasse il comunismo è stata ridimensionata dall’introduzione dei borg, una civiltà ostile e così smaccatamente comunista che ha di fatto eliminato l’individualità, privandola di qualsiasi forma di vita senziente e assimilandola in un’unica spaventosa mente alveare. Dopo lo sbarco sulla Luna del 1969, gli Stati Uniti hanno smesso di prendere sul serio la concorrenza. I sovietici avevano perso la corsa allo spazio, e di conseguenza la ricerca americana poteva smettere di dedicarsi a creare basi su Marte e fabbriche robotizzate, tantomeno a porre le basi tecnologiche per un’utopia comunista. La linea ufficiale, ovviamente, è che questo cambio di priorità era semplicemente l’effetto del trionfo del mercato. Il programma Apollo era il progetto di «Big Government» per eccellenza: d’ispirazione sovietica, nel senso che richiedeva un grande sforzo nazionale, e coordinato da una burocrazia statale altrettanto vasta. Una volta scomparsa la minaccia sovietica, il capitalismo era libero di tornare a un tipo di sviluppo tecnologico più in linea con i suoi normali imperativi, decentralizzati e di mercato, vale a dire la ricerca privata in prodotti commerciali come i telefoni touch screen, il finanziamento di piccole start up rampanti e simili. Questa era la linea di personaggi come Toffler e Gilder a cavallo tra gli anni settanta e ottanta. Ma, ovviamente, era sbagliata. Innanzitutto, la ricerca in innovazione finanziata dal settore privato non è più la stessa dei tempi d’oro della Bell Labs e di analoghe divisioni aziendali degli anni cinquanta e sessanta. In parte il fenomeno è dovuto a un cambio di
regime fiscale. La Bell era disposta a investire una buona porzione dei suoi profitti in ricerca perché le tasse su quei profitti erano molto alte: se l’alternativa era destinare quel denaro a salari più alti per i dipendenti (assicurandosene la fedeltà) e alla ricerca (una scelta logica per un’azienda ancora legata alla vecchia mentalità secondo cui lo scopo ultimo delle imprese era fare prodotti più che fare soldi) o regalarli allo stato, la scelta era ovvia. Dopo le trasformazioni degli anni settanta e ottanta descritte nell’introduzione tutto questo è cambiato. Le tasse sulle imprese sono state tagliate. I dirigenti, che sempre più spesso sono stati pagati in azioni, hanno cominciato non solo a corrispondere i profitti agli investitori sotto forma di dividendi, ma soprattutto a usare il denaro che prima veniva destinato agli aumenti salariali, alle assunzioni o alla ricerca per il riacquisto delle azioni, aumentando così il valore del loro stesso portafoglio ma non facendo nulla per favorire la produttività. In altre parole, i tagli alle tasse e le riforme finanziarie hanno avuto quasi l’effetto opposto rispetto a quello previsto dai loro fautori. Il governo degli Stati Uniti, nel frattempo, non ha mai rinunciato ai grandi programmi statali di sviluppo tecnologico. Ha solamente spostato l’obiettivo dai progetti civili, come il programma spaziale, alla ricerca militare. Non solo le Guerre stellari, sorta di versione reaganiana di un progetto sovietico su larga scala, ma una varietà infinita di progetti per armi, ricerche in tecnologie di comunicazione e sorveglianza e attività analoghe legate alla sicurezza. In un certo senso è sempre stato così: i miliardi di dollari destinati alla sola ricerca missilistica hanno sempre oscurato le somme relativamente modeste allocate per il programma spaziale. A partire dagli anni settanta, però, anche la ricerca più elementare ha assecondato esigenze essenzialmente militari. Se oggi non abbiamo fabbriche robotizzate è soprattutto perché negli ultimi decenni circa il 95 per cento dei finanziamenti alla ricerca in robotica è passato attraverso il Pentagono, che naturalmente è assai più interessato allo sviluppo dei droni che alle miniere di bauxite automatizzate e ai giardinieri robot. Questi progetti militari hanno avuto anche applicazioni civili: Internet ne è un esempio. Ma hanno avuto l’effetto di orientare lo sviluppo in una direzione molto precisa. C’è una possibilità ancora più inquietante. Si può addirittura ipotizzare che questa transizione verso le attività di ricerca e sviluppo in tecnologie
informatiche e mediche non rappresenti tanto un ritorno agli imperativi del mercato e del consumo, ma risponda piuttosto alla volontà di dare un seguito all’umiliazione tecnologica dell’Unione Sovietica con una vittoria totale nella guerra di classe mondiale: non solo l’imposizione dell’assoluto dominio militare americano all’estero, ma la disfatta completa dei movimenti sociali sul fronte interno. A emergere sono state in molti casi tecnologie che hanno migliorato la sorveglianza, la disciplina sul lavoro e il controllo sociale. I computer hanno aperto alcuni spazi di libertà, come ci viene costantemente ricordato, ma, anziché portare all’utopia senza lavoro immaginata da Abbie Hoffman o Guy Debord, sono stati utilizzati per produrre l’effetto opposto. L’informatica, infatti, ha permesso la finanziarizzazione del capitale che ha indebitato sempre di più i lavoratori, consentendo allo stesso tempo alle imprese di creare nuovi regimi di «flessibilità» che hanno distrutto la tradizionale sicurezza del posto di lavoro e hanno portato a un consistente aumento delle ore lavorative per quasi tutti i segmenti della popolazione. Insieme all’esportazione del lavoro in fabbrica tradizionale, questo processo ha segnato la disfatta del movimento sindacale, vanificando così ogni reale possibilità di una politica a favore dei lavoratori. 23 Intanto, nonostante un investimento senza precedenti nella ricerca medica e biomedica, aspettiamo ancora una cura per il cancro o anche solo per il raffreddore; le conquiste più importanti in campo medico sono farmaci come il Prozac, lo Zoloft e il Ritalin – studiati, potremmo dire, per far sì che queste nuove necessità professionali non ci facciano diventare completamente, e disfunzionalmente, pazzi. Quando gli storici ne scriveranno l’epitaffio, concluderanno che il neoliberismo è stata una forma di capitalismo che ha messo gli imperativi politici sistematicamente davanti a quelli economici. Ovvero: data la scelta tra una linea di condotta che farà sembrare il capitalismo l’unico sistema economico possibile e un’altra che lo farà essere un sistema economico più praticabile a lungo termine, il neoliberismo ha sempre preferito la prima. Annientare la sicurezza del posto di lavoro aumentando le ore lavorative crea davvero una forza lavoro più produttiva (o più innovativa e fedele)? Ci sono tutte le ragioni di credere che sia vero il contrario. In termini puramente economici, l’effetto delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro è quasi certamente negativo, come del resto conferma il rallentamento generale della
crescita in quasi tutti i paesi del mondo negli anni ottanta e novanta. È stato però tremendamente efficace nel depoliticizzare i lavoratori. E anche nell’alimentare eserciti, polizia e servizi di sicurezza privati totalmente improduttivi, un vero e proprio spreco di risorse. Forse, alla fine, il capitalismo affonderà sotto il peso stesso dell’apparato messo in piedi per assicurarne la vittoria ideologica. Ma è facile capire che, se l’imperativo ultimo dei poteri che governano il mondo è soffocare ogni possibilità e speranza di un futuro di redenzione fondamentalmente diverso da quello attuale, questo apparato è un elemento centrale del progetto neoliberista.
Antitesi Anche nei settori della scienza e della tecnologia che hanno goduto di ingenti finanziamenti non ci sono stati i progressi che tutti si aspettavano all’inizio. A questo punto tutti i pezzi apparentemente combaciano. Negli anni sessanta, le forze politiche conservatrici cominciavano a temere gli effetti socialmente distruttivi del progresso tecnologico, a cui imputavano la responsabilità delle rivolte sociali dell’epoca, mentre le imprese erano preoccupate dell’impatto economico della meccanizzazione. Il tramonto della minaccia sovietica permetteva di riallocare le risorse in una direzione considerata meno rischiosa per gli assetti sociali ed economici, e soprattutto di vanificare attraverso gli investimenti tecnologici le conquiste che i movimenti sociali di ispirazione progressista avevano fatto a partire dagli anni quaranta, assicurando così una vittoria decisiva in quella che le élite statunitensi vedevano di fatto come una guerra di classe mondiale. Il cambio di priorità veniva spacciato per un abbandono dei grandi progetti di stato e un ritorno al mercato, ma in realtà cambiava soltanto l’obiettivo della ricerca finanziata dallo stato: dai programmi come la Nasa (o le fonti energetiche alternative) alle tecnologie militari, informatiche e mediche. Credo che questa analisi sia realistica, ma che non spieghi tutto. In particolare, non spiega perché anche in quei settori in cui si sono concentrati gli investimenti non ci siano stati i progressi che ci si aspettava cinquant’anni fa. Per fare l’esempio più ovvio: se il 95 per cento della ricerca in robotica è
stata finanziata dalle Forze armate, come mai ancora non c’è traccia di robot assassini tipo Ultimatum alla Terra che lanciano raggi della morte dagli occhi? Eppure sappiamo che ci stanno lavorando. Ovviamente ci sono stati progressi nelle tecnologie militari. È risaputo, per esempio, che uno dei principali motivi per cui siamo sopravvissuti alla Guerra fredda è che, mentre le bombe nucleari funzionavano più o meno come ci avevano raccontato, altrettanto non si poteva dire dei sistemi di lancio. I Missili balistici intercontinentali non erano in grado di colpire le città e tantomeno degli obiettivi specifici al loro interno, e quindi non aveva molto senso lanciare un primo attacco nucleare a meno di voler distruggere il mondo. Gli attuali missili cruise, invece, sono abbastanza precisi. Evidentemente, però, queste tanto decantate armi di precisione non riescono mai a colpire obiettivi umani specifici (Saddam, Osama, Gheddafi), anche se ne vengono sganciate a centinaia. I droni sono semplicemente aerei telecomandati. Le pistole a raggi, di qualsiasi tipo, non si sono mai viste, e non perché non si sia tentato di realizzarle: sicuramente il Pentagono ci ha investito miliardi, ma finora la cosa che ci si avvicina di più è il laser (una tecnologia degli anni cinquanta), che, se puntato correttamente, sarebbe forse in grado di accecare un mitragliere nemico. Decisamente antisportivo, ma soprattutto abbastanza patetico. I Phaser stordenti, a quanto pare, non esistono nemmeno sulla lavagna; per quanto riguarda i combattimenti di fanteria, l’arma più utilizzata nel 2011, quasi dappertutto, è ancora l’Ak-47, un progetto sovietico che prende il nome dall’anno in cui è stato creato: il 1947. 24 Come ho già osservato, lo stesso vale per una serie di progressi già ampiamente previsti nel campo della medicina e perfino, oserei dire, dell’informatica. Internet di certo è un fenomeno importante. Ma se oggi si presentasse un appassionato di fantascienza degli anni cinquanta e chiedesse qual è stata la conquista tecnologica più spettacolare dei sessant’anni successivi, con ogni probabilità resterebbe amaramente deluso. Quasi certamente ci direbbe che siamo di fronte a una combinazione superveloce e accessibile in tutto il mondo di una biblioteca, un ufficio postale e un catalogo per corrispondenza. «Cinquant’anni e questo è tutto ciò che si sono inventati i nostri migliori scienziati? Ci aspettavamo computer pensanti!» E tutto ciò nonostante il livello complessivo dei finanziamenti pubblici alla
ricerca sia aumentato moltissimo a partire dagli anni settanta. Certo, la percentuale di finanziamenti provenienti dal settore privato è aumentata ancora di più, tanto che oggi l’impresa privata finanzia il doppio della ricerca rispetto allo stato. Ma l’incremento totale è così imponente che l’ammontare complessivo dell’investimento pubblico in ricerca, in termini reali, è comunque molto più alto di prima. Ancora una volta, mentre la ricerca «di base», «pura» e «spinta dalla curiosità» (cioè non legata alla prospettiva di un’applicazione pratica immediata, e quindi potenzialmente più capace di portare a scoperte inaspettate) rappresenta una percentuale sempre più bassa del totale, oggi si spendono talmente tanti soldi che il livello complessivo di finanziamenti alla ricerca di base in realtà è aumentato. Eppure, quasi tutte le valutazioni imparziali concordano sul fatto che i risultati sono stati sorprendentemente miseri. Di sicuro non assistiamo più al flusso continuo di rivoluzioni concettuali – patrimonio genetico, relatività, psicoanalisi, meccanica quantistica – a cui l’umanità si era abituata cento anni fa. Perché? Una delle spiegazioni più diffuse è che quando i finanziatori commissionano una ricerca di base, tendono a mettere tutte le uova in un gigantesco paniere: «Big Science», come si dice adesso. Spesso si fa l’esempio del Progetto genoma umano. Avviato dal governo degli Stati Uniti, è costato quasi tre miliardi di dollari e ha coinvolto migliaia di scienziati e collaboratori in cinque paesi diversi, alimentando enormi aspettative, salvo poi scoprire che le sequenze del gene umano sono quasi identiche a quelle dello scimpanzé, decisamente meno complicate di quelle del riso (per esempio) e che le informazioni a nostra disposizione non hanno applicazioni concrete immediate. Ma soprattutto – e secondo me questo è il punto chiave – la propaganda e l’investimento politico che circonda tali progetti dimostra quanto anche la ricerca di base sia ormai legata a logiche politiche, amministrative e di marketing (il Progetto genoma umano, per esempio, aveva una specie di logo aziendale) che rendono sempre più improbabile assistere a scoperte rivoluzionarie. In questo senso, credo che la nostra infatuazione collettiva per le origini mitiche di Silicon Valley e di Internet ci abbia resi ciechi di fronte a quello che sta accadendo. Ci ha fatto credere che l’attività di ricerca e sviluppo venga portata avanti prevalentemente da piccoli gruppi di imprenditori coraggiosi, in
una forma di cooperazione decentrata simile a quella del mondo del software open source. Non è così. Questa è semplicemente la ricerca che di solito produce più risultati. Ma in realtà la ricerca sta andando nella direzione opposta. È ancora trainata da giganteschi progetti burocratici; a cambiare è stata la cultura burocratica. La sempre maggiore compenetrazione tra governo, università e aziende private ha portato tutti gli attori coinvolti a adottare forme organizzative, linguaggi e valori tipici del mondo dell’impresa. Se questo processo può aver contribuito in qualche modo ad accelerare la creazione di prodotti immediatamente vendibili sul mercato – ciò che è lo scopo delle burocrazie private –, in termini di stimolo all’innovazione i risultati sono stati disastrosi. Qui parlo per esperienza personale, che viene in gran parte dalle università americane e britanniche. In entrambi i paesi, negli ultimi trent’anni c’è stata una vera e propria esplosione del numero di ore lavorative dedicate alle scartoffie amministrative a spese di tutte le altre attività. Nella mia università, per esempio, non solo ci sono più amministrativi che docenti, ma gli stessi docenti sono tenuti a dedicare alle attività amministrative almeno lo stesso tempo che dedicano all’insegnamento e alla ricerca messi insieme. 25 È più o meno così in tutte le università del mondo. La moltiplicazione delle pratiche cartacee, a sua volta, è una diretta conseguenza dell’applicazione delle tecniche di management aziendale, che nelle intenzioni dovrebbero aumentare l’efficienza introducendo il principio della concorrenza a tutti i livelli, ma che all’atto pratico fanno sì che si passi un sacco di tempo a cercare di vendere qualcosa agli altri: proposte di borse di studio, proposte di pubblicazioni, valutazioni del lavoro degli studenti, analisi delle domande per le borse di studio, valutazioni dei colleghi, presentazioni di nuovi corsi interdisciplinari, istituti, conferenze, workshop e università stesse, che ormai sono diventate marchi da vendere a potenziali studenti e finanziatori. Il marketing e le pubbliche relazioni permeano ormai ogni aspetto della vita universitaria. Il risultato paradossale è un mare di documenti che parlano di incoraggiare «la creatività» e «l’immaginazione» in un contesto che sembra fatto apposta per strangolare nella culla qualsiasi manifestazione di creatività e immaginazione. Non sono uno scienziato; mi occupo di teoria sociale. Ho visto però i risultati nel mio ramo specifico: negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni
non sono state pubblicate nuove opere di rilievo nel campo della teoria sociale. Come gli scolastici medievali, ci siamo ridotti a scarabocchiare interminabili annotazioni sulla teoria francese degli anni settanta, nonostante la colpevole consapevolezza che oggi, se nel mondo accademico americano spuntasse un nuovo Gilles Deleuze, Michel Foucault o Pierre Bourdieu, probabilmente non riuscirebbe a finire nemmeno il dottorato, e anche in quel caso non gli verrebbe mai assegnata una cattedra. 26 C’era un tempo in cui l’accademia era un rifugio per gli eccentrici, per le menti brillanti e per chi non aveva senso pratico. Ora non più. È diventata il regno dei professionisti dell’autopromozione. Quanto agli eccentrici, alle menti brillanti e a chi non ha senso pratico, evidentemente nella società non c’è più posto per loro. Se questo vale per le scienze sociali, dove la ricerca è ancora perlopiù portata avanti dai singoli e le spese sono minime, possiamo solo immaginare quale sia la situazione per i fisici. E infatti, come ha spiegato recentemente un fisico a un gruppo di studenti che aspiravano a una carriera nelle scienze, anche chi riesce a emergere dopo gli inevitabili dieci anni passati a fare il portaborse deve aspettarsi che le sue idee migliori siano boicottate di continuo. Passerete il tempo a scrivere proposte anziché a fare ricerca. Non solo: siccome le vostre proposte saranno giudicate dai vostri concorrenti, non potrete assecondare la vostra curiosità, ma dovrete dedicare i vostri sforzi e il vostro talento ad anticipare e a schivare le critiche anziché a risolvere importanti problemi scientifici […]. È risaputo che le idee originali sono il bacio della morte per qualsiasi proposta, perché ancora non è stato dimostrato che funzionano. 27 Adesso è chiaro perché non abbiamo inventato le macchine per il teletrasporto e le scarpe antigravitazionali. Il buon senso dice che per massimizzare la creatività in campo scientifico si devono a trovare degli scienziati brillanti, li si dota delle risorse necessarie per sviluppare le loro idee e li si lascia in pace per un po’. Molte di queste idee non porteranno a nulla, ma da una o due potrà nascere qualcosa di completamente inaspettato. Se invece si vuole ridurre al minimo questa possibilità, basta dire a quegli stessi scienziati che non vedranno un soldo se non passeranno tutto il tempo a litigare tra loro per convincere i
finanziatori che sanno già quello che scopriranno. 28 Questo, grosso modo, è il sistema attuale. 29 Nel campo delle scienze naturali, alla tirannia del managerialismo si aggiunge anche la privatizzazione strisciante dei risultati della ricerca. Come ci ha recentemente ricordato l’economista britannico David Harvie, la ricerca «open source» non è una novità. La ricerca accademica è sempre stata «aperta», nel senso che gli studiosi condividono materiali e risultati. C’è concorrenza, certo, ma, come osserva acutamente Harvie, è una concorrenza «conviviale»: La concorrenza conviviale è quella in cui io (o il mio team) voglio essere il primo a dimostrare una certa congettura, a spiegare un certo fenomeno, a scoprire una certa specie, stella o particella, allo stesso modo in cui se faccio una gara in bicicletta con un mio amico voglio vincere. Ma la concorrenza conviviale non esclude la cooperazione, nel senso che i ricercatori (o i team di ricercatori) rivali condividono i risultati preliminari, le sperimentazioni delle varie tecniche e così via […]. Naturalmente, questa conoscenza condivisa, accessibile attraverso libri, articoli, software e anche per via diretta, attraverso il dialogo con gli altri scienziati, diventa un bene comune intellettuale. 30 Ovviamente questo non vale più per gli scienziati che lavorano nel settore privato, dove le scoperte vengono gelosamente protette. Ma, con il dilagare dell’etica aziendale anche nel mondo accademico finanziato con risorse pubbliche, tutti gli studiosi ormai trattano le loro scoperte come una proprietà personale. Si pubblica di meno. Gli editori universitari, a loro volta, fanno in modo che i risultati pubblicati siano meno accessibili, erigendo un ulteriore recinto intorno al bene comune intellettuale. E così, la concorrenza conviviale e «open source» diventa sempre più simile alla classica concorrenza di mercato. La privatizzazione assume le forme più disparate, fino alla brutale acquisizione e soppressione delle scoperte scomode da parte delle grandi multinazionali, spaventate dalle possibili implicazioni economiche. 31 Tutto ciò è ben noto. Assai più sottile è il modo in cui l’etica manageriale ostacola l’introduzione di qualsiasi elemento anche solo lontanamente avventuroso o eccentrico, soprattutto quando non c’è la prospettiva di risultati immediati.
Curiosamente, forse in questo caso Internet è parte del problema: Chiunque abbia lavorato in un’azienda o in un’università ha assistito a una scena del genere: c’è un gruppo di ingegneri seduti intorno a un tavolo che si scambiano delle idee. Durante la discussione spunta una nuova idea che sembra promettente. A quel punto, uno che se ne sta in un angolo con un portatile fa una breve ricerca su Google e annuncia che questa «nuova» idea, in realtà, è vecchia: qualcosa di almeno vagamente simile è stato già tentato. O il progetto è fallito, oppure è andato bene. Se è fallito, allora nessun manager, se tiene al proprio posto, accetterà mai di spendere soldi per provare a rilanciarlo. Se invece è andato bene ci sarà sicuramente un brevetto, e quindi entrare nel mercato è impossibile perché chi ha avuto l’idea gode del «vantaggio iniziale» e ha creato delle «barriere all’entrata». Credo che milioni di idee a prima vista promettenti siano state scartate in questo modo. 32 Potrei andare avanti, ma immagino che il lettore si sia ormai fatto un’idea. Uno spirito pavido e burocratico si è insinuato in ogni aspetto della vita intellettuale. Il più delle volte è ammantato di un linguaggio che esalta la creatività, l’iniziativa e l’intraprendenza. Ma queste parole non contano niente. Chi ha davvero la possibilità di scoprire qualcosa di concettualmente rivoluzionario di solito non riceve alcun finanziamento e, se per caso scopre qualcosa, quasi certamente non troverà mai nessuno disposto ad andare fino in fondo per paura delle conseguenze. Passiamo adesso ad analizzare nel dettaglio il contesto storico brevemente descritto nell’introduzione. Come ha osservato l’economista politico italiano Giovanni Arrighi, dopo la bolla della South Sea Company, nel 1720, il capitalismo britannico abbandonò la forma della grande impresa. Il modello emerso dalla Rivoluzione industriale, una combinazione di alta finanza e piccole aziende familiari, durò per tutto il secolo successivo: la Londra di Marx (in un periodo, tra l’altro, di massima innovazione scientifica e tecnologica), Manchester e Birmingham non erano dominate da grandi conglomerati, ma da capitalisti che possedevano un’unica fabbrica. Anche per questo motivo Marx sosteneva che il capitalismo fosse
caratterizzato da una concorrenza spietata e costante. A quel tempo, la Gran Bretagna era famosa per essere particolarmente generosa con le teste matte e gli eccentrici, almeno quanto è intollerante l’America di oggi. Uno degli espedienti più comuni era farli diventare parroci di campagna, e questi, prevedibilmente, divennero una delle principali fonti di scoperte scientifiche amatoriali. 33 Come ho osservato, il capitalismo burocratico-aziendale contemporaneo è nato negli Stati Uniti e in Germania. Le due sanguinose guerre mondiali combattute dalle due potenze rivali sfociarono, alquanto opportunamente, in grandi programmi scientifici finanziati dallo stato per stabilire chi avrebbe scoperto prima la bomba atomica. Non a caso, anche la struttura delle università americane si basa da sempre sul modello prussiano. D’altra parte, in quei primi anni, sia gli Stati Uniti sia la Germania trovarono il modo di coltivare i loro geni più eccentrici e creativi: un numero sorprendente degli scienziati che poi emigrarono in America (Albert Einstein è l’esempio più illustre) erano nati proprio in Germania. Durante la guerra, quando la situazione era disperata, grandi progetti pubblici come il Manhattan Project davano ancora spazio a una serie di personaggi bizzarri (Oppenheimer, Feynman, Fuchs…). Con il consolidarsi della potenza americana, tuttavia, la burocrazia del paese diventò sempre meno disposta a tollerare le aberrazioni. E così, la creatività in campo tecnologico cominciò a declinare. L’attuale periodo di stagnazione è cominciato dopo il 1945, proprio nel momento in cui gli Stati Uniti hanno finalmente (e definitivamente) preso il posto del Regno Unito come paese organizzatore dell’economia mondiale. 34 È vero, agli albori del programma spaziale americano – in un altro periodo di panico – c’era ancora spazio per autentiche teste matte come Jack Parsons, fondatore del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Oltre a essere un brillante ingegnere, Parsons era anche un mago thelemita nella tradizione di Aleister Crowley, noto per organizzare regolarmente orge rituali nella sua casa in California. Parsons era convinto che la scienza missilistica fosse soltanto una manifestazione di principi magici più profondi. Alla fine, però, fu licenziato. 35 E la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra fredda ha portato a un’aziendalizzazione talmente sistematica delle burocrazie accademiche e scientifiche che oggi nessun personaggio del genere potrebbe mai ricoprire un
incarico di responsabilità. Gli americani non amano considerarsi un popolo di burocrati (casomai il contrario), ma, se si smette di vedere la burocrazia come un fenomeno limitato agli uffici pubblici, è ovvio che sono diventati esattamente questo. La vittoria finale sull’Unione Sovietica in realtà non ha portato al dominio del «mercato». Se mai, ha cementato il dominio di élite manageriali fondamentalmente conservatrici, burocrati privati che, con il pretesto dei risultati a breve termine, della concorrenza e del bilancio, schiacciano qualsiasi elemento potenzialmente rivoluzionario.
Sintesi Sul passaggio dalle tecnologie poetiche a quelle burocratiche. Tutte le macchine inventate finora per far risparmiare lavoro non hanno alleviato la fatica di un solo essere umano. (John Stuart Mill) La premessa di questo libro è che oggi viviamo in una società profondamente burocratica. Se non ce ne accorgiamo è solo perché i processi e gli obblighi burocratici sono diventati talmente ramificati che neanche ce ne rendiamo più conto. O, peggio, non riusciamo più a immaginare di fare le cose in un altro modo. In tutto questo i computer hanno avuto un ruolo cruciale. Come nel XVIII e XIX secolo l’invenzione di nuove forme di automazione industriale ha avuto l’effetto paradossale di trasformare una parte sempre più consistente degli abitanti del pianeta in lavoratori industriali a tempo pieno, tutti i software progettati negli ultimi decenni per sollevarci dalle responsabilità amministrative ci hanno trasformato in amministrativi part time o a tempo pieno. Come per i professori universitari è diventato inevitabile passare sempre più tempo a gestire le borse di studio, i genitori prendono semplicemente atto che ogni anno devono dedicare varie settimane a compilare moduli di quaranta pagine su Internet per iscrivere i figli a una scuola dignitosa. Allo stesso modo, un semplice commesso sa che dovrà passare sempre più tempo a digitare
password sul telefono per accedere al suo conto in banca e simili. E ognuno di noi sa che dovrà imparare a fare il lavoro che un tempo facevano gli agenti di viaggio, i mediatori finanziari e i commercialisti. Qualcuno una volta ha calcolato che l’americano medio passa sei mesi della propria vita ad aspettare che scatti il semaforo. Non so se ci sono dati simili su quanto tempo passa a riempire moduli, ma sono sicuro che non ci siamo lontani. Se non altro, credo di poter dire che mai nella storia del nostro pianeta un popolo ha passato tanto tempo a occuparsi di scartoffie. Il problema è che tutto ciò è successo dopo la caduta dell’orribile e antiquato socialismo burocratico e il trionfo della libertà e del mercato. Di certo questo è uno dei grandi paradossi della vita contemporanea. Ma evidentemente (come con la promessa infranta della tecnologia) abbiamo sviluppato una profonda riluttanza ad affrontare il problema. È chiaro che questi problemi sono collegati; direi anzi che sotto molti aspetti si tratta dello stesso problema. La questione non è semplicemente che un approccio burocratico (o più specificamente manageriale) ha soffocato tutte le forme di immaginazione tecnica e di creatività. In fondo, come ci viene ricordato di continuo, Internet ha liberato ogni sorta di visione creativa e spirito di collaborazione. Ma quella che Internet ha portato, in realtà, è una specie di curiosa inversione di fini e mezzi, dove la creatività viene messa al servizio dell’amministrazione anziché il contrario. Mettiamola così: in questa ultima, lunghissima fase del capitalismo stiamo assistendo al passaggio dalle tecnologie poetiche alle tecnologie burocratiche. Quando parlo di tecnologie poetiche mi riferisco all’utilizzo di mezzi razionali, tecnici e burocratici per la realizzazione di fantasie incontrollate e impossibili. In questo senso, le tecnologie poetiche sono antiche quanto la civiltà. Potremmo addirittura dire che precedono le macchine complesse. Lewis Mumford sosteneva che le prime macchine complesse in realtà fossero fatte di persone. I faraoni egiziani costruirono le piramidi soltanto grazie a una profonda conoscenza delle procedure amministrative, la quale a sua volta li mise in condizione di sviluppare tecniche di linea di produzione, di suddividere le attività complesse in decine di operazioni semplici e di assegnare ogni operaio a una squadra – tutto questo senza conoscere tecnologie meccaniche più complesse della leva e del piano inclinato. Il controllo burocratico
trasformò eserciti di contadini negli ingranaggi di una grande macchina. Molti anni dopo, quando furono inventati gli ingranaggi veri e propri, la progettazione di macchinari complessi diventò sempre, in qualche misura, un’elaborazione di principi che originariamente erano nati per organizzare le persone. 36 Eppure, ogni volta queste macchine (non importa se le loro parti mobili sono braccia e tronchi oppure pistoni, ruote e molle) vengono messe all’opera per realizzare fantasie che altrimenti sarebbero impossibili: cattedrali, lanci sulla Luna, ferrovie transcontinentali e così via. Certo, le tecnologie poetiche hanno spesso qualcosa di terribile; la poesia è in grado di evocare sia «oscuri mulini satanici» sia grazia e liberazione. Ma le tecniche razionali e burocratiche sono sempre al servizio di un grande fine. Da questo punto di vista, tutti gli stravaganti progetti sovietici di cui abbiamo parlato – anche se mai realizzati – hanno segnato l’apice delle tecnologie poetiche. Adesso abbiamo il problema contrario. Questo non vuol dire che visione, creatività e fantasie irrazionali non vengano più incoraggiate. Il punto è che le nostre fantasie restano sospese in aria: non facciamo più neanche finta che possano prendere forma o consistenza. Allo stesso tempo, nei pochi campi in cui la creatività libera e originale è effettivamente incoraggiata (come nello sviluppo dei software open source per Internet), viene impiegata per inventare altre piattaforme, ancora più efficaci, per la compilazione di moduli. È questo ciò che intendo con «tecnologie burocratiche»: gli obblighi amministrativi sono diventati non il mezzo, ma il fine dello sviluppo tecnologico. Intanto, la nazione più grande e potente mai esistita su questo pianeta ha passato gli ultimi decenni a spiegare ai suoi cittadini che non è più tempo di sognare grandi imprese, anche se – come indica l’attuale crisi ambientale – il destino della Terra dipende proprio da questo. Quali sono, dunque, le implicazioni politiche? Innanzitutto, credo che dovremmo ripensare radicalmente alcuni dei nostri assunti di base sul capitalismo. Uno è che il capitalismo si identifica con il mercato e che quindi entrambi sono nemici della burocrazia, la quale invece è una creatura dello stato. Un altro è che il capitalismo è per sua natura favorevole al progresso tecnologico. Evidentemente Marx ed Engels,
nell’incontenibile entusiasmo per le rivoluzioni industriali della loro epoca, su questo punto si sono sbagliati. O, per essere più precisi: avevano ragione a dire che la meccanizzazione della produzione industriale avrebbe finito per distruggere il capitalismo; avevano torto, invece, quando sostenevano che la concorrenza di mercato avrebbe spinto i proprietari delle fabbriche ad andare avanti comunque con la meccanizzazione. Se non è successo, è stato solo perché la concorrenza di mercato non è, in realtà, un fattore essenziale per la natura del capitalismo come avevano immaginato. Se non altro, l’attuale forma di capitalismo, in cui la concorrenza prende spesso la forma del marketing interno alle strutture burocratiche di grandi imprese semimonopolistiche, li avrebbe colti completamente di sorpresa. 37 I sostenitori del capitalismo in genere insistono su tre considerazioni di carattere storico: primo, che il capitalismo ha favorito un rapido sviluppo scientifico e tecnologico; secondo, che, pur avendo messo un’enorme ricchezza nelle mani di una piccola minoranza, ha avuto l’effetto complessivo di migliorare la prosperità di tutti; terzo, che ha creato un mondo più sicuro e democratico. È abbastanza chiaro, però, che nel XXI secolo il capitalismo non sta facendo nessuna di queste cose. Ormai anche i suoi sostenitori cominciano ad ammettere che non è un sistema particolarmente valido, e si accontentano di dire che è l’unico possibile – o, almeno, l’unico sistema possibile per una società complessa e tecnologicamente avanzata come la nostra. Da antropologo mi confronto continuamente con questa seconda tesi. SCETTICO Puoi sognare tutte le utopie che vuoi; io sto parlando di un sistema
politico o economico concretamente in grado di funzionare. E l’esperienza ci dimostra che in realtà questa è l’unica opzione che abbiamo. IO Quindi, questa particolare forma di governo a rappresentanza limitata che abbiamo oggi – il capitalismo aziendale – è l’unico sistema politico o economico possibile? L’esperienza non dice affatto questo. Guardando alla storia dell’uomo, si trovano centinaia, addirittura migliaia di sistemi politici ed economici diversi. Molti non hanno niente a che vedere con quello che c’è oggi. SCETTICO Certo, ma stai parlando di società più semplici e di piccole dimensioni, o comunque con tecnologie molto più basilari. Io sto parlando di società moderne, complesse e tecnologicamente avanzate. Quindi i tuoi
controesempi sono irrilevanti. IO Aspetta un attimo: quindi stai dicendo che il progresso tecnologico ha limitato le nostre possibilità sociali? Pensavo che dovesse essere il contrario! Ma ammettiamo che lo scettico abbia ragione. Diciamo che per qualche motivo, anche se in passato sono esistiti molti altri sistemi economici ugualmente praticabili, la tecnologia industriale moderna ha creato un mondo in cui questo non vale più: ebbene, come si può sostenere che l’assetto economico attuale sia l’unico praticabile anche per qualsiasi possibile regime tecnologico futuro? Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. A parte ogni altra considerazione, come facciamo a saperlo? Eppure è una posizione molto diffusa, a destra e a sinistra. Da antropologo e anarchico, mi confronto regolarmente con i fautori dell’«anticivilizzazione», i quali sostengono non solo che l’attuale tecnologia industriale porti necessariamente all’oppressione capitalista, ma che sarà così per qualsiasi tecnologia del futuro. Pertanto, la liberazione dell’uomo sarebbe possibile solo con il ritorno all’età della pietra. Fortunatamente, la maggior parte degli antropologi non concorda con questa forma estrema di determinismo tecnologico. D’altra parte, la tesi dell’inevitabilità del capitalismo deve necessariamente basarsi su una qualche forma di determinismo tecnologico. Perciò, se il fine ultimo del capitalismo neoliberista è creare un mondo in cui nessuno crede più alla possibilità concreta di un altro sistema economico, allora deve sopprimere non solo l’idea di un futuro di redenzione, ma anche quella di un futuro tecnologico radicalmente diverso dal presente. Qui c’è una specie di contraddizione. Il messaggio non può essere che il cambiamento tecnologico deve finire: significherebbe ammettere che il capitalismo non è il motore del progresso. Il messaggio, quindi, deve essere che il progresso tecnologico continua, che viviamo in un mondo di meraviglie; ma bisogna fare in modo che queste meraviglie prendano la forma di miglioramenti modesti (l’ultimo iPhone!), voci di invenzioni imminenti («Ho sentito che presto faranno le macchine volanti»), 38 combinazioni sempre più complicate di informazioni e immagini e piattaforme sempre più complesse per la compilazione di moduli. Con ciò non voglio dire che il capitalismo neoliberista – o qualsiasi altro sistema – riuscirà a veicolare questo messaggio in eterno. Il problema è
innanzitutto convincere il mondo di essere all’avanguardia del progresso tecnologico quando in realtà lo si sta frenando. Con le loro infrastrutture fatiscenti e il loro immobilismo di fronte al riscaldamento globale, gli Stati Uniti sono messi molto male da questo punto di vista (per non parlare dell’abbandono, disastroso dal punto di vista simbolico, del programma spaziale, proprio mentre la Cina si prepara a lanciare il suo). In secondo luogo, la velocità del cambiamento non può essere frenata per sempre. Al massimo può essere rallentata. Ci saranno comunque dei passi avanti, le scoperte scomode non potranno essere soppresse tutte le volte. Altre parti del mondo meno burocratizzate (o, almeno, parti del mondo con burocrazie non così ostili al pensiero creativo), lentamente, inevitabilmente, si procureranno le risorse necessarie per raccogliere il testimone lasciato dagli Stati Uniti e dai loro alleati. La stessa Internet offre opportunità di collaborazione e divulgazione delle idee che prima o poi ci porteranno a sfondare il muro. Da che parte arriverà il progresso? Non possiamo saperlo. Negli ultimi due anni, da quando è stata pubblicata la prima versione di questo saggio, è spuntato un ventaglio di nuove possibilità: la stampa 3D, avanzamenti nelle tecnologie dei materiali, automobili che si guidano da sole, robot di ultima generazione, e quindi altri dibattiti sulle fabbriche robot e sulla fine del lavoro. Ci sono anche accenni di nuovi sviluppi concettuali in fisica, biologia e altre scienze, che si scontrano con la resistenza istituzionale da parte delle ortodossie esistenti ma che potrebbero avere implicazioni profonde dal punto di vista tecnologico. A questo punto, l’unica cosa che possiamo dire con ragionevole certezza è che l’invenzione e l’innovazione non potranno nascere all’interno della cornice del capitalismo aziendale contemporaneo – o, più probabilmente, di qualsiasi forma di capitalismo. È ormai sempre più evidente che se davvero vogliamo iniziare a costruire cupole su Marte o trovare gli strumenti per capire se ci sono civiltà aliene che possiamo contattare – o che cosa succede se facciamo passare qualcosa attraverso un buco nero – dobbiamo inventarci un sistema economico completamente diverso. Deve per forza prendere la forma di una nuova gigantesca burocrazia? Perché diamo per scontato che sia così? Forse raggiungeremo quel punto solo dopo esserci liberati delle strutture burocratiche esistenti. E, se veramente vogliamo arrivare ai robot che fanno il bucato o mettono a posto la cucina, dobbiamo assicurarci che qualsiasi cosa
venga al posto del capitalismo si basi su una distribuzione molto più equa della ricchezza e del potere, in modo che non esistano più né i ricchi sfondati né i poveri disperati che fanno le pulizie in casa loro. Solo allora la tecnologia sarà messa al servizio dei bisogni dell’umanità. Questa è la ragione principale per sbarazzarci della manomorta dei gestori di hedge fund e degli amministratori delegati, per liberare le nostre fantasie dagli schermi dietro i quali queste persone le hanno imprigionate, per far sì che la nostra immaginazione torni a essere una forza materiale nella storia dell’uomo.
Note 1
Anche Orwell, nel 1948, aveva ambientato la sua distopia futuristica 1984 soltanto trentacinque anni nel futuro. 2
In realtà i videotelefoni sono stati introdotti per la prima volta negli anni trenta negli uffici postali tedeschi durante il nazismo. 3
Da Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, pp. 124-125. Il saggio originale è stato pubblicato nel 1984. 4
L’opera originale, in tedesco, è uscita nel 1972 con il titolo di Der Spätkapitalismus. La prima edizione inglese è stata Late Capitalism, Humanities Press, London 1975. 5
Probabilmente l’attestazione classica di tale posizione è Howard McCurdy, Space and the American Imagination, Smithsonian, Washington 1997, ma ulteriori esempi di questa retorica si trovano in Stephen J. Pyne, «A Third Great Age of Discovery», in The Scientific and Historical Rationales for Solar System Exploration, a cura di Carl Sagan e Stephen J. Pyne, Space Policy Institute 88-1, George Washington University, Washington 1988; oppure in Linda Billings, «Ideology, Advocacy, and Spaceflight: Evolution of a Cultural Narrative», in The Societal Impact of Spaceflight, a cura di Stephen J. Dick e Roger D. Launius, Nasa, Washington 2009. 6
Alvin Toffler, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano 1971.
7
Anche in questo caso c’è un equivalente sovietico: il Tupolev Tu-144, che è stato il primo aereo passeggeri supersonico e ha volato pochi mesi prima del Concorde nel 1968, per poi essere abbandonato per motivi commerciali nel 1983. 8 9 10
Fonte: www.foundersfund.com/uploads/ff_manifesto.pdf. Alvin Toffler, La terza ondata, Sperling & Kupfer, Milano 1987. La posizione politica di Toffler è leggermente più ambigua, ma non
molto. Prima del successo di Lo choc del futuro era conosciuto soprattutto come giornalista economico e per l’intervista di Ayn Rand su Playboy. Come molti conservatori, Toffler a parole si dice a favore della parità femminile come principio astratto, ma in realtà non parla mai di temi femministi o femminili se non per criticarli: per un tipico esempio, cfr. Alvin Toffler e Heidi Toffler, La rivoluzione del benessere, Casini, Roma 2010, pp. 145-146. È davvero singolare che sia Toffler sia Gilder siano ossessionati dalla minaccia alla maternità: è come se entrambi avessero basato le loro posizioni su una critica alle idee di Shulamith Firestone prima ancora che quest’ultima entrasse in scena. 11
Non va sottovalutata l’influenza sulla destra di questi personaggi, per quanto eccentrici, perché a loro modo erano considerati dei visionari creativi. Le teorie di Gilder sull’economia dell’offerta, per esempio, sono state da più parti citate come una fonte di ispirazione per le politiche economiche di Reagan, mentre il suo Technology Report è stato talmente letto che gli osservatori di mercato parlavano di un «effetto Gilder»: il titolo in borsa delle aziende di cui Gilder parlava bene quasi sempre saliva subito dopo. 12
Win McCormick, per esempio, mi ha detto che a fine anni sessanta ha fatto parte di un think tank fondato da un ex presidente della University of Chicago che tra le sue principali occupazioni aveva quella di cercare di capire come fronteggiare le rivolte che sarebbero inevitabilmente scoppiate nell’arco di una generazione, quando le macchine avrebbero completamente sostituito il lavoro manuale. 13
Non ho tempo di descrivere nel dettaglio i conflitti politici scoppiati degli anni settanta e raccontati nel volume inedito Zero Work, che preparò il terreno per la successiva nascita del Midnight Notes Collective, ma si capisce che in molte catene di montaggio di quel periodo gli scioperi selvaggi chiedevano effettivamente di rimpiazzare il tedio e la ripetitività con la meccanizzazione; per le aziende, abbandonare le fabbriche nella «Rust Belt» sindacalizzata diventò una strategia consapevole di aggirare quelle rivendicazioni (cfr. Peter Linebaugh e Bruno Ramirez, «Crisis in the Auto Sector», tratto originariamente da Zero Work, pubblicato in Midnight Notes, 1992). 14
A volte negli Stati Uniti si preferisce alimentare la fantasia che lo stato non faccia pianificazione industriale, ma, come hanno osservato molte volte i critici, è vero il contrario. Gran parte della pianificazione diretta, e dunque
dell’attività di ricerca e sviluppo, si fa attraverso le Forze armate. 15
Il progetto si chiamava semplicemente Energia, e fu il motivo che portò allo sviluppo in Urss dei giganteschi razzi vettore che sono tuttora un pilastro del programma spaziale internazionale ora che lo Space Shuttle è fuori servizio. Negli Stati Uniti si è venuto a sapere del progetto soltanto nel 1987, due anni prima del crollo dell’Unione Sovietica; cfr. www.nytimes.com/1987/06/14/world/soviet-studies-satellites-to-convert-solarenergy-for-relay-to-earth.html. 16
Questo punto solleva una domanda interessante: quanto di questo particolare mondo mitologico è stato – almeno parzialmente – un’importazione slava? Una risposta richiederebbe parecchie ricerche. 17
Jeff Sharlet mi ha detto che queste relazioni immaginarie probabilmente sono molto più ramificate di quanto crediamo. Pare che negli anni cinquanta e sessanta molti americani di primo piano, tra cui un buon numero di membri del Congresso, sospettassero veramente che i sovietici fossero in contatto con gli alieni e che gli Ufo fossero loro alleati o prestassero loro tecnologie aliene (cfr., per esempio, Jeff Sharlet, Sweet Heaven When I Die: Faith, Faithlessness, and the Country in Between, Norton, New York 2012, pp. 146-148). 18
Tanto per fare un esempio, in più di quattrocento pagine, L’etica di Star Trek di Judith Barad (Longanesi, Milano 2003) non parla mai di democrazia o di processi decisionali politici collettivi. 19
Altre frasi che non si sentono mai sono: «Avete saputo che l’alleanza tradizionalista Vulcano-Bejoran sta minacciando di ritirare l’appoggio alla coalizione al potere e vuole andare a nuove elezioni se il loro candidato quest’anno non avrà il dicastero dell’Istruzione?». Si noti inoltre che in mancanza di differenze ideologiche, che potrebbero in teoria essere trasversali alle varie etnie, le uniche divisioni politiche concretamente immaginabili all’interno della Federazione sono tra specie: gli andoriani vogliono una cosa, i betazoidi ne vogliono un’altra. Anche questo ricorda ciò che succedeva in Urss e in regimi analoghi, dove la combinazione tra una sistema redistributivo centralizzato e l’esigenza pressante di conformismo ideologico faceva sì che le differenze etniche fossero le uniche in grado di trovare apertamente un’espressione politica (con conseguenze politiche disastrose).
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Anche se apparentemente nella Federazione sono rappresentati tutti i gruppi etnici, ho sempre notato una singolare eccezione: gli ebrei. Questo colpisce ancora di più perché sia Kirk sia Spock, nella serie originale, sono interpretati da attori ebrei (e, come tutti sanno, il saluto vulcaniano in realtà è una benedizione ebrea orotodossa). Non si vede mai un capitano Goldberg o un tenente Rubinstein; per quanto ne so, non c’è mai stato neanche un personaggio ebreo. 21
La successione degli eventi è ipotetica perché, come ho detto, la storia non è stata scritta. Non voglio dire che Michael Moore abbia avviato il dibattito, ma i suoi commenti danno il senso di ciò di cui si discuteva al tempo. I ferengi entrano in scena abbastanza presto, nel 1987, e i borg ancora prima, ma diventano due alternative che si oppongono alla Federazione solo più avanti. Basta cercare su Google «Gene Roddenberry» (il creatore di Star Trek) e «comunista» per avere un’idea di quale polverone abbia sollevato questo tema nei circoli conservatori. 22
La parola deriva originariamente da «franchi», il termine arabo generico per indicare i crociati. I ferengi, quindi, hanno un curioso retaggio medievale: il loro nome deriva da un termine spregiativo che i musulmani usavano per i cristiani, considerati barbari, empi, avidi e privi di ogni dignità umana; il loro aspetto fisico e i loro comportamenti, invece, sono un’allusione al modo ostile in cui i cristiani rappresentavano gli ebrei, per gli stessi motivi. 23
Per esempio, uno studio recente sul lavoro nel XXI secolo comincia così: «Due grandi sviluppi hanno ridefinito il lavoro alla fine del XX secolo. Il primo è stato l’implosione dell’Unione Sovietica e il trionfo in tutto il mondo del capitalismo di mercato. Il secondo è stato l’utilizzo diffuso di tecnologie di produzione informatiche e sistemi informatizzati di command-and-control management»; cfr. Rick Baldoz, Charles Koeber e Philip Kraft, The Critical Study of Work: Labor, Technology, and Global Production, Temple University Press, Philadelphia 2001, p. 3. 24
Il suo creatore, Michail Kalašnikov, recentemente ha raccontato in una conferenza stampa che i soldati americani in Iraq gettano via le loro armi per sostituirle con gli Ak-47 sottratti ai nemici ogni volta che ne hanno l’opportunità.
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E, naturalmente, prendere in considerazione solo il personale accademico è fuorviante, perché non tiene conto del numero sempre maggiore di amministrativi impiegati nelle fondazioni e in altre agenzie che erogano borse di studio. 26
Don Braben, fisico dello University College London, è finito su tutti i giornali nel Regno Unito per aver dichiarato che Albert Einstein, se fosse vivo, oggi non sarebbe mai stato in grado di ottenere fondi. Altri hanno osservato che molte delle sue opere più importanti non avrebbero nemmeno superato una peer review. 27
Jonathan L. Katz, «Don’t Become http://wuphys.wustl.edu/~katz/scientist.html.
a
Scientist!»;
cfr.
28
Peggio ancora, come osservano alcuni amici nel settore, chi eroga fondi insiste sempre sul fatto che sono gli scienziati, e non dei subordinati, a dover scrivere le domande, le relazioni ecc., con il risultato che anche gli studiosi più fortunati passano circa il 40 per cento del loro tempo a sbrigare pratiche. 29
Alcune aziende capitalistiche, in genere della Silicon Valley (insomma, quelle che si considerano all’avanguardia), adottano un approccio alla ricerca pura simile a quello della Bell Labs e fanno in modo che tutti lo sappiano. Indagando più a fondo, tuttavia, si scopre che è soprattutto una trovata pubblicitaria. Nella Silicon Valley l’innovazione è esternalizzata quasi totalmente alle start up. In questo momento, la ricerca più promettente non si fa né nelle aziende né in ambienti finanziati direttamente dallo stato, bensì nel settore non profit (che comprende molte università), ma, anche qui, l’aziendalizzazione della cultura istituzionale fa sì che sempre più tempo sia assorbito dalle attività connesse alla richiesta di finanziamenti. 30
David Harvie, «Commons and Communities in the University: Some Notes and Some Examples», in The Commoner, 8, 2004. 31
Non possiamo sapere, per esempio, se esistono formule di carburanti alternativi già acquistate e messe in cassaforte dalle compagnie petrolifere, ma è opinione diffusa che sia così. Un giornalista russo che conosco mi ha raccontato di una sua amica che ha ideato un progetto per una stazione base Internet capace di garantire la connessione wireless gratuita in tutto il paese. Il
brevetto è stato subito acquisito per vari milioni di dollari e soppresso da un grande provider. Storie come queste per definizione non possono essere verificate, ma è già significativo che esistano e che abbiano un alone di credibilità. 32
Neal Stephenson, «Innovation Starvation», in World Policy Journal, 2011, pp. 11-16. 33
Ho sempre pensato che lo Steampunk rappresentasse un senso di nostalgia per questo stato di cose. Una volta, partecipando a un dibattito sull’argomento in un museo, mi colpì il fatto che tutti i commentatori parlavano esclusivamente dell’elemento «steam» e nessuno dell’elemento «punk». Il punk-rock degli anni settanta parlava della mancanza di un futuro di redenzione – «No future» era uno dei suoi più celebri mantra – e credo che il gusto di età vittoriana per un futuro fantascientifico nasca soprattutto da un senso di nostalgia per l’ultimo momento, prima della carneficina della Prima guerra mondiale, in cui è stato possibile immaginare un futuro migliore per tutti. 34
Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 2014. 35
Credo però che ciò sia da attribuire più alla sua affinità politica con il comunismo libertario che alla sua devozione all’occulto. La sorella di sua moglie, che a quanto pare era la capobanda della sua società magica, alla fine lo abbandonò per L. Ron Hubbard. Dopo aver lasciato la Nasa, Parsons decise di applicare la magia alla creazione di effetti pirotecnici per il cinema; si fece saltare in aria nel 1962. 36
Lewis Mumford, Il mito della macchina, il Saggiatore, Milano 2011.
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Faccio notare che Peter Thiel, che era d’accordo con gran parte della tesi originale di questo saggio, ultimamente si è dichiarato un capitalista promonopolio e antimercato proprio perché secondo lui è il modo migliore per favorire un rapido cambiamento tecnologico. 38
Dacché mi ricordo, o almeno da quando avevo vent’anni, ogni anno qualcuno mi diceva che nel giro di tre anni sarebbe stato sviluppato un farmaco in grado di fermare l’invecchiamento.
3. L’utopia delle regole, ovvero perché in fondo la burocrazia ci piace tanto
Tutti si lamentano della burocrazia. Gli stessi capitoli che compongono questo libro sono sostanzialmente lamentele sulla burocrazia. La burocrazia non piace a nessuno. Eppure, in un modo o nell’altro, sembra che aumenti sempre. In questo capitolo vorrei provare a capire il perché. Non sarà che molte di queste condanne senza appello sono velate di ipocrisia? È possibile che vivere all’interno di un sistema di norme e regole formalizzate, all’ombra di gerarchie di anonimi funzionari, abbia un fascino nascosto – spesso per la maggior parte delle persone, e almeno qualche volta per tutti? Sono consapevole che non sia l’unica spiegazione possibile. C’è una scuola di pensiero secondo la quale la burocrazia tende a espandersi seguendo una logica interna, perversa ma inesorabile. L’argomentazione è questa: se per risolvere un problema si crea una struttura burocratica, tale struttura inevitabilmente finirà per creare altri problemi che, a loro volta, sembreranno risolvibili soltanto per via burocratica. Nel mondo accademico, il fenomeno viene descritto informalmente come «creare commissioni per risolvere il problema delle troppe commissioni». Una leggera variante di questa teoria – di fatto, il cuore delle riflessioni di Max Weber sull’argomento – dice che, una volta creata una burocrazia, questa farà in modo di rendersi indispensabile cercando di detenere il potere, a prescindere da ciò che vuole farne. Il modo migliore per raggiungere l’obiettivo è monopolizzare l’accesso a un certo tipo di informazioni chiave. Vale la pena di citare direttamente Weber: Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni. L’amministrazione burocratica tende sempre a essere
un’amministrazione di «sedute segrete». Nella misura in cui ne è capace, nasconde le sue informazioni e le sue azioni dallo scrutinio critico […]. Il concetto di «segreto ufficiale» è l’invenzione specifica della burocrazia, e nulla viene difeso con altrettanto fanatismo di questo atteggiamento, che non può essere sostanzialmente giustificato al di là di tali aree qualificate. Davanti a un Parlamento, la burocrazia, per istinto di potere, attraverso i suoi esperti o le lobby combatte ogni tentativo di acquisire conoscenze […]. Il monarca assoluto è impotente di fronte alla conoscenza superiore del burocrate esperto, in un certo senso più impotente di qualsiasi altro capo politico. Tutti gli sprezzanti decreti di Federico il Grande sull’«abolizione del servaggio» furono fatti deragliare, per così dire, dal corso della loro attuazione perché i meccanismi ufficiali semplicemente li ignorarono, considerandoli le idee peregrine di un dilettante. Quando un monarca costituzionale è d’accordo con una parte socialmente importante dei governati, molto spesso esercita sull’amministrazione un’influenza maggiore del «monarca assoluto». Il monarca costituzionale può controllare questi esperti – soprattutto in virtù di quello che, almeno relativamente, è il carattere pubblico della critica –, laddove il monarca assoluto per le informazioni dipende unicamente dalla burocrazia. Lo zar russo dell’antico regime raramente riusciva a ottenere in modo permanente qualcosa che spiacesse alla sua burocrazia e danneggiasse gli interessi di potere dei burocrati. 1 Un effetto collaterale, come osserva lo stesso Weber, è che una volta che si crea una burocrazia è quasi impossibile sbarazzarsene. Le primissime burocrazie di cui siamo a conoscenza risalgono alla Mesopotamia e all’antico Egitto, e hanno resistito sostanzialmente intatte per migliaia di anni all’avvicendarsi delle dinastie o delle élite dominanti. In maniera analoga, ripetute ondate di invasioni non sono state sufficienti a sradicare l’amministrazione cinese – con le sue strutture burocratiche, le sue relazioni e i suoi sistemi di valutazione –, che è rimasta saldamente al suo posto a prescindere da chi, volta per volta, rivendicasse il Mandato del cielo. In realtà, gli invasori stranieri avevano bisogno delle competenze e delle conoscenze gelosamente custodite dai burocrati cinesi ancor più dei governanti locali, per ovvi motivi. L’unico modo
per sbarazzarsi di una burocrazia consolidata, secondo Weber, è semplicemente eliminarne tutti i membri, come fecero Alarico e i goti nella Roma imperiale e Gengis Khan in alcune parti del Medio Oriente. Se rimane in vita un certo numero di funzionari, nel giro di pochi anni finirà inevitabilmente per controllare il regno. La seconda spiegazione possibile è che la burocrazia non solo si rende indispensabile per chi governa, ma esercita una vera e propria attrazione anche su coloro che la amministrano. Qui non bisogna necessariamente essere d’accordo con Weber e con la sua curiosa esaltazione dell’efficienza burocratica. La spiegazione più semplice del fascino delle procedure burocratiche sta nella loro impersonalità. I rapporti burocratici, freddi e impersonali, sono molto simili alle transazioni monetarie e hanno gli stessi vantaggi e svantaggi: da un lato sono senz’anima; dall’altro sono semplici, prevedibili e – entro certi parametri – trattano tutti più o meno allo stesso modo. E poi, chi vuole davvero vivere in un mondo in cui tutto è anima? La burocrazia ci permette di interagire con altre persone senza impegnarci in tutte quelle complesse ed estenuanti forme di sforzo interpretativo descritte nel primo capitolo di questo libro: quando entriamo in un negozio tiriamo fuori il portafoglio senza preoccuparci se il cassiere pensa che siamo vestiti bene o male; quando andiamo in biblioteca tiriamo fuori il tesserino senza dover spiegare perché ci interessano tanto i temi omoerotici della poesia inglese del XVIII secolo. Questa sicuramente è una parte del fascino della burocrazia. Anzi, a pensarci bene, anche qualora si arrivasse a un’utopica società comunitaria, è difficile pensare di poter fare a meno di alcune istituzioni impersonali (vogliamo dire burocratiche?), e il motivo è proprio questo. Per fare un esempio: stare in lista d’attesa o sperare di essere estratti a sorte per un trapianto d’organo di cui si ha disperatamente bisogno sarà pure alienante e sconfortante, ma è difficile immaginare un modo meno impersonale di allocare una quantità limitata di cuori e reni che non sia anche incommensurabilmente peggiore. Questa, come ho detto, è la spiegazione più semplice. Ma qui vorrei esplorare la possibilità che le motivazioni siano molto più profonde. Le relazioni impersonali favorite dalle burocrazie non sono solo comode e convenienti; in
qualche misura, la nostra stessa idea di razionalità, giustizia e soprattutto di libertà si fonda su di esse. Per spiegare questo mio punto di vista prenderò in esame due momenti nella storia dell’uomo in cui le nuove forme di burocrazia hanno ispirato non solo passiva acquiescenza, ma anche un sincero entusiasmo, quasi un’infatuazione. Che cosa, esattamente, ha fatto sembrare la burocrazia così esaltante?
L’incanto del disincanto, o i poteri magici delle Poste Se Weber ha potuto descrivere la burocrazia come l’incarnazione stessa dell’efficienza razionale è perché nella Germania dei suoi tempi le istituzioni burocratiche funzionavano davvero. L’istituzione simbolo, l’orgoglio dell’amministrazione tedesca, erano le Poste. Alla fine del XIX secolo, il servizio postale tedesco era considerato una delle grandi meraviglie del mondo moderno. La sua efficienza era talmente leggendaria da gettare una specie di ombra terribile su tutto il XX secolo. Molte delle grandi conquiste di quello che oggi chiamiamo «alto modernismo» sono state ispirate – o direttamente copiate – dalle Poste tedesche. E si potrebbe sostenere che molti dei grandi mali del secolo scorso siano ugualmente da imputare a esse. Per capire tutto ciò dobbiamo risalire alle vere origini dello stato sociale moderno, che oggi pensiamo – se mai ci pensiamo – sia il prodotto di élite democratiche benevole. Niente di più lontano dalla verità. In Europa, molte delle istituzioni centrali di quello che sarebbe poi diventato il welfare state (dalla previdenza sociale alle pensioni, dalle biblioteche pubbliche agli ospedali pubblici) non furono create dai governi ma dai sindacati, dalle associazioni di quartiere, dalle cooperative, dalle organizzazioni e dai partiti operai. Molte di queste realtà erano consapevolmente impegnate in un progetto rivoluzionario che aveva l’obiettivo di «costruire una nuova società dalle spoglie della vecchia» e di creare, in maniera graduale e dal basso, istituzioni di tipo socialista. Per alcune l’obiettivo era anche prendere il controllo del governo per via parlamentare; per altre il progetto era fine a se stesso. Va ricordato che alla fine del XIX secolo perfino gli eredi diretti del Partito comunista di Marx avevano in
gran parte abbandonato l’idea di prendere il controllo del governo con la forza, perché non sembrava più necessario; in un’Europa in pace e attraversata da un rapido sviluppo tecnologico, credevano possibile avviare una rivoluzione sociale con mezzi pacifici ed elettorali. La Germania fu uno degli stati in cui i partiti riuscirono meglio in questo intento. Il cancelliere Otto von Bismarck, il grande architetto dello stato tedesco, aveva concesso al Parlamento poteri limitati, ma era preoccupato dalla rapida ascesa dei partiti operai e costantemente in ansia per la prospettiva di una maggioranza socialista o di una possibile sollevazione sulla falsariga della Comune di Parigi nella sua nuova Germania unita. La sua reazione di fronte al successo dei socialisti alle elezioni del 1878 fu duplice: dapprima mise fuori legge il Partito socialista, i sindacati e i giornali di sinistra; poi, visto che la mossa si era dimostrata inefficace (i socialisti continuavano a candidarsi, e a vincere, da indipendenti), creò un’alternativa dall’alto alle scuole gratuite, alle associazioni dei lavoratori, alle casse mutue, alle biblioteche, ai teatri e al processo di costruzione dal basso del socialismo. La forma era quella di una serie di programmi di assicurazione sociale (per la disoccupazione, la sanità, l’invalidità ecc.), istruzione gratuita, pensioni e così via – in buona sostanza, una versione annacquata delle politiche che facevano parte della piattaforma socialista, purgate di qualsiasi elemento democratico e partecipativo. In privato, Bismarck parlava senza mezzi termini di «corrompere» la classe operaia per convincerla a sposare il suo progetto nazionalista-conservatore. 2 Più avanti, quando i partiti di sinistra presero effettivamente il potere, il modello si era ormai consolidato: regolarmente, i governi seguirono lo stesso approccio dall’alto verso il basso, inglobando nella struttura amministrativa dello stato cliniche locali, biblioteche, casse mutue, centri di istruzione per i lavoratori e simili. In Germania, il vero modello di questa nuova struttura amministrativa furono, curiosamente, proprio le Poste – il che, in realtà, ha una certa logica se si ripercorre la storia del servizio postale. Le Poste furono, in sostanza, uno dei primi tentativi di applicare una forma di organizzazione gerarchica e militare al bene pubblico. Storicamente, i servizi postali nascono dall’organizzazione degli eserciti e degli imperi. In origine erano un modo per trasmettere rapporti operativi e ordini a lunga distanza. In seguito, per estensione, diventarono uno
strumento chiave per tenere uniti gli imperi. Di qui la famosa affermazione di Erodoto sui messaggeri dell’Impero persiano, con le loro postazioni distribuite in modo uniforme in tutto il territorio con cavalli riposati, che permettevano spostamenti rapidissimi: «Né la neve né la pioggia, il caldo o il buio della notte impediscono loro di portare a termine il loro compito con la massima velocità» si legge ancora oggi all’ingresso dell’edificio del Central Post Office a New York, di fronte alla Penn Station. 3 L’Impero romano aveva un sistema simile, e più o meno tutti gli eserciti adottavano sistemi di corrieri postali finché nel 1805 Napoleone non passò all’alfabeto semaforico. Una delle maggiori innovazioni a livello amministrativo del XVIII e specialmente del XIX secolo fu l’estensione e la trasformazione del vecchio sistema dei corrieri militari in un nuovo servizio pubblico il cui scopo primario era erogare servizi per i cittadini. Il primo a beneficiarne fu il commercio; poi le classi mercantili cominciarono a utilizzare la posta anche per la corrispondenza personale o politica, finché non venne usata da tutti. 4 Di lì a poco, in molti degli stati nazione emergenti in Europa e nelle Americhe, metà del bilancio dello stato (e più della metà dei dipendenti pubblici) venne assorbito dal servizio postale. 5 Si potrebbe quasi sostenere che in Germania lo stato nazione sia stato creato dalle Poste. Durante il Sacro romano impero, il diritto di amministrare un sistema di corrieri postali sul territorio fu attribuito, alla maniera feudale, a una famiglia aristocratica originaria di Milano, i baroni von Thurn und Taxis (dice la leggenda che un discendente della famiglia fu l’inventore del tassametro, da cui il taxi prenderebbe il nome). Nel 1867 l’Impero prussiano rilevò il monopolio dei Thurn und Taxis e lo utilizzò per gettare le basi di un nuovo servizio postale nazionale tedesco. Nei vent’anni successivi, il chiaro segnale che un nuovo staterello o principato era stato assorbito nel nascente stato nazione tedesco era l’incorporazione nel sistema postale. Anche per questo motivo, la sfavillante efficienza del sistema divenne motivo di orgoglio nazionale. Ed effettivamente alla fine dell’Ottocento il servizio postale tedesco era a dir poco impressionante, con 5-9 consegne al giorno nelle città principali e chilometri e chilometri di tubi pneumatici che attraversavano il sottosuolo di Berlino per consegnare quasi all’istante lettere e piccoli pacchi grazie a un sistema ad aria compressa.
Mark Twain, che visse brevemente a Berlino tra il 1891 e il 1892, ne restò talmente colpito che scrisse uno dei suoi pochi saggi non satirici, Postal Service, per esaltarne la prodigiosa efficienza. 6 Non fu l’unico straniero a rimanere impressionato. A pochi mesi dallo scoppio della Rivoluzione russa, Vladimir Il’ič Lenin scriveva: Verso il 1870 un arguto socialdemocratico tedesco considerava la posta come un modello di impresa socialista. Giustissimo. La posta è attualmente un’azienda organizzata sul modello del monopolio capitalistico di stato. A poco a poco l’imperialismo trasforma tutti i trust in organizzazioni di questo tipo […]. Tutta l’economia nazionale organizzata come la posta; i tecnici, i sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello stato, retribuiti con
uno stipendio non superiore al «salario da operaio», sotto il controllo e la direzione del proletariato armato: ecco il nostro fine immediato. 7 Ebbene sì: l’organizzazione dell’Unione Sovietica fu modellata direttamente sul servizio postale tedesco. Ma i socialisti di stato non erano i soli a essere impressionati. Pefino gli anarchici si univano al coro, nonostante a interessarli fossero, più che i singoli sistemi nazionali, le relazioni tra di loro: per esempio, il fatto che si potessero mandare lettere dal Venezuela alla Cina anche in assenza di un unico stato sovrano. Non a caso, Pëtr Kropotkin spesso citava l’«Unione postale universale» del 1878 (insieme agli accordi tra le compagnie ferroviarie) come un modello per l’anarchismo, sottolineando ancora una volta che tutto questo stava già prendendo forma al vertice dei sistemi imperiali: L’Unione postale non ha eletto un Parlamento postale internazionale allo scopo di fare leggi per tutte le organizzazioni postali che aderiscono all’Unione […]. Queste hanno proceduto per mezzo di un accordo. Per accordarsi tra loro hanno fatto ricorso ai congressi; ma, pur inviando dei delegati ai congressi, non hanno detto loro «Votate tutto quello che vi pare e noi obbediremo». Hanno sollevato delle questioni e prima le hanno discusse tra loro, poi hanno inviato dei delegati informati delle speciali questioni che sarebbero state discusse al congresso – e hanno mandato dei delegati, non dei governanti. 8 Questa visione di un potenziale paradiso che sarebbe nato dall’ufficio postale non era confinata all’Europa. Gli Stati Uniti, che presto sarebbero emersi come il principale rivale della Germania in termini di influenza internazionale, erano considerati a loro volta il modello di un nuovo tipo di civiltà, e l’efficienza del loro servizio postale ne era la dimostrazione lampante. Già negli anni trenta del XIX secolo, Tocqueville rimase impressionato dalle dimensioni del sistema postale e dal volume di lettere movimentate perfino alla frontiera. Durante un viaggio dal Kentucky al Michigan osservò: «Tra questi boschi selvaggi c’è una circolazione sbalorditiva di lettere e giornali», molto più, secondo i suoi calcoli, che nelle province più popolose e mercantili della Francia. Per citare un successivo storico della Repubblica americana:
Presto gli americani avrebbero reso il loro sistema postale più grande di quelli della Gran Bretagna e della Francia. Nel 1816 il sistema postale contava più di tremilatrecento uffici e impiegava quasi il 70 per cento dell’intera forza lavoro civile a livello federale. Il volume della posta aumentò altrettanto rapidamente. Nell’anno 1790 il sistema postale aveva movimentato soltanto trecentomila lettere, una ogni circa quindici persone. Nel 1815 consegnò quasi sette milioni e mezzo di lettere, pari a circa una lettera a persona […]. E, a differenza di quanto avveniva in Gran Bretagna e in altre nazioni europee, la posta veniva consegnata senza la supervisione o il controllo del governo. 9 In realtà, per buona parte del secolo, agli occhi della maggioranza degli americani, il sistema postale era il governo federale. Nel 1831, i suoi dipendenti erano già molti di più rispetto a quelli di tutti gli altri rami del governo messi insieme e anche delle Forze armate. Nelle piccole città, gli impiegati postali erano gli unici funzionari pubblici con cui i cittadini avessero a che fare in tutta la loro vita. In Europa, gli Stati Uniti al tempo erano visti come una specie di esperimento utopico, con il loro rifiuto del laissez faire e il ricorso diffuso alle cooperative, ai progetti promossi dallo stato e alle tariffe protezionistiche. Soltanto dopo la Guerra civile, con l’affermazione del capitalismo aziendale, gli Stati Uniti si avvicinarono al modello tedesco di capitalismo burocratico. A quel punto, il modello dell’ufficio postale cominciò a essere visto, dai populisti e soprattutto dai progressisti, come la principale alternativa praticabile. Ancora una volta, forme di una società nuova, più libera e razionale, sembravano emergere all’interno delle strutture stesse dell’oppressione. In America, per dire «nazionalizzazione» si usava il calco «postalizzazione», significativamente poi del tutto scomparso dal linguaggio. E mentre Weber e Lenin invocavano le Poste tedesche come un modello per il futuro, i progressisti americani sostenevano che perfino le imprese private sarebbero state più efficienti se gestite come la posta, e imponevano la «postalizzazione» di servizi importanti come la metropolitana e il trasporto ferroviario locale e interstatale, da allora rimasti in mano pubblica. Con il senno di poi, tutte queste fantasie sull’utopia postale suonano quantomeno datate. Oggi il servizio postale nazionale è associato all’arrivo di
cose che non vorremmo mai vedere: bollette, avvisi di conto in rosso, cataloghi di vendita per corrispondenza, solleciti, concorsi a premi, convocazioni per fare i giurati, accertamenti fiscali, offerte di carte di credito usa e getta e appelli alla beneficenza. Nell’immaginario collettivo americano, la figura dell’impiegato postale è diventata sempre più squallida. Ma tutto questo non è successo da un giorno all’altro. È stato il risultato di precise scelte politiche. A partire dagli anni ottanta, il legislatore ha cominciato a tagliare sistematicamente fondi agli uffici postali e a incoraggiare la concorrenza privata, nell’ambito di una campagna volta a convincere gli americani che lo stato non funziona. 10 Di conseguenza, il servizio postale è diventato improvvisamente l’emblema di tutto quello che non va (o, almeno, così dovremmo credere) nelle burocrazie pubbliche: sui giornali si leggevano continuamente articoli che parlavano di scioperi, lavoratori tossicodipendenti e stanze piene di posta non consegnata da anni. E, soprattutto, di dipendenti che ogni tanto perdevano la testa (l’espressione going postal, nel senso di «dare di matto», è diventata parte del linguaggio comune americano) e sparavano a direttori, colleghi, agenti di polizia e comuni cittadini. Non a caso, l’unico riferimento al termine «postalizzazione» che sono riuscito a trovare nella letteratura contemporanea è in un saggio sulla violenza sul posto di lavoro intitolato «La postalizzazione delle imprese americane», che denuncia il diffondersi della piaga delle aggressioni e delle violenze contro capi e colleghi dal settore pubblico al settore privato. In un libro molto interessante intitolato Going Postal: Rage, Murder, and Rebellion from Reagan’s Workplaces to Clinton’s Columbine and Beyond («Going Postal: rabbia, omicidio e ribellione dal mondo del lavoro ai tempi di Reagan fino alla Columbine ai tempi di Clinton e oltre»), Mark Ames fa un’attenta disamina dei resoconti giornalistici di questi fatti (che effettivamente si erano allargati a macchia d’olio, diffondendosi dalle poste agli uffici delle aziende e alle fabbriche fino ai servizi postali privati come Ups, ma che nel frattempo erano diventati talmente all’ordine del giorno che ormai non facevano più notizia) e osserva che il linguaggio utilizzato, che descrive questi gesti come atti inspiegabili di rabbia e follia individuale (senza tenere conto delle umiliazioni sistematiche che quasi sempre li scatenano), somiglia in modo impressionante a quello che utilizzava la stampa ottocentesca per raccontare le
rivolte degli schiavi. 11 Ames rileva che nella storia americana si contano pochissime rivolte di schiavi. Si registrano invece numerosi episodi in cui alcuni singoli o piccoli gruppi di schiavi si sono scagliati contro guardiani, padroni e relativi familiari con asce, coltelli, veleno o qualsiasi mezzo di offesa a disposizione. In entrambi i casi, i giornali hanno trattato questi atti di ribellione come il frutto della pazzia individuale o di una malvagità inspiegabile. Soltanto ipotizzare possibili cause strutturali – per esempio, parlare dei mali della schiavitù, o evidenziare che prima delle riforme del mondo del lavoro degli anni ottanta, che hanno eliminato la sicurezza dell’impiego e le tutele dei lavoratori contro i trattamenti arbitrari e umilianti dei superiori, non c’era stata una sola strage sul lavoro nella storia americana (tranne che per mano degli schiavi) – sembrava quasi immorale, perché era come ammettere che tale violenza fosse in qualche modo giustificata. C’era poi una forte componente razziale in questa retorica. Se per gran parte del XX secolo l’ufficio postale aveva rappresentato agli occhi delle comunità operaie afroamericane il prototipo del posto di lavoro stabile, sicuro, ma allo stesso tempo rispettabile e al servizio della collettività, 12 da Reagan in poi è stato dipinto come l’incarnazione del degrado, della violenza, dell’abuso di droghe e dell’inefficienza di un welfare state raffigurato in termini profondamente razzisti. Del resto, nella cultura popolare statunitense l’afroamericano è spesso identificato con il noioso burocrate o con il folle violento (quasi mai, però, in contemporanea). Uno strano tema ricorrente dei film d’azione è che il capo dell’eroe ribelle, irritante e ligio alle regole, è sempre nero. 13 Proprio mentre si combatteva questa simbolica guerra al servizio postale – sempre più avvolto, nell’immaginario popolare, da una nube di follia, degrado e violenza – è nata però una nuova infatuazione, simile a quella per la posta a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Riassumendo: 1. In ambito militare nasce una nuova tecnologia di comunicazione. 2. Si diffonde rapidamente, trasformando in modo radicale la vita quotidiana. 3. Si fa una fama di sfolgorante efficienza. 4. Poiché opera secondo regole non di mercato, viene subito cooptata dai movimenti radicali, che vedono in essa il modello per un futuro sistema
economico non capitalista nato all’interno del capitalismo stesso. 5. Contemporaneamente, diventa uno strumento di controllo per il governo e per la proliferazione di nuove forme di pubblicità e scartoffie indesiderate. Dovrebbe essere abbastanza evidente di che cosa sto parlando. È la storia di Internet. In fondo, che cos’è l’e-mail se non un gigantesco ufficio postale elettronico e superefficiente? E la Rete non ha forse creato a sua volta l’illusione di una nuova forma di economia cooperativa nata dalle spoglie del capitalismo, per poi inondarci di truffe, pubblicità e offerte commerciali indesiderate, permettendo allo stato di spiarci in modi nuovi e più creativi? Ovviamente ci sono delle differenze. Soprattutto, Internet permette forme di collaborazione molto più partecipate e dal basso. Questo è un aspetto importante. Ma, al momento, più che occuparmi del significato storico del fenomeno mi interessa porre una domanda: che cosa c’entra tutto questo con il fascino della burocrazia? Innanzitutto, è significativo che, pur nascendo in ambito militare, il servizio postale e Internet possano essere considerati entrambi degli strumenti che utilizzano tecnologie militari per scopi squisitamente antimilitari. Come ho osservato, la violenza organizzata, nella misura in cui è una forma di comunicazione, si caratterizza per il fatto di ridurre all’osso, semplificare e, in ultima analisi, impedire la comunicazione stessa; e, nella misura in cui è una forma di azione, è in realtà una forma di antiazione, perché il suo fine ultimo è impedire agli altri di agire (o di agire in certi modi oppure, in caso di violenza estrema, di agire punto e basta). Eppure, in entrambi i casi, queste forme di comunicazione minimaliste e ridotte all’osso, tipiche dei sistemi militari – che siano catene di comando o codici binari –, si trasformano in piattaforme invisibili per costruire tutto ciò che in origine non sono: sogni, progetti, dichiarazioni d’amore e passione, pulsioni artistiche, manifesti sovversivi ecc. Permettono la creazione e la coltivazione di relazioni sociali che altrimenti non sarebbero mai potute esistere. Ma ciò vuol dire anche che la burocrazia ci attrae e ci sembra più liberatoria proprio nel momento in cui scompare: quando, cioè, diventa talmente razionale e affidabile che ci fa credere che possiamo addormentarci su un letto di numeri e risvegliarci con quei numeri ancora magicamente al loro posto.
In questo senso, la burocrazia ci incanta quando diventa una sorta di «tecnologia poetica», ovvero quando forme meccaniche di organizzazione, tipicamente di ispirazione militare, vengono rovesciate per realizzare imprese impossibili: creare città dal nulla, scalare il cielo, far fiorire il deserto. Per gran parte della storia dell’uomo questo potere è stato in mano soltanto agli imperatori o ai capi degli eserciti vittoriosi; perciò possiamo addirittura parlare di democratizzazione del dispotismo. Un tempo, il privilegio di alzare la mano e avere un esercito invisibile di ruote e ingranaggi che si metteva in moto per soddisfare ogni capriccio era riservato a pochi eletti. Nel mondo contemporaneo, può essere frammentato in milioni di pezzi piccolissimi e messo a disposizione di chiunque sappia scrivere una lettera o schiacciare un bottone. 14 Tutto ciò implica un concetto molto particolare di libertà. E ancora di più, credo, segna un ribaltamento del vecchio modo di concepire la razionalità, il cui significato non potrebbe essere più profondo. Mi spiego. Le tradizioni intellettuali occidentali partono tendenzialmente dal presupposto che il potere della ragione umana sia innanzitutto un modo per tenere a freno i nostri istinti primordiali. Questo assunto si ritrova già in Platone e in Aristotele, e si consolida ulteriormente con l’adozione delle teorie classiche sull’anima da parte del cristianesimo e dell’islam. Tutti abbiamo spinte e passioni animali, dice il ragionamento, così come abbiamo il potere della creatività e dell’immaginazione, ma queste pulsioni, alla fine, sono caotiche e antisociali. La ragione – sia a livello individuale sia all’interno della comunità politica – esiste per tenere a freno la nostra natura più bassa, per reprimere, incanalare e contenere le energie potenzialmente violente in modo che non portino al caos e alla distruzione reciproca. È una forza etica. Ecco perché, per esempio, la parola polis, che esprime la comunità politica e il luogo dell’ordine razionale, è la stessa che dà la radice a «polizia» e a politeness, «educazione». Di conseguenza, in questa tradizione il sottotesto è che ci sia qualcosa di vagamente diabolico nel nostro potere creativo. L’emergere del populismo burocratico così come l’ho descritto ribalta completamente questa concezione della razionalità in un nuovo ideale, riassunto dalla famosa massima di David Hume: «La ragione è e deve soltanto
essere la schiava delle passioni». 15 Secondo questa concezione, la razionalità non ha nulla a che fare con la morale. È un elemento puramente tecnico, uno strumento, una macchina, un mezzo per calcolare come raggiungere nel modo più efficiente fini che di per sé non possono essere valutati in termini razionali. La ragione non può dirci quello che dobbiamo volere. Può dirci soltanto qual è il modo migliore per ottenerlo. In entrambe le concezioni, la ragione è in qualche maniera al di fuori della creatività, del desiderio e delle passioni. Ma, mentre nell’una ha la funzione di reprimere queste passioni, nell’altra ha quella di facilitarle. La scienza economica probabilmente ha portato questa logica all’estremo, ma è una logica riconducibile tanto alla burocrazia quanto al mercato (va ricordato, tra l’altro, che la maggior parte degli economisti è, ed è sempre stata, al servizio di grandi organizzazioni burocratiche di un tipo o dell’altro). L’idea che si possa operare una rigida divisione tra mezzi e fini, tra fatti e valori, è frutto della mentalità burocratica: la burocrazia, infatti, è la prima e unica istituzione sociale che tratta i mezzi come se fossero completamente separati dalle cose che realizzano. 16 In questo senso, la burocrazia si è radicata ormai da molti anni nel senso comune di una parte assai consistente della popolazione mondiale. Allo stesso tempo, però, la vecchia idea di razionalità non è mai scomparsa del tutto. Al contrario: le due concezioni coesistono, anche se sono quasi totalmente in contraddizione e in costante attrito. Di conseguenza, la nostra concezione di razionalità è incoerente. Non è affatto chiaro quale dovrebbe essere il significato della parola. A volte è un mezzo; a volte è un fine. A volte non ha niente a che fare con la morale; a volte è l’essenza stessa di ciò che è buono e giusto. A volte è un metodo per risolvere i problemi; altre volte è essa stessa la soluzione a tutti i possibili problemi.
Il razionalismo come forma di spiritualità Vale la pena di riflettere su questa contraddizione, perché è al cuore della nostra concezione della burocrazia. Da una parte c’è l’idea che i sistemi burocratici siano tecnologie sociali neutre, semplici strumenti per arrivare da A
a B a prescindere da torti e ragioni. Ricordo che un mio amico che frequentava la Woodrow Wilson School of Public and International Affairs a Princeton, un centro di formazione di fama mondiale per funzionari di alto livello, mi raccontò tra lo scioccato e il divertito che era stato obbligato a iscriversi a un corso di «etica non valoriale». A prima vista sembra assurdo. Ma in realtà l’idea deriva proprio da questa concezione del ruolo del burocrate come servitore pubblico: la responsabilità dei servitori è esaudire le richieste dei padroni, quali che siano. Quando però questo padrone si chiama «pubblico» sorge un problema: come si fa a capire esattamente che cosa vuole il pubblico? Era proprio questo ciò che veniva insegnato agli aspiranti funzionari nel corso di «etica non valoriale»: nel caso di un progetto per un sistema autostradale, si spiegava per esempio come applicare metodi quantitativi per determinare l’importanza relativa per il pubblico di (a) arrivare puntuali al lavoro e (b) non rimanere uccisi o feriti in un incidente automobilistico (in gergo economico, le loro «preferenze rivelate» sul tema) e fissare il limite di velocità di conseguenza. D’altra parte, contraddittoriamente, resiste la vecchia concezione, rivisitata in chiave moderna, della razionalità come ordine morale e dunque fine a se stessa. Chiunque abbia una visione utopica delle cose – socialismo, libero mercato, fondamentalismo religioso – sogna di creare un ordine sociale che, a differenza degli ordini esistenti, abbia una coerenza logica e che dunque rappresenti il trionfo della ragione sul caos. 17 Inutile dire che la creazione di una burocrazia efficiente è sempre la pietra angolare di questi progetti. Le tesi sul ruolo della «razionalità» nella politica quasi sempre sottovalutano la contraddizione insita in queste due concezioni. Le cose non migliorano se si torna alle definizioni fondamentali. Anzi, sotto molti aspetti peggiorano. Tra i filosofi non c’è un accordo unanime sul significato della parola «razionalità». Secondo una certa tradizione, per esempio, la razionalità è l’applicazione della logica, del puro pensiero libero dalle emozioni; questo pensiero puro e oggettivo è quindi considerato la base dell’indagine scientifica. Tale tesi ha avuto molto successo, ma c’è un problema di fondo: proprio l’indagine scientifica ha dimostrato che non può essere vera. Gli psicologi cognitivi hanno ripetutamente dimostrato che non esiste un
pensiero puro separato dalle emozioni; un essere umano privo di emozioni non sarebbe nemmeno in grado di pensare. 18 Altri seguono un approccio più pragmatico, limitandosi ad asserire che un’argomentazione è razionale quando si fonda sulla realtà empirica ed è anche logicamente coerente nella forma. Il problema, in questo caso, è che i due criteri non c’entrano molto l’uno con l’altro. Uno ha a che fare con l’osservazione; l’altro con il ragionamento. 19 Che cos’hanno in comune? Il fatto che, quando qualcuno sostiene una tesi inventata di sana pianta o logicamente incoerente, viene considerato non sano di mente. Da un certo punto di vista è giusto: in effetti i matti vengono considerati «irrazionali». Ma, se le cose stanno così, allora definire «razionale» una persona o una tesi non vuol dire quasi niente. È un’affermazione molto debole. È come dire che quella persona o quella tesi non sono manifestamente folli. Basta rovesciare l’argomentazione, tuttavia, per rendersi conto che predicare la «razionalità» delle proprie posizioni politiche è un’affermazione estremamente forte. Anzi, è straordinariamente arrogante, perché significa che chi non è d’accordo con tali posizioni non solo sbaglia, ma è pazzo. Allo stesso modo, dire di desiderare un ordine sociale «razionale» equivale a dire che gli attuali assetti sociali sono stati concepiti da una gabbia di matti. Queste cose, almeno una volta, le abbiamo pensate tutti. Si tratta però di una posizione estremamente intollerante, perché equivale a dire che i nostri avversari non solo sbagliano, ma in un certo senso non sanno nemmeno che cosa significhi avere ragione. A meno che, per qualche motivo misterioso, non si ravvedano, accettino la luce della ragione e decidano di riconoscere la bontà della nostra impostazione concettuale e del nostro punto di vista. La tendenza a elevare la razionalità a virtù politica ha avuto un effetto perverso. Il fastidio per queste posizioni – e per coloro che le sostengono – ha spinto alcuni teorici a rifiutare interamente la razionalità in favore dell’«irrazionalismo». Naturalmente, se ci atteniamo alla definizione minima di razionalità, si tratta di una posizione assurda. È impossibile argomentare contro la razionalità perché un’argomentazione, per essere convincente, deve a sua volta essere impostata in termini razionali. Se si vuole iniziare una discussione con qualcuno bisogna accettare, almeno a livello tacito, che le argomentazioni basate su una valutazione corretta della realtà siano migliori di quelle che non
lo sono (cioè, che qualsiasi argomentazione che parta dal presupposto che tutti i palazzi sono fatti di formaggio non vada presa sul serio), e che le argomentazioni che rispettano le leggi della logica siano migliori di quelle che le violano (per esempio, sostenere che siccome il sindaco di Cincinnati è un uomo tutti gli uomini sono il sindaco di Cincinnati è ugualmente risibile). Non è questa la sede per addentrarsi in tutte le trappole e contraddizioni logiche che ne derivano. Voglio semplicemente sollevare la questione di come siamo arrivati a questo punto. Credo che l’unica cosa da fare sia ripartire dall’inizio e andare alla ricerca delle origini storiche del concetto occidentale di «razionalità» nelle città greche dell’Italia meridionale intorno al V secolo a.C. La prima scuola filosofica a definirsi razionalista e a considerare la razionalità un valore in sé fu quella dei pitagorici. Oltre che una scuola filosofica e scientifica, i pitagorici erano una specie di culto o confraternita politica che a un certo punto prese il controllo di diverse città italiane. 20 La loro grande scoperta intellettuale fu che esisteva un’analogia formale tra i rapporti matematici che si osservavano nella geometria, negli intervalli musicali e nel movimento dei pianeti. Giunsero quindi alla conclusione che l’universo era fondamentalmente fatto di numeri, una concezione che oggi viene ricordata soprattutto per il concetto affascinante dell’inaudibile «musica delle sfere». Il cosmo, secondo i pitagorici, era razionale perché era l’espressione di tre principi: numero, frequenza e vibrazione; quando la mente (o anima) umana esercitava la ragione, partecipava al grande ordine razionale, all’«anima del mondo» cosmica che dava vita a tutto. 21 Questa concezione dell’universo fu in larga parte adottata da Platone nel Timeo ed ebbe un’enorme influenza. Tra il I e il II secolo dell’Impero romano il nucleo centrale delle idee pitagoriche era stato ormai fatto proprio da tutte le principali scuole filosofiche: non solo dai neoplatonici, ma anche dagli stoici e, in una certa misura, dagli epicurei. Formava inoltre la base filosofica di quella che Hans Joas ha definito la «religione cosmica» della tarda antichità, una fusione di speculazione cosmologica greca, astrologia babilonese e teologia egiziana, spesso mischiate con elementi del pensiero giudaico e varie tradizioni di magia popolare. 22 Come osserva Joas, questa religione cosmica – secondo la quale Dio, la Ragione e il Cosmo erano la stessa cosa, e le capacità più elevate dell’uomo erano a loro volta una forma di partecipazione all’ordine
cosmico razionale –, nonostante la sua grandiosità, rappresentava una sorta di ritirata politica. I pitagorici, come molti filosofi greci, partecipavano attivamente alla vita politica della città, che spesso cercavano di ricostituire su basi razionali. Con l’Impero romano ciò divenne impossibile. Tutte le questioni politiche erano ormai risolte. Un unico ordinamento giuridico e burocratico, apparentemente eterno, regolava gli affari pubblici; anziché aspirare a cambiare questa struttura, gli intellettuali abbracciarono sempre di più il misticismo e la ricerca di nuovi modi per trascendere i sistemi terreni, elevandosi attraverso le varie sfere planetarie, purgandosi di ogni aspetto materiale per ascendere alla sfera rarefatta della pura ragione, un regno divino di leggi matematiche trascendenti che governavano il tempo e il moto e, in ultima analisi, li rendevano illusori. Dio non aveva imposto queste leggi. Dio era queste leggi. La ragione umana, quindi, era semplicemente l’azione di quel principio divino dentro di noi. In questo senso, la razionalità non era soltanto un concetto spirituale, ma mistico: una tecnica per raggiungere l’unione con il divino. Queste ipotesi sulla natura della razionalità, assorbite dal cristianesimo attraverso Agostino, caratterizzano più o meno tutta la filosofia medievale, per quanto fosse difficile riconciliarle con il concetto di un Creatore trascendente e consapevole (e infatti gran parte della filosofia medievale si occupa proprio dei diversi modi di riconciliarle). Sotto molti aspetti, queste ipotesi ci accompagnano ancora. Prendiamo l’idea, che tutti impariamo da bambini e che spesso accettiamo come una verità evidente, che ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è la razionalità (ovvero che la nostra specie «possiede la facoltà della ragione»). Si tratta in sostanza di un’idea medievale. 23 E, pensandoci bene, non ha molto senso. Se la «razionalità» è la capacità di valutare la realtà più o meno com’è e trarre conclusioni logiche, allora quasi tutti gli animali sono estremamente razionali. Tutti gli animali risolvono problemi di continuo. Magari non hanno le stesse capacità degli umani, ma non esiste una differenza fondamentale dal punto di vista naturale. Ci sono molte altre facoltà che ci renderebbero dei candidati migliori, cioè che sembrano davvero esclusive dell’uomo. La più ovvia è l’immaginazione. Gli animali agiscono sempre in modo apparentemente razionale, calcolatore, orientato all’obiettivo, ma è assai più difficile sostenere che si dilettano consapevolmente nella creazione di mondi fantastici. 24 Per
questo l’antropologo Edmund Leach ha osservato che ciò che distingue l’uomo dall’animale non è il fatto di possedere un’anima immortale, bensì la capacità di immaginare di averne una. 25 Ma, naturalmente, se l’anima è la sede della Ragione, l’elemento divino nell’Uomo, allora dire che gli uomini hanno un’anima immortale e dire che sono creature razionali è esattamente la stessa cosa. 26 Questa conclusione derivava dalla logica della Grande catena dell’essere, in cui tutte le creature viventi erano classificate in un’unica scala di razionalità crescente a seconda della loro vicinanza a Dio, con l’uomo al vertice dell’ordine naturale, tra gli animali e gli angeli. Non è difficile riconoscere nelle grandi gerarchie cosmiche della tarda antichità – con i loro arconti, pianeti e dèi che operano seguendo il corso di leggi razionali astratte – l’immagine ingigantita dell’ordinamento giuridico e burocratico romano. L’aspetto più curioso è che tale raffigurazione burocratica del cosmo ha resistito per altri mille anni dopo il crollo dell’Impero romano. I teologi medievali e rinascimentali hanno prodotto un’infinità di trattati speculativi sulle gerarchie degli angeli, che offrono una rappresentazione dell’universo se possibile ancora più sistematicamente burocratica di quella dei filosofi dell’antichità. 27
Per esempio, nel XV secolo Marsilio Ficino schematizzava così la gerarchia degli angeli, rifacendosi all’opera di un anonimo neoplatonico cristiano del IV secolo attraverso le elaborazioni di Tommaso d’Aquino e Dante: I Serafini speculano sull’ordine e la provvidenza di Dio. I Cherubini speculano sull’essenza e la forma di Dio. I Troni speculano anch’essi, benché alcuni si dedichino ad opere. Le Dominazioni, a guisa di architetti, progettano ciò che il resto esegue. Le Virtù eseguono, muovono i cieli e concorrono all’attuazione dei miracoli come strumenti divini. Le Potestà sorvegliano che l’ordine del governo divino non venga interrotto e alcune di esse discendono nella realtà umana. I Principati si prendono cura di affari pubblici, nazioni, principi, magistrati. Gli Arcangeli dirigono il culto divino e presiedono alle cose sacre. Gli Angeli presiedono agli affari minori e si prendono cura degli individui come loro angeli custodi. 28 Gli angeli sono «intelligenze celesti», classificate in ordine discendente da quelle che esercitano il puro pensiero a quelle che si occupano del governo effettivo degli affari terreni. In un’epoca in cui in Europa il governo effettivo era frammentato oltre ogni misura, gli intellettuali si preoccupavano dell’esatta divisione dei poteri all’interno di un unico, grande sistema unificato e immaginario di amministrazione del cosmo. Oggi la grande sintesi della tarda antichità, ripresa da alchimisti e maghi rinascimentali come Ficino, Agrippa e Giordano Bruno (e pervasa di cabala e di altre tradizioni spirituali), sopravvive soprattutto come base del cerimoniale magico occidentale. L’Illuminismo, almeno in teoria, dovrebbe aver segnato una profonda rottura con questa tradizione. Ma la struttura concettuale di fondo in realtà non è cambiata. L’appello alla razionalità di Cartesio e dei suoi successori è in sostanza un atto di fede, spirituale, perfino mistico: si postula che le astrazioni matematiche o similmatematiche che costituiscono l’essenza del pensiero siano anche i principi ordinatori che regolano la natura. E ciò vale sia che si identifichino con Dio sia che vengano considerati la prova ultima dell’inesistenza di Dio.
È difficile ragionare in questi termini perché oggi identifichiamo l’anima non con la ragione, ma con tutto ciò che ci rende unici, capricciosi o fantasiosi. Ma tale concezione è un prodotto dell’età romantica e, all’epoca, segnò una rottura quasi totale con le tradizioni precedenti. Ancora una volta, non è questa la sede per scendere nei dettagli della discussione concernente la ragione, l’immaginazione e il desiderio. Ci aiuta però a capire come mai il concetto di «razionalità» e, in particolare, di razionalità burocratica non sembra mai limitarsi ai semplici aspetti del ragionamento deduttivo, o dell’efficienza tecnica, ma finisce quasi inevitabilmente per trasformarsi in un grande schema cosmologico.
Sulla burocratizzazione della fantasia antiburocratica Ho capito che il lavoro [accademico] non mi interessava più quando ho smesso di abbassare il volume dei videogiochi durante l’orario d’ufficio. Magari fuori c’era uno studente che aspettava una risposta su un compito assegnato e io gli dicevo «Un attimo, finisco di ammazzare questo nano e sono da te». (Un mio amico accademico – il nome non è riportato per ovvi motivi) Il fatto che la scienza moderna si fondi in qualche misura su un impegno di tipo spirituale non implica che le sue scoperte non siano vere. Penso però che sia sempre bene fermarsi a riflettere quando qualcuno dice di voler creare un ordine sociale più razionale (anche perché potrebbe limitarsi a descrivere quello stesso ordine sociale come ragionevole, più dignitoso, meno violento o più giusto). Come abbiamo visto, l’Europa medievale ha prodotto la concezione di una burocrazia celeste virtuale, basata alla lontana su quella dell’antica Roma, 29 che era considerata l’incarnazione della razionalità del cosmo, in un’epoca in cui la burocrazia vera e propria era particolarmente fragile. Col passare del tempo lo diventò assai meno. Ma con la nascita di nuovi stati burocratici, e soprattutto con l’affermazione della razionalità burocratica come principio di governo dominante nell’Europa e nell’America del XVIII e XIX secolo, si assiste a
una specie di contromovimento: l’ascesa di una visione del Medioevo altrettanto fantasiosa, piena di principi, cavalieri, fate, draghi, stregoni e unicorni, e poi anche di hobbit, nani e orchi. Per molti versi, questo mondo è esplicitamente antiburocratico: esprime cioè un rifiuto esplicito di tutti i valori centrali della burocrazia. Come ho osservato nell’ultimo capitolo, la fantascienza ha prodotto una lista abbastanza standardizzata di invenzioni future – dal teletrasporto alla propulsione a curvatura – e ne ha illustrato il funzionamento (non solo nella letteratura, ma anche nei giochi, nei programmi televisivi, nei fumetti ecc.), tanto che qualsiasi adolescente nato in Canada, in Norvegia o in Giappone probabilmente sa che cosa siano. Lo stesso si può dire degli elementi fondamentali del genere fantasy che, anche se con ovvie differenze tra un testo e l’altro o tra un film e l’altro, ruota comunque intorno a un nucleo molto coerente di personaggi tipo, sistemi di governo (in gran parte basati sulla magia), tecnologie, bestie e tradizioni culturali. Inutile dire che non c’è alcuna somiglianza, a nessun livello, con il vero Medioevo. Per capire le origini storiche di questo mondo, tuttavia, dobbiamo andare molto più indietro nel tempo. Anche se siamo abituati a parlare dello «stato» come di un’entità singola, in realtà gli stati moderni vanno considerati piuttosto come la confluenza di tre elementi diversi, dalle origini storiche ben distinte, senza relazioni intrinseche tra loro e forse già in procinto di separarsi. Li chiameremo sovranità, amministrazione e politica. Tipicamente la sovranità è considerata il tratto caratterizzante dello stato: uno stato è sovrano quando chi lo governa rivendica il monopolio dell’uso legittimo della violenza all’interno di un dato territorio. Molti governi nel mondo antico, e anche nel Medioevo, non hanno mai rivendicato la sovranità in questo senso. Né hanno mai pensato di farlo: questa era la logica degli imperi conquistatori, non delle comunità civilizzate. Il secondo principio è l’amministrazione, che può esistere (e, nei fatti, spesso è così) anche in assenza di un unico centro di potere che ne faccia rispettare le decisioni. E che può essere semplicemente definita come burocrazia. Gli ultimi ritrovamenti archeologici provenienti dalla Mesopotamia, infatti, indicano che
le tecniche burocratiche precedono non solo gli stati sovrani, ma anche le prime città. Non sono state inventate, quindi, per gestire grandezze di scala, come modo per organizzare società che diventavano troppo grandi per le interazioni faccia a faccia. Al contrario, sembra che siano state proprio tali tecniche a spingere le persone a riunirsi in grandi comunità. Questo, almeno, sembra emergere dalle fonti documentarie. Standardizzazione dei prodotti, magazzinaggio, certificazione, archiviazione, redistribuzione e contabilità avrebbero avuto origine nelle piccole città lungo il Tigri e l’Eufrate e i loro affluenti nel V millennio a.C., mille anni prima della «rivoluzione urbana». 30 Non sappiamo veramente il come e il perché; non sappiamo nemmeno se c’erano dei veri e propri burocrati (nel senso di una classe distinta di funzionari addestrati) o se si parla solo dell’emergere di tecniche burocratiche. Di sicuro, i burocrati c’erano quando la documentazione storica ha avuto inizio: si ritrovano vasti complessi templari e palaziali con gerarchie di scribi addestrati che registravano e allocavano meticolosamente risorse di ogni sorta. Possiamo definire «politica» il terzo principio, intendendo la parola nel suo senso più ampio. Ovviamente, nell’accezione più ristretta «politica» implica che qualunque cosa si dica può avere un risvolto politico nella misura in cui concerne la competizione per il potere. Ci sono però sistemi sociali in cui la politica in questo senso diventa una specie di intrattenimento: dove, cioè, le figure di potere si sfidano continuamente in pubblico per radunare i propri sostenitori e aggregare il consenso. Oggi vediamo tutto ciò come un aspetto dei sistemi democratici di governo, ma per gran parte della storia è stato considerato soprattutto un fenomeno aristocratico. Basti pensare agli eroi omerici, o a quelli dell’epos germanico, celtico o hindu, costantemente impegnati a vantarsi, a duellare, a sfidarsi nell’organizzare splendidi banchetti o magnifici sacrifici, a superarsi l’un l’altro con offerte di doni sontuosi. 31 Questi ordini sociali «eroici», come sono stati definiti, rappresentano la quintessenza del politico. Non riconoscono il principio di sovranità, ma non creano nemmeno un sistema amministrativo. A volte c’è un re, ma di solito ha poteri molto limitati o è solo un fantoccio; il potere passa continuamente di mano da un eroe aristocratico all’altro, a seconda di quale figura carismatica riesce a radunare più truppe o a portare via seguaci ai rivali, mentre gli sconfitti muoiono in gloria o si spengono in una cupa oscurità.
In questo senso, la politica è sempre stata un fenomeno sostanzialmente aristocratico (c’è un motivo se il Senato degli Stati Uniti, per esempio, è interamente composto di milionari). Ecco perché, per gran parte della storia europea, le elezioni sono state considerate un modo non democratico, ma aristocratico di selezionare i funzionari pubblici. «Aristocrazia», del resto, letteralmente vuol dire «governo dei migliori», e il significato delle elezioni era che i cittadini comuni avevano il solo ruolo di decidere quali, tra i cittadini «migliori», erano da considerare i migliori di tutti, non diversamente dal modo in cui uno scudiero omerico, o magari un cavaliere mongolo, cambiava alleanza per passare a un nuovo carismatico signore della guerra (il modo democratico di selezionare i funzionari, almeno dai tempi dei greci in poi, era invece il sorteggio, in base al quale i cittadini comuni venivano scelti per un incarico attraverso una lotteria casuale). Che cosa c’entra tutto questo con draghi e stregoni? In realtà molto. Tutti i documenti che abbiamo, infatti, ci dicono che questi ordini eroici non sono nati in modo spontaneo insieme alle società burocratiche, ma sono emersi in una sorta di rivalità simbiotica con esse. E se sono rimasti vivi nel ricordo è proprio perché incarnavano un rifiuto di tutto ciò che la burocrazia rappresentava. Dobbiamo tornare ancora una volta all’archeologia, e in particolare al lavoro del mio amico David Wengrow sull’antico Medio Oriente. 32 Le reali origini di quelle che ho chiamato «società eroiche» a quanto pare vanno ricercate tra le colline, le montagne, i deserti e le steppe ai margini delle grandi società commercial-burocratiche della Mesopotamia, dell’Egitto e della valle dell’Indo e poi, più avanti, degli imperi di Roma, della Persia e della Cina. Dal punto di vista economico, sotto molti aspetti queste società erano collegate ai centri urbani. Di solito rifornivano le città di materie prime e importavano dalle botteghe urbane favolosi tesori e ricchezze. Fin dal principio, tuttavia, una civiltà si definì in termini antitetici rispetto all’altra. Per la popolazione urbana, «civiltà» significava comportarsi diversamente dai barbari; l’ordine sociale dei barbari, da parte sua, si fondava sul rovesciamento dei valori chiave della civiltà commercial-burocratica. Mentre l’una creava e apprezzava i capolavori letterari, l’altra rifiutava l’uso della scrittura e celebrava i bardi capaci di improvvisare i componimenti epici al mutare delle circostanze. Mentre l’una
custodiva e registrava meticolosamente i beni di valore, l’altra organizzava grandi feste e banchetti in cui inestimabili tesori venivano distribuiti ai seguaci o agli avversari in segno di disprezzo per la ricchezza materiale o addirittura abbandonati, bruciati o gettati in mare. Mentre l’una aveva creato una burocrazia schiva e modesta che garantiva stabilità e prevedibilità, l’altra aveva organizzato la vita pubblica intorno a figure carismatiche ed egocentriche in una lotta incessante per la supremazia. Le prime società eroiche sono nate nell’età del bronzo, e all’epoca di Platone e Confucio probabilmente erano già un lontano ricordo. Questo ricordo, però, è rimasto vivo nel tempo. Tutte le grandi tradizioni letterarie cominciano con un epos eroico che, sostanzialmente, consiste in una ricostruzione di fantasia di quelle società. Verrebbe da chiedersi il perché. Perché quegli stessi personaggi, irrisi come barbari ignoranti dalle civiltà urbane del loro tempo, ritornano così spesso come antenati immaginari ed eroici delle civiltà successive? Perché le storie delle loro imprese si raccontano da migliaia di anni? La risposta, secondo me, è che le società eroiche sono, di fatto, ordini sociali pensati per creare e raccontare storie. Questo ci riporta alle domande sulla natura della politica. Si può dire che l’azione politica – e ciò vale anche a livello micro – consiste almeno in parte nell’influenzare gli altri attraverso l’ascolto e la scoperta. 33 La politica quotidiana – dai villaggi rurali alle grandi aziende – ha sempre a che fare con la creazione di narrazioni, voci e versioni ufficiali. Non a caso le società eroiche, che avevano elevato l’arroganza politica a forma d’arte, erano organizzate come grandi macchine per la produzione di storie. Tutto diventava il pretesto per una gara, per narrazioni di perseveranza, inganni, vendette, sfide impossibili, missioni epiche e magnifici gesti di sacrificio individuale. Di qui l’importanza dei poeti. Lo scopo ultimo della vita era veder cantare le proprie gesta. Fin dal principio, gli abitanti delle società burocratiche come quella egiziana o babilonese subirono inevitabilmente il fascino dei territori barbari, che ai loro occhi erano luoghi oscuri infestati da mostri e strani poteri magici. E, naturalmente, i racconti avventurosi delle gesta di questi barbari violenti diventavano ancora più avvincenti nelle epoche in cui i barbari veri e propri non si vedevano più in giro. I barbari esistono sempre in una relazione di simbiosi con la civiltà burocratica. Nella storia dell’Eurasia questo modello ricorre continuamente. Le
società eroiche si formano ai margini dell’Impero e spesso (come le società germaniche ai margini dell’Impero romano, o i barbari del Nord oltre la Grande muraglia cinese, o gli unni ai confini dell’uno e dell’altro Impero) lo invadono e lo travolgono, quindi si dissolvono nella leggenda. 34 Le origini della letteratura fantasy moderna possono essere ricollegate ai tardi poemi cavallereschi come Amadigi di Gaula o l’Orlando furioso, ma il genere prende una forma riconoscibile nell’età vittoriana, negli stessi anni in cui l’entusiasmo popolare per l’ufficio postale è all’apice. È ambientato in un’epoca molto particolare. In un certo senso si tratta semplicemente di una versione moderna del «C’era una volta» delle favole, cioè un passato vago e indefinito e allo stesso tempo anche una dimensione alternativa, contemporanea alla nostra (come si legge in molte storie, esistono portali tra il nostro mondo e la terra incantata, dove il tempo e lo spazio funzionano in modo completamente diverso). Il tono e il carattere della letteratura fantasy, tuttavia, non è affatto lo stesso. Le favole riflettono un punto di vista femminile e infantile sulla società del Medioevo e della prima età moderna; gli eroi sono figli di calzolai e mungitrici più che cortigiani e principi. Nella cosiddetta letteratura fantasy, invece, il «C’era una volta» è trasfigurato da una massiccia iniezione di epos eroico. Con «letteratura fantasy» mi riferisco soprattutto a quello che a volte viene chiamato il genere «spada e stregoneria», che si rifà a figure tardovittoriane come George MacDonald e Lord Dunsany e i cui principali esponenti sono J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis e Ursula K. Le Guin. 35 È all’interno di questa tradizione che si sviluppano gli archetipi dei personaggi (guerriero, sacerdote, mago), degli incantesimi, dei mostri ecc.: un repertorio standard che ricorre, con infinite variazioni, in centinaia se non migliaia di opere di narrativa contemporanea. Questi libri piacciono non solo perché producono materiale infinito per i sogni a occhi aperti degli abitanti delle società burocratiche. Piacciono soprattutto perché continuano a esprimere una negazione sistematica di tutto ciò che la burocrazia rappresenta. Come i sacerdoti e i maghi medievali fantasticavano su un radioso sistema amministrativo celeste, oggi noi fantastichiamo sulle avventure di sacerdoti e maghi medievali in un mondo spogliato di ogni aspetto dell’esistenza burocratica.
Perché facciamo tutto ciò? La spiegazione più semplice è che ci troviamo di fronte a una forma di inoculazione ideologica. Storicamente, uno dei modi più efficaci di tessere le lodi di un sistema di autorità è non parlare apertamente delle sue virtù, ma creare un’immagine negativa estremamente vivida del suo opposto, ovvero di come sarebbe la vita – per esempio – senza l’autorità patriarcale, il capitalismo o lo stato. Dal punto di vista ideologico, il trucco funziona tanto meglio quanto più questa immagine è attraente, almeno fino a un certo punto. 36 In un primo momento veniamo affascinati dalla visione di questo mondo alternativo e proviamo una sorta di eccitazione indiretta, per poi ritirarci inorriditi di fronte alle implicazioni dei nostri stessi desideri. I giochi romani sono un ottimo esempio. Fino all’avvento dell’Impero, in quasi tutte le città del Mediterraneo esisteva una qualche forma di autogoverno, con assemblee pubbliche che discutevano di questioni di interesse generale. Nelle democrazie, perfino i casi giudiziari venivano decisi da giurie pubbliche composte da centinaia di cittadini. Con l’Impero, naturalmente, le città furono spogliate di ogni autorità e alla fine scomparvero. Le rare volte in cui i cittadini si riunivano in pubblico era al Colosseo o al circo, per assistere alle corse delle bighe e alle lotte dei gladiatori o per guardare i criminali che venivano squartati dalle belve. L’unica esperienza di voto di questi cittadini, dunque, consisteva nell’alzare o abbassare il pollice per decidere se un gladiatore sconfitto dovesse essere condannato a morte. In altre parole, l’Impero non solo giustificava la propria esistenza attraverso l’imposizione di un sistema di leggi uniforme ai suoi sudditi, ma si preoccupava di incoraggiarli al linciaggio organizzato (i giochi spesso erano promossi dagli stessi magistrati che presiedevano ai tribunali), come a dire: «La democrazia? Adesso avete visto a che cosa porta». Questo sistema era talmente efficace che per duemila anni, ogni volta che qualcuno voleva dare un avvertimento sui pericoli della democrazia (e per buona parte di questi duemila anni la maggioranza degli europei istruiti è stata ostinatamente contraria alla democrazia), faceva notare che il Popolo sarebbe diventato inevitabilmente come il pubblico del circo: violento e fazioso, sempre oscillante tra i due estremi della pietà e della crudeltà, tra la fede cieca in un idolo carismatico e la sua distruzione. E ancora oggi quasi tutte le persone istruite, pur accettando con riluttanza la presenza di elementi democratici in alcuni aspetti della
società, ritengono che essi debbano essere tenuti completamente separati dall’amministrazione della giustizia e della legge. Non voglio dare al lettore l’impressione che tutte queste istituzioni siano solo un trucco architettato dalle classi dominanti per manipolare le masse. O che non abbiano comunque delle controindicazioni. Se il circo romano era straordinariamente efficace – è stato davvero una delle più geniali istituzioni antidemocratiche mai create –, il carnevale medievale, per fare un esempio famoso, con la sua esaltazione etilica della gola, della rivolta e della sessualità, era chiaramente terreno fertile per le contestazioni. I patroni più facoltosi vedevano indubbiamente il carnevale come un modo per lanciare un avvertimento alle masse sugli orrori che sarebbero scaturiti da un eventuale scioglimento dell’ordine gerarchico della società, ma è altrettanto ovvio che la gente comune che concretamente organizzava e partecipava ai festeggiamenti non considerava così terribile questa prospettiva (e, infatti, spesso il carnevale diventava l’occasione per una rivolta). 37 Anche la letteratura fantasy, naturalmente, è terreno fertile per le contestazioni. I suoi stessi autori erano spesso incerti sulle implicazioni politiche di quanto scrivevano. J.R.R. Tolkien, per esempio, una volta disse che politicamente si considerava o un anarchico o un monarchico «incostituzionale» (a quanto pare non è mai riuscito a decidere quale dei due). 38 L’unica cosa che le due posizioni hanno in comune è che sono entrambe profondamente antiburocratiche. Ciò vale per quasi tutta la letteratura fantasy: solo i personaggi malvagi mantengono sistemi di amministrazione. In realtà, possiamo scorrere punto per punto gli elementi chiave della letteratura fantasy e riconoscere in ciascuno la negazione di un particolare aspetto della burocrazia. – I mondi fantasy tendono a essere caratterizzati da una divisione assoluta tra bene e male (o, nel migliore dei casi, bene ambiguo e male assoluto), sottintendendo l’esistenza di forze tra le quali l’unica possibile relazione è la guerra. Anzi, quando lo scontro è con personaggi così malvagi, anche la guerra tende a essere assoluta, non mediata da usi e costumi, etichetta o cavalleria. Tutto questo è in forte contrasto con le società eroiche o medievali, dove le violenza organizzata – un passatempo aristocratico – tendeva a somigliare a un gioco ritualizzato in cui l’onore era tutto. Il
principio del male assoluto esiste apparentemente per negare il principio burocratico di neutralità sganciato dai valori e vincolato dalle regole, il fatto che concetti come bene e male sono totalmente estranei a qualsiasi tipo di ordine amministrativo. I mondi fantasy creano valori talmente assoluti che sganciarsi da essi diventa semplicemente impossibile. – L’esistenza negli universi fantasy di specie umanoidi (gnomi, elfi scuri, troll ecc.) fondamentalmente umane ma assolutamente non integrabili nello stesso ordine sociale, giuridico o politico produce un mondo in cui il razzismo è una realtà concreta. Spesso la parola razza viene usata direttamente: «la razza degli elfi», «la razza dei nani» ecc. E, anche quando non lo è, in questi mondi in effetti esistono diversi gruppi di creature umanoidi capaci di parlare, costruire case, coltivare la terra, creare opere d’arte e rituali – cioè che sembrano e si comportano come gli umani, ma che nonostante questo hanno qualità morali e intellettuali profondamente diverse. Si tratta, tra le altre cose, della negazione assoluta del principio burocratico di indifferenza, secondo cui le regole sono le stesse per tutti, non importa di chi si è figli, tutte le persone devono essere trattate allo stesso modo davanti alla legge. Se alcuni sono orchi e altri sono folletti, la parità di trattamento è ipso facto inconcepibile. – Nei mondi fantasy il potere legittimo sembra fondarsi puramente sul carisma o sul ricordo del carisma passato. Aragorn non costringe mai nessuno a seguirlo. Neanche Aslan e Ged. Soltanto i cattivi creano apparati parastatali, e questi apparati sono sempre di pura coercizione. Non solo: se l’autorità carismatica non si rinnova costantemente tende a sfiorire e a diventare corrotta (vedi Denethor o Gormenghast) o a degenerare in forme raccapriccianti, gotiche, non morte. Poiché la possibilità stessa di un’autorità reale, vitale e carismatica si fonda sempre sulla guerra, l’autorità legittima non esisterebbe senza la presenza costante dell’insicurezza fisica. In altre parole, l’ideale politico delle repubbliche «democratiche» moderne, in cui i politici si contendono di continuo il consenso, viene mantenuto (la cosa non deve sorprendere visto che, come ho osservato, in queste repubbliche c’è sempre un elemento eroicoaristocratico), ma è totalmente svincolato dal principio di sovranità, e soprattutto dalla regolarità e dalla prevedibilità delle procedure burocratiche e dall’uso della forza, che nell’ordine burocratico è considerata legittima solo laddove viene esercitata per difendere quel principio di regolarità. In breve,
nei mondi fantasy le figure di autorità autenticamente legittime sono quasi sempre violente, ma non usano la violenza per far rispettare le regole. – Corollario: nelle società del mondo fantasy, come in quelle eroiche, la vita politica ruota quasi sempre attorno alla creazione di storie. Ci sono narrazioni all’interno di narrazioni; la linea narrativa di un tipico racconto fantasy spesso riguarda il processo stesso di raccontare storie, di interpretarle e di creare materiali per nuove storie. Tutto questo è in aperto contrasto con la natura meccanica delle operazioni burocratiche. Le procedure amministrative si contraddistinguono proprio perché non ruotano attorno alla creazione di storie: nei contesti burocratici, le storie nascono quando qualcosa va storto. Se tutto fila liscio non c’è alcun arco narrativo. – Un ulteriore elemento: i protagonisti sono costantemente alle prese con enigmi in lingue antiche, oscuri miti e profezie, mappe con indovinelli runici e simili. Le procedure burocratiche, al contrario, si basano sul principio di trasparenza. Le regole devono essere chiare, espresse in maniera uniforme e accessibili a tutti. Come sappiamo, raramente è così. Ma si suppone che sia vero in linea di principio. In realtà, spesso i moduli amministrativi sono oscuri come enigmi elfici che diventano visibili solo in alcune fasi lunari. Ma non dovrebbero esserlo. Non a caso, una delle tecniche burocratiche più irritanti è nascondere le informazioni dietro una falsa pretesa di trasparenza: per esempio, infilare un’informazione importante in una sequenza interminabile di e-mail di servizio – talmente tante che diventa impossibile leggerle tutte. Quando ci lamentiamo di non essere stati informati su una nuova policy o su una nuova responsabilità, il burocrate con aria trionfante tira fuori il dato (spesso di alcuni mesi prima) ed elenca tutti i documenti in cui compaiono le nuove regole. 39 Al confronto, gli elementi del fantasy diventano quasi piacevoli: gli enigmi sono effettivamente enigmi, nascono come enigmi, e non c’è nessuno che si alza da una scrivania per spiegarci che è tutto semplice e trasparente e che è colpa nostra se non l’abbiamo capito subito. Come chiarisce l’ultimo esempio, quando discutiamo di queste costanti parliamo di come dovrebbero funzionare in astratto i sistemi burocratici, non di come funzionano davvero. Nella realtà, le burocrazie raramente sono neutrali:
il più delle volte sono dominate e favoriscono certi gruppi privilegiati (spesso su base razziale) rispetto ad altri, e inevitabilmente finiscono per attribuire agli amministrativi un potere personale enorme, creando regole talmente complesse e contraddittorie che è impossibile seguirle alla lettera. Nel mondo reale, tuttavia, queste deviazioni dal principio burocratico sono vissute come abusi. Nel mondo fantasy sono vissute come virtù. Tali virtù, però, sono presentate deliberatamente come effimere. Il fantasy è un luogo emozionante da visitare. Qualcuno potrebbe addirittura desiderare di viverci. Ma, se non mi sbaglio sul fatto che – a prescindere dalle intenzioni degli autori – questa letteratura finisce spesso per spingere il lettore a interrogarsi sulle implicazioni ultime della sua diffidenza verso il mondo burocratico, lo scopo è proprio questo. La letteratura fantasy, dunque, è essenzialmente il tentativo di immaginare un mondo del tutto privo di burocrazia. Il lettore la apprezza sia come forma di evasione indiretta sia perché viene rassicurato sul fatto che in fin dei conti un mondo noioso e amministrato è comunque preferibile a qualsiasi alternativa immaginabile. Ciononostante, la burocrazia e i principi burocratici non sono totalmente assenti da questi mondi. Vi si insinuano da più direzioni. Per esempio, la vecchia amministrazione cosmica immaginaria del Medioevo non viene del tutto negata nei mondi fantasy. Questo perché si tratta di mondi in cui il più delle volte, anche se la tecnologia è rimasta ferma al mulino a vento e ad acqua, opera la magia. E il tipo di magia che compare in queste storie spesso si rifà alla tradizione occidentale della magia cerimoniale, che parte dagli antichi teurghi come Giamblico per arrivare ai maghi vittoriani come MacGregor Mathers, ed è piena di demoni invocati all’interno di cerchi magici, formule, incantesimi, tuniche, talismani, pergamene e bacchette magiche. E così le gerarchie cosmiche, i complessi ordini logici di incantesimi, scale, poteri, influenze e sfere celesti, con le loro diverse attribuzioni, denominazioni e aree di responsabilità amministrativa, tendono a essere conservate, in un modo o nell’altro, almeno come forma potenziale e occulta di potere nel tessuto stesso dell’universo antiburocratico. Certo, negli universi più antichi e più risolutamente antiburocratici o gli stregoni sono malvagi (Zukala
in Conan il barbaro o mille analoghi cattivi della narrativa popolare, o anche l’amorale Elric di Michael Moorcock) 40 o, se sono buoni, gli aspetti tecnici delle loro arti vengono minimizzati (i poteri di Gandalf sembrano più un’estensione del suo carisma personale che il frutto di un’arcana conoscenza degli incantesimi). Ma con l’evoluzione dei tempi e l’arrivo di nuovi personaggi come il Mago di Earthsea e Harry Potter, la magia – e la conoscenza magica – ha assunto un ruolo sempre più centrale. E con Harry Potter siamo passati da universi manifestamente eroici come Cimmeria, la terra degli elfi e Hyperborea a una narrazione antiburocratica che si svolge all’interno di una classica istituzione burocratica: un collegio inglese in un mondo magico in cui comunque non mancano banche, consigli dei maghi, commissioni di inchiesta e perfino prigioni. Nei libri di Harry Potter il gioco è proprio questo: prendiamo le istituzioni più sciatte e polverose che hanno portato al disincanto del mondo e proviamo a inventarci le loro versioni magiche e incantate. Com’è successo? Tanto per cominciare, i generi della letteratura popolare sono sempre meno confinati ai libri (ciò vale specialmente se sono coinvolti in qualche modo i bambini o gli adolescenti). E non parliamo soltanto di film e serie televisive: abbiamo giochi da tavolo, modelli, puzzle, pupazzi snodabili, svariate forme di letteratura per i fan, fanzine, arte, video e giochi per il computer. Nel caso del genere fantasy, è impossibile capire gli ultimi sviluppi della letteratura se non si tiene conto della grande popolarità, a partire dalla fine degli anni settanta, dei giochi di ruolo come Dungeons & Dragons, che hanno permesso a centinaia di migliaia di teen-ager in tutto il mondo di inventare i loro mondi e le loro avventure di fantasia, come se stessero scrivendo collettivamente e in tempo reale la storia o la sceneggiatura delle loro avventure. D&D, come lo chiamano gli appassionati, è sotto un certo aspetto il gioco più libero immaginabile, perché i personaggi possono fare qualsiasi cosa all’interno dei confini del mondo creato dal Dungeon master, con i suoi libri, mappe, tabelle e città predefinite, castelli, sotterranei e deserti. Per certi versi è addirittura anarchico, perché a differenza dei classici giochi di guerra, dove un giocatore comanda le armate, abbiamo quello che gli anarchici chiamerebbero un «gruppo di affinità», un insieme di individui che cooperano per uno scopo comune (un’impresa, o semplicemente il desiderio di accumulare tesori ed
esperienza) con abilità complementari (guerriero, chierico, mago, ladro…) ma senza un’esplicita catena di comando. Dunque, le relazioni sociali sono l’esatto opposto delle gerarchie impersonali della burocrazia. Tuttavia, in un altro senso, D&D rappresenta la burocratizzazione suprema della fantasia antiburocratica. Esistono cataloghi di qualsiasi cosa: tipi di mostri (giganti di pietra, giganti di ghiaccio, giganti di fuoco…), ognuno con i suoi poteri e il suo numero medio di punti ferita (quanto è difficile ucciderlo) chiaramente definiti; abilità umane (forza, intelligenza, saggezza, destrezza, costituzione…); liste di incantesimi disponibili a seconda del diverso livello di capacità (missile magico, palla di fuoco, passapareti…); tipi di dèi e demoni; efficacia dei diversi tipi di armature e armi; addirittura caratteristiche morali (si può essere legali, neutrali o caotici; buoni, neutrali o malvagi; la combinazione di queste caratteristiche produce nove possibili tipi morali). I manuali evocano alla lontana i bestiari e i grimori del Medioevo, ma si compongono soprattutto di statistiche. Tutte le qualità più importanti possono essere ridotte a un numero. È anche vero che nel gioco vero e proprio non ci sono regole; i libri forniscono solo linee guida. Il Dungeon master può (anzi, in realtà deve) aggirarle, inventare nuovi incantesimi e mostri e migliaia di varianti di quelli esistenti. L’universo di ogni Dungeon master è diverso. In un certo senso i numeri sono una piattaforma per dare sfogo alle folli imprese dell’immaginazione, una sorta di tecnologia poetica. Eppure l’introduzione dei numeri, la standardizzazione delle tipologie di caratteri, abilità, mostri, tesori e incantesimi, il concetto di punteggi di abilità e punti ferita hanno avuto effetti profondi quando si è passati dal mondo dei dadi a 6, 8, 12 e 20 lati a quello delle interfacce digitali. I giochi per computer hanno trasformato il fantasy in una procedura quasi totalmente burocratica: accumulazione di punti, crescita di livello e così via. C’è stato un ritorno al comando delle armate. Ciò, a sua volta, ha portato al percorso inverso, con l’introduzione del gioco di ruolo all’interno dei giochi per computer (Elfquest, World of Warcraft…), in un pendolo costante tra gli imperativi della tecnologia poetica e di quella burocratica. Ma, così facendo, questi giochi alla fine rafforzano la sensazione di vivere in un universo in cui le procedure contabili definiscono il tessuto stesso della realtà, e anche la negazione più radicale del mondo amministrativo in cui siamo intrappolati finisce per diventare una sua
variante.
L’utopia delle regole Uno dei motivi per cui ho ritenuto opportuno dedicare tanto spazio al mondo fantasy è che l’argomento apre alcune questioni fondamentali sulla natura del gioco, dei giochi e della libertà che, io credo, sono al centro del fascino nascosto della burocrazia. Da una parte, la burocrazia è tutt’altro che giocosa. Nella sua meccanicità e impersonalità, sembra rappresentare la negazione di qualsiasi possibile giocosità. Dall’altra parte, restare intrappolati in una girandola burocratica è quasi come trovarsi catapultati in una specie di gioco dell’orrore. Le burocrazie creano dei giochi, ma sono giochi che non divertono per niente. In questa sede, però, può essere utile riflettere più attentamente su che cosa siano veramente i giochi e che cosa li renda divertenti. Soprattutto, qual è la relazione tra gioco e giochi? Tutti giochiamo. Ma gioco e giochi sono la stessa cosa? La lingua inglese, abbastanza insolitamente, fa una distinzione tra i due (play e games), mentre in quasi tutte le lingue, come in italiano, si usa la stessa parola (il francese ha jeu, il tedesco spiele). Eppure, da un certo punto di vista sembrano opposti: l’uno evoca la creatività libera e spontanea, l’altro le regole. Il grande sociologo olandese Johan Huizinga ha scritto un libro intitolato Homo ludens, che apparentemente è una teoria del gioco. In realtà, il libro è una pessima teoria del gioco, ma è una teoria tutt’altro che pessima dei giochi. 41 Secondo Huizinga, i giochi hanno alcuni tratti tipici comuni. Innanzitutto sono limitati nel tempo e nello spazio, e quindi contestualizzati al di fuori della vita normale. C’è un campo, una tavola, una pistola da starter, un traguardo. All’interno di quello spazio/tempo, alcuni soggetti vengono designati come i giocatori. C’è poi una serie di regole che definiscono precisamente che cosa questi giocatori possono e non possono fare. Infine, c’è sempre un’idea chiara della posta in gioco, di quello che i giocatori devono fare per vincere la partita. Ma, e questo è il punto critico, non c’è altro. Qualsiasi luogo, persona, azione che ricade al di fuori di questo ambito è un corpo estraneo; non conta; non fa parte del gioco. In altre parole, potremmo dire che i giochi sono pura azione
governata dalle regole. Mi sembra un particolare importante, perché è proprio per questo che i giochi sono divertenti. In qualsiasi altro aspetto dell’esistenza umana, tutte queste cose sarebbero ambigue. Pensiamo a una discussione familiare o a una rivalità sul lavoro. Chi ne fa o non ne fa parte? Che cosa è corretto e che cosa no? Quando comincia e quando finisce? Che cosa significa dire che qualcuno ha vinto? Sono tutte domande a cui è molto difficile rispondere. La cosa più difficile in assoluto è capire le regole. In quasi tutte le situazioni in cui ci troviamo ci sono regole; anche in una normale conversazione esistono delle norme tacite: chi è autorizzato a parlare? In che ordine, e con che ritmo, tono, rispetto? Quali sono gli argomenti appropriati e quali no? Quando si può sorridere? Che tipo di umorismo è ammesso? Come si devono muovere gli occhi? E mille altre cose. Raramente queste regole sono esplicite, e di solito ce ne sono molte in contrasto tra loro che possono essere invocate in qualsiasi momento. Di conseguenza, ci troviamo sempre a dover negoziare tra l’una e l’altra, cercando allo stesso tempo di capire in anticipo come si comporteranno gli altri. I giochi ci offrono l’opportunità unica di sperimentare una situazione in cui tutta questa ambiguità viene spazzata via. Tutti sanno esattamente quali sono le regole. Ma non solo: tutti effettivamente le rispettano. E rispettandole è addirittura possibile vincere! Questa (oltre al fatto che, a differenza della vita reale, ci si sottomette alle regole di propria spontanea volontà) è l’origine del piacere. I giochi, quindi, sono una specie di utopia delle regole. Questo aspetto, tra l’altro, ci permette di capire la vera differenza tra giochi e gioco. È vero, si può giocare a un gioco; ma «giocare» non implica necessariamente l’esistenza di regole. 42 Si può giocare semplicemente improvvisando. Si può giocare per mero divertimento. In questo senso, il gioco nella sua forma pura, e distinto dai giochi, implica una pura espressione di energia creativa. Anzi, se fosse possibile trovare una definizione valida di «giocare» (impresa notoriamente difficile) sarebbe qualcosa del genere: si può dire che si sta giocando quando la libera espressione delle energie creative diventa fine a se stessa. È la libertà per il gusto della libertà. In un certo senso, però, tutto ciò porta il concetto di gioco a un livello più alto rispetto ai giochi: giocare può generare giochi, può produrre regole (in realtà, produce
inevitabilmente quantomeno regole tacite, perché giocare in modo puramente casuale diventa presto noioso), ma quindi, per definizione, il giocare di per sé non è vincolato da regole. Ciò vale ancora di più quando il gioco diventa sociale. Gli studi sul modo di giocare dei bambini, per esempio, evidenziano che i bambini che inventano giochi immaginari passano quasi più tempo a discutere delle regole che a giocare. Queste discussioni diventano a loro volta una forma di gioco. 43 Da un certo punto di vista, è ovvio: stiamo parlando semplicemente dell’emergere della forma. La libertà deve essere in tensione con qualcosa, altrimenti è solo casualità. Ciò vuol dire che la forma di gioco assoluta e pura, priva di qualsiasi tipo di regola (oltre a quelle che produce da sé e che possono essere messe da parte in qualsiasi momento), può esistere soltanto nella nostra immaginazione, come un aspetto di quei poteri divini che generano il cosmo. Scrive il filosofo della scienza indiano Shiv Visvanathan: Un gioco è un modo specifico e vincolato di risolvere i problemi. Giocare [è un concetto] più cosmico e aperto. Gli dèi giocano, ma l’uomo, purtroppo, predilige i giochi. Un gioco ha una risoluzione prevedibile, giocare non necessariamente. Giocare consente la scoperta, la novità, la sorpresa. 44 Tutto vero. Ma proprio per questo c’è anche qualcosa di potenzialmente spaventoso nel fatto di giocare. Questa creatività aperta, infatti, è anche ciò che permette al gioco di essere casualmente distruttivo. I gatti giocano con i topi. Anche staccare le ali alle mosche è un modo di giocare. E nessuna persona sana di mente vorrebbe mai incontrare un dio in vena di giocare. A questo punto vorrei suggerire una cosa. Il motivo ultimo e nascosto del fascino della burocrazia è la paura di giocare. Per i teorici sociali esiste una chiara analogia con il gioco come principio che genera regole ma non ne è a sua volta vincolato. Si tratta del principio di sovranità. Il lettore ricorderà che la sovranità è uno dei tre principi – insieme ad amministrazione e politica – che formano la nostra attuale concezione dello «stato». Il termine «sovranità» oggi è usato nella teoria politica soprattutto come sinonimo di «indipendenza» o «autonomia» (il diritto di un governo di
fare ciò che vuole all’interno dei suoi confini), ma nasce originariamente da una serie di specifici dibattiti in Europa sul potere dei re. In sostanza, la questione era: è possibile affermare che il signore supremo di un regno sia in qualche modo vincolato dalle sue leggi? Coloro che sostenevano il contrario istituivano un’analogia con il potere divino. Dio è il creatore e l’esecutore e il garante supremo di ogni sistema di morale cosmica. Ma per creare un sistema bisogna precederlo; per questo motivo Dio stesso non può essere soggetto alle leggi morali. Si tratta di una conclusione tutt’altro che insolita. In Madagascar la saggezza dei proverbi è molto esplicita a riguardo: Dio è rappresentato sia come il giudice supremo che osserva dall’alto e punisce le trasgressioni, sia, allo stesso tempo, come una figura completamente arbitraria che scaglia saette e incenerisce i mortali senza motivo. Alcuni re africani hanno provato a farsi incarnazione di questo principio assoluto: l’esempio più famoso è quello del Kabaka nel regno Ganda. Quando alcuni visitatori inglesi cercarono di impressionarlo mostrandogli un nuovo fucile di precisione di produzione britannica, lui impressionò loro provando il fucile su gente a caso per la strada (del resto era anche famoso per far giustiziare le mogli perché starnutivano). Nel contempo, però, la legittimità del Kabaka come monarca derivava innanzitutto dalla capacità di esercitare in modo imparziale la giustizia nella sua veste di giudice supremo del regno. Ancora una volta, le due cose erano considerate collegate: dato che il Re poteva fare (o prendere) tutto ciò che voleva, non poteva essere corrotto, perciò non aveva motivo di non essere imparziale. Il regno Ganda si distingue per aver portato questo principio all’estremo (e va osservato che in Africa i re che si sono spinti fino a questo punto molto spesso hanno fatto una brutta fine), ma c’è comunque una linea di continuità diretta tra questa concezione assoluta della sovranità trascendente e, tanto per dirne una, la Teologia politica di Carl Schmitt, che dice che negli stati moderni il potere sovrano è in ultima analisi il potere di mettere da parte le leggi. 45 In questo senso, la sovranità è sostanzialmente identica al gioco inteso come principio generativo che produce i giochi; ma, allora, è anche identica al gioco nella sua forma più spaventosa e cosmica. Alcuni parlano di concezione del gioco «dall’alto verso il basso», un’idea espressa nella sua forma più esplicita dalla teologia indiana, dove il cosmo stesso è essenzialmente il gioco delle forze
divine. 46 Ma, come osserva Brian Sutton-Smith in The Ambiguity of Play («L’ambiguità del gioco»), questa era la visione dominante in tutto il mondo antico, in cui gli esseri umani erano i giocattoli del destino e del fato; il tipico gioco umano, in questo universo, è il gioco d’azzardo, in cui l’uomo si espone volontariamente ai capricci degli dèi. 47 In questo universo la libertà è un gioco a somma zero. La libertà degli dèi e dei re è la misura della schiavitù umana. Non è difficile indovinare a che cosa porta tutto ciò. Gli stati moderni si basano sul principio della sovranità popolare. In ultima analisi, il potere divino dei re è nelle mani di un’entità chiamata il Popolo. In concreto, però, è sempre meno chiaro che cosa dovrebbe significare la sovranità popolare in questo senso. Max Weber, come è noto, ha osservato che i rappresentanti istituzionali di uno stato sovrano detengono il monopolio del diritto di usare la violenza all’interno del territorio dello stato. 48 Normalmente, questa violenza può essere esercitata soltanto da alcuni funzionari debitamente autorizzati (militari, agenti di polizia, guardie carcerarie) o da altri autorizzati a loro volta da tali funzionari (sicurezza aeroportuale, guardie giurate…), e solo nelle modalità previste dalla legge. Ma, alla fine, il potere sovrano consiste comunque nel diritto di mettere da parte queste formalità legali o di crearle ex novo in corso d’opera. 49 Gli Stati Uniti si definiscono «un paese di leggi, non di uomini» ma, come abbiamo imparato negli ultimi anni, i presidenti americani possono ordinare torture, uccisioni, programmi di sorveglianza interna e perfino istituire zone extralegali come Guantanamo, dove le autorità sono libere di trattare i prigionieri praticamente come vogliono. Anche ai livelli più bassi, chi fa rispettare la legge non vi è veramente soggetto. Per esempio, è davvero difficile per un agente di polizia fare a un cittadino americano qualcosa rischiando di essere condannato. 50 Brian Sutton-Smith sostiene che nel mondo contemporaneo la vecchia concezione del gioco «dall’alto verso il basso», o «gioco oscuro» (dark play) come lo ha chiamato qualcuno, non è più predominante. Fin dall’età romantica, è stata soppiantata da una serie di concezioni più ottimistiche «dal basso verso l’alto», che vedono il gioco come un fatto alternativamente sovversivo, educativo o immaginativo. Sicuramente tutto ciò è vero. A me sembra però che
la vecchia concezione non sia sparita completamente. 51 Se non altro, permane a livello politico, dove ogni atto arbitrario di potere tende a rinforzare la sensazione che il problema non sia il potere, ma l’arbitrio – cioè la libertà stessa. 52 In effetti, è esattamente ciò che è successo ovunque la forma repubblicana di governo (oggi largamente ed erroneamente etichettata come «democrazia») sia diventata la norma. L’ordinamento giuridico, e dunque le zone in cui la violenza di stato è la garante suprema delle regole, si è ampliato sino a definire e codificare quasi ogni aspetto dell’attività umana. E così, come ho osservato in precedenza, abbiamo norme che ormai prescrivono di tutto, da dove si possono servire o consumare i diversi tipi di bevande a come si può o non si può lavorare, da quando si può o non si può andare via dal lavoro a quanto devono essere grandi i cartelloni pubblicitari per strada. La minaccia della forza invade ogni aspetto della nostra esistenza, a livelli che sarebbero stati semplicemente inconcepibili sotto il dominio di Elagabalo, Gengis Khan o Solimano il Magnifico. Ho già scritto di questa invasione di regole, e di violenza, in ogni aspetto della nostra vita. Ciò che voglio dire qui è che tale imperativo, alla fine, deriva da una cosmologia tacita in cui il principio del gioco (e, per estensione, la creatività) è visto di per se stesso come spaventoso, mentre l’attitudine ai giochi è considerata segno di trasparenza e prevedibilità; di conseguenza, il rispetto di tutte queste norme e regole è vissuto come una specie di libertà. Questo succede anche in contesti in cui la minaccia della violenza di stato non potrebbe essere più remota. Un esempio è la gestione dei dipartimenti accademici. Come ho osservato, gli antropologi sono notoriamente restii a utilizzare gli strumenti di analisi nei loro ambienti istituzionali, ma ci sono eccezioni di rilievo, come l’analisi di Marilyn Strathern su quella che in Gran Bretagna è nota come audit culture, o «cultura della valutazione». L’idea di fondo della cultura della valutazione è che in mancanza di criteri chiari e «trasparenti» per stabilire la qualità del lavoro delle persone, il mondo accademico diventa un sistema feudale basato sull’autorità arbitraria individuale. A prima vista, è difficile opporsi a questo approccio. Chi può dirsi contro la trasparenza? Quando sono state introdotte queste riforme Strathern era a capo del Dipartimento di antropologia a Cambridge, e nel suo libro Audit
Cultures ha documentato le conseguenze pratiche di una simile burocratizzazione. 53 Cambridge era a suo modo l’istituzione feudale per antonomasia, con le sue mille consuetudini e tradizioni, e il Dipartimento di antropologia, pur essendo relativamente giovane, aveva i suoi metodi tradizionali di gestione che nessuno era in grado di chiarire del tutto – anzi, che nessuno capiva fino in fondo. Ma per essere «trasparente» agli occhi dell’amministrazione, il Dipartimento doveva cominciare a chiarire quegli aspetti. In pratica, significava prendere quella che era sempre stata una forma procedurale sottile e indefinita e tradurla in un corpo esplicito di regole. In altre parole, bisognava trasformare la consuetudine in una specie di gioco da tavolo. Di fronte a queste richieste la reazione istintiva era: «Va bene, scriviamo le regole e poi andiamo avanti come abbiamo sempre fatto». Ma è più facile a dirsi che a farsi, perché nel momento in cui scoppiano dei conflitti, le parti automaticamente si appellano al regolamento. Lo scopo di tali riforme è eliminare l’autorità arbitraria individuale, ma naturalmente questo non succede mai. L’autorità individuale salta semplicemente un livello e si trasforma nella facoltà di mettere da parte le regole in casi specifici (una sorta di versione in miniatura del potere sovrano). Ciononostante, in pratica il fatto che le riforme non raggiungano mai il loro obiettivo dichiarato non ne mina la legittimità. Anzi, è vero il contrario, perché chi si oppone al potere personalizzato può farlo soltanto invocando ancora più regole e più «trasparenza». Dunque, libertà e giustizia diventano davvero questione di ridurre tutto a un gioco. Se ci riflettiamo, queste cose succedono continuamente, anche in ambiti che non hanno niente a che fare con l’autorità arbitraria individuale. L’esempio più evidente è la lingua. Chiamiamolo «effetto libro di grammatica». La gente non inventa una lingua scrivendone la grammatica, ma scrive la grammatica – almeno la prima grammatica – osservando le norme tacite, in gran parte inconsce, che le persone applicano quando parlano. Ma, una volta che c’è un libro, e specialmente una volta che viene adottato nelle scuole, subentra la convinzione che le regole non siano soltanto la descrizione del modo in cui la gente parla, ma prescrizioni sul modo in cui dovrebbe parlare. È facile osservare questo fenomeno nei luoghi in cui la grammatica è stata scritta solo di recente. In molti paesi del mondo, le prime grammatiche e i primi
dizionari furono creati dai missionari cristiani nel XIX o addirittura nel XX secolo per tradurre la Bibbia e altri testi sacri in quelle che fino a quel momento erano lingue non scritte. Per esempio, la prima grammatica in malgascio, la lingua parlata in Madagascar, è stata scritta negli anni dieci e venti dell’Ottocento. Ovviamente la lingua cambia in continuazione, quindi il malgascio parlato – e anche la grammatica – sotto molti aspetti è diverso da quello di duecento anni fa. Ma, siccome tutti imparano la grammatica a scuola, si pensa che chi parla oggi il malgascio commetta degli errori e non segua correttamente le regole. Nessuno sembra mai riflettere – finché non glielo si fa notare – sul fatto che se i missionari fossero arrivati e avessero scritto la grammatica duecento anni più tardi, l’uso considerato corretto sarebbe stato quello corrente; in questo caso, chiunque oggi parlasse la lingua di duecento anni fa sarebbe considerato in errore. Ho avuto quindi grandi difficoltà a imparare a parlare il malgascio colloquiale. Anche quando chiedevo alle persone del posto (per esempio, agli studenti universitari) di darmi lezioni, mi insegnavano a parlare il malgascio del XIX secolo, quello che si insegnava a scuola. Prendendo confidenza con la lingua, mi sono accorto che il modo in cui parlavano tra loro non c’entrava niente con quello che mi stavano insegnando. Quando chiedevo di forme grammaticali che usavano ma che non si trovavano sui libri, scrollavano le spalle e dicevano: «No, quello è slang, non si dice». Alla fine ho capito che l’unico modo per imparare il malgascio parlato contemporaneo era registrare le conversazioni su cassetta, provare a trascriverle e chiedere spiegazioni agli amici ogni volta che mi imbattevo in una forma o in un’espressione che non conoscevo. Non c’era altro modo: dopo che avevano deciso che quelle forme grammaticali erano errori, semplicemente non erano in grado di descrivermele in termini grammaticali. Nel caso del Dipartimento di antropologia di Cambridge, le regole sono state esplicitate, e quindi congelate, con l’obiettivo dichiarato di eliminare l’autorità arbitraria individuale. Queste riforme, chiaramente, nascono non da un’antipatia per l’autorità arbitraria, ma dall’antipatia per l’arbitrarietà in sé, che porta a un’accettazione incondizionata dell’autorità nella sua forma più istituzionale e formale. In fondo, qual è la nostra prima esperienza dell’autorità formale e incentrata sulle regole se non i nostri insegnanti delle scuole
elementari? Questo è vero in Madagascar come da qualsiasi altra parte. Ma quando chiedevo ai miei amici perché la gente non parlasse la lingua descritta nei manuali, la loro risposta inevitabilmente era «Be’, sai, la gente è un po’ pigra» o simili. Il problema, secondo loro, era che l’intera popolazione non aveva imparato bene la lezione. In realtà, quella che stavano negando era la legittimità della creatività collettiva, il libero gioco del sistema. Vale la pena di soffermarsi sulla lingua perché rivela, forse meglio di qualsiasi altro esempio, il paradosso di fondo della nostra idea di libertà. Da una parte, le regole sono per loro natura una costrizione. Codici del discorso, norme di etichetta e regole grammaticali hanno l’effetto di delimitare ciò che possiamo e non possiamo dire. Non a caso, quella della maestra che bacchetta il bambino sulle mani per un errore di ortografia è una delle immagini primordiali dell’oppressione. D’altra parte, se non esistessero convenzioni condivise – niente semantica, niente sintassi, niente fonetica – ci ritroveremmo tutti a biascicare senza costrutto e non saremmo in grado di comunicare. Ovviamente, in questa situazione nessuno sarebbe libero di fare niente. A un certo punto, quindi, la regola come costrizione diventa regola abilitante, anche se è impossibile dire esattamente quando. La libertà, dunque, è effettivamente la tensione tra il libero gioco della creatività umana e le regole che quest’ultima genera di continuo. Questo è ciò che osservano sempre i linguisti. Non c’è lingua senza grammatica. Ma, allo stesso modo, non c’è lingua in cui ogni cosa, compresa la grammatica, non sia costantemente in trasformazione. Di rado ci chiediamo il perché. Come mai le lingue cambiano sempre? Come è facile capire, avere una grammatica e un vocabolario comuni è necessario per riuscire a parlare gli uni con gli altri. Ma, se la lingua serve solo a questo, allora, una volta che un determinato gruppo di persone trova una grammatica e un vocabolario adatti allo scopo, è sufficiente seguire le regole, magari cambiando un po’ il vocabolario se c’è qualcosa di nuovo di cui parlare (una nuova tendenza o una nuova invenzione, una verdura importata), ma sostanzialmente lasciandole invariate. Nei fatti, questo non succede mai. Non c’è un solo esempio documentato di una lingua che nel giro di un secolo non sia cambiata, nel suono e nella struttura. 54 Ciò vale anche per le lingue delle società più «tradizionali» e succede perfino dove vengono create complicate strutture istituzionali – come il liceo classico o l’Académie Française – per
impedirlo. In parte è l’effetto del ribellismo (per esempio, i giovani che vogliono distinguersi dai più vecchi), ma è difficile sfuggire alla conclusione che si tratti del principio del gioco nella sua forma più pura. Gli esseri umani, che parlino l’arapesh, l’hopi o il norvegese, semplicemente si annoiano a dire le cose sempre nello stesso modo. Finiscono sempre per giocarci un po’. E questo «giocarci un po’» ha sempre effetti cumulativi. Tutto questo ci dice che le persone, a ogni latitudine, sono soggette a due tendenze totalmente contraddittorie: da una parte, quella di giocare ed essere creativi per il puro gusto di farlo; dall’altra, quella di dare ragione a chiunque dica che non devono comportarsi così. Questa seconda tendenza è quella che rende possibile la trasformazione della vita istituzionale in un gioco da tavolo. Se infatti la portiamo alla sua logica conclusione, ogni libertà diventa arbitrio, e ogni arbitrio diventa una forma di potere pericolosa e sovversiva. Basta fare un passo in più per desumere che la vera libertà è vivere in un mondo totalmente prevedibile e libero da questo tipo di libertà. Vorrei concludere con un altro esempio tratto dalla mia esperienza politica personale. Nel corso degli ultimi trenta-quarant’anni, i movimenti antiautoritari di tutto il mondo hanno lavorato per creare forme nuove e più efficaci di democrazia diretta, capaci di funzionare senza ricorrere alla burocrazia o alla violenza. Ho scritto nel dettaglio di questi tentativi in altre sedi. Sono stati fatti molti progressi. Chi ci lavora, tuttavia, si trova spesso a fare i conti con lo stesso tipo di potere «arbitrario». Parte della costruzione di nuove modalità di concertazione, per esempio, consiste nel creare forme istituzionali che incoraggiano l’improvvisazione e la creatività anziché inibirla. Come dicono a volte gli attivisti: in quasi tutte le situazioni, se si mette insieme una massa di persone, questa massa, come gruppo, si comporterà in modo meno intelligente e meno creativo rispetto ai suoi singoli componenti presi uno per uno. Il processo decisionale degli attivisti, al contrario, è studiato per rendere la massa più intelligente e creativa dei suoi singoli membri. È effettivamente possibile raggiungere questo obiettivo, ma ci vuole molto lavoro. E più grande è il gruppo, più sono i meccanismi formali da mettere in piedi. Il saggio più importante di tutta la tradizione dell’attivismo è The
Tyranny of Structurelessness («La tirannia della mancanza di struttura»), 55 scritto negli anni settanta da Jo Freeman, che parla delle crisi organizzative che scoppiarono nei primi circoli femministi di autocoscienza quando questi gruppi cominciarono ad assumere proporzioni di una certa rilevanza. I gruppi, osservava Freeman, partivano sempre da una specie di anarchismo improvvisato, basato sul presupposto che non ci fosse bisogno di meccanismi di tipo formale o normativo-parlamentare. Le partecipanti si sedevano in gruppo come sorelle e risolvevano i problemi. Così effettivamente le cose all’inizio funzionavano. Poi, quando il gruppo arrivava a contare una ventina di membri, cominciavano inevitabilmente a formarsi circoli informali, cricche di amiche e alleate che controllavano le informazioni, dettavano l’agenda ed esercitavano il potere in modi sottili e sfuggenti. Freeman proponeva una serie di meccanismi formali da adottare per contrastare questo fenomeno, ma ai fini della nostra discussione non è necessario entrare nei dettagli. Basti sapere che quello che oggi viene definito «processo formale di concertazione» nasce in gran parte dalle crisi da lei descritte e dal dibattito messo in moto dal suo intervento. Il dato su cui voglio soffermarmi è che tutti coloro che non partono da una posizione esplicitamente antiautoritaria (ma non solo) travisano in toto il saggio di Freeman, e lo interpretano come l’invocazione non di meccanismi formali più stringenti al fine di assicurare l’eguaglianza, ma di una gerarchia più trasparente. I leninisti sono famosi per questo, ma i progressisti di ispirazione liberal non sono da meno. Non so dirvi quante discussioni ho avuto su questo punto. L’iter è sempre lo stesso. Innanzitutto, la tesi di Freeman sulla formazione di cricche e strutture invisibili di potere viene distorta e strumentalizzata per dire che qualsiasi gruppo di più di venti persone avrà sempre cricche, strutture di potere e soggetti in posizione di autorità. Quindi si passa alla tesi che per ridurre al minimo il potere di queste cricche e gli effetti deleteri prodotti da queste strutture di potere l’unico modo sia istituzionalizzarle: prendere la cricca e trasformarla in un comitato centrale (o, visto che questa definizione ormai ha una cattiva reputazione, un comitato di coordinamento, o di indirizzo, o qualcosa del genere). Bisogna far uscire il potere dall’ombra, formalizzare il processo, creare regole, indire elezioni, definire esattamente cosa questa cricca può e non può fare. In tal modo, almeno, il potere diventa trasparente e deve «rendere conto» (si noti il termine:
viene dalle procedure contabili). Non è più arbitrario. Dal punto di vista dell’attivismo, a livello pratico, questa prescrizione è ridicola. È molto più facile limitare la capacità dei gruppi informali di esercitare un potere di fatto negando loro ogni status formale e dunque ogni legittimazione. Qualsiasi «struttura di responsabilità formale» creata per limitare il potere delle cricche-comitati può essere solo meno efficace da questo punto di vista, se non altro perché finisce per legittimare, e dunque per accentuare fortemente, la differenza di accesso alle informazioni che all’interno di gruppi altrimenti paritari permette a qualcuno di esercitare un potere maggiore rispetto ad altri. Come ho osservato nel primo capitolo, non appena si innesca questo processo le strutture di trasparenza si trasformano inevitabilmente in strutture di stupidità. Di fronte a tale argomentazione, il critico di solito cede (diciamo che è costretto, perché così vuole il buon senso). A questo punto la linea difensiva si sposta sul piano estetico: è semplicemente di cattivo gusto, si dice, avere strutture di potere reale non riconosciute che, anche in assenza di qualsiasi forma di coercizione e di violenza, possono essere considerate arbitrarie. L’interlocutore non ammetterà mai che le sue obiezioni siano di ordine estetico; di solito mette la questione in termini etici. Di tanto in tanto, però, qualcuno è abbastanza onesto da dire le cose come stanno. Mi ricordo, per esempio, di un dibattito promosso da Occupy Wall Street a Central Park (sono sicuro che è stato registrato) tra me e Norman Finkelstein, un attivista brillante e certamente ammirevole, che pur essendosi formato con il Movimento per i diritti civili si considera ispirato anche da gruppi come la Southern Christian Leadership Conference. Durante il dibattito, Finkelstein ha ammesso apertamente il punto. Forse è vero, ha detto, che il modo migliore di impedire a questi gruppi di assumere un potere eccessivo è mantenere il principio che non devono esistere. Ma, fintantoché si concede loro di esistere senza essere formalmente riconosciuti e regolati, si favorisce un sistema che considera ammissibile essere governati nell’ombra, anche se in minima parte. Magari non è un grande problema dal punto di vista pratico. Magari è vero che riconoscere formalmente l’esistenza di questi gruppi anziché lasciar perdere finisce per produrre complessivamente meno libertà. Ma in ultima analisi, diceva Finkelstein, trovo semplicemente di cattivo gusto l’idea di essere governati
nell’ombra, a qualsiasi livello. Con questa argomentazione assistiamo a uno scontro frontale tra due diverse forme di utopismo materializzato: da una parte un antiautoritarismo che, con la sua enfasi sulla sintesi creativa e l’improvvisazione, vede le libertà sostanzialmente come gioco, e dall’altra un repubblicanesimo tacito che considera la libertà come la capacità di ridurre tutte le forme di potere a un corpo di regole chiare e trasparenti. Negli ultimi duecento anni, in Europa e in Nord America – e sempre di più in tutto il resto del mondo – questa seconda concezione burocratizzata è diventata predominante. Nuovi assetti istituzionali, disciplinati da regole tanto stringenti e prevedibili da diventare quasi invisibili (come gli uffici postali fisici o elettronici da cui sono partito), vengono presentati come piattaforme per una libertà che scaturisce proprio dall’esigenza tecnica di far funzionare strutture di potere efficienti. Questi assetti dovrebbero conservare gli aspetti positivi del gioco, aggirando in qualche modo le sue potenzialità più inquietanti. Tutte le volte, però, il risultato è sempre lo stesso. Quali che siano le sue motivazioni, la fede nella «razionalità» o la paura del potere arbitrario, l’effetto di questa concezione burocratizzata di libertà è il sogno di un mondo in cui il gioco fine a se stesso è completamente limitato (o, nel migliore dei casi, isolato in uno spazio remoto, lontano da qualsiasi attività umana seria e consequenziale), mentre ogni aspetto della vita si riduce a una specie di complicato gioco da tavolo pieno di regole. È una concezione che ha un suo fascino. Chi non ha sognato un mondo in cui tutti conoscono le regole, giocano secondo le regole e – soprattutto – in cui chi gioca secondo le regole può effettivamente vincere? Il problema è che questa è una fantasia utopica tanto quanto quella di un mondo di gioco libero e assoluto. Rimarrà sempre un’illusione scintillante che svanisce non appena la si tocca. Queste illusioni non sono sempre un male. Possiamo addirittura sostenere che molte delle più grandi conquiste dell’uomo sono il risultato di simili lotte contro i mulini a vento. Ma in questo caso particolare, e in un più vasto contesto politico-economico in cui la burocrazia è diventata il mezzo principale attraverso il quale una percentuale minuscola della popolazione estrae ricchezza da tutti gli altri, si è creata una situazione in cui la ricerca della libertà dal potere arbitrario finisce semplicemente per crearne ancora di più. Il
risultato è che le norme soffocano la vita, la scienza e la creatività vengono strangolate e ognuno di noi si ritrova a passare sempre più tempo della giornata a riempire moduli.
Note 1
Max Weber, «Bureaucracy», cit., pp. 233-234.
2
Come disse al tempo a un visitatore americano: «La mia idea è corrompere le classi operaie, o per meglio dire conquistarle, vedere lo stato come un’istituzione sociale che esiste in funzione loro e che si interessa al loro benessere» (citato in William Thomas Stead, On the Eve: A Handbook for the General Election, Review of Reviews Publishing, London 1892, p. 62). La citazione va tenuta a mente perché il punto centrale – cioè che il welfare state nasce per tenere buona la classe operaia ed evitare che i suoi esponenti si trasformino in rivoluzionari – di solito viene visto con scetticismo: sarebbe tutto da dimostrare, obiettano i più, che quella fosse l’intenzione consapevole della classe dominante. Qui il fondatore del primo tentativo di welfare state lo ammette esplicitamente. 3
Erodoto, Storie VIII 98.
4
È interessante che in Comunità immaginate (Manifestolibri, Roma 2009) Benedict Anderson a malapena citi il fenomeno, concentrandosi solo sui giornali. 5
Questo è ancora vero: oggi, negli Stati Uniti, un terzo dei dipendenti pubblici è nelle Forze armate e un quarto nel servizio postale, ben oltre qualsiasi altro ramo dell’amministrazione. 6
Purtroppo il saggio è andato perduto (cfr. The Mark Twain Encyclopedia, a cura di J.R. LeMaster, James Darrell Wilson e Christie Graves Hamric, Routledge, New York 1993, p. 71; Everett Emerson, Mark Twain, a Literary Life, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2000, p. 188). 7
Vladimir Il’ič Lenin, Stato e rivoluzione, Lotta comunista, Roma 2003, p. 66.
8
Pëtr Kropotkin, «Anarchist Communism», in Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Dover, New York 1974, p. 68. 9
Gordon Wood, «Empire of Liberty: A History of the Early Republic, 1789-
1815», in Oxford History of the United States, Oxford University Press, Oxford 2011, vol. III, pp. 478-479. 10
Da newyorkese, fin da piccolo mi ha colpito l’affascinante asimmetria tra la magnificenza delle strutture pubbliche costruite alla fine del XIX secolo, quando la grandeur era considerata uno specchio della forza e della potenza della Repubblica, e la pacchianeria quasi deliberata di tutto quello che era stato creato per i cittadini dagli anni settanta in poi. Almeno per me, i due esempi principi della vecchia epoca erano il monumentale Central Post Office, con i suoi enormi e lunghissimi gradoni di marmo e le colonne corinzie, e la sala centrale della New York Public Library (che, per inciso, ha conservato il suo sistema di smistamento richieste con i tubi pneumatici fino agli anni ottanta inoltrati). Mi ricordo che quando andai a visitare il Palazzo d’estate dei reali di Svezia – il primo vero palazzo in cui fossi mai entrato – la mia prima reazione fu: è identico alla New York Public Library! 11
Mark Ames, Going Postal: Rage, Murder, and Rebellion from Reagan’s Workplaces to Clinton’s Columbine and Beyond, Soft Skull Press, Brooklyn 2005. 12
Tutto questo è raccontato splendidamente nel film Hollywood Shuffle, in cui il protagonista, un afroamericano giovane e ingenuo, si abbassa a interpretare i ruoli più razzisti, umilianti e stereotipati pur di sfondare a Hollywood, mentre la nonna continua garbatamente a ricordargli: «C’è sempre lavoro all’ufficio postale». 13
Questo modello in realtà può essere esteso a tutte le tipologie di film: anche se l’eroe ribelle è uno scienziato, per esempio, il suo superiore all’interno dell’organizzazione burocratica è quasi sempre di colore. L’eroe a volte può essere di colore, ma di solito è bianco; il capo (o, almeno, se il capo è un ottuso caporale e non un complice nella cospirazione) non lo è quasi mai. 14
Inutile dire, come si evince dai miei commenti sulle sorti di Internet nell’ultimo capitolo, che queste tecnologie poetiche hanno la malaugurata tendenza a diventare a loro volta burocratiche. 15
Freud è una figura affascinante perché prova a riconciliare le due concezioni: la razionalità (l’Io) non rappresenta più la morale come nella concezione medievale, dove ragione e morale erano la stessa cosa, ma viene strattonata e spinta in direzioni opposte dalle passioni (l’Es) e dalla morale (il
SuperIo). 16
Potremmo dire che questo avviene soprattutto nelle burocrazie militari, in cui gli ufficiali spesso fanno un punto di orgoglio di servire qualsiasi leader civile la situazione politica proponga con la stessa dedizione ed efficienza, a prescindere dalle loro opinioni personali. Ma si tratta soltanto di un’estensione della mentalità burocratica. Gli eserciti dominati da corpi ufficiali aristocratici, tanto per fare un esempio, si comportano in maniera differente. 17
Oggi c’è una fiorente letteratura sulle basi sociali dell’estremismo islamico che mostra come quest’ultimo eserciti un particolare fascino sugli studenti di ingegneria e scienze. 18
C’è un motivo se Spock è un personaggio di fantasia. Naturalmente, Spock non doveva essere privo di emozioni, doveva solo fare finta, e quindi, in un certo senso, rappresentava perfettamente l’ideale di razionalità. 19
È del tutto possibile produrre una tesi logicamente coerente basata su premesse false, o fare una valutazione realistica di un problema e poi applicare una logica completamente fallace per risolverlo. La gente fa di continuo entrambe le cose. 20
Mi riferisco in questo caso alla scuola pitagorica e non al suo fondatore, Pitagora, perché il suo ruolo nella genesi delle dottrine che gli sono state poi attribuite è tuttora oggetto di discussione. Secondo Walter Burkert, a Pitagora sarebbe ascrivibile soltanto la dottrina della reincarnazione, e non la cosmologia matematica, che è stata variamente attribuita a pitagorici successivi come Ippaso, Filolao e Archita, se non addirittura creata in un secondo momento e ascritta retroattivamente ai pitagorici da Platone (quest’ultima ipotesi, per la verità, mi sembra improbabile). 21
Si racconta che l’importanza politica di questa dottrina era tale che, quando il pitagorico Ippaso scoprì il numero irrazionale, i suoi compagni lo affogarono in mare. In realtà, la leggenda antica era che Ippaso fosse affogato perché gli dèi avevano voluto punirlo per la sua empietà nel rivelare queste faccende. Per quanto mi riguarda, trovo più interessante la tesi, emersa da alcune fonti, secondo la quale Ippaso sosteneva che dio fosse un numero irrazionale: in altre parole, che rappresentasse un principio trascendente oltre la razionalità immanente del cosmo. Se è vero, sarebbe stata un’importante
deviazione rispetto alla logica della «religione cosmica» e non sarebbe sorprendente se avesse suscitato l’antipatia dei suoi compagni. È un aspetto intrigante, soprattutto in relazione alle riflessioni sulla sovranità di cui sotto. 22
Hans Joas (The Gnostic Religion, Beacon Press, Boston 1958), a quanto mi risulta, è stato il primo a usare l’espressione «religione cosmica» per descrivere lo gnosticismo, che rifiutava il concetto di un ordine cosmico ideale e vedeva le anime degli uomini come estranee alla creazione, anzi come la sua negazione esplicita. Il cristianesimo agostiniano in realtà contiene elementi di entrambi, dato che mette insieme un dualismo manicheo e un’insistenza tutta pagana sull’identità tra mente e divinità. 23
Nasce dagli stoici, ma nell’antichità non era così universale come sarebbe diventata in Europa durante il Medioevo. 24
Quando lo fanno, ovviamente è per gioco.
25
Edmund Leach, Social Anthropology, Oxford University Press, Oxford 1982, p. 121. 26
Avrebbe avuto più senso logico sostenere che ciò che distingue gli uomini dagli animali è l’immaginazione, ma dal punto di vista medievale era praticamente inammissibile, perché nella teologia dell’epoca, influenzata dall’astrologia e dal neoplatonismo, l’immaginazione corrispondeva a un ordine inferiore, in quanto fungeva da mediatrice tra l’intelletto divino e il mondo materiale, come il piano astrale mediava tra cielo e Terra; non a caso, molti al tempo ritenevano che le nostre facoltà immaginative fossero composte di sostanza astrale. 27
Da Francis Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, RomaBari 2010 (originariamente da Robert Fludd, Meteorologia cosmica, Officina Bryana, Francofurti 1626). 28
Traduzione da Francis Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 172. 29
E anche, ovviamente, sulla gerarchia ecclesiastica di Roma, che conservava il sistema amministrativo più articolato e geograficamente esteso in Europa.
30
Sulla protoburocrazia, cfr. Hans Nissen et al., Archaic Bookkeeping: Early Writing and Techniques of Economic Administration in the Ancient Near East, University of Chicago Press, Chicago-London 1993; e anche David Wengrow, What Makes a Civilization?, Oxford University Press, Oxford 2012, pp. 81-87. 31
O, nella storia dell’antropologia, i maori e le prime nazioni della costa nordoccidentale del Nord America (spesso citate come «società potlatch», divise in aristocrazia e gente comune senza un sistema centralizzato di governo o un’amministrazione), o anche società eroiche più paritarie come gli iatmul di Papua Nuova Guinea, in cui tutti i maschi adulti sono costantemente impegnati in questi comportamenti vanagloriosi. 32
Il mio testo di riferimento qui è David Wengrow, «“Archival” and “Sacrificial” Economies in Bronze Age Eurasia: An Interactionist Approach to the Hoarding of Metals», in Interweaving Worlds: Systemic Interactions in Eurasia, 7th to the 1st Millennia BC, a cura di Toby C. Wilkinson, Susan Sherratt e John Bennet, Oxbow, Oxford 2011, pp. 135-144. Parlo delle società eroiche in «Culture as Creative Refusal», in Cambridge Anthropology, 31, 2, 2013, pp. 1-19. 33
Io, per esempio, l’ho fatto in un mio precedente libro, Lost People: Magic and the Legacy of Slavery in Madagascar, Indiana University Press, Bloomington 2007, pp. 129-131. 34
L’unno Attila, per esempio, è un personaggio sia del Canto dei nibelunghi sia della Saga dei volsunghi. 35
Ovviamente, il termine «fantasy» può riferirsi a un’ampia letteratura, da Alice nel paese delle meraviglie al Mago di Oz al Richiamo di Cthulhu, e molti critici considerano un suo sottogenere anche la fantascienza. Ma il termine generico resta quello riferito alle storie eroiche stile Terra di Mezzo. 36
Altrove l’ho definito «il fenomeno dello specchio brutto»; cfr. David Graeber, «There Never Was a West: Democracy Emerges from the Spaces in Between», in Possibilities: Notes on Hierarchy, Rebellion, and Desire, Ak Press, Oakland 2007, p. 343. 37
La differenza fondamentale sta senza dubbio nel fatto che i carnevali medievali il più delle volte erano organizzati dal basso, a differenza degli spettacoli circensi a Roma.
38
Da una lettera al figlio scritta durante la Seconda guerra mondiale: «Le mie opinioni politiche tendono sempre di più verso l’Anarchia (in senso filosofico, che significa abolizione del controllo e non uomini con i baffi che tirano bombe) o la Monarchia ‘incostituzionale’. Arresterei chiunque usi la parola Stato (in qualsiasi senso tranne che per indicare la sfera inanimata dell’Inghilterra e i suoi abitanti, una cosa che non ha né potere, né diritti, né mente); e, dopo avergli dato la possibilità di fare abiura, lo giustizierei […]». Nel resto della lettera aggiunge che i rapporti di comando funzionano soltanto per i piccoli gruppi in cui tutti si conoscono e che l’unica nota lieta del mondo è «l’abitudine sempre più diffusa tra gli uomini scontenti di far saltare con la dinamite fabbriche e centrali energetiche» (lettera a Christopher Tolkien, 29 novembre 1943, in The Letters of J.R.R. Tolkien, a cura di Humphrey Carpenter, Allen & Unwin, London 1981, n. 52). Altri hanno osservato che questa insistenza sull’autorità personale come unica autorità legittima è il riflesso di un odio atavico per la burocrazia in tutte le sue manifestazioni (fascista, comunista o assistenziale); cfr. John Garth, Tolkien and the Great War: The Threshold of Middle-Earth, HarperCollins, London 2011, p. 94, e Mark Home, J.R.R. Tolkien, Thomas Nelson, Nashville 2011, pp. 124-127. Quest’ultimo (p. 125) osserva che «la fluttuazione tra re e ‘anarchia’ non è strana per uno studioso della storia tribale nordeuropea», ma, anzi, è tipica di quelle che ho chiamato società eroiche. 39
Gli appassionati di Douglas Adams ricorderanno che la Guida galattica per gli autostoppisti, un altro grande romanzo satirico sulla burocrazia di metà Novecento, si apre esattamente con uno scenario simile, che poi porta alla distruzione del pianeta. 40
Quello del nobile capo guerriero contro il mago malvagio è sostanzialmente un cliché colonialista britannico: gli ufficiali coloniali in Africa cercavano sempre di individuare élite guerriere (che ammiravano) e se non le trovavano davano per scontato che fossero state spazzate via dalle astuzie di qualche «stregone» dall’influenza malefica. Le miniere di re Salomone è la massima espressione narrativa di questo mito. 41
In realtà Huizinga parte dal presupposto che gioco e giochi siano la stessa cosa; cfr. Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 2002. 42
E, quando si gioca a un gioco, il «giocare» è l’elemento imprevedibile, la
componente per la quale non si riproducono soltanto le regole, ma si applica l’abilità, o si tira il dado, o comunque si va incontro all’incertezza. 43
Per fare solo un tipico esempio, J. Lowell Lewis, «Toward a Unified Theory of Cultural Performance», in Victor Turner and Contemporary Cultural Performance, a cura di Graham St. John, Berghahn, London 2008, p. 47. Ma questo punto è ribadito più volte in letteratura. Aggiungerei che in virtù di questa analisi, Dungeons & Dragons e giochi di ruolo analoghi sono così divertenti perché hanno raggiunto la perfetta fusione tra il principio del gioco e quello dei giochi. 44
Shiv Visvanathan, «Alternative Futures», in Times of India, 10 febbraio
2007. 45
Carl Schmitt, Political Theology: Four Chapters on the Concept of Sovereignty, University of Chicago Press, Chicago 2004 [1922]. Le tesi di Schmitt furono usate dai nazisti per dare una giustificazione legale ai campi di concentramento. 46
«Nella cosmologia indiana, il gioco è un concetto che parte dall’alto. I passaggi e le sedi del gioco si trovano a un alto livello di astrazione e generalità. Le qualità del gioco risuonano e vibrano attraverso il tutto. Ma, ancora di più, le qualità del gioco sono parte integrante del funzionamento stesso del cosmo»; cfr. Don Handelman, «Passages to Play: Paradox and Process», in Play and Culture, 5, 1, 1992, p. 12, cit. in Brian Sutton-Smith, The Ambiguity of Play, Harvard University Press, Cambridge, MA 2001, p. 55. 47
Brian Sutton-Smith, The Ambiguity of Play, cit., pp. 55-60. Il gioco dal basso, invece (cioè l’idea di un gioco intrinsecamente sovversivo), è sempre esistito, ma è diventato il modo dominante di pensare a tali questioni soltanto a partire dal Romanticismo. 48
O, per essere più precisi, i suoi rappresentanti sono gli unici autorizzati ad agire in modo violento in certe situazioni purché siano presenti e in servizio. 49
Durante le manifestazioni del 2002 contro la Banca mondiale, la polizia di Washington decise di circondare un parco pubblico e di arrestare tutti quelli che si trovavano al suo interno. Mi ricordo che chiesi al comandante perché ci stavano arrestando. Rispose: «Ci penseremo poi».
50
Può succedere, ma di solito deve esserci una penetrazione anale con un’arma. I due casi che vengono subito in mente sono quello dell’agente Justin Volpe, che nel 1997 sodomizzò un uomo nel bagno di un distretto di polizia newyorkese con un manico di scopa perché pensava (sbagliando) che gli avesse dato un pugno durante una rissa, e quello di Dennis Krauss, un agente di polizia della Georgia che più di una volta aveva risposto a denunce di violenza domestica estorcendo favori sessuali alle donne che lo avevano chiamato e nel 1999 tentò di sodomizzarne una con una pistola. Entrambi sono stati condannati a una pena carceraria. Ma ci vuole un’aggressione di tale gravità per far finire un agente dietro le sbarre. Per esempio, nel periodo del Movimento per la giustizia globale e Occupy Wall Street ci sono stati ripetuti casi di fratture di polsi e dita di manifestanti non violenti per mano della polizia – spesso dopo esplicita minaccia –, ma nessuno è stato processato né tantomeno condannato. 51
Si noti la complessa relazione tra questa e la concezione razionalista descritta in precedenza, dove la creatività è vista come un elemento diabolico perché si oppone al principio divino o cosmico della ragione. Qui, invece, la creatività è considerata demoniaca perché partecipa del principio divino o cosmico del gioco! 52
Alcuni teorici politici contemporanei lo dicono più o meno esplicitamente. Penso in particolare a quella scuola di pensiero che risponde al nome di «repubblicanesimo civico» e fa capo a storici intellettuali come Quentin Skinner e filosofi come Philip Pettit, secondo i quali la «libertà» nella tradizione liberale classica non corrisponde alla capacità di agire senza interferenze del potere o minacce di violenza (poiché i sistemi legali minacciano effettivamente con la violenza chi infrange le regole), ma piuttosto alla capacità di agire senza interferenze di un potere arbitrario. Non è questa la sede per dilungarsi in un’analisi dettagliata, ma l’argomentazione presenta una concezione a somma zero della libertà. «Arbitrario», in fondo, significa «non determinato». In un sistema di autorità arbitraria, le decisioni riflettono «la volontà e il piacere» del despota. Dal punto di vista del despota, tuttavia, «arbitrarietà» è libertà. Dunque il Popolo è libero se il sovrano non lo è. Il Popolo al potere deve seguire le regole. Ma poiché tutti i cittadini hanno un certo grado di potere, questo vale per tutti. Alla fine, poiché libertà significa protezione dal potere arbitrario (ossia non vincolato dalle regole) altrui, e
poiché il potere è dappertutto, questa logica crea la premessa per una riduzione di tutti gli aspetti della vita umana a una serie di regole trasparenti. I testi chiave sono: Philip Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Feltrinelli, Milano 2000; Quentin Skinner, «Freedom as the Absence of Arbitrary Power», in Republicanism and Political Theory, a cura di Cécile Laborde e John Maynor, Blackwell Publishing, Malden 2008. 53
Marilyn Strathern, Audit Cultures, cit.
54
Non solo cambiano, ma cambiano a tassi abbastanza costanti, a prescindere dalle circostanze storiche. C’è un’intera scienza, la glottocronologia, che si basa su questa premessa. 55
Jo Freeman, «The Tyranny of Structurelessness», pubblicato ufficialmente per la prima volta in The Second Wave, 2, 1, ristampato in Quiet Rumours: An Anarcha-Feminist Reader, a cura di Dark Star Collective, Ak Press, Edinburgh 2002, pp. 54-61.
Appendice. Su Batman e sul problema del potere costituente
Aggiungo in appendice questo articolo, a prima vista sul film Il cavaliere oscuro – il ritorno di Christopher Nolan (versione più lunga di un articolo pubblicato nel 2012 sul New Inquiry dal titolo «Super Position»), perché tratta anche dei temi della sovranità e della cultura popolare affrontati nel terzo capitolo di questo libro. In quella sede ho parlato di tre elementi storici indipendenti che secondo me concorrono a formare la nostra concezione di «stato»: sovranità, burocrazia e politica (eroica). In quelle pagine, tuttavia, il mio pensiero sulla sovranità è sviluppato solo in minima parte, perciò ho pensato che il lettore potesse essere interessato a leggere alcune ulteriori riflessioni sull’argomento, scritte con lo stesso tono generale e discorsivo. Il 1º ottobre del 2011, un sabato, il Dipartimento di polizia di New York ha arrestato settecento attivisti di Occupy Wall Street che stavano marciando sul ponte di Brooklyn. Il sindaco Bloomberg si è giustificato dicendo che gli attivisti bloccavano il traffico. Cinque settimane dopo, lo stesso sindaco Bloomberg ha chiuso al traffico il vicino Queensboro Bridge per due giorni interi per permettere le riprese del Cavaliere oscuro – il ritorno, ultimo capitolo della trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan. In molti hanno rilevato il paradosso. Qualche settimana fa sono andato a vedere il film con alcuni amici di Occupy, molti dei quali erano stati arrestati sul ponte a ottobre. Sapevamo tutti che il film era sostanzialmente un lungo pamphlet di propaganda anti-Occupy. Ma non ci importava. Siamo andati al cinema sperando di divertirci, con lo stesso spirito di chi, pur non essendo razzista o nazista, decide di assistere a una proiezione di Nascita di una nazione o del Trionfo della volontà. Ci aspettavamo che il film fosse ostile, magari offensivo. Ma nessuno si aspettava che fosse brutto.
Vorrei riflettere un momento su ciò che rende il film così orrendo. Stranamente, è importante. Penso che possiamo capire molte cose – sul cinema, sulla violenza, sulla polizia, sulla natura stessa del potere dello stato – se proviamo ad analizzare perché, esattamente, Il cavaliere oscuro – il ritorno è così brutto. Una cosa va chiarita fin dall’inizio. Il film è evidentemente un’opera di propaganda anti-Occupy. Qualcuno ancora si ostina a negarlo. Christopher Nolan, il regista, ha tenuto a precisare che la sceneggiatura è stata scritta prima che nascesse il movimento, e che le famose scene dell’occupazione di New York (Gotham) in realtà non sono state ispirate da Occupy Wall Street ma dalla descrizione di Dickens della Rivoluzione francese. Le parole di Nolan mi sembrano chiaramente in malafede. Tutti sanno che a Hollywood le sceneggiature vengono riscritte continuamente durante la produzione e che talora vengono totalmente stravolte rispetto al testo originale; e, soprattutto, che quando si tratta di far passare un messaggio, anche piccoli particolari come il punto in cui viene girata una scena («Dai, facciamo scontrare i poliziotti e i sostenitori di Bane davanti alla Borsa di New York!») o una parola cambiata («Togliamo “prendere il controllo” e mettiamo “occupare”») possono fare la differenza. Poi c’è il fatto che i cattivi effettivamente occupano Wall Street e assaltano la Borsa. Ciò che voglio dire è che è proprio questo desiderio di rilevanza, il fatto che la produzione abbia avuto il coraggio di cavalcare i grandi temi del momento, a rovinare il film. È un vero peccato, perché i primi due capitoli della trilogia, Batman Begins e Il cavaliere oscuro, hanno momenti di innegabile capacità espressiva. In entrambi Nolan dimostra di avere effettivamente qualcosa di interessante da dire sulla psicologia umana, e in particolare sulla relazione tra creatività e violenza (difficile immaginarsi il contrario da un famoso regista di film d’azione). Il cavaliere oscuro – il ritorno è perfino più ambizioso. Ha il coraggio di parlare con una magniloquenza adeguata ai tempi. Ma proprio per questo cade nell’incongruenza. Momenti come questi sono potenzialmente illuminanti, se non altro perché aprono una specie di finestra, dandoci modo di riflettere sul vero significato dei
film di supereroi e dei supereroi in generale. Ciò, a sua volta, ci aiuta a rispondere a un’altra domanda: qual è il motivo dell’esplosione improvvisa di questo genere, un’esplosione così travolgente che a volte sembra che a Hollywood i film tratti dai fumetti abbiano soppiantato la fantascienza con la stessa velocità con cui i polizieschi soppiantarono il western negli anni settanta? Perché, per inciso, i supereroi più popolari sono pieni di complessi d’inferiorità (background familiare, ambivalenza emotiva, crisi morali, ansia, insicurezza)? E perché (particolare altrettanto vero ma su cui non ci si sofferma abbastanza) il fatto stesso di aver ricevuto un’anima sembra costringerli a scegliere un esplicito orientamento politico? Si potrebbe sostenere che tutto ciò è nato ancora prima con James Bond, un personaggio non dei fumetti che, nella sua tradizionale incarnazione di contraltare soprannaturale al genio del male di turno, è sempre stato una sorta di versione cinematografica del supereroe. Casino Royale ha dato profondità psicologica al personaggio di Bond. E già dal film successivo vediamo Bond impegnato a salvare le comunità indigene della Bolivia da una malvagia multinazionale che vuole privatizzare l’acqua. Spiderman si è buttato anche lui a sinistra, proprio come Batman si è buttato a destra. In un certo senso è logico. I supereroi sono un prodotto delle loro origini storiche. Superman è un povero ragazzo di campagna dell’Iowa nato al tempo della Grande depressione; Batman, playboy miliardario, è un rampollo di quel complesso militare-industriale che, proprio come lui, nasce all’inizio della Seconda guerra mondiale; Peter Parker, un prodotto degli anni sessanta, è un ragazzo del Queens della classe operaia e con la battuta pronta che si ritrova una strana sostanza iniettata nelle vene. Ma, anche qui, nell’ultimo film il sottotesto diventa sorprendentemente esplicito («Non sei un vigilante, sei un anarchico!» dice il capitano della polizia), soprattutto nella scena clou: Spiderman, ferito da una pallottola della polizia, viene salvato da un’esplosione di solidarietà operaia quando i manovratori delle gru di Manhattan si ribellano agli ordini del Comune e si mobilitano per aiutarlo. L’ultimo film di Nolan è il più ambizioso politicamente, ma è anche il più deludente. Forse perché il genere «supereroi» non si presta a un messaggio di destra? Di sicuro non è la conclusione a cui sono giunti i critici in passato.
Che cosa possiamo dire, allora, della politica nel genere «supereroi»? Mi sembra logico cominciare dai fumetti, perché è da lì che nasce tutto il resto (programmi televisivi, cartoni animati, film campioni d’incassi ecc.). I supereroi dei fumetti sono un fenomeno di metà secolo e, come tutti i fenomeni della cultura pop di metà secolo, sono essenzialmente freudiani. Vale a dire che, nella misura in cui un’opera di narrativa popolare ha qualcosa da dire sulla natura umana o sulle motivazioni dell’uomo, dobbiamo aspettarci una sorta di freudianesimo pop. A volte questo freudianesimo è esplicito, come nel Pianeta proibito, con i suoi «mostri dell’Id». Di solito è sottinteso. Umberto Eco ha osservato che le storie dei fumetti funzionano un po’ come i sogni: la stessa trama di fondo si ripete all’infinito, quasi in maniera ossessivocompulsiva; nulla cambia, e anche quando l’ambientazione delle storie si sposta dalla Grande depressione alla Seconda guerra mondiale alla prosperità postbellica, gli eroi – Superman, Wonder Woman, Lanterna Verde, il Dr. Strange – restano apparentemente in un eterno presente, senza mai invecchiare, sempre gli stessi. La trama è la seguente: il cattivo – un boss della malavita, più spesso un potente supercriminale – si imbarca in un progetto di conquista del mondo, distruzione, furto, estorsione o vendetta. L’eroe viene avvisato del pericolo e capisce che cosa sta succedendo. Dopo vari tentativi e dilemmi, all’ultimo minuto, l’eroe sventa il piano del cattivo. Il mondo torna alla normalità fino all’episodio successivo, quando si ripete esattamente la stessa cosa. Non ci vuole un genio per capire di che cosa si tratta. Gli eroi sono reazionari. Qui «reazionari» va inteso in senso letterale: si limitano a reagire agli eventi; non hanno progetti propri (o, per essere più precisi, come eroi non hanno progetti propri. Nei panni di Clark Kent, Superman prova continuamente, e invano, a portarsi a letto Lois Lane. Nei panni di Superman è puramente reattivo). Di fatto, i supereroi sembrano del tutto privi di immaginazione. Bruce Wayne ha un sacco di soldi ma evidentemente non sa come spenderli, tranne che per progettare armi sempre più tecnologiche e fare un po’ di beneficenza ogni tanto. A Superman non viene mai in mente che potrebbe risolvere facilmente il problema della fame nel mondo o scavare città magiche nelle montagne. Quasi mai i supereroi fanno, creano o costruiscono qualcosa. I cattivi, invece, scoppiano di creatività. Hanno piani, progetti e idee.
All’inizio, senza nemmeno accorgercene, siamo portati a identificarci con loro. In fondo, sono quelli che si divertono di più. Poi ci sentiamo in colpa, torniamo a identificarci con l’eroe e ci divertiamo ancora di più a guardare il Super-Io che a forza di botte riporta l’Es ribelle a più miti consigli. Naturalmente, appena si prova a ipotizzare la presenza di un messaggio in un fumetto, partono le obiezioni: «Ma sono solo forme di intrattenimento a buon mercato! Non pretendono di insegnarci niente sulla natura umana, sulla politica o sulla società, sono l’equivalente della ruota panoramica del luna park». E ovviamente, in una certa misura, è vero. La cultura pop non esiste per convincere qualcuno di qualcosa. Esiste solo per il piacere. Eppure, guardando più da vicino, ci si accorge che molti progetti di cultura pop tendono a trasformare quel semplice piacere in una specie di teorema. I film dell’orrore ci offrono un esempio particolarmente rozzo del modo in cui funziona questo meccanismo. Un film dell’orrore, di solito, è una storia di trasgressione e castigo: nei film slasher, che sono probabilmente la forma più pura del genere, ridotta all’osso e senza chiaroscuri, la trama segue sempre lo stesso svolgimento. Come ha osservato molto tempo fa Carol Clover nel suo magistrale Men, Women and Chainsaws («Uomini, donne e motoseghe»), il pubblico inizialmente viene spinto a identificarsi con il mostro (la telecamera segue letteralmente il suo punto di vista) mentre fa a fette le «ragazze cattive», e soltanto in un secondo momento comincia a guardare il mondo con gli occhi dell’eroina androgina che alla fine lo ucciderà. La trama è sempre una banale storia di trasgressione e castigo: le ragazze cattive si comportano in modo peccaminoso, hanno rapporti sessuali, scappano senza denunciare un incidente stradale, magari sono soltanto teen-ager stupide e fastidiose, e per questo vengono sventrate. Quindi, la brava ragazza dall’aria virginale sventra a sua volta il colpevole. È tutto molto cristiano e moralistico. I peccati saranno anche veniali e il castigo totalmente sproporzionato, ma il messaggio finale è: «Certo che se lo sono meritato; tutti ce lo meritiamo. Dietro la nostra facciata di civiltà siamo tutti fondamentalmente corrotti e malvagi. Volete le prova? Fatevi un esame di coscienza. Non siete cattivi? Se non siete cattivi, perché vi divertite a guardare questa robaccia sadica?». Questo è ciò che intendo quando dico che il piacere è una specie di teorema. Al confronto, un fumetto di supereroi può sembrare tutto sommato innocuo.
E sotto molti aspetti lo è. Se un fumetto si limita a dire a qualche milione di adolescenti che è normale avere un certo desiderio di caos e scompiglio, ma che alla fine queste pulsioni vanno tenute sotto controllo, le implicazioni politiche non sembrano particolarmente gravi. Soprattutto perché il messaggio porta con sé una sana dose di ambivalenza, come in tutti i film d’azione in cui il protagonista passa buona parte del tempo a sfasciare centri commerciali di periferia e simili. A chi non piacerebbe sfasciare una banca o un centro commerciale almeno una volta nella vita? E, come ha detto Bakunin, «L’impulso di distruzione è anche un impulso creativo». Ciononostante, sono convinto che, almeno nel caso di molti supereroi dei fumetti, il caos ha implicazioni politiche molto conservatrici. Per spiegare il motivo devo fare una breve digressione sul tema del potere costituente. I supereroi in costume combattono i criminali in nome della legge, anche se a loro volta si muovono al di fuori di un ambito strettamente legale. Ma, nello stato moderno, è lo status stesso della legge a essere un problema. Alla base c’è un paradosso logico di fondo: nessun sistema può generarsi da solo. Qualsiasi potere capace di creare un sistema di leggi non può a sua volta esserne vincolato. Perciò, la legge deve venire da qualche altra parte. Nel Medioevo la soluzione era semplice: l’ordine giuridico era creato da Dio, un essere che, come chiarisce l’Antico Testamento, non è vincolato da leggi né da un codice morale riconoscibile (anche qui, è perfettamente logico: chi ha creato la morale non può, per definizione, esserne vincolato). O, se non direttamente da Dio, dal potere di un re con investitura divina. I rivoluzionari inglesi, americani e francesi cambiarono tutto con l’introduzione del concetto di sovranità popolare: il potere che un tempo era in mano ai re adesso passava a un’entità denominata il Popolo. Nasceva così un problema logico immediato, perché il Popolo è per definizione un gruppo di individui accomunati dal fatto di essere vincolati da un dato corpo di leggi. In che senso, dunque, il Popolo può aver creato quelle leggi? Quando la domanda fu posta dopo le Rivoluzioni inglese, americana e francese, la risposta sembrò ovvia: attraverso quelle stesse Rivoluzioni. Questo però faceva sorgere un ulteriore problema. Le rivoluzioni sono atti di violazione della legge. Sollevarsi in armi, rovesciare un governo e creare un nuovo ordinamento politico è del tutto illegale. Anzi, non c’è niente
di più illegale. Per le leggi con le quali erano cresciuti, Cromwell, Jefferson e Danton erano chiaramente colpevoli di tradimento, e lo sarebbero stati anche se avessero provato a fare la stessa cosa vent’anni dopo sotto i nuovi regimi da loro creati. Le leggi, quindi, nascono da un’attività illecita. C’è dunque un’incongruenza di fondo nell’idea moderna di governo, che presuppone che lo stato abbia il monopolio dell’uso legittimo della violenza (solo la polizia, o le guardie carcerarie, o una sicurezza privata debitamente autorizzata hanno il diritto legale di picchiare i cittadini). Per la polizia è legittimo usare la violenza perché fa rispettare la legge; la legge è legittima perché si fonda sulla costituzione; la costituzione è legittima perché viene dal Popolo; il Popolo ha creato la costituzione attraverso atti di violenza illecita. La domanda, allora, è questa: come si fa a distinguere tra il Popolo e una semplice folla inferocita? Non c’è una risposta chiara. L’opinione più moderata e rispettabile tende ad allontanare il più possibile il problema. La giustificazione di prammatica è che l’epoca delle rivoluzioni è finita (a parte forse in posti dimenticati da Dio come il Gabon, o magari la Siria) e che oggi è possibile cambiare la costituzione o le norme giuridiche con mezzi legali. Questo ovviamente significa che le strutture di fondo non cambieranno mai. Prendiamo per esempio gli Stati Uniti, che continuano a mantenere un’architettura dello stato – con il suo collegio elettorale e il suo sistema bipartitico – che, pur essendo molto avanzata nel 1789, adesso fa sembrare noi americani, agli occhi del resto del mondo, come una specie di versione politica degli amish, che girano ancora con cavalli e carrozze. E significa anche che noi americani fondiamo la legittimità dell’intero sistema sul consenso del Popolo nonostante l’unico Popolo a essere stato consultato a riguardo sia vissuto oltre duecento anni fa. Almeno in America, il Popolo è morto da un pezzo. Siamo quindi passati da una situazione in cui il potere di creare un ordinamento legale derivava da Dio a un altro in cui veniva dalla rivoluzione armata, per poi arrivare a un altro ancora in cui il potere è radicato nella tradizione – «Queste sono le consuetudini dei nostri antenati, chi siamo noi per dubitare della loro saggezza?» (e, ovviamente, un numero non trascurabile di politici americani dice a chiare parole che lo rimetterebbe molto volentieri nelle mani di Dio).
Questa, come ho detto, è la visione moderata. Per la sinistra radicale, e per la destra autoritaria, il problema del potere costituente è ancora molto vivo, ma l’approccio alla questione fondamentale della violenza è diametralmente opposto. La sinistra, scottata dai disastri del XX secolo, ha sostanzialmente preso le distanze dalla sua antica esaltazione della violenza rivoluzionaria, privilegiando forme non violente di resistenza. Quelli che agiscono in nome di qualcosa di più alto della legge possono farlo proprio perché non si comportano come una folla inferocita. Per la destra invece – e questo vale fin dall’ascesa del fascismo negli anni venti – l’idea che ci sia qualcosa di speciale nella violenza rivoluzionaria, qualcosa che la differenzia dalla mera violenza criminale, è puro vaniloquio. La violenza è violenza. Ma questo non vuol dire che una folla inferocita non possa essere il Popolo, perché la violenza è comunque la fonte dell’ordinamento politico e sociale. L’esercizio efficace della violenza è sempre, a suo modo, una forma di potere costituente. Ecco perché, come osserva Walter Benjamin, non possiamo che ammirare il «grande criminale»: perché, come abbiamo letto per anni sui manifesti dei film, «si fa la legge da solo». In fondo, tutte le organizzazioni criminali cominciano inevitabilmente a sviluppare un loro (spesso elaborato) codice di norme e regole interne. Vi sono costrette per controllare quella che altrimenti sarebbe una violenza del tutto cieca. Ma, dal punto di vista della destra, la legge è sempre e soltanto questo. È un mezzo per controllare la violenza che essa stessa pone in essere e che attraverso la violenza viene fatta rispettare. Ecco spiegata, dunque, l’affinità per certi versi sorprendente tra delinquenti, bande criminali, movimenti radicali di destra e rappresentanti armati dello stato. Alla fine parlano tutti la stessa lingua. Si fanno le regole da soli sulla base della violenza. E quindi condividono grosso modo gli stessi valori politici. Mussolini avrà anche spazzato via la mafia, mai i mafiosi italiani idolatrano Mussolini. Oggi ad Atene c’è un’attiva collaborazione tra boss dei quartieri abitati dagli immigrati, bande fasciste e polizia. In questo caso, si tratta di una chiara strategia politica: di fronte alla minaccia di una sollevazione popolare contro un governo di destra, la polizia prima ha smesso di vigilare sui quartieri vicini alle gang di immigrati, poi ha cominciato a dare il suo tacito appoggio ai fascisti (il risultato è stato la rapida ascesa di un partito apertamente nazista; pare che alle elezioni del 2012 circa la metà dei poliziotti greci abbia votato per
i nazisti). Ma è così che funziona la politica per l’estrema destra. Le nuove forme di potere, e dunque l’ordine, si formano proprio in quello spazio in cui le diverse forze violente che operano al di fuori dell’ordinamento legale (o, nel caso della polizia, appena dentro) interagiscono tra loro. Che c’entra tutto questo con i supereroi in costume? C’entra eccome. Perché quello è precisamente lo spazio che occupano anche i supereroi e i supercriminali. Uno spazio intrinsecamente fascista, abitato soltanto da gangster, potenziali dittatori, poliziotti e teppisti, dove i confini tra un gruppo e l’altro sono sempre più sfumati. Alcune volte i poliziotti sono ligi al dovere, altre volte sono corrotti. A volte la polizia stessa scivola nel vigilantismo. A volte perseguita il supereroe, altre volte si gira dall’altra parte o lo aiuta. Cattivi ed eroi di tanto in tanto collaborano. Le linee di forza cambiano continuamente. Se per caso emergesse qualcosa di nuovo, sarebbe soltanto attraverso queste forze che cambiano. Non c’è nient’altro, perché, negli universi della Dc Comics e della Marvel, Dio, o il Popolo, semplicemente non esistono. Se esiste il potenziale per un potere costituente, dunque, questo può arrivare soltanto dai portatori di violenza. E, infatti, i supercriminali e i geni del male, quando non sognano soltanto di commettere il delitto perfetto o di seminare gratuitamente il terrore, sono sempre impegnati a progettare un Nuovo ordine mondiale di qualche tipo. Di sicuro, se Teschio Rosso, Kang il Conquistatore o Doctor Doom riuscissero effettivamente a conquistare il pianeta, verrebbero create subito nuove leggi, e non sarebbero molto tenere. Il loro creatore di certo non se ne sentirebbe vincolato. Ma la sensazione è che, per il resto, verrebbero fatte rispettare molto rigidamente. I supereroi resistono a questa logica. Non aspirano a conquistare il mondo, se non altro perché non sono monomaniaci o malati di mente. Perciò rimangono parassitari rispetto ai supercriminali, proprio come i poliziotti sono parassitari rispetto ai delinquenti tradizionali: senza di loro non avrebbero motivo di esistere. Sono i difensori di un ordinamento giuridico e politico che a sua volta sembra spuntato dal nulla e che, per quanto imperfetto o degradato, deve essere difeso, perché l’alternativa è ben peggiore. Non sono fascisti. Sono soltanto persone normali, per bene, dotate di superpoteri, che vivono in un mondo in cui il fascismo è l’unica possibilità
politica. Perché, verrebbe da chiedersi, una forma di intrattenimento basata su una concezione così peculiare della politica nasce tra l’inizio e la metà del XX secolo, più o meno all’epoca in cui il fascismo vero e proprio si stava affermando in Europa? Per una specie di emulazione sul piano fantastico? Non esattamente. Il fatto è che il fascismo e i supereroi sono il prodotto di un’analoga situazione storica: qual è il fondamento dell’ordine sociale quando l’idea stessa di rivoluzione è stata esorcizzata? E, soprattutto, che ne è dell’immaginazione politica? Cominciamo con l’analizzare qual è il pubblico di riferimento dei supereroi dei fumetti. In gran parte, maschi bianchi in età adolescenziale o preadolescenziale. Vale a dire, individui che attraversano una fase della vita in cui probabilmente sono pieni di immaginazione e almeno un po’ ribelli, ma che allo stesso tempo vengono cresciuti e educati per ricoprire posizioni di autorità e di potere nel mondo e diventare padri, sceriffi, piccoli imprenditori, dirigenti, ingegneri. E che cosa imparano da queste storie che si ripetono all’infinito? Primo, che l’immaginazione e la ribellione portano alla violenza; secondo, che, come l’immaginazione e la ribellione, la violenza è divertentissima; terzo, che alla fine la violenza deve ritorcersi contro ogni eccesso di immaginazione e ribellione, altrimenti tutto va a rotoli. Queste cose vanno arginate! Ecco perché la creatività dei supereroi deve limitarsi ai costumi, alle macchine, alle case e ai vari accessori che usano. È in questo senso che la logica delle storie dei supereroi è profondamente, intimamente conservatrice. Alla fine, la divisione tra valori di sinistra e di destra ruota attorno al diverso approccio all’immaginazione. Per la sinistra, l’immaginazione, la creatività, e per estensione la produzione, la capacità di porre in essere nuove cose e nuovi assetti sociali, vanno sempre esaltate. Sono la fonte di tutto ciò che è prezioso al mondo. Per la destra sono pericolose; in ultima analisi sono forze del male. L’impulso creativo è anche un impulso distruttivo. Questi valori sono molto presenti nel freudianesimo popolare del tempo: l’Es è il motore della psiche, ma è anche amorale; se lasciato libero può scatenare un’orgia di distruzione. Questo è anche ciò che separa i conservatori dai fascisti. Per entrambi l’immaginazione libera può portare soltanto alla
violenza e alla distruzione. I conservatori vogliono difenderci da questa possibilità. I fascisti vogliono comunque liberarla. Aspirano a essere grandi artisti che dipingono con le menti, il sangue e i nervi dell’umanità, non diversamente dal modo in cui Hitler immaginava se stesso. Ciò significa che il piacere segreto del lettore non è solo il caos, ma il fatto stesso di avere una vita immaginaria. Può sembrare curioso che un genere artistico di qualsiasi tipo ci metta in guardia dai pericoli dell’immaginazione umana, ma questo ci aiuta anche a capire perché, nei posati anni quaranta e cinquanta, tutti pensavano che ci fosse qualcosa di vagamente peccaminoso nel leggere i fumetti. E spiega anche perché negli anni sessanta improvvisamente tutto è diventato innocuo, con l’avvento di supereroi televisivi sciocchi e camp come il Batman di Adam West e lo Spiderman dei cartoni animati del sabato mattina. Se il messaggio era che l’immaginazione ribelle andava benissimo a patto che fosse tenuta lontana dalla politica e confinata alle scelte di consumo (vestiti, automobili, di nuovo accessori), era un messaggio che anche i produttori potevano sposare senza difficoltà. Possiamo concludere: il tipico fumetto è apparentemente politico (parla di pazzi che cercano di conquistare il mondo), in realtà è psicologico e personale (parla del superamento dei pericoli di un’adolescenza ribelle), ma, alla fine, è comunque politico. 1 Se questo è vero, allora i nuovi film sui supereroi sono esattamente l’opposto. Sono apparentemente psicologici e personali, in realtà sono politici, ma alla fine sono comunque psicologici e personali. L’umanizzazione dei supereroi non è cominciata con i film. È partita negli anni ottanta e novanta con i fumetti, con Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller e Watchmen di Alan Moore, un sottogenere che potremmo chiamare superhero noir. All’epoca, i film di supereroi dovevano ancora fare i conti con l’eredità della tradizione camp degli anni sessanta, come la serie di Superman con Christopher Reeve o il Batman con Michael Keaton. Alla fine, però, anche il genere noir – cinematografico fin dall’inizio, almeno nelle aspirazioni – è arrivato a Hollywood. Possiamo dire che ha raggiunto il suo apice con Batman Begins, il primo capitolo della trilogia di Nolan. Nel film, Nolan sostanzialmente si pone la domanda: «E se uno come Batman esistesse davvero? Cosa può
spingere un membro rispettabile della società a vestirsi come un pipistrello e a girare per le strade in cerca di delinquenti?». Com’è prevedibile, gli stupefacenti giocano un ruolo importante in questo senso. Lo stesso vale per le malattie mentali e i culti religiosi più inquietanti. È strano che quando si parla del film nessuno sembra accorgersi del fatto che Bruce Wayne, nella versione di Nolan, è una personalità psicotica borderline. Quando è un privato cittadino è molto disturbato, incapace di farsi delle amicizie o di costruire relazioni amorose, disinteressato al lavoro a meno che non alimenti in qualche modo le sue morbose ossessioni. È talmente ovvio che l’eroe è pazzo, ed è altrettanto ovvio che il film parla della sua lotta con la pazzia, che non importa che i cattivi siano soltanto appendici del suo ego: Ra’s al Ghul (il padre cattivo), il boss della criminalità (l’uomo d’affari di successo), lo Spaventapasseri (che fa impazzire l’uomo d’affari). Non c’è nulla di particolarmente attraente in nessuno di questi personaggi. Ma non importa: sono soltanto frammenti e tessere della mente devastata dell’eroe. Di conseguenza, non dobbiamo identificarci con il cattivo per poi allontanarcene disgustati da noi stessi; possiamo semplicemente divertirci a guardare Bruce che lo fa al posto nostro. C’è anche un ovvio messaggio politico. O così sembra. Quando però si gira un film incentrato su personaggi così carichi di mito e di storia, nessun regista ha il controllo completo della materia. Il ruolo del regista è soprattutto quello di assemblatore. Nel film il cattivo principale è Ra’s al Ghul, che prima inizia Batman alla Lega delle ombre in un monastero in Bhutan e solo allora rivela il suo piano di distruggere Gotham per liberare il mondo dalla corruzione. Dal fumetto originale sappiamo infatti che Ra’s al Ghul (un personaggio creato, guarda caso, nel 1971) è un primitivista e un ecoterrorista determinato a ripristinare l’equilibrio della natura riducendo la popolazione mondiale del 99 per cento. Nolan cambia la storia facendo diventare Batman un allievo di Ra’s al Ghul. Da un punto di vista contemporaneo, la scelta ha una sua logica. Qual è infatti lo stereotipo mediatico che viene subito in mente (almeno dalle azioni dirette contro la World Trade Organization a Seattle) quando si pensa a un ragazzo ricco e privilegiato che, spinto da una specie di ineffabile senso di ingiustizia, si veste di nero, si mette una maschera e scende in strada per scatenare violenza e caos,
facendo però in modo di non uccidere mai nessuno? E che fa tutto questo perché ispirato dagli insegnamenti di un guru convinto che l’umanità debba tornare all’età della pietra? Nolan fa del suo eroe una specie di discepolo Black Bloc di John Zerzan che si allontana dal suo mentore quando si rende conto delle conseguenze di un eventuale ritorno all’Eden. In realtà, nessuno dei cattivi dei tre film vuole dominare il mondo. Nessuno di loro ambisce ad avere un potere sugli altri o a creare nuove regole. Anche i loro tirapiedi sono espedienti temporanei (e alla fine pianificano sempre di ucciderli). I cattivi di Nolan sono sempre anarchici. Ma sono anche anarchici molto particolari, di un tipo che esiste soltanto nella fantasia del regista: anarchici che credono che la natura umana sia fondamentalmente malvagia e corrotta. Joker, il vero eroe del secondo capitolo della trilogia, rende tutto ciò molto esplicito: è sostanzialmente l’Es che si fa filosofo. Joker è senza nome, non ha origini se non quelle che lui stesso inventa ogni volta a suo capriccio; non è neanche chiaro che poteri abbia e da dove vengano. Eppure il suo è un potere inesorabile. Joker è pura forza di autocreazione, una poesia che si scrive da sola. Il suo scopo nella vita coincide in primo luogo con un bisogno ossessivo di provare agli altri che tutto è e può essere solo poesia – e, in secondo luogo, che la poesia è il male. Siamo ritornati quindi al tema centrale dell’universo dei supereroi così come era stato originariamente concepito: una riflessione prolungata sui pericoli dell’immaginazione umana, dove il desiderio del lettore di calarsi in un mondo dominato da imperativi artistici è la prova evidente del fatto che l’immaginazione va sempre controllata e arginata. Ne viene fuori un film emozionante, con un cattivo allo stesso tempo simpatico – è fin troppo ovvio che si diverte – e innegabilmente terrificante. In Batman Begins c’è soltanto un sacco di gente che parla di paura. Il cavaliere oscuro fa paura veramente. Ma anche il secondo episodio fallisce nel momento in cui tocca il tema della politica popolare. Il Popolo interviene solo all’inizio attraverso una serie di imitatori di Batman che spuntano in tutta la città, ispirati dall’esempio del cavaliere oscuro. Ovviamente fanno tutti una brutta fine e la cosa muore lì. Da quel momento in poi, il Popolo viene rimesso al suo posto e diventa Pubblico, che non diversamente dalla folla nell’anfiteatro romano esiste soltanto per giudicare l’esibizione dei protagonisti: pollice su per
Batman, pollice giù per Batman, pollice su per il procuratore distrettuale ecc. Il finale, in cui Bruce e il commissario Gordon decidono di fare di Batman un capro espiatorio e di creare un falso mito intorno al martirio di Harvey Dent, non è altro che l’ammissione che la politica coincide con l’arte del racconto. Joker aveva ragione. Fino a un certo punto, però. Come sempre, la redenzione sta nel fatto che la violenza e l’inganno possono ritorcersi contro se stessi. Avrebbero fatto bene a lasciare tutto così. Il problema di questa concezione della politica è che semplicemente non è vera. La politica non è solo l’arte di manipolare le immagini sostenuta dalla violenza. Non è un duello tra impresari di fronte a un pubblico che crede a qualsiasi cosa gli venga presentata in modo artistico. Certo, potrà sembrare così a un ricchissimo regista di Hollywood. Ma tra le riprese del primo e del secondo film la storia è intervenuta in modo decisivo dimostrando quanto sia sbagliata questa visione. L’economia è entrata in crisi. Non per le manipolazioni di una fantomatica società segreta di monaci guerrieri, ma perché un gruppo di manager della finanza provenienti dallo stesso mondo ovattato di Nolan e convinti a loro volta dell’infinita manipolabilità umana si erano sbagliati. C’è stata una risposta popolare di massa. Questa risposta non ha assunto la forma di una ricerca spasmodica di un salvatore messianico mista a esplosioni di violenza nichilista; 2 sempre più spesso si è incarnata in una serie di movimenti popolari veri e propri, perfino rivoluzionari, che hanno rovesciato regimi in Medio Oriente e occupato le piazze di tutto il mondo, da Cleveland a Karachi, nel tentativo di creare nuove forme di democrazia. Il potere costituente è tornato, e lo ha fatto in forma creativa, radicale, e sorprendentemente non violenta: proprio il tipo di situazione che un universo di supereroi non è in grado di affrontare. Nel mondo di Nolan, un fenomeno come Occupy può essere soltanto il prodotto delle ingegnose manipolazioni di qualche gruppuscolo che persegue interessi inconfessabili. Nolan avrebbe fatto meglio a lasciar perdere questi temi, ma evidentemente non ha resistito. Il prodotto finale è in gran parte incongruente. Il film in sostanza è l’ennesimo dramma psicologico travestito da dramma politico. La trama è contorta e quasi non varrebbe la pena raccontarla: Bruce Wayne, ancora una volta psicologicamente instabile senza il suo alter ego, è diventato
un recluso. Un uomo d’affari rivale incarica Catwoman di rubare le sue impronte digitali per portargli via tutti i soldi, ma poi scopriamo che è manipolato da un supercattivo mascherato, un mercenario di nome Bane. Bane è più forte di Batman, ma è sostanzialmente un infelice: si strugge d’amore (non corrisposto) per Talia, la figlia di Ra’s al Ghul, ed è sfigurato perché da bambino è stato ingiustamente rinchiuso e torturato in una prigione sotterranea; per non svenire tra atroci tormenti deve portare sempre una maschera. Il pubblico può identificarsi con un personaggio del genere soltanto per compassione. Nessuna persona sana di mente vorrebbe essere Bane. Ma forse il punto è proprio questo: metterci in guardia dai pericoli di un’eccessiva compassione per gli sventurati. Bane, infatti, è anche un rivoluzionario carismatico che, dopo essersi sbarazzato di Batman, smaschera il falso mito di Harvey Dent, libera i detenuti delle carceri di Gotham e sobilla la popolazione della città, sempre molto impressionabile, perché saccheggi e bruci le ville dell’1 per cento e trascini i proprietari davanti ai tribunali rivoluzionari (lo Spaventapasseri – particolare divertente – riappare come Robespierre). Il suo vero intento, però, è ucciderli tutti con una bomba nucleare ricavata dalla riconversione di una specie di progetto energetico verde. Perché? Non si sa. Forse anche Bane è un ecoterrorista primitivista, come Ra’s al Ghul (da cui in effetti sembra aver ereditato la guida dell’organizzazione). Forse vuole fare colpo su Talia portando a termine l’opera del padre. O forse è solo malvagio, senza altre spiegazioni. Ma c’è un’altra domanda: perché Bane aizza il Popolo a una rivoluzione sociale se dopo qualche settimana vuole far saltare tutto in aria con una bomba? Anche qui, non si sa. A un certo punto dice che prima di annientare qualcuno bisogna dargli speranza. Forse, allora, il messaggio è che i sogni e le utopie portano soltanto alla violenza e al nichilismo? Probabilmente sì, ma è una conclusione assai poco convincente, dato che l’idea di uccidere tutti la precede. La rivoluzione è solo un elemento decorativo che arriva in un secondo momento. In realtà, le sorti della città ci interessano soltanto come eco materiale di quella che è sempre stata la questione centrale, ovvero che cosa succede nella mente torturata di Bruce Wayne. Dopo essere stato messo fuori gioco da Bane a metà del film, Batman viene gettato nella stessa fetida prigione in cui era
stato rinchiuso il suo nemico. La prigione si trova in fondo a un pozzo, in modo che la luce del sole tormenti costantemente i reclusi, ma è impossibile arrampicarsi e uscirne. Bane, però, si assicura che Batman si rimetta in forze e che tenti invano la scalata: in questo modo capirà che la sua amata Gotham verrà distrutta per colpa sua. Solo allora Bane gli concederà la grazia di ucciderlo. È un po’ forzato, ma dal punto di vista psicologico possiamo dire che ha una sua logica. Trasposta sul piano della città, però, questa logica salta completamente: che senso ha dare speranza a un’intera popolazione e poi raderla al suolo? Il primo è un atto di crudeltà; il secondo è un atto puramente casuale e gratuito. Ma non solo: gli autori e il regista reiterano la metafora facendo in modo che Bane riservi la stessa sorte al Dipartimento di polizia di Gotham, che – in una forzatura narrativa talmente sciocca da violare perfino gli standard di plausibilità di un fumetto – viene attirato quasi al completo nei sotterranei della città e intrappolato da una serie di bombe ben posizionate. Per qualche oscuro motivo, però, i prigionieri possono ricevere viveri e acqua, forse per poter essere a loro volta torturati dalla speranza. Succedono anche altre cose, ma sono tutte proiezioni dello stesso tipo. Questa volta Catwoman interpreta il ruolo che solitamente viene assegnato al pubblico: all’inizio si schiera con il progetto rivoluzionario di Bane; poi, per motivi che non vengono chiaramente spiegati, cambia idea e lo manda all’aria. Batman e la polizia di Gotham riemergono dalle loro rispettive caverne e uniscono le forze per combattere gli Occupanti malvagi assiepati davanti alla Borsa. Alla fine, Batman inscena la propria morte sbarazzandosi della bomba e Bruce ricompare a Firenze con Catwoman. Nasce una nuova falsa leggenda di martirio e la popolazione di Gotham viene pacificata. In caso di ulteriori problemi, sappiamo che c’è un potenziale erede di Batman, un agente di polizia disilluso che si chiama Robin. Tutti tirano un sospiro di sollievo perché finalmente il film si conclude. Dovrebbe esserci un messaggio in tutto questo? Se c’è, somiglia a qualcosa del genere: «È vero, il sistema è corrotto, ma è tutto quello che abbiamo, e comunque le figure di autorità possono essere considerate fidate se sono già rimaste scottate e hanno sopportato atroci sofferenze» (i poliziotti normali lasciano i bambini a morire sui ponti; se invece sono stati sepolti vivi per qualche settimana possono esercitare legittimamente la violenza). E ancora: «È
vero, l’ingiustizia esiste e le sue vittime meritano la nostra compassione, ma entro limiti ragionevoli. È molto meglio fare beneficienza che risolvere i problemi strutturali. Per questa via sta la pazzia» (Shakespeare, Re Lear, atto III, scena IV, 17-22). Nell’universo di Nolan, infatti, qualsiasi tentativo di affrontare un problema strutturale, anche attraverso la disobbedienza civile non violenta, è una forma di violenza, perché non può essere nient’altro. La politica mediata dall’immaginazione è intrinsecamente violenta, e dunque non c’è nulla di sconveniente se la polizia reagisce sbattendo ripetutamente sull’asfalto la testa dei manifestanti, anche se sembrano pacifici. Come risposta a Occupy, è a dir poco patetica. Nel 2008, quando uscì Il cavaliere oscuro, si discuteva se il film in realtà fosse una metafora della guerra al terrorismo: fino a che punto i buoni (cioè noi) possono adottare i metodi dei cattivi? Probabilmente gli autori avevano riflettuto su questi temi ed erano comunque riusciti a fare un buon film. Ma la guerra al terrorismo è stata effettivamente una battaglia tra reti segrete e spettacoli manipolativi. È cominciata con una bomba ed è finita con un assassinio. Potremmo quasi dire che è stata un tentativo, da entrambe le parti, di creare una versione fumettistica dell’universo. Una volta che il vero potere costituente è entrato in scena, quell’universo è diventato vittima della sua incongruenza ed è crollato, scivolando nel ridicolo: mentre scoppiavano rivoluzioni in tutto il Medio Oriente, gli Stati Uniti continuavano a spendere miliardi di dollari per combattere contro un’accozzaglia di seminaristi in Afghanistan. Purtroppo per Nolan, e con buona pace dei suoi grandi poteri di manipolazione, la stessa cosa è successa al suo mondo quando un timido accenno di potere popolare si è affacciato a New York.
Note 1
Vorrei sottolineare che la mia analisi si concentra sui fumetti più mainstream, soprattutto dei primi decenni dalla nascita di questo genere. Quando ho pubblicato questo contributo per la prima volta sono stato molto criticato per non aver preso in considerazione gli esemplari più sofisticati della letteratura a fumetti: Batman di Frank Knight, la serie di Watchmen, V for Vendetta e altri, più esplicitamente politici. Anche i fumetti mainstream nel tempo sono diventati più esplicitamente politici (Lex Luthor è addirittura diventato presidente!). Ma, se si vuole comprendere l’essenza di un genere popolare, non se ne esaminano gli esemplari più sofisticati e «alti». Se si vuole comprendere l’essenza di un genere popolare, si guardano le schifezze. 2
A meno che si voglia considerare il caso di un tipo che aveva chiaramente visto troppi film di Batman.
Convertito in ebook nel mese di febbraio 2016 presso Nascafina servizi editoriali www.nascafina.it