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Il bunker di Hitler
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a leggenda dei tre Magi che hanno visitato la grande volta e scoperto il centro della idea” è profondamente esoterica. Come nessuno sa chi sia lo scrittore dell’altra leggenda meravigliosa di Hiram, nessuno conosce chi abbia scritto questa.... Ne parliamo grazie ad un interessante articolo di Giuseppe Di Re. Nel lontano Perù, ad una altitudine di oltre 4.000 metri, a 35 chilometri dalla città di Puna, vicino le rive del lago Titicaca, poco distante dalla strada che conduce a Copacabana-La Paz, un antico ed enigmatico sito è stato riportato alla luce nel 1996 da Jose Luis Delgado Mamani, una guida turistica locale. Nella lingua locale viene chiamato “Puerta de Hayu Marca“, ma è conosciuto anche come “La porta degli Dei” o anche “La porta delle Stelle”. Un sito simile esiste pure a Tiahuanaco, sempre in Bolivia, vicino alle maestose rovine megalitiche di “Puma Punku”, ed è chiamata la “Porta del Sole”. Cosa sono i portali e cosa rappresentano? Conosciamo l’affascinante storia degli antichi faraoni. Tuttavia le vere origini dei faraoni così come quelle dello stesso Egitto e di alcune terre leggendaria menzionate dagli egizi stessi non vengono divulgate e la letteratura contemporanea manca di informazioni adeguate. Una delle mitiche terre citate innumerevoli volte dagli egizi e da altre culture dell’antichità – e che fu considerata un puro mito per svariati decenni è il “Paese di Punt“, o “Terra di Punt”. La leggendaria terra di Punt è indicata in antichi testi egizi come “la Terra degli Dei“, ed è una regione che abbondava in grandi ricchezze ed enormi risorse. Ne parliamo accuratamente in un dossier che speriamo incuriosisca voi tanto quanto noi. Quello di Baalbek è uno dei siti archeologici più importanti presenti sul vasto spazio terrestre. Si trova nella fertile valle della Beqa in Libano, a circa 65 km ad est della capitale Beirut. Le monumentali rovine di Baalbek sono solitamente attribuite all’Impero Romano, poiché per un certo periodo esso vi stanziò e vi costruì alcuni importanti monumenti. La storia di Baalbek però è molto più antica e abbraccia vicende che si susseguirono per più di 5.000 anni. Si sa ad esempio che nel 2.000 a.C. Baalbek era abitata dai Cananei, identificati dai greci come i Fenici, che costruirono vari monumenti tra cui un altare e un santuario dedicato al dio Baal. Scopriamo insieme il fascino di questo posto misterioso.GILGAL REFA’IM è un antico monumento megalitico costituito da più cerchi concentrici in pietra, caratterizzati da un tumulo al centro alto circa 4,5 m: è collocato sulle alture del Golan a circa 16 km dalla costa orientale del mare di Galilea, al centro di un ampio altipiano dove sono presenti numerosi dolmen. Il monumento è composto da oltre 42.000 rocce basaltiche sistemate in cerchi concentrici. Il sito risale alla prima età del Bronzo (3000 a.C. - 2750 a.C.). Leggete le prossime pagine e scoprirete con noi gli enigmi che nascondo il monumento. Dario Maria Gulli
Bimestrale - Marzo 2018 - Anno III - n°22 www.glienigmi.it/enigmistoria Direttore Editoriale
GIULIO FASCETTI Direttore testata e progetto editoriale
DARIO GULLI Direttore responsabile
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MARCO PERSICO Impaginazione grafica
MARCO PERSICO E DANILO PERSICO La redazione GIANLUCA NERI, VINCENZO TRAPANI, MARCO ROSI, MARCO ROSI, CELINE RUSSO Realizzazione STUDIO DG officeallrightscompany@aol.com SERVIZIO ABBONATI E ARRETRATI Dal Martedì al Giovedì dalle 9:30 alle 17:30 Tel:. 06.42.90.38.54 - abbonameti@zonafrancaedizioni.it
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Gli enigmi della Storia
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SOMMARIO
Tutti i contenuti della rivista
IL BUNKER DI HITLER L’FBI RIBALTA LA STORIA DEL NAZISMO: “HITLER NON MORÌ NEL BUNKER MA FUGGÌ CON EVA BRAUN IN ARGENTINA” . UNA SQUADRA DIRETTA DALL’EX CIA BOB BAER HA RIPERCORSO PER HISTORY CHANNEL IL TRAGITTO CHE AVREBBE COMPIUTO IL DITTATORE TEDESCO DA BERLINO A BARILOCHE, VIA SPAGNA. DECLASSIFICATI OLTRE SETTECENTO DOCUMENTI SULLE INDAGINI SEGRETE DEGLI AGENTI AMERICANI DAL 1945 AL 1950.
RUBRICHE
06 La Storia in una foto La Marcia del Sale
08 Anniversari e Storia Tutti gli avvenimenti più importanti del passato
64 Mostre e Storia James Nachtwey Memoria
66 Recensioni libri Sotto il segno della bipenne
Articoli
12 Scoperte e Storia GILGAL REFĀ’ĪM, LA CITTÀ MEGALITICA COSTRUITA DAI GIGANTI Si tratta di un antico monumento megalitico costituito da più cerchi concentrici in pietra, caratterizzati da un tumulo al centro alto circa 4,5 m: è collocato sulle alture del Golan a circa 16 km dalla costa orientale del mare di Galilea, al centro di un ampio altipiano dove sono presenti numerosi dolmen.
16 Enigmi irrisolti e Storia L’FBI RIBALTA LA STORIA DEL NAZISMO Una squadra diretta dall’ex CIA Bob Baer ha ripercorso per History Channel il tragitto che avrebbe compiuto il dittatore tedesco da Berlino a Bariloche, via Spagna. Declassificati oltre settecento documenti sulle indagini segrete degli agenti americani dal 1945 al 1950.
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30 Territori e Storia MADA ‘IN SALEH, MERAVIGLIA DELL’ARCHITETTURA
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In tempi antichi la città era abitata da Thamudeni e Nabatei, ed era conosciuta con il nome di Hegra.
36 Culti e Storia IL CULTO DEL TORO NEL MEDITERRANEO ANTICO Nell'antico bacino del Mar Mediterraneo, in un'epoca ormai dimenticata dall'uomo, gli Dèi erano venerati, adorati e rappresentati nelle più svariate forme e modalità.
46 Religione e Storia LA LEGGENDA DEI TRE MAGI SACERDOTI UNIVERSALI Questa leggenda, tradotta dal francese, e che si chiama “Leggenda dei tre Magi che hanno visitato la grande volta e scoperto il centro della idea” è profondamente esoterica.
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52 Tradizioni e Storia GLI ANTICHI MAYA FACEVANO LE PIRAMIDI PER INNALZARE MUSICA AL DIO DELLA PIOGGIA I ricercatori hanno scoperto che molte piramidi in Messico sono state create dagli antichi Maya per creare “una caduta a pioggia” musicale, per comunicare con il loro dio della pioggia.
54 Archeologia e Storia
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L’INCREDIBILE SITO ARCHEOLOGICO DI BAALBEK IN LIBANO Baalbek in Libano è uno dei siti archeologici più importanti del Vicino Oriente, dichiarato nel 1984 Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO.
60 Luoghi e Storia LA LEGGENDARIA PUNT, LA TERRA DEGLI DÈI La leggendaria terra di Punt è indicata in antichi testi egizi come “la Terra degli Dei”, ed è una regione che abbondava in grandi ricchezze ed enormi risorse.
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La Storia in una foto
LA MARCIA DEL SALE La Marcia del Sale fu una manifestazione non-violenta che si svolse dal 12 marzo al 5 aprile 1930 in India ad opera del Mahatma Gandhi, nell'ambito della Satyagraha. La manifestazione si svolse contro la tassa sul sale, su cui vigeva un assoluto monopolio imperiale, imposta dal governo britannico a tutti i sudditi dell'India, residenti europei compresi. Consistette in una marcia di oltre duecento miglia (320 km) a piedi da Ahmedabad a Dandi, nello stato del Gujarat, sull'Oceano Indiano, con lo scopo di raccogliere una manciata di sale dalle saline, rivendicando simbolicamente il possesso di questa risorsa al popolo indiano.
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Gli enigmi della Storia
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La Storia in una foto
Gli enigmi della Storia
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Anniversari e Storia
a cura della redazione
PASSATO PROSSIMO Programma Apollo: la NASA lancia la Apollo 9 per sperimentare il modulo lunare Apollo 9 fu una missione di volo nello spazio nell'ambito del programma Apollo. Obiettivo di questa missione fu il test del modulo lunare in condizioni reali, cioè nell'orbita terrestre. Durante la missione vennero eseguite la manovra rendezvous nonché di aggancio tra modulo di comando e modulo lunare. Il razzo Saturn V venne lanciato da Cape Canaveral, Florida il 3 marzo 1969 alle ore 16:00 UTC. Per semplificare la comunicazione venne usata per la prima volta un codice identificativo per la capsula e per il modulo lunare: Gumdrop per il modulo di comando mentre per il modulo lunare venne scelto il nome di Spider. Entrambe le denominazioni si riferivano alla forma dei rispettivi veicoli che assomigliavano ad una caramella di gomma e ad un ragno. Con ciò venne ripresa una tradizione interrotta con la missione di Gemini 3, cioè che gli astronauti potessero scegliere un nome per i loro veicoli spaziali. La tradizione infatti era stata interrotta come reazione della NASA che non fu contenta della denominazione Molly Brown dimostrando poca comprensione per il senso dell'umorismo che stava dietro la motivazione di tale scelta. Anche in occasione del successivo volo di Apollo 10 non sarà contenta della scelta degli astronauti, tanto che pretenderà con insistenza una denominazione seria per la missione dell'Apollo 11. Apollo 9 fu un pieno successo. Oltre che il modulo lunare e la tuta spaziale del programma Apollo furono validati per voli nello spazio gli ultimi oggetti dell'equipaggiamento necessario per un allunaggio. Vennero inoltre eseguite tutte le manovre rendezvous e di aggancio necessarie per tale missione. La malattia dello spazio di Schweickart aveva sì comportato un accorciamento della durata delle attività extraveicolari, ma tale rischio veniva valutato sostenibile. Infatti l'indisposizione venne riscontrata esclusivamente all'inizio di un volo nello spazio, tanto che un astronauta affetto da tale inconveniente sarebbe guarito prima di giungere sulla Luna. All'interno della NASA vennero dunque addirittura avanzate delle proposte con l'intenzione di far allunare la successiva missione Apollo 10 e pertanto di portarvi il primo uomo sulla Luna. La direzione decise comunque di mantenere i programmi concordati, fatto che venne espressamente sottolineato il 24 marzo quando venne dato l'annuncio che la missione successiva sarebbe stata la combinazione dei test eseguiti nelle missioni dell'Apollo 8 ed Apollo 9: un volo verso la Luna con collaudo del modulo lunare nell'orbita lunare.
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Anniversari e Storia
accade a marzo
1918 - Germania, Austria e Russia firmano il Trattato di Brest-Litovsk, che pone fine al coinvolgimento russo nella prima guerra mondiale, e porta all'indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia Il trattato di Brest-Litovsk fu un trattato di pace stipulato tra la Russia e gli Imperi centrali il 3 marzo 1918 nell'odierna Bielorussia, presso la città di Brėst (un tempo conosciuta come "Brest-Litovsk"). Esso sancì la vittoria degli Imperi centrali sul Fronte orientale, la resa e l'uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale. Anche se la fine della guerra portò a esiti diversi rispetto a quanto previsto dal trattato, esso fu, seppur non intenzionalmente, di fondamentale importanza nel determinare l'indipendenza di Ucraina, Finlandia, Estonia, Lettonia, Bielorussia, Lituania e Polonia. Il trattato segna il ritiro definitivo della Russia dalla prima guerra mondiale come un nemico dei suoi co-firmatari, con condizioni durissime ed inaspettatamente umilianti: oltre a dover pagare una cospicua indennità di guerra (circa sei miliardi di marchi), la Russia perde la Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l'Estonia, la Finlandia, l'Ucraina e la Transcaucasia; complessivamente la pace di Brest-Litovsk strappa alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione) e la priva di un terzo delle sue strade ferrate, del 73% dei minerali ferrosi, dell'89% della produzione di carbone e di 5.000 fabbriche. A parte l'Ucraina, che costituiva la zona più grande ed era la culla dell'impero russo, il resto dell'area strappata al precedente Impero russo era costituita da territori che la Russia aveva assorbito e conquistato, abitato da popolazioni che non parlavano russo.
1944 - A Balvano si consuma la "Sciagura del treno 8017", la più grave sciagura ferroviaria italiana con oltre 500 morti Il disastro di Balvano ebbe luogo il 3 marzo 1944 nella galleria "Delle Armi" nei pressi della stazione di Balvano-Ricigliano, in provincia di Potenza. È anche conosciuto come "Sciagura del treno 8017" dal numero del convoglio coinvolto. Nella tragedia morirono circa 500 persone, benché le stime siano tuttora oggetto di discussione e il numero potrebbe essere maggiore. Il disastro di Balvano è il più grave incidente ferroviario per numero di vittime accaduto in Italia e uno dei più gravi e misteriosi disastri ferroviari della storia.Il bilancio della tragedia è ancora oggi impossibile da accertare e oggetto di controversie: quello ufficiale parlava di 501 passeggeri, 8 militari e di 7 ferrovieri morti, ma, alcune ipotesi arrivano a considerarne oltre 600. Molte vittime tra i passeggeri non vennero riconosciute. Furono tutti allineati sulla banchina della stazione di Balvano e poi sepolti senza funerali nel cimitero del paesino, in quattro fosse comuni. Gli agenti ferroviari invece vennero sepolti a Salerno. Molti dei sopravvissuti riportarono lesioni psichiche e neurologiche. È la più grave sciagura ferroviaria italiana e una delle più gravi al mondo. Le cause della tragedia furono molteplici: la giornata era poco ventosa, per cui la galleria non godeva della normale ventilazione naturale, e l'umidità della foschia notturna aveva bagnato i binari, rendendoli scivolosi e ardui da percorrere per un treno così pesante. A questi si affiancava la mancata vigilanza delle autorità competenti, che avevano improvvidamente tollerato il sovraccarico del treno e la presenza a bordo di viaggiatori clandestini. Inoltre, per una serie di cause contingenti, il treno era stato composto con due locomotive in testa, invece che con una in testa e una in coda come nelle composizioni tipiche. Anche solo aver posto le locomotive separate avrebbe potuto contribuire a evitare la tragedia. Soprattutto però la responsabilità della tragedia venne imputata alla scarsa qualità del carbone fornito dal Comando Militare Alleato. Questo carbone, di qualità nettamente inferiore a quello tedesco usato in precedenza, conteneva molto zolfo, che genera il solfuro di carbonile quando brucia in forte difetto d'aria e in presenza dell'ossido di carbonio. Mancando un efficiente drenaggio dei fumi, all'apertura della bocca di lupo del forno i gas ritornavano in cabina, intossicando il personale e rendendo difficile la regolazione del forno, una situazione che poteva causare improvvisi cali di pressione alla caldaia. Senza uno stretto controllo dell'alimentazione, la capacità di trazione scadeva notevolmente, fino a far fermare la macchina in salita e a rendere impossibile la compensazione dello slittamento sulle rotaie.
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Anniversari e Storia
a cura della redazione
PASSATO REMOTO PRIMA PUBBLICAZIONE DEL TRATTATO DI ASTRONOMIA SIDEREUS NUNCIUS, SCRITTO DA GALILEO GALILEI
1610
Il Sidereus Nuncius (che si potrebbe tradurre in italiano Annunciatore Celeste) è un trattato di astronomia scritto da Galileo Galilei e pubblicato il 12 marzo 1610. Grazie alla sua competenza nel fabbricare lenti, combinata con la perizia dei mastri vetrai di Murano, e grazie a un munifico stipendio accordatogli dal Senato veneziano dopo una magistrale dimostrazione delle potenzialità militari del "cannone occhiale" effettuata dal campanile di San Marco il 21 agosto 1609, Galileo, che allora insegnava all'università di Padova, si dedicò con eccezionale alacrità al perfezionamento del suo "cannocchiale" e poté finalmente puntarlo verso il cielo utilizzandolo altrettanto magistralmente in campo astronomico. Durante le notti serene dell'autunno e dell'inverno successivi, scrutò sbalordito la volta stellata effettuando osservazioni talmente rivoluzionarie da far crollare l'intera impalcatura dell'astronomia e della cosmologia aristotelico-tolemaica. Prima di tutto individuò delle rugosità (montagne e crateri) sulla superficie della Luna, fino ad allora ritenuta completamente liscia e composta di materia celeste incorruttibile. Poi, con l'osservazione delle luci e delle ombre proiettate dalla Terra sulla Luna, capì il movimento relativo fra i due corpi celesti. Passando quindi all'analisi della Via Lattea, la identificò come un enorme ammasso di stelle e corpi celesti, raggruppati a mucchi. Infine focalizzò la sua attenzione su Giove, di cui scoprì 4 satelliti naturali battezzati prima "pianeti cosmici" e poi "pianeti medicei" e, correlando la natura di tali satelliti a quella della Luna, stabilì che Giove era un pianeta simile alla Terra fra altri pianeti simili. Nel suo latino asciutto e misurato, Galileo annunziò al mondo queste strabilianti scoperte nel Sidereus Nuncius. Il suo trattato ebbe una eco immediata e vastissima divenendo un pilastro della "nuova" scienza. Già all'indomani della sua pubblicazione l'ambasciatore inglese a Venezia, sir Henry Wotton, inviava a re Giacomo I una copia del volume anticipandogliene il contenuto ed evidenziandone la clamorosa importanza: «di queste cose, qui si discute in ogni dove... E l'autore rischia di diventare o eccezionalmente famoso o eccezionalmente ridicolo». Nonostante qualche inevitabile polemica, Galileo vide riconosciute le sue scoperte da Keplero, divenne famoso in tutto il mondo (perfino in Cina, dove fu conosciuto come Chia-Li-Lueh) e, dopo il ritorno in Toscana come matematico e filosofo di corte del granduca Cosimo II de' Medici, fu accolto in pompa magna a Roma, dove entrò a far parte della prestigiosissima Accademia dei Lincei. Qui tuttavia cominciarono i suoi problemi con gli accademici, laici, dei Lincei e con il Sant'Uffizio, la congregazione pontificia che si occupava delle eresie. I primi erano invidiosi dei successi di Galileo, erano scettici sull'affidabilità del nuovo strumento di osservazione (il telescopio), ed erano ancorati alla teoria geocentrica, che insegnavano da anni e che era molto più semplice da verificare. Saranno questi, nella persona dello scienziato Cesare Cremonini, a rifiutarsi di guardar dentro al telescopio, mentre i religiosi come il cardinale Roberto Bellarmino (poi Santo e Dottore della Chiesa) presero molto sul serio le innovazioni introdotte dallo scienziato. Furono proprio gli scienziati dei Lincei a spostare la questione sul piano teologico, asserendo che se la teoria eliocentrica, attribuita a Niccolò Copernico (1473-1543), fosse stata vera, avrebbe contrastato con il brano dell'Antico Testamento in cui si afferma che il Sole fu "fermato" da Dio per un giorno (Gs 10,12-13).
1088 - ELEZIONE DI PAPA URBANO II
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Urbano II de Châtillon, nato Ottone (o Oddone, Odo, or Eudes) de Châtillon detto di Lagery (Châtillon-sur-Marne, 28 luglio 1040 circa – Roma, 29 luglio 1099), è stato il 159º papa della Chiesa cattolica dal 1088 alla morte. Nato intorno al 1040 dalla nobile famiglia francese de Châtillon, a Lagery (nei pressi di Châtillon-sur-Marne), venne educato nelle scuole ecclesiastiche. Studiò a Reims, dove successivamente divenne arcidiacono, sotto la guida del suo maestro ed amico tedesco Brunone di Colonia (San Bruno). Sotto l'influenza di Brunone, lasciò l'incarico ed entrò nell'Abbazia di Cluny dove divenne priore. Nel 1077 fu tra gli accompagnatori dell'abate di Cluny a Canossa presso papa Gregorio VII. Nel 1078, Gregorio VII lo convocò in Italia e lo nominò vescovo di Ostia e Velletri, succedendo a Pier Damiani. Poi fu nominato legato pontificio per la Germania, nella controversia tra la Santa Sede e l'imperatore Enrico IV. In Germania Ottone si adoperò efficacemente a sostegno delle riforme gregoriane. Ottone fu tra i pochi che Gregorio indicò come suoi possibili successori al Soglio di Pietro. Alla morte di Gregorio VII venne eletto però Desiderio, abate di Montecassino, che prese il nome di Vittore III. Il pontificato durò poco e fu molto difficile, in quanto il suo potere era usurpato a Roma dall'antipapa Clemente III, sostenuto dall'imperatore. Dopo sedici mesi, il 16 settembre 1087 Vittore III morì. Il 12 marzo 1088 nel corso di un piccolo conclave, di circa 40 tra cardinali ed altri prelati, tenutosi a Terracina, fu eletto Papa Ottone che assunse il nome di Urbano II. Il 3 luglio 1089entrò trionfalmente a Roma mentre l'antipapa Clemente III fuggì a Tivoli.
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Anniversari e Storia
accade a marzo
FEDERICO III DI SICILIA
camerario Manfredi Maletta; Noto, difesa valorosamente da Ugolino Callari, compare dello stesso Federico, veniva infine a patti con Roberto d'Angiò. Messina, difesa dai Palizzi, tuttavia resisteva all'assedio angioino e Federico riportava una notevole vittoria nella piana di Falconara (Trapani), facendo prigioniero Filippo di Taranto. Federico III fu intimo amico del catalano Arnaldo da Villanova, accolse alla sua corte i francescani spirituali perseguitati e i fraticelli. Il mistico Raimondo Lullo ripose in lui molte speranze per un rinnovamento del cristianesimo. Egli stesso interessato alla mistica, Federico fece della sua corte un focolare di dibattiti filosofici e religiosi, nel quale interloquivano filosofi aristotelici, pensatori ebrei, alchimisti, astrologi, e anche praticanti di magia. Anche se si scontrò spesso con le autorità ecclesiastiche, Federico non era mosso da uno spirito anticristiano, quanto piuttosto dall'ansia di acquisire conoscenze sempre nuove e dalla convinzione che il mondo, ormai vecchio, si stava rinnovando.
Federico d'Aragona, o Federico III di Sicilia (o di Trinacria) (Barcellona, 13 dicembre 1273 o 1274 – Paternò, 25 giugno 1337), è stato reggente aragonese in Sicilia dal 1291 al 1295, Re di Sicilia - come Federico III- dal 1296 al 1302 e poi di Re di Trinacria dal 1302 alla sua morte. Federico riprese le guerre del Vespro e, prendendo l'iniziativa nei confronti degli Angioini, non solo conservava la Sicilia ma portava la guerra in Calabria e nel napoletano. Allora Bonifacio VIII, agli inizi del 1297, convocò a Roma sia Giacomo II che Carlo II d'Angiò e li spronò a riconquistare la Sicilia secondo il trattato di Anagni; dovettero abbandonare la Sicilia, per ordine di Giacomo, sia Giovanni da Procida che Ruggero di Lauria, che divenne ammiraglio della flotta alleata anti-siciliana e alla fine anche la regina madre Costanza dovette abbandonare il figlio prediletto Federico e raggiungere Giacomo a Roma. Giacomo intervenne, a fianco degli Angioini, contro il fratello Federico e i Siciliani e con la sua flotta aragonese affiancata da quella napoletana, a Capo d'Orlando, nel luglio del 1299, sconfisse Federico che si riuscì a salvare con solo 17 galee. Giacomo, l'anno dopo, visto che il fratello continuava a resistere, fece ritorno in Aragona. La guerra fu proseguita con successo da Roberto d'Angiò, nominato da Carlo II vicario generale in Sicilia, e suo fratello Filippo I di Taranto, con la conquista di alcuni importanti centri nella Sicilia orientale: nell'ottobre 1299 Catania, per la ribellione dei suoi nobili cittadini Virgilio Scordia e Napoleone Caputo, passava in mano angioina; Paternò dopo un breve assedio veniva consegnata dal conte
515 a.C.
VIENE COMPLETATA LA COSTRUZIONE DEL TEMPIO DI GERUSALEMME
Il Tempio di Gerusalemme, o Tempio Santo, fu un insieme di strutture site sul Monte del Tempio nella Città Vecchia di Gerusalemme, sito attuale della Cupola della Roccia. Il Tempio, ricostruito diverse volte nel corso dei secoli, funzionò come luogo di culto per gli Israeliti ed infine per gli ebrei ivi stanziati, l'edificio sacro più importante dell'ebraismo. La parola ebraica per la vera e propria costruzione è Beit HaMikdash o Beit haMiqdash, ovvero la casa della Santificazione, tuttavia essa è indicata nella Bibbia ebraica anche con altri nomi quali Beit A-donai, ovvero "casa di Dio" o semplicemente Beiti ovvero la Mia casa (di Dio). Il primo tempio di Gerusalemme, secondo la Bibbia, venne edificato da re Salomone secondo il volere di re David, il quale ne aveva avuto indicazione da Dio stesso. Nonostante il desiderio del sovrano di vedere il completamento della sua costruzione, fu appunto suo figlio, e suo successore al trono del Regno di Giuda e Israele, a vederlo ultimato.
Gli enigmi della Storia
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Misteri e Storia
GILGAL REFĀ’ĪM, LA CITTÀ MEGALITICA COSTRUITA DAI GIGANTI Si tratta di un antico monumento megalitico costituito da più cerchi concentrici in pietra, caratterizzati da un tumulo al centro alto circa 4,5 m: è collocato sulle alture del Golan a circa 16 km dalla costa orientale del mare di Galilea, al centro di un ampio altipiano dove sono presenti numerosi dolmen. Il monumento è composto da oltre 42.000 rocce basaltiche sistemate in cerchi concentrici. Il sito risale alla prima età del Bronzo (3000 a.C. - 2750 a.C.). 12
Gli enigmi della Storia
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Misteri e Storia di Giuseppe Di Re
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ilgal Refā’īm (ebraico: םיִראָפְ לַּגְלִּגo Rogem Hiri; in arabo Rujm el-Hiri, يرهلا مجر, Rujm al-Hīrī) è un sito archeologico situato in Israele. Si tratta di un antico monumento megalitico costituito da più anelli concentrici formati da grosse pietre monoblocco. Esso viene fatto generalmente risalire dagli studiosi alla prima Età del Bronzo (3000 a.C. – 2750 a.C.). Questi cerchi concentrici sono collocati sulle alture del Golan a circa 16 km. dalla costa orientale del mare di Galilea, storica regione del Vicino Oriente, al centro di un ampio altopiano in cui sono presenti centinaia di tumuli megalitici a camera singola denominati “dolmen“. Il monumento è composto da oltre 42.000 rocce di basalto, organizzate in cinque anelli concentrici, e il suo diametro complessivo è di 155 metri, con un peso stimato di oltre 37.000 tonnellate. Al centro di questi anelli è presente un cumulo di pietre che misura oltre venti metri di diametro. La parte degli anelli meglio conservata è quella esterna, la cui altezza supera i 2 metri. In questo cerchio ci sono centinaia di dolmen allineati tra loro, dall’aspetto simile se non uguale a quelli che si trovano nel nord della Gran Bretagna e in Francia, come nel sito francese delle “Pietre di Carnac“. Sono stati identificati oltre 8.500 di questi dolmen sulle alture del Golan edificati in almeno venti differenti stili. Le più grandi tra queste strutture megalitiche arrivano a pesare singolarmente oltre 50 tonnellate, per oltre sette metri di altezza. Dal momento che gli scavi hanno portato alla luce solo pochi altri resti oltre alle pietre che caratterizzano il sito, questo fatto ha portato alcuni archeologi israeliani a
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Misteri e Storia
ipotizzare che esso sia utilizzato anticamente a scopi difensivi o abitativi, ma anche che si sarebbe potuto trattare di un centro rituale legato al culto dei morti. Tuttavia queste ipotesi sono state respinte dalla maggior parte dei ricercatori poiché non è stata trovata alcuna struttura dalle caratteristiche simili in tutto il Vicino Oriente. Il sito è stato catalogato durante una spedizione archeologica condotta negli anni 1967-1968 dai ricercatori Shmarya Gutman e Claire Epstein. I geometri, per tracciare il luogo sulle carte, utilizzarono alcune mappe siriane e strumenti di tracciamento triangolare, sempre di progettazione e produzione siriana. Dopo questi studi iniziali, negli anni Ottanta sono fatti scavi condotti dai professori israeliani Moshe Kochavi e Yoni Mizrachi,
nell’ambito del progetto di scoperta della Terra di Geshur denominato “Rediscovered! The Land Of Geshur“. Alcuni studiosi ritengono che gli antichi residenti del luogo abbiano utilizzato il sito per venerare Tammuz e Ishtar, divinità della fertilità, e per ringraziarli del buon raccolto ricevuto durante l’anno. Un fatto che desta grande curiosità – davvero sorprendente a mio modo di vedere – sta nella struttura di questi monumenti che, come si può osservare dalle immagini soprastanti, mostrano una stupefacente somiglianza tra la disposizione a cerchi concentrici dei resti di Gilgal Refā’īm (a destra, nella foto) e la simulazione pittorica del mitico continente perduto di Atlantide (a sinistra, in disegno) di cui aveva parlato il filosofo ellenico Platone in alcuni suoi dialoghi contenuti nel “Timeo” e nel “Crizia “(nel 360 a.C.). Il leggendario continente perduto di Atlantide, inghiottito dal mare a causa di un grande cataclisma, si troverebbe secondo la narrazione di Platone al di là delle colonne d’Ercole (l’attuale stretto di Gibilterra, tra Spagna e Marocco), dunque nell’Oceano Atlantico. Atlantide era uno Stato utopistico, molto civilizzato e governato da una stirpe di Re e Regine dalle caratteristiche divine, figli del dio dei mari Poseidone. Le città di Atlantide erano progettate a cerchi concentrici, con un’abbondanza di maestosi palazzi che, secondo il racconto di Platone, erano adornati di meravigliose e imponenti statue. Tuttavia prima della sua distruzione ebbe il sopravvento la corruzione a causa dell’eccessivo lusso e del declino della morale. Che questo antico sito archeologico israeliano sia una riproduzione in pietra in scala più piccola di quello che fu il meraviglioso regno antidiluviano di Atlantide? E soprattutto, è possibile che i costruttori di Gilgal Refā’īm abbiano qualcosa a che vedere con i sopravvissuti dell’evento apocalittico che – stando alla narrazione di Platone – fu così disastroso da inghiottire il continente nelle profondità marine addirittura in una sola notte?
LA CITTÀ DEI “REFĀ’ĪM”
Come si può facilmente intuire anche dal nome, c’è un forte collegamento tra questa sensazionale architettura megalitica e l’antica popolazione dei Refā’īm (da cui prende appunto il nome), una delle famose tribù di “giganti” citati più volte all’interno della Bibbia. Ci sono anche molti dati che avvalorerebbero l’ipotesi
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secondo cui questi resti sono testimonianze archeologiche dei mitici territori in cui regnò questa leggendaria tribù di giganti. A tal proposito la Bibbia è ricca di notizie sul conto dei Refā’īm. Ecco una carrellata di passi attinenti alla nostra indagine: Genesi 14:5 afferma: “Nell’anno quattordicesimo arrivarono Chedorlaomer e i re che erano con lui e sconfissero i Refaim ad Astarot-Karnaim, gli Zuzim ad Am, gli Emim a SaveKiriataim”. Si trattava di esseri di grande statura: “Anche questo Paese era reputato Paese di Refaim: prima vi abitavano i Refaim e gli Ammoniti li chiamavano Zanzummim: popolo grande, numeroso, alto di statura come gli Anakiti…” (Deut 2, 20-21). “Alla mezza tribù di Manasse diedi il resto di Galaad e tutto il regno di Og in Basan: tutta la regione di Argob con tutto Basan, che si chiamava il paese dei Refaim” (Deuteronomio 3:13). E ancora, in Giosuè 12:4: “Poi il territorio di Og re di Basan, uno dei superstiti dei Refaim, che abitava ad Astaroth e a Edrei, e dominava sul monte Hermon, su Salca, su tutto Basan sino ai confini dei Ghesuriti e dei Maacatiti, e sulla metà di Galaad, confine di Sihon re di Heshbon”. I Refaim dunque abitavano il luoghi chiamati “AshtherotKarnaim”. A soli dieci miglia di distanza dagli anelli c’era il sito di un’antica città cananea chiamata Ashtherot. In Deuteronomio 3, 13 si dice che: “e diedi alla mezza tribú di Manasse il resto di Golan e tutto Bashan, il regno di Og (tutta la regione di Argob con tutto Bashan si chiamava il paese dei
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giganti”. La descrizione più esplicita della dimensione del popolo di Bashan si trova in Deuteronomio 3, 11: “Poiché Og, re di Bashan, era rimasto l’unico superstite della stirpe dei giganti. Ecco, il suo letto era un letto di ferro (e non si trova forse a Rabbah degli Ammoniti?). Esso misura nove cubiti di lunghezza e quattro cubiti di larghezza, secondo il cubito d’uomo”. Secondo la tradizione ebraica – e secondo alcuni esegeti biblici – molti di questi antichi giganti avevano enormi capacità non solo fisiche, ma anche psichiche. Secondo alcuni riferimenti sparsi nella Bibbia – che possono apparire “fantascientifici” e che per questo vengono generalmente non considerati nell’esegesi – l’antica razza adamitica che abitò la Terra e la prima stirpe di giganti avevano capacità eccezionali, come la visione a distanza, la capacità di controllare gli animali con il pensiero, la possibilità di sfruttare pienamente le proprie capacità cognitive e intellettive e addirittura anche il potere della “levitazione”. Essi avevano anche il potere di pronunciare e rimuovere maledizioni, di curare malattie e di conoscere e predire il futuro. Erano estremamente intelligenti e sapevano tutto sulla scienza, sull’architettura e sull’ingegneria. Queste antiche e precisissime indicazioni tramandate nei millenni sia per iscritto che per via orale hanno portato molti esegeti del testo ebraico, così come altri ricercatori, a considerare la possibilità che queste antiche razze, combinando le loro sensazionali abilità, sarebbero state in grado di progettare e costruire gli antichi monumenti dell’antichità che, ancor oggi, appaiono dalla progettazione ed esecuzione inspiegabile agli occhi dell’uomo moderno, come ad esempio le grandiosi piramidi di Giza e tutti gli altri meravigliosi monumenti megalitici sparsi in ogni parte del mondo.
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Enigmi irrisolti Morte o fuga? di Rino Di Stefano
L’FBI ribalta la storia del nazismo: “Hitler non morì nel bunker ma fuggì con Eva Braun in Argentina” Una squadra diretta dall’ex CIA Bob Baer ha ripercorso per History Channel il tragitto che avrebbe compiuto il dittatore tedesco da Berlino a Bariloche, via Spagna. Declassificati oltre settecento documenti sulle indagini segrete degli agenti americani dal 1945 al 1950. Gli enigmi della Storia
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di Hoover nasce anche dal fatto che il dittatore russo Stalin il 31 luglio del 1945, durante l’incontro di Postdam con il presidente americano Harry S. Truman e con il ministro statunitense James F. Byrnes, presenti il primo ministro britannico Clement Attlee e il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov, aveva dichiarato con molta fermezza “Hitler non è nelle nostre mani”. E ha detto apertamente che, secondo lui, il dittatore era fuggito.
La storia ufficiale Prima di passare alle indagini dell’FBI, vediamo dunque che cosa dice la storia ufficiale circa la scomparsa di Hitler. Quando le truppe dell’Armata Rossa, al comando del generale Zucov, conquistarono Berlino, (300 mila morti da parte russa, 40 mila per i tedeschi), i soldati sovietici furono i primi ad entrare nel bunker dove Hitler e i suoi si erano rifugiati. La cronaca di quei giorni è raccolta in un dattiloscritto di 114 pagine, intitolato “Dossier Hitler”, ancora oggi conservato nell’Archivio del Presidente della Federazione Russa con il numero di matricola 41Sh/2v/i. Il primo occidentale a studiare ed esaminare il Dossier è stato il giornalista tedesco Ulrich Volklein, che ha poi raccontato la sua esperienza nel libro “Hitlers Tod. Die letzten Tage im Fuhrerbunker” (La morte di Hitler. Gli ultimi giorni nel bunker del Fuhrer), Steidl Verlag, Gottingen 1998. Come racconta lo stesso Volklein, “presunti testimoni oculari diffondono versioni assolutamente inconciliabili sugli ultimi avvenimenti nella catacomba hitleriana. E, di conseguenza, gli storici sono tutt’altro che concordi nel ricostruire le ultime ore del Fuhrer”. Secondo la versione più accreditata dei fatti, nel pomeriggio del 30 aprile 1945 Hitler e sua moglie
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a storia dovrebbe essere riscritta: nuove prove lasciano ben pochi dubbi sul fatto che Hitler non sia affatto morto nel bunker sotto la Cancelleria di Berlino. Colui che venne definito “il più grande criminale del Novecento”, sarebbe invece riuscito a fuggire insieme alla moglie Eva Braun e ad un gruppo di ufficiali del Terzo Reich (tra i quali il fedele segretario Martin Bormann), prima in Spagna e poi in Argentina. Questo, almeno, è quanto rivela il Federal Bureau of Investigation (FBI), che nel 2014 ha declassificato oltre 700 documenti relativi alle indagini che vennero svolte dal 1945 al 1950 sulla presunta fuga di Adolf Hitler in America Latina. La desecretazione è avvenuta grazie alla legge Freedom of Information Act (Atto per la libertà di informazione), emanata negli Stati Uniti il 4 luglio del 1966, durante il mandato del presidente Lyndon B. Johnson. La ricostruzione di quella fuga è stata resa pubblica nell’autunno 2015 grazie al programma televisivo “Hunting Hitler” (A caccia di Hitler) su History Channel. In otto puntate, una squadra di professionisti ha ripercorso l’itinerario che sarebbe stato seguito dal dittatore tedesco, trovando prove e testimonianze che, apparentemente, non lasciano dubbi su quanto accadde tra l’Europa e l’America Latina nei mesi successivi alla capitolazione della Germania. Secondo quanto si può leggere nei documenti FBI, gli Americani non hanno mai creduto al presunto suicidio del dittatore tedesco. Come disse Edgard Hoover, mitico direttore dell’FBI, “gli ufficiali dell’esercito americano di stanza in Germania non hanno localizzato il corpo di Hitler e non c’è alcuna fonte attendibile che possa sostenere definitivamente che Hitler sia morto”. La convinzione
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Eva Braun (che aveva sposato appena il giorno prima) si tolsero la vita ingerendo una fiala di cianuro. Hitler si sarebbe anche sparato un colpo alla testa con una delle sue pistole. La sera del primo maggio, invece, i coniugi Joseph e Magda Goebbels uccisero i loro sei figli col veleno e poi si suicidarono. Lui era il potente ministro della Propaganda nella Germania nazista. I cadaveri degli adulti vennero dati alle fiamme con benzina e poi sotterrati. Quelli dei bambini, invece, furono lasciati sui letti. I russi trovarono tutti i corpi, ma dovettero arrendersi di fronte ai problemi che le autopsie rivelarono. Vennero eseguite tra il 7 e il 9 maggio 1945 nell’ospedale militare da campo di BerlinoBuch e a praticarle furono sette periti guidati dal capo esperto di Medicina legale del fronte bielorusso, colonnello Faust Josifovic Skaravski. Mentre non ci furono dubbi circa le identità della famiglia Goebbels, si crearono diverse perplessità per quanto riguarda quelle di Hitler e di sua moglie. Partiamo da quest’ultima. Per quanto non riconoscibile a causa del corpo devastato dalle fiamme, la donna della quale si stava esaminando il cadavere doveva avere tra i 30 e i 40 anni ed
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era alta circa 150 centimetri. Anche se i resti riportavano il classico odore di mandorle amare tipico delle fiale di cianuro, i chirurghi trovarono nel torace della donna un ampio squarcio intercostale e sei grosse schegge d’acciaio nei polmoni. Quella persona, dunque, era stata colpita dai frammenti di una granata.
Un cadavere più basso Un altro enigma fu il corpo del presunto Hitler. Alto 165 centimetri, doveva avere tra i 50 e i 60 anni, era privo di un testicolo e, per quanto completamente sfigurato, non aveva alcun segno visibile di gravi ferite mortali. Anche se gli impianti dentali avevano più o meno confermato la somiglianza con quelli dello scomparso dittatore (almeno secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti russi, il tenente colonnello Fedor Parparov e il maggiore Igor Saveliev, i quali però non nascondevano le loro riserve circa quanto avevano sentito), c’erano un paio di problemi. Prima di tutto, che fine aveva fatto il colpo di pistola alla testa? Diversi testimoni avevano affermato di aver visto Hitler morto con una ferita d’arma da fuoco alla testa. Secondo punto, Hitler, era alto 172 centime-
tri e non 165. Del resto, se guardiamo i vecchi filmati dell’epoca, quando Hitler era insieme a Mussolini, si vede chiaramente la differenza d’altezza tra i due dittatori: quello italiano era alto 168 centimetri, il tedesco 4 in più. Di chi era, allora, il corpo carbonizzato? Qualcuno ipotizzò che Hitler e Eva Braun fossero fuggiti e che, al loro posto, fossero stati messi i corpi di altre due persone: una donna deceduta durante i bombardamenti (da qui le ferite da granata) e uno dei tanti sosia di cui Hitler si circondava. I testimoni sopravvissuti avrebbero volontariamente taciuto la verità per evitare che gli alleati si mettessero alla ricerca del loro capo. Qualunque sia la realtà delle cose, non si è mai riusciti a chiudere del tutto il capitolo della morte del dittatore tedesco. Le rivelazioni dell’FBI aprono dunque una nuova prospettiva sul mistero di Hitler.
La squadra di Hunting Hitler Realizzato dalla Karga Seven Pictures per History Channel, il documentario è basato sulle ricerche effettuate da un team di specialisti che ha seguito passo passo le indicazioni lasciate dall’FBI sulle tracce di Hitler dopo la caduta di Berlino. A gui-
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dare il gruppo è stato Bob Baer, ex agente della CIA per 21 anni e uno dei più esperti investigatori di spionaggio internazionale negli Stati Uniti. Avendo condotto complesse indagini di controspionaggio durante la sua carriera, compresa la cattura di Saddam Hussein, Baer ha applicato gli stessi metodi circa la presunta fuga di Hitler, riuscendo a verificare sul campo i rapporti che gli agenti dell’FBI avevano preparato nell’immediato dopoguerra. Per la cronaca, il personaggio interpretato da George Clooney nel film “Syriana” è basato sulla sua vita. Insieme a Bob Baer, l’inchiesta è stata condotta anche dal dottor John Cencich (PhD), professore senior di Giustizia criminale. Cencich è un docente di lunga esperienza ed è stato lui che ha condotto le indagini che hanno portato all’incriminazione del presidente serbo Slobodan Milosevic. Inoltre, è anche l’unico uomo nella storia ad aver portato un membro di governo ad affrontare un processo per crimini di guerra. Chi lo conosce, parla della sua insuperabile abilità ad analizzare, confrontare e mettere insieme tutte le prove circostanziali, per arrivare a elaborare un caso come questo, vecchio ormai di 70 anni. Terzo elemento del gruppo è Tim Kennedy, sergente di prima classe della 7° Unità Forze Speciali dell’esercito americano, medaglia di bronzo per il suo valore sotto il fuoco nemico. Kennedy, veterano del Medio Oriente dopo la strage dell’11 Settembre, ha partecipato alle inchieste contro alQaeda e Bin Laden, con esperienze operative anche in Argentina. E’ dunque il caso di dire che in questa squadra sono state messe insieme l’abilità investigativa di Bob Baer, l’analisi comparata di John Cencich e la capacità operativa di Tim Kennedy.
Le indagini sul campo Il documentario inizia con il messaggio lanciato dalla radio tedesca, annunciante la morte di Hitler. Subito dopo seguono le dichiarazioni di Edgard Hoover che, nel 1947, rivela senza mezze misure che non esiste alcuna certezza circa la morte di Hitler. A seguire, si parla della ricostruzione degli avvenimenti relativi agli ultimi giorni di Hitler, citando anche l’opinione di Stalin riguardo la sorte di Hitler. Nel 2009 un gruppo di scienziati americani aveva chiesto ai russi qualche campione della salma del presunto Hitler, per poterlo analizzare. Ma quello che venne consegnato, sottoposto all’esame del DNA, si rivelò essere di una donna. Si arriva così al 2014, quando i
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documenti dell’FBI vengono declassificati. Si tratta di rapporti di agenti che rivelano come la persona di Hitler sia stata vista in giro per il mondo, subito dopo la caduta di Berlino. A quel punto, convinto che qualcosa di concreto ci sia dietro tutte quelle indagini, Baer mette insieme investigatori internazionali, cacciatori di nazisti, scienziati forensi, giornalisti investigativi, militari e il dottor Cenchich, per accertare quanto ci sia di vero nelle indagini eseguite a suo tempo dagli agenti dell’FBI. In una vecchia lettera di Edgar Hoover, si legge che Hitler vive in Argentina, in una grande struttura sotterranea. In un altro rapporto, risalente all’11 agosto 1945, si ripete che il dittatore tedesco era ospite in una vecchia struttura sotterranea, con centinaia di nazisti, a circa 1000 km a ovest di Florianapolis, 700 km a nordnord ovest di Buenos Aires. La comunità più vicina è Charata, ed è lì che Baer spedisce subito Tim Kennedy insieme a Gerard Williams, giornalista investigativo di ottima reputazione (BBC, Reuter, eccetera) che per dieci anni si è occupato dei nazisti in Sud America. Insieme a Kennedy e Williams c’è anche il cacciatore di nazisti Steven Rambam: durante la sua carriera ne ha rintracciati 170 in giro per il mondo.
Arrivo a Charata
una scala ben costruita, dotato di sistema di areazione a due condotti. I muri sono piastrellati e il pavimento in cemento. A quel punto le indagini del gruppo si spostano su quella che era la tenuta di proprietà di Karl Buck. Per accertare se sotto il terreno ci fosse un sotterraneo, gli americani si avvalgono dell’opera di David Kelly, compagno d’armi di Tim Kennedy in Irak. Con un georadar, e cioè una macchina in grado di verificare la presenza di locali sottoterra, Kelly comincia a il suo lavoro ispettivo. E qualcosa salta fuori. Infatti, ad una profondità tra i 2,50 e i 3 metri, il georadar localizza una galleria sotterranea. Ma è una proprietà privata e non vengono concessi permessi per scavare nella zona.
Una casa in mezzo alla jungla
A Charata il gruppo trova un anziano testimone che dice loro come, a quei tempi, i nazisti fossero tenuti in alta considerazione da quelle parti. Un altro, tale Juan Alberto, li porta a vedere una vecchia scuola tedesca che sorgeva nel centro di Charata. L’ultimo direttore della scuola fu Karl Buck, conosciuto dai servizi segreti americani come agente nazista. Tra l’altro, Juan è autore di un libro che parla proprio della poco pubblicizzata presenza dei tedeschi nella cittadina. Ed è lo stesso Juan che rivela al gruppo di investigatori statunitensi come nel 1970 sia stata scoperta, in una zona rurale ad est di Charata, una cantina segreta contenente documenti, armi e bandiere del regime nazista. Gli americani notano un’altra cosa: la gente del posto ha ancora paura a dare informazioni sui tedeschi. Ed è quello che succede anche quando arrivano alla fattoria dove venne scoperta la cantina, a oltre 15 chilometri dalla città. I proprietari mettono subito le mani avanti, spiegando che a scoprirla fu il precedente proprietario. Loro non sanno assolutamente nulla. Mostrano anche la cantina: si tratta di un locale sotterraneo, al quale si accede attraverso
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Intanto, a Los Angeles, Bob Baer e il dottor Cencich scoprono che a Misiones, altro piccolo centro dell’Argentina a 950 km da Buenos Aires, alcuni archeologi hanno trovato una palazzina residenziale di proprietà tedesca nel bel mezzo della jungla. Nessuno sa perché sia stata costruita proprio lì e a che cosa servisse. Tim e il suo gruppo vengono inviati immediatamente sul posto, insieme a Philip Kiernan, esperto in archeologia tedesca. Dopo aver guidato per tutta la notte, Tim e Philip raggiungono il campo base degli archeologi e incontrano Daniel Shavelzon, direttore dello scavo. Non ci sono dubbi: Shavelzon spiega che la struttura trovata risale agli anni 40 e, con ogni probabilità, serviva da rifugio ai nazisti in fuga. C’erano due ca-
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mere da letto, una cucina e un bagno. Il pavimento è realizzato con piastrelle gialle e blu. Il direttore dello scavo mostra anche una scatola trovata all’interno di un muro. Tra le altre cose, conteneva monete tedesche degli anni 40 e due fotografie: in una c’era un ragazzo che indossava la divisa nazista, con la svastica sul braccio. L’altra era un’istantanea con Hitler e Mussolini in primo piano. Curiose le caratteristiche della costruzione: i muri erano tutti in pietra e lo stile di questa villa immersa nella jungla era chiaramente europeo. C’era persino un’ampia veranda che si affacciava sulla jungla. Come Philip Kiernan fa osservare, se la casa fosse stata costruita in mattoni, bisognava acquistarli e farseli mandare. Dunque, in città l’avrebbero saputo tutti. Se, invece, fai lavorare quattro o cinque persone nella jungla, senza che le autorità ne siano al corrente, nessuno saprà mai che cosa stai facendo.
Il bunker di Hitler
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Tornando a Los Angeles, Baer e Cencich vogliono controllare che cosa sia rimasto del bunker di Hitler e se sia possibile trovare un qualunque riferimento a come sono andate realmente le cose in quel giorno del 1945. Allo scopo inviano a Berlino Lenny DePaul, un cacciatore di uomini tra i più abili al mondo. DePaul era al comando di 380 investigatori a tempo pieno (US Marshall), incaricati dal Congresso degli Stati Uniti di ricercare i peggiori criminali in fuga. Per l’occasione, DePaul ha interpellato Sasha Keil, cofondatore di “Berlino Sotterranea”, un’organizzazione che conserva un ampio archivio di documenti del Terzo Reich. Scartabellando tra le varie pagine, Keil trova le testimonianze del capitano della SS Heinz Linge, cameriere personale di Hitler, e dell’autista personale di Hitler, il soldato delle SS Erich Kempa. Ebbene, né Linge né Kempa dissero di aver visto personalmente i corpi senza vita di Hitler e di sua moglie. Affermarono, invece, che quei cadaveri ap-
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partenevano ad un uomo e a una donna avvolti nelle coperte e che a loro era stato detto che fossero appunto quelli del dittatore e di Eva Braun. Il fatto poi che le varie testimonianze fossero di fatto contraddittorie e in diverse occasioni anche opposte fra loro, fa considerare al team di Hunting Hitler che il caso della morte del dittatore sia davvero ancora aperto. Baer e Cencich giungono alla conclusione che una risposta alla scomparsa di Hitler può trovarsi soltanto in Argentina, paese che ha dato ospitalità a diverse centinaia di nazisti in fuga. Qualcuno, come Adolf Eichmann, viveva allo scoperto con il nome di Riccardo Klement, lavorando come meccanico nella fabbrica Mercedes Benz di Buenos Aires. Fino a quando non venne catturato dagli israeliani.
Farmaci per lo stomaco Intanto Tim Kennedy e Philip Kiernan, esperto di archeologia tedesca, esaminano la struttura trovata nel bel mezzo della
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jungla a Misiones. Il primo edificio è una residenza molto lussuosa. Il secondo non si capisce bene. Forse era una specie di grande camera blindata, visto lo spessore dei muri. Ma non si riesce a comprendere a che cosa servisse. C’è anche un terzo edificio, probabilmente un laboratorio, con tunnel sotterraneo che forse serviva a incanalare l’acqua piovana. Tra le rovine, diverse bottiglie di farmaci, la maggior parte dei quali per problemi di stomaco. Dal momento che la peggiore preoccupazione di Hitler era costituita dai problemi allo stomaco, gli investigatori ipotizzano che quella struttura nascosta nella jungla sia stata fatta apposta per nascondere un personaggio importante come il dittatore tedesco. Non è un’idea balzana: come si vedrà nel corso delle indagini, ben prima della fine della guerra i tedeschi avevano realizzato in varie parti del mondo strutture in grado di nascondere personaggi in fuga, in perfetta sicurezza. In altre parole, si erano già preparati ad affrontare un’eventuale sconfitta allestendo un corridoio di emergenza per il proprio leader. Da notare che, quando le strutture non servivano più, venivano subito demolite per non lasciare tracce. Parlando delle ultime ore di Hitler nel bunker, Cencich spiega che è stato in Russia dove gli hanno mostrato un teschio dicendo che era quello di Hitler. Bastò un piccolo esame per accertare che quel cranio era appartenuto ad una donna sulla trentina e mostrava i buchi di una pallottola. In teoria, quindi, avrebbe potuto appartenere ad Eva Braun, ma non risulta che la moglie di Hitler si fosse sparata. Cencich afferma che l’ideale sarebbe poter confrontare il DNA del teschio con quello di un parente vivente della Braun. Per ottenerlo, Lenny DePaul e l’investigatore privato tedesco Stephan Schlentrich, si recano presso l’abitazione dell’unica parente ancora in vita
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di Eva Braun, in un piccolo sobborgo della Germania sudoccidentale. Ma viene loro sbattuta la porta in faccia: la donna non vuole avere a che fare con quella storia.
La fuga dal bunker Chiusa l’opportunità della parente di Eva Braun, Baer si domanda come abbia potuto fare Hitler a fuggire dal bunker, superando le linee russe. Tra l’altro, nel 1999 il Fuhrerbunker è stato riempito e interrato per costruire un parcheggio, per cui non esiste più. Christoph Neubauer, storico forense e artista del 3D, ha trascorso circa un decennio in cerca di prove per realizzare la ricostruzione storica in 3D del bunker di Hitler. Riesce dunque a farne una copia abbastanza attendibile. Il problema, però, è un altro. Come avrebbe fatto Hitler a fuggire dal bunker, se la zona in cui si trovava era ormai sotto il controllo dei russi? Ne discutono Lenny DePaul e Sasha Keil, un esperto della Berlino di quegli anni. Le tre possibili vie di fuga erano via mare, treno o aereo. Escluse le prime due per ovvi motivi logistici, non restava che l’ultima. Tanto più che il 28 aprile del ’45 (due giorni prima del presunto suicidio di Hitler) la pilota collaudatrice Hanna Reitsch, che apparteneva al giro di Hitler, portò in volo fuoridalla Berlino assediata dai russi, il generale della Luftwaffe Robert Ritter von Greim. Sarebbe stato dunque possibile che Hitler avesse pianificato la fuga, in modo che nessuno ne sapesse nulla? Basandosi sulle centinaia di ore di interrogatori ai membri della ristretta cerchia di Hitler da parte di Michael Musmanno, giudice del processo di Norimberga, Keil riesce a trovare alcune dichiarazioni illuminanti. Un tenente tedesco affermò che esisteva un
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piano per far fuggire il fuhrer già due anni prima della fine della guerra. Inoltre, il 20 aprile del ’45, giorno del suo compleanno, Hitler disse chiaramente che accettava di andare a Sud. Quello fu anche l’ultimo giorno in cui gli abitanti del bunker videro Hitler vivo. Ma la testimonianza più straordinaria fu quella dell’ammiraglio nazista Karl von Puttkamer, il quale raccontò che il 21 aprile otto o dieci aerei decollarono dagli aeroporti di Staaken e Tempelhof in direzione sud. L’aereo dell’ammiraglio decollò da Staken, tutti gli altri da Tempelhof. Dai registri di volo degli aerei che abbandonarono Berlino, risulta che, oltre ai piloti e ai militari, c’erano almeno 16 passeggeri. Il primo aereo, inoltre, era stato caricato con gli effetti personali di Hitler. Che motivo c’era di portar via quel materiale, se Hitler non fosse stato su quel volo? Un altro interrogativo era la posizione dell’aeroporto di Tempelhof. Da un controllo, emerge che questo scalo si trovava all’interno delle linee di difesa tedesche e i russi riuscirono ad occuparlo soltanto il 28 aprile del ’45. Quattro giorni dopo i tedeschi si arresero. Ma come avrebbe potuto Hitler raggiungere l’aeroporto, se tutto intorno al bunker infuriava la battaglia? Studiando la Berlino sotterranea, gli investigatori americani hanno così scoperto che un tunnel della metropolitana collegava direttamente l’area del bunker con l’aeroporto di Tempelhof. Il cerchio si chiude: a quel punto ci sono le prove che il 21 aprile avvenne l’esodo di alcuni grandi gerarchi nazisti che lasciarono Berlino via aereo. Tra di loro, poteva benissimo esserci anche Hitler, i cui effetti personali viaggiavano con lui.
UBoot, la via del mare
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Secondo un rapporto FBI dell’epoca, sei alti ufficiali argentini avrebbero aiutato a nascondere Adolf Hitler, giunto in Sud America con un sottomarino. Gli UBoot tedeschi approdarono in Argentina, lungo la penisola di Valdes, sulla costa meridionale. Secondo le relazioni ufficiali, il 5 maggio del ’45 a tutti i sottomarini tedeschi venne ordinato di entrare nel porto più vicino per la resa. Quasi tutti i capitani ubbidirono, ma 46 UBoot non si fecero vedere. Due di questi, emersero al largo delle coste argentine e si arresero tre mesi dopo. Bob Baer si domanda quale distanza possa percorrere uno di quei sottomarini, senza fare rifornimento. Il dottor Cencich risponde 14mila km, e la distanza tra l’Europa e il Sud America è di circa 12mila km. Per determinare se ci sono testimonianze circa la presenza di sottomarini tedeschi in Argentina, Baer invia Steven Ramban, cacciatore di nazisti, Tim Kennedy, delle forze speciali dell’esercito USA, e Gerrard Williams, giornalista investigativo, nel presunto approdo argentino di Hitler. Dopo aver guidato per ore, alla fine la squadra raggiunge la punta della penisola di Valdes, esattamente nel punto preciso dell’approdo, secondo i rapporti FBI. Tuttavia, i tre si rendono presto conto che quel posto, dotato di un faro nel bel mezzo del nulla, è troppo scomodo da raggiungere e non sarebbe stato agevole per un uomo di 56 anni, come Hitler. Decidono, dunque, di cercare un approdo più confortevole per un sottomarino. Analizzando i rapporti FBI, il gruppo scopre che la persona che faceva da punto di riferimento per i nazisti in fuga, era un certo Geraldo Lahusen, proprietario di un’importante azienda (laGerman Lahusen, molto nota nel commercio della lana) con sede a San Antonio Oeste, poco distante dalla penisola di Valdes. Lahusen e i suoi dipendenti erano nazisti convinti e avevano giurato fedeltà a Hitler. Poco per volta emerge il piano nazista in Sud America: creare una rete di aziende floride che, all’occorrenza, avrebbero potuto finanziare e sostenere i nazisti in fuga. Per la cronaca, questo intreccio economico è giunto sino a noi ed è esteso in tutto il mondo. Intanto a Berlino Lenny De Paul e Sasha Keil scoprono che il bunker e l’aeroporto sono collegati da un tunnel della metropolitana lungo 3,5 km. La galleria della linea U6, termina a 275 metri dall’aeroporto, l’unico tratto scoperto che avrebbe dovuto percorrere Hitler nella sua fuga. Ma ci sono alte probabilità che durante la guerra ci fosse una galleria che univa l’uscita della metropolitana all’entrata dell’aeroporto. La cercano con il georadar e, alla fine, la trovano. Si tratta di un tunnel alto circa 3 metri e largo uno che portava dall’uscita della metropolitana all’interno dell’aeroporto: i tedeschi, dunque, avevano preparato con cura la fuga dei propri capi.
Niente, come ci si aspetta dai tedeschi, era stato lasciato al caso. A guerra conclusa, comunque, quella galleria venne murata.
Venti aerei per fuggire da Berlino La scena ritorna in Argentina, dove la squadra americana scopre che Lahusen era un ricco imprenditore che controllava anche il Banco Nation, la banca locale. I tre vengono in contatto con un testimone che parla loro della presenza di un sottomarino tedesco nel porto di San Antonio Oeste. Non solo. Tre mesi dopo la fine della guerra, la nave argentina Mendoza avvista un sottomarino tedesco che operava nel loro stesso mare. Gli americani trovano anche un vecchio subacqueo,
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Tony Brochado, che per decenni ha lavorato nelle acque della zona. Brochado sostiene che la presenza di sottomarini tedeschi in quell’area, dopo la guerra, è assolutamente certa. E porta anche la testimonianza di una donna italiana, tale signora Paesani, che dalla sua cucina aveva visto un sommergibile in un posto detto Caleta de los Loros. A Los Angeles, nel centro comandi dal quale l’intera operazione viene seguita, Baer riflette su quello che deve essere stato il piano di fuga dei gerarchi nazisti. Studiando le carte dell’epoca, ha scoperto che i tedeschi per le ricognizioni a lungo raggio usavano i FockeWulf Condor 200, aerei dotati di serbatoi di carburante supplementari, in grado di percorrere fino a 3200 km con un pieno. Hitler ne aveva 20 a disposizione. Considerando la situazione geografica del ’45, l’unico Paese in cui i tedeschi potevano trovare aiuto in caso di fuga, era la Spagna di Francisco Franco.
I nazisti e la Spagna di Franco Ed è proprio in Spagna che l’esercito americano si recò in cerca di Hitler, su segnalazione dell’FBI. La squadra americana viene così a conoscenza che il dittatore spagnolo aveva una residenza fortificata in Galizia e vi si trasferisce. Cercano di visitarla, ma vengono cacciati in malo modo. Tuttavia, nel vecchio cimitero di La Coruna, trovano una svastica su una lapide che indica l’ultima dimora di un gruppo di soldati tedeschi. E’ la prova che la Spagna di Franco mantenne contatti aperti con la Germania nazista fino all’ultimo. Ma questo non è il solo elemento di congiunzione tra la Spagna franchista e la Germania nazista. Nel 1944 l’allora OSS, l’Ufficio dei Servizi Strategici che dopo la guerra assumerà il nome di CIA, lanciò il progetto “Safe Haven”(Paradiso Sicuro) per rintracciare i movimenti di oro e beni nazisti nel mondo. Nel 2009 questi documenti vennero resi pubblici e si venne così a scoprire che l’intera Spagna era una partner commerciale dei nazisti. In particolare la Galizia. A Vigo, 294mila abitanti, era attivissima l’esportazione di tungsteno, una sostanza molto usata per le armi da guerra. Solo nel 1945 il commercio di tungsteno verso la Germania risultò essere di 22,7 milioni di dollari, pari ad un valore attuale di 299 milioni di dollari. Questa montagna di soldi veniva gestita da una struttura tedesca in loco. Struttura, per inciso, che restò inalterata anche dopo la guerra. Dunque, i nazisti potevano contare su un punto d’ap-
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poggio di non poco conto in terra spagnola. Baer invia Gerrard Williams e Lenny DePaul a Vigo, per studiare l’ambiente. A loro si unisce lo storico Edoardo Rolland, esperto della presenza tedesca in Galizia. Quest’ultimo fa delle rivelazioni fondamentali agli amici americani. Si viene così a sapere che nella baia di Vigo, sull’Atlantico, c’è sempre stata un’intensa attività di sottomarini tedeschi durante e dopo la guerra. Dal momento che il tungsteno serve a rendere più duro l’acciaio, è sicuro che quel sito spagnolo fosse di importanza strategica per i nazisti. Ma come mai gli UBoot tedeschi continuavano a far scalo a Vigo a guerra conclusa, quando delle città tedesche non restavano ormai che fumanti macerie? Rolland spiega che da qualche parte continuava ad esserci una centrale nazista operativa e che Vigo veniva utilizzata per far fuggire i criminali nazisti dall’Europa. Probabile destinazione: la costa meridionale dell’Argentina. Secondo fonti storiche, pare che i fuggitivi si travestissero da sacerdoti, con il consenso del Vaticano. Del resto, il coinvolgimento della Croce Rossa e della Chiesa cattolica nella fuga dei nazisti venne ampiamente provato nel dopoguerra.
Hitler visto nel monastero Indagando sul posto, gli americani incontrano lo storico galiziano Xavier Quiroga, il quale ha scritto un libro sul monastero di Samos, un’imponente struttura religiosa risalente al settimo secolo, a circa 200 km da Vigo. Dal monastero dipendono oltre duecento chiese della zona. Quiroga racconta che nel 1945 il monastero era guidato dall’abate Mauro, molto vicino al dittatore Franco. In quell’anno cominciarono ad arrivare diversi nazisti, travestiti da monaci. Il monastero li ospitava e forniva loro documenti falsi e nuove identità, in attesa che si imbarcassero sui sottomarini che li avrebbero portati in Argentina. Misteriosamente, la biblioteca e l’ala del monastero dove venivano ospitati i nazisti, nel 1950 vennero distrutte da un incendio.Un vecchio della zona afferma che il primo maggio del 1945 vide con i suoi occhi Hitler in persona al monastero. Era il giorno dopo la presunta morte del dittatore tedesco. Questo testimone afferma che nel 1945 aveva 15 anni e lavorava insieme ad altri operai alla costruzione di tunnel segreti all’interno del monastero. Queste opere erano state ordinate dai tedeschi. Fu durante quei lavori, che un giorno vide distintamente Hitler. Del resto, la presenza del Fuhrer era
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nota ai residenti della zona. Secondo il racconto del vecchio spagnolo, Hitler era atterrato con un aereo, insieme ad altre quattro persone, in una pista nei pressi della cittadina di Còrneas. Da qui, poi, lo avrebbero portato al monastero. Il vecchio insiste sul fatto che anche altre persone avrebbero visto il dittatore tedesco, quando era sceso dall’aereo. Gerrard e DePaul si recano quindi a Còrneas, in cerca di nuovi testimoni. E un altro salta fuori. All’epoca aveva 18 anni e spiega che stava pescando nel fiume, quando vide un aereo abbassarsi sopra la sua testa. Atterrò in un campo di patate lì vicino e ne uscirono il pilota con quattro o cinque soldati tedeschi. Il giornalista spagnolo Serafin Terrajorres conferma che sul posto c’era una caserma che ospitava soldati tedeschi. Sul tetto di questa caserma si trovava un’antenna radio di 120 metri, costruita dalla Telefunken, all’epoca una delle industrie di comunicazione più importanti della Germania. In seguito ne costruirono altre due, che svolgevano la funzione di radiogoniometro per gli aerei in avvicinamento. In pratica, una specie di radio faro che permetteva l’atterraggio nella zona. Gli americani verificano anche la grandezza del campo di atterraggio: era lungo 2.454 metri e largo 430 metri. Ad un Condor tedesco ne bastavano 1.800 per atterrare.
Rifornimento alle Canarie Si presenta un altro problema. La distanza tra la costa spagnola e quella argentina, come abbiamo visto, è di circa 12mila km. Si tratta di un viaggio molto lungo, estenuante. Particolarmente gravoso, poi, per un uomo come Hitler che soffriva di asma e ulcera. Baer si domanda, dunque, dove un sottomarino possa fare tappa prima di intraprendere la pista atlantica. La risposta è una sola: le isole Canarie, a quel tempo territorio neutrale in quanto parte della Spagna. Dopo 1500 km dalla partenza, sono l’unico posto dove un UBoot si poteva fermare per fare rifornimento. La squadra americana, dunque, si sposta a Las Palmas, capitale della Gran Canaria. La prima persona che incontrano è Francisco Kampof, discendente di una delle più grandi compagnie navali degli anni Quaranta: la Warman House. Era stata fondata da suo nonno, un ingegnere. Kampof spiega che durante la guerra gli UBoot tedeschi facevano regolarmente scalo a Las Palmas, dove facevano rifornimento, riparavano eventuali guasti e caricavano siluri. A Las Palmas, infatti, si trovava una forte concentrazione di tecnici tedeschi, in stretto contatto con la Germania. Le comunicazioni radio venivano eseguite con quattro macchine Enigma, cioè con uno strumento che criptava qualunque messaggio inviato via etere. Solo verso la fine della guerra un gruppo di matematici inglesi riuscì a scoprire, e a decriptare, il metodo di trasmissione. Gli armamenti dei sottomarini venivano eseguiti in tunnel sotterranei, prossimi al mare. Javier Duran, un giornalista del posto, rivela che nella zona ci sono circa 7000 metri quadrati di gallerie, con ventilazione naturale e meccanica. I tedeschi, insomma, avevano costruito una vera e propria base militare segreta che costituiva uno strategico punto d’appoggio nel bel mezzo dell’Atlantico. Continuando ad indagare, gli americani scoprono che il primo tedesco ad arrivare alle Canarie fu l’ingegnere Gustav Winter che nel 1930 si trasferì alle Canarie, dove costruì una villa che divenne zona militarizzata sotto il regime di Franco. E da allora che i tedeschi cominciarono a costruire la loro base alle Canarie. Gli americani si recano sul posto dove sorge la villa: si parla di 17 ettari di terreno privato
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e vulcanico, in prossimità del mare, completamente sgombro di vegetazione, nel mezzo del quale sorge la villa. Da lì gli occupanti potevano controllare tutta l’area intorno. Senza ombra di dubbio, quella costruzione in mezzo al nulla è una fortezza, un nascondiglio ideale. Gli americani riescono ad ottenere il permesso di visitarla dagli attuali proprietari, una società di sviluppo immobiliare che vuole trasformare la villa in un resort turistico. Oltre a diverse stanze in grado di ospitare più di dieci persone, gli americani trovano anche una specie di struttura medica, completamente piastrellata. In altre parole, una specie di clinica dove si potevano effettuare operazioni chirurgiche e avere assistenza. Il posto ideale dove nascondersi, in caso di bisogno. Soprattutto per un fuggitivo del livello di Adolf Hitler.
Destinazione: San Carlos de Bariloche Secondo i documenti dell’FBI, vi sono due ipotesi praticabili per trovare quella che fu la destinazione finale di Adolf Hitler. La prima dice che il dittatore tedesco e i suoi collaboratori si fossero diretti verso le Ande meridionali, dove poi si sarebbero nascosti in un ranch. La seconda, invece, afferma che Hitler viaggiasse verso la vasta tenuta di un tedesco in Patagonia. Comunque sia, la strada da percorrere passa per San Carlos de Bariloche, la Berlino argentina. Bariloche è nota da anni per essere l’epicentro della fuga dei criminali tedeschi in Argentina. Qui, Reinhard Koops, ufficiale dell’intelligence nazista, ricercato per crimini contro l’umanità, è morto all’età di 86 anni. Sempre qui, Erich Priebke, capitano delle SS, responsabile del massacro di 325 italiani alle Fosse Ardeatine, ha vissuto liberamente, facendo l’insegnante, fino alla sua cattura nel 1995. A Bariloche, per essere chiari, gli stranieri non sono graditi e nessuno vuole avere a che fare con chi dà la caccia ai criminali nazisti. Tanto per dare un’idea più precisa di che cos’è questo posto, occorre sapere che Bariloche è un remoto paese al confine con il Cile, isolato, inaccessibile e protetto dal resto del mondo. Una volta era la roccaforte dei nazisti in fuga, che qui hanno ricostruito un angolo di Germania. L’architettura è in stile bavarese e non mancano i negozi che vendono cioccolato e altri generi tipicamente germanici. Per farsi aiutare nel difficile compito di raccogliere informazioni, la squadra americana ha assunto J.P. Cervantes, berretto verde con una lunga carriera militare alle spalle. Cervantes si era addestrato proprio a Bariloche con i militari argentini, i quali gli avevano detto che negli anni Quaranta la loro missione era proprio proteggere gli ufficiali delle SS rifugiati in loco. Del re-
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sto, nessuno a Bariloche parlerebbe mai con uno straniero. Indagando a livello istituzionale, gli americani scoprono che la linea ferroviaria che raggiunge Bariloche venne costruita dai tedeschi già nel 1934, undici anni prima della fuga di Hitler. I treni giungono da San Antonio Oeste, altra base nazista in Argentina, a 640 km di distanza. Il maggior utilizzatore della linea ferroviaria era il tedesco Geraldo Lahusen, che trasportava animali e persone fino a Bariloche. Insomma, un dominio tedesco in terra argentina costruito con largo anticipo, rispetto alla guerra, per poter permettere una comoda via di fuga, con protezione politica e finanziaria, qualora le cose si fossero messe male.
Casa Inalco, la villa sul lago Secondo i documenti FBI, Hitler avrebbe vissuto per un certo periodo di tempo in una villa protetta nei pressi di Bariloche, la Casa Inalco. Il nascondiglio era perfetto. Si tratta, infatti, di una residenza a diversi chilometri dalla città, circondata da 180 ettari di fitta foresta e accessibile solo dal lago, nei pressi del quale si trova. Due isolette ne nascondono la vista. Nessuna strada raggiunge la villa. Tutto quello che si sa è che tutto quel terreno venne acquistato nel 1940 da Jorge Antonio, capo della Mercedes Benz in Argentina, uno dei primi nazisti ad essersi trasferito qui. La residenza venne completata nel 1945 e poi non se ne sentì più parlare. Il problema è che la villa ancora oggi è proprietà privata e che gli attuali proprietari, dei quali non si sa assolutamente nulla, non rilasciano per-
messi di alcun tipo. L’area, insomma, è off limits, per cui l’unico sistema per vedere la villa è avvicinarsi di nascosto. Tim Kennedy si dice pronto a farlo, per cui gli americani decidono di raggiungere la locazione. Dopo alcune ore di viaggio in motoscafo, la squadra arriva nei pressi della piccola insenatura dove sorge la villa. Subito notano una torre di guardia che protegge l’area in entrata e in uscita. Se una mitragliatrice fosse piazzata lì, impedirebbe l’accesso di qualunque natante. L’imponente struttura di Casa Inalco sorge a una decina di metri dalla spiaggia, circondata da una fittissima vegetazione alle sue spalle. Tim Kennedy conta tre comignoli, due porte d’ingresso, quindici o diciassette finestre. Kennedy ferma il motoscafo dietro una delle due isolette di fronte alla villa, affinché non si possa notare dalla villa, e scende in acqua. A nuoto arriva fino alla villa. La prima cosa che vede, toccata terra, è una rampa da idrovolanti che dal lago arriva fino all’ingresso della villa. E’ chiaro che sia proprio quello il mezzo di trasporto più usato dai proprietari della villa. L’edificio, comunque, non è disabitato. Mentre Kennedy ispeziona la zona, nota una persona che esce dalla villa e si dirige verso la spiaggia. L’americano si nasconde e aspetta fino a quando il custode non rientra in casa. Poi, torna a nuoto verso il motoscafo. Bob Baer, a Los Angeles, decide che sia il caso di sapere qualcosa di più su quella villa che si configura come un perfetto nascondiglio per un fuggitivo come Hitler. Questa volta Tim Kennedy sarà affiancato da J.P. Cervantes e si faranno precedere da un drone, che controllerà la situazione dall’alto. Questa volta scoprono che, dietro la villa, c’è il sistema di areazione di un tunnel sotterraneo. Controllano con una microtelecamera in fibra ottica, dotata di un tubo di trenta metri. Ma si accorgono che sottoterra ci sono solo macerie. Il tunnel è stato fatto saltare.
La testimone che vide Hitler Proseguendo nelle loro indagini, gli americani apprendono dai documenti FBI che Hitler sarebbe stato ospite anche dell’albergo Eden di La Falda, poco fuori Cordoba, a metà tra Ba-
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riloche e Misiones. Vi si recano. Scoprono così che questo hotel, il più lussuoso della zona, era di proprietà di Ida e Walter Eichhorn, due nazisti della prima ora che si erano trasferiti in Argentina già nel 1912. Nelle lettere, Hitler li chiamava “miei cari amici”. A questo punto pare evidente che almeno una decina d’anni prima della fine della guerra, la Germania aveva costruito in Sud America un tessuto economicofinanziario in grado di nascondere e sostenere finanziariamente i propri capi, qualora la situazione fosse precipitata da un punto di vista militare. Quando gli americani giungono sul posto, l’Albergo Eden è ormai in disuso da anni. Ariel Mansoni, uno storico locale, spiega che la struttura a suo tempo era l’hotel più lussuoso dell’Argentina e aveva ospitato numerosità celebrità, come Albert Einstein. Negli anni Trenta era il punto d’incontro dei nazisti della regione di Cordoba. L’aiuto di Mansoni diventa determinante per scoprire un’altra testimone che sostiene di aver visto Hitler in persona proprio in quel posto. Secondo questa testimonianza, Hitler non stava nell’albergo, bensì nella casa degli Echhorn, a circa 150 metri dall’hotel. La persona di cui si parla è Catalina Gamero, la quale dice che tutti i giorni andava a portare la colazione a Hitler presso la residenza degli Echhorn. Secondo il racconto di questa signora, ormai molto anziana e malata, Hitler stette per 9 o 10 gior-
ni a La Falda, in casa dei coniugi Echhorn. Subito dopo, il dittatore si sarebbe spostato nel castello Mandl, anche questo di proprietà tedesca. Fritz Mandl, amico di Ida e Walter Echhorn, era conosciuto dall’FBI come il re delle munizioni austriaco. Secondo gli agenti FBI, aveva convertito la sua fabbrica di biciclette in Argentina in una fabbrica di munizioni. Un altro documento FBI, la cui fonte era un agente segreto francese, rivela che il 7 novembre 1944 vi fu una riunione con i maggiori industriali tedeschi, i quali vennero informati che la guerra non poteva essere vinta, pertanto gli imprenditori dovevano prepararsi a finanziare il partito nazista che sarebbe stato costretto alla clandestinità.
Hitler presente a un balletto in Brasile Lo stesso agente segreto di prima, avverte l’FBI che nel febbraio del 1947 a Cassino, città del Brasile a circa 800 km da Misiones, durante uno spettacolo che si svolgeva al Grand Hotel di Cassino, aveva riconosciuto senza ombra di dubbio Adolf Hitler tra il pubblico presente. L’agente riferisce, inol-
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tre, che vicino all’albergo si trovava una stazione radio dotata di una lunga antenna che, invece di essere in verticale, era stata collocata orizzontale, forse per non essere notata dall’alto. Per verificare l’informazione, Baer manda la sua squadra in Brasile. A Cassino gli americani incontrano Alessandra Farhina, direttrice ed esperta della storia dell’albergo della zona, l’Hotel Atlantico. La donna conferma che quello è lo storico, e unico, albergo della zona. Ed è lo stesso molto frequentato dai tedeschi nel dopo guerra. Scartabellando negli archivi della Gazzetta, un giornale locale, il giornalista Gerrard Williams scopre che il 5, 6 e 7 febbraio del 1947 al Grand Hotel Atlantico di Cassino si svolse uno spettacolo di danza classica, prima ballerina Liza Cova. La notizia dell’agente francese pare dunque confermata. Un’altra conferma arriva dalla dottoressa Tais Capello, una storica che da anni studia la presenza dei nazisti in Brasile. Alla Capello risulta che a Cassino risiedeva un tedesco di nome Sanders che aveva lavorato all’installazione di un stazione radio locale. Oggi quell’edificio non esiste più.
L’ultima segnalazione: Hitler a Bogotà Ma c’è un altro rapporto dell’FBI che suscita l’interesse della squadra americana. Il documento, datato 22 maggio 1948, colloca Hitler a Bogotà, in Colombia. Secondo questa nota informativa, Hitler sarebbe giunto in aereo a Bogotà insieme a due medici tedeschi e a due piloti. Secondo l’agente dell’FBI, il gruppo portava i piani segreti per la bomba B3 Skyrocket e l’intera documentazione sulle armi nucleari tedesche. Una volta atterrati, il pilota avrebbe bruciato l’aereo e sommerso i resti nella vicina palude. Queste informazioni corrispondono a quelle storiche in nostro possesso. Risulta, infatti, che già nell’aprile del ’39 la Germania aveva lanciato l’Uranprojekt, per sviluppare armi nucleari tedesche in segreto. Il missile B3 aveva una gittata di 3mila km, per cui dalla Colombia sarebbe stato in grado di raggiungere gli Stati Uniti. Quello del ’48 era l’ultimo rapporto FBI disponibile. La squadra americana si è recata anche in Colombia per vedere se riusciva a trovare i resti dell’aereo, ma non ci è riuscita. A questo punto non è stata più in grado di andare avanti. Cosa resta, dunque, di questa grande e complessa indagine internazionale? Considerando tutti gli elementi trovati, risulta che la Germania ha preparato con circa dieci anni di anticipo sulla Seconda Guerra Mondiale una base in America Latina per favorire un’eventuale fuga dei propri capi nazisti. Gli aerei che hanno lasciato la Germania sono giunti in Galizia, nella Spagna franchista; da qui i fuggitivi si imbarcavano con nuovi documenti e identità sugli UBoot tedeschi; la prima tappa era Las Palmas, alle Canarie, dove i sottomarini facevano rifornimento; successivamente ripartivano verso la costa meridionale dell’Argentina; qui trovavano una rete logisticofinanziaria in grado di smistarli in vari centri protetti. Dalle prove ottenute dall’FBI, e verificate dalla squadra di Bob Baer, risulta che effettivamente Hitler sia fuggito dal bunker e si sia rifugiato da qualche parte in America Latina. Ovviamente, sarebbe molto meglio se questa parte della storia sconosciuta fosse indagata e studiata dagli storici di professione, invece che dai giornalisti. Altrimenti, come spesso succede, la realtà finisce per diventare una specie di leggenda metropolitana sulla quale ognuno dice la sua. A meno che, e questo è più probabile, non ci sia l’interesse di qualcuno per lasciare tutto così com’è.
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Uno degli edifici caratteristici di Mada ‘In Saleh. L’enorme masso roccioso è stato inciso all’interno e all’esterno per ricavarci un locale che gli archeologi dicono essere stato destinato all’uso tombale, ipotesi frequente nel caso di incertezza della funzione
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MADA ‘IN SALEH, MERAVIGLIA DELL’ARCHITET TURA
A B A R A In tempi antichi la città era abitata da Thamudeni e Nabatei, ed era conosciuta con il nome di Hegra. Fu occupata da legionari romani durante l'espansione di Traiano nel Medioriente, nel secondo secolo d.C. Alcune delle iscrizioni rinvenute in questo luogo sono state datate al I millennio a.C. Tutti gli altri elementi architetturali risalgono invece al periodo dei Thamudeni e dei Nabatei, tra il II secolo a.C. ed i II secolo d.C. Recentemente sono state scoperte evidenze dell'occupazione romana ai tempi di Traiano e forse di Adriano: l'area montuosa di Hijaz nell'Arabia nordoccidentale probabilmente era parzialmente fertile e fece parte della provincia romana dell'Arabia Petrea con capitale Petra. Gli enigmi della Storia
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l sito archeologico di Mada’ In Saleh, precedentemente conosciuto come Hegra, è il più famoso e antico sito archeologico presente in Arabia Saudita. È anche il primo sito archeologico presente in Arabia ad essere stato incluso nella lista UNESCO dei patrimoni dell’umanità. Questo luogo è sorprendente quanto poco conosciuto; l’Unesco lo descrive come “un esempio eccezionale di realizzazione architettonica e di competenza idraulica”. Mada’in Saleh era uno degli avamposti meridionali dell’antica e misteriosa tribù dei Nabatèi, gli stessi che costruirono la magnifica città di Petra in Giordania, considerata dalla storiografia classica anche la loro antica capitale. Per edificare Mada’in Saleh gli antichi costruttori si avvalsero di tecniche architettoniche simili a quelle che furono adoperate per scolpire la città di Petra, a 500 km di distanza. Questa misteriosa ed enigmatica cultura era in origine una tribù nomade, e fu circa 2.500 anni fa che i
possiede mura, templi, torri, tutte decorate finemente con influenze assire, egizie, fenicie ed ellenistiche, oltre che molteplici condutture d’acqua, pozzi, cisterne ed acquedotti eseguiti con altissimo valore ingegneristico. Furono soprattutto queste grandissime innovazioni idrologiche, che riuscivano ad immagazzinare grandi volumi d’acqua, a permettere di prosperare malgrado i lunghi e prolungati periodi di siccità. I Nabatei riuscirono anche ad ampliare sorprendentemente le loro rotte commerciali, creando più di 2.000 insediamenti nelle zone che oggi fanno parte dei territori di Giordania, Siria e Arabia Saudita. Gli archeologi cercano ancora oggi di svelare la storia celata di questa civiltà dalle altissime capacità ingegneristiche, che purtroppo rimane ancora oggi avvolta nel mistero, malgrado le molte citazioni presenti nelle varie culture antiche che entrarono direttamente in contatto con loro.
Un altro degli alti monumenti; anche qui i motivi decorativi (lesene, gradoni in bassorilievo) rendono la facciata originale e leggera, oltre che esaltare l’effetto di alternanza tra spazi lisci e lavorati e roccia grezza. Si noti anche a destra il taglio netto della roccia, ottenuto non si sa con quali tecnologie loro insediamenti iniziarono a fiorire. Le rovine di Mada’in Saleh vengono attribuite solitamente oltre che ai Nabatèi anche alla stirpe pre-islamica dei Thamūdeni, e ne viene datata la costruzione tra il I secolo a.C. ed il II secolo d.C.. Questa città è una autentica meraviglia architettonica ed è una testimonianza inconfutabile dell’incredibile abilità in campo edilizio delle civiltà costruttrici, che più di 2.000 anni fa riuscirono a incidere splendidamente più di 131 tombe nella solida roccia, dislocate lungo oltre 13,4 chilometri, che necessitano di molte ore per essere visitate tutte con una guida esperta. L’imponente città
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Oggi è possibile osservare nelle vaste distese desertiche della zona molteplici e spettacolari grandi strutture tutte perfettamente scavate e finemente intagliate nella roccia di pura arenaria. La zona presenta molte cave che gli antichi ingegneri nabatèi si dice utilizzassero per estrarre gli enormi blocchi di pietra che poi utilizzarono per portare a compimento molti dei loro meravigliosi monumenti. Questo però non riguardò gli edifici, visto che per la realizzazioni di questi ultimi furono utilizzati blocchi di pietra di origine differente, e non sono mai state rinvenute cave simili nelle vicinanze e ancora oggi non si capisce bene
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Territori e Storia da dove provenissero originariamente. Alcuni studiosi credono che la risposta a questa domande si trovi celata sotto le fitte sabbie del deserto, con monumenti ancora tutti da scoprire. Ci sono poche informazioni su Mada’in Saleh e tutto ciò che conosciamo oggi proviene perlopiù da una cinquantina di iscrizioni (dalle varie lingue) rinvenute nelle numerose “tombe” e sulle facciate dei monumenti. Una di queste iscrizioni (di origine romana) mostra che Mada’in Saleh fu abitata almeno un secolo prima rispetto a quello che gli studiosi pensavano fino a quel momento. Sul sito ci sono anche circa 50 iscrizioni pre-nabatee tra cui anche molte pitture rupestri di origine non meglio identificata. Secondo lo studioso ellenico Strabone (60 a.C. – 20 d.C.), anche se le persone che vivevano nella zona erano governate da una famiglia reale, si dice che prevalesse un forte spirito democratico, unitario, e che il pesante carico di lavoro sia stato condiviso indistintamente da tutta la comunità. Come gran parte delle culture del mondo antico, essi adoravano un vasto pantheon di divinità, primo fra tutti il dio solare Dushara e la dea Allat. Il nome Mada’in Saleh (“città di Salih”) è associato al profeta pre-islamico di nome Ṣāliḥ, della tribù dei Thamūd, chee viene menzionato più volte nel Corano, il testo sacro arabo per eccellenza. Questa tribù è menzionata in molti versetti del Corano, per essere stata una comunità peccatrice e malvagia che non seguiva i precetti di Allah, che per questo motivo decise di punirli annientandoli definitivamente. Ancora oggi per questo motivo i numerosi resti dell’antico sito vengono considerati dai musulmani come maledetti, e
Un collage di foto dei monumenti presenti nella zona, tutti caratterizzati dalla natura a intaglio
Un altro monumento della zona
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Anche qui si noti la finezza nell’intaglio, oltre al gusto artistico particolare ed equilibrato, tutto teso a rispettare la natura originaria del bancone roccioso molti moderni sauditi sconsigliano a musulmani e non di non intraprendere pellegrinaggi verso questo luogo nonostante lo stesso governo cerchi di incoraggiarne (del tutto legittimamente) quanto più possibile il turismo.
La storia del profeta ṣālih e della tribù dei thamūd
Ṣāliḥ (o Saleh) è un profeta pre-islamico ed è l’equivalente del profeta Salah citato nella Bibbia ebraica. Era il profeta protettore della tribù dei Thamūd, discendenti di un pronipote del mitico Noè. Tuttavia si racconta che questa tribù diventò sempre più corrotta e legata ai beni materiali e si allontanò sempre di più da Allah. A quel punto Allah decise di mandare il loro profeta Ṣāliḥ per ammonirli e riportarli sulla retta via, avvertendoli che se avessero continuato nelle loro usanze politeiste sarebbero stati annientati. Ṣāliḥ esclamò: “O popolo mio, adorate Allah! Non c’è dio all’infuori di Lui. Vi creò dalla terra e ha fatto sì che la colonizzaste. Implorate il Suo perdono e tornate a Lui. Il mio Signore è vicino e pronto a rispondere” (Ch 11:61 Corano). I Thamūd risposero stizziti: “O Ṣāliḥ, finora avevamo grandi speranze su di te. [Ora] ci vorresti interdire l’adorazione di quel che adoravano i padri nostri? Ecco che siamo in dubbio in merito a ciò verso cui ci chiami! [il monoteismo]” (Ch 11:62 Corano). Ṣāliḥ li avrebbe ammoniti anche di lasciare pascolare in pace una cammella ma i Thamūd non ne vollero sapere, e sicuri di sé loro disubbidirono, non rispettando le usanze “sacre” che gli arabi della jāhiliyya erano tenuti a rispettare, quindi uccisero l’animale suscitando così la collera di Allāh, che provocò
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Territori e Storia
la morte di tutte la genti che non avevano ascoltato il profeta che era stato mandato loro. “Così i terremoti li atterrirono ed essi giacevano come morti, prostrati nelle loro case. Poi (Salih) si voltò verso di loro e disse: “O popolo mio! Ho trasmesso a voi il messaggio del mio Signore e vi ho dato un buon consiglio ma voi non apprezzate i buoni consiglieri” (Ch 7: 73-79 Corano). Nel Corano, così come nella Torah ebraica, c’è da dire che sono abbastanza ricorrenti situazioni simili; basti ricordare ad esempio il famoso evento biblico della distruzione delle “dissolute” città di Sodoma e Gomorra, oppure la storia – narrata
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sempre nel Corano e nella raccolta di novelle orientali “Le mille e una notte” – riguardante la distruzione della mitica città d’ottone di Ubar Wabar, l'”Iram delle colonne”, fondata dalla stirpe pre-islamica – sterminata perché considerata anch’essa peccatrice – dei Banū ʿĀd. Il regno dei Nabatei infine diminuì con il cambiamento di rotte commerciali verso Palmyra in Siria e l’espansione del commercio marittimo dalla penisola arabica in Egitto e durante il 4 ° secolo d.C.; essi abbandonarono definitivamente la loro splendida capitale Petra per migrare verso nord, scomparendo così misteriosamente e per sempre.
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Culti e Storia
IL CULTO DEL TORO NEL MEDITERRANEO ANTICO Nell'antico bacino del Mar Mediterraneo, in un'epoca ormai dimenticata dall'uomo, gli Dèi erano venerati, adorati e rappresentati nelle più svariate forme e modalità. Quasi sempre erano raffigurati in sembianze antropomorfe, cioè simili agli uomini, altre volte in forma di animali. 36
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Culti e Storia di Giuseppe Di Re
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Il soffitto delle grotte di Altamira raffigurante una mandria di bisonti
Teste di tori in gesso provenienti da Çatal Hüyük in Anatolia, conservate al museo di Ankara
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ell’antico bacino del Mar Mediterraneo, in un’epoca ormai dimenticata dall’uomo, gli Dèi erano venerati, adorati e rappresentati nelle più svariate forme e modalità. Quasi sempre erano raffigurati in sembianze antropomorfe, cioè simili agli uomini, altre volte in forma di animali. In questo periodo molti culti e simboli religiosi cominciarono a circolare tra le culture umane, e tra questi uno in particolare fu oggetto di venerazione e adorazione da parte di quasi tutte le culture del Mediterraneo antico. Si tratta del toro, considerato animale divino e sacro da quasi tutte le culture dell’antichità, e fu anche un simbolo associato alla Luna, alle costellazioni, alla fertilità, alla rinascita e persino al potere dei Re. Le prime rappresentazioni dell’arte paleolitica e l’enigmatica venerazione del toro in Anatolia (l’attuale Turchia) influenzarono una varietà di culti sacri e religiosi che si estesero in ogni luogo del mondo antico. Dal toro sacrificato nella Creta minoica al culto del toro Apis in Egitto al ritratto sacrificale presente nel mitraismo romano, il toro era parte integrante di moltissime e importanti tradizioni religiose e di diverse culture, distanziate tra loro dal tempo e dallo spazio. Prove del culto del toro sono state trovate in varie zone del mondo, come l’Europa, l’Africa e l’India. Il toro era oggetto di venerazione e il culto dedicatogli cominciò a diffondersi intorno a 15.000 anni fa, alla fine del periodo del Paleolitico superiore. Una delle prime testimonianze archeologiche che riguardano la raffigurazione del toro nel Paleolitico superiore la si può trovare nelle pitture rupestri presenti nelle Grotte di Altamira (18.500-14.000 anni fa), nel nord della Spagna. Il soffitto della grotta è coperto da imponenti dipinti che rappresentano una mandria di grossi bisonti di una razza oggi estinta. Anche se non è stata trovata alcuna prova che possa far pensare alla presenza di rituali e sacrifici riguardanti il toro ad Altamira, è interessante notare come le cerimonie iniziatiche di alcune religioni dell’Asia Minore e della Grecia avvenivano proprio all’interno di grotte. È possibile quindi che l’adorazione del toro abbia avuto inizio con queste pitture presenti nelle grotte e si sia successivamente sviluppata per migliaia di anni, influenzando le radici dei rituali religiosi che si svolgevano nelle grotte e nei templi. La prima testimonianza del culto del toro è stata trovata nel vicino Oriente antico, a Çatal Hüyük in Anatolia, intorno al 7000 a.C.. Pitture rappresentanti i tori sono state rinvenute sulle pareti settentrionali dei santuari che sono assimilabili alle grotte del Paleolitico. Molti dipinti raffigurano anche giovani acrobati che giocano e saltano sulle spalle dei grossi animali. Oltre a queste antiche pitture, nei santuari furono rinvenute anche teste di tori realizzate in gesso. Alcuni tori sono raffigurati come partoriti da una “dea” della fertilità, indicando con ciò anche una forte connessione tra il toro e l’antico culto preistorico della Dea Madre. I teschi e le corna di questi animali furono usati anche per decorare i santuari dove si svolgevano i culti. Le pitture della dèa e del toro, così come le pitture raffiguranti grandi avvoltoi, mostrano le credenze religiose degli abitanti di Çatal Hüyük che si concentravano sul concetto ciclico di morte e di rinascita. Pitture di enormi avvoltoi indicano una pratica religiosa in cui i corpi dei tori morti venivano lasciati all’aperto per poi venire scarnificati dagli uccelli, così da lasciare solo i resti degli scheletri. La migrazione di uomini e commercianti di Çatal Hüyük potrebbero averli portati ad “esportare” le proprie pratiche rituali e religiose anche in altre aree abitate nei millenni a seguire.
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Culti e Storia
Sfinge di toro con testa umana proveniente dalla città sumera di Girsu, 2.140 a.C. (Museo del Louvre di Parigi)
Il culto del toro nella mezzaluna fertile In Mesopotamia il toro, più che oggetto di culto e di venerazione, veniva considerato come un simbolo associato ad alcune divinità e simboleggiava potenza e regalità. In particolar modo tra i sumeri esso era associato a due tra le più importanti divinità di tutto il loro vasto “Pantheon”, ossia gli Anunna ENKI ed ENLIL, che in alcuni poemi sarebbero stati definiti anche come il “grande toro”, ed erano onorati con canti e rituali. A volte Enki ed Enlil erano ritratti anche con fattezze di toro nei sigilli e in alcune statue. Sono state trovate anche scene di sacrifici di tori incise finemente su sigilli sumeri. Ci sono scene che rappresentano rituali in cui un toro viene pugnalato alla gola e potrebbero costituire le prime testimonianze di sacrifici del toro a scopo rituale. In Mesopotamia il toro, più che oggetto di culto e di venerazione, veniva considerato come un simbolo associato ad alcune divinità e simboleggiava potenza e regalità. In particolar modo tra i sumeri esso era associato a due tra le più importanti divinità di tutto il loro vasto “Pantheon”, ossia gli Anunna ENKI ed ENLIL, che in alcuni poemi sarebbero stati definiti anche come il “grande toro”, ed erano onorati con canti e rituali. A volte Enki ed Enlil erano ritratti anche con fattezze di toro nei sigilli e in alcune statue. Sono state trovate anche scene di sacrifici di tori incise finemente su sigilli sumeri. Ci sono scene che
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rappresentano rituali in cui un toro viene pugnalato alla gola e potrebbero costituire le prime testimonianze di sacrifici del toro a scopo rituale. Gugalanna, “i cui piedi fanno tremare la terra”, venne trafitto a morte nello scontro dalla spada di Gilgameš e smembrato da Enkidu. La dea Inanna osservò la scena dall’alto delle mura della sua imponente città ed Enkidu, sfi-
Sigillo sumero con la raffigurazione di tori
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A sinistra: il sigillo assiro su agata marrone del 7° secolo a.C. raffigurante Gilgamesh ed Enkidu che uccidono Gulaganna; a destra: Gilgamesh sconfigge Gulaganna dando la dea, prese le cosce di Gugalanna e le mostrò agitandole dinanzi alla dea, minacciandola che avrebbe fatto lo stesso con lei se fosse riuscito a catturarla. Per la sua empietà e sfrontatezza, Enkidu morirà, durante il viaggio che svolse insieme all’amico di mille avventure Gilgameš, quando partirono insieme alla ricerca dell’immortalità. Dopo questa periodo caratterizzato dal culto in simbiosi con quello della Dea Madre, l’adorazione del toro si è poi evoluta a comprendere i simboli della primavera e della rigenerazione. Molti culti successivamente avrebbero usato il toro come oggetto principale dei sacrifici rituali, specialmente quelli legati al Sole, come nel mitraismo romano. Nelle successive culture mesopotamiche, il toro assunse significati simbolici secondari. Il toro e il leone sono stati spesso rappresentati come creature alate che simboleggerebbero il potere reale, e venivano posti solitamente a guardia dei palazzi imperiali. Per i babilonesi in particolare, le corna del toro venivano messi in correlazione con il simbolo della mezzaluna.
La storia biblica del vitello d’oro Il vitello d’oro (in ebraico: ַהגלֵע ֶּ הז ָ ב ָ , ‘ēggel hazâhâv) secondo la Torah Ebriaca fu un idolo fabbricato da Aronne – fratello di Mosè – con l’oro preso in Egitto dal Faraone, per compiacere gli ebrei durante l’assenza di Mosè quando questi salì sul Monte Sinai per ricevere dalla mano del dio Yahwèh le tavole della legge. In ebraico l’episodio è noto come ḥēṭ’ ha‘ēggel (אטֵח ְ ל ֵגעַה ֶּ ) o “Il peccato del Vitello”, e viene citato per la prima volta nel libro dell’Esodo (Esodo 32:4). Il culto del toro come abbiamo visto era comune in molte culture. In Egitto, da dove secondo la narrazione dell’Esodo provenivano all’epoca gli ebrei, il Toro Apis era un simile oggetto di culto, e alcuni studiosi ritengono che gli ebrei abbiano fatto rivivere questo culto nell’episodio della forgiatura del toro d’oro. Altri credono che Yahwèh, il Dio di Israele, fosse associato e rappresentato a volte come una divinità dalle sembianze di vitello o di toro per via di un processo di assimilazione ad altri culti religiosi presenti nello stesso periodo. Tra i popoli limitrofi agli egiziani e agli ebrei nell’antico Vicino Oriente e nel Mar Egeo, l’uro – il
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Sigillo sumero con la raffigurazione di tori toro selvatico – era largamente adorato e indicato spesso come simbolo lunare (per via della forma delle corna a disegnare una U simile alla Luna in fase crescente), ed era la raffigurazione propria di EL, la divinità suprema di tutti gli antichi popoli del Medio Oriente. Nel libro dell’Esodo (cap. 32) si narra che, dopo l’uscita degli ebrei dall’Egitto, mentre Mosè era salito sul Monte Sinai a parlare con il suo Dio e ricevere da esso i dieci comandamenti (Esodo 24:12-18), gli israeliti, credendo che il profeta non sarebbe più sceso nell’accampamento, chiesero ad Aronne di fabbricare loro un dio per poterlo adorare (Esodo 32:1): “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto“. Aronne dunque raccolse i loro gioielli d’oro che avevano ottenuto dal Faraone prima di uscire dall’Egitto, li fuse assieme poi forgiando una grande statua raffigurante un vitello, ed essi la adorarono dichiarando: Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” (Esodo 32:4). Aronne costruì anche un grande altare davanti al vitello e proclamò che il giorno successivo sarebbe stata una giornata
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Il toro nella cultura egizia veniva usato anche per rappresentare la dea Hathor che diffonde abbondanza e benedizioni di festa dedicata al Signore. Il giorno dopo quindi tutti si alzarono presto offrendo “olocausti” e presentando sacrifici di comunione. “Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi al divertimento” (Esodo 32:6). Dio allora disse a Mosè ciò che gli israeliti stavano facendo giù all’accampamento: “Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata!. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione” (Esodo 32:910). Mosè supplicò Il suo Dio di risparmiare gli israeliti e di perdonarli, ed “il Signore abbandonò il proposito di nuocere al Suo popolo” (Esodo 32:11-14). In seguito Mosè ridiscese dal monte, ma vedendo il vitello d’oro andò su tutte le furie e, preso da impeto, gettò a terra le tavole della Legge su cui erano incisi i comandamenti, frantumandole, e rimproverò fortemente Aronne e tutti gli israeliti. Mosè dunque prese il vitello, lo gettò nel fuoco bruciandolo e riducendolo in polvere, poi sparse la polvere nell’acqua e costrinse gli israeliti a berla. Infine si mise alla porta dell’accampamento e disse: “Chi sta con il Signore venga da me!”. Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Gridò loro: “Dice il Signore, il Dio d’Israele: ‘ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente’. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo” (Esodo 32:26-28).
Il culto del toro nella creta minoica Una zona in cui gli elementi del culto della Dea Madre e del culto del Toro sono assimilabili è quella rappresentata dall’isola greca di Creta durante la dominazione di Minosse, nel secondo millennio a.C.. Ci sono prove che Creta sia stata abitata da popoli migranti provenienti dall’Anatolia (Turchia) e forse anche proprio dalla città già citata di Çatal Hüyük. Lo storico delle religioni e filologo tedesco Walter Friedrich Max Burkert (Neuendettelsau, 2 febbraio 1931 – Zurigo, 11 marzo 2015) nel suo libro “La religione Greca” pubblicato nel 1985 afferma che: “i reperti ritrovati nella città neolitica di Çatal Hüyük rendono quasi impossibile dubitare che il simbolo cornuto che Evans chiamava ‘le corna della consacrazione’ derivi effettivamente da vere corna di toro”. L’archeologo inglese Arthur Evans effettuò importanti scavi nell’isola di Creta, riportando alla luce le rovine dell’antico palazzo di Cnosso, eretto dalla popolazione che egli stesso definì “minoica”, dal nome del mitologico re
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Ricostruzione delle “corna della consacrazione” nel Palazzo di Cnosso cretese Minosse. Sulle pareti di quel tempio furono ritrovate, dipinte, delle grandi corna di toro poi ribattezzate “Corna della consacrazione”. Sono stati rinvenuti anche notevoli affreschi in ceramica ancora perfettamente intatti – oggi custoditi al museo archeologico di Candia – che rappresentano scene di giochi con i tori, processioni ecc.. I muri erano ricoperti da intonaci affrescati con soggetti marini, combattimenti con tori e motivi geometrici datati intorno al 2.000 a.C.. Le stesse tinte accese che troviamo in questi affreschi le ritroviamo, nello stesso periodo, sui pilastri dei vari palazzi cretesi eretti a Cnosso. Famoso in questo senso è il cosiddetto “Affresco della taurocatapsia“, un dipinto a secco su stucco raffigurante una scena di taurocatapsia appunto (nome di una lotta rituale con un toro che si teneva in occasione di festività in Tessaglia, a Smirne e a Sinope), risalente ad un periodo che va dal Medio Minoico III al Tardo Minoico B (XVII-XV secolo a.C.); esso venne scoperto sopra un muro nel lato est del palazzo di Cnosso, nel cortile della “bocca in pietra”. Questo affresco è esposto oggi al Museo Archeologico di Heraklion. Il Museo Archeologico di Herakleion contiene anche una collezione unica di oggetti antichi provenienti da scavi effettuati in tutte le zone dell’isola, tra cui i siti archeologici di Cnosso, Festo, Gortina e molti altri. Gli oggetti ivi esposti provengono principalmente dal periodo preistorico minoico che prende appunto il nome dal leggendario re di Creta Minosse. Il museo è diviso in 20 gallerie e contiene reperti di palazzi, case, tombe e grotte, disposti in gruppi in base al periodo e alla provenienza. Tra i tanti ritrovamenti notevoli spiccano in particolare alcune sorprendenti asce di bronzo dall’aspetto gigantesco, rinvenute nei pressi del sito archeologico di Megaron di Nirou, sempre a Creta. Le doppie asce secondo la tradizione venivano utilizzate a Creta come strumenti “rituali” per sacrificare il toro sacro, che appunto era il simbolo religioso principale dei Cretesi. Quello che impressiona sono le loro dimensioni gigantesche, che potrebbero alludere all’altezza fuori norma degli utilizzatori delle medesime (ne abbiamo parlato nell’articolo dedicato ai “giganti”). Le pratiche religiose cretesi possono affondare a loro volta le proprie radici nel culto della Dea dell’Anatolia, come suggerisce anche l’istituzione dell’epoca della Governante, che era prevalentemente di sesso femminile. Oltre che nelle già citate località di Çatal Hüyük e Creta, scene che raffigurano “giochi con i tori” possono essere osservate anche in Egitto nell’antica città di Tell el-Daba’a, l’attuale città di Avaris
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Culti e Storia potentissimo “Minotauro“. Le storie narrate attraverso il linguaggio mitologico di “Teseo e il Minotauro”, “Teseo e il toro di Maratona” e di Zeus ed Europa affondano le proprie radici appunto nella cultura cretese.
Medea e il toro di maratona
L’affresco della taurocatapsia nel Grande Palazzo di Cnosso, a Creta (un tempo capitale dei sovrani del popolo hyksos). Anche se il toro era chiaramente molto importante per la cultura cretese, non vi è alcuna prova che vi sia stato adorato come un dio, come ad esempio avveniva invece per il toro Apis in Egitto il quale, nel periodo della XX dinastia egizia nel cosiddetto “Nuovo regno”, era considerato l’incarnazione vivente del Dio Ptah. A Creta, in un sarcofago situato ad Aghia Triada, sembrerebbe rappresentato un sacrificio rituale con un toro. Da un lato del sarcofago il toro è mostrato sdraiato su un tavolo con la gola tagliata mentre il sangue sgorga raccolto in un vaso. L’altro lato del sarcofago mostra una donna che versa quello che è probabilmente il sangue del toro in un altro vaso per un’offerta. Questa scena secondo gli studiosi potrebbe rappresentare un rituale in cui il sangue del toro fu usato come simbolo della rinascita per un defunto. In Grecia, successivamente continuarono alcuni aspetti del culto del toro connesso alla civiltà cretese.
Il toro nella mitologia greca La mitologia greca abbonda di antichissime storie e tradizioni in cui vengono citati i tori e altre figure antropomorfe dalle caratteristiche ibride tra il toro e l’uomo, come il mitologico e
L’eroe Teseo, figlio di Etra ed Egeo, divenuto adulto quando giunse ad Atene, non volle rivelare subito la propria identità. Medea però lo riconobbe immediatamente come figlio di Egeo e temette che potesse sostituire suo figlio Medo – il figlio che lei aveva dato al re di Atene – nella successione al trono, e tentò così di provocare la morte di Teseo chiedendogli di sottoporsi ad una difficilissima prova, quella di catturare il temibile Toro di Maratona, uno dei simboli del dominio cretese. Teseo accettò, poiché in qualità di grande eroe e abile guerriero non si sarebbe mai tirato indietro di fronte ad una sfida, anche se questa potesse apparire quasi impossibile. Lungo la strada che portava a Maratona Teseo trovò riparo durante una grande tempesta nella capanna di una donna anziana di nome Ecale, che giurò di fare un sacrificio in onore di Zeus se l’eroe fosse riuscito nella sua impresa. Teseo così si mise in viaggio e sconfisse e catturò il toro ma, tornato alla capanna della vecchia Ecale, la trovò morta. In suo onore allora l’eroe decise di dare il suo nome ad unadelle zone dell’Attica, rendendo i suoi abitanti in un certo senso figli adottivi dell’anziana Ecale. Quando tornò trionfante nella città di Atene ed ebbe sacrificato il toro agli dèi, Teseo prese parte a un banchetto nella dimora di Egeo. Medea allora tentò di avvelenarlo, ma prima che egli potesse bere dal calice all’ultimo momento suo padre Egeo lo riconobbe per via dei sandali e della particolare spada che portava sempre con sé e strappò la coppa di vino avvelenato dalle sue mani. Così padre e figlio riuscirono finalmente a riunirsi.
Teseo e il minotauro Nel mito di Teseo e del Minotauro il Re di Creta Minosse aveva vinto la guerra contro Atene. Ordinò allora agli ateniesi che ogni nove anni (secondo alcune versioni ogni anno) inviassero sette fanciulli e sette fanciulle ateniesi a Creta, dove sarebbero
Teseo doma il toro di Maratona, di Charles André Van Loo
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Culti e Storia o, secondo altre versioni della storia, sotto un platano. Agenore il padre di Europa preoccupato mandò i suoi figli alla ricerca della sorella. Il fratello Fenix, dopo varie e infruttuose ricerche, divenne il capostipite dei Fenici. Un altro fratello, Celix, si installò in un’area sulla costa sudorientale dell’Asia Minore, a nord di Cipro, e divenne il capostipite dei Cilici. Cadmo, il più famoso dei fratelli, arrivò fino in Grecia dove fondò l’antica città di Tebe. Europa divenne dunque la prima regina di Creta. Ella ebbe da Zeus tre figli: Minosse, Radamanto e Sarpedonte, che vennero in seguito adottati da suo marito Asterione re di
Teseo sconfigge il Minotauro e libera i giovani ateniesi stati sacrificati al Minotauro nel Labirinto. Il leggendario eroe Teseo, divenuto re di Atene, quando arrivò il momento di effettuare la terza spedizione sacrificale si offrì subito volontario per fermare questo abominio ed andare ad uccidere il mostro. Quando arrivò a Creta incontrò la bella Arianna, figlia del re Minosse, che si innamorò subito di lui e lo aiutò a ritrovare la via d’uscita dal labirinto donandogli una matassa di filo che, srotolata, gli avrebbe permesso di seguire a ritroso le proprie tracce, e una spada avvelenata che sarebbe servita all’eroe per uccidere il terrificante mostro. Trovato il Minotauro, Teseo lo uccise liberando così i ragazzi ateniesi che guidò fuori dal labirinto.
Il mito di Zeus e Europa Europa era la figlia di Agenore, re di Tiro, un’antica città fenicia. Quando Zeus arrivò a Creta la vide mentre raccoglieva fiori insieme ad altre sue coetanee vicino ad una spiaggia, e se ne innamorò. Allora il Dio inventò uno dei suoi stratagemmi: ordinò al dio Ermes di guidare i buoi del padre di Europa verso quella spiaggia. Zeus quindi prese le sembianze di un bellissimo toro bianco, le si avvicinò e si stese ai suoi piedi. Europa salì sul dorso del toro, e questi la portò attraverso il mare fino all’isola di Creta. Zeus rivelò quindi la sua vera identità e tentò di violentarla, ma Europa resistette. Zeus si trasformò quindi in aquila e riuscì a sopraffare la donna in un boschetto di salici
Europa e Zeus incarnato nel toro
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Il Bue Api presente nel Serapeum di Saqqara, in Egitto. L’animale spesso veniva raffigurato con un disco solare tra le corna. Gli israeliti ne crearono una copia e la adorarono durante l’assenza di Mosé (episodio narrato nell’Esodo) Creta. Dopo la morte di Asterione, Minosse diventò re di Creta e fu l’iniziatore della civiltà minoica. In onore del padre e della madre di quest’ultimo, i Greci diedero il nome di “Europa” al continente che si trova a nord di Creta. Radamanto, secondo Omero (Odissea, IV, 563-564) dimorando nei Campi Elisi (Isole dei Beati) divenne il Signore del mondo ultraterreno. Sarpedonte, dopo la morte del padre putativo Asterione, entrò in conflitto con il fratello Minosse per la successione al trono di Creta. Non riuscendo a divenire re di Creta, emigrò in Caria, una regione storica nell’ovest dell’Anatolia, dove fondò l’antica città di Mileto. I riti del culto del toro nelle zone rurali greche erano sacrificali e spesso avevano luogo all’interno di grotte. Il toro era spesso identificato con un dio, di solito Dioniso, Zeus o Poseidone, e il sacrificio dell’animale simboleggiava la morte e la successiva rinascita della divinità. Dioniso era a volte anche rappresentato in forma di uomo-toro con le
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Culti e Storia corna alte in testa, e veniva onorato nelle “feste della fertilità”. Un sacrificio del toro è stato incluso anche come parte integrante del culto misterico Elusino di Demetra e Persefone.
Il culto del toro nell’antico Egitto L’antico Egitto come noto era il centro più importante per il culto del toro di tutta l’antichità, e questo comprendeva un’ampia varietà di aspetti, tra cui riti sacrificali, l’identificazione del toro con le divinità e con il simbolo del dominio del Faraone e il suo stesso potere reale. La prima testimonianza del culto del toro in Egitto risale al periodo pre-dinastico e si trova in una tomba situata a Hierakonopolis. La tomba “100” – purtroppo oggi distrutta – fu scoperta dall’archeologo Frederick W. Green nell’inverno del 1898 in una necropoli situata nell’antica città egizia di Nekhen chiamata successivamente dagli ellenici “Hierakonpolis”, ovvero la “città del falco”. Oggi la si può osservare solo nei disegni: essa era costituita da una tomba in cui erano stati sepolti un toro, una vacca e un vitello coperti da un baldacchino.Tori selvaggi sono dipinti sulle pareti delle tombe, così come vengono rappresentate svariate scene di caccia e di guerra, anche se – al dire il vero – non è ancora del tutto chiaro il significato di tali disegni. Questi dipinti sono ancor oggi dibattuti da stoici e accademici poiché i frammenti originali sono stati occultati e relegati in una sperduta sala al piano superiore del Museo Egizio del Cairo, lontano dalla vista di curiosi, visitatori e turisti appassionati, e per questo per anni non è stato possibile studiarli in maniera approfondita. Quando il leggendario sovrano egizio Narmer unificò l’Alto e il Basso Egitto, il toro divenne la personificazione stessa del Re e divenne un simbolo associato al suo potere reale. La “Tavoletta di Narmer”, chiamata anche La “Paletta dei Tori” associata al re egizio Narmer, raffigura in ogni suo lato il re come un toro che calpesta i suoi nemici. Il toro è stato utilizzato anche come decorazione funeraria durante la prima di-
nastia egizia. Le tombe classificate come “3504” e “3507” scoperte nella città di Saqqara presentavano le teste dei tori che circondavano il perimetro della tomba. La tomba 3504 in particolare comprendeva circa 300 di queste teste. In ogni sito le teste dei tori sono fatte di argilla, e sono state adornate con corna vere di tori, del tutto simili alle teste in gesso trovate a Çatal Hüyük. Anche a Saqqara è stato trovato un vero cranio di toro sepolto sotto un altare nel complesso funerario della Piramide. Dunque Il cranio del toro aveva chiaramente un significato speciale per gli antichi egizi della prima dinastia. Anche il famoso culto del toro Apis ha origine nella città di Saqqara sia nella prima che nella seconda dinastia. L’Apis fu adorato come l’incarnazione del potente dio Ptah. Lo storico greco Erodoto descrive così l’Apis nelle sue “Storie”: “Api è un giovane toro la cui madre non può avere altri parti; gli egiziani la credono fecondata da un raggio mandato dal cielo mediante il quale produce Api. Il segno della divinità lo si trovava in molti dettagli: è nero, ma ha sulla fronte una specie di triangolo bianco e sulla schiena l’immagine di un’aquila, e nella coda peli doppi e l’immagine di uno scarabeo sotto la lingua”. Quando un toro Apis moriva, i sacerdoti cercavano un altro giovane toro che avesse gli stessi segni particolari; trovatolo, lo facevano diventare il nuovo “Apis”. Il nuovo Apis sarebbe stato portato a Memphis dove sarebbe stato mantenuto nel lusso dal sacerdozio. Il toro dopo la morte e la conseguente imbalsamazione veniva infine trasporto tramite un’imbarcazione lungo la via sacra di Memphis a Saqqara, per poi venire portato in processione e infine sepolto nel tempio sotterraneo di Serapide. Sotto i Tolomei – la dinastia greca dei Faraoni del III secolo a.C. – l’Apis fu messo in correlazione con Osiride, il dio dell’Oltretomba, per formare il dio ibrido antropomorfo influenzato dal greco Serapide. Serapide era un dio greco-egizio il cui culto fu introdotto ad Alessandria d’Egitto da Tolomeo I, che fece costruire nella città il Serapeo, e fu adorato fino alla caduta del
Il toro Apis viene portato in processione
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Culti e Storia paganesimo nel IV secolo a.C.. Oltre agli Apis, c’erano anche altre due coppie di tori adorati in Egitto. Si tratta del toro sacro di Buchis, identificato nel dio Montu e il dio-falco della guerra, incarnazione della vitalità conquistatrice del Faraone, adorato soprattutto nel distretto di Tebe, presso le attuali città di Karnak e Luxor. Il toro veniva scelto a partire dalla XI dinastia egizia, il toro selvatico era bianco e col muso nero e fungeva da incarnazione di Buchis. Quando poi questi tori e le loro madri (considerate personificazioni della dea Hathor) morivano di vecchiaia, venivano mummificati e collocati in un cimitero
origini in Persia e successivamente divenne molto popolare tra i soldati romani nel primo secolo d.C.. È stato un culto misterico incentrato sulla figura del dio Mitra, dove viene spesso raffigurato come colui che uccide il toro, e i credenti partecipavano a rituali d’iniziazione tenuti in un “Mitræo”, un santuario che ricordava una grotta. La grotta era un aspetto importante nel mitraismo poiché fu lì che il dio, secondo la tradizione, uccise il toro. Il filosofo neoplatonico ellenico Porfirio (greco: Πορφύριος; Tiro, 233-234 – Roma, 305 circa) riguardo le radici dei riti mithraici nella caverna ebbe a dire: “non solo hanno fatto della
Mithra
speciale conosciuto come il “Bucheum”. Ci sono prove che questi tori sacri furono sepolti nel Bucheum fin dal 340 a.C.. L’altro era il toro sacro Mnevis (nella trascrizione greco-latina) e fu adorato nella città di Eliopoli. Mnevis era un toro nero con “spighe” sul corpo che ne costituivano i segni distintivi. Come Api, possedeva una mandria sacra. Anche se questo toro era chiaramente fondamentale per molte pratiche religiose egizie, non c’è alcuna rappresentazione di un dio come il toro così come molti altri dèi che secondo gli egizi erano viventi e in carne e ossa, e facevano parte del loro vastissimo Pantheon.
il culto di Mitra A Roma il toro era una vittima sacrificale ma anche un simbolo di rigenerazione. Il mitraismo romano può aver avuto le sue
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grotta un simbolo del cosciente percorso, ma hanno anche usato la grotta come simbolo di tutti i poteri invisibili in quanto le grotte sono scure, e ciò è l’essenza dei poteri e dell’invisibile”. Molto poco si sa sui riti effettivi di questo culto. Potrebbe essere stato un adattamento di Mitra mentre uccide il toro, il quale busto dell’animale copriva il tavolo su cui gli iniziati partecipavano ad un banchetto. L’atto di uccidere il toro, la cosiddetta “taurotonia”, è stato raffigurato sui rilievi che si trovano in ogni mitræo e la sua trasformazione simbolizzata. Manfred Clauss (1945), professore di Storia antica alla Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte, nel suo libro “Il culto romano di Mithra” pubblicato nel 1990, descrive così l’uccisione del toro sacro da parte del dio: «Sotto la volta ad arco della grotta Mithras, con una facile grazia piena di vigore giovanile, costringe
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Culti e Storia a terra la potente bestia, inginocchiandosi in trionfo poggiando il ginocchio sinistro sulla schiena o sul fianco dell’animale e costringendo il suo tronco contro il proprio, quasi afferrando le narici dell’animale con la mano sinistra e tirando la testa verso l’alto per ridurre la sua forza; così il dio immerge il pugnale nel collo del toro con la mano destra: la gola dell’animale si ferma, la coda sbatte: esso infine muore». Nel mithraismo il toro rappresenta la Luna, simbolo della morte e della rinascita. Mithra rappresenta il “Sol Invictus”, il Sole invincibile, a cui il sacrificio del toro porta luce e creazione.
Conclusione Quindi, come possiamo vedere, il culto del toro era chiaramente parte integrante di molte pratiche religiose nell’antico Mediterraneo. La domanda è: perché proprio il toro tra tutti gli animali è rimasto un simile simbolo potente per oltre 15.000 anni? Di tutti gli aspetti del culto del toro, il sacrificio era sicuramente l’evento centrale. Anche in Egitto, dove il toro Apis era adorato e trattato con riverenza, il sacrificio era molto diffuso. Il toro era un animale molto apprezzato al punto tale da venire addirittura divinizzato e veniva ucciso con l’aspettativa che gli dèi sarebbero stati compiaciuti e, una volta soddisfatti, avrebbero concesso loro prosperità. Spargere il sangue di questo animale era un atto considerato sacro che avrebbe portato rinascita e salvezza ai partecipanti al rituale. Quindi abbiamo
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ripercorso le origini del culto del toro, e abbiamo visto che le prime traccia di esso possono essere ritrovate nelle grotte dell’Europa paleolitica. Le pitture rupestri del tardo periodo paleolitico raffiguranti mandrie di tori come quelle rinvenute ad Altamira avrebbero trovato continuità in una forma simile nei santuari di Çatal Hüyük. Le rappresentazioni dei giochi e delle battaglie che si trovano a Çatal Hüyük saranno poi scoperte successivamente in Egitto e nella Creta minoica. Il toro poi avrebbe poi assunto maggiore importanza nelle tradizioni letterarie della Mesopotamia antica, nella fattispecie
nell'”Epopea di Gilgamesh”, e successivamente nella mitologia greca attraverso le storie narrate da Omero di Teseo, Zeus ed Europa. A partire da Sumer, il toro sarebbe stato associato addirittura alle più importanti divinità, e questa pratica sarebbe poi continuata nella cultura greca ed egizia. Nella cultura egizia il toro raggiungerà la massima espressione del culto. Dalle somiglianze delle decorazioni delle tombe influenzate dal culto di Çatal Hüyük al culto del toro Apis come rappresentazione vivente del dio Ptah, l’Egitto era senza dubbio il centro più importante del culto del toro nell’antico Mediterraneo. Il sacrificio del toro è stato praticato in tutta l’antichità e il suo simbolismo era centrale anche nel Mitraismo romano. Il toro divino dunque era un simbolo associato alla fertilità, alla Luna e agli antichi e potenti dèi, ma soprattutto era il simbolo della rinascita e della salvezza.
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LA LEGGENDA DEI TRE MAGI SACERDOTI UNIVERSALI Questa leggenda, tradotta dal francese, e che si chiama “Leggenda dei tre Magi che hanno visitato la grande volta e scoperto il centro della idea” è profondamente esoterica. Come nessuno sa chi sia lo scrittore dell’altra leggenda meravigliosa di Hiram, nessuno conosce chi abbia scritto questa…. 46
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Religione e Storia a cura di Andrea De Pascalis
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“… tre viaggiatori giunsero, sui loro cammelli nei paraggi di quella terra desolata. Erano dei Magi, Iniziati babilonesi, membri della Confraternita dei Sacerdoti universali.” Gli enigmi della Storia
olto tempo dopo la morte di Hiram, di Salomone e di tutti i loro contemporanei, dopo che le armate di Nabucondonosor avevano distrutto il regno di Giuda, rasa al suolo Gerusalemme, demolito il Tempio, condotti prigionieri tutti quelli che erano scampati alla strage, quando il monte Sion non era che un arido deserto ove pascolava qualche magro armento guardato da Beduini affamati o da predoni, tre viaggiatori giunsero, sui loro cammelli nei paraggi di quella terra desolata. Erano dei Magi, Iniziati babilonesi, membri della Confraternita dei Sacerdoti universali, che andavano, in pellegrinaggio ad esplorare le rovine dell’antico Santuario che Salomone aveva eretto all’Eterno. Dopo un pasto frugale i tre pellegrini si misero a perlustrare il recinto rovinato. I resti delle mura e le basi residue delle colonne permisero loro di individuare il luogo del Tempio. Subito si misero a esaminare i capitelli che giacevano a terra, e rivoltare le pietre per vedere se vi fossero in esse delle iscrizioni o dei simboli. Mentre erano intenti a questa operazione, sotto un’ala di un muro rovesciato in mezzo a dei roveti, scoprirono una apertura. Era situata questa a sud-est del Tempio; cominciarono ad allargare il pertugio, e uno di loro, il più anziano, colui che poteva sembrare il Capo, curvandosi col ventre in terra sul margine, si mise a scrutare nell’interno. Era l’oro di mezzogiorno, quando il Sole brilla allo Zenith, e i suoi raggi piombavano, quasi verticalmente, su quel luogo. Un oggetto lucentissimo investì gli occhi del pellegrino, il quale chiamò gli altri due, che si inchinarono anch’essi a guardare. Evidentemente vi era laggiù un oggetto degno di attenzione, senza dubbio un gioiello sacro. I tre pellegrini decisero di impadronirsene; si tolsero le cinture che portavano intorno alla vita, le legarono l’un l’altro e gettarono quella specie di corda nell’apertura; decidendo che avrebbero sostenuto colui che sarebbe disceso in basso. Allora il Capo scivolò su questa specie di corda e disparve nel pertugio. Mentre questi sta effettuando la discesa, vediamo che cosa era l’oggetto che aveva attirato l’attenzione dei pellegrini. Quando il Maestro Hiram, alla porta d’Oriente ricevette il colpo di squadra dal secondo cattivo compagno e fuggì per uscire dalla porta del Sud, trovò anche questa sbarrata dal terzo compagno; allora si tolse dal collo il gioiello che era sospeso ad una catenella composta da 77 anelli, e lo gettò nel pozzo, che s’apriva entro il tempio, nell’angolo dalla parte est-sud. Questo gioiello era un Delta di puro metallo, sul quale Hiram, che era un perfetto iniziato, vi aveva inciso il Nome ineffabile, che egli portava al collo, con la faccia al rovescio, in maniera che nessuno poteva vedere ciò che esso rappresentava. Mentre il pellegrino, aiutandosi con le mani e con i piedi, scendeva nel pozzo, constatò che le pareti di esso erano divise per zone, o anelli, fatti con pietre di diverso colore, di un cubito circa di altezza ciascuna. Quando giunse in basso contò quelle zone e constatò che erano dieci. Abbassò gli occhi in terra, vide il Nome ineffabile. E poiché gli altri suoi due compagni non avevano ancora conquistata la perfezione iniziatica, e quindi non potevano comprendere il significato della parola, si mise la catena al collo, mettendo il dritto palesemente al contrario di quanto aveva fatto il Maestro Hiram. Guardò ancora intorno a lui e constatò che nel muro vi era una apertura, per la quale un uomo vi poteva benissimo entrare. E vi entrò difatti camminando a tastoni nell’oscurità; le sue mani
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sentirono un ostacolo, che al contatto gli parve qualche cosa come di bronzo. Ritornò indietro al pozzo, e avvertì che i due compagni che tenessero ferma la corda e risalì. I due pellegrini, vedendo il gioiello che ornava il collo del loro Capo, si inchinarono davanti a lui, e immaginarono che essi avrebbero ricevuta una nuova consacrazione. Egli spiegò loro quanto aveva veduto e la porta di bronzo che aveva incontrato. Allora pensarono che là doveva essere un mistero, e deliberarono risolutamente di andare, tutti e tre insieme alla scoperta dell’enigma. Legarono la corda, fatta con le loro cinture, ad una pietra levigata che giaceva vicino al pozzo e sulla quale si leggeva ancora la parola JAKIN, vi posero sopra un altro pezzo di colonna, ove si leggeva la parola BOAZ, e si assicurarono che la corda, così tenuta, sostenesse il peso di un uomo. Due di essi si accinsero subito a sviluppare il fuoco sacro, fregando con le mani due bacchette di legno duro e rigirandole entro un foro di un altro pezzo di legno tenero. Quando il legno fu acceso, vi soffiarono sopra perché producesse la fiamma. Quindi andarono a prendere le torce di resina, che stavano sulla groppa dei loro cammelli e che avevano portate per difendersi contro gli animali feroci, durante i loro accampamenti notturni, le avvicinarono alla fiamma del legno che si era incendiato, e si infiammarono essi stessi del medesimo fuoco sacro. Ciascuno di loro, tenendo la propria torcia in mano, si lasciò scivolare lungo la corda, fino in fondo al pozzo. Una volta essi scesi, dietro la guida del loro Capo, s’inoltrarono verso la porta di bronzo. Arrivati davanti a quella, il più anziano la esaminò attentamente alla luce della sua torcia. Egli scoprì nel mezzo della porta medesima, l’esistenza di un disegno in rilievo, avente la forma di una corona reale, circondata da un cerchio composta da 22 puntini; si concentrò in una profonda meditazione, poi pronunciò la parola MALLAKUTH, e subito la porta si aprì. Gli esploratori si trovarono allora di fronte ad una scala che si inabissava nel suolo; si ripromisero, sempre con le torce in mano, di contare gli scalini e quando ne ebbero discesi tre, incontrarono un pilastro triangolare, alla cui sinistra cominciava un’altra scala. Si introdussero anche in quella, e dopo cinque scalini, trovarono un nuovo pilastro della medesima forma e delle identiche dimensioni dell’altro. Questa volta la scala continuava dalla parte destra, ed era composta ancora di sette scalini. Oltrepassato anche questo pilastro, scesero ancora nove scalini e si trovarono di fronte ad una seconda porta di bronzo. Il vecchio pellegrino la esaminò come aveva fatto precedentemente, e vide sulla porta un altro disegno in rilievo, rappresentante una pietra angolare circondata anche questa da un cerchio di 22 puntini. Pronunciò la parola JESOD e anche questa porta si aprì. I tre pellegrini entrarono in una grande sala concava e rotonda, le cui pareti erano ornate da nove grandi foglie, le cui nervature, partendo dal suolo si incontravano al punto centrale del soffitto. Esaminarono al lume delle loro torce, facendo il giro della sala, per vedere se vi erano altre porte, oltre quella dalla quale erano entrati. Non trovando nulla stavano per ritirarsi, quando il loro Capo, ritornando sui suoi passi, esaminò le foglie ad una ad una, cercò un punto di riferimento, contò le nervature, e tutto ad un tratto chiamò gli altri due pellegrini. In un angolo scuro aveva scoperto una nuova porta di bronzo. Questa recava come simbolo un Sole raggiante, tutto circondato da un cerchio di 22 puntini. Pronunciò la parola NETZAH e la porta si aprì, e apparve un a seconda scala.
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Successivamente gli esploratori oltrepassarono altre cinque porte, ugualmente nascoste e si introdussero in una nuova cripta. Su ciascuna di queste porte vi erano rispettivamente i simboli di una Luna splendente, di una Testa di Leone, di una Colomba leggera e graziosa, di un Regolo, di un Rotolo della Legge, di un Occhio, e di una Corona Reale. Le parole pronunciate furono successivamente: Hod, Tiphereth,
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Chesed, Geburah, Chochmah, Binah, Keter (1). Quando essi entrarono nella nona arcata, si arrestarono sorpresi, abbagliati, spaventati. Questa non era immersa nell’oscurità ma al contrario era rischiarata luminosamente. Nel centro vi erano tre lampadari, di 11 cubiti di altezza, con tre bracci ciascuno. Queste lampade che erano rimaste accese dopo tanti secoli, dalla distruzione del Regno di Giuda,
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dall’incendio di Gerusalemme e dalla demolizione del Tempio, non si erano mai spente, e brillavano di vivo splendore, illuminando di una luce, ora dolce, ora intensa, tutt’intorno, tutti i dettagli della meravigliosa architettura di quelle arcate, senza paragone, tagliate nella roccia viva. I pellegrini si liberarono delle loro torce, di cui non avevano più bisogno, le posero in terra presso la porta, si tolsero i loro
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calzari, si aggiustarono i capelli come se fossero in luogo santo, e si avanzarono, inchinandosi nove volte verso i giganteschi lampadari. Alla base del triangolo formato da questi, vi era un altare a forma di cubo di marmo bianco, di due cubiti di altezza. Sul davanti, in oro, riguardando la sommità del triangolo, vi erano rappresentati gli arnesi della Massoneria: il Regolo, il Compasso, la Squadra, la Livella, la Cazzuola, il Maglietto. Sulla faccia laterale sinistra vi erano le figure geometriche: il Triangolo, il Carro, la Stella a cinque punte, il Cubo; sulla faccia laterale destra si leggevano i numeri: 27, 125, 343, 729, 1331; infine sulla faccia posteriore vi era rappresentata l’Acacia simbolica. Sull’altare vi era la Pietra d’agata, di tre palmi per ogni angolo, e al di sopra, scritta a caratteri d’oro, la parola ADONAI. I due magi discepoli si inchinarono, adorando il nome di Dio, ma il loro Capo, alzando al contrario il volto, disse loro: “E’ tempo di ricevere l’ultimo insegnamento che farà di voi dei perfetti iniziati. Questo nome non è che un tenue simbolo, che non esprime realmente l’idea della conoscenza suprema”; prese allora con le mani la Pietra d’agata, ritornò presso i due discepoli, dicendo loro: “Guardate, ecco la conoscenza suprema. Voi siete al centro dell’idea”. I discepoli compitarono le lettere IOD, HE’, VAU, HE, e mentre si accingevano a pronunciare la parola, il Capo comandò loro: “Silenzio! E’ la parola ineffabile che non può essere pronunciata da nessuno”. Rimise sull’altare la Pietra d’agata, si tolse dal collo il gioiello di Hiram e mostrò loro i medesimi segni che vi si trovavano incisi e disse loro: “Apprenderete ora che non fu Salomone a edificare queste volte ipogee, né a costruire le altre otto che le precedono, né a deporre la Pietra d’agata. La Pietra fu messa da Henoch, il primo fra tutti gli iniziati, l’Iniziato degli Iniziati, che non è morto mai attraverso i suoi discepoli spirituali. Henoch visse molto tempo prima di Salomone,
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avanti lo stesso diluvio. Non si conosce perciò in quale epoca furono costruite le otto volte, e questa scalpellata nella roccia viva”. Quindi i nuovi grandi iniziati distolsero l’attenzione dall’altare e dalla Pietra d’agata e guardarono la volta della sala, che si perdeva verso un’altezza indefinita, e dalla vasta navata la loro voce veniva ripetuta da un’eco portentosa. Giunsero, di poi, davanti ad una porta, accuratamente nascosta e sulla quale era ben visibile il simbolo di un Vaso incrinato. Chiamarono il loro Maestro e gli domandarono:
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“Aprici ancora questa porta, vi deve essere dentro un nuovo mistero”. “No, rispose loro l’anziano, non si può aprire questa porta. Un mistero vi è, ma è un mistero terribile, un mistero di morte”. E loro a lui: “Tu vuoi nasconderci qualche cosa, che serbi per te solo; ma noi vogliamo tutto conoscere, tutto sapere, e noi stessi apriremo quella porta”. E si misero a ripetere tutte le parole che avevano intese pronunciare dal loro Maestro; e poiché nessuna di queste produceva alcun effetto, pronunciarono tutte quelle che il loro spirito suggeriva. Ed erano per rinunciarvi quando uno di essi disse: “Noi non possiamo, peraltro, continuare all’infinito”. A questa parola la porta si spalancò con tale violenza, che i due imprudenti furono gettati a terra, un vento furioso soffiò nella volta e le lampade si spensero. Il Maestro si precipitò verso la porta, la puntellò con il suo corpo, chiamò in aiuto i due discepoli, i quali, accorsi alla sua voce, riuscirono così, uniti in uno sforzo supremo, a richiudere la porta. Ma le lampade non si riaccesero più e i pellegrini rimasero prigionieri delle tenebre più profonde. Si avvicinarono alla voce del Maestro che disse loro: “Questo avvenimento terribile era da prevedersi; era scritto che voi dovevate commettere questa imprudenza. Noi corriamo grande rischio di morire in questo sotterraneo sconosciuto dagli uomini. Tentiamo ordunque di uscirne, di traversare le otto arcate e giungere al punto da dove noi siamo discesi. Prendiamoci per mano, e così cammineremo fino a che non troveremo la porta di uscita. Noi rincominceremo da tutte le sale, fintanto che saremo giunti ai piedi della scala di ventiquattro scalini. Speriamo di arrivarci”. Così fecero. Passarono delle ore angosciose, ma non disperarono mai. Giunsero finalmente ai piedi della scala di 24 scalini; cominciarono a salire contando 9, 7, 5 e 3 e si ritrovarono in fondo al pozzo. Era mezzanotte, le stelle brillavano; la corda vi era ancora. Prima di lasciare salire i suoi due compagni, il Maestro mostrò loro il cerchio scoperto nel cielo, che si intravedeva dal pozzo e loro disse: “i dieci cerchi che noi abbiamo visti
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discendendo, rappresentano le volte e gli archi della scala; l’ultima arcata corrisponde al numero UNDICI, quello che ha soffiato il vento del disastro, ed è il cielo INFINITO CON I LUMINARI DELLA NOSTRA COSCIENZA CHE LO POPOLANO. I tre iniziati riguadagnarono il recinto del Tempio in rovina; rimossero di nuovo il fusto della colonna senza rivedervi più la parola BOAZ; staccarono le loro cinture, se le rimisero, rimontarono in sella;poi, senza proferire alcuna parola, piombati in una profonda meditazione, sotto il cielo stellato, in mezzo al silenzio della notte, s’incamminarono al passo lento dei loro cammelli, verso la città di Babilonia. Questa leggenda, tradotta dal francese, e che si chiama “Leggenda dei tre Magi che hanno visitato la grande volta e scoperto il centro della idea” è profondamente esoterica. Come nessuno sa chi sia lo scrittore dell’altra leggenda meravigliosa di Hiram, nessuno conosce chi abbia scritto questa, come l’altra di profonda dottrina massonica. Mentre quella illumina il senso dei simboli dei misteri, questa penetra nella profondità dello spirito. Mentre quella insegna che Hiram ha costruito il Tempio, questa avverte di un Tempio ancora più lontano ove sono custoditi, in una luce abbagliante, i simboli della Massoneria, e dove le fiaccole stanno da secoli, perennemente accese ad illuminare gli arnesi della Maestria. Il Tempio più remoto, quindi, sorregge l’altro di Hiram; se non fosse preferibile lasciare a ciascuno di interpretare a seconda della preparazione iniziatica del proprio intimo, l’allegoria che scaturisce dalla leggenda, vi sarebbe da concludere che vi è un Tempio infinito, che non sarà mai distrutto, ed è quello che ognuno deve saper costruire nell’intimo della sua anima, del quale ogni pietra è l’anelito della propria coscienza, anelante a conoscere la certezza della verità infinita. Molti sono i rapporti che si incontrano in questo racconto, in armonia con i simboli massonici. E come questi Magi scoprono i residui dell’antico tempio di Hiram, quando il sole brilla alto allo Zenith, così i massoni aprono i loro tavoli a mezzogiorno; e quando riprendono la via del ritorno, terminano i loro lavori a mezzanotte. I numeri 3, 5, 7 e 9 sono le età rispettive che il massone deve raggiungere prima di penetrare nella cripta dei Rosa-Croce, e le parole che manifestano il Nome Incognito le ritroverà in seguito percorrendo i gradini della Piramide. Soltanto con lo studio dei simboli egli può raggiungere a comprendere l’esoterismo della dottrina massonica l’insegnamento delle sue tavole fondamentali; le stesse parole sono dei simboli dell’idea che si sviluppa; l’idea è il simbolo della maturazione; la maturazione è il simbolo della perfezione; la perfezione è il simbolo della Verità. Nella massoneria il simbolo è perenne; si avvicina al neofita, da subito, e lo accompagna per tutti gli sviluppi ulteriori; perché se iniziato vuol dire messo sul cammino, l’iniziazione non può essere se non una continua evoluzione, anche quando sembri congiunta ad una percezione pressoché completa. Il simbolo è un’immagine, un pensiero, è una specie di rivelazione. Giambilico, il neo-platonico, che concepì la filosofia come una teurgia;cioè come la scienza dei riti e della forma, scrive: “La conoscenza del Divino non è sufficiente per unirci a Dio … la forza inesplicabile dei simboli ci dona l’intelligenza delle cose divine”. La massoneria non può avvolgere nei simboli lo sviluppo della sua dottrina, per la sua essenza esoterica, e naturalmente, e gelosa custode della loro inalterabilità.
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GLI ANTICHI MAYA FACEVANO LE PIRAMIDI PER INNALZARE MUSICA AL DIO DELLA PIOGGIA I ricercatori hanno scoperto che molte piramidi in Messico sono state create dagli antichi Maya per creare “una caduta a pioggia” musicale, per comunicare con il loro dio della pioggia. 52
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Tradizioni e Storia
Fonte: ANI - Asian News International
Gli antichi maya furono una popolazione insediatasi in Mesoamerica dove svilupparono una civiltà nota per l'arte, per l'architettura, per i raffinati sistemi matematici e astronomici, e per la scrittura, l'unico sistema noto di scrittura pienamente sviluppato nelle Americhe precolombiane. La civiltà maya si sviluppò in una zona che comprende l'odierno sudest messicano, il Guatemala e il Belize, oltre a porzioni occidentali dell'Honduras e di El Salvador. Questa regione è costituita dalle pianure del nord, che comprendono la penisola dello Yucatán, dagli altopiani della Sierra Madre, che si estendono dallo stato messicano del Chiapas verso tutto il sud del Guatemala e poi in El Salvador, e dalle pianure meridionali del litorale del Pacifico. fondire, Jorge Cruz della Scuola Professionale di Ingegneria Meccanica e Ingegneria Elettrica a Città del Messico e Nico Declercq del Georgia Institute of Technology hanno confrontato la frequenza dei suoni prodotti da persone che camminano su El Castillo con quelli fatti nella Piramide della Luna, massiccia, con passi irregolari, a Teotihuacan nel Messico centrale. In ogni piramide, hanno misurato i suoni sentiti vicino alla base della piramide, mentre un ricercatore saliva verso l’alto. Rumori notevolmente simili a quelli di gocce di pioggia, di fre-
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ricercatori hanno scoperto che molte piramidi in Messico sono state create dagli antichi Maya per creare “una caduta a pioggia” musicale, per comunicare con il loro dio della pioggia. Prendete per esempio, in Messico, la piramide El Castillo a Chichen Itza. Quando i visitatori salgono la scala colossale, i loro passi iniziano a suonare come gocce di pioggia che cade in un secchio d’acqua, mentre si avvicinano alla cima. La scoperta della “musica” a goccia di pioggia in un’altra piramide suggerisce che almeno alcune delle piramidi del Messico siano state deliberatamente costruite per tale scopo. Alcune delle strutture consistono in una combinazione di gradini e piattaforme, mentre altre, come El Castillo, assomigliano ancora di più alle piramidi egiziane. I ricercatori avevano familiarità con i suoni a goccia di pioggia emessi dalle orme di El Castillo – una piramide cava sulla penisola dello Yucatan. Ma se un modo di suonare come questo e l’effetto fossero intenzionali è rimasto poco chiaro. Secondo un rapporto a New Scientist, per appro-
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quenza simile, sono stati registrati nelle piramidi, suggerendo che, piuttosto che essere causati dal vuoto a El Castillo, il rumore è probabilmente causato da onde sonore che viaggiano attraverso i passaggi e colpiscono una superficie ondulata, e sono diffratti, provocando le particolarissime onde sonore a “gocce di pioggia” che si propagano lungo i gradini. Si ritiene generalmente che El Castillo sia stata dedicata al dio serpente piumato Kukulcan, ma Cruz pensa che potrebbe anche essere stato un tempio al dio della pioggia Chaac. Infatti, una maschera di Chaac si trova nella parte superiore di El Castillo e anche nella Piramide della Luna. “Le piramidi del Messico, con una certa fantasia, possono essere considerate come strumenti musicali risalenti alla civiltà Maya”, ha detto Cruz, anche se aggiunge che non vi è alcuna prova diretta che i Maya in realtà le facessero “suonare”. Secondo Francisco Estrada-Belli, un archeologo dell’Università di Boston, Massachusetts, “La maggior parte se non tutte le piramidi Maya sono state concepite come montagne sacre, che erano i luoghi in cui le nuvole si raccoglievano e la pioggia era creata.”
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Archeologia e Storia
L’INCREDIBILE SITO ARCHEOLOGICO DI BAALBEK IN LIBANO
Baalbek in Libano è uno dei siti archeologici più importanti del Vicino Oriente, dichiarato nel 1984 Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO. Si trova, in linea d'aria, a circa 65 km ad est di Beirut. Oggi Baalbek è una cittadina nella valle della Beqāʿ, capoluogo di un omonimo distretto libanese. Situata ad est delle sorgenti del fiume Leonte, ad un'altitudine di 1170 metri sul livello del mare, Baalbek è famosa per le monumentali rovine di alcuni templi romani risalenti al II e III secolo dell'era comune, quando Baalbek, con il nome di Heliopolis ospitava un importante santuario dedicato a Giove Eliopolitano nella provincia romana di Siria. 54
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Archeologia e Storia di Giuseppe Di Re
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Il secondo monolite scoperto a Baalbek negli anni 1990 e pesante 1.242 tonnellate
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uello di Baalbek è uno dei siti archeologici più importanti presenti sul vasto spazio terrestre. Si trova nella fertile valle della Beqā in Libano, a circa 65 km ad est della capitale Beirut. Le monumentali rovine di Baalbek sono solitamente attribuite all’Impero Romano, poiché per un certo periodo esso vi stanziò e vi costruì alcuni importanti monumenti. La storia di Baalbek però è molto più antica e abbraccia vicende che si susseguirono per più di 5.000 anni. Si sa ad esempio che nel 2.000 a.C. Baalbek era abitata dai Cananei, identificati dai greci come i Fenici, che costruirono vari monumenti tra cui un altare e un santuario dedicato al dio Baal. Baal era la divinità principale appunto dei Fenici ed una delle più importanti in assoluto di tutto il vicino Oriente antico. Esso era Dio della tempesta, dei tuoni, della fertilità e dell’agricoltura. Era anche il signore indiscusso della Valle della Beqā, che è ancor oggi una delle principali zone di agricoltura di tutto il Libano. I Cananei erano soliti dedicare a Baal rituali di vario genere come anche sacrifici, per aggiudicarsi i favori del dio, poiché era comune convinzione che in questo modo Baal avrebbe inviato nella zona con continuità abbondanti piogge in modo da rendere fertile e rigogliosa la valle stessa. Nel 334 a.C. Alessandro Magno, noto anche come “Alessandro il Grande”, conquistò Baalbek ed iniziò il processo di ellenizzazione dell’area. Dopo la morte di Alessandro Magno furono i Tolomei d’Egitto ad occupare Baalbek e ribattezzarla col nome di Heliopolis, “la Città del Sole”. Furono proprio i Tolomei ad identificare il dio Baal con il dio egizio Ra e il dio solare Helios, creando così una forma ibrida di culto del dio Giove, conosciuto in quel periodo come “Giove Eliopolitano”. I Tolomei costruirono anche un importante tempio al cui all’interno veniva ospitato un santuario in cui si facevano oracoli a scopo di divinazione. Durante l’epoca ellenica fu costruito anche un podio che doveva ospitare un altro piccolo tempio che però non venne mai portato a termine. Fu in epoca romana infine che Baalbek raggiunse il suo massimo splendore. Nel 47 a.C. Giulio Cesare si stabilì nella città e ordinò la costruzione di tre grandiosi templi che furono eretti in onore delle principali divinità del “Pantheon” romano, ovvero Giove (Dio del cielo e del tuono), Bacco (Dio dell’agricoltura e del vino) e Venere (Dea dell’amore e della bellezza). Non troppo lontano dalla città, sulla cima di una collina, fu installato un piccolo tempio in onore del Dio Mercurio, divinità molto cara ai Romani. Uno dei più grandi misteri del sito di Baalbek riguarda le fondamenta che servirono d’appoggio al monumento principale, il “Tempio di Giove”. Questo elegante e sofisticato tempio poggia infatti su un colossale terrazzamento di circa 465.000 metri quadri, costituito da tre mastodontici blocchi di pietra che misurano 5 metri di altezza, 20 metri di lunghezza, 3,6 di larghezza e dal peso superiore alle 800 tonnellate ciascuno. Lo strato di supporto in pietra presenta sotto ai tre megaliti è costituito anch’esso da un elevato numero di blocchi dal peso di 350 tonnellate ciascuno e larghi oltre 11 metri. Questi impressionanti megaliti, tagliati e squadrati in un modo che non trova spiegazioni logiche nemmeno oggi, sono stati posti ad un’altezza di oltre 10 metri. Nonostante l’immane dimensione, sono stati lavorati ed uniti l’uno accanto all’altro all’interno del basamento su cui è stato eretto il tempio di Giove con
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un livello di precisione tecnologica così alta che, se non fosse per la presenza visibile dei tagli della pietra, sarebbe quasi impossibile distinguere la fine di un blocco e l’inizio di un altro. Il terrazzamento conosciuto come “Trilithon” è probabilmente opera di una civiltà dalle avanzatissime capacità tecnologiche in campo edilizio, la quale anticipò di svariati millenni i successivi stanziamenti operati dalle altre culture che costruirono anch’esse i loro monumenti nel sito, così come precedette di svariati millenni anche la costruzione dei templi (seppure anch’essi di grande impatto) costruiti dai Romani. È noto in primo luogo che i Romani non erano assolutamente dotati di attrezzature tali da poter tagliare, spostare, alzare e assemblare pietre da 800 e più tonnellate ciascuna. In secondo luogo, è ampiamente riconosciuto che questo grande impero nella sua millenaria storia (che a noi è ben nota per altri e familiari motivi) non costruì mai architetture megalitiche in nessuna parte del mondo. I più grandi “misteri” di Baalbek però riguardano senza ombra di dubbio tre impressionanti blocchi di pietra che furono scoperti nei pressi del sito a più riprese nel corso del tempo. Uno di questi è il famosissimo blocco di pietra lavorato e squadrato che si trova ancora parzialmente attaccato ad una cava di calcare, dove fu abbandonato a 1 km. di distanza dal tempio di Heliopolis, diverse migliaia di anni fa. Questo gigantesco blocco, la cui lunghezza è di 22 metri e il cui peso è all’incirca di 1000 tonnellate (ci sono stime molto differenti tra di esse che vanno dalle 1.000 alle 2.000 tonnellate, ma di sicuro si tratta di qualcosa di mostruosamente pesante) viene comunemente chiamato dagli estimatori occidentali “Monolito di Baalbek”, mentre per le popolazioni di lingua araba essa è “Hajjar el-Houble”, ovvero “La roccia della partoriente”, ed
Una foto storica del Trilithon: si notino le dimensioni delle persone in posa
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è sicuramente uno tra i più grandi blocchi di pietra che siano mai stati lavorati nella storia della Terra. Nel 1990, in uno scavo archeologico condotto nella stessa cava, fu rinvenuto un secondo monolite dalla forma perfettamente rettangolare, e con un peso stimato di 1.242 tonnellate, così da renderlo addirittura più pesante della già impressionante “Roccia della partoriente”. Ma quello che ha lasciato sbigottiti e increduli i ricercatori e più in generale gli osservatori di tutto il mondo è senza dubbio il terzo monolite ritrovato in ordine cronologico ma non di importanza, rinvenuto nell’estate del 2014 grazie ad una spedizione archeologica voluta e organizzata dal dipartimento di orientalistica del “Deutsches Archäologisches Institute”: questo sensazionale e smisurato reperto chiamato “La Pietra di Janeen” è lungo 20 metri, largo 6 e profondo 5 metri, dal peso incredibile di 1.665 tonnellate, ed è ad oggi, per quanto ne sappiamo, il più grande blocco di pietra esistente sulla faccia della Terra. Purtroppo la divulgazione scientifica e la storiografia ufficiale non sapendo come manipolare questo ed altri scomodi reperti hanno affibbiato loro il termine di “misteri”, un’operazione sicuramente abile ed astuta ma certamente alquanto scorretta. La presenza dei megaliti di Baalbek, così come quella di moltissime altre opere architettoniche sparse in ogni punto del pianeta, sono un mistero soltanto per chi vuole ritenerli tali, ma in realtà la presenza di reperti storici realizzati con una tecnologia avanzata millenni prima dell’era cosiddetta “moderna” non è affatto un mistero, bensì la prova reale e tangibile dell’esistenza di avanzatissime società antidiluviane che abitarono la Terra millenni prima della comparsa delle nostre culture perfino le più antiche. Una realtà tenacemente negata e taciuta dalla storiografia uf-
Il tempio di Bacco; anche qui, in basso a destra ci sono dei turisti
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Resti del Tempio di Giove Un monolite, valutato nel 2014 del peso di 1.650 tonnellate
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Un’altra foto del Trilithon; si notino le dimensioni della persona appoggiata alle pietre di basamento della gigantesca costruzione. ficiale che come al solito cerca di occultare, mistificare, nascondere, interpretare e falsificare (vedere le tante false attribuzioni illogiche operate dall’Accademia stessa) per mantenere a tutti i costi a galla alcuni dogmi che si dimostrano più filosofici che scientifici ma razionalmente nonché materialmente infondati, costruiti a tavolino nel lontano Settecento senza però sottoporli alla necessaria verifica che non può es-
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sere divisa dalla dura e faticosa ricerca sul campo. Il risultato è che i dati di realtà – storici, archeologici, della tradizione letteraria e della stessa esperienza dei siti di monumenti – sconfessano quella stessa faticosa costruzione storiografica. Insomma, se la realtà smentisce clamorosamente la ricostruzione storica qualcosa di strano ci dev’essere.
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LA LEGGENDARIA PUNT, LA TERRA DEGLI DÈI La leggendaria terra di Punt è indicata in antichi testi egizi come “la Terra degli Dei”, ed è una regione che abbondava in grandi ricchezze ed enormi risorse. 60
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Luoghi e Storia di Giuseppe Di Re
Rappresentazione della spedizione egiziana a Punt durante il regno di Hatshepsut
Soldati egiziani provenienti dalla spedizione di Hatshepsut nella terra di Punt (nel 1493 a.C.) dipinti nel suo tempio a Deir el-Bahri
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turisti, gli studiosi e più in generale gli appassionati provenienti da ogni parte del mondo vengono accolti nella meravigliosa terra d’Egitto per ammirare gli antichi templi e conoscere l’affascinante storia degli antichi faraoni. Tuttavia le vere origini dei faraoni così come quelle dello stesso Egitto e di alcune terre leggendaria menzionate dagli egizi stessi non vengono divulgate e la letteratura contemporanea manca di informazioni adeguate. Una delle mitiche terre citate innumerevoli volte dagli egizi – e da altre culture dell’antichità – e che fu considerata un puro mito per svariati decenni è il “Paese di Punt“, o “Terra di Punt”. La leggendaria terra di Punt è indicata in antichi testi egizi come “la Terra degli Dei“, ed è una regione che abbondava in grandi ricchezze ed enormi risorse. Nei decenni successivi al momento in cui il famoso Jean-Francois Champollion aveva decifrato i geroglifici egizi, nel lontano 1822, gli studiosi occidentali cominciarono a leggere i testi egizi in cui veniva menzionata ampiamente la “terra di Punt”, e da allora
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iniziarono i dibattiti sulle origini dei faraoni e sulla localizzazione effettiva di questa antica, mitologica e misteriosa terra. L’Egitto prosperò particolarmente grazie a grandi commerci con le altre regioni costiere, che aumentarono progressivamente verso l’ultima parte del periodo pre-dinastico (60003150 a.C). Nel periodo dinastico (3150-2613 a.C) il commercio era saldamente stabilito soprattutto con le antiche regioni della Mesopotamia e della Fenicia. Al tempo della quinta dinastia (2498-2345 a.C) l’Egitto stava fiorendo attraverso il commercio con queste aree e in particolare con la città fenicia di Byblos e i paesi di Nubia e Punt. Punt non era solo un partner importante nel commercio ma fu anche una fonte di influenza culturale e religiosa e una terra che gli antichi egizi consideravano come il loro luogo di origine, un Paese abitato addirittura dagli dèi. Una testimonianza di ciò la si può trovare nelle iscrizioni e nelle pitture presenti nei templi della regina Hatshepsut a Luxor, che rivelano come la sua divina madre Hathor fosse originaria di Punt, e in alcune iscrizioni trovate in altri templi è riportato che anche Bes (la “dea del parto”) arrivò anticamente in Egitto da Punt. Questa terra è particolarmente nota soprattutto per la famosa spedizione fattavi dall’imperiosa regina Hatshepsut nel 1493 a.C. durante la XVIII dinastia egizia. *Si narra che, dopo la spedizione, i soldati egizi riportarono in Egitto e vi e impiantarono degli alberi, segnando il primo tentativo di successo conosciuto per il trapianto di flora straniera. Questo viaggio verso Punt è sicuramente il più famoso, ma ci sono molte altre prove che suggeriscono come gli egizi commerciassero con la Terra di Punt già durante il regno del faraone Khufu, nella quarta dinastia (2613-2498 a.C), e probabilmente anche prima. Infatti si pensa che le prime spedizioni egizie per Punt iniziarono già durante la IV dinastia dal porto di Wadi al-Jarf nel golfo di Suez. Alcuni bassorilievi creati durante la quarta dinastia mostrano un abitante di Punt insieme ad uno dei figli del faraone Khufu (Cheope) e in alcuni documenti della Quinta Dinastia vengono descritti i grandi commerci tra i due Paesi. Punt è ancora citata nei geroglifici egizi posti su una parete del tempio di
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Amon, a Tebe – presso le attuali città di Karnak e Luxor – e risalente al regno di Seti I, secondo faraone della XIX dinastia. Questi geroglifici descrivono nel dettaglio un viaggio navale per portare oro, incenso e mirra dal “Paese di Punt” a Tebe, oltre ad un carico di zanne di elefante, lapislazzuli, ebano, pavoni e scimmie. Un’iscrizione rinvenuta in una tomba del comandante militare PepiNakht Heqaib – un funzionario egizio che servì sotto il regno del faraone Pepy II (2278-2184 a.C) della Sesta dinastia – narra che il soldato Hecalb sia stato inviato nella “terra dell’Aamu” per recuperare il corpo del guardiano di Kekhen. Punt era considerato un Paese semi-mitico anche per i faraoni, ma è a tutti gli effetti un luogo realmente esistente in cui avvenivano frequentemente spedizioni e commerci anche nel periodo tardo del “Nuovo Regno” (1570-1069 a. C.). Durante il regno di Amenofi II (o Amenhotep II 1401/1398 a.C.) sono state accettate delegazioni da Punt, idem nel regno del grande Ramses II (1303 a.C. – Pi-Ramses, luglio/agosto 1213 o 1212 a.C.) della XIX dinastia e di Ramses III (1186-1155 a.C). Punt fu denominata in vari modi dagli egizi, sempre affascinati dalla sua esistenza, come “Terra dell’abbondanza” o “Terra dell’incenso”, ma sicuramente il nome più famoso resta “Ta Netjer”, ovvero la “Terra degli Dèi“. Anche la Bibbia cita la terra di Punt, indicandola come la regione abitata dai discendenti di Cam, figlio del mitico Noè, che presero il nome di Camiti, e che si stanziarono tra il Nilo e il Mar Rosso, tra l’altopiano dell’Abissinia e il mare. Altre dettagliate descrizioni di Punt ci pervengono dalla storia della Fenicia. Hiram, il re dei fenici a Tiro, era il genero del re di Giuda e di Israele Salomone (961-922 a.C), e per conto del suocero fece un viaggio presso il Paese di Punt, da dove riportò grandi e abbondanti ricchezze per abbellire il grandioso tempio di Salomone a Gerusalemme. Le ricchezze di Punt, secondo la Bibbia (Libro dei Re), consistevano in incenso, mirra, resine, ambra, agata verde, lapislazzuli, oro, avorio, ebano ed altri legni pregiati. Ma dove si trova(va) questa leggendaria terra?
Localizzazione della terra di Punt
La posizione esatta della terra di Punt è stata dibattuta per decenni dagli storici, dagli studiosi e dagli archeologi di tutto il mondo. Nel corso della storia è stata identificata come parte dell’Arabia o con l’odierna Somalia (lo Stato della Somalia presente nel Corno d’Africa) o con il Sudan, o con l’Eritrea o con qualche altra regione interna dell’Africa orientale. Punt viene identifica dagli studiosi moderni con il Corno d’Africa,
Rappresentazioni dal monumento mortuario di Hatshepsut che mostrano la spedizione a Punt
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ovvero la regione dell’Africa orientale che va da Gibuti al Capo Guardafui, e comprende Somaliland (ex Somalia britannica), Puntland, Migiurtinia (ex Somalia Italiana) ed Ogaden interno all’Etiopia. Mancando una storia scritta dell’antica Somalia, l’identificazione è stata fatta mettendo in correlazione le tradizioni orali della cultura somala con le caratteristiche territoriali e con i testi di altre culture che ebbero attinenze con il Paese di Punt. Secondo lo storico Ahmed Abdi, l’antica città somala di Opone è identica alla città di Pouen citata come parte di Punt da antiche iscrizioni. Secondo lo storico arabo Abdisalam Mahamoud, l’antico nome somalo per la loro regione era “Bunn”, un nome citato nei testi relativi al commercio con l’Egitto come “Pwenet” o “Pwene”, la regione conosciuta oggi come “Bunni”. La cultura dello stato somalo di Puntland reca moltissime somiglianze con quella dell’antico Egitto, come ad esempio il linguaggio, i vestiti cerimoniali, i balli e le arti. Gli studiosi che favoriscono l’interpretazione che vede nelle regioni somale l’antica “Terra di Punt” fanno generalmente affidamento ai geroglifici impressi nel tempio della regina Hatsehpsut, in cui vengono descritte nel dettaglio le spedizioni volute dalla regina. Dalle iscrizioni rinvenute nel meraviglioso tempio di Deir-el- Bahari sappiamo che gli egizi viaggiavano in barca lungo il Nilo attraverso il Wadi-Hammamet fino alla città di Copto, l’antica Kift. Ci sono prove che le imbarcazioni venivano smontate in più parti e trasportate a terra attraverso il Mar Rosso, per poi venire rimontate per proseguire il viaggio verso la “Terra di Punt”, ipotesi a cui abbiamo accennato nel nostro articolo dedicato allo “Zep Tepi” e all’analisi dell’affresco della “tomba 100”. Gli egizi quindi avrebbero attraversato la costa fino ad arrivare nel Corno d’Africa, lo stato attuale di Puntland in Somalia. Wilson a suo favore cita i rilievi del tempio di Hatshepsut come testimonianza di quanto fossero stupiti gli abitanti di Punt all’arrivo degli egizi, come se fossero giunti quasi ai confini del mondo. Wilson infatti scrive: «La gente di Punt è incredibilmente stupìta dal coraggio dei marinai egizi: “Come siete arrivati fin qui, in questa terra sconosciuta agli uomini? Siete giunti scendendo dal cielo o viaggiando per terra o per mare? Guardate com’è un luogo felice la “Terra di Dio” (Punt), che ora percorrete come ha fatto a sua volta il dio Ra!». Punt è anche rappresentata come un luogo “straniero” e tranquillo per gli egizi. Lo scrittore Marc van de Mieroop scrive a proposito: “[Gli Egiziani] raggiunsero Punt con una barca a vela e trovarono un Paese molto diverso dal loro. Le rappresentazioni delle case ivi presenti, degli animali e delle piante suggeriscono una sua collocazione in Africa nordorientale lungo la costa del Mar Rosso, forse nella regione dell’odierna Eritrea, sebbene sia stato suggerito anche un luogo più remoto dell’entroterra africano”. Alcune delle prove più convincenti che permettono di identificare Punt con la Somalia derivano dagli studi condotti da alcuni archeologi, come il noto archeologo tedesco Juris Zarins, insegnante nella “Missouri State University”, che sosterrebbe con convinzione che gli abitanti della Valle del Nilo popolarono la regione della Somalia durante il periodo neolitico e che le due aree erano collegate da scambi commerciali già nel I millennio a.C.. Antiche testimonianze architettoniche e derivazioni di natura culturale andrebbero fortemente in direzione dell’”ipotesi somala”. Come accennato in precedenza, la cultura dell’attuale stato Somalo di Puntland reca moltissime somiglianze con
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quella dell’antico Egitto, in particolare come vedremo a livello linguistico. Vediamo infatti le incredibili somiglianze tra alcuni antichi termini egizi e i corrispettivi in lingua somala. In antica lingua egizia “Hes” significa per esempio “canzone”, canto eseguito con l’ausilio di strumenti musicali. in lingua somala “Hes” significa anche “canzone, canto eseguito con strumenti musicali”. “AAR” significa “leone” in entrambe le lingue. L’antica parola egizia “Ra” significa “il Dio Sole”; in lingua Somali “Qor Rah” significa “il collo di Rah”. L’antico egizio “Haa” – “Hey” significa “lieto”, star sereni; in Somali “Haa” – “Hey” significa lo stesso “felice”, sereno. Nell’Antico Egitto “Hun” e “Hunnu” significavano “ragazzo” o “ragazza”; in lingua Somali “Hun” e “Hunno” significano
anche “ragazzo” o “ragazza”. Sia in egiziaco che in lingua Somali “Awoow” significa “nonno, uomo anziano”. A questo punto possiamo concludere che l’antica terra di Puntland o di Punt fosse un luogo di primo popolamento dell’Africa da parte di essere semi-divini, come si definivano gli stessi abitanti di Punt, e che da lì un gruppo di abitanti abbia successivamente colonizzato l’Antico Egitto. Poi per motivi commerciali e per l’antico legame che li spingeva a ricollegarsi alle proprie terre di origine, questi egizi hanno tentato varie spedizioni alla ri-scoperta della terra di Punt, giungendovi ed effettuando numerose spedizioni commerciali, come quella rappresentata nel tempio di Deir e-Bahri ad opera della regina Hatshepsut nel 1493 a.C..
Mappa della presunta posizione di Punt e delle rotte commerciali che andavano dall’Egitto a Punt attraversando fiumi, letti asciutti e via marine. Mennefer è Memphis, Waset è Tebe, Irem e Nemyw sono terre che presumibilmente confina(va)no con Punt Gli enigmi della Storia
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Mostre e Storia
James Nachtwey, Inizio della seconda Intifada. Cisgiordania, 2000 © James Nachtwey
JAMES NACHTWEY MEMORIA 1 Dicembre 2017 – 4 Marzo 2018 Palazzo Reale, Milano www.palazzorealemilano.it 64
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Mostre e Storia
a cura di Stefania Veneri
James Nachtwey, Un soldato croato bosniaco spara contro i musulmani bosniaci. Mostar, Bosnia-Erzegovina, 1993 © James Nachtwey
James Nachtwey, Una madre accudisce il figlio malato di epatite E in un ospedale nel Darfur, 2004 © James Nachtwey
James Nachtwey, Crollo della torre sud del World Trade Center. New York, USA, 2001 © James Nachtwey
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all’1 dicembre 2017 al 4 marzo 2018 la mostra James Nachtwey. Memoria sarà esposta a Palazzo Reale di Milano. L’attesissima esposizione del pluripremiato fotografo americano, considerato universalmente l’erede di Robert Capa, è la prima tappa internazionale di un tour nei più importanti musei di tutto il mondo. La mostra propone una imponente riflessione individuale e collettiva sul tema della guerra. Curata da Roberto Koch e dallo stesso James Nachtwey, Memoria rappresenta una produzione originale e la più grande retrospettiva mai concepita sul suo lavoro. Promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale, Civita, Contrasto e GAmm Giunti, la mostra ha come Digital Imaging Partner Canon ed è realizzata con il supporto di Fondazione Cariplo e Fondazione Forma per la Fotografia. Organizzate in diciassette sezioni, le duecento immagini esposte nelle diverse sale propongono al visitatore un’ampia selezione dei reportage più significativi di James Nachtwey. Da El Salvador a Gaza, dall’Indonesia al Giap-
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pone, passando per la Romania, la Somalia, il Sudan, il Rwanda, l’Iraq, l’Afghanistan, il Nepal, gli Stati Uniti (tra cui la testimonianza straordinaria dell’attentato delll’11 settembre 2001) e molti altri paesi e si conclude con un reportage oltremodo attuale sull’immigrazione in Europa: Memoria raccoglie gli scatti con cui il fotografo racconta la crudezza della guerra, la violenza del terrorismo, lo sguardo vuoto della disperazione. La mostra sarà accompagnata da un libro pubblicato da Contrasto e Giunti.
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Libri e Storia
a cura di Luciano Pirrotta
Sotto il segno della bipenne “
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L’
egualitarismo democratico, riducendo tutto il genere umano ad una poltiglia inorganica nella quale tendono a diluirsi differenze di razza e di frontiera, di vita, di cultura e di costume, rappresenta un gigantesco fenomeno di imbarbarimento collettivo […] il «suffragio popolare» quando non è una truffa è un male, perché, o permette il potere di cricche di varia natura che manovrano la cosiddetta opinione pubblica servendosi senza scrupoli dei mezzi che in certi periodi la fabbricano, nel senso letterale del termine – con la stampa, la radio, il cinema e via dicendo – oppure apre il varco a una politica tutta soggetta alla pregiudiziale e al ricatto del numero, alla ossessiva ricerca della maggioranza quantitativa […] i partiti rompono l’unità morale della nazione senza sostituirvi che una rissa di sporchi interessi e di basse ambizioni […] la struttura parlamentare è incapace di contenere la tradizione dello Stato e il senso dei suoi interessi permanenti, soggetta com’è agli orientamenti mutevoli del gregge elettorale […] la mancanza di un saldo potere politico priva la Nazione delle condizioni necessarie alla formazione di un’autentica classe dirigente, tutto finendo fatalmente nelle mani di un pugno di incompetenti e faccendieri [… ]”. Con queste polemiche argomentazioni, qui campionate, il discusso fondatore del movimento Ordine Nuovo (Pino Rauti ) stigmatizzava le concezioni e i regimi politici instauratisi all’indomani del secondo conflitto mondiale nel ‘mondo libero’ dopo la liquidazione dei ‘fascismi europei’. Sulla genesi, le idee, le azioni di questa significativa formazione extraparlamentare della destra italiana del dopoguerra per quasi due decenni (1954 – 1973), fino al suo forzato scioglimento e messa al bando, varie tesi si sono sviluppate, demonizzanti, parzialmente colpevoliste, semi assolutorie, dietrologico-complottiste, e - in qualche caso residuale - para apologetiche. Resta il fatto che, nonostante le molte pagine scritte al riguardo, le commissioni d’inchiesta, le sentenze giudiziarie, le conclu-
sioni sulla reale funzione svolta dallo schieramento ordinovista permangono nebulose con vaste zone d’ombra che intersecano, di volta in volta, episodi drammatici della storia nostrana recente: stragismo, trame eversive, delitti eccellenti. Chi c’era dietro le iniziative dell’organizzazione contraddistinta dal simbolo dell’ascia doppia? Donde provenivano i finanziamenti nonché, in particolari frangenti, le temporanee ‘coperture’? Servizi segreti stranieri, corpi d’intelligence deviati del Belpaese, apparati politico-istituzionali intenti ad avvalorare (fra depistaggi, infiltrazioni, doppiogiochismi) i teoremi degli ‘opposti estremismi’ nel clima torbido di una ‘strategia della tensione’? E come si inseriva tutto questo - ancorché svolgendovi ruolo marginale - nel più vasto scacchiere della ‘guerra fredda’ in atto fra le due maggiori potenze vincitrici dell’ultimo scontro bellico? A fornire ulteriori materiali intorno alle intricate vicissitudini che caratterizzarono questa corrente radicale (poi parzialmente rientrata nel MSI almirantiano) a ‘destra della destra’ giunge ora il volume costituito soprattutto dal collage raccordato di documenti che l’autore, Aldo Giannuli, ha tratto dagli archivi di vari organismi pubblici e fondazioni private (Dcpp, Sismi, Sisde, Cogeguarfi, Min. Aff. Esteri, Presid. Consiglio, Acs, Isec, Ist. Gramsci, Ist. Sturzo, ecc.). Il libro (Storia di Ordine Nuovo. Mimesis Edizioni), non esente da qualche approssimazione ed aporia (Playmen non è mai stata una testata pornografica, semmai di erotismo patinato; Thriart non può essere classificato ora filo Nato e Usa, ora antiamericano), costituisce comunque un altro tassello, utile a evidenziare l’estrema difficoltà incontrata da chiunque si inoltri nella inestricabile galassia dei ‘grandi misteri’ italiani, anche ad ormai parecchi anni di distanza da personaggi, atmosfere, eventi che tuttora continuano a sollevare più interrogativi di quanti riescano a soddisfarne.
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