I batteri della felicitĂ
Alanna Collen
I batteri della felicità Perché i microbi del nostro corpo sono la chiave per la salute e il benessere Traduzione di Anna Lovisolo
EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO
Copyright Š Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2017 via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy) tel. +39 02 864871 - fax +39 02 8052886 e-mail hoepli@hoepli.it Seguici su Twitter: @Hopli_1870
www.hoepli.it Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali ISBN EBOOK 978-88-203-8046-5 Realizzazione editoriale: Exegi snc, Bologna Copertina: Sara Taglialegne Realizzazione digitale: Promedia, Torino
A Ben e ai suoi microbi. Il mio superorganismo preferito.
Sommario
Ringraziamenti Prologo: Il processo di guarigione Introduzione: L’altro 90 per cento 1. La malattia del XXI secolo 2. Tutte le malattie iniziano nell’intestino 3. Il controllo della mente 4. Il microbo egoista 5. Guerra batteriologica 6. Voi siete quello che loro mangiano 7. Sin dal primo respiro 8. Il ripristino dei microbi Conclusione: La salute del XXI secolo Epilogo: 100 per cento umani Bibliografia Indice analitico Informazioni sul Libro Circa l’autore
Al cuore della scienza c’è un equilibrio essenziale fra due atteggiamenti apparentemente contraddittori: un’apertura a idee nuove, per quanto bizzarre e controintuitive, e l’esame scettico più spietato di tutte le idee, vecchie e nuove. È così che si vagliano le verità separandole da ogni asserzione assurda. CARL SAGAN
Ringraziamenti
Credo che la scienza rappresenti la fonte più autentica di nuove e grandi storie che il mondo abbia da offrire. Il riconoscimento del ruolo che i nostri 100 trilioni di microbi rivestono per la salute e la felicità degli uomini e il danno che stiamo inconsapevolmente infliggendo loro è una di quelle storie. Le svolte della trama sono state e continuano a essere rivelate e arricchite grazie al lavoro di centinaia di scienziati, a cui sono grata poiché mi offrono un racconto tanto ampio e affascinante. Ho fatto del mio meglio per illustrarne fedelmente le scoperte e le intuizioni, qualsiasi errore è da attribuire unicamente a me. Due degli scienziati che hanno dato un contributo straordinario alla scienza del microbiota si sono prodigati in maniera altrettanto straordinaria per aiutarmi nella mia ricerca. Patrice Cani e Alessio Fasano hanno approfondito il proprio lavoro, letto il mio e risposto alle domande che ponevo loro con entusiasmo e dovizia di dettagli. Un grazie speciale a Derrick MacFabe, Emma Allen-Vercoe, Ted Dinan, Ruth Ley, Maria Gloria Dominguez-Bello, Nikhil Dhurandhar, Garry Egger e Alison Stuebe perché mi hanno aiutato enormemente, donandomi il poco tempo a disposizione che avevano. Grazie anche a Gita Kasthala, David Margolis, Stuart Levy, Jennie Brand-Miller, Tom Borody, Peter Turnbaugh, Rachel Carmody, Fredrick Bäcked, Paul O’Toole, Lita Proctor, Mark Smith, Lee Rowen, Agnes Wold, Erin Bolte, Eugene Rosenberg, Franz Bairlein, Jasmina Aganovic, Jeremy Nicholson, Alexander Khoruts, Maria Carmen Collado, Richard Atkinson, Richard Sandler, Sam Turvey, Sydney Finegold e William Parker, che hanno letto le bozze di questo libro, risposto alle mie domande e dimostrato entusiasmo. Ringrazio anche i molti altri ricercatori di cui ho raccontato il lavoro ma che non cito per nome nel testo. Un grande ringraziamento va a Ellen Bolte, per le molte ore trascorse a parlare con me e per aver condiviso la sua storia e quella di Andy: Ellen, per me sei stata un’ispirazione. Ringrazio anche Peggy Kan Hai per avermi permesso di raccontare la sua storia e per la forza positiva che emana. Sono estremamente grata alla meravigliosa squadra di Harper-Collins, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Arabella Pike e Terry Karten hanno mostrato un
grande entusiasmo sin dall’inizio e hanno compreso che I batteri della felicità è un libro sull’umanità, non (solo) sui microbi: grazie. E grazie anche a Jo Walker, Kate Tolley, Katherin Patrick, Matt Clacher, Joe Zigmond, Katherine Beitner, Steve Cox e Jill Verrillo. Un ringraziamento gigantesco al mio agente, Patrick Walsh, il cui appoggio mi aiutato a non perdere la rotta, e a tutto il gruppo di Conville & Walsh, in particolare a Jake Smith-Bosanquet, Alexandra McNicoll, Emma Finn, Carrie Plitt e Henna Silvennoinen, le cui e-mail così spesso mi hanno reso felice. Grazie ai creatori di Scrivener, che mi hanno in qualche modo aiutato a vivere il libro mentre cresceva. Grazie al gruppo di scrittura Ampthill Writers, in particolare a Rachel J. Lewis, Emma Riddell e Philip Whiteley che mi hanno costretto a uscire di casa almeno una volta al mese. Ai miei amici va un grazie per non essersela presa per la mia assenza e per essersi costantemente preoccupati per me, e grazie al professor Watson e a Miss Adeline per lo stimolo intellettuale. A Jen Cress – la mia compagna d’ufficio virtuale – grazie ancora per le discussioni interessanti e per i feedback positivi nelle prime fasi della stesura. Grazie ai miei genitori, che mi sono stati costantemente vicini nei periodi in cui stavo male e che non hanno mai dubitato di me, in particolare a mia madre, che mi ha ascoltato in infinite sessioni sulla possibile struttura del libro. Grazie al mio migliore e fraterno amico Matthew Maltby, il gran maestro della narrazione, che ha investito così tanto tempo e continua a raccontarmi la verità, malgrado le mie reazioni. Grazie infine a Ben, per la sua incrollabile fiducia e per aver gestito con tanta grazia e disponibilità la transizione dai pipistrelli ai microbi.
Prologo
Il processo di guarigione Quella notte, nella primavera del 2005, mentre attraversavo la foresta con venti pipistrelli chiusi in sacchetti di cotone che mi pendevano dal collo e insetti di ogni genere che si scagliavano contro la luce della mia torcia frontale, mi sono resa conto che mi prudevano le caviglie. Avevo infilato i pantaloni impregnati di repellente nelle ghette antiparassiti, e sotto avevo un paio di calze in più. L’umidità e il sudore che mi inzuppavano, i sentieri fangosi, la paura delle tigri e le zanzare mi davano il mio bel daffare, mentre facevo i miei giri ed estraevo i pipistrelli dalle trappole nell’oscurità della foresta pluviale. Qualcosa però si era insinuato oltre la barriera di tessuto e prodotti chimici che mi proteggevano la pelle. Qualcosa che prudeva. Avevo ventidue anni e stavo trascorrendo tre mesi nella Malaysia peninsulare, nel cuore della Krau Wildlife Reserve, e quell’esperienza, come avrei scoperto in seguito, mi avrebbe cambiato la vita. Nel corso dei miei studi di biologia mi ero appassionata ai pipistrelli e, quando si era presentata l’occasione di fare l’assistente sul campo a uno studioso inglese di pipistrelli, avevo accettato immediatamente. Per vedere dal vivo le scimmie asiatiche, i gibboni e un’incredibile varietà di pipistrelli mi sembrava che valesse la pena affrontare i rischi connessi a trascorrere le notti su un’amaca e lavarmi in un fiume popolato di varani. Ma, come avrei scoperto, i patimenti della vita nella foresta tropicale talvolta proseguono ben oltre l’esperienza stessa. Di ritorno al campo base, in una radura vicino al fiume, mi sono tolta gli strati di vestiti per scoprire la causa del mio malessere: non sanguisughe ma zecche. Ce n’erano una cinquantina, alcune attaccate alla pelle, altre che mi strisciavano lungo le gambe. Mi sono strofinata via quelle non attaccate, poi mi sono dedicata ai pipistrelli, misurandoli e registrando i dati scientifici il più in fretta possibile. Più tardi, dopo averli liberati nella foresta nera come la pece e ronzante di cicale, mi sono chiusa dentro l’amaca simile a un bozzolo e armata di un paio di pinzette, alla luce della mia torcia frontale, le ho estratte tutte quante.
Qualche mese dopo, di nuovo a Londra, si è manifestata l’infezione tropicale che mi era stata trasmessa dalle zecche. Il corpo ha smesso di funzionare, mi si sono gonfiate le dita del piede. Avevo dei sintomi bizzarri, che apparivano e sparivano, mentre facevo svariati esami del sangue e consultavo specialisti. La mia vita restava in sospeso per settimane o mesi di seguito, con attacchi di dolore, stanchezza e confusione che mi agguantavano senza preavviso per poi andarsene come se niente fosse. Quando, anni dopo, mi è stata fatta una diagnosi corretta, l’infezione si era ormai radicata, e mi è stato somministrato un ciclo di antibiotici abbastanza lungo e potente da curare una mandria di buoi. Alla fine, sarei ritornata me stessa. Inaspettatamente però la storia non si è conclusa così. Mi hanno curato, ma non solo per l’infezione provocata dalle zecche. Sembrava che fossi stata curata come un pezzo di carne. Gli antibiotici avevano fatto il loro dovere, ma io avevo iniziato ad accusare nuovi sintomi, disparati quanto quelli precedenti. Avevo la pelle irritata, la digestione difficile ed ero incline a prendere qualsiasi infezione nei paraggi. Sospettavo che gli antibiotici non si fossero limitati a debellare i batteri che mi infestavano, ma anche quelli che mi appartenevano. Avevo la sensazione di essere diventata inospitale per i microbi: mi sono resa conto allora di quanto avessi bisogno di quei 100 trilioni di piccole e amichevoli creature che, fino a poco tempo prima, avevano abitato il mio corpo. Siamo umani soltanto al 10 per cento. Per ogni cellula che forma quel recipiente chiamato corpo, ce ne sono altre nove che, da autentici impostori, scroccano un passaggio. Non siamo fatti solo di carne e sangue, muscoli e ossa, epidermide e cervello, ma anche di funghi e batteri. Siamo più “loro” di quanto siamo “noi”. Soltanto l’intestino ne ospita 100 trilioni, come una barriera corallina che cresce su quell’accidentato fondale marino che è il nostro intestino. Più o meno 4000 specie diverse si ricavano piccole nicchie, annidate tra le pieghe del colon, che con il suo metro e mezzo di lunghezza avrebbe la superficie di un letto matrimoniale. Nel corso della vita ospitiamo così tanti microbi che il loro peso equivarrebbe a quello di cinque elefanti africani, perché in realtà non siamo individui ma colonie. La nostra pelle ne brulica. Sulle dita ce n’è un numero maggiore della popolazione della Gran Bretagna. Disgustoso, vero? Noi siamo certamente troppo raffinati, troppo igienizzati, troppo evoluti per essere colonizzati in tal modo. Non ci eravamo sbarazzati dei microbi, come della pelliccia e della coda, quando siamo usciti dalle foreste? La
moderna medicina non possiede i mezzi per aiutarci a debellarli e condurre in tal modo una vita più pulita, più sana, più indipendente? Da quando l’habitat microbico del corpo è stato scoperto lo abbiamo sopportato, perché a quanto pare non arrecava danni. Ma a differenza delle barriere coralline o delle foreste pluviali, non abbiamo pensato a proteggerlo, men che meno a prendercene cura. Poiché sono una biologa dell’evoluzione, sono addestrata a cercare il beneficio, il significato, nell’anatomia e nel comportamento di un organismo. Di norma le caratteristiche e le interazioni davvero nocive vengono combattute, oppure si perdono nel tempo evolutivo. Il che mi porta a pensare: i nostri 100 trilioni di microbi non potrebbero sentirsi a casa se non contribuissero alle spese. Il nostro sistema immunitario combatte i germi e ci guarisce dalle infezioni, quindi perché dovrebbe tollerare una simile invasione? Avendo sottoposto i miei invasori, quelli buoni e quelli cattivi, a mesi di guerra chimica, volevo saperne di più sui danni collaterali che io stessa avevo provocato. Come ho poi scoperto, mi stavo ponendo il problema proprio al momento giusto. Dopo decenni in cui la scienza aveva flemmaticamente tentato di apprendere di più sui microbi del nostro corpo mediante colture sulle piastre di Petri, finalmente la tecnologia si era messa in pari con la nostra curiosità. La maggior parte dei microbi che vivono dentro di noi muoiono quando vengono esposti all’ossigeno, perché sono adattati a un’esistenza anossica nelle profondità del nostro intestino. Farli crescere al di fuori del corpo è difficile, sottoporli a esperimenti ancora più complesso. Sulla scia del pionieristico Progetto Genoma Umano, che ha identificato ogni gene umano, gli scienziati adesso sono in grado di disporre in sequenza ingenti quantità di DNA assai velocemente e con poca spesa. Adesso è possibile identificare persino i microbi morti, espulsi dal corpo nella defecazione, perché il loro DNA rimane intatto. Ritenevamo che i nostri microbi non fossero importanti, ma la scienza inizia a rivelarci una storia diversa. Una storia in cui la vita umana è intrecciata con quella dei nostri autostoppisti, in cui i microbi gestiscono il corpo e non è possibile essere individui sani senza di loro. I miei problemi di salute erano la punta di un iceberg. Ho scoperto che esistono nuove prove scientifiche secondo cui alla base dei problemi gastrointestinali, delle allergie, delle malattie autoimmuni e persino dell’obesità ci sono disturbi dei microbi corporei. E non è soltanto la salute fisica a esserne colpita, ma anche quella mentale, dall’ansia alla depressione, dal disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) all’autismo. Molte delle malattie che accettiamo come parte della vita non sarebbero, a quanto pare, dovute a difetti genetici, o al
corpo che viene meno ai suoi doveri, ma sarebbero invece nuove patologie emergenti, provocate dal fatto che non siamo riusciti a prenderci adeguatamente cura della vecchia estensione delle cellule umane: i nostri microbi. Attraverso la ricerca speravo non solo di scoprire quali danni avessero provocato gli antibiotici alla mia colonia microbica, ma anche in che modo mi avesse indisposto e che cosa avrei dovuto fare per ripristinare l’equilibrio dei microbi che ospitavo prima dei morsi delle zecche, quella notte di otto anni prima. Per saperne di più, mi sono arruolata per fare il passo decisivo in questa scoperta su di me: il sequenziamento del DNA. Ma invece che far sequenziare i miei geni, avrei fatto sequenziare quelli della mia colonia personale di microbi: il mio microbioma. Sapere quali specie e ceppi di batteri contenevo sarebbe stato un buon punto di partenza per migliorare la mia situazione. Sfruttando le più recenti conoscenze su quello che dovrebbe vivere in me, avrei potuto capire l’entità del danno compiuto e tentare di porvi rimedio. Ho usato un progetto di citizen science, l’American Gut Project, con sede nel laboratorio del professor Rob Knight della University of Colorado, a Boulder. A disposizione di chiunque nel mondo in cambio di una donazione, l’AGP sequenzia campioni di microbi provenienti dal corpo umano per apprendere di più sulle specie che ospitiamo e sul loro impatto sulla nostra salute. Dopo aver mandato un campione di feci contenenti i microbi del mio intestino, ho ricevuto un’istantanea dell’ecosistema che si considerava a casa nel mio corpo. Dopo anni di antibiotici ho appreso con sollievo che dopotutto vivevano in me ancora alcuni batteri. Ho scoperto con piacere che i gruppi che ospitavo erano simili, almeno in linea di massima, a quelli di altri partecipanti all’American Gut Project, e non l’equivalente microbico di creature mutanti che tiravano a campare in una velenosa terra desolata. Tuttavia, com’era forse prevedibile, sembrava che la diversità dei miei batteri si fosse presa una bella batosta. Al livello più alto della gerarchia tassonomica la diversità era piuttosto bassa, appariva leggermente bipartita rispetto all’intestino di altri individui. Oltre il 97 per cento dei miei batteri apparteneva ai due maggiori gruppi, mentre nella media dei partecipanti era circa il 90 per cento a comporre questi due gruppi. Forse gli antibiotici che avevo preso avevano sterminato alcune delle specie meno abbondanti ed erano sopravvissuti soltanto i più robusti. Ero davvero curiosa di sapere se questa perdita potesse essere legata a qualcuno dei miei svariati e recenti problemi di salute. Tuttavia, proprio come paragonare una foresta pluviale tropicale a un bosco
di querce, limitandosi a osservare le proporzioni delle piante e degli arbusti, o degli uccelli e dei mammiferi, rivela ben poco sul funzionamento dell’ecosistema, paragonare i miei batteri a una scala tanto ampia forse non mi dice molto sulla salute della mia comunità interna. All’altro capo della gerarchia tassonomica c’erano i generi e le specie che stavano dentro di me. Che cosa potevano rivelare sul mio attuale stato di salute le identità dei batteri che avevano resistito per tutta la terapia o che erano ritornati dopo che si era conclusa? O forse in maniera più pertinente: che cosa significava per me, adesso, l’assenza di specie probabilmente rimaste vittima della guerra chimica che avevo scatenato su di loro? Mentre mi accingevo a scoprire di più su di noi – cioè su di me e i miei microbi – ho deciso di mettere in pratica quello che imparavo. Volevo ritornare nelle loro grazie, e sapevo che avrei dovuto fare dei cambiamenti nella mia vita per ripristinare una colonia che avrebbe lavorato in armonia con le mie cellule umane. Se i miei sintomi più recenti derivavano dal danno collaterale che avevo inavvertitamente inflitto al mio microbiota, forse potevo invertire la rotta e liberarmi dalle allergie, dai problemi alla pelle e dalle infezioni quasi continue? La mia preoccupazione non riguardava soltanto me stessa, ma i figli che speravo di avere negli anni a venire. Poiché avrei trasmesso non solo i miei geni ma anche i miei microbi, volevo essere certa di avere qualcosa di valido da tramandare. Ho deciso pertanto di mettere i miei microbi al primo posto, cambiando la dieta affinché fosse più adatta ai loro bisogni. Ho pianificato di farmi sequenziare un secondo campione dopo che i cambiamenti al mio stile di vita avessero avuto l’opportunità di fare effetto, nella speranza che i miei sforzi si manifestassero, grazie al cambiamento, nella diversità e nell’equilibrio delle specie che ospito. Speravo soprattutto che il mio investimento su di loro desse buoni frutti, aprendo le porte a una salute migliore e alla felicità.
Introduzione
L’altro 90 per cento Nel mese di maggio del 2000, poche settimane prima dell’annuncio della prima bozza del genoma umano, tra gli scienziati seduti al bar del Cold Spring Harbor Laboratory di New York è iniziato a circolare un taccuino. Stava crescendo l’eccitazione attorno alla fase successiva del Progetto Genoma Umano, in cui la sequenza del DNA sarebbe stata suddivisa nelle sue parti funzionali, cioè i geni. Il taccuino conteneva una sorta di lotteria, le ipotesi del gruppo di persone più preparate del pianeta su una questione affascinante: quanti geni sono necessari per formare un essere umano? La ricercatrice Lee Rowen, che guidava il gruppo di lavoro sulla decodificazione dei cromosomi 14 e 15, soppesava il problema sorseggiando una birra. I geni producono proteine, i mattoni della vita, e poiché gli esseri umani sono complessi era probabile che quel numero fosse alto. Certamente più alto rispetto alla quantità di geni dei topi, i quali come si sapeva ne avevano 23.000. Probabilmente più alto anche rispetto al frumento, con i suoi 26.000 geni. E senza dubbio decisamente più alto di “Il Verme”, la specie da laboratorio prediletta dai biologi dello sviluppo, con i sui 20.500 geni. Malgrado le congetture, che in media si aggiravano sui 55.000 geni e raggiungevano anche i 150.000, grazie alla sua conoscenza nel settore, Rowen tendeva a tenersi bassa. Quell’anno aveva scommesso su 41.440 geni e il successivo aveva aggiornato la sua puntata con solo 25.947 geni. Nel 2003, quando dalla sequenza quasi terminata stava emergendo il numero effettivo di geni, Rowen si è aggiudicata il premio. Il suo dato era il più basso, tra le 165 scommesse, e l’ultimo conteggio dei geni aveva appena dato risultati persino più bassi di quanto qualsiasi scienziato avesse mai previsto. Con i suoi timidi 21.000 geni, il genoma umano non è molto più grande di quello del Verme (Caenorhabditis elegans). È la metà rispetto a quello della pianta del riso e persino la semplice pulce d’acqua, con 31.000 geni, lo surclassa. Nessuna di queste specie è in grado di parlare, creare o fare pensieri intelligenti. Si potrebbe pensare, come avevano fatto gli scienziati entrando nella lotteria
genetica, che gli esseri umani abbiano molti più geni dell’erba, dei vermi e delle pulci. Dopotutto i geni producono le proteine, e le proteine producono i corpi. Certamente un corpo complesso e sofisticato come quello umano ha bisogno di più proteine, e quindi di più geni, di quello di un verme, giusto? Ma questi 21.000 non sono gli unici geni che governano il nostro corpo. Non viviamo da soli. Ognuno di noi è un superorganismo; una sorta di collettivo di specie che vivono fianco a fianco e gestiscono il corpo che sostiene tutti noi collaborando tra loro. Le nostre cellule, per quanto decisamente più grandi per peso e volume, sono superate per numero, nella proporzione di dieci a una, dalle cellule dei microbi che vivono dentro e sopra di noi. Questi 100 trilioni di microbi – conosciuti come microbiota – sono soprattutto batteri: esseri microscopici costituiti da un’unica cellula. Oltre ai batteri, ci sono altri microbi: virus, funghi e archei. I virus sono così piccoli e semplici che sfidano le nostre idee di ciò che rappresenta la “vita”. Per riprodursi fanno completamente affidamento sulle cellule di altre creature. I funghi che vivono su di noi spesso sono lieviti; più complessi dei batteri, ma sempre minuscoli organismi unicellulari. Gli archei sono un gruppo apparentemente simile a quello dei batteri, ma diversi da un punto di vista evolutivo quanto i batteri lo sono da piante o animali. Tutti insieme, i microbi che vivono sul corpo umano contengono 4,4 milioni di geni: ecco il microbioma, il genoma collettivo del microbiota. Questi geni collaborano con i nostri 21.000 geni umani nella gestione del corpo. Secondo questo conteggio, noi siamo umani solo per lo 0,5 per cento (Figura 0.1). Adesso sappiamo che il genoma umano genera la propria complessità non soltanto nel numero di geni che contiene, ma anche attraverso le molte combinazioni di proteine che questi geni sono in grado di produrre. Noi, e altri animali, siamo in grado di trarre più funzioni dal nostro genoma di quanto esso sembri codificare a un primo sguardo. Ma i geni dei nostri microbi aggiungono ulteriore complessità alla combinazione, fornendo servizi al corpo umano che sono più velocemente e più facilmente offerti da questi semplici organismi.
Figura 0.1 - Un albero della vita semplificato, che mostra i tre domini e i quattro regni del dominio degli Eucarioti.
Fino a poco tempo fa lo studio dei microbi si basava sulla possibilità di coltivarli su piastre di Petri piene di brodi di coltura a base di sangue, midollo osseo o zuccheri, sospesi in gelatina. È un lavoro complesso: la maggior parte delle specie che vivono nell’intestino umano muoiono se esposte all’ossigeno, perché non si sono evolute per tollerarlo. Sviluppare dei microbi su queste piastre significa inoltre ipotizzare di quali nutrienti, temperatura e gas possano aver bisogno per sopravvivere, e non riuscire a comprenderlo significa non riuscire ad apprendere di più su una specie. Coltivare microbi è un po’ come controllare chi è presente in classe scorrendo il registro: se non fate l’appello non saprete chi c’è. L’attuale tecnologia – il sequenziamento del DNA reso così veloce ed economico grazie al lavoro di coloro che si sono dedicati al Progetto Genoma Umano – è più simile alla richiesta di un ID all’ingresso; è possibile dar conto anche di coloro che non vi aspettavate di vedere. Quando il Progetto Genoma Umano si è concluso, c’erano grandi aspettative, perché veniva considerato la chiave per comprendere l’umanità, il più grande lavoro di Dio, e una sacra biblioteca che custodiva i segreti delle malattie. Nel giugno del 2000, una volta completata la prima bozza, con un budget inferiore al previsto di 2,7 miliardi di dollari e con diversi anni di anticipo, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha dichiarato:
Oggi stiamo apprendendo il linguaggio con cui Dio ha creato la vita. Acquisiamo una soggezione persino maggiore per la complessità, la bellezza, la meraviglia del dono più divino e sacro di Dio. Con questa profonda e nuova conoscenza, l’umanità è sul punto di acquisire un immenso nuovo potere di guarire. La scienza genomica avrà un impatto reale sulla nostra vita, e persino su quella dei nostri figli. Rivoluzionerà la diagnosi, la prevenzione e la terapia della maggior parte, se non di tutte, le patologie umane.
Negli anni seguenti però i giornalisti scientifici di tutto il mondo hanno iniziato a esprimere delusione per il contributo che la conoscenza della sequenza completa del DNA aveva dato alla medicina. Sebbene la decodificazione del nostro libretto di istruzioni sia un’indiscutibile conquista che ha fatto la differenza nella terapia di diverse patologie importanti, non ci ha rivelato quanto ci saremmo aspettati riguardo le cause di molte comuni malattie. La ricerca delle differenze genetiche comuni agli individui con una particolare patologia non ha reso evidenti i legami con molte malattie, come invece ci si aspettava. Spesso le patologie avevano deboli connessioni con decine o centinaia di varianti genetiche, ma raramente si presentava proprio il caso secondo cui possedere una data variante genetica conduceva direttamente a una data patologia. Quello che non abbiamo compreso appieno alla svolta del secolo era che quei 21.000 geni non concludono la storia. La tecnologia per il sequenziamento del DNA messa a punto durante il Progetto Genoma Umano ha reso possibile un altro importante progetto di sequenziamento del genoma, che ha ricevuto tuttavia un’attenzione dei media decisamente minore: il Progetto Microbioma Umano (HMP). Invece che analizzare il genoma della nostra specie, questo progetto è stato istituito per utilizzare i genomi dei microbi che vivono sul corpo umano – il microbioma – al fine di identificare quali specie siano presenti. La ricerca sui nostri coinquilini non sarebbe più stata ostacolata dal fatto di doversi affidare alle piastre di Petri e alla sovrabbondanza di ossigeno. Con un budget di 170 milioni di dollari e un programma quinquennale di sequenziamento del DNA, il Progetto Microbioma Umano avrebbe letto una quantità di DNA migliaia di volte maggiore rispetto al Progetto Genoma Umano, proveniente dai microbi che vivono in diciotto diversi habitat del corpo umano. Sarebbe stata una ricerca decisamente molto più completa dei geni che costituiscono l’individuo, umano e microbico. Nel 2012, alla conclusione della prima fase del Progetto Microbioma Umano, nessun leader mondiale ha fatto dichiarazioni trionfali, e soltanto una manciata di quotidiani ha riportato la storia. Ma il Progetto Microbioma sarebbe andato avanti, per rivelare quello che significa essere umani, più di quanto abbia mai fatto il nostro genoma.
Da quando la vita ha avuto inizio, le specie si sono vicendevolmente sfruttate e i microbi si sono rivelati particolarmente abili a guadagnarsi da vivere nei luoghi più bizzarri. Per le loro microscopiche dimensioni, il corpo di un altro organismo, in particolare una creatura molto grande e dotata di spina dorsale, come un essere umano, rappresenta non una semplice nicchia, ma un intero mondo di habitat, ecosistemi e opportunità. Variabile e dinamico come il nostro rotante pianeta, il corpo umano è dotato di un clima chimico che aumenta e diminuisce a seconda delle maree ormonali, e di paesaggi complessi che mutano con il trascorrere degli anni. Per i microbi, questo è l’Eden. Ci siamo co-evoluti a fianco dei microbi sin da molto tempo prima di diventare umani. Persino da prima che i nostri antenati fossero mammiferi. Qualsiasi corpo animale, dalla più minuscola drosofila alla più gigantesca balena, per i microbi è pur sempre un altro mondo. Malgrado la pubblicità negativa che molti di loro si fanno in quanto germi che provocano malattie, ospitare una popolazione di queste minuscole forme di vita può essere estremamente remunerativo. Il calamaro gigante delle Hawaii – con i suoi grandi occhi e i molti colori, come tutti i personaggi della Pixar – si è praticamente liberato di una grave minaccia per la sua esistenza invitando una specie di batterio bioluminescente a risiedere in una particolare cavità nel suo ventre. Qui, in questo organo leggero, i batteri conosciuti con il nome di Aliivibrio fischeri convertono il cibo in luce, tanto che visto da sotto il calamaro brilla. Il che ne oscura il profilo contro la superficie del mare illuminata dalla luna, mimetizzando l’animale dai predatori che si avvicinano da sotto. Il calamaro deve questa protezione ai suoi abitanti batterici e loro gli sono debitori per l’ospitalità. Se ospitare una fonte luminosa sotto forma di microbi può sembrare un modo particolarmente fantasioso per aumentare le proprie possibilità di vita, i calamari non sono certamente l’unica specie animale a dovere l’esistenza ai microbi del proprio corpo. Le strategie di vita sono molte e varie e la cooperazione con i microbi è stata una forza propulsiva del gioco evolutivo sin da quando gli esseri viventi dotati di più di una cellula hanno iniziato a evolversi, 1,2 miliardi di anni fa. Più sono le cellule che compongono un individuo, più sono i microbi che vivono in lui. I grandi animali come i bovini sono difatti famosi per la loro ospitalità batterica. Le mucche mangiano erba, ma per mezzo dei geni riescono a estrarre pochissime sostanze nutritive da questa dieta fibrosa. Avrebbero bisogno di speciali proteine, chiamate enzimi, in grado di scindere le robuste molecole
che compongono le pareti cellulari dell’erba. Per sviluppare il gene che produce questi enzimi potrebbero volerci millenni, poiché esso si basa su mutazioni casuali nel codice del DNA che si possono verificare soltanto a ogni successiva generazione di mucche. Un modo più veloce per acquisire la capacità di accedere ai nutrienti racchiusi nell’erba è esternalizzare il lavoro agli specialisti: i microbi. Le quattro camere dello stomaco della mucca ospitano popolazioni di trilioni di microbi e il cibo da ruminare – un bolo di solida fibra vegetale – viaggia avanti e indietro tra la triturazione meccanica della bocca della mucca e la disgregazione chimica da parte degli enzimi prodotti dai microbi che vivono nell’intestino. Acquisire i geni che compiono questa azione è veloce e facile per i microbi, perché i loro tempi di generazione, e pertanto le opportunità di mutamento e di evoluzione, sono spesso meno di un giorno. Se il calamaro gigante e la mucca riescono entrambi a trarre beneficio dalla collaborazione con i microbi, non è che noi umani facciamo altrettanto? Noi forse non ci nutriamo di erba e non abbiamo uno stomaco dotato di quattro camere, ma abbiamo le nostre specializzazioni. Il nostro stomaco è piccolo e semplice, serve semplicemente a rimescolare il cibo, buttarci dentro qualche enzima della digestione e aggiungere un po’ di acido per uccidere sgraditi germi. Ma andiamo avanti, perché c’è l’intestino tenue, in cui il cibo viene sminuzzato da altri enzimi e assorbito nel sangue mediante un tappeto di protuberanze simili a dita che gli conferiscono l’aspetto di un campo da tennis; poi raggiungeremo un vicolo cieco, più simile a una palla da tennis che a tutto il campo, che segna l’inizio dell’intestino crasso. Questa parte, che ricorda una sacca, nell’angolo in basso a destra dell’addome, viene chiamato intestino cieco ed è il cuore della comunità microbica del corpo umano. Penzolante dal cieco c’è un organo che ha fama di essere lì solo per causare dolore e infezione: l’appendice. Il suo nome completo – appendice vermiforme – si riferisce al suo aspetto simile a un verme, ma potrebbe parimenti essere paragonata a una larva o a un serpente. Le appendici variano in lunghezza, da appena 2 centimetri a un fibroso 25 centimetri, e sebbene sia raro un individuo può persino averne due, oppure neanche una. Se dobbiamo credere all’opinione popolare, staremmo decisamente meglio senza, poiché per oltre cent’anni ci hanno detto che non aveva alcuna funzione. In realtà, l’uomo che ha definitivamente posto l’anatomia degli animali in un’elegante cornice evolutiva è a quanto pare anche il responsabile del suo persistente mito. Charles Darwin, nell’Origine dell’uomo, il seguito dell’Origine delle specie, include l’appendice
in una disamina sugli organi “rudimentali”. Dopo averla paragonata alle appendici più grandi di molti altri animali, ha ritenuto che si trattasse di un organo vestigiale, che costantemente si indeboliva man mano che gli uomini cambiavano dieta. Senza altre indicazioni, lo status vestigiale dell’appendice non è mai stato davvero messo in discussione nei cent’anni successivi e la percezione della sua inutilità non può che essere accresciuta dal fatto che tende a provocare disturbi. La classe medica era talmente convinta che fosse inutile che negli anni Cinquanta la sua rimozione era uno degli interventi chirurgici più comuni nei paesi sviluppati. L’appendicectomia veniva spesso aggiunta come una sorta di bonus durante altri interventi addominali. A un certo punto un individuo aveva una possibilità su otto che gli togliessero l’appendice durante la vita e per una donna le probabilità erano una su quattro. Tra il 5 e il 10 per cento degli individui nel corso della vita sviluppa un’appendicite, di solito nei decenni prima di avere dei figli. Se non venisse curata, la metà di questi individui morirebbe. Tutto ciò rappresenta un enigma. Se l’appendicite fosse una malattia che si manifesta naturalmente, provocando spesso la morte in giovane età, l’appendice verrebbe velocemente eliminata dalla selezione naturale. Gli individui dotati di appendici abbastanza grandi da infettarsi morirebbero per lo più prima di riprodursi e pertanto non trasmetterebbero i propri geni relativi alla formazione di questo organo. Nel corso del tempo sempre meno individui avrebbero l’appendice, che infine andrebbe perduta. La selezione naturale avrebbe preferito gli individui privi di quell’organo. L’ipotesi di Darwin che si trattasse di un residuo del passato potrebbe anche avere avuto un certo peso, non fosse per le conseguenze spesso fatali del possederne una. Ci sono due spiegazioni, pertanto, della persistenza dell’appendice, che non si escludono a vicenda. La prima è che l’appendicite sia un fenomeno moderno, provocato da qualche mutamento ambientale. In tal caso un organo inutile potrebbe essere sopravvissuto nel passato semplicemente tenendosi fuori dai guai. La seconda è che l’appendice, ben lungi dall’essere un malevolo retaggio del passato evolutivo, abbia in realtà proprietà benefiche per la salute, più importanti del suo lato oscuro, che ne rendono utile la presenza, a dispetto dell’appendicite. La selezione naturale pertanto preferisce chi di noi ne possiede una. La domanda è: perché? La risposta risiede nel suo contenuto. L’appendice, che misura mediamente 8 centimetri di lunghezza per uno di larghezza, forma un tubo protetto dal flusso di cibo in gran parte digerito che supera il suo ingresso. Ma invece di essere un
avvizzito lembo di carne, è pieno zeppo di cellule e molecole immunitarie specializzate, non certo inerti, ma parte integrante del sistema immunitario: proteggono, coltivano e comunicano con un insieme di microbi. All’interno, questi microbi compongono una “biopellicola”, ovvero uno strato di individui che si sostengono a vicenda ed escludono i batteri potenzialmente dannosi. L’appendice, ben lungi dall’essere inutile, sembra una sorta di rifugio che il corpo umano ha fornito ai suoi abitanti microbici. Come un gruzzolo messo da parte per i momenti difficili, questa riserva di microbi torna utile in tempo di guerra. Dopo un episodio di avvelenamento alimentare o di infezione gastrointestinale, l’intestino può essere ripopolato con i suoi normali abitanti, che se ne stavano annidati nell’appendice. Potrebbe sembrare una polizza d’assicurazione corporea eccessiva, ma è soltanto in decenni recenti che nel mondo occidentale sono state quasi del tutto debellate le infezioni intestinali come dissenteria, colera e giardiasi. Gli interventi sanitari pubblici, tra cui i sistemi fognari e gli impianti per la depurazione dell’acqua, prevengono queste patologie nei paesi sviluppati, ma a livello globale un decesso infantile su cinque è ancora provocato da diarrea infettiva. Per coloro che non soccombono, il possesso di un’appendice affretta probabilmente la guarigione. È soltanto in un contesto di salute relativamente buona che siamo giunti a credere che l’appendice non abbia alcuna funzione. In realtà, le conseguenze negative dell’appendicectomia sono state mascherate dallo stile di vita moderno, igienizzato. E così si scopre che l’appendicite è un fenomeno moderno. All’epoca di Darwin era un disturbo estremamente raro e provocava un numero esiguo di decessi, perciò possiamo forse perdonare lo studioso per aver pensato che quell’organo fosse semplicemente un avanzo dell’evoluzione, che non ci danneggiava né ci aiutava. L’appendicite è diventata comune sul finire del XIX secolo: in un ospedale britannico i casi si impennarono da una media stabile di tre o quattro individui all’anno prima del 1890, a 113 nel 1918, crescita che si registrava in tutto il mondo industrializzato. La diagnosi non è mai stata un problema: il dolore lancinante, seguito da una veloce autopsia se il paziente non sopravviveva, rivelava la causa di morte anche prima che l’appendicite diventasse comune come oggi. Per spiegarla sono state avanzate parecchie ipotesi, dall’aumento del consumo di carne, burro e zucchero, alla sinusite, ai denti guasti. All’epoca l’opinione comune si fermava come causa ultima su una riduzione delle fibre nella dieta, ma le idee in merito ancora abbondano, compresa quella che incolpa
dell’aumento della patologia il fatto che l’acqua sia più purificata, e perciò migliore la situazione igienica, proprio quell’evoluzione che avrebbe dovuto rendere quasi inutile l’appendice. Quale che sia la causa ultima, ora della Seconda guerra mondiale dalla nostra memoria collettiva era scomparso l’aumento dei casi di appendicite, per cui avevamo l’impressione che si trattasse di un elemento tipico, anche se non gradito, della vita di tutti noi. In realtà persino nel mondo moderno, sviluppato, tenersi stretta l’appendice almeno fino all’età adulta può dimostrarsi un vantaggio, che ci protegge da infezioni gastrointestinali ricorrenti, da disfunzioni immunitarie, da tumori del sangue, da alcune patologie autoimmuni e persino dall’infarto. In qualche modo, il suo ruolo di rifugio della vita microbica porta questi benefici. Che l’appendice sia ben lungi dall’essere inutile ci dice qualcosa di più: i nostri microbi sono importanti per il corpo. Sembra che non si limitino a scroccare un passaggio, ma offrano un servizio talmente importante che il nostro intestino ha creato un riparo per tenerli al sicuro. La domanda è: chi sono, e che cosa fanno esattamente per noi? Anche se sappiamo da diversi decenni che i microbi del nostro corpo ci offrono qualche beneficio accessorio, come sintetizzare alcune vitamine essenziali e sminuzzare le robuste fibre vegetali, il grado di interazione tra le nostre cellule e le loro non si è compreso fino a tempi relativamente recenti. Sul finire degli anni Novanta, utilizzando gli strumenti della biologia molecolare, i microbiologi hanno fatto un balzo in avanti nella comprensione della strana relazione tra noi e il nostro microbiota. Una nuova tecnologia per sequenziare il DNA può dirci quali microbi siano presenti e ci permette di dar loro un posto nell’albero della vita. A ogni passo più giù di questa gerarchia, dal dominio al regno e poi al phylum, attraverso la classe, l’ordine e la famiglia, e poi al genere, alla specie e al ceppo, gli individui sono sempre più collegati gli uni agli altri. Partendo dal particolare, noi esseri umani (genere Homo e specie sapiens) siamo grandi scimmie (famiglia Hominidae), che si pongono accanto alle scimmie e ad altri individui nell’ambito dei primati (ordine Primati). Tutti noi primati apparteniamo, fra tutti gli animali, con o senza spina dorsale (pensiamo per esempio al calamaro gigante), al regno degli Animali, e al dominio degli Eucarioti, con i nostri compagni bevitori di latte pelosi, in quanto membri dei mammiferi (classe Mammiferi), inseriti in un gruppo che contiene animali dotati di spina dorsale (phylum Chordata). I batteri e altri microbi (eccetto i virus ribelli alle categorie) trovano il proprio posto negli altri grandi rami dell’albero della vita, poiché non appartengono al regno degli
Animali, ma ai loro peculiari regni in domini diversi. Il sequenziamento permette di identificare le diverse specie e posizionarle all’interno della gerarchia dell’albero della vita. Un segmento particolarmente utile di DNA, il gene 16S rRNA, funziona come una sorta di codice a barre dei batteri e fornisce una veloce carta d’identità senza bisogno di sequenziare l’intero genoma batterico. Più i codici dei geni 16S rRNA sono simili, più strettamente collegate sono le specie, più rami e rametti dell’albero della vita condividono. Il sequenziamento del DNA, però, non è l’unico strumento a nostra disposizione quando si tratta di rispondere a quesiti sui nostri microbi, soprattutto riguardo a quello che fanno. Per risolvere questi misteri spesso ci rivolgiamo ai topi. In particolare ai topi “privi di germi”. Le prime generazioni di questi fondamentali elementi dei nostri laboratori sono nati con parto cesareo e tenuti in isolamento, per impedire che venissero colonizzati dai microbi, benefici o dannosi che fossero. Da allora in poi, la maggior parte dei topi privi di germi nascono semplicemente da madri prive di germi, mantenendo una linea di roditori sterili, non contaminati da microbi. Persino il cibo e le lettiere sono trattati con radiazioni e avvolti in confezioni sterili, per evitare qualsiasi contaminazione. Trasferire i topi dalle loro gabbie simili a bolle è una specie di impresa, che implica vuoti e prodotti chimici antimicrobici. Comparando i topi privi di germi con quelli “convenzionali”, che possiedono un corredo completo di microbi, i ricercatori sono in grado di testare con precisione gli effetti del possesso di un microbiota. Possono persino colonizzare dei topi privi di germi con un’unica specie di batterio, o un piccolo gruppo di specie, per capire esattamente in che modo ciascun ceppo contribuisca alla biologia di un topo. Grazie allo studio di questi topi “gnotobiotici” (ovvero dalla “vita conosciuta”), incominciamo ad avere un vago sentore di come i microbi agiscano in noi. Naturalmente i topi non sono identici agli esseri umani e talvolta i risultati degli esperimenti su di loro sono totalmente diversi dai risultati sugli uomini, ma rappresentano comunque uno strumento di ricerca incredibilmente utile, e molto spesso forniscono indizi cruciali. Senza i roditori la ricerca medica progredirebbe a un milionesimo della velocità. È stato proprio grazie all’utilizzo di topi privi di germi che il comandante in capo degli studi sul microbioma, il professor Jeffrey Gordon della University of Washington di St. Louise, nel Missouri, ha scoperto un indizio notevole di quanto sia fondamentale il microbiota per la gestione di un corpo sano. Ha comparato l’intestino di topi privi di germi con quello di topi convenzionali e ha
appreso che sotto la direzione dei batteri le cellule del topo che rivestivano le pareti intestinali rilasciavano una molecola che “nutriva” i microbi, spingendoli a prendervi alloggio. La presenza di un microbiota non soltanto cambia la chimica dell’intestino, ma anche la sua morfologia. Grazie alla persistenza dei microbi le sue protuberanze simili a dita si allungano, rendendo la superficie abbastanza grande da catturare dal cibo l’energia di cui ha bisogno. Si è stimato che, se non ci fossero i microbi, i topi avrebbero bisogno del 30 per cento di cibo in più. Non sono soltanto i microbi a trarre beneficio dalla condivisione del nostro corpo, ma anche noi. La nostra relazione non è di semplice tolleranza, ma di incoraggiamento. La comprensione di tutto ciò, insieme alle tecniche di sequenziamento del DNA e agli studi sui topi privi di germi, hanno dato il via a una rivoluzione scientifica. Il Progetto Microbioma Umano, gestito dai National Institutes for Health degli Stati Uniti, insieme a molti altri studi in laboratori di tutto il mondo, ha rivelato che per la nostra salute e felicità dipendiamo completamente dai nostri microbi. Il corpo umano, sia all’interno sia all’esterno, forma un paesaggio composto da habitat tanto variegati quanto quelli terrestri. Proprio come gli ecosistemi del nostro pianeta sono popolati da diverse specie di piante e di animali, così gli habitat del corpo ospitano differenti comunità di microbi. Come tutti gli animali, noi siamo una sorta di tubo complesso. Il cibo entra a un capo del tubo ed esce dall’altro. Noi consideriamo la pelle una sorta di rivestimento della nostra superficie “esterna”, ma anche la superficie interna del nostro tubo è “esterna”, cioè esposta all’ambiente in maniera del tutto simile. Mentre gli strati della pelle ci proteggono dagli elementi, dai microbi invasori e dalle sostanze dannose, le cellule del tubo digerente che ci attraversa devono mantenerci al sicuro. Il nostro autentico “interno” non è il tubo digerente, ma i tessuti e gli organi, i muscoli e le ossa sistemati tra l’interno e l’esterno del nostro sé tubolare. La superficie di un essere umano, pertanto, non è soltanto la pelle, ma anche le pieghe e le curve, i solchi e le grinze del suo tubo interno. Quando pensiamo al corpo in questo modo, persino i polmoni, la vagina e il tratto urinario sono considerati esterni, parte della superficie. Non importa se interna o esterna, tutta questa superficie è una potenziale proprietà immobiliare per i microbi. I siti variano a seconda del valore, con dense comunità simili a città che si formano in posti di prim’ordine e ricchi di risorse, come l’intestino, mentre gruppi più radi di specie occupano luoghi più “rurali” oppure ostili, come i polmoni e lo
stomaco. Il Progetto Microbioma Umano si propone di descrivere queste comunità, campionando microbi provenienti da diciotto siti collocati in tutte le superfici interne ed esterne del corpo umano, grazie a centinaia di volontari. Nel corso dei primi cinque anni del Progetto Microbioma i microbiologi molecolari hanno sovrinteso a una sorta di eco biotecnologica dell’età d’oro della scoperta delle specie, ovvero quella che aveva visto i vasi pieni di formaldeide con dentro un bottino di uccelli e mammiferi scoperti e battezzati dai biologi-esploratori nel XVIII e XIX secolo. Il corpo umano, si è scoperto, è una miniera di ceppi e di specie sconosciute alla scienza, molte delle quali presenti soltanto in uno o due dei volontari che partecipano alla ricerca. È ben difficile che ognuno di essi ospiti una serie ripetuta di microbi, sono davvero pochi i ceppi di batteri comuni a tutti. Ciascuno di noi contiene comunità di microbi tanto unici quanto le nostre impronte digitali. Sebbene i dettagli più minuti dei nostri abitanti siano specifici per ciascuno di noi, ai più alti livelli gerarchici tutti noi ospitiamo microbi simili. I batteri che vivono nel nostro intestino, per esempio, sono più simili a quelli nell’intestino della persona che ci siede accanto che a quelli che ospitiamo sulle nocche. Inoltre, malgrado le nostre comunità particolari, le funzioni che essi esercitano sono di norma indistinguibili. Quello che il batterio A fa per noi, forse il batterio B lo fa per il nostro migliore amico. Dalle aride e fredde pianure della pelle degli avambracci, alle umide e tiepide foreste dell’inguine, all’ambiente acido e poco ossigenato dello stomaco, ciascuna parte del corpo offre ricetto a quei microbi che possono svilupparsi per sfruttarlo. Persino all’interno di uno stesso habitat, distinte nicchie ospitano diversi gruppi di specie. La pelle, in tutto due metri quadrati, contiene tanti ecosistemi quanti i paesaggi delle Americhe, ma in miniatura. Gli occupanti dell’epidermide ricca di sebo del volto e della schiena sono assai diversi da quelli dei gomiti, secchi ed esposti, quanto le foreste tropicali di Panama lo sono dalle rocce del Grand Canyon. Mentre il volto e la schiena sono dominati da specie che appartengono al genere Propionibacterium, che trovano un fertile terreno nei grassi rilasciati dai fitti pori di queste zone, i gomiti e gli avambracci ospitano una comunità molto diversa. Le aree umide, compreso l’ombelico, le ascelle e l’inguine, sono la dimora delle specie Corynebacterium e Staphylococcus, che amano l’intensa umidità e si nutrono dell’azoto presente nel sudore. Questa pelle microbica fornisce un doppio strato protettivo al vero interno del corpo, rinforzando l’inviolabilità della barriera costituita dalle cellule
dell’epidermide. I batteri invasori dalle intenzioni malvagie combattono per porre piede in queste protette città di confine del corpo, e quando ci provano devono far fronte a un attacco di armi chimiche. Forse anche più vulnerabili all’invasione sono i tessuti molli della bocca, che devono resistere alla colonizzazione da parte di una marea di intrusi contrabbandati sul cibo e che galleggiano nell’aria. Dalla bocca dei volontari, i ricercatori che lavorano al Progetto Microbioma Umano non hanno preso un solo campione, ma ben nove, ciascuno da un punto leggermente diverso. Si è scoperto che questi nove siti hanno comunità visibilmente diverse nel raggio di pochi centimetri l’uno dall’altro, costituite da circa 800 specie di batteri dominati dallo Streptococcus e da una manciata di altri gruppi. Lo Streptococcus gode di una pessima fama, dovuta alle molte specie che provocano malattie, dall’infezione della gola alla fascite necrotizzante mangia-carne. Tuttavia molte altre specie di questo genere si comportano in maniera impeccabile, cacciando i maligni rivali da questo vulnerabile ingresso nel corpo. Ovviamente queste esigue distanze tra i siti campione all’interno della bocca ci possono apparire insignificanti, ma per i microbi si tratta di ampie pianure e catene montuose, con climi tanto diversi quanto quelli del Nord della Scozia e del Sud della Francia. Immaginiamo allora la variazione climatica tra la bocca e le narici: la viscosa piscina di saliva su un accidentato fondo roccioso sostituito da una pelosa foresta di muco e di polvere. Le narici, come del resto ci sarebbe da aspettarsi, visto il ruolo di guardiani all’ingresso dei polmoni, ospitano un’ampia gamma di gruppi batterici, nell’ordine di 900 specie, tra cui ampie colonie di Propionibacterium, Corynebacterium, Staphylococcus e Moraxella. Scendendo lungo la gola verso lo stomaco, notiamo che l’enorme diversità delle specie che si trovano nella bocca cala vertiginosamente. Lo stomaco, che è molto acido, uccide parecchi dei microbi che entrano con il cibo, e c’è soltanto una specie che certamente risiede in pianta stabile in alcuni individui, l’Helicobacter pylori, la cui presenza può essere sia una benedizione sia una condanna. Da questo punto in poi, il viaggio nel tratto digerente rivela densità – e varietà – di microbi sempre maggiori. Lo stomaco sfocia nell’intestino tenue, dove il cibo viene velocemente digerito dai nostri stessi enzimi e assorbito nel flusso sanguigno. Anche qui però ci sono ancora dei microbi; all’incirca diecimila individui in ogni millilitro di contenuto intestinale all’inizio di questo tubo lungo 7 metri, che cresce fino all’incredibile cifra di dieci milioni per millilitro alla fine, dove il tenue incontra il punto iniziale dell’intestino crasso.
Figura 0.2 - L’intestino umano.
Subito all’esterno del rifugio creato dall’appendice c’è una brulicante metropoli di microbi, nel cuore del territorio microbico del corpo umano, ovvero l’intestino cieco simile a una palla da tennis, dove trilioni di microbi individuali di almeno 4000 specie traggono il massimo dal cibo parzialmente digerito e già passato attraverso il primo round del processo di estrazione dei nutrienti, nell’intestino tenue. I bocconi più coriacei – le fibre vegetali – vengono lasciati ai microbi di questo secondo round (Figura 0.2). Il colon, che costituisce il tratto maggiore dell’intestino crasso, risale lungo la parte destra del torso, attraversa il corpo sotto la gabbia toracica e di nuovo scende sulla parte sinistra, offrendo ricetto ai microbi, nell’ordine di un trilione (1.000.000.000.000) di individui per millilitro, nelle pieghe e nelle cavità delle sue pareti. Qui i microbi raccolgono gli avanzi del nostro cibo e li convertono in
energia, lasciando che i prodotti di scarto vengano assorbiti dalle cellule delle pareti del colon. Senza i microbi dell’intestino le cellule avvizzirebbero e morirebbero: mentre la maggior parte delle cellule del corpo vengono nutrite dallo zucchero trasportato nel sangue, la più consistente fonte di energia di quelle del colon è costituita dai prodotti di scarto del microbiota. L’ambiente umido, tiepido, simile a una palude, e in alcune zone completamente privo di ossigeno, fornisce non solo una fonte di cibo in entrata per i suoi abitanti, ma uno strato di muco ricco di nutrienti, che può sostentare i microbi in tempi di carestia. Poiché i ricercatori del Progetto Microbioma Umano avrebbero dovuto squarciare i volontari per raccogliere i campioni dai diversi habitat intestinali, un metodo assai più pratico per prendere informazioni sugli abitanti dell’intestino era sequenziare il DNA dei microbi trovati nelle feci. Al suo passaggio attraverso l’intestino, il cibo che mangiamo è in gran parte digerito e assorbito, sia da noi sia dai nostri microbi, e ne rimane solo una piccola quantità che uscirà al capo opposto. Le feci, ben lungi dall’essere i resti del nostro cibo, sono composte per lo più da batteri, alcuni morti altri vivi. Intorno al 75 per cento del peso umido delle feci sono batteri; le fibre vegetali costituiscono il 17 per cento. In qualsiasi momento il nostro intestino contiene circa 1,5 chili di batteri – più o meno lo stesso peso del fegato – e la vita di ciascuno si misura in giorni o in settimane. Le 4000 specie di batteri che si trovano nelle feci ci dicono più sul corpo umano rispetto a quelli di tutti gli altri siti messi insieme. Questi batteri rappresentano un marchio della nostra salute e della nostra dieta, non solo come specie, ma anche come società e a livello individuale. Il gruppo di batteri di gran lunga più comune nelle feci sono i Bacteroides, ma poiché i nostri batteri intestinali mangiano quello che mangiamo noi, le comunità variano da un individuo all’altro. I microbi intestinali tuttavia non sono soltanto degli spazzini che approfittano dei nostri avanzi. Anche noi li sfruttiamo, soprattutto quando viene il momento di esternalizzare alcune funzioni per sviluppare le quali da soli avremmo sprecato troppo tempo. Dopotutto, perché preoccuparsi di avere un gene di una proteina che produce la vitamina B12, essenziale per le funzioni cerebrali, quando può pensarci la Klebsiella? E chi ha bisogno di geni che modellino le pareti intestinali, se lo fanno i Bacteroides? È molto più facile ed economico che non svilupparli da zero. Ma, come scopriremo, il ruolo dei microbi che vivono nell’intestino va ben oltre la sintetizzazione di qualche vitamina. Il Progetto Microbioma Umano è iniziato soltanto con l’osservazione del
microbiota di individui sani. Dopo aver fissato questo caposaldo, ci si è chiesti quali fossero le differenze in caso di patologie, se le nostre moderne malattie potessero essere una conseguenza di quelle differenze e, se sì, che cosa provocasse il danno. Potevano disturbi come l’acne, la psoriasi e la dermatite segnalare un’interruzione del normale equilibrio dei microbi dell’epidermide? Le patologie infiammatorie dell’intestino, i tumori del tratto digerente e persino l’obesità si dovevano forse a dei mutamenti delle comunità di microbi che vivono nell’intestino? E, fatto ancora più straordinario, alcune patologie apparentemente assai lontane dagli epicentri microbici, come le allergie, le malattie autoimmuni e persino i disturbi mentali potevano essere provocati da un microbiota danneggiato? La raffinata supposizione di Lee Rowen alla lotteria di Cold Spring Harbor alludeva a una scoperta molto più profonda. Non siamo soli, e i nostri passeggeri microbici giocano un ruolo assai più vasto di quanto ci aspettassimo. Come osserva il professor Jeffrey Gordon: Questa percezione del lato microbico di noi stessi ci sta dando una nuova visione dell’individualità. Un nuovo senso del legame con il mondo dei microbi. Un senso del retaggio delle nostre interazioni personali con la famiglia e l’ambiente all’inizio della vita. Ci fa fermare a riflettere sul fatto che potrebbe esserci un’altra dimensione della nostra umana evoluzione.
Siamo giunti a dipendere dai microbi, e senza di essi saremmo una mera frazione del nostro autentico io. Perciò che cosa significa essere umani soltanto per il 10 per cento?
1. La malattia del XXI secolo
Nel settembre del 1978 Janet Parker è stata l’ultima persona al mondo a morire di vaiolo. A soli cento chilometri dal luogo in cui, per la prima volta, Edward Jenner aveva vaccinato un ragazzino contro quella patologia con del pus di vaiolo bovino estratto da una mungitrice, il corpo della Parker ha ospitato il virus durante il suo ultimo breve viaggio nella carne umana. La professione di fotografa medica alla Birmingham University, nel Regno Unito, non l’avrebbe messa in diretto pericolo, se solo la sua camera oscura non si fosse trovata tanto vicina al sottostante laboratorio. Mentre lei se ne stava lì seduta a ordinare al telefono del materiale fotografico, i virus del vaiolo percorrevano i condotti di aerazione dalla stanza delle “malattie esantematiche” della facoltà di Medicina al piano di sotto, e le causarono l’infezione fatale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva trascorso un decennio a portare nel mondo il vaccino contro il vaiolo e quell’estate era sul punto di annunciarne la totale scomparsa. Era trascorso quasi un anno da quando si era registrato l’ultimo caso di manifestazione spontanea della patologia: un giovane cuoco ospedaliero era guarito da una forma leggera del virus nella sua ultima roccaforte in Somalia. Si trattava di una vittoria straordinaria. Il vaccino aveva messo il vaiolo con le spalle al muro e aveva finito per non lasciargli alcun essere umano vulnerabile da infettare, nessun posto in cui andare. Il virus tuttavia aveva una minuscola nicchia in cui ritirarsi, le piastre di Petri ricolme di cellule umane che i ricercatori utilizzavano per sviluppare e studiare la malattia. Nella facoltà di Medicina della Birmingham University c’era una di quelle riserve, ed era il luogo in cui il professor Henry Bedson e il suo gruppo di lavoro confidavano di mettere a punto il metodo per identificare velocemente qualsiasi virus esantematico emergesse dalla popolazione animale, dopo che il vaiolo aveva abbandonato gli esseri umani. Era un nobile intento e loro avevano il benestare dell’OMS, malgrado le preoccupazioni degli ispettori sui protocolli di sicurezza relativi alla stanza delle malattie esantematiche. Poiché nel giro di pochi mesi il laboratorio di Birmingham avrebbe comunque chiuso i battenti, quei timori non erano motivo sufficiente per una chiusura anticipata e neppure
per un costoso adeguamento degli spazi. La malattia di Janet Parker, archiviata sulle prime come leggera forma influenzale, catturò l’attenzione degli infettivologi quindici giorni dopo l’esordio. Ormai lei era ricoperta di pustole e la possibile diagnosi mutò in vaiolo. La Parker venne messa in isolamento e furono estratti dei campioni di liquido per le analisi. Con un’ironia che certamente non sfuggì al professor Bedson, per confermare la diagnosi si fece ricorso alla competenza del suo gruppo di identificazione dei virus. I timori del medico risultarono fondati e la fotografa venne trasferita in isolamento in un vicino ospedale specializzato. Due settimane dopo, il 6 settembre, mentre lei era ancora ricoverata in condizioni critiche, il professor Bedson venne trovato morto dalla moglie nella propria abitazione. Si era tagliato la gola. L’11 settembre 1978 Janet Parker morì a causa della malattia. Il destino di Janet Parker è stato quello di molte centinaia di milioni di individui prima di lei. Era stata infettata da un ceppo di vaiolo conosciuto come “Abid”, dal nome di un bambino pakistano di tre anni deceduto per quella patologia otto anni prima, poco dopo l’avvio della massiccia campagna dell’OMS per debellare il morbo in Pakistan. Il vaiolo era diventato una rilevante causa di morte a livello mondiale nel XVI secolo, in gran parte per via della tendenza degli europei a esplorare e colonizzare altre aree della terra. Nel XVIII secolo, mentre la popolazione umana aumentava e si faceva sempre più mobile, il vaiolo si diffuse sino a diventare una delle maggiori cause di morte nel mondo, giungendo a uccidere 400.000 europei all’anno, tra cui grossomodo un neonato su dieci. Con l’impiego della vaiolizzazione – un rudimentale e pericoloso predecessore del vaccino che comportava l’infezione intenzionale di un individuo sano mediante i fluidi vaiolosi dei malati – nella seconda metà del XVIII secolo il numero dei morti diminuì. La scoperta del vaccino da parte di Jenner, che nel 1796 utilizzò il vaiolo bovino, portò ulteriore sollievo. Intorno al 1950 nei paesi industrializzati la malattia era stata ormai pressoché debellata, ma nel mondo c’erano ancora cinquanta milioni di casi all’anno, che provocavano oltre due milioni di decessi. Sebbene il vaiolo avesse allentato la presa sui paesi industrializzati, nel primo decennio del XX secolo proseguiva indisturbato il dispotico regno di parecchi altri microbi. Le malattie infettive erano di gran lunga le forme patologiche dominanti, alla cui diffusione contribuiva la nostra umana indole a socializzare ed esplorare. La crescita esponenziale della popolazione, unita all’ancor maggiore densità, non poteva che favorire il salto da un individuo
all’altro che i microbi devono necessariamente fare per continuare il proprio ciclo vitale. Negli Stati Uniti le prime tre cause di morte nel 1900 non erano le patologie cardiache, il cancro e l’ictus, come adesso, ma le malattie infettive, provocate da microbi che passavano da una persona all’altra. Tra queste, la polmonite, la tubercolosi e la diarrea infettiva mettevano fine all’esistenza di un terzo degli individui. Un tempo considerata “il capitano degli uomini della morte”, la polmonite esordisce con una tosse, si insinua fin nei polmoni, soffoca il respiro e fa insorgere la febbre. Più una descrizione di sintomi che una patologia con un’unica causa, essa deve la propria esistenza all’intero spettro dei microbi, dai minuscoli virus ai batteri e ai funghi, fino ai parassiti protozoi (i “primi animali”). Anche per la diarrea infettiva si possono incolpare microbi più o meno di qualsiasi genere. Tra le sue incarnazioni vi sono la “morte azzurra” – ovvero il colera – provocata da un batterio; il “flusso di sangue” – cioè la dissenteria – per il quale dobbiamo generalmente ringraziare le amebe parassitarie; infine la “febbre del castoro” – la giardiasi – di nuovo provocata da un parassita. Il terzo grande killer, la tubercolosi, colpisce i polmoni come la polmonite, ma la sua causa è più specifica: l’infezione da parte di una piccola selezione di batteri appartenenti al genere Mycobacterium. Un intero esercito di diverse malattie infettive, inoltre, ha lasciato un segno, letterale e simbolico, sulla nostra specie: tra queste la polio, il tifo, il morbillo, la sifilide, la difterite, la scarlattina, la pertosse e svariate forme di influenza. All’inizio del XX secolo la polio, causata da un virus che aggredisce il sistema nervoso centrale e distrugge i nervi che controllano i movimenti, paralizzava ogni anno centinaia di migliaia di bambini dei paesi industrializzati. E si dice che la sifilide – una patologia di origine batterica a trasmissione sessuale – abbia colpito, nel corso della vita, il 15 per cento della popolazione europea. Il morbillo uccideva circa un milione di individui all’anno. La difterite – chi ricorda questa spacca-cuore? – di norma ammazzava annualmente 15.000 bambini soltanto negli Stati Uniti. Nei due anni successivi alla Prima guerra mondiale l’influenza ha ucciso tra il quintuplo e il decuplo di individui rispetto a quanti erano morti combattendo nella guerra stessa. Non stupisce pertanto che questi flagelli influenzassero notevolmente l’aspettativa di vita umana. A quell’epoca, intorno al 1900, l’aspettativa media nell’intero pianeta era di appena trentun anni. Vivere in un paese sviluppato migliorava la prospettiva, ma si arrivava soltanto a poco meno di cinquant’anni. Per la maggior parte della nostra storia evolutiva noi esseri umani siamo riusciti
a vivere soltanto fino ai venti o trent’anni, sebbene l’aspettativa media di vita fosse probabilmente parecchio minore. In un secolo soltanto, e in gran parte grazie ai progressi di un unico decennio – la rivoluzione degli antibiotici negli anni Quaranta – il nostro tempo medio sulla terra è raddoppiato. Nel 2005 un individuo poteva aspettarsi di vivere mediamente sessantasei anni e chi viveva nei paesi più ricchi raggiungeva, sempre in media, la strepitosa vecchiaia degli ottant’anni. Queste cifre sono profondamente influenzate dalle probabilità di sopravvivenza dei bambini piccoli. Nel 1900, quando fino a tre bambini su dieci morivano prima di raggiungere i cinque anni, l’aspettativa media di vita era clamorosamente bassa. Se, alla svolta del secolo successivo, il tasso di mortalità infantile fosse rimasto al livello in cui era nel 1900, negli Stati Uniti ogni anno oltre mezzo milione di bambini sarebbe morto prima del primo compleanno. Invece sono stati all’incirca 28.000. Superare incolumi il traguardo dei primi cinque anni consente alla maggior parte degli individui di proseguire fino alla “vecchiaia” e fa di conseguenza salire l’aspettativa media di vita. Sebbene in buona parte dei paesi in via di sviluppo gli effetti siano ben lungi dall’essere percepiti appieno, in quanto specie abbiamo compiuto un lungo cammino verso la sconfitta del nostro più antico e pericoloso nemico: l’agente patogeno. I patogeni – cioè i microbi che causano le malattie – prosperano nelle condizioni antigieniche create dagli esseri umani che vivono ammassati. Quanto più ci accalchiamo sul pianeta, tanto più facile diventa per i patogeni procacciarsi da vivere. Attraverso le migrazioni diamo loro accesso ad altri esseri umani e, di conseguenza, a ulteriori occasioni di riprodursi, mutare ed evolvere. Molte delle malattie infettive che abbiamo combattuto negli ultimi secoli hanno avuto origine subito dopo che i primi esseri umani hanno lasciato l’Africa e iniziato a stabilirsi nel resto del pianeta. Il dominio del mondo da parte dei patogeni ha rispecchiato il nostro: poche specie hanno dei seguaci patogeni tanto fedeli quanto noi. Per molti di noi che vivono nei paesi più sviluppati il regno delle malattie infettive è confinato al passato. Più o meno tutto quello che ci resta di migliaia di anni di lotta mortale con i microbi è il ricordo dell’acuta puntura delle vaccinazioni infantili, seguite dal “premio” di una zolletta di zucchero imbevuta di vaccino antipolio, e forse con più chiarezza, durante l’adolescenza, le melodrammatiche code fuori dalla sala mensa con i compagni di scuola in attesa del richiamo. Per molti bambini e ragazzi di oggi il fardello della storia è persino più leggero, perché non solo le malattie stesse, ma anche le vaccinazioni un
tempo di routine, come la temuta “BCG” contro la tubercolosi, non sono più necessarie. Il progresso medico e i provvedimenti della sanità pubblica – soprattutto quelli tra la fine dell’Ottocento e la prima parte del Novecento – hanno reso profondamente diversa la vita degli esseri umani. Quattro scoperte in particolare ci hanno fatto passare da una società composta da due generazioni a una di quattro, o persino cinque, compresenti in un’unica, lunga vita. La prima, da un punto di vista sia temporale sia di importanza, è naturalmente la vaccinazione, per gentile concessione di Edward Jenner e di una mucca di nome Blossom. Jenner sapeva che le mungitrici erano protette dal vaiolo perché erano state infettate dall’assai più blando vaiolo bovino, e riteneva possibile che il pus estratto dalle pustole di una mungitrice, una volta inoculato in un altro individuo, trasferisse quella protezione. La sua prima cavia fu James Phipps di otto anni, il figlio del suo giardiniere. Dopo averlo immunizzato, Jenner proseguì nel tentativo di infettare il coraggioso ragazzino, iniettandogli per due volte il pus proveniente da una reale infezione di vaiolo. Ma il bambino era totalmente immune. A partire dal vaiolo nel 1796, per continuare con la rabbia, il tifo, il colera e la peste nel XIX secolo, oltre a decine di altre malattie infettive dopo il 1900, la vaccinazione non soltanto ha protetto milioni di individui da sofferenze e morte, ma ha portato all’eliminazione sui territori nazionali, o alla totale scomparsa a livello globale, di alcuni agenti patogeni. Grazie alla vaccinazione, per difenderci dagli agenti patogeni non siamo più costretti a fare affidamento soltanto sulle esperienze di malattie conclamate da parte del nostro sistema immunitario. Invece di acquisire le difese naturali contro le malattie, abbiamo aggirato il processo utilizzando l’intelletto per fornire al sistema immunitario un preavviso di quello in cui potrebbero imbattersi. Senza vaccinazione, l’invasione di un nuovo patogeno stimola la malattia e forse la morte. Il sistema immunitario, oltre a combattere il microbo invasore, produce delle molecole chiamate anticorpi. Se l’individuo sopravvive, essi formano una squadra speciale di guardie che sorvegliano il corpo umano, alla ricerca di quel particolare microbo, e persistono ben oltre la sconfitta della malattia, pronti a informare il sistema immunitario nel momento in cui si verifichi una nuova invasione dello stesso patogeno. La volta successiva, dunque, il sistema immunitario è preparato e può impedire che la malattia prenda il sopravvento. La vaccinazione imita questo processo naturale, insegnando al sistema
immunitario a riconoscere un particolare patogeno. Invece di affrontare la malattia per acquisire l’immunità, adesso subiamo soltanto un’iniezione, oppure la somministrazione orale, di una versione morta, indebolita o parziale del patogeno. La malattia ci viene risparmiata, ma il nostro sistema immunitario risponde comunque all’introduzione del vaccino, producendo anticorpi che aiutano il corpo a resistere alla malattia, nel caso in cui quel patogeno tenti un’invasione reale. I programmi vaccinali di massa sono ideati per promuovere la cosiddetta “immunità di gregge”, vaccinando una porzione di popolazione sufficientemente vasta da impedire alle malattie infettive di continuare a propagarsi. Con questa conseguenza: nei paesi sviluppati molte malattie infettive sono state quasi completamente eliminate e una, il vaiolo, è stata del tutto debellata. L’eliminazione del vaiolo, ovvero il crollo dell’incidenza della malattia da 50 milioni di casi all’anno a livello globale ad assolutamente nessuno in poco più che un decennio, ha consentito ai governi di risparmiare miliardi, sia in costi diretti, per le vaccinazioni e le cure mediche, sia negli indiretti costi sociali della malattia. Gli Stati Uniti, che hanno investito una quantità di denaro esageratamente alta nello sforzo di eliminazione globale, rientrano dell’investimento ogni ventisei giorni di costi risparmiati. I piani vaccinali del governo per una dozzina circa di altre malattie infettive hanno ridotto in maniera strabiliante il numero di casi, alleviando sofferenze e risparmiando vite e denaro. Attualmente la maggior parte dei paesi sviluppati gestisce dei programmi vaccinali contro una decina di malattie infettive e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità una mezza dozzina è quasi debellata a livello regionale o globale. Questi programmi hanno avuto effetti notevoli sull’incidenza di tali patologie. Prima che iniziasse il programma di debellamento mondiale della poliomielite nel 1988, il virus colpiva 350.000 individui all’anno. Nel 2012 la malattia era confinata a 223 casi in soli tre paesi. In appena venticinque anni, si sono prevenuti più o meno mezzo milione di decessi e dieci milioni di bambini che sarebbero rimasti paralizzati sono liberi di camminare e di correre. Parimenti il morbillo e la rosolia: in un solo decennio la vaccinazione contro queste malattie un tempo comuni ha impedito a livello mondiale dieci milioni di decessi. Negli Stati Uniti, come in buona parte del mondo sviluppato, grazie alle vaccinazioni l’incidenza di nove gravi malattie infantili si è ridotta del 99 per cento. Sempre nei paesi sviluppati, nel 1950 su 1000 bambini nati vivi morivano all’incirca 40 prima del compimento del primo anno. Nel 2005 quella cifra si è ridotta a un ordine di grandezza di circa quattro. La vaccinazione rappresenta un
tale successo che soltanto i membri più anziani della società occidentale ricordano la tremenda paura e il dolore di quelle patologie mortali. Adesso siamo liberi. Dopo lo sviluppo dei primi vaccini si è avuta un’altra importante innovazione sanitaria: la pratica medica igienica. L’igiene ospedaliera è una faccenda che ancora oggi ci preme migliorare, ma in confronto con gli standard della fine del XIX secolo, gli ospedali moderni sono dei templi del pulito. Immaginate invece corsie affollate di ammalati e moribondi, ferite lasciate aperte e infette, i camici dei medici ricoperti di sangue, fresco e rappreso da anni di interventi chirurgici. Non c’erano buoni motivi per pulire, perché si pensava che le infezioni non derivassero dai germi ma dall’“aria cattiva”, o miasma. Si riteneva che questa nebbia velenosa si levasse dalla materia in decomposizione o dall’acqua sudicia, una forza intangibile fuori dal controllo di medici e infermiere. I microbi erano stati scoperti centocinquant’anni prima, ma non erano mai stati collegati alle malattie. Si credeva che il miasma non potesse essere trasferito per contatto fisico, perciò le infezioni venivano diffuse proprio dalle persone incaricate di curarle. Gli ospedali erano un’invenzione nuova, nata da una spinta verso la sanità pubblica e il desiderio di portare alle masse la medicina “moderna”. Malgrado le buone intenzioni, erano però luridi incubatori di malattie e coloro che li frequentavano rischiavano la vita in cambio delle cure di cui avevano bisogno. La diffusione degli ospedali ha causato maggiori sofferenze alle donne, poiché in realtà ha accresciuto i rischi legati al travaglio e al parto, invece che farli diminuire. Intorno al 1840 addirittura il 32 per cento delle donne che partorivano in ospedale finiva per morire. I medici, che all’epoca erano tutti uomini, attribuivano quei decessi ai più disparati motivi, dal trauma emotivo a impurità intestinali, ma la vera causa di questa spaventosa percentuale di decessi sarebbe stata infine compresa da un giovane ginecologo ungherese, Ignaz Semmelweis. Nell’ospedale in cui lavorava le donne in travaglio venivano ricoverate in due diversi padiglioni a giorni alterni. Uno era gestito da medici, l’altro da ostetriche. Ogni due giorni, quando Semmelweis si recava al lavoro, vedeva le donne che partorivano per la strada, fuori dalle porte dell’ospedale. In quei giorni era il padiglione gestito dai medici a ricoverare le donne in travaglio, le quali sapevano che le probabilità di sopravvivenza sarebbero state assai scarse se non fossero riuscite a resistere fino al giorno seguente. Nel padiglione dei medici si annidava la febbre puerperale, ovvero la causa della maggior parte di quei
decessi. Perciò attendevano, al freddo e in preda al dolore, nella speranza che il loro bambino ritardasse il proprio ingresso nel mondo fino a dopo lo scoccare della mezzanotte. Essere ricoverate nel padiglione delle ostetriche era assai più sicuro, almeno in senso relativo. Tra il 2 e l’8 per cento delle puerpere affidate alle cure delle ostetriche moriva comunque, una percentuale tuttavia decisamente minore rispetto a quella del padiglione dei medici. Malgrado la sua condizione di subalterno, Semmelweis iniziò a cercare delle differenze tra i due padiglioni che potessero spiegare le percentuali dei decessi. Sulle prime ritenne che si dovesse ascrivere la responsabilità al sovraffollamento e al clima della corsia, ma non trovò prova di alcuna differenza. Poi, nel 1847, un caro amico e collega medico, Jacob Kolletschka, morì dopo essersi accidentalmente tagliato con il bisturi di uno studente dopo un’autopsia. La causa della morte: febbre puerperale. Dopo la dipartita dell’amico Semmelweis ebbe un’intuizione. Erano i medici a diffondere la morte tra le donne ricoverate nel loro padiglione. Le ostetriche, d’altro canto, non avevano alcuna colpa. E lui sapeva perché. Mentre le pazienti erano in travaglio, i medici trascorrevano del tempo all’obitorio, insegnando agli studenti di medicina a sezionare i cadaveri umani. In qualche modo, pensò, trasferivano la morte dalla sala delle autopsie al reparto maternità. Le ostetriche non toccavano cadaveri e le pazienti che morivano nel loro padiglione erano probabilmente quelle che per via di un’emorragia post-partum avevano bisogno di una visita da parte del medico. Semmelweis non aveva un’idea precisa sulla forma che la morte assumeva per passare dall’obitorio al reparto maternità, ma aveva un’idea su come fermarla. Per liberarsi dell’odore della carne in putrefazione, i medici spesso si lavavano con una soluzione di ipoclorito di calcio. Semmelweis concluse che, se era in grado di togliere l’odore, l’ipoclorito di calcio forse poteva eliminare anche lo stesso vettore della morte: perciò istituì una regola per cui i medici dovevano lavarsi le mani proprio con l’ipoclorito di calcio tra la conduzione delle autopsie e le visite alle pazienti. Nel giro di un mese la percentuale di decessi nel suo padiglione era scesa e corrispondeva a quella nel padiglione delle ostetriche. Malgrado i risultati straordinari raggiunti da Semmelweis a Vienna e in seguito in due ospedali ungheresi, i suoi contemporanei non lo presero sul serio, lo ignorarono. Si diceva che la rigidità e il fetore del camice di un chirurgo fossero il segno della sua esperienza e bravura. “I medici sono gentiluomini, e le
mani dei gentiluomini sono pulite” sentenziò un autorevole ginecologo dell’epoca, mentre infettava e uccideva decine di donne ogni mese. La semplice idea che i medici potessero essere responsabili della morte, non della vita, dei loro pazienti, era causa di profonda offesa, e Semmelweis venne escluso dall’establishment. Le donne per decenni continuarono a rischiare la vita durante il parto, poiché pagavano il prezzo dell’arroganza dei medici. Vent’anni dopo il grande francese Louis Pasteur teorizzò che i germi erano la causa delle malattie, attribuendo pertanto l’infezione e la malattia ai microbi, non al miasma. Nel 1884 la teoria di Pasteur venne dimostrata grazie agli eleganti esperimenti del medico tedesco Robert Koch, vincitore del premio Nobel. Ma ormai Semmelweis era morto da tempo. La febbre puerperale lo aveva ossessionato e lui era impazzito di rabbia e disperazione. Si era scagliato contro la classe medica, aveva insistito con le sue teorie e accusato i contemporanei di essere irresponsabili assassini. Era stato attirato da un collega in un manicomio con il pretesto di una visita, poi costretto a bere olio di ricino e percosso dalle guardie. Due settimane dopo morì per via di una febbre, probabilmente dovuta alle sue stesse ferite infette. La teoria dei germi rappresentò nondimeno la svolta che diede alle osservazioni e alle politiche di Semmelweis un’autentica spiegazione scientifica. In tutta Europa i chirurghi adottarono l’abitudine di lavarsi e disinfettarsi costantemente le mani. E dopo il lavoro del chirurgo inglese Joseph Lister le pratiche igieniche divennero comuni. Intorno al 1860 Lister aveva letto gli studi di Pasteur sui microbi e il cibo, e aveva deciso di condurre degli esperimenti cospargendo di soluzioni chimiche le ferite per ridurre il rischio di cancrena e di setticemia. Impiegò del fenolo, che notoriamente fermava l’imputridimento del legno, per lavare i suoi strumenti, per impregnare gli indumenti e persino per pulire le ferite durante gli interventi chirurgici. Proprio come Semmelweis aveva ottenuto un calo nella percentuale di decessi, così accadde a Lister. Se il 45 per cento di coloro che aveva operato in precedenza era morto, il pionieristico impiego del fenolo ridusse drasticamente i decessi di due terzi, portandoli al 15 per cento circa. Poco dopo l’opera di Semmelweis e Lister sull’igienizzazione della pratica medica, ci fu una terza innovazione nelle misure di salute pubblica che avrebbe impedito a milioni di individui di ammalarsi. Come accade attualmente in molti paesi in via di sviluppo, prima del XX secolo le patologie causate dall’acqua rappresentavano uno dei principali rischi per la salute nel mondo occidentale. Le sinistre forze del miasma erano ancora all’opera, inquinavano i fiumi, i pozzi e le
pompe. Nell’agosto del 1854 gli abitanti del quartiere di Soho, a Londra, iniziarono a cadere ammalati. Avevano la diarrea, ma non come la conosciamo noi. Era una sostanza bianca e acquosa, che non aveva mai fine. Un individuo poteva produrne anche venti litri al giorno, che veniva gettata nei pozzi neri sotto le anguste case di Soho. La malattia era il colera e uccise centinaia di persone. Il dottor John Snow, un medico inglese, era scettico riguardo la teoria del miasma e aveva trascorso alcuni anni a cercare una spiegazione alternativa. Studiando precedenti epidemie, aveva iniziato a sospettare che il colera si propagasse nell’acqua. Quell’ultimo contagio a Soho gli forniva l’occasione di mettere alla prova la propria teoria. Intervistò gli abitanti del quartiere e fece una mappatura dei casi e dei decessi per colera, in cerca di una causa comune. Snow si rese conto che le vittime avevano bevuto tutte dalla stessa pompa dell’acqua di Broad Street (adesso Broadwick Street) nel cuore del contagio. Anche i decessi più lontani potevano essere fatti risalire alla pompa di Broad Street, poiché il colera veniva trasportato e trasmesso da coloro che si erano infettati lì. Ma c’era un’anomalia: un gruppo di monaci di un monastero del quartiere che aveva preso l’acqua alla stessa pompa era assolutamente sano. Non era stata la fede a garantir loro quella protezione, però, ma l’abitudine di bere l’acqua della pompa soltanto dopo averla trasformata in birra. Snow aveva cercato un ordine, ovvero dei legami tra coloro che si erano ammalati, i motivi per cui altri l’avevano scampata, dei collegamenti che spiegassero la comparsa della malattia fuori dall’epicentro di Broad Street. Il suo studio razionale utilizzava logica e prove per dipanare l’epidemia e per risalire alle fonti, per eliminare le false piste e per spiegare le anomalie. Il suo lavoro portò alla chiusura della pompa di Broad Street e alla conseguente scoperta che un pozzo nero nei pressi era straripato e stava contaminando le forniture idriche. Si trattò del primo studio epidemiologico in assoluto, che utilizzava la distribuzione e le logiche di un contagio per comprenderne l’origine. John Snow proseguì la propria opera con l’uso del cloro per disinfettare l’acqua che riforniva la pompa di Broad Street e il suo metodo venne velocemente impiegato anche altrove. Sul finire del XIX secolo la sanificazione dell’acqua era diventata una pratica diffusa. Con il dispiegarsi del XX secolo, tutte e tre le innovazioni in fatto di salute pubblica si fecero sempre più sofisticate. Alla fine della Seconda guerra mondiale, altre cinque patologie potevano essere ormai prevenute grazie alle vaccinazioni, portando il totale a dieci. Le tecniche di igiene medica vennero adottate a livello internazionale e la clorazione divenne un processo standard
negli impianti di trattamento delle acque. La quarta e ultima innovazione per porre fine al regno dei microbi nel mondo sviluppato iniziò con una guerra mondiale e si concluse con l’altra. Fu il risultato del duro lavoro, e anche della fortuna, di un pugno di uomini. Il primo di costoro, il biologo scozzese Sir Alexander Fleming, è come tutti sanno colui a cui è attribuita l’“accidentale” scoperta della penicillina nel suo laboratorio del St. Mary’s Hospital di Londra. In realtà Fleming stava cercando da anni dei composti antibatterici. Durante la Prima guerra mondiale aveva curato i soldati feriti del Fronte occidentale in Francia, solo per veder morire molti di loro di setticemia. Quando la guerra finì e Fleming se ne tornò in Gran Bretagna, decise che il suo compito sarebbe stato migliorare le medicazioni di Lister con il fenolo. Ben presto scoprì un antisettico naturale nel muco nasale e lo chiamò lisozima. Ma, come il fenolo, non poteva penetrare sotto la superficie delle ferite, perciò le infezioni profonde si incancrenivano. Alcuni anni dopo, nel 1928, Fleming stava studiando il batterio dello stafilococco, responsabile di pustole e mal di gola, quando notò qualcosa di bizzarro su una delle sue piastre di Petri. Era stato in vacanza ed era ritornato al suo disordinato banco da laboratorio pieno di vecchie colture batteriche, molte delle quali contaminate da muffe. Mentre metteva ordine, notò una piastra in particolare. Intorno a una chiazza di muffa Penicillium c’era un anello pulito, completamente privo delle colonie di stafilococco che coprivano il resto della piastra. Fleming ne intuì il significato: la muffa aveva rilasciato un “succo” che aveva ucciso i batteri intorno a sé. Quel succo era la penicillina. Sebbene lo sviluppo del Penicillium fosse stato involontario, il riconoscimento da parte di Fleming della sua potenziale importanza fu tutt’altro che accidentale. Iniziò in tal modo un periodo di esperimenti e di scoperte che avrebbe abbracciato due continenti e vent’anni, e rivoluzionato la medicina. Nel 1939 un gruppo di scienziati della Oxford University, guidati dal farmacologo australiano Howard Florey, intuì che avrebbero potuto fare un uso maggiore della penicillina. Fleming si era sforzato di far crescere quantità significative di muffa, o di estrarre la penicillina che produceva. Il gruppo di Florey ci riuscì, isolando piccole quantità di liquido antibiotico. Nel 1944, con il sostegno economico del War Production Board degli Stati Uniti, la penicillina venne prodotta in quantità sufficienti a soddisfare le necessità dei soldati che ritornavano dall’invasione dell’Europa. Il sogno di Sir Alexander Fleming di sconfiggere le infezioni dei feriti di guerra si era realizzato e negli anni successivi lui, Florey e un altro membro del gruppo di Oxford, Sir Ernst Boris Chain, ricevettero il premio Nobel per la Medicina e per la Fisiologia.
In seguito sono state sviluppate oltre venti varietà di antibiotici, ognuno per aggredire una diversa infermità batterica e per fornire al nostro sistema immunitario un sostegno quando si trova travolto dall’infezione. Prima del 1944 anche un semplice graffio o un’escoriazione si trasformavano in una probabilità spaventosamente alta di morte per infezione. Nel 1940 un poliziotto inglese dell’Oxfordshire di nome Albert Alexander si punse con la spina di una rosa. La faccia gli si infettò al punto che perse un occhio, e rischiava di morire. Ethel, la moglie di Howard Florey, che era medico, convinse il marito che l’agente Alexander dovesse diventare il primo a cui somministrare la penicillina. Nel giro di ventiquattr’ore dall’inoculazione di una piccola quantità di penicillina la febbre del poliziotto calò e lui iniziò a stare meglio. Il miracolo tuttavia non avvenne. Pochi giorni dopo l’inizio della terapia la penicillina finì. Florey aveva tentato di estrarre quello che ne restava dall’urina dell’agente per proseguire la cura, ma il quinto giorno l’ammalato morì. Attualmente è impensabile perdere la vita per un graffio o un ascesso e spesso prendiamo antibiotici senza badare alle loro proprietà salvavita. Anche la chirurgia comporterebbe enormi rischi se non fosse per lo scudo protettivo degli antibiotici intravenosi somministrati prima che sia fatta la prima incisione. Le nostre vite del XXI secolo sono una sorta di sterile tregua, le infezioni vengono tenute a bada mediante vaccinazioni, antibiotici, sanificazione dell’acqua e disinfezione della pratica medica. Non siamo più minacciati da acuti e pericolosi scoppi di malattie infettive. Negli ultimi sessant’anni tuttavia si è assistito all’ascesa di un insieme di patologie in precedenza rare. Queste croniche “malattie del XXI secolo” sono diventate così comuni che le consideriamo un elemento normale dell’essere umano. E se non fossero “normali”? Se vi guardate intorno, in famiglia e tra i vostri amici, non vedrete più casi di vaiolo, morbillo o poliomielite. Potreste pensare che siamo davvero fortunati, che di questi tempi siamo proprio sani. Ma se osservate meglio forse vedrete la faccenda in un altro modo. Vi rendereste conto degli starnuti e degli occhi rossi e pruriginosi della febbre da fieno di vostra figlia in primavera. Potreste pensare a vostra cognata, che deve iniettarsi insulina diverse volte al giorno per via del suo diabete di tipo 1. Potreste preoccuparvi che vostra moglie finisca su una sedia a rotelle con la sclerosi multipla, com’è capitato a sua zia. Magari avete sentito parlare del figlio del vostro dentista, che grida, si dondola e non guarda nessuno negli occhi, perché è autistico. Potreste perdere la pazienza con vostra madre,
troppo ansiosa per fare la spesa. Forse state cercando un detersivo che non faccia peggiorare l’eczema di vostro figlio. Probabilmente vostro cugino è quello che a cena si sente a disagio, infatti non può mangiare i cereali perché gli fanno venire la diarrea. Il vostro vicino di casa forse ha perso conoscenza mentre cercava il suo EpiPen dopo aver mangiato per sbaglio delle nocciole. E voi infine potreste aver perso la battaglia per mantenere il vostro peso dove le riviste di bellezza, e il vostro medico, dicono che dovrebbe stare. Questi disturbi – allergie, patologie autoimmuni, problemi della digestione, disturbi mentali e obesità – sono la nuova normalità. Prendiamo le allergie. Forse non c’è niente di allarmante nella febbre da fieno di vostra figlia, anche perché il 20 per cento dei suoi amici si fa l’estate tra naso chiuso e starnuti. L’eczema di vostro figlio non vi sorprende, perché ce l’hanno anche cinque suoi compagni di classe. Lo shock anafilattico del vicino di casa, per quanto terrificante, è talmente comune che tutti gli alimenti confezionati riportano l’avvertenza che “potrebbero contenere nocciole”. Ma vi siete mai chiesti perché uno su cinque tra gli amici di vostro figlio debba portarsi a scuola un inalatore nel caso gli venga un attacco d’asma? Essere in grado di respirare è fondamentale per la vita e tuttavia senza il farmaco milioni di bambini si ritroverebbero ad ansimare in cerca d’aria. E che dire del fatto che un bambino su quindici è allergico ad almeno un tipo di alimento? È forse normale? Nei paesi sviluppati le allergie colpiscono quasi la metà di noi. Ingurgitiamo ubbidienti gli antistaminici, evitiamo di prendere in braccio il gatto e controlliamo la lista degli ingredienti di tutto ciò che compriamo. Distrattamente facciamo ciò che è necessario per impedire al nostro sistema immunitario di reagire in modo abnorme alle sostanze più comuni e innocue: polline, polvere, pelo di animali, latte, uova, nocciole e così via. Queste sostanze vengono trattate dal corpo come se fossero germi che è necessario attaccare ed eliminare. Ma non sempre è stato così. Negli anni Trenta l’asma era rara, colpiva forse un bambino ogni scuola. Negli Ottanta è esplosa e ha iniziato a esserne affetto un bambino per classe. Nell’ultimo decennio la crescita si è stabilizzata, ma ormai un quarto dei bambini ha l’asma. Lo stesso vale per altre allergie: sul finire dell’ultimo secolo quella alle arachidi, per esempio, è triplicata in appena dieci anni e poi è raddoppiata di nuovo nei cinque successivi. Attualmente nelle scuole e negli uffici ci sono aree prive di arachidi. Anche l’eczema e la febbre da fieno un tempo erano rari e adesso fanno parte della vita quotidiana. Questo non è normale. E che dire delle patologie autoimmuni? La dipendenza dall’insulina di vostra
cognata è piuttosto comune, perché il diabete di tipo 1 colpisce, in effetti, circa 4 individui su 1000. La maggior parte delle persone ha sentito parlare della sclerosi multipla (o SM), che ha danneggiato i nervi della zia di vostra moglie. Poi ci sono l’artrite reumatoide, che attacca le articolazioni, la celiachia che colpisce l’intestino, la miosite che riduce in brandelli le fibre muscolari, il lupus che aggradisce il cuore delle cellule e un’ottantina di patologie simili a queste. Come avviene per le allergie, si tratta di una sorta di ribellione del sistema immunitario, che attacca non soltanto i germi che portano la malattia, ma le stesse cellule corporee. Potreste essere sorpresi dal fatto che nel complesso le patologie autoimmuni colpiscono quasi il 10 per cento della popolazione del mondo sviluppato. Il diabete di tipo 1 (DT1) rappresenta l’esempio perfetto, perché è una malattia inconfondibile, perciò la documentazione è piuttosto affidabile. Il “tipo 1” è la versione del diabete che di solito esordisce presto, spesso negli anni dell’adolescenza, aggredendo le cellule del pancreas e impedendo la produzione dell’ormone insulina. (Nel diabete di tipo 2 l’insulina viene prodotta, ma il corpo diventa meno ricettivo nei suoi confronti, perciò non funziona a dovere.) Senza insulina, è impossibile convertire e immagazzinare il glucosio nel sangue, che si tratti di quello proveniente dagli zuccheri semplici dei dolciumi e dei dessert oppure di quello derivante dai carboidrati come pane e pasta. La sostanza si accumula e diventa velocemente tossica, causando nello sfortunato adolescente una sete furiosa e il continuo bisogno di urinare. Il paziente deperisce e dopo alcune settimane o qualche mese muore, spesso per insufficienza renale. A meno che non gli venga iniettata dell’insulina. Una faccenda piuttosto seria, quindi. Fortunatamente, a confronto con la maggior parte delle patologie, il diabete è semplice da diagnosticare, e lo è sempre stato. Attualmente un veloce controllo della quantità di glucosio nel sangue a digiuno è di norma rivelatore, e d’altro canto anche cent’anni fa poteva essere scovato da un medico volenteroso. Ho scritto “volenteroso” perché il test implicava l’assaggio delle urine del paziente. Un retrogusto dolce nel sapore intenso indicava che c’era così tanto glucosio nel sangue che i reni lo avevano per forza di cose eliminato con le urine. Sebbene indubbiamente nel passato si ignorassero più casi rispetto a ora, e molti non siano quindi stati registrati, i dati sulla diffusione del diabete di tipo 1 nel corso del tempo rappresentano un affidabile indicatore dell’evoluzione delle malattie autoimmuni. In Occidente più o meno un individuo su 250 è costretto a interpretare il ruolo del proprio pancreas, a calcolare di quanta insulina abbia bisogno e poi a
iniettarsela, per immagazzinare il glucosio che ha consumato. La cosa straordinaria è che questa grande diffusione è una novità: nel XIX secolo il diabete di tipo 1 quasi non esisteva. Le cartelle cliniche del Massachusetts General Hospital negli Stati Uniti, tenute per oltre settantacinque anni fino al 1898, registrano soltanto ventuno casi di diabete diagnosticati nell’infanzia, su quasi 500.000 pazienti. Non si tratta neppure di diagnosi mancate, perché il test dell’assaggio dell’urina, la veloce perdita di peso e l’inevitabile esito fatale rendevano la patologia facile da riconoscere anche in passato. Una volta istituiti i registri ufficiali, appena prima della Seconda guerra mondiale, è stato possibile seguire la diffusione del diabete di tipo 1. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Scandinavia ne erano colpiti 1 o 2 bambini su 5000. Durante la guerra non si sono registrate variazioni, ma non molto tempo dopo qualcosa è cambiato e i casi hanno incominciato ad aumentare. Nel 1973 ormai il diabete era sei o sette volte più comune di quanto era stato negli anni Trenta e negli Ottanta la crescita si è stabilizzata sulle cifre attuali, di circa 1 caso su 250. L’aumento del diabete coincide con quello di altre patologie autoimmuni. La sclerosi multipla ha iniziato ad attaccare il sistema nervoso del doppio alla svolta del millennio rispetto a quanto non facesse soltanto due decenni prima. La celiachia, malattia per cui la presenza di cereali induce il corpo ad aggredire le cellule dell’intestino, è addirittura trenta o quaranta volte più comune adesso di quanto non fosse negli anni Cinquanta. Anche il lupus, uno stato infiammatorio dell’intestino, e l’artrite reumatoide hanno registrato un aumento. Questo non è normale. E che cosa dire della nostra collettiva battaglia con il peso in eccesso? Probabilmente ho ragione se con leggera impertinenza ipotizzo che anche voi, in questo momento, combattiate con il vostro peso, perché oltre la metà degli abitanti del mondo occidentale sono sovrappeso, oppure obesi. È straordinario pensare che i normopeso siano attualmente una minoranza. Essere grassi è talmente normale che i vecchi manichini dei negozi sono stati sostituiti con versioni più grandi e i programmi televisivi trasformano la perdita di peso in un gioco. Questi cambiamenti sono forse prevedibili: da un punto di vista statistico, essere sovrappeso è la realtà per la maggior parte delle persone. In passato però non era così. Se osserviamo le vecchie foto in bianco e nero degli snelli ragazzi degli anni Trenta e Quaranta che si godono una calda giornata di sole in pantaloni corti e costume da bagno, abbiamo l’impressione che questa gente sana, con le costole sporgenti e l’addome asciutto, sia emaciata. Ma non lo è, semplicemente non si trascina il nostro moderno bagaglio.
All’inizio del XX secolo il peso corporeo umano era talmente uniforme che pochi ritenevano utile documentarlo. Ma, spinto da un improvviso aumento del peso negli anni Cinquanta, il governo statunitense, all’epicentro dell’epidemia dell’obesità, ha iniziato a tenerne traccia. Nella prima indagine nazionale all’inizio degli anni Sessanta, il 13 per cento degli adulti era già obeso. Il che significa che aveva un Indice di Massa Corporea (IMC, il peso in chilogrammi diviso per il quadrato dell’altezza) superiore a 30. Un ulteriore 30 per cento era sovrappeso (con un IMC tra 25 e 30). Nel 1999 la proporzione di americani adulti obesi era più che raddoppiata, raggiungendo il 30 per cento, e molti adulti precedentemente sani avevano messo su chili, mantenendo la categoria dei sovrappeso a un paffuto 34 per cento. Il che porta il totale al 64 per cento di individui sovrappeso oppure obesi. La tendenza in Gran Bretagna ha seguito lo stesso tracciato, anche se con un leggero ritardo: nel 1996 solo l’1,5 per cento della popolazione adulta era obesa e l’11 per cento sovrappeso. Nel 1999 gli obesi sono diventati il 24 per cento e i sovrappeso il 43 per cento, il che significa che il 67 per cento degli individui adesso pesava più di quanto avrebbe dovuto. L’obesità tuttavia non riguarda soltanto il peso in eccesso: può condurre al diabete di tipo 2, alla cardiopatia e persino ad alcuni tumori, e tutto ciò è sempre più comune. Non avete bisogno di dirmelo: questo non è normale. Anche i problemi di stomaco sono in ascesa. Forse vostra cugina è a disagio perché sta provando una dieta priva di glutine, ma probabilmente non è l’unica a tavola a soffrire della sindrome dell’intestino irritabile, che colpisce addirittura il 15 per cento degli individui. Il nome implica un livello di malessere simile alla puntura di un moscerino e nasconde l’enorme impatto della patologia sulla qualità della vita di chi ne soffre. La vicinanza a un bagno diventa prioritaria rispetto ad attività più importanti per la maggior parte dei sofferenti e trovare sollievo alla patologia diventa fondamentale. Sono in aumento anche i disturbi infiammatori dell’intestino, come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa, che nei pazienti più gravi provoca danni a quell’organo tali da doverlo sostituire con una sacca per colostomia all’esterno del corpo. Questo non è affatto normale. Arriviamo infine ai problemi mentali. Il figlio autistico del vostro dentista si trova sempre di più in buona compagnia, perché 1 bambino su 68 (ma 1 su 42 di sesso maschile) ricade nello spettro autistico. Negli anni Quaranta l’autismo era talmente raro da non avere neppure un nome. Quando si è iniziato a documentarla, nel 2000, la patologia era comune meno della metà rispetto a ora.
Forse avreste ragione a pensare che l’aumento dei casi sia in realtà dovuto a una maggiore consapevolezza e magari a qualche diagnosi di troppo, ma la maggior parte degli esperti concordano sul fatto che l’aumento della diffusione dell’autismo sia autentico: qualcosa è cambiato. Anche i disturbi da deficit di attenzione, la sindrome di Tourette e il disturbo ossessivo-compulsivo sono in crescita. E così le malattie legate a depressione e ansia. Questo aumento della sofferenza mentale non è normale. Se non fosse che queste patologie sono adesso così “normali”, potreste non esservi neppure resi conto che si tratta di malattie nuove, in cui i nostri bisnonni e quelli prima di loro raramente si imbattevano. Persino i medici sono spesso inconsapevoli della storia delle patologie che curano, poiché si sono formati soltanto nel contesto delle esperienze attuali. Come per l’aumento dei casi di appendicite, faccenda ormai dimenticata dai medici contemporanei, ciò che conta per i dottori in prima linea sono i pazienti di cui si occupano e le terapie disponibili. Comprendere l’origine di una patologia non è responsabilità loro e di per sé i cambiamenti nella diffusione delle malattie sono secondari. Nel XXI secolo la vita è cambiata grazie alle quattro innovazioni nella salute pubblica dei due secoli precedenti, perciò sono cambiate anche le patologie. Le nostre malattie del XXI secolo, tuttavia, non sono semplicemente un ulteriore livello di infermità nascosto sotto le infezioni, ma una serie diversa di patologie, create dal nostro attuale stile di vita. A questo punto potreste chiedervi come possano avere qualcosa in comune tra loro, tanto sembrano diverse. Dagli starnuti e il naso chiuso delle allergie, all’autodistruzione delle patologie autoimmuni, al disastro metabolico dell’obesità, all’umiliazione dei problemi digestivi e allo stigma dei disturbi mentali, è come se il nostro corpo, in mancanza di malattie infettive, se la sia presa con se stesso. Potremmo accettare il nostro nuovo destino ed essere grati del fatto che, infine, vivremo una lunga vita, libera dalla tirannia dei patogeni. Oppure potremmo chiederci che cosa è cambiato. C’è forse un nesso tra malattie che sembrano slegate, come obesità e allergie, sindrome dell’intestino irritabile e autismo? Lo spostamento dalle malattie infettive a questa nuova serie di patologie potrebbe essere un segnale del fatto che il nostro corpo ha bisogno delle infezioni per mantenere l’equilibrio? Oppure la correlazione tra il calo delle malattie infettive e l’aumento di quelle croniche è il semplice indizio di una causa più profonda? Ci rimane un’ultima grande domanda: perché si stanno manifestando queste malattie del XXI secolo?
Al momento è di moda ricercare la causa delle malattie nei geni. Il Progetto Genoma Umano ha portato alla luce un mucchietto di geni che, nel caso subiscano mutazioni, possono provocare malattie. Alcune mutazioni portano per certo a patologie: un cambiamento del codice del gene HTT sul cromosoma 4, per esempio, sfocerà sempre nella malattia di Huntington. Altre si limitano ad aumentare le probabilità: un errore nei geni BRCA1 e BRCA2, per esempio, accresce per le donne il rischio di tumore al seno, nel corso della vita, fino a 8-10 volte. Anche se siamo nell’era del genoma, non possiamo incolpare soltanto il nostro DNA dell’aumento delle malattie moderne. Se un individuo possiede la versione di un gene per cui, per esempio, è più probabile che diventi obeso, quella variante genetica non potrebbe diventare spiccatamente più comune nella popolazione nel suo complesso in un secolo soltanto. L’evoluzione umana non progredisce così velocemente. Non solo, ma le varianti genetiche diventano più comuni attraverso la selezione naturale soltanto se apportano benefici; in caso contrario gli effetti dannosi vengono soppressi. Asma, diabete, obesità e autismo portano ben pochi vantaggi a chi ne soffre. Se escludiamo che la genetica sia la causa di questo aumento, la domanda successiva dev’essere: è cambiato qualcosa nel nostro ambiente? Proprio come la statura di un individuo è la conseguenza non soltanto dei propri geni, ma anche dell’ambiente – alimentazione, esercizio fisico, stile di vita ecc. – così lo è anche il rischio di ammalarsi. Ed è qui che la faccenda si complica, perché nell’ultimo secolo sono cambiati davvero tanti aspetti delle nostre vite e individuare quali rappresentino delle cause e quali semplici correlazioni richiede un paziente processo di valutazione scientifica. Per l’obesità e le patologie connesse, i mutamenti nello stile di alimentazione sono sotto gli occhi di tutti, ma come questo influenzi altre malattie del XXI secolo è meno ovvio. I disturbi in questione offrono pochi indizi sulla loro origine comune. È forse possibile che certi cambiamenti ambientali che portano all’obesità causino anche le allergie? Può esserci davvero un’origine comune in patologie mentali come l’autismo e la sindrome ossessivo-compulsiva e disturbi dell’intestino come la sindrome dell’intestino irritabile? Malgrado le differenze, emergono due temi. Il primo, che lega chiaramente le allergie alle patologie autoimmuni, è il sistema immunitario. Stiamo cercando un colpevole che abbia interferito con la capacità del nostro sistema immunitario di determinare il livello di minaccia corporea e che abbia reso decisamente troppo comuni le reazioni eccessive. Il secondo tema, spesso celato dietro
sintomi socialmente più accettabili, è il malfunzionamento dell’intestino. Per alcune malattie moderne il legame è chiaro: la sindrome dell’intestino irritabile e la malattia infiammatoria intestinale hanno al centro i disturbi dell’intestino. Per altri, anche se meno palese, il legame c’è sempre. I pazienti autistici combattono contro la diarrea cronica; depressione e sindrome dell’intestino irritabile vanno a braccetto; l’obesità ha la sua origine in ciò che passa attraverso l’intestino. Questi due temi, l’intestino e il sistema immunitario, potrebbero anche sembrare slegati, ma uno sguardo più attento all’anatomia di quell’organo offre un ulteriore indizio. Se vengono interrogati sul proprio sistema immunitario, molti individui potrebbero pensare a globuli bianchi e ghiandole linfatiche. Ma non è qui che si svolge il grosso dell’azione, perché a dire il vero l’intestino umano ha più cellule immunitarie del resto del corpo messo insieme. Intorno al 60 per cento del tessuto del sistema immunitario si trova intorno agli intestini, in particolare lungo la sezione finale del tenue, nel cieco e nell’appendice. È facile pensare alla pelle come alla barriera tra noi e il mondo esterno, ma per ogni centimetro quadrato di epidermide, abbiamo due metri quadrati di intestino. Anche se si trova “all’interno”, l’intestino ha soltanto un singolo strato di cellule tra ciò che è essenzialmente il mondo esterno e il sangue. La sorveglianza immunitaria lungo gli intestini, pertanto, è problematica: ogni cellula e molecola che lo attraversa dev’essere valutata ed eventualmente messa in quarantena. Anche se la minaccia di malattie infettive è quasi scomparsa, il sistema immunitario è ancora sotto attacco. Ma perché? Ritorniamo alla tecnica di cui è stato pioniere John Snow durante l’epidemia di colera di Soho del 1854: l’epidemiologia. Da quando per primo Snow ha applicato la logica e le prove per svelare il mistero dell’origine del colera, l’epidemiologia è diventata un fondamento dell’indagine medica. Non potrebbe essere più semplice: ci facciamo tre domande. (1) Dove si manifestano queste patologie? (2) Chi si ammala? (3) Quando sono diventate un problema? Le risposte ci forniranno degli indizi che possono aiutarci a rispondere alla domanda generale: perché si manifestano queste malattie del XXI secolo? La mappa dei casi di colera che John Snow creò per rispondere al dove? rivelò il probabile epicentro del colera, la pompa di Broad Street. Senza molto lavoro di indagine, si vede chiaramente che obesità, autismo, allergie e autoimmunità sono iniziati tutti nel mondo occidentale. Stig Bengmark, professore di chirurgia allo University College di Londra, pone l’epicentro dell’obesità e delle patologie connesse negli stati meridionali degli Stati Uniti. “Stati come l’Alabama, la Louisiana e il Mississippi hanno la più alta incidenza
di obesi e patologie croniche degli Stati Uniti e del mondo” afferma. “Queste malattie si diffondono, con uno schema simile a uno tsunami, in tutto il mondo: a ovest fino alla Nuova Zelanda e all’Australia, a nord in Canada a est nell’Europa occidentale e nel mondo arabo e a sud soprattutto in Brasile”. L’osservazione di Bengmark si estende alle altre malattie del XXI secolo – allergie, patologie autoimmuni, disturbi mentali e così via – che hanno avuto origine tutte in Occidente. Naturalmente il dato geografico di per sé non spiega l’aumento, ma si limita a fornire indizi sulla correlazione e, con una dose di fortuna, la causa. L’elemento di correlazione più evidente di questa particolare topografia della malattia è la ricchezza. Sono molte le prove che indicano il legame tra malattie croniche e benessere, da confronti su vasta scala relativi al prodotto interno lordo di interi paesi alle differenze tra gruppi socio-economici che vivono nella stessa aerea locale. La popolazione della Germania nel 1990 ha rappresentato un elegante esperimento naturale dell’impatto della prosperità sulle allergie. Dopo quattro decenni di divisione, l’Est e l’Ovest si stavano riunificando in seguito alla caduta del Muro di Berlino dell’anno precedente. Questi due paesi avevano molto in comune: condividevano la posizione, il clima e una popolazione composta dagli stessi gruppi etnici. Ma mentre coloro che vivevano nella Germania Ovest si erano arricchiti, raggiungendo e tenendo il passo con gli standard economici del mondo occidentale, i tedeschi dell’Est erano rimasti in uno stato di morte apparente sin dalla Seconda guerra mondiale ed erano decisamente più poveri dei vicini occidentali. Questa differenza di ricchezza era in qualche modo in relazione con una diversità nella salute. Uno studio condotto dai medici dell’ospedale pediatrico dell’università di Monaco ha scoperto che i ricchi bambini della Germania Ovest avevano il doppio delle probabilità di contrarre allergie e il triplo di soffrire di febbre da fieno. C’è uno schema che si ripete per molte allergie e patologie autoimmuni. I bambini americani che vivono in povertà hanno storicamente meno probabilità di soffrire di allergie alimentari e di asma rispetto ai loro omologhi più ricchi. In Germania, bambini provenienti da famiglie “abbienti”, a giudicare dall’istruzione e dalla professione dei genitori, sono decisamente più portati a soffrire di eczema di quelli provenienti da contesti meno privilegiati. I bambini di famiglie povere dell’Irlanda del Nord sono meno soggetti a sviluppare il diabete di tipo 1. In Canada i disturbi infiammatori dell’intestino si accompagnano più spesso a uno stipendio alto che basso. Gli studi proseguono e le tendenze sono sempre meno locali. È possibile utilizzare persino il prodotto
interno lordo di un paese per prevedere la diffusione delle malattie del XXI secolo nell’ambito della sua popolazione. L’ascesa delle cosiddette patologie occidentali non è più limitata ai paesi occidentali. Insieme al benessere arriva la cattiva salute cronica. Man mano che i paesi in via di sviluppo iniziano a recuperare dal punto di vista economico, le malattie della civiltà si diffondono. Quello che è incominciato come un problema occidentale minaccia di sommergere il resto del pianeta. L’obesità tende ad aprire la strada e ha già colpito ampie fasce di popolazione, comprese quelle dei paesi in via di sviluppo. L’insieme di patologie a essa collegate, come la cardiopatia e il diabete di tipo 2 (l’insensibilità all’insulina, più che la sua mancanza) seguono a ruota. I problemi di allergia, tra cui asma ed eczema, sono anch’essi ai primi posti quanto a diffusione e stanno aumentando nei paesi a reddito medio del Sud America, dell’Europa orientale e dell’Asia. Sembra che le patologie autoimmuni e i disturbi del comportamento restino più indietro, ma sono adesso particolarmente comuni negli stati a reddito medio alto, tra cui Brasile e Cina. Proprio come molte delle nostre moderne malattie raggiungono una fase di ristagno nei paesi più ricchi, queste stesse patologie iniziano altrove la propria ascesa. Quando si tratta di malattie del XXI secolo, il denaro è pericoloso. L’entità del salario, il benessere del quartiere e lo status della nazione, tutto contribuisce al rischio. Ma naturalmente non è che essere semplicemente ricchi vi faccia ammalare. Con il denaro forse non si compra la felicità, ma acqua pulita, libertà da malattie infettive, alimenti ricchi di calorie, istruzione, un lavoro in ufficio, una famigliola, vacanze in luoghi remoti e molti altri lussi correlati. Chiedersi dove? non ci rivela soltanto la collocazione delle nostre pestilenze moderne, ma che il denaro ci sta portando le malattie croniche. È piuttosto interessante che il legame tra un maggiore benessere e una minore salute si sciolga al vertice della piramide della ricchezza. Sembra che per gli individui più facoltosi dei paesi più ricchi sia più facile evitare l’epidemia delle malattie croniche. Ciò che inizia come dominio dei ricchi (pensate al tabacco, al cibo da asporto e ai pranzi pronti) si conclude come alimento base dei poveri. Nel frattempo i più benestanti acquisiscono l’accesso alle ultime informazioni sulla salute, alle migliori terapie e alla libertà di compiere delle scelte per mantenersi sani. Ora, mentre i gruppi più ricchi delle società dei paesi in via di sviluppo aumentano di peso e diventano allergici, nei paesi sviluppati sono i più poveri ad avere maggiori probabilità di essere sovrappeso e soffrire di una cattiva salute cronica.
Quindi dobbiamo chiederci: chi? La ricchezza e lo stile di vita occidentale causano una salute cagionevole a tutti, oppure alcuni gruppi vengono colpiti più di altri? È una domanda pertinente: nel 1918 100 milioni di individui sono morti a causa di una pandemia di influenza che ha spazzato il globo. Chiedersi chi? ha fornito una risposta che con l’attuale conoscenza medica avrebbe potenzialmente potuto ridurre considerevolmente il bilancio delle vittime. Laddove l’influenza di norma uccide i membri vulnerabili di una società – i bambini, gli anziani, le persone già ammalate – quella del 1918 ha ucciso soprattutto giovani adulti sani. Queste vittime, nel fiore degli anni, probabilmente non sono morte per il virus dell’influenza in sé, ma per la “tempesta di citochina” rilasciata dal loro sistema immunitario nel tentativo di sbarazzarsi del virus. Le citochine – i mediatori del sistema immunitario che incrementano la risposta immunitaria – possono involontariamente condurre a una reazione più pericolosa dell’infezione stessa. Più i pazienti erano giovani e sani, maggiore è stata la tempesta creata dal loro sistema immunitario e maggiori erano le probabilità che morissero di influenza. Chiedersi chi? ci rivela qualcosa su ciò che ha reso tanto pericoloso quel particolare virus influenzale e ci avrebbe consentito di orientare le cure non solo alla lotta contro il virus ma anche al modo per placare la tempesta. La domanda chi? è composta da tre elementi: che età hanno quelli che vengono colpiti dalle malattie del XXI secolo? Vi sono differenze nel modo in cui queste patologie colpiscono individui di razze diverse? E i sessi sono colpiti in uguale misura? Iniziamo con l’età. È ragionevole presumere che malattie associate ai paesi sviluppati e ricchi, con un buon sistema sanitario, siano una conseguenza inevitabile della nostra popolazione che invecchia. Certo che nuove patologie sono in crescita! potreste pensare. Viviamo così a lungo, adesso! Ovviamente siamo così in tanti a raggiungere i settanta o gli ottant’anni da affidare un bel po’ di nuove sfide alla salute. È naturale che, alleviati dal peso della morte causata da patogeni, subiremo per forza di cose il decesso causato da qualcos’altro; molte delle malattie che ci troviamo adesso a fronteggiare, tuttavia, non sono semplicemente disturbi della vecchiaia, diffusi dalla maggiore aspettativa di vita. A differenza del cancro, la cui insorgenza è in parte attribuibile al processo di rinnovo cellulare che nei corpi più anziani si guasta, le malattie del XXI secolo non sono tutte legate alla vecchiaia. In realtà molte mostrano di preferire i bambini e i giovani, pur essendo relativamente rare tra questi gruppi di età durante gli anni delle malattie infettive. Le allergie alimentari, l’eczema, l’asma e le allergie cutanee spesso
insorgono alla nascita o nei primi anni di vita del bambino. L’autismo si presenta tipicamente nei bambini piccoli e viene diagnosticato prima dei cinque anni. Le patologie autoimmuni possono colpire in qualsiasi momento, ma molte si manifestano in giovane età. Il diabete di tipo 1, per esempio, di norma insorge nei bambini e nella prima adolescenza, anche se può presentarsi in età adulta. La sclerosi multipla, la psoriasi della pelle e le patologie infiammatorie dell’intestino, come la malattia di Crohn e la colite ulcerosa, aggrediscono di norma tra i venti e i trent’anni. Il lupus colpisce di solito individui tra i quindici e i quarantacinque anni. Anche l’obesità è un disturbo che può iniziare in giovane età: circa il 7 per cento dei neonati americani già alla nascita presenta peso superiore alla media, il 10 per cento inizia a essere sovrappeso in tenera età e il 30 per cento lo diventa più avanti, ma sempre durante l’infanzia. Gli individui più anziani non sono immuni dalle malattie del XXI secolo – quasi tutte possono colpire all’improvviso a qualsiasi età – ma il fatto che così spesso insorgano tra i giovani lascia pensare che a scatenarle non sia il processo di invecchiamento in sé. Persino tra le malattie che in Occidente uccidono gli individui in “età avanzata” – infarti, ictus, diabete, ipertensione e tumori – la maggior parte ha origine in un aumento di peso che inizia nell’infanzia o nella prima età adulta. Non possiamo attribuire i decessi causati da queste patologie soltanto alla nostra maggiore longevità, perché gli individui delle società tradizionali che raggiungono gli ottanta o i novant’anni molto raramente muoiono per questa serie di malattie “legate all’età”. Le malattie del XXI secolo non sono confinate al florido livello più alto delle nostre classi demografiche, ma ci stanno piuttosto colpendo, come l’influenza del 1918, in quello che dovrebbe essere il fiore degli anni. E veniamo alla razza. Il mondo occidentale – Nord America, Europa e Australasia – è un posto in gran parte bianco; potremo perciò sostenere che i nostri nuovi problemi di salute sono in realtà una predisposizione genetica tra gli individui di razza bianca? In realtà, all’interno di questi continenti, i bianchi non hanno coerentemente il più alto tasso di obesità, allergie, malattie autoimmuni o autismo. I neri, gli ispanici e gli asiatici del Sud tendono ad avere un’incidenza maggiore di obesità rispetto ai bianchi, e le allergie colpiscono in maniera eccessiva i neri in alcune aree e i bianchi in altre. Non emerge alcuno schema chiaro per le malattie autoimmuni, perché alcune, come il lupus e la sclerodermia colpiscono più i neri, mentre altre, tra cui il diabete infantile e la sclerosi multipla, tendono a preferire i bianchi. Sembra che l’autismo non faccia
differenze tra razze, anche se nei bambini neri viene diagnosticato più tardi. Quelle che sembrano differenze razziali potrebbero in realtà essere dovute in gran parte ad altri fattori, come il benessere o la posizione geografica, invece che a tendenze genetiche di ciascuna razza? Uno studio statistico assai raffinato ha rivelato che la maggiore percentuale di asma riscontrata nei bambini americani neri rispetto ad altre razze non era dovuta all’etnia ma alla maggiore tendenza delle famiglie nere a vivere in contesti urbani più densamente popolati, in cui l’asma è più comune in tutti i bambini. Le percentuali di asma tra bambini neri che crescono in Africa sono, come nella maggior parte delle regioni meno sviluppate, basse. Una maniera efficace per chiarire gli effetti delle etnie e dell’ambiente nell’avanzata delle malattie del XXI secolo è osservare la salute dei migranti. Negli anni Novanta la guerra civile ha provocato un ingente esodo di famiglie dalla Somalia all’Europa e al Nord America. Fuggiti dalla guerra nel loro paese, i somali della diaspora hanno affrontato una nuova battaglia. Laddove le percentuali di autismo sono estremamente basse in Somalia, l’incidenza nei bambini nati da migranti somali ha fatto un veloce balzo per raggiungere quella dei non migranti. Tra la numerosa comunità somala di Toronto, in Canada, ci si riferisce all’autismo come alla “malattia occidentale”, poiché ne sono colpite parecchie famiglie di migranti. Anche in Svezia i figli di immigrati dalla Somalia hanno una percentuale di autismo tre o quattro volte maggiore rispetto ai piccoli svedesi. La razza, allora, sembra molto meno importante del luogo. E veniamo all’ultimo aspetto del chi?, cioè il sesso. Donne e uomini si ammalano allo stesso modo? Che le donne abbiano un sistema immunitario più robusto forse non sorprenderà chiunque abbia assistito a un’epidemia di “influenza maschile”. Purtroppo però in questa epidemia di cattiva salute cronica mediata dal sistema immunitario, la superiorità immunitaria delle donne si dimostra uno svantaggio. Mentre gli uomini sembrano soccombere al più innocuo raffreddore, le donne combattono demoni che solo il loro sistema immunitario può vedere. Le malattie autoimmuni presentano le discrepanze maggiori, poiché la maggior parte di esse colpiscono più le donne che gli uomini, alcune attaccano in egual misura entrambi i sessi e un paio dimostrano di preferire i maschi. Le allergie, anche se sono più comuni tra i bambini maschi che femmine, dopo la pubertà colpiscono più le donne che gli uomini. Anche i disordini intestinali interessano più donne che uomini, con una percentuale di pochissimo superiore nel caso delle malattie infiammatorie intestinali, mentre il doppio delle donne
soffre della sindrome dell’intestino irritabile. È forse sorprendente, ma sembra che anche l’obesità colpisca più le donne che gli uomini, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Tuttavia quando si utilizzano parametri diversi dall’indice di massa corporea, come la circonferenza vita, vediamo che uomini e donne in realtà soffrono di livelli parimenti pericolosi di eccesso di peso. Allo stesso modo, anche se apparentemente alcuni disturbi mentali, tra cui depressione, ansia e disturbo ossessivo compulsivo, colpiscono più le donne che gli uomini, è possibili attribuire, almeno in parte, questa differenza alla riluttanza maschile ad ammettere di sentirsi depressi. Nel caso dell’autismo, sono i maschi a portare il fardello, con il quintuplo dei bambini colpiti rispetto alle bambine. Forse nell’autismo, come avviene con le allergie, che tendono a insorgere in giovane età, e con quelle patologie autoimmuni che iniziano nell’infanzia, l’esordio prepuberale è determinante. Prive dell’influsso degli ormoni sessuali adulti, queste patologie non sono soggette al predominio femminile. È probabile che dietro questa preponderanza femminile di alcune delle malattie del XXI secolo ci sia il robusto sistema immunitario delle donne. Nel caso di patologie che implicano una reazione eccessiva del sistema immunitario, come le allergie e l’autoimmunità, è probabile che un punto di partenza più forte provochi una risposta maggiore. È inoltre possibile che gli ormoni sessuali e le differenze genetiche e nello stile di vita rivestano un ruolo: non si è ancora compreso con precisione come mai le donne siano più colpite. Comunque sia, la tendenza femminile in queste moderne epidemie enfatizza il ruolo fondamentale del sistema immunitario nel loro sviluppo. Le malattie del XXI secolo non sono patologie della vecchiaia. Non sono patologie legate all’ereditarietà genetica. Sono patologie dei giovani, dei privilegiati e di coloro che sono dotati di una certa forza immunitaria, soprattutto le donne. Siamo giunti alla domanda finale del nostro mistero epidemiologico: quando? Probabilmente si tratta della più importante di tutte. Ho chiamato questa epidemia moderna di patologie croniche malattia del XXI secolo, anche se le sue origini non si trovano in questo giovane secolo ma nel precedente, il XX, il secolo che ci ha donato alcune delle più grandi innovazioni e scoperte di tutta la storia umana. Ma nel corso dei suoi cent’anni, dopo la quasi totale eliminazione di gravi malattie infettive nel mondo sviluppato, si è presentata una nuova serie di patologie, che da eccezionalmente rare sono diventate incredibilmente comuni. Tra le molte innovazioni avvenute nell’ultimo secolo risiede il cambiamento, o il gruppo di cambiamenti, che ha provocato questa
crescita. Individuare il momento in cui è iniziata la crescita potrebbe fornirci l’indizio maggiore per comprenderne le cause. Forse vi siete già fatti un’idea riguardo ai tempi. Negli Stati Uniti l’impennata dei casi di diabete di tipo 1 è iniziata nella parte centrale del secolo. Le analisi dei dati relativi alle reclute, sia in Danimarca sia in Svizzera, la pongono nei primi anni Cinquanta, in Olanda sul finire dello stesso decennio e in Sardegna, regione leggermente meno sviluppata, negli anni Sessanta. L’aumento dell’asma e dell’eczema è iniziato tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, l’incremento dei casi di morbo di Crohn e di sclerosi multipla si è verificato dagli anni Cinquanta in poi. La tendenza all’obesità è stata per la prima volta registrata su vasta scala negli anni Sessanta, rendendo difficile determinare l’insorgenza dell’epidemia come la vediamo adesso, ma alcuni esperti indicano il probabile punto di svolta alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945. Un brusco incremento dei casi di obesità si è avuto negli anni Ottanta, ma la faccenda è certamente iniziata ben prima. Parimenti, il numero di bambini con una diagnosi di autismo non è stato registrato con precisione fino alla fine degli anni Novanta, ma la patologia era stata descritta per la prima volta a metà dei Quaranta. Qualcosa è cambiato, a metà del secolo scorso. Forse sono cambiate diverse cose, e forse sono continuate a cambiare nei decenni successivi. Da allora il cambiamento si è diffuso in tutto il mondo, coinvolgendo sempre più paesi con il trascorrere dei decenni. Per scoprire la causa delle nostre malattie del XXI secolo, dobbiamo osservare i cambiamenti avvenuti in un decennio straordinario: gli anni Quaranta. Siamo partiti chiedendoci: che cosa? dove? chi? e quando? e abbiamo stabilito quattro punti fermi. Primo, le nostre malattie del XXI secolo spesso insorgono nell’intestino e sono legate al sistema immunitario. Secondo, colpiscono da giovani, spesso nell’infanzia, nell’adolescenza e nella prima età adulta, e molte colpiscono più le donne che gli uomini. Terzo, queste malattie si manifestano nel mondo occidentale, ma sono adesso in aumento nei paesi in via di sviluppo man mano che si modernizzano. Quarto, l’insorgenza è iniziata in Occidente negli anni Quaranta e i paesi in via di sviluppo in seguito si sono comportati allo stesso modo. E così ritorniamo alla grande domanda: perché queste malattie del XXI secolo hanno preso il sopravvento? Che cosa c’è nelle nostre vite moderne, occidentali e ricche che ci fa ammalare cronicamente?
Come individui e come società , siamo diventati da sobri a permissivi, da tradizionalisti a progressisti, da privi di lussi a bombardati da essi; avevamo una scarsa assistenza sanitaria e adesso siamo dotati di eccellenti servizi medici, siamo passati da un’industria farmaceutica in erba al pieno sviluppo, eravamo attivi e siamo diventati sedentari, da provinciali ci siamo globalizzati, riparavamo e riutilizzavamo gli oggetti mentre oggi rinnoviamo e sostituiamo, eravamo puritani e siamo diventati disinibiti. Tra questi cambiamenti, e per rispondere al nostro mistero, ci sono 100 trilioni di minuscoli indizi che aspettano solo di essere seguiti.
2. Tutte le malattie iniziano nell’intestino
Il beccafico è l’esempio vivente della difficoltà di identificare gli uccelli: è quello che nel gergo dei birdwatcher viene definito Little Brown Job, ovvero “un affarino marrone”. La sua caratteristica più distintiva, in realtà, è l’assoluta mancanza di caratteristiche distintive, il che rende particolarmente difficile riconoscere questo uccellino oltre le lenti di un binocolo impugnato con mano malferma. Ma non si tratta certo di un uccello banale. Soltanto pochi mesi dopo essere uscito dal guscio, il giovane beccafico si imbarca in una migrazione di 6500 chilometri, dalla propria dimora estiva attraverso l’Europa, fino alle residenze invernali nell’Africa subsahariana. È una rotta su cui non si è mai avventurato prima e la intraprende senza l’aiuto dei suoi più esperti genitori e senza una carta geografica. Prima di cominciare l’incredibile viaggio, questi uccellini si preparano alla fatica del volo e alla mancanza di cibo durante la traversata semplicemente ingrassando. Nel giro di due settimane soltanto, il beccafico raddoppia il proprio peso, passando da 17 modesti grammi al peso, innegabilmente robusto, di 37 grammi. In termini umani, diventa patologicamente obeso. Ogni giorno dell’abbuffata precedente alla migrazione, aumenta più o meno del 10 per cento del suo originario peso corporeo, come se un uomo di 65 chili ingrassasse di 6 chili al giorno, fino ad arrivare a circa 140. Poi, una volta diventato sufficientemente paffuto, si sottopone a una prova di resistenza inimmaginabile per la maggior parte degli atleti di punta, volando per migliaia di chilometri con appena una manciata di pasti a disposizione lungo la strada. Per ingrassare tanto in fretta è ovvio che il beccafico debba ingozzarsi dell’abbondante cibo estivo. Praticamente da un giorno all’altro passa da una dieta a base di insetti a una composta da bacche e fichi. Anche se il frutto è sufficientemente maturo da essere mangiato diverse settimane prima che inizi l’abbuffata, il beccafico lo lascia intatto fino al momento opportuno. È come se dentro di lui scattasse un interruttore e all’improvviso si dedicasse a mangiare. Per molto tempo i ricercatori hanno ipotizzato che l’aumento di peso del beccafico e di altri uccelli migratori fosse la semplice conseguenza
dell’iperfagia, ovvero di un’eccessiva alimentazione. Ma l’incredibile velocità del passaggio, in questi volatili, dalla magrezza a una patologica obesità lasciava intendere che ci fosse dell’altro ad aiutarli a immagazzinare così tanto grasso. Qualcosa che non riguardava tanto la quantità di cibo che mangiavano quanto il modo in cui esso veniva immagazzinato nel corpo. Misurando la quantità di calorie in eccesso che il beccafico incamerava e quante ne espelleva nelle feci, i ricercatori si sono resi conto che il cibo in più che gli uccelli consumavano non giustificava del tutto l’aumento di peso. Il rompicapo rimane tale quando arriva il momento in cui gli uccelli perdono nuovamente peso. Naturalmente, mentre i beccafichi obesi attraversano il Mar Mediterraneo e il deserto del Sahara, la loro riserva di grasso si riduce. Quando infine raggiungono la dimora invernale africana e vi si insediano, sono ritornati al peso normale. Ma ecco la stranezza: il beccafico in cattività non si comporta in maniera diversa. Durante il periodo che precede la migrazione, sul finire dell’estate, i volatili in gabbia acquistano comunque peso e diventano obesi in vista di un viaggio che non compiranno mai. E nel momento esatto in cui i beccafichi selvatici arrivano a destinazione, quelli in cattività si liberano del grasso in eccesso. Malgrado non volino per 6500 chilometri e abbiano cibo a volontà, questi uccellini in gabbia, una volta terminato il periodo migratorio, perdono comunque peso. È piuttosto straordinario che dei beccafichi privi di indizi sul clima, sulla lunghezza delle giornate e sull’offerta stagionale di cibo siano comunque in grado di incamerare ingenti riserve di grasso per il periodo migratorio, e poi di nuovo dimagriscano, apparentemente senza alcuna fatica, in perfetta sincronia con i loro selvatici cugini. Il cervello di questi volatili ha le dimensioni di un pisello. Non è che ingrassano e poi si dicono: “Devo proprio mettermi a dieta”. E d’altro canto non digiunano, né fanno freneticamente ginnastica. Dopo l’abbuffata, ritornano alle vecchie abitudini in fatto di cibo, è vero, ma non abbastanza da giustificare una così notevole perdita di peso, a una tale velocità. Immaginate di riuscire a perdere sei chili al giorno per sette giorni, perché tale è il grado di perdita di peso di questi uccellini una volta concluso il periodo migratorio. Anche se non mangiasse assolutamente niente, un essere umano non riuscirebbe a ottenere una tale perdita di peso. Pur non sapendo ancora con precisione come venga regolato, nel corpo del beccafico, questo sconcertante cambiamento di peso, il fatto che i mutamenti avvengano ben oltre quello che ci si aspetterebbe da una variazione nell’assunzione calorica rende evidente una cosa: mantenere un peso costante
non sempre dipende dall’equilibrio tra calorie che entrano ed escono dal corpo. Negli esseri umani la spiegazione scientificamente accettata per l’aumento di peso è questa: “La causa fondamentale dell’obesità e del sovrappeso è uno squilibrio energetico tra calorie assunte e calorie bruciate.” D’altro canto è ovvio: se mangiate troppo e vi muovete troppo poco, l’energia in eccesso viene per forza immagazzinata e voi aumentate di peso. E se volete dimagrire, dovete mangiare meno e muovervi di più. I beccafichi però sono in grado di immagazzinare velocemente riserve di grasso che sembrano ben oltre le calorie che ingeriscono, e poi di dissipare quelle stesse riserve ben oltre le calorie che bruciano. Naturalmente, la regolazione del peso è un gioco più complesso di quanto appaia. Se il rapporto tra calorie assunte e bruciate non vale per il beccafico, forse non vale neppure per l’uomo? Nel tentativo di curare oltre 10.000 casi di obesità, il medico indiano Nikhil Dhurandhar si è posto la stessa domanda. I suoi pazienti ritornavano più volte dopo aver riacquistato i pochi chili che avevano perso, o perché non erano proprio riusciti a dimagrire. Malgrado le difficoltà, Dhurandhar e il padre – anch’egli medico e specializzato in problemi di obesità – negli anni Ottanta gestivano a Mumbai uno dei centri di maggior successo per la cura di questa patologia. Ma dopo un decennio trascorso ad aiutare la gente a mangiare di meno e a muoversi di più, Dhurandhar aveva iniziato a credere che i propri sforzi – e quelli dei suoi pazienti – fossero inutili. “Dopo aver perso peso, lo si riacquista: è questo il grosso problema. Perciò ero frustrato.” Il medico voleva comprendere i meccanismi che si celano dietro l’obesità. Se mangiare di meno e muoversi di più non rappresentava un rimedio permanente contro l’obesità, forse mangiare troppo e muoversi troppo poco non ne era l’unica causa. È una faccenda che abbiamo assoluto bisogno di risolvere, perché la nostra specie si trova nel bel mezzo di un aumento collettivo di peso non dissimile da quello dei beccafichi. E proprio come accade per i beccafichi, la quantità di peso che abbiamo acquistato non corrisponde esattamente a eventuali variazioni tra “calorie assunte” e “calorie bruciate”. Anche gli studi più ampi e completi dimostrano che gran parte dell’aumento di peso come specie non è giustificato dal cibo in eccesso che mangiamo, né dalla mancanza di attività fisica. Alcuni rivelano persino che mangiamo meno rispetto al passato, e facciamo la stessa attività fisica. Il dibattito scientifico sull’ipotesi che, per spiegare l’aumento esponenziale dell’obesità negli ultimi sessant’anni, siano sufficienti ingordigia e pigrizia continua senza clamore. È una semplice corrente sotterranea che lambisce le basi di quella ricerca che da sempre è stata considerata molto più
importante: quali diete funzionano meglio? All’epoca delle delusioni di Dhurandhar, tra i polli indiani si stava diffondendo una misteriosa malattia, che uccideva i volatili e distruggeva una fonte di reddito. La famiglia del medico conosceva bene un ricercatore veterinario, coinvolto nella ricerca delle cause e di una cura. Il colpevole era un virus, aveva riferito costui a Dhurandhar durante una cena, e i polli morivano con il fegato ingrossato, il timo raggrinzito e un sacco di grasso in eccesso. Dhurandhar lo aveva interrotto. “I polli morti sono particolarmente grassi?” si era accertato. E il veterinario aveva confermato. Dhurandhar era curioso. Di solito gli animali che muoiono per un’infezione virale sono pelle e ossa, non certo grassi. Era mai possibile che un virus inducesse un aumento di peso nei polli? Poteva essere questa la spiegazione delle difficoltà dei suoi pazienti a perdere peso? Dhurandhar, eccitato all’idea di saperne di più, ha organizzato quindi un esperimento, iniettando il virus in un primo gruppo di polli, e lasciandone un secondo sano. Come c’era da aspettarsi, tre settimane dopo ha constatato che i volatili infetti erano ben più grassi di quelli sani. Sembrava che il virus li avesse fatti aumentare di peso mentre si ammalavano. Poteva forse essere che i pazienti di Dhurandhar, e innumerevoli altri individui in tutto il mondo, fossero stati colpiti dallo stesso virus? Quello che sta accadendo alla nostra specie avviene su una scala tanto vasta e senza precedenti che in un lontano futuro, quando l’umanità ripenserà al XX secolo, non lo ricorderà soltanto per due guerre mondiali, o unicamente per l’invenzione di Internet, ma anche come l’epoca dell’obesità. Prendete un corpo umano di 50.000 anni fa e uno del 1950, e vedrete che saranno più simili tra loro di quanto l’uno o l’altro siano mediamente rispetto a un corpo umano attuale. In appena sessant’anni o giù di lì il nostro fisico snello, muscoloso, da cacciatoreraccoglitore è stato avvolto in uno strato di grasso in eccesso. Agli esseri umani non era mai accaduto prima su questa scala, e nessun’altra specie animale – a parte gli animali da compagnia e il bestiame che accudiamo – aveva mai ceduto a questo disturbo che rimodella l’anatomia. Un adulto su tre, sulla Terra, è sovrappeso. Uno su nove è obeso. Questa è la media in tutti i paesi, compresi quelli in cui la denutrizione è più comune dell’eccesso di peso. È persino più difficile da credere, se ci si limita a guardare i dati dei paesi più grassi. Sull’isola di Nauru, nel Sud Pacifico, per esempio, circa il 70 per cento degli adulti è obeso, e un altro 23 per cento è sovrappeso. Ci sono soltanto 10.000 abitanti in questo minuscolo paese e appena 700 hanno il giusto peso. Nauru è ufficialmente lo stato più grasso del mondo, ma è tallonato dalla
maggior parte delle isole del Sud Pacifico e da diversi paesi del Medio Oriente. In Occidente fino a poco tempo fa eravamo piuttosto magri, tanto che a nessuno veniva in mente di fare commenti sugli individui sovrappeso, preoccuparsi o contarli, e siamo diventati tanto grassi che sarebbe più veloce contare coloro che rimangono snelli. Più o meno due adulti su tre sono sovrappeso e la metà di questi sono addirittura obesi. Gli Stati Uniti, malgrado la pessima fama, sono diciassettesimi nella classifica mondiale, con soltanto il 71 per cento della popolazione sovrappeso oppure obesa. Quanto alla Gran Bretagna, è al trentanovesimo posto, con il 62 per cento degli adulti sovrappeso (tra cui un 25 per cento di obesi): si tratta del dato più alto nell’Europa occidentale. Anche tra i bambini del mondo occidentale essere troppo grassi è spaventosamente comune, con cifre che arrivano a un terzo di individui sotto i vent’anni sovrappeso, metà dei quali obesi. L’obesità si è insinuata tra noi in un modo che la fa sembrare quasi normale. Sì, d’accordo, c’è un costante flusso di articoli e di notizie sull’“epidemia” dell’obesità a ricordarci che in realtà è un problema, ma ci siamo abituati molto in fretta a vivere in una società in cui la maggior parte delle persone è sovrappeso. Facciamo in fretta a ipotizzare che la grassezza sia il passo successivo, dopo l’ingordigia e la pigrizia, ma se è così, si tratta piuttosto di una manifestazione della natura umana. Se guardiamo ai nostri successi nell’ultimo secolo – l’invenzione del telefono cellulare, di Internet, degli aeroplani, dei farmaci salvavita e così via – ci rendiamo conto che non ce ne stiamo tutti lì a poltrire e a rimpinzarci di dolci. Il fatto che nel mondo sviluppato gli individui magri siano attualmente una minoranza, e che questo cambiamento sia avvenuto in appena cinquanta o sessant’anni, dopo migliaia e migliaia di anni di magrezza, è sconvolgente: che cosa stiamo facendo a noi stessi? Soltanto negli ultimi cinquant’anni gli abitanti del mondo occidentale sono mediamente aumentati più o meno di un quinto del loro peso. Se il tempo a voi assegnato sulla Terra fosse scaduto, se il vostro “oggi” ricadesse negli anni Sessanta, e non dopo il 2010, con ogni probabilità sareste decisamente più leggeri. Individui che nel 2015 pesano 70 chili, nel 1965 sarebbero stati appena oltre i 57, senza particolari sforzi. Attualmente, per ritrovare il peso precedente agli anni Sessanta, decine di milioni di persone sono eternamente a dieta, nel tentativo di privarsi di un cibo di cui il loro cervello ha un inveterato desiderio. Tuttavia, malgrado i miliardi di dollari spesi in diete alla moda ma prive di fondamento, in ginnastica assortita e farmaci, i livelli di obesità inesorabilmente salgono.
Questo aumento è avvenuto malgrado sessant’anni di ricerca scientifica sulle strategie più efficaci per il mantenimento del peso-forma e della perdita di peso. Nel 1958, in un’epoca in cui essere sovrappeso era ancora relativamente raro, uno dei pionieri della ricerca sull’obesità, il dottor Albert Stunkard, affermò: “La maggior parte degli individui obesi non continuerà la terapia. Di coloro che proseguiranno, la maggior parte non perderà peso. E tra coloro che perderanno peso, la maggior parte lo riacquisterà.” Aveva ragione in pieno. Anche mezzo secolo dopo, le percentuali di successo negli esperimenti sulle strategie di intervento per perdere peso sono estremamente basse. Spesso, meno della metà dei partecipanti riesce a perdere peso, e per la maggior parte si tratta soltanto di pochi chili nel corso di un anno o più. Perché è così incredibilmente difficile? Fino a questo momento, tra coloro che cercano spiegazioni – e forse giustificazioni – per il proprio peso, la genetica è stato il colpevole più alla moda. Le differenze nel DNA umano, però, non si sono dimostrate particolarmente illuminanti in fatto di aumento di peso, e i geni sono in grado di spiegare soltanto un’esigua proporzione della nostra predisposizione all’obesità. Nel 2010 è stato condotto un vasto studio da parte di un gruppo di centinaia di scienziati, i quali hanno analizzato i geni di un quarto di milione di individui nella speranza di trovarne qualcuno connesso al peso. Sorprendentemente hanno scoperto che soltanto 32 geni, nel nostro genoma che ne conta 21.000, sembravano avere un ruolo nell’aumento di peso. La differenza media di peso tra gli individui con la più bassa probabilità genetica di obesità e quelli con la più alta era di appena 8 chili. Per coloro che vorrebbero incolpare i genitori, il rischio ulteriore di diventare obesi si colloca tra l’1 e il 10 per cento, e stiamo parlando di coloro che possiedono la combinazione peggiore di quelle varianti genetiche. Malgrado i geni coinvolti, la genetica non potrebbe mai rappresentare una spiegazione esauriente dell’epidemia di obesità, perché sessant’anni fa eravamo quasi tutti magri, malgrado avessimo in larga misura le stesse varianti genetiche dell’attuale popolazione umana. Quello che probabilmente conta molto di più è l’impatto di un ambiente che cambia – la nostra dieta e lo stile di vita, per esempio – sui meccanismi dei nostri geni. L’altra spiegazione che si predilige è quella del “metabolismo lento”. “Non devo stare attento a quello che mangio, ho il metabolismo veloce” è probabilmente uno dei commenti più irritanti che un individuo magro possa fare, ma non ha alcuna base scientifica. Un metabolismo lento – o più precisamente un tasso metabolico basale basso – significa che una persona brucia
relativamente poca energia mentre non fa assolutamente niente, cioè non si muove, non guarda la televisione, non fa calcoli aritmetici a mente. Il tasso metabolico varia da un individuo all’altro, ma in realtà sono i sovrappeso ad avere il metabolismo più veloce, non i magri, perché ci vuole più energia a gestire un corpo grande che uno piccolo. Perciò se dietro l’epidemia di obesità non ci sono né la genetica né il tasso metabolico basale, e la quantità di cibo e di movimento non danno conto in maniera esauriente del nostro collettivo aumento di peso, qual è la spiegazione? Come molti altri, Nikhil Dhurandhar si è chiesto se non ci fosse dell’altro rispetto alle ipotesi. Gli ronzava in testa l’eventualità che in alcuni individui un virus potesse provocare o aggravare l’obesità, per cui ha sottoposto ad analisi cinquantadue dei suoi pazienti umani di Mumbai in cerca degli anticorpi al virus dei polli, ovvero la prova che a un certo punto della loro vita fossero stati contagiati. Con sua sorpresa, i dieci maggiori obesi tra i suoi pazienti in passato avevano contratto il virus. Dhurandhar ha quindi deciso che avrebbe smesso di tentare di curare l’obesità, per dedicarsi invece alla ricerca delle sue cause. Nella storia umana siamo giunti a riflettere sull’idea, almeno in Gran Bretagna, che rimodellare e far cambiare direzione all’apparato digerente ricevuto in dono dall’evoluzione sia il mondo migliore per impedirci di mangiare fino a morirne. Sembra che il bendaggio e il bypass gastrico, che riducono le dimensioni dello stomaco e impediscono agli individui di consumare tutto ciò che il cervello e il corpo dice loro, siano i metodi più efficaci ed economici per controllare l’epidemia di obesità e le sue conseguenze per la nostra salute collettiva. Se le diete e l’esercizio fisico sono così inutili che il bypass gastrico rappresenta l’unica speranza di ottenere una significativa perdita di peso, che ne è della semplice applicazione delle leggi della fisica – energia incamerata meno energia bruciata uguale energia immagazzinata – per noi, animali governati dalle leggi della biochimica? Iniziamo pertanto a capire che non è così semplice. Come rivelano i beccafichi e molti mammiferi che vanno in letargo, la gestione del peso non si limita a un calcolo di calorie. Attenersi a un semplice sistema di corrispondenza tra calorie assunte e consumate per mantenere in pareggio il bilancio dell’energia corporea mina alla radice l’enorme complessità della nutrizione, della regolazione dell’appetito e dell’immagazzinamento dell’energia. Come ha sostenuto una volta George Bray, un medico che studia l’obesità sin da quando è iniziata l’epidemia, “l’obesità non è la scienza missilistica. È decisamente più
complessa”. 2500 anni fa Ippocrate – il padre della medicina moderna – riteneva che tutte le malattie avessero origine nell’intestino. Sapeva poco dell’anatomia di quell’organo, per non parlare dei 100 trilioni di microbi che ci vivono, ma come stiamo apprendendo due millenni dopo, lui aveva effettivamente fatto una scoperta. All’epoca l’obesità era piuttosto rara, come lo era un’altra malattia del XXI secolo che ha evidenti origini nelle viscere: la sindrome dell’intestino irritabile. È con questi assai spiacevoli disturbi che entrano in scena i microbi. Nella prima settimana di maggio del 2000 delle forti piogge, insolite per la stagione, hanno inzuppato la comunità rurale di Walkerton, in Canada. Quando i temporali sono passati gli abitanti hanno iniziato ad ammalarsi a centinaia. Poiché un numero sempre maggiore di cittadini veniva colpita da gastroenterite e diarrea emorragica, le autorità hanno fatto analizzare gli acquedotti, scoprendo quello che il gestore dell’impianto non rivelava da giorni: l’acqua potabile della città era stata contaminata da un ceppo letale di Escherichia coli. Si è così scoperto che i responsabili dell’impianto sapevano da settimane che il sistema di clorazione di uno dei pozzi cittadini era rotto. Durante le piogge, a causa di quella negligenza il deflusso dai terreni agricoli aveva fatto finire dei residui di concime proprio nell’acquedotto. A un giorno dalla scoperta della contaminazione delle acque, tre adulti e un bambino sono morti a causa dell’infezione e nel corso delle settimane successive sono decedute altre tre persone. Nel giro di quindici giorni si è infettata la metà dei 5000 cittadini, precedentemente sani. Tuttavia, anche dopo una rapida pulizia e sanificazione dell’acquedotto, per molti di coloro che si erano ammalati la storia non si è conclusa. La diarrea e i crampi sono proseguiti, e dopo addirittura due anni un terzo degli individui colpiti era ancora ammalato. Quei cittadini avevano sviluppato una sindrome dell’intestino irritabile post-infezione (IBS), e più della metà ancora ne soffriva otto anni dopo l’insorgenza della malattia. In quanto neo-sofferenti di questa sindrome, gli sfortunati abitanti di Walkerton si erano uniti alle crescenti schiere di individui occidentali la cui esistenza è di fatto governata dall’intestino. La libertà delle giornate di molti che soffrono di questo disturbo è condizionata da un acuto dolore addominale e imprevedibili scariche di diarrea. Per altri ammalati è l’opposto, perché soffrono di stipsi e del dolore che vi si accompagna e che dura per giorni, talvolta per settimane di seguito. “Per lo meno” osserva il gastroenterologo inglese Peter
Whorwell a proposito di coloro in cui predomina la stipsi, “questi pazienti possono uscire di casa.” La vita quotidiana di una minoranza, poi, è resa particolarmente imprevedibile dal doppio disagio di diarrea e stipsi. Il problema è che, anche se circa un individuo su cinque in Occidente – soprattutto donne – è colpito da questa patologia che cambia la vita, in realtà non sappiamo di che cosa si tratti. Non è normale, fin qui è chiaro. Il termine “irritabile” cela l’impatto che l’IBS ha sull’esistenza di chi ne soffre; la patologia si colloca giustamente tra i disturbi che riducono la qualità della vita in maniera persino maggiore rispetto a coloro che soffrono di insufficienza renale o ai diabetici dipendenti da iniezioni di insulina. Forse è lo scoraggiamento derivante dal non sapere con precisione quale sia il problema e come risolverlo. La diffusione dell’IBS è una sorta di trascurata pandemia globale. Ogni dieci visite mediche, una è legata alla patologia, e i gastroenterologi visitano un flusso costante di ammalati, la metà dei loro pazienti. Negli Stati Uniti l’IBS sfocia ogni anno in 3 milioni di visite mediche, 2,2 milioni di prescrizioni di farmaci e 100.000 visite ospedaliere. E tuttavia non se ne parla. Nessuno vuole parlare di diarrea. La causa, tuttavia, rimane sfuggente. Mentre il colon di chi soffre di malattia infiammatoria intestinale sarebbe rivestito di ulcere, l’intestino delle persone ammalate di IBS appare rosa e liscio come quello di un individuo sano. Per via di questa mancanza di segni nel fisico si è finito per marchiare l’IBS con la storica ipotesi che il problema sia tutto nella mente. Anche se nella maggior parte degli ammalati la patologia peggiora nei periodi di stress, è poco probabile che sia questa l’unica causa di un disturbo tanto persistente. La sconcertante proporzione di individui con l’IBS merita una spiegazione: non abbiamo attraversato milioni di anni di evoluzione per poi dover stare nelle immediate vicinanze di una toilette. Nella tragedia di Walkerton possiamo però trovare un indizio. I cittadini colpiti da IBS dopo la contaminazione delle acque non sono i soli tra chi soffre di questa malattia ad attribuire la propria situazione a una generica infezione gastrointestinale. Circa un terzo dei pazienti identifica il momento in cui sono iniziati i guai intestinali con un episodio di intossicazione alimentare o simili che apparentemente non si risolveva mai. L’esordio è spesso una diarrea del viaggiatore: la gente che viene colpita da una leggera infezione virale all’estero ha una probabilità sette volte maggiore di ammalarsi di IBS. Tuttavia le analisi relative all’originaria infezione non portano a niente, i soggetti non soffrono più di quella gastroenterite. È come se la causa scatenante abbia gettato nel caos gli
abituali residenti dell’intestino. Per altri pazienti invece l’insorgenza dell’IBS non coincide con un’infezione ma con un ciclo di antibiotici. La diarrea è un effetto collaterale comune quando si assumono questi farmaci e in alcuni pazienti si protrae anche per molto tempo dopo che tutte le compresse sono state trangugiate. C’è tuttavia un paradosso, poiché gli antibiotici si utilizzano talvolta anche per curare l’IBS, allontanando almeno in apparenza il problema, anche per settimane e mesi di seguito. E quindi che cosa succede? Questi indizi – la gastroenterite e gli antibiotici – implicitamente suggeriscono un tema comune: e cioè che il disturbo a breve termine dei microbi intestinali possa avere effetti a lungo termine sulla composizione del microbiota. Immaginate una foresta vergine pluviale, verdeggiante e piena di vita: gli insetti dominano il sottobosco e i primati lanciano le loro grida dall’alto del fogliame. Adesso osservate i taglialegna che arrivano, distruggono con la motosega l’infrastruttura fronzuta della foresta, che sta lì da millenni, e radono al suolo il resto con i bulldozer. Immaginate anche un’infestazione di erbacce, forse trasportate sotto forma di semi sulle ruote delle scavatrici, che scacciano i nativi una volta che hanno invaso il territorio. La foresta a tempo debito ricrescerà, ma non sarà lo stesso incontaminato, intricato e intatto habitat che era prima. Ci sarà una minore diversità. Le specie più sensibili non sopravvivranno. Gli invasori prospereranno. Per il complesso ecosistema dell’intestino, su una scala un milione di volte più piccola, il principio si regge ancora. Le motoseghe degli antibiotici e i patogeni invasivi demoliscono l’intreccio di vita che ha creato un equilibrio mediante infinite e sottili interazioni. Se la distruzione è stata sufficientemente estesa, il sistema non riesce a riprendersi. Al contrario, collassa. Nella foresta pluviale, questo si traduce nella distruzione dell’habitat. Nel corpo provoca la disbiosi, ovvero un’anomalia nell’equilibrio del microbiota. Gli antibiotici e le infezioni non sono le uniche cause della disbiosi. Una dieta malsana o delle cure mediche sbagliate producono talvolta lo stesso effetto, mandando fuori strada il sano equilibrio delle specie di microbi e riducendone la diversità. È questa disbiosi, qualunque sia la forma, a trovarsi al cuore delle malattie del XXI secolo, sia di quelle che iniziano – e finiscono – nell’intestino, come l’IBS, sia quelle che colpiscono organi e sistemi di tutto il corpo. Nel caso dell’IBS l’impatto degli antibiotici e della gastroenterite fa ipotizzare che la diarrea e la stipsi croniche possano avere origine in una disbiosi intestinale. È possibile sapere quali specie vivano nell’intestino degli individui e in che quantità mediante il sequenziamento del DNA. Se si esegue questo esame
in individui con l’IBS e in individui sani si vedrà che la maggior parte degli ammalati ha un microbiota nettamente diverso da quello dei sani. In pochi casi, invece, il microbiota dei sani e degli ammalati sarà uguale. Questi pazienti tendono a riferire di essere depressi, per cui è ipotizzabile che per un piccolo sottoinsieme di individui affetti da IBS la causa sia un disturbo psicologico, laddove per altri l’origine è una disbiosi e lo stress rappresenta semplicemente un fattore peggiorativo. Tra coloro che soffrono di IBS con disbiosi, alcuni ricercatori hanno scoperto delle differenze nella composizione del microbiota a seconda del tipo di sindrome intestinale di cui soffrono. I pazienti che accusavano gonfiore e si sentivano subito sazi quando mangiavano avevano alti livelli di Cyanobacteria, mentre coloro che accusavano molti dolori avevano una quantità maggiore di Proteobacteria. I pazienti con stipsi presentavano nell’intestino un’intera comunità di diciassette gruppi batterici in numero maggiore del consueto. Altri studi hanno rivelato che non solo il microbiota è alterato, ma che è anche molto instabile, se paragonato a quello di individui sani, con differenti gruppi di batteri che aumentano e diminuiscono nel tempo. In retrospettiva si potrebbe presumere che la sindrome dell’intestino irritabile sia una conseguenza del fatto che l’intestino venga “irritato” da microbi sbagliati. Come estensione logica è molto plausibile: da un veloce accesso di diarrea provocata da batteri presenti nell’acqua inquinata o in un pollo poco cotto a una disfunzione intestinale cronica, e tutto perché i batteri intestinali hanno perso il loro equilibrio. Tuttavia, se i disturbi diarroici possono spesso essere imputati a un particolare batterio patogeno – per esempio il Campylobacter jejuni nel caso dell’intossicazione da cibo nel pollo crudo – non è possibile attribuire l’IBS a un’unica infezione, ma sembra riguardare in qualche modo il numero relativo di quelli che vengono abitualmente considerati “batteri amici”. Forse non ce n’è abbastanza di un tipo, o troppi di un altro. O magari una specie si comporta bene in circostanze normali ma diventa dannosa se le si dà l’occasione di assumere il controllo. Se la comunità intestinale che si trova nei pazienti affetti da IBS non ha un attore palesemente infettivo, come può la disbiosi provocare un tale caos nel funzionamento dell’intestino? I gruppi di batteri intestinali di un individuo con l’IBS sembrano presenti anche in una persona sana, perciò com’è possibile che la causa risieda in semplici mutamenti quantitativi? Al momento per gli scienziati questa si sta dimostrando una domanda difficile a cui rispondere, ma le ricerche hanno rivelato alcuni indizi interessanti. Anche se gli individui affetti da
IBS non presentano ulcere sulla superficie intestinale, come nel caso della malattia infiammatoria, il loro intestino è più infiammato di quanto dovrebbe. È come se il corpo stesse cercando di stanare i microbi dall’intestino aprendo le minuscole fessure tra le cellule che rivestono le pareti e permettendo all’acqua di entrarvi. È facile immaginare che un errato equilibrio microbico nell’intestino possa provocare l’IBS. Ma che cosa dire dei disturbi intestinali di altro genere, come l’aumento del girovita? Forse il microbiota potrebbe rappresentare l’anello mancante tra l’assunzione e il consumo di calorie? La Svezia è un paese che prende molto sul serio l’obesità. Anche se si classifica soltanto al novantesimo posto tra i paesi più grassi del pianeta, ed è uno dei più magri d’Europa, ha la percentuale più alta di interventi di bypass gastrico al mondo. La Svezia ha preso in considerazione l’idea di applicare una “tassa sul grasso” agli alimenti ipercalorici e i medici possono prescrivere dell’esercizio fisico ai pazienti sovrappeso. Infine, è la patria di un uomo che ha dato uno dei maggiori contributi per il progresso della scienza dell’obesità da quando è iniziata l’epidemia. Fredrick Bäckhed è docente di microbiologia all’università di Göteborg, anche se nel suo laboratorio non troverete piastre di Petri e microscopi ma decine di topi. Come gli esseri umani, i topi ospitano un’impressionante varietà di microbi, che vivono soprattutto nell’intestino. Ma i topi di Bäckhed sono diversi. Nati con il taglio cesareo e poi trasferiti in ambienti sterili, non hanno alcun microbo al loro interno. Ciascuno di essi è una sorta di foglio bianco, è “privo di germi”, il che significa che il gruppo di scienziati di Bäckhed può colonizzarli con qualsiasi microbo desideri. Nel 2004 lo studioso ha iniziato a collaborare con uno dei maggiori esperti di microbiota a livello mondiale, Jeffrey Gordon, docente della Washington University di St. Louis, nel Missouri. Gordon aveva notato che i suoi topi privi di germi erano particolarmente magri, perciò lui e Bäckhed si sono chiesti se questo dipendesse dalla mancanza di microbi nell’intestino. Insieme si sono resi conto che non erano ancora stati compiuti degli studi relativi all’azione dei microbi sul metabolismo di un animale. Perciò la prima domanda di Bäckhed è stata semplice: i microbi intestinali fanno ingrassare i topi? Per rispondere alla domanda, Bäckhed ha allevato alcuni topi privi di germi fino all’età adulta e poi ne ha cosparso il pelo con il contenuto del cieco – la prima parte dell’intestino crasso, simile a una camera – di topi nati normalmente.
Una volta che i topi privi di germi avevano leccato la materia del cieco dal pelo, il loro intestino ha accolto una serie di microbi, simile a quella di qualsiasi altro topo. Poi è accaduta una cosa straordinaria: sono aumentati di peso. Non un po’, ma addirittura un aumento del 60 per cento in quattordici giorni. E stavano mangiando meno. Sembrava che non fossero soltanto i microbi a trarre beneficio dall’aver preso dimora all’interno dell’intestino dei topi, ma gli animali stessi. Tutti sapevano che i microbi intestinali si cibavano della parte di dieta non digeribile, ma nessuno si era mai preoccupato di approfondire quanto questo secondo giro di digestione contribuisse all’assunzione di calorie. Grazie ai microbi che li aiutavano ad accedere a calorie extra della loro dieta, i topi potevano tirare avanti con meno cibo. Nell’ambito della nostra conoscenza della nutrizione, tutto ciò ha davvero rimescolato le carte. Se era veramente il microbiota a determinare quante calorie i topi riuscivano a estrarre dal cibo, aveva forse un ruolo anche nell’obesità? La microbiologa Ruth Ley – che faceva parte del gruppo di ricerca di Jeffrey Gordon – si è chiesta se i microbi degli animali obesi potessero essere diversi da quelli degli animali magri. Per scoprirlo si è servita di una razza di topi geneticamente obesi, conosciuti come ob/ob, che pesano il triplo di quelli normali. Questi topi obesi sembrano quasi sferici e non smettono mai di mangiare. Anche se sembrano una specie completamente diversa di topo, in realtà hanno un’unica mutazione nel DNA, che fa sì che mangino in continuazione e diventino incredibilmente grassi. La mutazione è nel gene che produce la leptina, un ormone che smorza l’appetito sia nei topi sia negli uomini, sempre che abbiano una riserva ragionevole di grasso immagazzinato. Senza la leptina a informare il cervello che sono ben nutriti, i topi ob/ob sono letteralmente insaziabili. Decodificando le sequenze del DNA del gene 16S rRNA, simile a un codice a barre, dei batteri che vivono nell’intestino dei topi ob/ob e scoprendo quali specie fossero presenti, Ley è riuscita a comparare il microbiota dei topi obesi e di quelli magri. In entrambi i casi erano dominanti due gruppi di batteri: i Bacteroidetes e i Firmicutes. Nei topi obesi però si trovava la metà dei Bacteroidetes che nei topi magri, compensati dal numero dei Firmicutes. Ley, eccitata all’ipotesi che questa differenza nel rapporto tra Firmicutes e Bacteroidetes potesse dimostrarsi fondamentale per l’obesità, ha analizzato il microbiota di esseri umani magri e obesi e ha scoperto che il rapporto era il medesimo: gli obesi avevano molti più Firmicutes e i magri una proporzione
maggiore di Bacteroidetes. Sembrava quasi troppo semplice: l’obesità e la composizione del microbiota erano davvero collegate in maniera tanto diretta? E cosa più importante: nei topi e negli esseri umani obesi erano i microbi a provocare l’obesità, oppure ne erano una semplice conseguenza? È toccato a un terzo membro del gruppo di ricerca di Gordon scoprirlo, il dottorando Peter Turnbaugh, il quale ha utilizzato lo stesso tipo di topi geneticamente obesi di Ley, ma ha trasferito i loro microbi in topi privi di germi. Al contempo, ha trasferito i microbi di topi normali, snelli, in un secondo gruppo di topi privi di germi. A entrambi i gruppi è stata somministrata la stessa quantità di cibo, ma quattordici giorni dopo i topi colonizzati con il microbiota “obeso” erano diventati grassi e quelli con il microbiota “snello” invece no. L’esperimento di Turnbaugh ha dimostrato che i microbi dell’intestino non solo erano in grado di far ingrassare i topi, ma potevano anche essere trasferiti in individui diversi. Le implicazioni vanno ben oltre lo spostamento dei batteri da un topo obeso a uno magro. Potremmo fare l’inverso: prendere i microbi di individui magri e trasferirli negli obesi, ottenendo una perdita di peso senza bisogno di alcuna dieta. Il potenziale terapeutico – ed economico – è stato ben compreso da Turnbaugh e dai suoi collaboratori, che hanno brevettato l’idea di alterare il microbiota, per farne una terapia contro l’obesità. Prima di esaltarci troppo riguardo al potenziale di una cura per l’obesità, è necessario sapere come funziona. Che cosa stanno facendo questi microbi che ci fanno ingrassare? Proprio come in precedenza, il microbiota dei topi obesi di Turnbaugh conteneva più Firmicutes e meno Bacteroidetes e sembrava che permettesse in qualche modo ai topi di trarre più energia dal proprio cibo. Questo dettaglio mina alla base uno dei principi fondamentali dell’equazione dell’obesità. Contare le “calorie assunte” non è altrettanto semplice che controllare che cosa mangia un individuo. Più precisamente si tratta del contenuto energetico di ciò che una persona assorbe. Turnbaugh ha calcolato che i topi con il microbiota obeso prendevano dal proprio cibo il 2 per cento di calorie in più. Per ogni 100 calorie che estraevano i topi magri, quelli obesi ne spremevano 102. Non molto, forse, ma nel corso di un anno o più, acquista un senso. Prendiamo una donna di altezza media, 162 centimetri, che pesa 62 chili e ha un indice di massa corporea (IMC: peso kg/altezza m2) di 23,5, che assume 2000 calorie al giorno. Con un microbiota “obeso”, l’estrazione del 2 per cento di calorie extra provoca l’aggiunta di 40 calorie quotidiane. Senza consumare altra energia, quelle ulteriori 40 calorie dovrebbero tramutarsi, almeno in teoria, in un
aumento di peso di 1,9 chili nel giro di un anno. In dieci anni sono 19 chili, che portano il suo peso a 81 chili e il suo IMC a quello di un’obesa, il 30,7. E tutto soltanto per un 2 per cento di calorie extra estratte dai batteri del suo intestino. L’esperimento di Turnbaugh ha dato il via a una rivoluzione nelle nostre conoscenze della nutrizione umana. Il contenuto calorico degli alimenti viene di norma calcolato utilizzando delle tavole di conversione standard, perciò si ritiene che ogni grammo di carboidrato apporti 4 calorie, ogni grammo di grasso 9 calorie e così via. Queste tavole presentano le calorie di un alimento come un valore fisso, perché ci dicono “Questo yogurt contiene 137 calorie” e “Una fetta di questo pane contiene 69 calorie”. Il lavoro di Peter Turnbaugh lascia intendere invece che la faccenda non sia così lineare. Quello yogurt contiene in effetti 137 calorie per una persona di peso normale, ma potrebbe contenerne anche 140 per un individuo sovrappeso e con una diversa serie di microbi intestinali. Anche qui, è una piccola differenza, ma ha un senso. Se i microbi sono al vostro servizio per estrarre energia dal cibo, è la vostra particolare comunità di microbi a determinare quante calorie ottenete da quello che mangiate, non una tavola di conversione standard. Per coloro che hanno seguito una dieta senza successo, questa potrebbe essere una parte della spiegazione. Una dieta che controlla accuratamente le calorie e che ne determina un calo complessivo e quotidiano per un determinato periodo dovrebbe portare a una perdita di peso. Ma se le “calorie assunte” sono sottostimate, potrebbe significare che il peso non cambia, o addirittura aumenta. Questa idea sembra confermata da un altro esperimento, condotto da Reiner Jumpertz nel 2011 al National Institute of Health di Phoenix, in Arizona. Jumpertz ha somministrato a un gruppo di volontari una dieta a calorie fisse e ha semplicemente misurato quelle che rimanevano nelle feci dopo la digestione. I volontari magri sottoposti a una dieta ipercalorica hanno riscontrato un incremento nella quantità di Firmicutes rispetto ai Bacteroidetes. A questo mutamento dei microbi intestinali si è accompagnato un calo del numero di calorie espulse con le feci. Dopo che ne era stato mutato l’equilibrio, i batteri estraevano dalla stessa dieta 150 calorie in più al giorno. La particolare serie di microbi che ospitiamo determina la nostra capacità di estrarre energia dal cibo. Dopo che l’intestino tenue ha digerito e assorbito tutto ciò che riesce da quello che abbiamo mangiato, i resti si spostano nell’intestino crasso, dove vive la maggior parte dei nostri microbi. Qui essi lavorano come operai di una fabbrica, ciascuno scinde le molecole preferite e ne assorbe ciò che riesce. Il resto viene ridotto in una forma abbastanza semplice da essere assorbita
attraverso il rivestimento dell’intestino crasso. Un ceppo di batteri possiede i geni necessari a scindere le molecole degli amminoacidi che provengono dalla carne. Un altro ceppo è forse più adatto a scindere le lunghe catene di molecole dei carboidrati dei vegetali a foglia. E un terzo può essere più efficace a raccogliere le molecole dello zucchero che non erano state assorbite nell’intestino tenue. La dieta di ciascuno di noi ha un effetto sui ceppi che ospitiamo. Così, per esempio, un vegetariano potrebbe non avere molti individui del ceppo degli amminoacidi, che non riescono a proliferare senza un costante apporto di carne. Bäckhed ipotizza che ciò che riusciamo a estrarre dal cibo dipenda dalle modalità secondo cui è stata creata la nostra fabbrica di microbi. Se il vegetariano abbandonasse le proprie posizioni e si concedesse un arrosto di maiale, probabilmente non avrebbe abbastanza microbi amanti degli amminoacidi per trarne il massimo. Un regolare carnivoro invece avrebbe un apprezzabile insieme di microbi adatti ed estrarrebbe più calorie dall’arrosto di maiale rispetto al vegetariano. E così via per gli altri nutrienti. Una persona che mangia una quantità esigua di grassi ha pochi microbi specializzati in grassi e un’occasionale frittella o barretta al cioccolato attraverserebbe il suo intestino crasso senza essere efficacemente spogliata del restante contenuto calorico. Un individuo che quotidianamente fa una merenda abbondante all’ora del tè, invece, avrebbe un’ampia popolazione di batteri che si ingozzano di grasso e che non vedono l’ora di spolpare fino all’osso l’ennesima frittella, rifornendo il nostro mangiatore di merendine della sua dose piena di calorie. Anche se il numero di calorie che assorbiamo dal cibo è indubbiamente importante, quello che conta non è soltanto quanta energia i microbi estraggano per noi, ma che cosa fanno fare al corpo con quell’energia. Utilizziamo immediatamente la potenza dei nostri muscoli e dei nostri organi? Oppure la immagazziniamo per usarla in seguito, in caso non ci sia niente da mangiare? Che cosa accade dipende dai nostri geni e tuttavia ciò che conta non sono le varianti genetiche derivate dai nostri genitori, ma quali geni siano attivi e quali no, quali siano connessi e quali no. È il nostro corpo ad attivare o disattivare i geni, a connetterli o a disconnetterli, utilizzando svariati messaggeri chimici. Questo controllo significa che le cellule degli occhi eseguono operazioni diverse rispetto a quelle del fegato, per esempio. O che le cellule del cervello possono funzionare in maniera diversa di giorno, mentre lavoriamo, e nel cuore della notte, quando siamo profondamente addormentati. Ma il corpo non è l’unico padrone della nostra
produzione genetica. Anche i microbi hanno un ruolo attivo, poiché controllano alcuni geni per soddisfare le proprie necessità. I membri del microbiota sono in grado di aumentare la produzione mediante geni che stimolano lo stoccaggio dell’energia nelle nostre cellule adipose. E perché no? Trovarsi in un essere umano che sopravvive all’inverno proprio come fanno gli umani per il microbiota è un vantaggio. Un “microbiota obeso” attiva questi geni in misura anche maggiore, obbligando il corpo a conservare ulteriore energia estratta dal cibo sotto forma di grasso. Per quanto possa essere irritante per coloro che lottano per mantenere il peso che vorrebbero, questo espediente del controllo genetico dovrebbe rappresentare un fatto positivo, perché ci aiuta a ricavare il massimo dal cibo e a immagazzinare energia per i momenti difficili. Nel passato, in cui si avvicendavano abbondanza e carestia, avere un aiuto per attraversare i periodi di magra poteva anche salvarvi la vita. L’apporto di calorie, allora, è una faccenda ben più profonda di quel che vi mettete in bocca. È ciò che il vostro intestino assorbe, compreso quello che vi procurano i microbi. Anche il consumo delle calorie è un fatto più complicato rispetto alla quantità di energia che usate durante le attività fisiche, perché ha a che fare anche con le azioni che il vostro corpo decide di compiere con quell’energia: se metterla da parte per i momenti difficili o bruciarla immediatamente. Questi meccanismi rivelano quanto un individuo possa assorbire e immagazzinare rispetto a un altro, a seconda dei microbi che ospita, ma sorge un’altra domanda: perché le persone che assorbono più energia e immagazzinano più grasso non si sentono semplicemente sazie prima delle altre? Perché, se hanno assorbito un sacco di calorie e immagazzinato un sacco di grasso, certe persone sono spinte a continuare e a mangiare? L’appetito è governato da molteplici fattori, dall’immediata sensazione fisica di pienezza, agli ormoni che comunicano al cervello quanta energia viene immagazzinata sotto forma di grasso. La sostanza chimica che avevo citato prima e di cui i topi geneticamente obesi erano privi – la leptina – è uno di quegli ormoni e viene prodotta direttamente dai tessuti adiposi; perciò più cellule adipose abbiamo, più leptina viene rilasciata nel sangue. Si tratta di un sistema fantastico, perché una volta accumulata una quantità salutare di grasso, la leptina comunica al cervello che siamo sazi e inibisce l’appetito. E dunque perché alcuni individui non perdono interesse per il cibo una volta che iniziano a mettere su peso? Quando la leptina è stata scoperta, negli anni Novanta, grazie ai topi ob/ob, geneticamente incapaci di produrre autonomamente questo ormone, si è scatenato un certo entusiasmo all’idea di
usarla per curare pazienti obesi. Iniettare leptina nei topi ob/ob aveva provocato una perdita di peso molto veloce: mangiavano meno, si muovevano di più ed erano calati di quasi la metà del peso corporeo nel giro di un mese. Anche la somministrazione di leptina ai topi normali, cioè snelli, li aveva fatti dimagrire. Se i topi potevano essere curati in quel modo, lo stesso ormone sarebbe stato in grado di curare anche l’obesità umana? La risposta, come appare ovvio dalla prosecuzione dell’epidemia dell’obesità, è stata negativa. Somministrare iniezioni di leptina a individui obesi non ha avuto pressoché alcun effetto sul loro peso o sul loro appetito. Sebbene deludente, questo fallimento ha gettato altra luce sulla vera natura dell’obesità. A differenza dei topi ob/ob, non è una quantità troppo bassa di leptina a far ingrassare la gente. In realtà gli individui sovrappeso presentano livelli di leptina particolarmente elevati, perché l’ormone viene prodotto dal tessuto adiposo in eccesso. Il problema è che il loro cervello è diventato resistente ai suoi effetti. Se una persona magra acquisisce un po’ di peso, produce un eccesso di leptina e il suo appetito diminuisce. Il cervello di una persona obesa, invece, non riesce a riconoscere l’enorme quantità di leptina prodotta, perciò l’individuo non si sente mai sazio. Questa resistenza alla leptina suggerisce un aspetto importante. Nell’obesità i normali meccanismi di regolazione dell’appetito e immagazzinamento dell’energia sono fondamentalmente cambiati. Il grasso in eccesso non è soltanto un posto dove accumulare calorie non bruciate, ma anche un centro di controllo per l’impiego dell’energia, un po’ come un termostato. Quando le cellule adipose del corpo umano sono adeguatamente piene, il termostato si spegne, riducendo l’appetito e impedendo che venga immagazzinato altro cibo. Nel momento in cui le riserve di grasso diminuiscono, il termostato si riaccende, l’appetito aumenta e si conserva più cibo sotto forma di grasso. Come accade per i beccafichi, l’aumento di peso non è soltanto dovuto al fatto che mangiano di più, ma a mutamenti biochimici nel modo in cui il corpo gestisce l’energia. Questo “effetto beccafico” mina alla radice il presupposto fondamentale secondo cui la corrispondenza tra quello che mangiamo e quanto ci muoviamo è tutto ciò che serve per mantenere stabile il peso. Se questa idea è sbagliata, forse l’obesità non è una semplice “patologia legata allo stile di vita”, originata da golosità e pigrizia, ma una malattia con una causa organica al di fuori del nostro controllo. Se questa sembra un’ipotesi troppo radicale, considerate un fatto: soltanto pochi decenni fa, “si sapeva” che le ulcere allo stomaco erano provocate da stress e caffeina. Proprio come l’obesità, si riteneva che fossero patologie legate
allo stile di vita: cambiate le vostre abitudini e il problema sparirà. La soluzione era semplice: rilassatevi e bevete acqua. Ma questa terapia non funzionava, i pazienti tornavano più volte con brucianti e acide perforazioni dello stomaco. Si riteneva che la causa della mancata guarigione fosse semplice: probabilmente questi pazienti non si erano attenuti al programma terapeutico, e avevano lasciato che lo stress impedisse loro di stare meglio. Poi, nel 1982, due scienziati australiani, Robin Warren e Barry Marshall, hanno scoperto la verità. A provocare l’ulcera e la connessa gastrite era un batterio, l’Helicobacter pylori, che talvolta colonizzava lo stomaco. Lo stress e la caffeina contribuivano solo ad aumentare il dolore. L’opposizione della comunità scientifica all’idea di Warren e Marshall è stata tale che quest’ultimo ha ingerito una soluzione di Helicobacter pylori, provocandosi una gastrite, per dimostrare il legame. La comunità scientifica ci ha messo quindici anni per accettare questa ipotesi, ma adesso gli antibiotici rappresentano un metodo economico ed efficace per curare le ulcere in via definitiva. Nel 2005 Marshall e Warren hanno vinto il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina grazie alla scoperta che le ulcere dello stomaco non si dovevano a un errato stile di vita, come dettava il dogma, ma erano il risultato di un’infezione. Allo stesso modo, con il suo virus, Nikhil Dhurandhar metteva in dubbio il dogma secondo cui l’obesità era dovuta a uno stile di vita dannoso, ovvero di eccessi. Per esaminare la possibilità che fosse un’infezione virale a provocare l’aumento di peso negli esseri umani, il medico doveva passare dalla pratica terapeutica alla ricerca scientifica che ne era alla base. Dhurandhar ha pertanto deciso di trasferirsi negli Stati Uniti insieme alla famiglia, nella speranza di ottenere i fondi per la ricerca di cui aveva bisogno per trovare risposte alle sue domande. Era un atto di fede, a fronte della rigida opposizione da parte della comunità scientifica. Ma alla fine avrebbe dato i suoi frutti. Due anni dopo essersi trasferito in America, Dhurandhar non era ancora riuscito a convincere nessuno a sostenere la sua ricerca sul virus dei polli. Era sul punto di arrendersi e di tornare in India quando lo studioso della nutrizione Richard Atkinson, della University of Wisconsin, lo ha preso a lavorare con sé. Dhurandhar poteva finalmente iniziare i suoi esperimenti. Ma c’era un ostacolo significativo: le autorità americane gli negavano il permesso di importare negli Stati Uniti il virus dei polli: dopotutto poteva provocare obesità. Dhurandhar e Atkinson hanno pertanto escogitato un altro piano. Avrebbero studiato un virus diverso – questa volta comune tra gli americani – nella speranza che anch’esso fosse responsabile dell’aumento di peso. Basandosi
sull’intuizione che fosse simile a quello dei polli, ne hanno selezionato uno diverso, che provocava infezioni respiratorie, da un catalogo specializzato, e lo hanno ordinato per posta. Il suo nome era Adenovirus 36, o Ad-36. Ancora una volta Dhurandhar ha iniziato i suoi esperimenti su un gruppo di polli. Ha iniettato nella metà dei volatili l’Ad-36 e nell’altra metà un adenovirus diverso, riscontrato più comunemente negli uccelli. Poi lui e Atkinson hanno aspettato. L’Ad-36 avrebbe fatto ingrassare i polli, proprio come era successo con il virus indiano? Se fosse accaduto, per Dhurandhar sarebbe stata una grande conferma. Il medico avrebbe ipotizzato che mangiare troppo e fare poco esercizio fisico non erano le uniche cause dell’obesità umana; che l’epidemia poteva avere un’origine diversa; che l’obesità forse era una malattia infettiva, non una semplice mancanza di forza di volontà. E, sebbene più discutibile, avrebbe potuto insinuare che l’obesità era contagiosa. Se si osservano le rappresentazioni grafiche sulla diffusione dell’epidemia di obesità negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni, certamente se ne ricava l’impressione che si tratti di una malattia infettiva che si diffonde tra la popolazione. L’epidemia inizia negli stati sudorientali e velocemente incomincia a diffondersi. Mentre sempre più individui diventano sovrappeso nell’epicentro della malattia, questa si spinge più a nord e a ovest, colpendo fasce sempre più ampie del paese. Nelle città più importanti affiorano dei punti caldi, che fanno esplodere bolle di obesità che si espandono nel tempo. Anche se una manciata di studi scientifici hanno osservato quanto questo schema sia simile a una malattia infettiva, la diffusione dell’obesità è sempre stata ascritta a un “ambiente obesogeno”: più fast food e supermercati con cibo ipercalo-rico, e uno stile di vita pressoché privo di attività fisica. Uno studio sulla popolazione ha rivelato che l’obesità si diffonde in maniera simile alle malattie infettive persino a livello individuale. Analizzando il peso e i legami sociali di oltre 12.000 individui in trentadue anni, i ricercatori hanno scoperto che la probabilità di un soggetto di diventare obeso è strettamente legata all’aumento di peso dei propri cari. Per esempio, se il coniuge diventa obeso, il rischio di quel soggetto di diventarlo a sua volta aumenta del 37 per cento. È vero che il primo pensiero è: probabilmente mangiano le stesse cose. Ma lo stesso vale per i fratelli adulti, la maggior parte dei quali non vive insieme. Ancora più rilevante, se l’amico di un soggetto diventa obeso, il rischio di quel soggetto di seguirlo balza al 171 per cento. Non sembra che il fenomeno si debba al fatto che scegliamo amici di un peso simile: questa gente si
conosceva prima di ingrassare. I vicini di casa che non si consideravano amici erano esenti dal rischio, per cui sembra meno probabile che l’apertura di un fast food o la chiusura di una palestra nei dintorni favorisca questo aumento di peso tra gruppi sociali collegati. Naturalmente il fenomeno può avere molte ragioni sociali: un cambiamento condiviso nell’atteggiamento verso l’obesità, un comune consumo di cibo malsano, per esempio; ma tra le possibili spiegazioni vi è un altro elemento, che dà da pensare, ovvero un passaggio di microbi, virale o meno che sia. Anche se il virus di Dhurandhar non è il principale colpevole, ve ne sono molti altri da prendere in considerazione. Forse la condivisione di membri “obesogeni” del microbiota all’interno delle reti sociali contribuisce all’ambiente obesogeno che altri ricercatori ipotizzano e facilita la diffusione dell’obesità. È più probabile che degli amici trascorrano del tempo nelle reciproche case, condividendo superfici, cibo, bagni, e dunque microbi. Scambiarsi questi microbi consente forse all’obesità di diffondersi un po’ più facilmente. Era giunto l’ultimo giorno dell’esperimento di Dhurandhar con i polli. Dal suo punto di vista, i risultati giustificavano i sacrifici compiuti insieme alla sua famiglia, ovvero lasciare in India la propria vita precedente e le persone che amava. Proprio com’era accaduto con l’altro virus, l’Ad-36 aveva fatto ingrassare i polli infetti, mentre quelli a cui era stato somministrato il virus diverso erano rimasti magri. Dhurandhar alla fine poteva pubblicare le sue scoperte sulla letteratura scientifica, ma molte altre domande rimanevano sul tappeto. La più importante era: l’Ad-36 funzionava allo stesso modo sugli esseri umani? Un virus poteva far ingrassare la gente? Dhurandhar e Atkinson sapevano di non poter infettare intenzionalmente degli esseri umani con il virus: se avesse fatto effettivamente ingrassare i soggetti, non avrebbero avuto modo di curarli. Invece, dovevano ripiegare sul miglior espediente, e testare il virus su un’altra specie di primati: una piccola scimmia conosciuta come uistitì. Come era accaduto con i polli, le scimmie infettate sono aumentate di peso. Dhurandhar riteneva di essere sulla buona strada. Per capire se il virus fosse almeno legato all’obesità negli esseri umani, ha deciso di analizzare il sangue di centinaia di volontari, alla ricerca degli anticorpi dell’Ad-36: il 30 per cento dei volontari obesi aveva indubbiamente contratto il virus, contro l’11 per cento dei volontari magri. L’Ad-36 è un esempio emblematico, quando si pensa all’effetto beccafico. Poiché il virus non ha indotto i polli a mangiare di più né a farli muovere meno, li ha spinti a immagazzinare più energia dal cibo sotto forma di grasso. Come i
batteri che vivono in una persona obesa, l’Ad-36 si intromette nel normale sistema di stoccaggio dell’energia. Non si sa con precisione quanto questo virus abbia contribuito all’epidemia di obesità ma, come la faccenda dei beccafichi, ci rivela una cosa importante: l’obesità non sempre è una patologia causata da un certo stile di vita, in cui si mangia troppo e ci si muove troppo poco, ma è piuttosto una disfunzione del sistema di stoccaggio dell’energia corporea. In teoria è possibile calcolare con precisione quanto peso una persona dovrebbe acquisire da un certo numero di calorie in eccesso nella propria dieta, come ho fatto qualche pagina più indietro. Per ogni 3500 calorie che assumiamo oltre i nostri bisogni energetici, dovremmo aumentare di mezzo chilo in grasso. Possiamo mangiare quell’eccesso in un solo giorno, o nel corso di un anno intero, ma il risultato dovrebbe essere il medesimo: ingrassiamo di mezzo chilo quel giorno, o nel corso dell’anno. In pratica, però, non funziona così. Persino nei primi studi sull’aumento di peso i conti non tornavano. Nel corso di un esperimento i ricercatori hanno nutrito dodici paia di gemelli identici con 1000 calorie in eccesso al giorno, sei giorni a settimana, per 100 giorni. In totale, ogni individuo ha mangiato 84.000 calorie in più di quanto il loro corpo richiedesse. In teoria, ciascun soggetto avrebbe dovuto prendere 11 chili. In realtà, non è andata proprio così. Innanzitutto, la quantità media di peso che gli individui hanno preso era decisamente minore di quanto sarebbe dovuto accadere secondo il calcolo matematico: ovvero 8 chili. Ma le differenze individuali tradiscono i veri punti deboli dell’applicazione di una regola matematica all’aumento o alla diminuzione di peso. Il soggetto che è ingrassato di meno è arrivato a 4 chili, poco più di un terzo di quanto previsto. E il gemello che ne ha presi di più ha messo su 13 chili, più di quanto ci si aspettasse. Questi valori non sono “più o meno 11 chili”, ma sono così distanti dal bersaglio che prenderlo come riferimento sarebbe inutile. Il semplice fatto che l’aumento di peso possa differire tanto spiccatamente da quello previsto valutando l’assunzione e il consumo di calorie dimostra che l’effetto beccafico non si limita agli uccelli migratori e ai mammiferi che vanno in letargo. In definitiva, non è possibile invali-dare le leggi della termodinamica: l’energia assunta deve essere pari a quella consumata affinché il peso rimanga stabile. Ma il punto cruciale è questo: i meccanismi corporei che vanno oltre il semplice rapporto tra quanto mangiamo e quanto ci muoviamo sono responsabili della regolazione sia delle calorie che assorbiamo sia, in misura anche maggiore, di quelle che consumiamo oppure immagazziniamo.
L’Ad-36 offre un buon esempio del modo in cui può funzionare l’intera faccenda. Il tessuto adiposo che si trova sotto l’epidermide e intorno agli organi è composto da cellule vuote, in attesa di essere riempite di grasso quando viene il momento di immagazzinare energia. Nei polli infettati con l’Ad-36, il virus obbliga queste cellule a riempirsi anche quando non c’è molta energia in eccesso da immagazzinare. I polli non dovevano mangiare di più per ingrassare: il loro corpo si è limitato a stimolare lo stoccaggio di energia invece che il suo utilizzo. Nell’obesità umana avviene dunque qualcosa del genere? Gli obesi immagazzinano il grasso in maniera diversa dai magri? Patrice Cani, professore di Nutrizione e Metabolismo alla Université catholique de Louvain in Belgio, sapeva non solo che gli obesi erano resistenti agli effetti della leptina, l’ormone della sazietà, ma che presentavano segnali patologici all’interno del tessuto adiposo. A differenza dei magri, le loro cellule adipose erano invase da cellule immunitarie, come se stessero combattendo un’infezione. Cani sapeva anche che quando i magri immagazzinavano energia, producevano un numero maggiore di cellule adipose, riempiendone ciascuna con una piccola quantità di grasso. Negli obesi, al contrario, non avveniva questo sano processo di accumulo dell’energia. Invece di produrre più cellule adipose, ne producevano di più grandi e le riempivano con quantità sempre maggiori di grasso. Secondo Cani, l’infiammazione e la mancanza di nuove cellule adipose erano il segno che i soggetti sovrappeso avevano oltrepassato il processo sano di stoccaggio dell’energia ed erano entrati in uno stato patologico. Non si trattava più di quell’aumento di peso che avrebbe aiutato gli individui a sopravvivere in tempi difficili. Secondo lui era, di per sé, una sorta di malattia. Cani sospettava che fosse il microbiota “obeso” a provocare l’infiammazione e il cambiamento nell’accumulo del grasso. Sapeva che alcuni batteri che vivono nell’intestino erano rivestiti con una molecola chiamata lipopolisaccaride, o LPS, che se entrava nel sangue agiva come una tossina. Cani si è reso conto che senz’ombra di dubbio gli obesi avevano alti livelli di LPS nel sangue: era questa molecola a scatenare l’infiammazione nelle cellule adipose. Ancora più significativo, Cani ha scoperto che l’LPS impediva la formazione di nuove cellule adipose, perciò quelle esistenti venivano riempite troppo. Si trattava di un grande passo avanti. Il grasso degli obesi non era costituito semplicemente da uno strato dopo l’altro di energia immagazzinata, era tessuto adiposo che aveva funzionato male dal punto di vista biochimico e sembrava che di tale malfunzionamento fosse responsabile l’LPS. Ma come faceva questa molecola a passare dall’intestino al sangue?
Tra i microbi presenti in quantità diverse nell’intestino degli obesi e dei magri c’è una specie chiamata Akkermansia muciniphila. Questo batterio è chiaramente legato al peso: meno Akkermansia un individuo possiede, più alto è il suo IMC. Circa il 4 per cento della comunità microbica degli individui magri appartiene a questa specie, mentre negli obesi è quasi assente. Vive, come suggerisce il nome, sulla superficie dello spesso strato di muco che riveste la parete interna dell’intestino (muciniphila significa “amante del muco”). Tale muco forma una barriera che impedisce al microbiota di passare nel sangue, dove potrebbe fare danni. La quantità di Akkermansia che gli individui possiedono non è legata soltanto al loro IMC: più è bassa la quota di questo batterio, più sottile lo strato di muco, e più LPS sono presenti nel sangue (Figura 2.1). Potrebbe sembrare che l’Akkermansia sia comune nell’intestino dei magri perché trae benefici da quello spesso strato di muco, ma in realtà il suo compito è convincere le cellule del rivestimento intestinale a produrne di più. L’Akkermansia invia una richiesta chimica che fa attivare i geni umani produttori di muco, provvedendo in tal modo a una casa per sé e impedendo all’LPS di passare nel sangue.
Figura 2.1 – Il rivestimento interno dell’intestino.
Se questo batterio era in grado di incrementare lo spessore dello strato di muco, rifletteva Cani, forse avrebbe potuto anche ridurre i livelli di LPS e impedire l’aumento di peso. Lo studioso ha pertanto provato a integrare la dieta
di un gruppo di topi con l’Akkermansia e, come c’era da aspettarsi, il loro livello di LPS è sceso, il tessuto adiposo ha iniziato a produrre nuove cellule sane e, cosa più importante, hanno perso peso. I topi a cui era stata somministrata l’Akkermansia sono diventati anche più sensibili alla leptina, pertanto il loro appetito è diminuito. Il peso che avevano preso non era dovuto al fatto che mangiavano troppo: era invece l’LPS a costringerli a immagazzinare energia invece che a consumarla. Come sospetta Dhuandhar, il cambiamento nello stoccaggio di energia, simile a quello del beccafico, lascia intendere che non sempre gli individui sono obesi perché mangiano troppo. Talvolta – forse più spesso – mangiano troppo perché sono ammalati. La scoperta di Cani secondo cui l’Akkermansia protegge i topi dall’obesità potrebbe dimostrarsi rivoluzionaria. Lo scienziato sta progettando di testarne gli effetti su individui sovrappeso nella speranza che offra un aiuto per combattere l’aumento di peso. In definitiva, dobbiamo ancora capire che cosa provochi la diminuzione nella quantità di Akkermansia negli individui sovrappeso o obesi. Ma ci sono alcuni indizi: se rendiamo obesi i topi sottoponendoli a una dieta ad alto contenuto di grassi, i livelli di Akkermansia scendono, ma se integriamo tale dieta con delle fibre, il numero dei batteri ritorna a livelli salutari. Si prevede che nel 2030 l’86 per cento della popolazione statunitense sarà sovrappeso oppure obesa e nel 2048 lo saranno tutti. Abbiamo trascorso cinquant’anni a tentare di affrontare l’obesità spingendo le persone a mangiare di meno e a muoversi di più. Non ha funzionato. Altri milioni di adulti e di bambini diventano sovrappeso oppure obesi ogni anno, malgrado le ingenti somme di denaro che spendiamo per cercare di rimanere magri o di perdere peso. Tuttavia continuiamo ad affrontare la cura dell’obesità come abbiamo fatto per mezzo secolo, con preziosi, piccoli progressi. Attualmente, l’unica terapia che presenta un’efficacia costante contro l’obesità è il bypass gastrico. Si ritiene che i pazienti che hanno cercato invano di perdere peso mediante la dieta debbano farsi ridurre lo stomaco alle dimensioni di un uovo, affinché non possano mangiare troppo. L’assunto è che non riescano ad attenersi a una dieta, perciò debbano intraprendere un’azione drastica per mantenere basso l’apporto calorico. Nel giro di poche settimane dall’intervento, i pazienti perdono parecchi chili. Si tratta di un’operazione che dovrebbe funzionare rimuovendo la necessità di avere forza di volontà, poiché impedisce fisicamente al soggetto di mangiare più di una porzione da bambino a ogni pasto. Ma sembra che ci sia dell’altro, oltre al controllo delle porzioni. Dopo una settimana dall’intervento, il
microbiota intestinale non sembra più quello di un obeso e inizia ad assomigliare a quello di una persona magra. Il rapporto tra Firmicutes e Bacteroidotes si inverte e i buoni vecchi Akkermansia diventano circa 10.000 volte più comuni. Se si effettua un piccolo intervento di bypass gastrico sui topi, si osservano gli stessi cambiamenti nella composizione del microbiota intestinale. Le simulazioni dell’intervento, invece, in cui vengono fatte delle incisioni ma lo stomaco viene ricucito al proprio posto non sortiscono lo stesso effetto. Anche trasferire il microbiota di un topo che ha subito un bypass gastrico in un topo privo di germi provoca un’improvvisa perdita di peso. Sembra che sia il re-orientamento di nutrienti, enzimi e ormoni a provocare il mutamento delle specie che porta alla perdita di peso. A quanto pare non sono le minuscole porzioni a cui i pazienti sono costretti che li aiutano a perdere peso, ma il cambiamento nella regolazione dell’energia dovuto al loro nuovo microbiota “magro”. Venticinque anni dopo l’insorgenza del virus dei polli a Mumbai, Nikhil Dhurandhar è stato eletto presidente della Obesity Society negli Stati Uniti. Le sue ricerche sulle cause virali dell’obesità sono state accettate in via definitiva dalla comunità scientifica e lui continua la ricerca sulle cause fondamentali dell’obesità, oltre al rapporto tra assunzione e consumo di calorie che osserviamo sulla superficie dell’epidemia. I microbi, virali e batterici, ci rivelano che l’obesità non è dovuta soltanto al fatto che mangiamo troppo e ci muoviamo troppo poco. L’energia che ciascuno di noi trae dal proprio cibo e il modo in cui viene utilizzata e immagazzinata sono legati in maniera complessa alla particolare comunità di microbi che ospitiamo. Se davvero vogliamo andare al cuore dell’epidemia di obesità, dobbiamo analizzare il microbiota e domandarci che cosa stiamo facendo per alterare la dinamica che ha stabilito con il corpo umano nella sua forma più magra e sana.
3. Il controllo della mente
Di tanto in tanto, nelle zone paludose avvelenate di pesticidi degli stati occidentali del Nord America, appaiono rane e rospi dalle grottesche malformazioni. Molti hanno fino a otto arti posteriori che spuntano dai fianchi, ad altri invece mancano del tutto le zampe. Faticano a saltare e a nuotare e spesso vengono catturati dagli uccelli prima di diventare adulti. Questo abnormale sviluppo non è dovuto a una mutazione genetica, ma è opera di un microbo, il verme parassita trematode. La sua larva, espulsa dall’ospite precedente, la chiocciola segmentina, scova le rane quando sono ancora girini, si infila nelle gemme degli arti e forma delle cisti, che disturbano il normale sviluppo delle zampe, provocando talvolta una prima duplicazione, e poi una seconda. Per le rane questa deformità è spesso fatale, perché faticano a sfuggire ai famelici aironi in cerca di una facile preda. Per i trematodi quegli arti in eccesso contribuiscono a proseguire il loro ciclo di vita. Un airone può facilmente catturare le rane e assimilarle insieme ai trematodi che le abitano, divenendo l’inconsapevole ospite successivo. Ben presto ritornano nell’acqua insieme alle feci degli aironi, dove ricominciano il ciclo nella chiocciola. Sembra una strategia piuttosto saggia, anche se l’intelletto non ha alcun ruolo nel viaggio dei trematodi da un ospite all’altro. È la selezione naturale che causa alle rane la propria disgrazia, poiché i parassiti che le rendono vulnerabili ai predatori sono coloro che sopravvivono e trasmettono i geni che deformano gli arti, perpetuando il ciclo di vita. Alterare il corpo di chi vi ospita è un modo per migliorare la propria capacità evolutiva – le probabilità di riproduzione – ma ce n’è un altro: alterare il comportamento di chi vi ospita. Se girate le foglie che si trovano più o meno all’altezza della vostra testa nelle foreste pluviali di Papua Nuova Guinea scorgerete talvolta cumuli di formiche morte, dalle mandibole ancora serrate sulla vena centrale, a tenere fermo il corpo senza vita. Da ogni formica spunta una sorta di lungo gambo, piegato sotto il peso del suo sacco pieno di spore. Questi gambi sono funghi
Cordyceps, che hanno ucciso le formiche e si stanno nutrendo del loro corpo, rilasciando spore che cadono sul terreno della foresta. Crescere all’interno delle formiche è un modo intelligente di acquisire l’energia necessaria per riprodursi, ma le formiche servono ai funghi anche per un altro scopo. Una volta infettata dal Cordyceps, la formica si trasforma in uno zombie. Ignora i consueti doveri in seno alla sua colonia sul terreno della foresta e cede al bisogno di arrampicarsi su un albero. Qui trova la vena di una foglia sulla parte settentrionale del tronco, a circa 150 centimetri dal terreno, e la addenta con forza, ancorandosi in quel punto. Questa azione è nota come “presa mortale” perché poco dopo il fungo si prende la vita della formica. Qualche giorno dopo il parassita germoglia, spunta il gambo e rilascia le sue spore. Esse scendono volteggiando, ammantano lo strato di foglie a terra e infettano un nuovo esercito di formiche. Il Cordyceps ha fatto cambiare comportamento alle formiche, le controlla in maniera incredibilmente precisa, affinché contribuiscano a far nascere la generazione successiva di funghi. Questo non è il solo microbo che cambia il comportamento di un soggetto. I cani infettati dalla rabbia non si accucciano in attesa della morte, ma diventano estremamente aggressivi. Schiumando dalla bocca una saliva invasa dal virus, cercano la lotta, con l’irrefrenabile desiderio di mordere un altro cane. I ratti infettati dal parassita Toxoplasma perdono la tipica paura della luce e degli spazi aperti. Sono attirati dall’odore dell’urina della lince rossa, andando in bocca al loro principale predatore. Gli insetti infettati da un verme acquatico parassita a quanto pare si suicidano gettandosi nell’acqua, in modo che il verme possa uscire dall’insetto morto. Ognuno di questi comportamenti controllati dai microbi si è evoluto, perché aiuta il microbo a proliferare in nuovi ospiti. Il virus della rabbia che fa diventare mordaci i cani viene trasmesso a un altro cane, dove continua a riprodursi. I parassiti Toxoplasma che riescono a guidare i topi verso i gatti continuano il proprio ciclo di vita una volta che il topo viene ucciso e mangiato. I vermi devono raggiungere una fonte d’acqua per trovare un compagno e riprodursi. Se sono in grado di controllare il comportamento dell’ospite i microbi riescono a sopravvivere e a riprodursi nelle condizioni migliori, e perciò l’evoluzione li favorisce. La cosa incredibile è il grado di precisione che tale controllo riesce a raggiungere. Gli effetti dei microbi sul comportamento non si limitano al mondo naturale. Anche gli esseri umani possono essere esposti al capriccio dei microbi. Prendete il caso di una ragazza belga, Miss A., che fino ai diciotto anni era stata sana e
felice e si avviava agli esami di maturità. Nel giro di pochi giorni è diventata aggressiva, rifiutava di comunicare e aveva perso l’inibizione sessuale. Ricoverata in un ospedale psichiatrico, le hanno prescritto dei farmaci antipsicotici e l’hanno dimessa. Tre mesi dopo la ragazza è ritornata in ospedale, il suo comportamento era peggiorato, presentava vomito e diarrea incontrollabili. I medici hanno deciso di praticare una biopsia del cervello, che ha rivelato la fonte della sua patologia psichiatrica: un microbo. Aveva la malattia di Whipple, una rara infezione provocata da un batterio che talvolta annuncia la propria presenza attraverso il comportamento di colui che lo ospita. È interessante osservare che Miss A. aveva dei sintomi gastrointestinali – vomito e diarrea – accanto a quelli comportamentali che l’avevano fatta finire in un ospedale psichiatrico. I soggetti che soffrono della malattia di Whipple di solito si presentano dal proprio medico con una rapida perdita di peso, dolore addominale e diarrea: tutti sintomi di infezione gastrointestinale. In Miss A. l’infezione aveva influito non solo sull’intestino ma anche sul cervello, distogliendo l’attenzione dei medici dalle cause reali. In realtà i sintomi gastrointestinali sono sorprendentemente comuni in individui con problemi neurologici e di salute mentale, sebbene vengano considerati di scarsa importanza rispetto all’alterazione del comportamento. Per una donna straordinaria, però, la diarrea del figlio autistico si è dimostrata un indizio a cui valeva la pena di prestare attenzione. Ellen Bolte aveva già tre figli quando, nel febbraio del 1992 a Bridgeport, nel Connecticut, le è nato il quarto, Andrew. Come la sorella Erin e gli altri due figli prima di lui, Andrew era un bambino sano e felice e rispettava tutte le tappe tipiche dello sviluppo. All’epoca del controllo pediatrico dei quindici mesi, Andrew sembrava stesse bene, era come al solito. Ma con grande sorpresa di Ellen, il medico è rimasto sbigottito dallo stato delle sue orecchie, che a suo dire erano piene di fluido: Andrew aveva una grave otite e aveva bisogno di antibiotici. “Ero stupita, perché non aveva avuto la febbre; mangiava, beveva e giocava come al solito” ha commentato Ellen. Dopo una terapia di otto giorni, quando sono tornati per un controllo, il fluido non si era mosso. È stato prescritto un altro ciclo di dieci giorni, stavolta con un antibiotico diverso. Dopo la seconda terapia, le orecchie di Andrew erano pulite. Ma il miglioramento è stato temporaneo e la faccenda è proseguita. Ad Andrew sono stati prescritti un terzo e poi un quarto ciclo di antibiotici per cercare di guarirgli le orecchie una volta per tutte: i diversi farmaci colpivano diversi gruppi di batteri. A questo punto Ellen ha iniziato a mettere in dubbio la
necessità di altri farmaci, poiché sembrava che il figlio non provasse alcun malessere o problemi di udito. Ma il medico insisteva: “Se ha a cuore l’udito di suo figlio, le dia questi antibiotici” le ha consigliato. Ellen ha ceduto e ha fatto come le era stato chiesto. A quel punto è iniziata la diarrea. Ma la diarrea spesso è un effetto collaterale degli antibiotici, perciò, invece che interrompere la somministrazione, il medico le ha prescritto un ulteriore ciclo di trenta giorni, per tenere a bada l’infezione. Durante quest’ultimo ciclo, il comportamento di Andrew è cambiato. All’inizio era come se fosse leggermente ubriaco, sorridente e barcollante. “Sembrava la tipica sbronza felice” racconta Ellen. “Scherzavo con mio marito dicendogli che la prossima volta che avessimo dato una festa avremmo potuto tagliare il punch con i suoi antibiotici, per rallegrare l’atmosfera. Pensavamo che forse le orecchie di Andy gli avevano fatto talmente tanto male che adesso era davvero felice di essersi liberato del dolore.” Ma la cosa è stata breve e dopo una settimana Andrew ha iniziato a cambiare. È diventato chiuso e scontroso, poi molto irritabile, urlava per tutto il giorno. “Prima degli antibiotici non avevo un bambino malato. Adesso ne avevo uno molto malato.” Sono insorti ulteriori sintomi gastrointestinali (GI): la diarrea di Andrew era peggiorata ed era piena di muco e di cibo non digerito. Anche il comportamento peggiorava. “Ha iniziato a fare cose davvero molto strane. Camminava sulle punte dei piedi ed evitava di guardarmi. Le poche parole che sapeva, erano state dimenticate” racconta Ellen. “Non rispondeva neppure quando lo chiamavo per nome. Era come se non fosse più qui.” Ellen e suo marito hanno portato Andrew da un otorino, che ha inserito dei tubicini per aiutare le orecchie a spurgare. Secondo lo specialista non c’era alcuna infezione e ha consigliato di eliminare dalla dieta di Andrew il latte vaccino. A questo punto le orecchie si sono ripulite ed Ellen era piena di speranza. “Ho pensato: bene, adesso che le orecchie sono pulite, il suo comportamento ritornerà normale. Ma è apparso quasi subito evidente che non stava accadendo.” Ormai i sintomi gastrointestinali di Andrew erano molto gravi e malgrado il suo peso fosse sempre stato nella norma, adesso era diventato magrissimo, con il ventre molto gonfio. Anche il comportamento era sempre più bizzarro. Camminava sulle punte dei piedi senza piegare le ginocchia. Stava davanti alla porta e accendeva e spegneva la luce anche per mezz’ora di seguito. Si concentrava sugli oggetti, come le pentole con il coperchio, ma gli altri bambini non lo interessavano. Soprattutto, urlava. A questo punto i genitori di Andrew, che avevano un disperato bisogno di aiuto, lo hanno portato da un medico
all’altro, in cerca di risposte. A venticinque mesi gli è stato diagnosticato l’autismo. Molte persone, compresa Ellen Bolte all’epoca della diagnosi di An-drew, avevano un’idea di questa patologia soltanto grazie al film Rain Man del 1988, in cui Dustin Hoffman recita la parte di un autistico. Nel film, malgrado enormi difficoltà nelle interazioni sociali e l’insistenza sulla routine quotidiana, il personaggio di Hoffman ha una memoria straordinaria ed è in grado di ricordare anni di dati sul campionato americano di baseball. È un autistico savant che, pur soffrendo, è molto dotato. Malgrado l’interesse dei media per il fenomeno, le notevoli capacità artistiche, musicali e matematiche della sindrome del savant sono rare nell’autismo. In realtà l’autismo ha molte varianti: c’è chi ha un’intelligenza media o sopra la media – ed è la sindrome di Asperger – oppure chi presenta un autismo grave e una significativa disabilità dell’apprendimento, come Andrew Bolte. Comuni a tutti coloro che presentano i disturbi dello spettro autistico (ASD) sono le difficoltà nel comportamento sociale. È stata questa caratteristica a spingere lo psichiatra americano Leo Kanner a identificare l’autismo come sindrome a sé stante nel 1943. Nei suoi primissimi studi sul tema, ha descritto i casi di undici bambini che condividevano una “incapacità a relazionarsi in maniera normale con altri individui e situazioni dall’inizio della vita”. Kanner ha mutuato il termine “autismo” dalla costellazione di sintomi legati alla schizofrenia. “Sin dall’inizio” scrive, “si presenta un’estrema solitudine autistica che, ogni qual volta possibile, trascura, ignora ed esclude qualsiasi cosa provenga al bambino dall’esterno.” I malati tentano di capire il tono e l’intenzione, forse non colgono la battuta o prendono letteralmente metafore e sarcasmo. Possono avere difficoltà a identificarsi con gli altri e a comprendere le regole sociali non scritte che tutti noi apprendiamo nell’infanzia. Gli autistici inoltre preferiscono in genere una routine fissa o si focalizzano ossessivamente su una singola idea od oggetto. Negli anni Novanta, quando Andrew Bolte ha ricevuto la sua diagnosi, si riteneva che tutti i bambini autistici fossero nati con la sindrome, come aveva scritto Leo Kanner. Per Ellen questo significava che la diagnosi doveva essere sbagliata. “Sapevo, al cento per cento, che Andrew alla nascita non l’aveva. Avevo avuto quattro figli, lui stava bene, davvero bene.” Malgrado le sue proteste, però, i medici continuavano a sostenere che forse non aveva colto i segni e che Andrew era autistico da quando era in vita. La sua convinzione che non fosse così, e che pertanto non fosse affatto autistico, implicava che la
diagnosi corretta per il suo male fosse ancora ignota, in attesa di essere scoperta. È stata questa idea a spingere Ellen a intraprendere quella ricerca che l’avrebbe infine condotta a un’ipotesi rivoluzionaria sulle cause dell’autismo. Una volta questa patologia era incredibilmente rara, colpiva probabilmente un soggetto su 10.000. Quando, sul finire degli anni Sessanta, sono state fatte le prime stime reali, colpiva all’incirca un bambino su 2500. Negli anni dopo il 2000, quando gli America’s Centers for Disease Control and Prevention hanno iniziato a registrare i dati, i disturbi dello spettro autistico colpivano un bambino di otto anni su 150. Nel decennio successivo questa cifra è velocemente aumentata, arrivando a 1 su 125 nel 2004, a 1 su 110 nel 2006 e a 1 su 88 nel 2008. All’epoca degli ultimi dati, il 2010, si contava 1 bambino autistico su 68, un numero più che raddoppiato negli ultimi dieci anni. Visualizzate su un grafico, queste cifre appaiono decisamente preoccupanti, perché la crescita dei casi non sembra proprio arrestarsi. Seguire la tendenza nel futuro porta all’immagine di una società molto diversa. Persino le stime più prudenti ipotizzano che nel 2020 un bambino su 30 potrebbe essere autistico, alcuni prevedono che nel 2050 in ogni famiglia americana ci sarà un bambino nello spettro autistico. Anche se secondo alcuni si tratta di un falso incremento causato da diagnosi più accurate, e anche se ai dati attuali ha contribuito una maggiore consapevolezza, gli esperti concordano sul fatto che ci sia stato in effetti un aumento dei casi di autismo. Tuttavia, fino a poco tempo fa, pochi erano d’accordo sulle cause. All’epoca in cui Ellen Bolte ha intrapreso la propria ricerca, la teoria prevalente attribuiva all’autismo una causa genetica. Soltanto un decennio prima, la maggioranza degli psichiatri credeva all’ipotesi della “madre frigorifero”, inavvedutamente avanzata nel 1949 da Leo Kanner, il quale aveva scritto che i bambini autistici erano esposti sin dall’inizio della vita a “freddezza da parte dei genitori, ossessività e a una sorta di meccanica attenzione volta soltanto ai bisogni materiali […] Venivano lasciati in ordinati frigoriferi che non si scongelavano. Il ritiro in se stessi appare un’azione di allontanamento da questa situazione per cercare conforto nella solitudine”. Kanner tuttavia ha scritto anche che l’autismo era una malattia innata, che iniziava prima della nascita, e ha pertanto dichiarato di non aver mai creduto che i genitori fossero responsabili del malessere dei figli. Negli anni Novanta, pur persistendo in alcune parti del mondo, l’idea delle madri frigorifero era stata ampiamente confutata e l’attenzione si era spostata, insieme alla moda, sul ruolo dei geni. Naturalmente Ellen non intendeva risolvere l’enigma della causa
dell’autismo, ma stava sondando la possibilità che un evento improvviso – una malattia o un’esposizione di qualche genere – potesse aver fatto ammalare il figlio. Ellen ha iniziato a cercare delle risposte, con il perfetto equilibrio tra apertura mentale e scetticismo tipico della migliore scienza. Il suo lavoro di programmatrice informatica le tornava molto utile, mentre formulava una serie di passaggi logici per mettere insieme un’ipotesi, partendo, pur senza avere alcuna formazione medica o scientifica, proprio dai fondamentali, cioè dall’osservazione. “Lo osservavo, e pensavo a che cosa lo facesse comportare nel modo in cui si comportava. Mangiava la cenere del camino e la carta velina, ma rifiutava il cibo che gli offrivo. Perché mai faceva così? Reagiva come se sentisse male quando veniva toccato, o quando c’erano dei rumori forti. Di nuovo, perché?” Iniziando dalla biblioteca, Ellen ha letto qualsiasi cosa potesse fornirle un indizio. Continuava a frequentare medici in cerca di una diagnosi alternativa, o anche soltanto di qualcuno che fosse abbastanza incuriosito da non liquidare subito lei e Andrew. Un medico in effetti si era interessato al caso, e le aveva consigliato, se davvero avesse voluto fare ricerca, di iniziare a leggere la letteratura medica. Per quanto intimidita, Ellen si è messa d’impegno e ha appreso il gergo medico. Dopo diverse false partenze, ha iniziato a chiedersi se per caso il danno non fosse stato provocato dagli antibiotici che Andrew aveva preso. Si era imbattuta in una recente ricerca sulle infezioni da Clostridium difficile, che provoca gravi e incurabili diarree in alcuni soggetti dopo la somministrazione di un antibiotico. Il legame con la gastroenterite di Andrew le è apparso evidente ed Ellen si è chiesta se un batterio simile non avesse potuto non solo provocare la diarrea ma rilasciare anche una “tossina” che aveva colpito lo sviluppo cerebrale di Andrew. A questo punto Ellen ha formulato la sua ipotesi: pensava che Andrew fosse stato infettato da un batterio collegato al Clostridium difficile, ovvero il Clostridium tetani. Ma invece di entrare nel sangue e provocare un’infezione di tetano nei muscoli, come normalmente avviene, Ellen sospettava che il Clostridium tetani fosse penetrato nell’intestino. Ha intuito che gli antibiotici che Andrew aveva assunto per l’otite potevano aver distrutto la barriera protettiva che lo abitava, permettendo al batterio di prendere il sopravvento. Da lì, pensava, la neurotossina che questi batteri producono aveva in qualche modo raggiunto il cervello del bambino. Ellen si è esaltata e ha riferito l’idea al suo medico. “Era un uomo aperto. Mi ha detto che avremmo controllato qualsiasi cosa si
potesse ragionevolmente controllare.” Sono state eseguite delle analisi del sangue, in cerca di prove che il sistema immunitario di Andrew si fosse imbattuto in un’infezione da Clostridium tetani. Come la maggior parte dei bambini americani, era stato vaccinato contro il tetano, perciò era inevitabile che nel suo sangue ci fosse traccia di una protezione immunitaria. Tuttavia i risultati degli esami hanno colpito anche il personale del laboratorio: il livello di protezione immunitaria di Andrew era oltre qualsiasi parametro; non si era mai visto niente del genere nei bambini vaccinati. Dopo mesi di esami del sangue dagli esiti negativi, Ellen Bolte incominciava a esser certa di trovarsi sulla strada giusta. E così ha iniziato a scrivere ai medici, chiedendo loro di prendere in considerazione la sua teoria e chiedendo che curassero Andrew con un altro antibiotico, la vancomicina, che lo liberasse dal Clostridium tetani nell’intestino. Medico dopo medico, le idee di Ellen sono state respinte. Perché Andrew non aveva le gravi contrazioni muscolari tipiche del tetano? Come aveva fatto la neurotossina ad attraversare la barriera emato-encefalica e a raggiungere il cervello? Come poteva Andrew essersi infettato con un batterio contro il quale era stato vaccinato? Ma dopo mesi di ricerca, Ellen era convinta di avere ragione. Dopo ogni rifiuto da parte dei medici, si immergeva sempre di più nella letteratura scientifica, in cerca di risposte alle loro domande, scoprendo in tal modo che le contrazioni muscolari avvenivano dopo un’infezione attraverso una ferita cutanea, che consentiva alla neurotossina di attaccare i nervi fino ai muscoli. Ha appreso di esperimenti in cui era stato seguito il percorso della neurotossina del tetano dall’intestino al cervello attraverso il nervo vago, un’importante connessione tra i due organi e una via alternativa che aggirava la barriera emato-encefalica. Ha scoperto casi di pazienti che avevano contratto una classica infezione da tetano pur essendo stati regolarmente vaccinati. Nel corso del tempo, Ellen aveva accettato la diagnosi di autismo di Andrew: la sua ricerca si era trasformata da un’indagine strettamente personale a una nuova prospettiva su una malattia senza causa apparente. Quando Ellen ha contattato il trentasettesimo medico della sua lista, era ormai profondamente informata su ogni aspetto della sua ipotesi. Il dottor Richard Sandler, gastroenterologo pediatrico del Rush Children Hospital di Chicago, ha trascorso due ore ad ascoltarla mentre raccontava la storia di Andrew e avanzava la propria ipotesi. Poi le ha chiesto due settimane per riflettere sulla sua proposta di curare Andrew con altri antibiotici, stavolta per
eliminare il Clostridium tetani. “Per quanto sembrasse assurdo” ha riferito, “era scientificamente plausibile. Non potevo lasciar perdere.” Il dottor Sandler ha acconsentito a procedere con un ciclo sperimen-tale di otto settimane di antibiotici su Andrew, che aveva adesso quattro anni e mezzo. Prima della cura, lo ha sottoposto a una batteria di analisi del sangue, delle urine e delle feci e ha coinvolto una psicologa clinica che eseguisse una serie di osservazioni sul comportamento del bambino, in modo da poter valutare qualsiasi cambiamento durante la terapia. Pochi giorni dopo che Andrew ha iniziato a prendere gli antibiotici, è diventato ancora più iperattivo del solito. Quello che è accaduto dopo, tuttavia, avrebbe sconcertato il dottor Sandler, giustificato i due anni di battaglia da parte di Ellen contro l’establishment medico e, infine, cambiato volto alla ricerca sull’autismo. Da grande osservatore qual era, Charles Darwin nel suo libro del 1872 L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, notava: «Un altro ottimo esempio dell’azione diretta del sensorio, indipendentemente dalla volontà […] su organi quali le ghiandole del canale alimentare e altre […] è il modo in cui le forti emozioni influenzano le secrezioni di queste.» Darwin si riferisce naturalmente all’effetto lassativo che accompagna la comunicazione di una cattiva notizia, o alla sensazione che vi si ribalti lo stomaco se non avete sentito la sveglia e siete in ritardo a un esame, e persino all’euforia delle farfalle nella pancia di quando ci si innamora. Il cervello e l’intestino, malgrado la distanza fisica e le funzioni profondamente diverse, condividono un legame intimo, che va in entrambe le direzioni: non solo le emozioni influenzano il funzionamento dell’intestino, ma l’attività di quest’ultimo può avere degli effetti sull’umore e sul comportamento. Pensate all’ultima volta che avete avuto lo stomaco sottosopra: senza dubbio non era soltanto il vostro apparato digerente a sentirsi irritabile, ma anche voi. Per coloro che soffrono di disturbi a lungo termine, come la sindrome dell’intestino irritabile, le emozioni giocano un ruolo assai importante nei sintomi. Quando i livelli di stress sono alti, può insorgere la sindrome dell’intestino irritabile (IBS), rendendo ancora più difficile una situazione faticosa. L’emozione del primo appuntamento o di un importante appuntamento di lavoro non può che intensificarsi a causa del disagio e della preoccupazione causate dall’IBS, provocando un circolo vizioso che peggiora i sintomi e lo stress. Sapendo che l’IBS è legata a dei mutamenti nel microbiota intestinale, è possibile che il nesso tra intestino e cervello faccia apparire in scena un terzo
attore? Dovremmo pensare allora a un nesso tra intestino, microbiota e cervello? Gli scienziati medici giapponesi Nobuyuki Sudo e Yoichi Chida sono stati i primi a porsi questa domanda, addirittura nel 2004. Avevano ideato un semplice esperimento con dei topi per capire se il microbiota intestinale influenzasse la reazione del cervello allo stress. Avevano utilizzato due gruppi di topi: uno composto da animali privi di germi – nessun microbo viveva nel loro intestino – mentre l’altro aveva una serie normale di microbi intestinali. Quando venivano sottoposti a stress all’interno di una galleria, entrambi i gruppi producevano ormoni dello stress, ma nei topi privi di germi le concentrazioni dell’ormone erano il doppio. Senza il microbiota, i topi avevano trovato la situazione molto più stressante. Sudo e Chida volevano capire se nei topi privi di germi fosse possibile invertire quella reazione eccessiva allo stress, colonizzandoli da adulti con un microbiota normale. Come tuttavia è emerso, era troppo tardi: la loro reazione allo stress era già determinata. Si è scoperto che prima i topi venivano colonizzati e meno erano ricettivi allo stress. Sorprendentemente, colonizzare dei topi privi di germi quando erano molto giovani anche con un’unica specie batterica, il Bifidobacterium infantis, bastava per impedire loro di diventare più stressati dei topi dotati di un normale microbiota intestinale. Questi esperimenti hanno aperto la porta a un nuovo modo di pensare. I microbi intestinali non si erano limitati ad alterare la salute fisica, ma anche quella mentale. Inoltre, a quanto pareva, se il microbiota intestinale veniva disturbato precocemente, gli effetti iniziavano nell’infanzia. Nei primi anni di vita il nostro cervello attraversa un periodo di sviluppo assai concentrato. Alla nascita ciascuno di noi possiede quasi l’intera dotazione di circa 100 miliardi di cellule cerebrali, i neuroni. Ma si tratta di semplice materia grezza, simile a una catasta di assi di legno. Costruire qualcosa di sensato richiede un attento lavoro di carpenteria, in cui si utilizzano delle connessioni, chiamate sinapsi, che uniscono tra loro i neuroni. Le esperienze del bambino piccolo presiedono alla formazione delle sinapsi e decidono quali debbano essere rinforzate, perché importanti, e quali invece siano da scartare, perché poco significative. In un bambino piccolo, la cui vita quotidiana è piena zeppa di nuovi stimoli, si formano circa due milioni di sinapsi al secondo, ciascuna delle quali presenta nuove potenzialità per l’apprendimento e lo sviluppo. Un cervello sano ha bisogno di un attento equilibrio tra ricordo e dimenticanza, perciò la maggior parte di queste nuove sinapsi durante l’infanzia verranno eliminate. Come si suol dire, ogni lasciata è persa, a quell’età, riguardo alle sinapsi: quelle che non
vengono regolarmente rinforzate saranno sfoltite per lasciare il cervello in buon ordine. Se i microbi intestinali riescono a influenzare questo periodo cruciale dello sviluppo cerebrale nei primi anni di vita, forse tutto ciò potrebbe corroborare l’idea di Ellen Bolte, secondo cui l’autismo del figlio Andrew era dovuto a un’infezione intestinale. L’insorgenza regressiva dell’autismo si manifesta prima dei tre anni, durante lo stesso periodo in cui si sviluppa buona parte del cervello. Questo arco temporale coincide anche con l’istituzione di un microbiota intestinale stabile, simile a quello degli adulti. La precoce terapia antibiotica di Andrew, per quella che sembrava un’otite, avrebbe disturbato questo processo, permettendo virtualmente l’insediamento del Clostridium tetani, che produce una neurotossina. Ellen sperava che la somministrazione a Andrew di un altro antibiotico potesse distruggere il Clostridium tetani che secondo lei lo aveva infettato, arrestando il danno che veniva fatto al suo giovane cervello. Dopo l’inizio della terapia, all’iperattività di Andrew sono seguiti due giorni di profonda calma. “Era un miracolo” ha commentato Ellen. “Dopo alcune settimane di terapia le lampadine hanno incominciato ad accendersi. Ho iniziato a insegnargli a usare il vasino – aveva quattro anni! – e in poche settimane ce l’ha fatta. Per la prima volta in tre anni capiva quello che gli dicevo.” Andrew era diventato affettuoso, reattivo e tranquillo, e ha persino imparato a parlare, ben oltre le poche parole che aveva appreso prima di ammalarsi. Si lasciava vestire e, soprattutto, non si mangiava la parte davanti della maglietta per tutto il giorno. Lo psicologo infantile aveva preparato una relazione sul comportamento di Andrew durante la terapia con gli antibiotici, ma il dottor Sandler in realtà non ne aveva bisogno, tanto profondi erano i cambiamenti. Per quanto spettacolare fosse questo miglioramento, un unico caso – Andrew – non avrebbe mai potuto dimostrare oltre ogni dubbio che l’origine dell’autismo risiedesse nell’intestino. Fortunatamente, dopo il successo dell’esperimento di Andrew con gli antibiotici, le idee di Ellen avevano attirato l’interesse di un microbiologo di straordinaria fama, il dottor Sydney Finegold, che aveva dedicato la propria carriera all’enorme sottoinsieme dei batteri “anaerobici”, che vivono senza ossigeno. In un documento redatto in occasione del suo novantesimo compleanno, ci si riferiva a lui come al “più autorevole ricercatore nel campo della microbiologia anaerobica del XX secolo, se non di tutti i tempi”. Era a questo gruppo di batteri che appartenevano i membri del genere Clostridium, incluso il Clostridium tetani. Con la fama e la conoscenza scientifica di Finegold, l’ipotesi di Ellen sull’autismo era in buone mani.
Il dottor Sandler, con Finegold ed Ellen, ha sottoposto alla sperimentazione con l’antibiotico altri undici bambini con un autismo a insorgenza tardiva e accompagnato da diarrea. Lo scopo non era capire se gli antibiotici potessero rappresentare un’adeguata terapia per l’autismo, ma piuttosto di farne una “prova del concetto”. Se questi farmaci riuscivano a far stare meglio i bambini, anche solo parzialmente o temporaneamente, allora i microbi che vivevano nel loro intestino, che si trattasse di Clostridium tetani o altri, potevano esserne i responsabili. Come già era accaduto con Andrew, i risultati della sperimentazione sugli altri bambini sono stati strabilianti. I pazienti hanno iniziato a guardare negli occhi, a giocare normalmente e a usare il linguaggio per esprimersi. Erano meno ossessionati da singoli oggetti o attività e più accomodanti. Purtroppo, né per Andrew né per gli altri bambini i miglioramenti nella salute e nel comportamento nel corso della sperimentazione si sono protratti. Più o meno nel giro di una settimana dall’interruzione della somministrazione di antibiotici, la maggior parte dei bambini era regredita allo stato precedente. Tuttavia, per la prima volta da quando la patologia era stata descritta, il mistero dell’autismo si arricchiva di un nuovo, promettente indizio: i microbi dell’intestino. Nel 2001, sei anni dopo aver sviluppato per la prima volta la sua ipotesi, secondo cui il Clostridium tetani nell’intestino causava l’autismo, Ellen Bolte avrebbe scoperto di aver avuto ragione. Sydney Finegold aveva infatti organizzato uno studio dei microbi che vivevano nell’intestino crasso di tredici bambini autistici e di otto bambini sani “di controllo”, per poter fare una comparazione. Le tecniche di sequenziamento del DNA erano ancora proibitive, dal punto di vista economico, per poter svolgere un’analisi completa del microbiota dei bambini, ma grazie all’abilità di Finegold nella coltura batterica in condizioni prive di ossigeno si sono potute contare le specie appartenenti al genere Clostridium. Sebbene non fosse stato trovato il Clostridium tetani, c’era qualcosa che non andava. Confrontati con i bambini sani, gli autistici avevano in media il decuplo dei batteri clostridia nell’intestino. Forse, come il Clostridium tetani, anche queste specie correlate producevano una neurotossina che danneggiava il cervello dei bambini piccoli. L’ipotesi di Ellen Bolte non aveva proprio colpito nel segno, ma a questo punto sembrava che l’avesse mancato solo per una specie. È davvero possibile che basti soltanto un diverso insieme di batteri nell’intestino perché ci siano dei bambini che agitano le mani, si dondolano e gridano per ore, come fanno certi autistici? Probabilmente sì. Si scopre così che
il parassita del Toxoplasma – quello che fa perdere ai topi la paura degli spazi aperti e per cui sono attirati dall’urina di gatto – cambia anche il comportamento degli esseri umani. Siamo inclini a infettarci per via del nostro amore per i gatti: anche i gatti domestici sono portatori del parassita ed è facile prenderlo da un graffio o dalla cassettina della sabbia. È talmente facile, in effetti, che si è scoperto che ne era affetto addirittura l’84 per cento delle donne parigine a cui era stato fatto un test dedicato. Altrove le cifre tendono a essere un po’ più basse: intorno al 32 per cento delle donne incinte di New York City e il 22 per cento delle londinesi, per esempio. Per un feto che si sta sviluppando, un’infezione di toxoplasmosi appena contratta può essere molto pericolosa, da qui le analisi sulle donne incinte, mentre nella popolazione adulta raramente provoca una vera e propria malattia. Il parassita lascia tuttavia il segno, alterando la personalità. In maniera piuttosto strana, l’infezione da Toxoplasma ha effetti quasi opposti su uomini e donne. Gli uomini tendono a diventare meno gradevoli, trascurano le norme sociali e perdono il senso etico. Sono, relativamente parlando, più sospettosi, più gelosi e insicuri. Quanto alle donne, invece, gli effetti sembrano quasi desiderabili, perché diventano più accomodanti, calorose e fiduciose. Tendono anche a essere più sicure di sé e risolute delle donne non infette. È interessante pensare al potenziale di promiscuità, con le donne che lasciano cadere le difese e gli uomini che agiscono con meno riguardo nei confronti degli altri, meno rigidi dal punto di vista morale. Fondamentalmente, come i ratti, gli esseri umani sembrano più aperti al rischio: le donne mediante un aumento della fiducia, gli uomini con la sconsideratezza sociale. Il cambiamento di personalità non è l’unico effetto dell’intossicazione da Toxoplasma sulle persone. Sia gli uomini sia le donne mostrano reazioni più lente ed è più probabile che una volta infettati perdano la concentrazione. Gli effetti, anche se deboli nei test di laboratorio, possono avere conseguenze gravi. Confrontando la frequenza dell’infezione da Toxoplasma rilevata in 150 individui ricoverati in un ospedale di Praga dopo che avevano provocato un incidente con quella di cittadini che non avevano provocato incidenti, un gruppo di ricercatori della Charles University ha calcolato che l’infezione triplica le probabilità di provocare incidenti. Uno studio simile condotto in Turchia rivela che i guidatori coinvolti in incidenti stradali avevano il quadruplo delle probabilità di essere stati infettati. Diversamente dai topi, gli esseri umani ospitano il parassita del Toxoplasma senza trasmetterlo, dato che le probabilità di essere mangiati da un gatto tendono a essere piuttosto scarse. Ma attraverso il durevole effetto della nostra storia
evolutiva, in cui la morte a causa di un felino era forse probabile quanto la morte per incidente automobilistico adesso, questo piccolo parassita può cambiare la nostra personalità e mutare il nostro comportamento. Una spiegazione alternativa è che il parassita non era destinato a noi, e che il meccanismo sviluppato dal Toxoplasma per passare dal topo al gatto funzioni semplicemente altrettanto bene sul cervello dell’uomo che su quello del roditore. In ogni caso, è sufficiente perché vi chiediate se il vostro corpo ospiti questa piccola e impicciona creatura, e quale personale disgrazia potreste forse attribuirle. A parte i cambiamenti della personalità in qualche modo divertenti che il Toxoplasma può provocare, l’infezione di questo parassita ha anche un lato più oscuro. Molto tempo fa, nel 1896, su Scientific American è uscito un articolo intitolato: Forse la pazzia è causata da un microbo? All’epoca l’idea che i microbi potessero provocare delle malattie era totalmente nuova, perciò era ovvio che si estendesse il concetto ai disturbi psichiatrici. Un paio di medici di un ospedale dello stato di New York avevano cercato di iniettare del liquido cerebrospinale di pazienti che soffrivano di schizofrenia in alcuni conigli, che di conseguenza si ammalarono, perciò i medici si chiesero quali microbi si annidassero nei pazienti con malattie mentali. Sebbene privo di rigore scientifico, questo mini-esperimento suscitò un sacco di interesse sul possibile ruolo dei microbi nei problemi mentali. Malgrado le grandi premesse, l’idea venne abbandonata senza tante cerimonie pochi decenni dopo, soppiantata dagli studi di Sigmund Freud e dalla sua emergente teoria psicoanalitica. Invece di una causa fisiologica per le patologie neurologiche, Freud ne proponeva una emotiva, radicata nelle esperienze infantili. La sua teoria ha resistito finché non si è scoperto che il litio rappresentava una cura migliore del dialogo. Mentre, nel corso del XX secolo, si scopriva che molte malattie erano provocate da microbi, si ritenevano esenti dall’influsso microbico le patologie peculiari di un unico organo: il cervello. Data l’assurdità di parlare ai reni perché non si ammalassero, o al cuore perché non si fermasse, è sorprendente pensare a quanta fatica si è dedicata a curare il cervello dei suoi disturbi attraverso la discussione. Quando qualsiasi altro organo si ammala, cerchiamo una causa esterna, ma quando il cervello – la mente! – si comporta male, presupponiamo che sia colpa dell’individuo, dei suoi genitori o del suo stile di vita. Forse per via del posto speciale che occupa nel nostro senso del sé e del libero arbitrio, il cervello non ha ricevuto un altro approfondito esame da parte dei microbiologi fino gli ultimi anni del XX secolo. A questo punto, molti
microbi sono stati ben presto collegati alla malattia mentale, ma è il parassita del Toxoplasma che si è rivelato il sospettato più convincente per molte patologie. Talvolta, quando un individuo viene colpito per la prima volta dal parassita, sviluppa sintomi psichiatrici, come allucinazioni e manie, che portano a un’iniziale ed errata diagnosi di schizofrenia. In realtà, tra gli schizofrenici, la presenza del Toxoplasma è tre volte più comune che nella popolazione generale: un legame assai più significativo di qualsiasi legame genetico sin qui rivelato. È interessante che gli schizofrenici non siano gli unici malati di mente in cui è diffusa l’infezione da Toxoplasma. Si è scoperto che essa ha un legame anche con il disturbo ossessivo compulsivo (DOC), con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e con la sindrome di Tourette, tutti diventati sempre più comuni negli ultimi decenni. La vecchia idea che le malattie psichiatriche siano provocate da microbi è tornata, ma stavolta con un risvolto nuovo, più sottile. Invece di nemici noti che si prendono tutta la colpa, come il Toxoplasma, che cosa direste se anche i nostri microbi residenti creassero problemi? Se i membri del microbiota davvero sono in grado di influenzare il comportamento, il trapianto dei microbi intestinali potrebbe forse causare un mutamento della personalità, proprio come il trapianto dei microbi intestinali di un topo obeso può far ingrassare un topo magro? Naturalmente i topi non sono in grado di rispondere ai questionari sulla personalità, ma differenti razze presentano comportamenti tipici, proprio come le razze di cani e di gatti. Una razza di topi da laboratorio, conosciuta come BALB, si distingue per essere particolarmente timida ed esitante, esattamente l’opposto di una razza sicura e socievole come il topo svizzero. Diversi come il grasso e il magro, questi topi hanno rappresentato i partner ideali per un esperimento di scambio delle personalità eseguito nel 2011. Un gruppo di scienziati della McMaster University dell’Ontario, in Canada, ha scoperto che se si alterava il microbiota intestinale dei topi somministrando loro degli antibiotici, essi diventavano meno ansiosi nell’esplorazione di un ambiente nuovo. Il che li ha portati a pensare: era possibile trasferire l’ansia dall’insicuro topo BALB al rilassato topo svizzero, trapiantando nel secondo i microbi intestinali del primo? I ricercatori hanno iniettato alle due razze gli opposti virus e poi li hanno sottoposti tutti quanti a un semplice esperimento. Sono stati posizionati su una piattaforma all’interno di una scatola e cronometrati finché non trovavano il coraggio di scendere ed esplorare. I topi svizzeri, normalmente intrepidi, ci hanno messo il triplo a scendere dopo aver
ricevuto i microbi dei topi ansiosi, rispetto a quanto facevano con i propri. Parimenti, gli insicuri topi BALB erano diventati più coraggiosi e sono saltati giù più velocemente dopo aver ricevuto il microbiota dei topi svizzeri. Se vi mette a disagio l’idea che la natura predomini sull’educazione, ovvero che la vostra personalità non sia una vostra faticosa creazione ma il prodotto dei vostri geni, cosa ne dite del concetto di una personalità composta dai batteri che vivono nell’intestino? I topi senza microbi intestinali sono antisociali, preferiscono trascorrere il proprio tempo da soli invece che con i loro simili. Laddove un topo con un microbiota normale sceglie di accogliere qualsiasi nuovo individuo venga messo nella gabbia, i topi privi di germi stanno con quelli che già conoscono. Sembra che per renderli più socievoli sia sufficiente avere dei microbi intestinali. Oltre all’amicizia, sembra che il vostro microbiota possa influenzare coloro da cui siete attratti. Nell’America centrale c’è un gruppo di pipistrelli che presenta un’apertura sulla parte superiore di ciascuna ala, vicino alla spalla. Non si tratta di ferite, ma di piccole sacche, per cui le specie del gruppo si sono guadagnate il nome di Saccopteryx. Gli esemplari maschi fanno buon uso della propria sacca, perché la riempiono di secrezioni corporee: urina, saliva, persino seme. Si occupano di questa pozione con molta cura, eliminandola e rimpiazzandola ogni pomeriggio per essere certi che abbia proprio l’odore che desiderano. Poi, quando viene il momento, si librano di fronte a un gruppo di femmine sul posatoio e spandono con grazia il fragrante contenuto verso di loro. L’effetto, come c’è da prevedere, è seducente. A quanto pare si ottiene il profumo perfetto se si ha il giusto mix batterico. Ogni maschio ha nel proprio sacco una o due varietà di batteri, probabilmente “scelti” da una selezione di circa venticinque specie a disposizione dei pipistrelli maschi. Questi batteri si nutrono delle urine, della saliva e del seme contenuti nella sacca sulle ali e rilasciano come prodotto di scarto un’inebriante miscela di feromoni sessuali, che convince le femmine a unirsi al loro harem di accoppiamento. A quanto pare, il genere particolare di feromoni che un animale produce è importante anche in animali che non hanno un sacco dedicato per preparare la propria pozione amorosa. La drosofila, per esempio, il cui corpo è appena più grande di una capocchia di spillo, è nondimeno piuttosto esigente in fatto di accoppiamento. Venticinque anni fa una biologa dell’evoluzione, Diane Dodd, si chiedeva se tenendo separate due popolazioni di una specie, queste si sarebbero trasformate in specie diverse, cambiandone le competenze riproduttive. Ha
diviso a metà un gruppo di drosofile e ha allevato i due sottogruppi con diverse fonti di cibo – maltosio e amido – per venticinque generazioni. Quando le ha riunite, le drosofile dei due gruppi hanno rifiutato di accoppiarsi. Quelle allevate ad amido si accoppiavano soltanto tra loro, come le altre, ma non si mescolavano. All’epoca non era chiaro il motivo, ma nel 2010 Gil Sharon dell’università di Tel Aviv ha avuto un’idea su che cosa avesse potuto provocare questa reazione, per cui ha ripetuto l’esperimento di Dodd e ha ottenuto lo stesso risultato: dopo due generazioni soltanto in cui erano state nutrite in maniera diversa, le drosofile erano disgustate le une dalle altre. Che cosa provocava questo mutamento nelle preferenze? Sharon sospettava che i diversi cibi alterassero il microbiota intestinale delle drosofile e cambiassero l’odore dei loro feromoni sessuali. Pertanto ha somministrato loro degli antibiotici per distruggere il microbiota e, come c’era da aspettarsi, gli animali hanno smesso di preoccuparsi dei soggetti con cui si accoppiavano. Senza microbiota le drosofile non riuscivano più a produrre un odore caratteristico. Iniettando loro nuovamente il microbiota di uno dei due gruppi alimentari Sharon ha ripristinato anche il precedente comportamento selettivo. Prima che mi accusiate di un eccesso di estrapolazione, da drosofile a esseri umani, metterò tutto ciò in prospettiva. Il microbiota delle drosofile (in realtà un’unica specie, il Lactobacillus plantarum) aveva a quanto pare alterato le sostanze chimiche che rivestono la superficie del corpo, essenzialmente i feromoni sessuali. Anche gli esseri umani sono influenzati dai feromoni sessuali. In un esperimento ormai leggendario, ad alcune studentesse dell’università di Berna erano state consegnate delle T-shirt indossate da studenti maschi a letto ed era stato chiesto loro di classificarle in ordine di attrazione. Le donne hanno preferito le T-shirt di uomini che avevano il tipo di sistema immunitario maggiormente diverso dal loro. In teoria, scegliendo l’opposto genetico le ragazze avrebbero fornito ai cuccioli un sistema immunitario in grado di affrontare il doppio delle sfide. Attraverso il senso dell’odorato le ragazze avevano analizzato il genoma dei ragazzi, in cerca dell’abbinamento migliore, che facesse da padre ai propri figli. Gli odori lasciati dagli studenti maschi sulle T-shirt erano prodotti da nient’altro che dal microbiota della pelle. Vivendo sotto le ascelle, questi microbi trasformano il sudore in odori che aleggiano nell’aria circostante, nel bene e nel male. In effetti è improbabile che l’atto di sudare sotto le ascelle e all’inguine, e forse anche i peli che vi crescono, rappresentino un meccanismo di
raffreddamento. Sono piuttosto l’equivalente umano delle aromatiche sacche del pipistrello Saccopteryx, che intrappolano e preparano l’aroma perfetto. La particolare comunità del microbiota della pelle che ciascuno studente maschio accoglieva, come ci insegnano i topi, è probabilmente, almeno in parte, il risultato dei suoi geni, compresi quelli che determinano il suo sistema immunitario. Le ragazze, sebbene inconsciamente, utilizzavano il microbiota come un servizio di messaggistica, che le avvisava dell’unione genetica più opportuna. È sconcertante pensare al numero di relazioni disastrose che sono state probabilmente provocate da deodoranti e antibiotici, per non parlare degli ormoni contraccettivi. Nell’esperimento con le T-shirt le studentesse che prendevano la pillola contraccettiva avevano a quanto pare ribaltato il superpotere subliminale, perché sceglievano le T-shirt di ragazzi il cui sistema immunitario era più simile al loro. Se i feromoni sessuali influenzati dai microbi rappresentano un primo passo nel processo di scelta del compagno, possiamo considerare il bacio la successiva valutazione chimica. Potrebbe sembrare un’idea unicamente umana – forse un fenomeno culturale utilizzato per mostrare il possesso agli astanti senza diventare troppo animaleschi – ma in realtà non siamo l’unica specie a unire le labbra gli uni con gli altri. Scambiarsi saliva e germi perché si desidera stabilire un contatto sembra una faccenda piuttosto rischiosa, soprattutto se si pensa che il bacio bocca-a-bocca con le lingue che si toccano avviene quasi esclusivamente tra non parenti, che potrebbero avere chissà quale malattia. Ma forse è proprio questo il punto. È una buona idea scoprire quali germi il potenziale padre dei nostri cuccioli potrebbe avere prima di rendere voi stessi e i vostri futuri figli ancora più vulnerabili a questi germi. Non solo, perché il bacio vi fornisce un altro, più profondo campione dei rispettivi microbiota. E con esso un assaggio dei geni e delle fondamentali e reciproche attitudini immunitarie. Quando ci baciamo stiamo decidendo in chi riponiamo la nostra fiducia, sia emotiva sia biologica. L’idea che il comportamento sia influenzato dai microbi, per quanto possa sembrare bizzarra, solleva la possibilità del miglioramento di sé per via biologica. Non c’è bisogno di costosi psichiatri né della loro pretesa di scavare nelle oscure profondità delle vostre delusioni infantili, se i microbi possono farvi risparmiare tutti quei soldi e quell’infelicità. Durante un esperimento clinico francese, a cinquantacinque volontari normali e in salute – stavolta esseri umani – è stata somministrata una barretta al gusto di frutta contenente due ceppi di
batteri vivi, oppure una barretta simile ma priva di batteri (un placebo). Dopo un mese di somministrazione quotidiana della barretta, i volontari che avevano ricevuto i batteri vivi si mostravano più felici, meno ansiosi e meno irritabili di quanto erano stati prima dell’esperimento, e i cambiamenti andavano oltre l’effetto placebo. Come accade per gli esperimenti, questo è stato breve e limitato, ma permette di gettare uno sguardo su percorsi di ricerca che vale la pena di esplorare. Com’è possibile che mangiare dei batteri vivi vi faccia sentire più felici? Un potenziale meccanismo sembra avere piacevolmente a che fare con una sostanza chimica che interviene, come si sa, sulla regolazione dell’umore: la serotonina. Questo neurotrasmettitore in realtà si trova principalmente nell’intestino, dove fa in modo che tutto proceda bene. Ma circa il 10 per cento della serotonina si trova nel cervello, regola l’umore e persino la memoria. Come sarebbe semplice e lineare se i batteri ingeriti aprissero bottega nell’intestino e iniziassero a produrre serotonina! Naturalmente non è così facile. L’introduzione di batteri vivi, invece, fa aumentare i livelli di un altro composto del sangue, il triptofano. Questa piccola molecola è di fondamentale importanza per la felicità, perché viene direttamente convertita in serotonina. In effetti i pazienti depressi tendono ad avere nel sangue livelli più bassi di triptofano, e nei paesi la cui popolazione nel complesso ha una dieta più po-vera di triptofano (che si trova nelle proteine) le percentuali di suicidio sono più alte. È persino possibile rendere un individuo profondamente anche se temporaneamente depresso impoverendone le riserve corporee di triptofano. Meno triptofano significa meno serotonina, e meno serotonina significa meno felicità. La cosa affascinante, però, è che l’aumento di triptofano provocato dai batteri extra non si verifica perché viene prodotto in maggior quantità, ma piuttosto perché i batteri impediscono la distruzione delle riserve corporee. E questo porta l’attenzione su un’idea straordinaria, che ha guadagnato terreno non solo tra i microbiologi ma anche in altri campi. Sta diventando sempre più chiaro che proprio come accade per le allergie e l’obesità, la depressione può essere provocata da un sistema immunitario che non funziona a dovere. Ma ci torneremo. Prima desidero parlarvi di un altro meccanismo per cui i batteri possono rendervi felici e che coinvolge il nervo vago, un nervo di primaria importanza che ha origine nel cervello e arriva fino all’intestino, diramandosi in vari organi lungo la strada. I nervi sono simili a cavi elettrici: conducono minuscoli impulsi elettrici per dare istruzioni o percepire cambiamenti. Nel caso del nervo vago gli
impulsi trasportano informazioni su che cosa sta facendo l’intestino: che cosa sta digerendo, quanto è attivo e così via. La particolarità del nervo vago, però, è che informa il cervello su ciò che chiamiamo “sentimenti di pancia”. Le farfalle nello stomaco, quando sappiamo “di pancia” che qualcosa non va per il verso giusto, e il nervosismo che funge da lassativo, insorgono davvero nell’intestino: il cervello viene semplicemente informato grazie agli impulsi elettrici che percorrono a razzo il nervo vago. Non dovrebbe perciò destare sorpresa che gli impulsi elettrici che attraversano il nervo vago diretti al cervello possano anche rendervi felici. I medici riescono addirittura a trattare pazienti affetti da una grave depressione – incurabile con mezzi chimici o comportamentali – dirottando questo sistema. In una terapia del genere, definita stimolazione del nervo vago, si impianta un minuscolo dispositivo nel collo del paziente, da cui partono dei cavi che il chirurgo avvolge con cura intorno al nervo vago. Un generatore alimentato a batteria inserito nel petto fornisce un impulso elettrico che stimola il nervo. Nel corso delle settimane, dei mesi e degli anni i pazienti, aiutati dal loro pacemaker della felicità, diventano costantemente più allegri. Aggiungere questo pacemaker elettrico al nervo vago può provvedere alla necessaria spinta dell’attività nervosa e dell’umore. In circostanze normali quegli impulsi elettrici hanno un’origine chimica, proprio come una batteria domestica. Le sostanze chimiche che avviano gli impulsi nervosi si chiamano neurotrasmettitori, e certamente ne avrete sentito parlare più di quanto vi rendiate conto. Sostanze come la serotonina, l’adrenalina, la dopamina, l’epinefrina e l’ossitocina sono sintetizzate in gran parte dal nostro corpo e sono in grado di dare il via a una piccola scintilla elettrica in una terminazione nervosa. Ma i neurotrasmettitori non vengono prodotti soltanto dalle cellule umane. Il microbiota ha un proprio ruolo, poiché produce sostanze chimiche che agiscono allo stesso modo, stimolando il nervo vago e comunicando con il cervello. I microbi che producono queste sostanze agiscono come uno stimolatore del nervo vago, mandando impulsi elettrici e facendo migliorare l’umore. Perché abbiano questo effetto sull’umore non è chiaro, ma che avvenga è indubbio. Secondo un’ipotesi, influenzando l’umore il microbiota riesce a controllare il nostro comportamento in modo tale da trarne beneficio. Immaginate, per esempio, un ceppo di batteri che si nutra di un particolare composto presente nel cibo. Se mangiamo quel cibo, nutrendo pertanto quei batteri, ed essi sono in grado di “ricompensarci” con una dose di felicità mediante le sostanze chimiche
che producono, tanto meglio per loro. Perché quelle sostanze chimiche fanno in modo che desideriamo ardentemente il cibo di cui i batteri si nutrono, e anche che ricordiamo dove ce lo siamo procurato. Ci fanno ritornare in quel luogo – forse un albero da frutto nel nostro passato evolutivo, o una particolare panetteria oggigiorno – ci fanno mangiare di più e di conseguenza accrescono quel ceppo batterico, producendo ulteriori sostanze chimiche e un ulteriore desiderio di quel cibo. Ritorniamo all’impatto del sistema immunitario sul cervello. Quando le forze armate del corpo si pongono in stato di massima allerta in vista di un attacco, le pallottole vaganti sotto forma di messaggeri chimici chiamati citochine sfrecciano qua e là, provocando talvolta danni non necessari. Queste citochine eccitano i soldati del sistema immunitario e li preparano al combattimento, ma se non c’è alcun nemico, tutto ciò che resta è il fuoco amico. La depressione non sembra l’unico esito neurologico di questa bellicosità immunitaria. Anche gli individui che soffrono di molti degli altri disturbi mentali che ho già citato mostrano segni di iperattività immunitaria, conosciuta come infiammazione. Disturbo da deficit di attenzione (ADHD), disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), disturbo bipolare, schizofrenia e persino morbo di Parkinson e demenza sembrano implicare una iper-reazione immunitaria. Immettere dei batteri benefici nell’intestino, come si è fatto con gli individui nell’esperimento clinico francese, ha un effetto calmante sul sistema immunitario. Non solo può prevenire la distruzione del triptofano e l’aumento dei livelli di felicità, ma può anche ridurre l’infiammazione. Anche nei pazienti autistici il sistema immunitario è impegnato duramente a mandare le citochine a rintuzzare i livelli di aggressività. Il catalizzatore di tutto ciò sembra una certa minaccia percepita da parte del microbiota intestinale alterato, ma la domanda a cui rispondere adesso è:come? Agli studi di Sydney Finegold sulle differenze tra il microbiota di bambini autistici e bambini sani ha fatto seguito un certo numero di tentativi di attribuire la colpa delle patologie ad alcune specie particolari di microbi. Egli ha anche dato un nome al possibile sospetto, un batterio maggiormente presente nei bambini autistici, il Clostridium bolteae. Certamente l’equilibrio batterico è diverso, e spesso sono i batteri di genere clostridia a spuntare tra i colpevoli. Ma che cosa fanno, questi batteri, per alterare tanto profondamente il cervello dei bambini gravemente autistici? Alla University of Western Ontario di London, in Canada, c’è un uomo che grazie alla sua istruzione ed esperienza era perfettamente preparato a giocare un
ruolo in questo nuovo stadio della scienza, in cui cervello e intestino si incontrano. Il dottor Derrick MacFabe si era specializzato inizialmente in neuroscienze e psichiatria. Durante le superiori aveva lavorato con bambini con bisogni speciali, molti dei quali autistici e con problemi gastrointestinali. In seguito, mentre faceva il medico specialista in ospedale, MacFabe si è imbattuto in pazienti con problemi gastrointestinali ritenuti pazzi o affetti da nevrosi, e pertanto ricoverati nel reparto psichiatrico. Aveva anche curato un paziente che, come Miss A. in Belgio, era stato ricoverato per un’improvvisa psicosi ed era stato ritenuto schizofrenico. I suoi sintomi gastrointestinali tuttavia avevano rivelato la vera causa dei disturbi: ancora una volta, la malattia di Whipple. Come i bambini autistici che aveva accudito da ragazzino, questo paziente era estremamente insistente e lo chiamava tutto il giorno: «Dottor MacFabe! Dottor MacFabe! Dottor MacFabe!» Era stato curato con gli antibiotici e, nel giro di una settimana, era tor-nato al suo vecchio sé. In seguito avrebbe detto a MacFabe che sembrava il personaggio di un sogno che aveva preso vita. Nella mente di MacFabe queste esperienze collegavano strettamente l’intestino e il cervello. Era affascinato dall’idea che le sostanze chimiche prodotte da un unico microbo potessero indurre la follia in un paziente. Quando ha sentito parlare della scoperta di Sydney Finegold, secondo cui i bambini autistici erano migliorati durante il trattamento con antibiotici, proprio come era accaduto ai suoi pazienti con la malattia di Whipple, MacFabe ha iniziato a mettere insieme gli elementi. In quel periodo stava studiando i danni subiti dal cervello durante gli ictus, e stava analizzando gli effetti di una molecola denominata propionato. Tale molecola fa parte di un gruppo di importanti sostanze chimiche prodotte dal microbiota intestinale nel momento in cui scinde i resti non digeriti dei nostri pasti. Conosciute come acidi grassi a catena corta, o SCFA, includono tre composti importanti: acetato, butirrato e propionato. Ciascuno di essi esercita molti ruoli e sono tutti fondamentali per la nostra salute e la nostra felicità. Quello che tuttavia ha colpito MacFabe era che, sebbene il propionato fosse un composto importante del nostro corpo, veniva anche impiegato come conservante nei prodotti da forno, proprio il cibo cui anelano molti bambini autistici. Per giunta, si sa che le specie di clostridia producono propionato. Questa molecola in sé non è “cattiva”, ma MacFabe ha iniziato a chiedersi se i bambini autistici non ne assumessero troppo. Forse il microbiota alterato dell’autismo produceva un eccesso di propionato? E avrebbe potuto quel propionato influire sul comportamento?
MacFabe si è imbarcato in una serie di esperimenti per scoprirlo. Attraverso una minuscola cannula posizionata nella colonna vertebrale di ratti vivi, ha iniettato piccolissime dosi di propionato nel liquido cerebrospinale. Nel giro di un paio di minuti, i ratti hanno iniziato a comportarsi in maniera bizzarra; a roteare sul posto, a fissarsi su un singolo oggetto e a urtarsi. Se due ratti venivano messi insieme e veniva somministrato loro del propionato, smettevano di annusarsi l’un l’altro e interagire come al solito, ma correvano in cerchio lungo il recinto ignorando il compagno di gabbia. Non c’era alcun dubbio su quella reazione e la somiglianza con il comportamento autistico è impressionante: potete guardare i video online. Mentre il propionato agiva sul cervello dei ratti si manifestavano tutti i segni distintivi dell’autismo: la preferenza degli oggetti rispetto alle persone, le azioni ripetitive, i tic, l’iperattività. Nel giro di mezz’ora l’effetto si era esaurito e i ratti erano ritornati al loro comportamento normale. Negli animali in cui era stata iniettata una soluzione salina come placebo, non avveniva invece alcun cambiamento comportamen-tale. Lo stesso effetto lo si otteneva anche se si iniettava propionato sottopelle, o se lo si somministrava ai ratti sotto forma di cibo. Il cervello di questi ratti era stato deviato da questa minuscola molecola, che aveva costretto gli animali a comportarsi in maniera anomala. Il propionato provoca nel cervello dei ratti gli stessi danni che l’autismo provoca in quello umano? Comparando il cervello dei ratti con quello di pazienti autistici deceduti e a cui era stata effettuata un’autopsia, MacFabe e il suo gruppo hanno appreso con grande stupore che entrambi erano pieni di cellule immunitarie. Ancora una volta ecco l’infiammazione, come nel caso della schizofrenia e dell’ADHD. Una certa infiammazione nel cervello è normale, poiché delle sinapsi non necessarie vengono assorbite dalle stesse cellule immunitarie che assorbono i patogeni. L’apprendimento rappresenta un accurato equilibrio tra ricordo e dimenticanza. Connettere e schematizzare è un segno distintivo di intelligenza, ma portare troppo in là entrambi i processi farà sentire un individuo poco bene. Quando MacFabe ha messo in un labirinto i ratti trattati con il propionato, ha scoperto che riuscivano a trovare la strada per uscire senza problemi. Ma poi non riuscivano a “disimpararla”: se si cambiava il percorso, loro persistevano con il ricordo di quello iniziale, andando a sbattere contro le nuove pareti. Tutto ciò ricorda la memoria e l’amore per la routine di alcuni autistici. Flo e Kay Lyman sono le uniche gemelle autistiche savant al mondo, sono famose e sono apparse in molti documentari televisivi. Malgrado le molte difficoltà
nell’interazione sociale e l’incapacità di prendersi cura di se stesse, hanno una memoria incredibile. Entrambe le donne riescono a ricordare immediatamente, e per qualsiasi data, il clima, che cosa avevano mangiato e che cosa indossava l’ospite del loro programma televisivo preferito. Conoscono il titolo e il cantante di tutte le canzoni che sono state in classifica, così come la data di uscita. Questi ricordi, una volta formati, si fissano in maniera permanente, come se le sinapsi che li trattengono non venissero mai eliminate. Altre sinapsi, nel frattempo, come quelle che trattengono le regole per cucinare un pasto, non riescono a sopravvivere. Leo Kanner, nel descrivere l’autismo, aveva osservato lo stesso fenomeno. I bambini che studiava sembravano incapaci di adattare una definizione dopo averla imparata. La cosa più disturbante è che molti di loro si riferivano a se stessi con il termine “tu”. Dicendo: “Tu vuoi andare a giocare?” e “Tu vuoi fare colazione?” i genitori inconsapevolmente insegnavano al figlio che il suo nome era “tu”. La memoria era rigida. Un bambino dello studio di Kanner chiamava persino i genitori “io” e se stesso “tu”. Derrick MacFabe ha scoperto che i ratti trattati con il propionato, che non riuscivano a dimenticare il percorso originario per uscire dal labirinto, mostravano un aumento dei composti cerebrali coinvolti nella formazione dei ricordi. Per quanto possa sembrare problematico, MacFabe ritiene che ci sia dietro uno scopo evolutivo. Se i batteri rilasciano un composto che permette al cervello di ricordare, possono assicurarsi che il loro ospite – il corpo umano che li porta – ricorderà dove trovare il cibo che permette loro di riprodursi. Nell’autismo, si chiede, “potrebbe l’iper-attivazione di questo percorso portare a una sorta di dimenticanza compromessa, a comportamenti ossessivi, a interesse per il cibo e a un aumento di ricordi restrittivi?” In effetti sembra che il microbiota sia cruciale per la formazione di un ricordo normale. I topi privi di germi posti in un labirinto hanno sempre difficoltà a trovare la via d’uscita, per via di un deficit nella memoria di lavoro, ovvero la capacità di trattenere a mente le informazioni sui percorsi che hanno già provato mentre si spostano qua e là. Se MacFabe ha ragione, a causa di semplici cambiamenti nella composizione del microbiota il corpo potrebbe venire invaso dal propionato e muterebbe la capacità del cervello di creare e scindere sinapsi durante lo sviluppo del bambino. Ma come fanno il propionato e altri composti che potrebbero provocare vasti danni a viaggiare dall’intestino al cervello? Ad appena un paio d’ore di strada da Derrick MacFabe c’è un altro scienziato che si occupa della questione. La
dottoressa Emma Allen-Vercoe è una microbiologa inglese che lavora alla University of Guelph, e durante un pranzo Sydney Finegold le ha illustrato l’idea che la causa dell’autismo potesse risiedere nell’intestino. Come MacFabe, AllenVercoe ha il sospetto che la combinazione di microbi che si trova nell’intestino del bambino sia in grado di produrre dei composti che interferiscono con le funzioni cerebrali, il sistema immunitario e i geni. Piuttosto che cercare una singola specie unicamente responsabile, lei utilizza un approccio olistico e considera il microbiota intestinale un ecosistema simile a una foresta pluviale. Estrarre una specie qualsiasi dalla foresta pluviale e studiarne il comportamento mentre si trova da sola in una gabbia non rivelerà molto della sua vera natura. Questo vale anche per i microbi, che sono influenzati dalla presenza di altri microbi e dai composti che producono. Perciò, invece che studiare ogni specie singolarmente, Allen-Vercoe ha ricreato la dimora del microbiota, completa di tutti i suoi abitanti, all’esterno dell’intestino. Questa casa-lontano-da-casa del microbiota, una ribollente e maleodorante massa di tubi e bottiglie, è affettuosamente conosciuta come Robogut, intestino robot. Utilizzando il Robogut, Allen-Vercoe ha chiuso un cerchio, dai giorni in cui le colture in laboratorio rappresentavano l’unico modo di studiare i batteri, attraverso la rivoluzione del sequenziamento del DNA, e di nuovo alle colture. Lei non concorda sul fatto che i microbi siano impossibili da coltivare: “È una vera assurdità. Serve un sacco di attrezzatura, una bella dose di pazienza e una vista molto buona. Adesso in congelatore abbiamo file e file di queste specie dette non-coltivabili”. Allen-Vercoe sospetta che il microbiota alterato nell’intestino autistico danneggi le cellule che rivestono il colon, ma invece di chiedersi di quali batteri sia la colpa, si domanda quali, tra le sostanze chimiche prodotte dal microbiota, ne siano responsabili. È stato estratto il microbiota di diversi bambini gravemente autistici sotto forma di feci e gli si è creata una nuova casa all’interno del Robogut. Per assomigliare in maniera piuttosto grossolana al nostro canale interno, il Robogut è dotato di un tubo attraverso cui viene nutrito e un altro da cui rilascia i gas nocivi. Grazie a un terzo tubo è possibile filtrare un po’ del liquido in cui vivono i microbi. In questo “oro liquido” sono contenute le sostanze chimiche prodotte dai microbi stessi e conosciute come metaboliti. La speranza è che sperimentando gli effetti dell’oro liquido sulle cellule dell’intestino in una piastra di Petri il gruppo di ricerca di Allen-Vercoe riesca a
capire quali metaboliti danneggino il cervello dei bambini autistici e che cosa facciano esattamente. C’è con lei un’entusiasta dottoranda, Erin, che sta lavorando a questa idea. Si tratta di una ragazza particolarmente interessata a risolvere l’enigma dell’autismo, perché una persona a lei vicina ne è affetta: suo fratello, Andrew Bolte. Nel 1998 Ellen Bolte ha scritto il suo primo saggio scientifico. Intitolato Autism and Clostridium tetani, è stato pubblicato sulla rivista “Medical Hypotheses” ed espone la sua teoria, secondo cui l’autismo deriva dall’invasione di Clostridium tetani nell’intestino del bambino, dopo la distruzione del normale, protettivo microbiota intestinale da parte degli antibiotici. Il saggio di Ellen è un capolavoro di sintesi epidemiologica e microbiologica, che mette insieme le prove di decine di studi per supportare ciascun aspetto dell’ipotesi. Come pezzo di retorica scientifica, il primo contributo di Ellen nel suo nuovo campo di ricerca attesta il suo passato da programmatrice informatica, in cui ogni idea deve derivare logicamente dalla precedente. Le si può attribuire il coraggio di aver aperto un vaso di Pandora di possibilità mediche, non ultima l’idea che l’alterazione dei microbi del corpo umano possa avere delle conseguenze comportamentali. I risultati di Ellen sono la dimostrazione non solo della sua intelligenza e determinazione, ma anche di quanto può essere forte il bisogno di una madre di proteggere il proprio figlio. Ma come osserva Derrick MacFabe, la cui ricerca è stata influenzata dalla preveggenza di Ellen, “Le ipotesi, per quanto essenziali, non bastano. Devono essere dimostrate”. Fortunatamente Ellen Bolte ha trasferito sia il retaggio delle sue ipotesi sia il suo innato senso di razionalità scientifica alla figlia Erin, che ha scoperto la propria vocazione nel tentativo di risolvere il mistero della malattia che ha cambiato il corso della vita di suo fratello Andrew, oltre vent’anni prima. Erin ha iniziato la sua carriera scientifica con impegno, sotto la guida della dottoressa Emma Allen-Vercoe alla University of Guelph nell’Ontario, in Canada. Utilizzando il Robogut, il suo scopo è di prendere l’ipotesi della madre, nel suo senso più ampio, e di sottoporla a esperimenti. Erin vuole capire esattamente che cosa sia accaduto nell’intestino di suo fratello e in quello degli altri undici bambini il cui autismo è migliorato durante le otto settimane di sperimentazione con antibiotici a cui sono stati sottoposti. Vuole anche sapere perché i genitori di bambini autistici riferiscono di un miglioramento dei sintomi quando si eliminano certi alimenti dalla dieta dei
figli. Il Robogut le dà i mezzi per vedere chiaramente che cosa cambia nel microbiota intestinale autistico quando si aggiungono al mix degli antibiotici del glutine e della caseina (proteine dei cereali e del latte). Poiché gli autistici talvolta migliorano grazie agli antibiotici, quali metaboliti non vengono più prodotti nel momento in cui Erin somministra gli stessi farmaci al Robogut? Dato che gli autistici spesso peggiorano se mangiano dolci da forno, quali metaboliti vengono prodotti in quantità maggiori quando si somministra del glutine al Robogut? Gli esperimenti di Erin gettano le basi non solo per comprendere il ruolo del microbiota nell’autismo, ma per rivelare le sue responsabilità in molte altre patologie neuropsichiatriche. Sua madre Ellen si è spinta ben oltre il senso del dovere, applicando la propria logica da segugio a una malattia estremamente complessa e aprendo una nuova e straordinaria via investigativa quando nessuno voleva ascoltare. Adesso Erin ha raccolto il testimone e dedica la sua notevole intelligenza e determinazione a trovare risposte alle domande che sempre più genitori si pongono. Per Andrew, la cui finestra evolutiva dell’infanzia si è ormai chiusa, la vita sarà probabilmente sempre vissuta nei confini dell’autismo. Per Erin invece, come per Derrick MacFabe ed Emma Allen-Vercoe, la speranza è impedire che questa malattia insidiosa colpisca, come si prevede, tutte le famiglie d’America e altre nel mondo. Nella salute, ci piace pensare di essere il prodotto dei nostri geni e delle nostre esperienze. La maggior parte di noi attribuisce le proprie virtù agli ostacoli che ha superato, alle cadute da cui si è risollevato e alle vittorie per cui ha combattuto. Consideriamo la nostra personalità fondamentale un’entità prefissata – “non mi piace correre rischi” o “mi piace che le cose siano organizzate” – come se si trattasse di qualcosa di intrinseco. I nostri risultati sono invece conseguenza della determinazione e le nostre relazioni riflettono la forza del nostro carattere. O così ci piace pensare. Ma che cosa significa per il libero arbitrio e le capacità individuali non essere padroni di noi stessi? Che cosa significa per la natura umana e per il proprio senso di sé? L’idea che il Toxoplasma o qualsiasi altro microbo che abita nel nostro corpo possa avere un ruolo nei sentimenti, nelle decisioni e nelle azioni è piuttosto sconcertante. Ma se questo non vi sembra abbastanza preoccupante, riflettete su questo: i microbi sono trasmissibili. Proprio come si può passare da una persona all’altra il virus del raffreddore o un’infezione batterica della gola, così accade per il microbiota. L’idea che la formazione della vostra comunità microbica possa essere influenzata dalle persone che incontrate
e dai posti in cui andate conferisce un nuovo significato all’idea di apertura mentale e culturale. Sostanzialmente, condividere cibo e bagni con altri individui potrebbe offrire l’occasione di uno scambio di microbi, nel bene e nel male. Se sia possibile accogliere dei microbi che incoraggiano l’imprenditorialità alla scuola aziendale, un amore pieno di emozioni o la passione per la motocicletta, nessuno lo sa con certezza per ora, ma l’idea che alcuni tratti della personalità si trasmettano da una persona all’altra apre davvero la mente.
4. Il microbo egoista
Chiunque vorrebbe sapere come rendere migliore il proprio sistema immunitario. Se digitate su Google la parola “sistema immunitario”, la prima frase suggerita associa ottimisticamente i termini al verbo “rafforzare”. In un mondo ideale otterremmo tale rinforzo grazie a un dolce superfood, per esempio certe bacche provenienti da una segreta località sulle Ande, il cui costo esorbitante vorrebbe dire una cosa soltanto: devono funzionare! Per la maggior parte delle persone rafforzare il sistema immunitario significa più che altro evitare l’infinito ciclo di raffreddori inframmezzati da un’occasionale influenza presa dopo aver toccato le maniglie brulicanti di germi di autobus e treni. Il motivo per cui siamo tanto soggetti a prenderci infezioni è la sfortunata conseguenza della nostra smodata socievolezza. Almeno una volta all’anno è inevitabile incappare in qualche spiacevole settimana in cui non ci sentiamo abbastanza bene da lavorare ma neppure abbastanza male da trascorrere la giornata sul divano. Naturalmente, se stringiamo i denti e ci trasciniamo in ufficio, con il naso che cola per tutto il giorno, facciamo proprio quello che “vuole” il fastidioso microbo: continuare a essere socievoli e in tal modo diffonderlo in lungo e in largo. “Non abbastanza ammalato da restare in casa” significa che l’agente patogeno (cioè il microbo che provoca la malattia) ha raggiunto il perfetto equilibrio tra virulenza e innocuità. È al contempo sufficientemente virulento da riuscire a trasmettersi – colpi di tosse e starnuti diffondono le malattie! – e sufficientemente innocuo da esser certi che non morirete prima di incontrare altri individui: tutti potenziali ospiti di quel microbo. Una delle piccole fortune di malattie infettive gravissime come Ebola e antrace, con percentuali di mortalità intorno al 90 per cento, è che sono così virulente e uccidono talmente in fretta che non riescono quasi a infettare nessun altro. I tremendi sforzi dell’Ebola per prolungare l’epidemia iniziata nel 2014 nell’Africa occidentale sono probabilmente dovuti al fatto che stava diventando meno virulenta: la percentuale dei decessi era calata al 50-70 per cento degli individui infettati. Per via di questa diminuzione della virulenza, e quindi della mortalità, le vittime vivono quel tanto che basta per dare al virus più occasioni di
trasferirsi su un nuovo ospite e continuare a propagarsi. Molti animali selvatici, d’altro canto, tendono a non soffrire di queste fastidiose patologie, non perché il loro sistema immunitario sia di qualità superiore, ma perché, per favorire l’insorgenza della malattia, è necessario l’incontro tra individui predisposti e arrivati da poco. Le solitarie capre delle Alpi francesi non incontrano mai le cugine dei Pirenei, perciò le infezioni sono rare. Parimenti, le malattie infettive non riescono a prendere piede tra le specie che preferiscono condurre un’esistenza in gran parte solitaria, come i leopardi. Se unite alla smodata socievolezza la passione per i viaggi, gli agenti patogeni gongolano, perché significa contatto costante e un’illimitata fornitura di sangue nuovo. Non è un caso che insieme agli esseri umani i pipistrelli siano uno dei più potenti vettori delle malattie a livello mondiale (compresa l’Ebola, probabilmente). Proprio come noi, questi animali vivono in grandi colonie di migliaia o milioni di individui, ammassati in spazi densamente popolati, il che fornisce ai patogeni ampie possibilità di insediarsi e di diffondersi a macchia d’olio, per poi mutare e compiere un altro balzo, magari mesi o anni dopo. I pipistrelli inoltre volano. Quando gli individui provenienti da tane diverse si riuniscono nei luoghi in cui si trova il cibo, altrettanto fanno i loro microbi, creando ponti tra popolazioni altrimenti isolate. Gli esseri umani condividono con i pipistrelli queste caratteristiche – la sfrenata socievolezza e la notevole mobilità – anche più di quanto basterebbe. Ci ammassiamo tutti nelle città e sugli aerei per girare il mondo, e nel frattempo condividiamo e diffondiamo microbi, patogeni o innocui che siano. La verità è che la maggior parte degli individui non ha certo un sistema immunitario pigro, ma iperattivo. Potrebbe sembrare normale avere un attacco di febbre da fieno tutte le primavere e starnutire ogni volta che si prende in braccio il gatto, ma non lo è. Normale forse nel senso che moltissimi abitanti del mondo sviluppato soffrono di allergie. Ma fate un passo indietro e provate a pensare a che genere di processo evolutivo porterebbe al 10 per cento di bambini che talvolta hanno difficoltà di respiro, come accade con l’asma. Per il 40 per cento dei bambini e il 30 per cento degli adulti, quale sarebbe il vantaggio di essere intolleranti a sostanze tanto comuni quanto il polline, nel caso della febbre da fieno? Gli allergici raramente pensano di avere una disfunzione del sistema immunitario, e invece è proprio così. Ciò di cui hanno bisogno, tuttavia, non è di un “rinforzo” ma piuttosto dell’opposto. Le allergie rappresentano l’esito di un sistema immunitario troppo zelante, che agisce per distruggere sostanze che non costituiscono alcuna minaccia reale per il corpo. In effetti curarle spesso
significa placare il sistema immunitario, mediante steroidi o antistaminici. Nei paesi più sviluppati le allergie sono già ben consolidate. Negli anni Novanta la fase di crescita è rallentata e si è arrivati a un ristagno nella quota di popolazione colpita. Questa stabilizzazione potrebbe semplicemente indicare che tutti gli individui geneticamente soggetti alle allergie ormai ne sono affetti, e non che si è stabilizzata la causa di fondo. Ma lontano dalla pazza folla, in quelle parti del mondo realmente rurali, preindustriali e non occidentalizzate, le allergie non rappresentano un problema come altrove. Nei luoghi che si trovano a metà del guado tra il mondo sviluppato e sacche sempre più rare di cultura tribale, l’impietoso aumento continua, tirando dentro un numero sempre maggiore di soggetti in questo stato di innaturale ed eccessiva reazione immunitaria, da una generazione all’altra. Da quando in Occidente le allergie hanno iniziato ad aumentare, negli anni Cinquanta del XX secolo, il problema che ci si è posti è stato: qual è la causa di fondo? Per buona parte dell’ultimo secolo si è usualmente pensato che nei bambini si inneschino allergie nel momento in cui insorgono infezioni. Nel 1989 la teoria è stata messa in dubbio dal medico britannico David Strachan, il quale, in un breve e chiaro articolo, ha ipotizzato l’esatto contrario, ovvero che le allergie siano il risultato di troppo poche infezioni. Strachan aveva analizzato un database nazionale contenente informazioni sanitarie e sociali di un gruppo di oltre 17.000 bambini inglesi, nati in un’unica settimana del mese di marzo del 1958 e seguiti fino all’età di ventitré anni. Di tutti i dati raccolti su questi bambini – classe sociale, benessere, collocazione geografica e così via – spiccavano due elementi che potevano avere un legame con la probabilità di soffrire di febbre da fieno. Il primo era il numero di fratelli e sorelle del bambino: un figlio unico aveva molte più probabilità di soffrire di febbre da fieno rispetto a un soggetto con tre o quattro fratelli. Il secondo era la posizione del bambino nella famiglia: i bambini con fratelli maggiori avevano meno probabilità di soffrire di febbre da fieno rispetto a coloro che ne avevano di più piccoli. Come chiunque abbia dei figli ben sa, la prima infanzia porta talvolta con sé un flusso costante di raffreddori. I bambini piccoli sono veri e propri focolai di virus e batteri, poiché il loro sistema immunitario ancora non conosce gli assalti di quegli agenti patogeni che fronteggiano quotidianamente gli esseri umani. Per via dell’abitudine a mettersi in bocca qualsiasi cosa sia alla loro portata, i microbi, sia quelli buoni sia quelli cattivi, si diffondono liberamente ovunque essi vadano. Più sono i bambini, e più microbi si diffondono, in scie di muco e
saliva simili a quelle delle lumache. L’ipotesi di David Strachan era che i bambini appartenenti a famiglie più numerose traessero beneficio dalle infezioni supplementari che i fratelli – soprattutto maggiori – portavano a casa. In qualche modo, pensava, queste infezioni nei primi anni di vita del bambino recavano con sé una protezione dalla febbre da fieno e da altre allergie. Subito battezzata “teoria dell’igiene”, l’idea di Strachan si basava sul fatto che l’aumento delle allergie corrispondeva con il miglioramento, nel corso del tempo, degli standard igienici. Da una veloce ripulita in una vasca tiepida prima di andare in chiesa si era passati a una doccia quotidiana sotto un getto d’acqua bollente. Il cibo non veniva più conservato in salamoia o fermentato, ma refrigerato e congelato. Le famiglie iniziavano a rimpicciolirsi e la vita diventava sempre più urbana e sofisticata. La teoria dell’igiene era davvero sensata, soprattutto perché nei paesi in via di sviluppo, con alte percentuali di malattie infettive, le allergie erano ancora rare. Sembrava che in Europa e in Nord America gli individui fossero semplicemente troppo puliti per stare bene e che il loro sistema immunitario mordesse il freno, impaziente di aggredire una qualunque innocua particella, come il polline. Anche se la teoria dell’igiene rappresentava un paradigma nuovo per gli immunologi, si è velocemente guadagnata il favore scientifico e possiede un certo fascino intuitivo: le cellule immunitarie vengono facilmente rappresentate sotto forma di aggressivi cacciatori, desiderosi di scovare e distruggere. Se hanno troppo poco da fare, ce le immaginiamo smaniose. E così, nel momento in cui le peggiori malattie infettive vengono abbattute dai vaccini e la pulizia si occupa dei germi più benigni, le cellule immunitarie se ne restano lì irritate, senza più niente da sterminare. Questo antropomorfismo rende fin troppo facile accettare l’esito ipotizzato: le cellule immunitarie, ormai disoccupate, volgono la propria attenzione a particelle innocue e continuano la grande battaglia. L’idea è stata estesa dalle infezioni batteriche e virali ai parassiti, in particolare ai vermi come la tenia, gli ossiuri e l’anchilostomatide. Come accade per i microscopici agenti patogeni, nel mondo occidentale le probabilità che prendiate a bordo un verme si sono assottigliate fino a quasi sparire. Tra gli scienziati e i non addetti ai lavori è rimasto il sospetto che i vermi tenessero occupato il sistema immunitario e che la loro assenza l’abbia lasciato sovradimensionato e sottoutilizzato. Il legame svelato da David Strachan tra le dimensioni delle famiglie e le allergie poggia su decine di altri studi. È emersa una teoria chiara su come quell’idea possa funzionare con precisione. Immaginate per un momento che il
sistema immunitario abbia due divisioni: la fanteria e la marina. Perdonatemi per favore questa eccessiva semplificazione delle forze armate, ma ipotizziamo che la fanteria affronti le minacce sulla terra e la marina quelle sul mare. Se le minacce marine diminuiscono, molti di coloro che si sarebbero arruolati in marina vengono invece reclutati nella fanteria. Ma senza ulteriori minacce terrestri quest’ultima risulta sovradimensionata. Nel corpo va più o meno allo stesso modo: una divisione di cellule immunitarie conosciute come T helper 1 (Th1) di norma reagisce a minacce da parte di batteri e virus. Una seconda divisione – le cellule T helper 2 (Th2) – reagisce invece contro i parassiti, compresi i vermi. Se le malattie infettive retaggio di virus e batteri calano a causa della maggiore igiene, la divisione Th1 si rimpicciolisce e la Th2 si accolla le eccedenze, ma le sue cellule in più si ritrovano con ben poco da fare. Perciò, oltre ad andare in cerca di vermi, iniziano ad aggredire particelle innocue, compresi i pollini e i derivati epidermici. Era una teoria semplice ed elegante, ma anche realistica? Per supportare la propria ipotesi, Strachan aveva di fronte una nuova sfida: trovare un legame chiaro non soltanto tra le dimensioni delle famiglie e le allergie, ma tra queste ultime e le infezioni. Alcuni dati sembravano fornire sostegno all’idea: gli individui infettati con l’epatite A o il morbillo a quanto pare non soffrivano di allergie quanto i soggetti sani. Eppure, per quanto sconcertante, per la maggioranza delle infezioni comuni era difficile trovare una prova di questo legame. Lo stesso Strachan, d’altro canto, ha scoperto che i bambini colpiti da un’infezione nel primo mese di vita non avevano maggiori probabilità di diventare allergici rispetto a coloro che non erano mai stati infettati. Anche nei casi in cui a più infezioni corrispondevano meno allergie, c’era spesso una spiegazione migliore per chiarire il legame. Purtroppo, come la mia analogia tra fanteria e marina, la semplicistica divisione dei compiti anti-patogeni del sistema immunitario tra cellule Th1 e Th2 non è avvalorante, perché nessun patogeno viene combattuto solamente dalle cellule Th1 o Th2: tutti ne aizzano alcune per ciascun tipo. Inoltre, se l’aumento percentuale delle allergie fosse attribuito a un eccesso di cellule Th2, allora il diabete infantile e la sclerosi multipla non sarebbero in crescita. Si tratta di due malattie autoimmuni, in cui il corpo aggredisce le proprie cellule, e in entrambe si assiste a un eccesso non della divisione delle Th2 ma di quella delle Th1. L’elemento più contraddittorio della teoria dell’igiene, però, è che in assenza di germi e di vermi, le cellule del sistema immunitario avrebbero comunque un
obiettivo apparentemente legittimo da aggredire, rispetto ai pollini e ai derivati epidermici. Anche se i veri e propri agenti patogeni visitano ormai di rado gli uomini occidentali, il loro corpo presenta un’occupazione microbica le cui dimensioni dovrebbero intimidire anche il più vorace sistema immunitario. Del peso di circa un chilo in totale, con il centro di controllo nel colon, questo invasivo gruppo di “germi” – il microbiota – abita accanto alla più grande concentrazione di cellule immunitarie del corpo umano. E tuttavia sopravvive, indenne. Se il sistema immunitario fosse effettivamente eccitato, ma senza nemici da attaccare, non coglierebbe con gioia l’opportunità di prendersela con questi intrusi? Tutto si riduce al problema di come il sistema immunitario sappia che cosa attaccare. La faccenda può sembrarvi ovvia: dovrebbe attaccare qualsiasi cosa non faccia parte del corpo. Il non-umano nell’essere umano, il non-gatto nei gatti, il non-topo nei topi. In altre parole il nonsé. Tutto ciò che bisognerebbe fare sarebbe riconoscere quello che è umano (o gatto, o topo) – sé – e tollerarlo, e quello che è non-umano – non-sé – e distruggerlo. È stato questo dogma del sé e non-sé che ha strutturato l’immunologia per oltre un secolo. Adesso però riflettete su che cosa accadrebbe se il sistema immunitario applicasse sul serio questo sistema di classificazione, ovvero se aggredisse qualsiasi cosa in cui si imbattesse che è non-sé. Molecole di cibo? Polline? Polvere? Persino la saliva di un altro individuo? Reagire a questi elementi non è utile e rappresenta un totale spreco di energia, perché essi sono, di per sé, innocui. Semplicemente perché qualcosa è non-sé non implica che sia pericoloso e debba essere attaccato. Alcune cose è meglio lasciarle in pace. D’altro canto, immaginate che cosa accadrebbe se il sistema immunitario non distruggesse niente che non fosse sé. È leggermente più complicato, ma non meno importante, perché ci sono molte cose a cui potreste pensare come sé, ma che sono nondimeno sgradite. Tanto per incominciare, se non fosse per la rimozione di un sé da parte del sistema immunitario, avremmo tutti quanti le dita delle mani e dei piedi palmate. Intorno alla nona settimana di gravidanza il feto ha appena iniziato ad avere un aspetto umano, ma è più o meno delle dimensioni di un chicco d’uva. A questo punto, le cellule tra le dita di mani e piedi “si suicidano”, ovvero subiscono una morte cellulare programmata per consentire loro di separarsi. Questa operazione di pulizia è gestita dai fagociti, un gruppo di cellule immunitarie che avvolgono e smontano le membrane eliminate. La stessa cosa accade con le sinapsi del cervello. Per ottenere quell’equilibrio perfetto tra ricordo e dimenticanza è necessario distruggere le
connessioni tra neuroni che non sono più utili, compito portato a termine da una forma specializzata di fagociti. Lo stesso accade per le cellule che rischiano di diventare cancerose. Più spesso di quanto vi preoccupiate di sapere (stiamo probabilmente parlando di una dozzina di volte al giorno) quando il DNA viene replicato si verificano diversi errori, che rischiano di dare a una cellula la chiave dell’immortalità: il cancro. Le cellule del sistema immunitario pattugliano pertanto il corpo in cerca dei segnali di questi errori e quasi sempre impediscono che si verifichino. Tollerare alcune sostanze del non-sé e aggredire alcune molecole del sé è importante quanto distruggere gli agenti patogeni del non-sé. È piuttosto chiaro che il microbiota è non-sé. Si tratta di interi organismi che appartengono non solo a specie diverse dalla nostra, ma anche a regni diversi. Per non parlare del fatto che sono estremamente simili proprio alle creature che provocano tanti guai al sistema immunitario: le varietà patogene di batteri, virus e funghi. I membri del microbiota sono persino dotati sulla superficie di molecole rivelatrici uguali a quelle che il sistema immunitario utilizza per localizzare gli agenti patogeni. Ma qualcosa in questi microbi dice al sistema immunitario di non partire all’attacco. L’originaria teoria dell’igiene di David Strachan era eccellente, ma adesso si trova ad affrontare una revisione. Lo studioso ipotizzava che più infezioni si combattevano nell’infanzia minori fossero le probabilità di diventare allergici in futuro. Il problema è che non ci sono prove a sostenere questa idea e i meccanismi non funzionano davvero. In un certo senso, tuttavia, il ripensamento che sta subendo la teoria dell’igiene è piuttosto sottile. Anche se non provoca alcuna malattia, il microbiota è, per certi versi, un’estesa infezione. Questi microbi sono intrusi, ma lo sono da talmente tanto tempo, e apportano tali benefici, che il sistema immunitario ha deciso di ospitarli. Quindi come hanno fatto i nostri microbi locali a evitare di essere distrutti? E che cosa succede al nostro sistema immunitario, armonizzato con tanta precisione, se il microbiota perde il proprio equilibrio? C’è stato un momento, nella mia scoperta dei microbi che abitano il corpo umano, in cui ho smesso di considerarmi un individuo e ho iniziato a vedermi come il contenitore del mio microbiota. Adesso considero noialtri – me e il mio microbiota – una squadra. Ma come in ogni relazione, ottengo soltanto ciò che do. Io li rifocillo e li proteggo, loro in cambio mi sostengono e mi nutrono. Mi ritrovo a pensare alle mie scelte alimentari in termini di quello che i miei microbi sarebbero grati di ricevere e alla mia salute fisica e mentale come a un indicatore
della mia capacità di ospitarli. Rappresentano la mia colonia personale e la loro conservazione ha per me lo stesso valore che il benessere delle cellule del mio stesso corpo. Malgrado la mia capacità inconfondibilmente umana di comprendere questo sodalizio, non si tratta di un’alleanza inconfondibilmente umana. Come spiegherò nel sesto capitolo, la nostra colonia ha inizio con un’arca di Noè di specie, donate a voi da vostra madre alla nascita. I primi microbi di vostra madre, naturalmente, provenivano da vostra nonna e così via ad infinitum. Nell’indefinito universo di 8000 generazioni fa, quel dono microbico è stato tramandato di madre in figlio nei nostri antenati pre-Homo sapiens. Nell’ambito della nostra storia evolutiva, questo trasferimento risale oltre l’umanità, oltre i primati, persino oltre i mammiferi, per giungere agli albori del regno animale. Uno dei giochetti preferiti dei docenti di biologia consiste nel chiedere agli studenti di allargare le braccia e tracciare la biografia del pianeta nell’estensione tra le due mani. Sulla punta del dito medio della destra c’è la formazione della terra, 4,6 miliardi di anni fa. La punta della mano sinistra rappresenta invece il mondo attuale. La terra si raffredda più o meno all’altezza del gomito destro e lì inizia la vita sotto forma di batteri. Da questi semplici esordi bisogna quasi giungere al polso sinistro – 3 miliardi di anni dopo – affinché si evolvano gli animali più semplici. I mammiferi, in tutta la loro pelosa e pensierosa gloria, sono arrivati più o meno all’indice sinistro, e gli esseri umani come noi si sono fatti avanti giusto a un pelo dall’unghia di quel dito. È già stato detto: un colpo di lima e ogni traccia della nostra esistenza svanirebbe (Figura 4.1). Gli animali, pertanto, non hanno mai conosciuto la vita senza batteri. La loro esistenza è così intrecciata che all’interno di (quasi) ogni cellula di ogni animale si sono infilate cellule fantasma dei più semplici batteri. Avvolti da una cellula più grande, questi batteri si guadagnano degnamente l’ospitalità, perché ciascuno si specializza nel produrre energia dalle molecole di cibo. Sono i vostri mitocondri – le centrali elettriche delle cellule – che convertono il cibo in energia grazie alla respirazione cellulare. Fondamentali per la vita multicellulare, adesso come nei primi giorni del regno animale, questi ex batteri si sono così radicati che di fatto non li consideriamo più neppure dei microbi. I mitocondri rappresentano una firma evolutiva delle prime alleanze tra due organismi. Da allora, anche l’organismo più piccolo collabora con quelli più grandi (Figura 4.2).
Figura 4.1 - Una storia del pianeta Terra.
Figura 4.2 - L’evoluzione dei mitocondri.
È possibile scorgere lo schema di queste alleanze nell’albero della vita. Se disegniamo un albero evolutivo che rappresenti le relazioni tra specie di mammiferi, e un altro relativo ai batteri che abitano quei mammiferi, ci rendiamo conto che nel corso del tempo evolutivo i due gruppi hanno viaggiato insieme. Questi alberi si rispecchiano a vicenda: dove una specie di mammifero si divide in due, anche i microbi che ospita si dividono, evolvendosi separatamente con i loro nuovi mammiferi ospiti da quel punto in avanti. Questa compatta relazione tra un organismo ospitante e il suo microbiota ha condotto a una nuova, rivoluzionaria idea evolutiva, che giunge al cuore dei meccanismi dell’evoluzione per selezione naturale. Inizierò come ha iniziato Darwin nell’Origine delle specie, ovvero non con la selezione naturale ma con una selezione artificiale. Darwin descrisse un
allevamento di piccioni, perché quello era il passatempo preferito di una certa classe di gentiluomini della sua epoca, mentre io illustrerò il mio argomento con i cani. Sia l’alano sia il fox terrier discendono dal lupo, e tuttavia nessuno dei due assomiglia al suo ante-nato. L’alano è stato allevato per la caccia al cervo, al cinghiale e persino all’orso nelle foreste della Germania. A ogni generazione gli allevatori scelgono cani di determinate dimensioni, velocità e potenza affinché diventino i genitori della successiva. Gradualmente questi tratti si fanno più pronunciati, perché gli allevatori selezionano (artificialmente, non naturalmente) le caratteristiche più adeguate tra le varianti dei cani. Il fox terrier, all’altro capo della scala, è stato selezionato per la velocità, l’agilità e l’abilità a infilarsi nelle tane delle volpi, sempre dagli allevatori, non dall’ambiente naturale. La selezione naturale funziona più o meno alla stessa maniera, solo che invece che essere un allevatore a scegliere quali caratteristiche selezionare, se ne occupa l’ambiente naturale. Un ghepardo deve avere zampe abbastanza forti da inseguire la preda, cuore e polmoni abbastanza grandi da resistere più a lungo, occhi abbastanza acuti da notare il cucciolo ai margini di un branco di gazzelle. Una rana deve avere delle zampe sufficientemente palmate da farla procedere nell’acqua, uova abbastanza robuste da sopravvivere al calore del sole e un’epidermide sufficientemente mimetica da sfuggire all’attenzione dell’airone. Ciascuno di questi tratti è stato selezionato: dal clima, dall’habitat, dagli antagonisti, dalla preda o dai predatori dell’organismo. Ciò di cui i biologi dell’evoluzione discutono è che cosa esattamente venga selezionato. Potrebbe sembrare semplice: l’individuo con i muscoli più potenti o i piedi palmati è colui che vivrà e si riprodurrà. È quell’individuo che è stato scelto dagli eventi per riprodursi. Ma allora perché le leonesse aiutano i propri cuccioli? Perché le api operaie si danno da fare per la regina? Perché le giovani gallinelle d’acqua aiutano i genitori? E, fatto più sconcertante, come mai il pipistrello vampiro rigurgita il sangue di cui si è nutrito a favore di un compagno che non è riuscito a mangiare, anche se i due non sono imparentati? Se a un individuo importasse soltanto il proprio successo riproduttivo, perché mai aiutare gli altri? Sono queste le domande che spingono i biologi a parlare di selezione al di sopra del livello individuale. Se la cooperazione aiuta i membri di un gruppo a riprodursi, soprattutto se non sono parenti, non sono soltanto gli individui a essere selezionati dal proprio ambiente, ma interi gruppi. Richard Dawkins ci ricorda che sia la selezione individuale sia quella di gruppo non colgono il punto. Nel suo libro del 1976 Il gene egoista sosteneva la prospettiva di diversi autorevoli biologi dell’evoluzione, e cioè che la selezione
naturale, in ultima analisi, sceglie tra geni. I corpi, afferma, sono semplici mezzi dei geni, che consentono loro di condurre un’esistenza immortale. Come gli individui, essi possiedono varianti, possono essere replicati e si tramandano tra generazioni. Il punto è che sono i geni a determinare le probabilità riproduttive di un individuo, e pertanto sono loro, non gli individui, a essere selezionati pro o contro. Naturalmente però non possono agire da soli. Persino il gene più vitale e procreativo che la mutazione potrebbe donare a un individuo è limitato dalle qualità di quelli che gli stanno accanto. Il che ci riporta all’inizio – all’individuo – ma forse con una maggiore consapevolezza della complessità in cui la selezione naturale agisce. L’evoluzione accoppiata delle specie ospitanti e del loro microbiota aggiunge un ulteriore strato a questa intricata rete di cortesie evolutive. Prendiamo un erbivoro – un bisonte – per immaginare il compito della selezione naturale in assenza del microbiota. Il nostro bisonte sarebbe abbastanza grande da tenere alla larga i lupi, abbastanza peloso da starsene al caldo durante l’inverno e abbastanza forte da coprire lunghe distanze in cerca di un buon pascolo. Ma queste e molte altre caratteristiche vitali e procreative del bisonte sono inutili senza un ragionevole assortimento di microbi intestinali. Di per sé il bisonte non è in grado di digerire l’erba, e con lo stomaco pieno di erba intatta non può assorbire le molecole del cibo e non può produrre energia. Senza energia non può crescere, muoversi, riprodursi o restare in vita. È inutile. Il bisonte e il suo microbiota si sono evoluti insieme. Sono stati selezionati insieme. Il bisonte dev’essere abbastanza grande e peloso e forte ma, per guadagnarsi i favori della selezione naturale, deve anche essere in grado di digerire. Dev’essere abbastanza microbico. L’unione dell’ospitante (il bisonte, il pesce, l’insetto o l’essere umano) e dei suoi microbi viene chiamata “olobionte”. È questa co-dipendenza, questa ineluttabilità evolutiva, che ha condotto Eugene e Ilana Rosenberg, dell’università di Tel Aviv, in Israele, a proporre un ulteriore livello a cui può agire la selezione naturale. Non vengono selezionati soltanto gli individui per i propri pregi riproduttivi, e così i gruppi, ma anche gli olobionti. Poiché nessun animale può vivere senza il proprio microbiota, e nessun microbiota senza l’organismo ospitante, selezionarne uno senza l’altro è impossibile. La selezione naturale allora agisce su entrambi, scegliendo, come fa con gli individui, le combinazioni di mezzo e passeggeri sufficientemente forti, idonei e adatti a sopravvivere e a riprodursi. In ultima analisi, chiarisce Dawkins, è sui geni che agisce la selezione, che si tratti di geni animali o microbici. L’idea dei Rosenberg pertanto è nota come
“selezione dell’ologenoma”: una selezione combinata del genoma dell’ospitante e del microbioma. Il punto è che il sistema immunitario umano non evolve in solitudine. Non c’è mai stata una sterile serie di noduli, dotti e cellule erranti in attesa dell’assalto da parte di un nemico sconosciuto, ma è “cresciuto” in compagnia di microbi di ogni genere, sia quelli che ci fanno chiaramente ammalare sia quelli che ci mantengono in salute. A causa di questo millenario legame, il sistema immunitario si aspetta che i microbi ci siano. E quando non ci sono, manca l’equilibrio. È come se aveste imparato a guidare con il freno a mano sempre tirato. Sapete esattamente quanta pressione applicare al pedale dell’acceleratore per vincere la resistenza del freno, ma all’improvviso, dopo decenni che guidate senza problemi, vi tolgono il freno a mano e, pur cercando di mantenere il controllo, la vostra guida diventa disordinata e incostante. Naturalmente, anche gli individui più ammalati non sono del tutto privi di un microbiota, perciò non sappiamo con certezza quale caos il sistema immunitario potrebbe provocare in sua assenza. Nella storia dell’umanità soltanto un individuo ha vissuto senza microbiota, o quasi. Per riuscirci questo ragazzo ha trascorso la propria esistenza all’interno di una bolla in un ospedale di Houston. Conosciuto dai media come bubble boy, il bambino nella bolla, David Vetter era affetto da immunodeficienza combinata grave (SCID), il che significa che era del tutto incapace di difendersi dagli agenti patogeni. I genitori di David avevano perso il primo figlio a causa della stessa patologia genetica, ma i medici speravano che presto si sarebbe arrivati a una terapia, perciò la madre aveva portato avanti una seconda gravidanza. David è nato nel 1971 con taglio cesareo all’interno di una bolla di plastica sterile. Veniva toccato con guanti di plastica sterili e nutrito con latte artificiale sterile per neonati. Non ha mai conosciuto il profumo della pelle di sua madre, né il tocco della mano di suo padre. Non ha mai giocato con un altro bambino senza protezioni di plastica che impedissero la condivisione di giochi e di risate. Per poter far uscire David dalla sua bolla era necessario un trapianto di midollo osseo dalla sorella, nella speranza di riuscire in tal modo a mettere in moto il suo sistema immunitario e a liberarlo da quella malattia. La sorella però non era un soggetto compatibile e lui non aveva altra scelta che restare nella bolla per il resto della vita. Malgrado la devastante malattia, David ha vissuto quell’esistenza superprotetta in relativa salute e non si è ammalato fino alla morte, all’età di dodici anni. Era curiosamente dotato di scarsa memoria spaziale, ma era
ipersensibile al trascorrere del tempo, forse perché il suo cervello non aveva bisogno di farsi strada nello spazio, ma solo nel tempo. Durante il suo isolamento sono stati condotti molti studi sulla salute fisica e mentale di David, ma all’epoca i benefici noti del microbiota si limitavano al suo ruolo nella sintesi delle vitamine, e per quanto concerne David non si sono studiate le conseguenze del fatto che fosse privo di germi. Infine, in assenza di un donatore compatibile, si è deciso che David avrebbe comunque ricevuto un trapianto di midollo osseo dalla sorella, malgrado i rischi. Un mese dopo l’intervento, però, il ragazzo è morto a causa di un linfoma, un cancro del sistema immunitario, provocato dal virus di Epstein-Barr, inconsapevolmente ospitato nel midollo osseo della sorella e che, all’insaputa dei medici, era stato trasferito a David. Malgrado tutti gli sforzi per mantenere David privo di germi, dalla nascita in poi il suo intestino era stato colonizzato da diverse specie di batteri. I suoi medici lo sapevano, poiché eseguivano periodicamente una coltura dei batteri delle sue feci, ma la semplice colonia che aveva acquisito non sembrava arrecargli alcun danno. Se David fosse stato davvero privo di germi, il medico che gli ha praticato l’autopsia avrebbe forse scoperto che il suo apparato digerente era decisamente fuori norma. La prima sezione dell’intestino crasso, simile a una pallina da tennis – il cieco – a cui è attaccata l’appendice, sarebbe stata delle dimensioni di un pallone da calcio. La superficie ripiegata dell’intestino tenue avrebbe avuto un’area molto più piccola del normale, con meno vasi sanguigni a irrorarla. Invece l’apparato digerente di David era simile a quello di qualsiasi altro bambino. Queste differenze gastrointestinali sono tipiche degli animali privi di germi, anche se non se ne conosce il motivo. Una ricercatrice mi ha riferito che la prima volta che ha sezionato un topo privo di germi è rimasta esterrefatta dalle dimensioni del suo cieco, che occupava la maggior parte dell’addome. In seguito ha appreso che tutti i topi privi di germi hanno un cieco sovradimensionato. Anche il sistema immunitario è nettamente diverso da quello degli animali normali, un po’ come se, dopo la nascita, non fosse mai maturato. L’intestino tenue dei mammiferi colonizzati in maniera normale, compresi gli esseri umani, è punteggiato da insiemi di cellule che agiscono come stazioni doganali e sono chiamate placche di Peyer. In ogni placca c’è una fila di minuscoli centri di valutazione, in cui vengono trascinate le particelle di passaggio non-sé, per essere “intervistate” dalle cellule immunitarie sulle loro intenzioni e scopi. Quelle che risultano sospette innescano una caccia, all’interno dell’intestino e talvolta nel resto del corpo, alla ricerca delle altre. Negli animali privi di germi,
però, queste stazioni doganali sono poche e distanti, con doganieri scarsamente addestrati e lenti ad avver-tire i colleghi di una breccia nel confine. Con un sistema immunitario del genere, un animale privo di germi che si trovi all’esterno del sicuro riparo di una bolla d’isolamento non gode di buone prospettive. E in effetti, quando vengono fatti uscire dal loro bozzolo, gli animali privi di germi cadono ben presto vittima di infezioni e muoiono. Chiaramente il microbiota altera lo sviluppo del sistema immunitario, il che ha un potente effetto sulla sua capacità di combattere le malattie. Quando vengono infettate con il batterio Shigella – che provoca una grave diarrea negli esseri umani – le cavie normali non si ammalano, mentre quelle prive di germi invariabilmente muoiono, ma è sufficiente trasferire nelle cavie soltanto una specie del normale microbiota per proteggerle dagli effetti fatali di quel batterio. Questo effetto tuttavia non si osserva soltanto negli animali totalmente privi di germi: anche se si somministrano degli antibiotici che alterano il normale equilibrio del microbiota, aumentano le infezioni. I topi sottoposti a una terapia antibiotica, per esempio, non riescono a contrastare il virus dell’influenza, introdotto attraverso il naso, perciò si ammalano, mentre quelli che non sono sotto antibiotici restano sani. Non si produce un numero sufficientemente elevato di cellule immunitarie e di anticorpi – che incalzano gli agenti patogeni per distruggerli – da impedire che l’infezione si diffonda nei polmoni. Sembra paradossale, perché gli antibiotici servono a farci guarire dalle infezioni, non certo a provocarle. Ma sebbene un ciclo di antibiotici possa curare un’infezione, può anche lasciarci ricettivi nei confronti di altre. La spiegazione ovvia è che, senza microbi protettivi, il corpo viene esposto all’aggressione di quelli patogeni. Tuttavia è raro che gli antibiotici facciano diminuire il numero complessivo dei microbi protettivi presenti: quello che fanno è alterare la composizione delle singole specie. Sembra che il vero cambiamento sia nel modo in cui si comporta il sistema immunitario, a seconda di quali membri del microbiota sono presenti. La prima linea di difesa intestinale è uno spesso strato di muco. Vicino alle cellule del rivestimento intestinale il muco è libero da qualsiasi microbo, mentre nello strato più esterno prendono dimora molti membri del microbiota. Una terapia con l’antibiotico metronidazolo, per esempio, uccide soltanto i microbi anaerobici, ovvero quelli che vivono senza ossigeno. Questo cambiamento nella composizione del microbiota altera il comportamento fondamentale del sistema immunitario: interferisce direttamente con i nostri geni umani, riducendo la produzione da parte di quelli che sfornano le proteine della mucina per lo strato
di muco protettivo. Se lo strato è quindi più sottile, microbi di ogni genere avranno un più facile accesso al rivestimento intestinale. E se essi, o i loro componenti chimici, raggiungono il flusso sanguigno dalla parte opposta, il sistema immunitario viene chiamato a raccolta. A questo punto sareste giustificati a chiedervi: se gli antibiotici cambiassero il funzionamento del sistema immunitario, non ci ammaleremmo di più nel momento in cui li prendiamo? Secondo uno studio condotto su 85.000 pazienti, coloro che assumevano antibiotici sul lungo periodo per curare l’acne avevano più del doppio delle probabilità di prendere raffreddori e altre infezioni del tratto respiratorio superiore, rispetto ai pazienti acneici che non erano sotto antibiotici. Un’altra ricerca su studenti delle superiori ha rivelato che una terapia antibiotica quadruplicava il rischio di beccarsi un raffreddore. Ma che dire dell’effetto degli antibiotici sulle allergie? Nel 2013 un gruppo di scienziati della University of Bristol, in Gran Bretagna, si è posto proprio questa domanda. I ricercatori hanno utilizzato un amplissimo progetto di studio denominato Children of the 90s, che raccoglieva un’enorme quantità di informazioni sociali e sanitarie sui bambini nati da 14.000 donne che avevano partorito nei primi anni Novanta. Tra i dati c’erano informazioni sull’utilizzo di antibiotici quando i bambini erano molto piccoli. È venuto fuori che coloro a cui erano stati somministrati antibiotici prima dei due anni – un notevole 74 per cento – avevano in media il doppio delle probabilità di soffrire d’asma una volta raggiunti gli otto anni. Più cicli di antibiotici erano stati somministrati più crescevano le probabilità che i bambini contraessero asma, eczema e febbre da fieno. Come si suol dire, però, non sempre correlazione significa causalità. Quattro anni prima il principale ricercatore dello studio sugli antibiotici aveva scoperto che più televisione i bambini guardavano e più era probabile che sviluppassero l’asma. In realtà il numero di ore trascorse davanti alla televisione veniva usato come indicatore della quantità di esercizio fisico che i bambini facevano. Ma il punto non è risolto: come facciamo a essere certi che la quantità di antibiotici che un bambino riceveva non fosse anch’essa l’indicatore di qualcosa? Per esempio, poteva essere in relazione con l’apprensione dei genitori oppure, in maniera più pertinente, con la possibilità che gli antibiotici venissero somministrati per curare i primi sintomi dell’asma. I ricercatori però ne hanno tenuto conto e hanno calcolato di nuovo le probabilità, escludendo tutti i bambini che avevano sofferto di affanno prima dei diciotto mesi di vita. Il legame rimaneva forte.
Naturalmente prendere degli antibiotici serve essenzialmente a libe-rare il corpo da un’infezione, perciò la teoria dell’igiene regge alla luce del legame tra questi e le allergie. Tuttavia il paradosso rimane: perché il sistema immunitario attacca innocui allergeni invece che l’apparentemente più allarmante minaccia proveniente dai microbi corporei? E se l’aumento di allergie fosse collegato al calo di infezioni, perché quelli di noi che ne hanno avute di meno dovrebbero essere i più allergici? La professoressa Agnes Wold dell’università di Göteborg in Svezia è stata la prima, nel 1998, a offrire un’alternativa alla teoria dell’igiene. La ricerca sull’importanza del microbiota stava prendendo velocità e la mancanza di correlazione tra infezioni e allergie aveva iniziato a indebolire l’idea di Strachan. Accanto alla connessione tra utilizzo di antibiotici e allergie c’era un legame più diretto. Ingegerd Adlerberth, una collega di Wold, aveva in precedenza comparato i microbi dei bambini nati in ospedali svedesi e pakistani. I bambini nati in Svezia, paese in cui è alta la percentuale di allergici, presentavano una diversità batterica molto più bassa di quelli nati in Pakistan, soprattutto per quanto concerneva un gruppo di batteri denominati enterobatteri. Certamente in Svezia gli standard igienici erano ben più elevati di quelli pakistani, ma quei bambini non si ammalavano, non soffrivano di infezioni. Erano semplicemente colonizzati da più microbi, provenienti soprattutto da un gruppo di batteri riscontrati nell’intestino adulto, in particolare nelle feci della madre, così come nell’ambiente in generale. I protocolli ostetrici svedesi, tra cui in alcuni casi la pratica di pulire i genitali femminili prima del parto, forse alteravano completamente i microbi che prendevano posizione nell’intestino vuoto dei neonati. Wold aveva l’impressione che fosse questa alterazione nella composizione del microbiota, piuttosto che l’esposizione diretta alle infezioni, a provocare l’aumento delle allergie. Pertanto ha organizzato un ampio studio sui bambini di Svezia, Gran Bretagna e Italia, monitorandone a lungo termine i cambiamenti nel microbiota. Come c’era da aspettarsi, questi bambini ultra-igienici venivano colonizzati da meno specie, anche qui soprattutto di enterobatteri. Al loro posto c’erano più membri di un gruppo di batteri che si trovano tipicamente sulla cute, non nell’intestino, gli stafilococchi. Non era possibile collegare nessuna singola specie né gruppo di microbi allo sviluppo di allergie nel corso della vita, ma la diversità complessiva dei microbi nell’intestino dei neonati forse sì. I bambini che avrebbero sofferto di allergie avevano una diversità molto minore nell’intestino rispetto a coloro che sarebbero rimasti sani.
La rimodulazione da parte di Wold dell’originaria teoria dell’igiene di Stracham ha guadagnato terreno tra gli immunologi e i microbiologi. Due decenni di ricerca sul microbiota corporeo hanno reso ancora più complicato comprendere che cosa induca il sistema immunitario a svilupparsi in maniera sana. Un ambiente troppo pulito non mette soltanto fine alle malattie infettive, ma anche alla normale colonizzazione da parte di quei microbi a cui ci si riferisce talvolta come i “vecchi amici”. Questi vecchi amici si sono evoluti con noi passo dopo passo, impegnati in una fitta conversazione con il sistema immunitario mentre procedevano insieme. La teoria dell’igiene è diventata quella dei vecchi amici, un nuovo punto di vista su una vecchia idea. Che cosa dica esattamente il microbiota al corpo umano, o al corpo di un qualsiasi animale, è la domanda successiva. Come fa il corpo a sapere di quali microbi fidarsi e quali, invece, sono autentici impostori? Il sistema immunitario gestisce una squadra di diversi tipi di cellule, ciascuna delle quali ha un ruolo specifico nel localizzare e distruggere le minacce, proprio come un esercito. Laddove i macrofagi sono la fanteria che spazzola via i microbi minacciosi e le cellule B di memoria sono i cecchini addestrati ad attaccare un obiettivo specifico, le cellule T helper (come le Th1 e le Th2) sono ufficiali di collegamento, che allertano le altre truppe di un’invasione. L’innesco di tutte queste reazioni inizia con gli antigeni, piccole molecole sulla superficie di un agente patogeno che lo identificano come nemico. Questi antigeni agiscono come bandierine rosse che il sistema immunitario riconosce automaticamente come segnali di pericolo, che abbia già incontrato prima quel particolare agente patogeno o meno. Poiché tutti gli agenti patogeni portano queste bandierine, una volta che entrano nel corpo saranno sempre localizzati. Nell’epoca in cui il concetto di sé e non sé governava il pensiero degli immunologi, si riteneva che i patogeni tradissero la propria presenza mediante gli antigeni che portavano sulla superficie cellulare. Ma quello che all’epoca i ricercatori non sapevano era che anche i microbi benefici portavano queste bandierine e mandavano al sistema immunitario proprio lo stesso messaggio di quelle dei patogeni. Le bandierine si limitavano a identificarli come microbi, ma non dicevano affatto al corpo se si trattasse di amici o nemici. Il nostro microbiota non veniva semplicemente ignorato da un illuminato sistema immunitario: i nostri microbi benefici devono invece aver trovato il modo di convincerlo a lasciarli stare. Potreste pensare che tutte le cellule immunitarie siano impegnate a distruggere obiettivi e a scovare minacce. Ma come accade per ogni sistema
corporeo, ci dev’essere un equilibrio: connessioni che si attivano o si disattivano. Il sistema immunitario non è diverso: messaggi proinfiammatori (attacco) devono equilibrare messaggi anti-infiammatori (cessato allarme). Il lato antiinfiammatorio dell’equazione viene gestito da una cellula immunitaria da poco identificata, la cellula T regolatoria, che agisce come un generale di brigata, coordinando la risposta immunitaria complessiva. Conosciute come Treg, queste cellule esercitano un influsso calmante sugli aggressivi e sanguinari membri tra le fila del sistema immunitario. Più Treg ci sono e meno è reattivo il sistema immunitario, minore è la quantità e più esso reagisce in maniera aggressiva. I bambini che presentano una mutazione genetica che impedisce loro di produrre Treg contraggono una catastrofica malattia, la sindrome IPEX (sindrome da immunodisregolazione, poliendocrinopatia, enteropatia, legata al cromosoma X). Il sistema immunitario perde il proprio equilibrio e produce massicce quantità di cellule immunitarie pro-infiammatorie, facendo sì che i linfonodi e la milza si ingrossino per l’eccesso. Le cellule aggressive fatalmente attaccano l’organo corporeo, causando di solito, durante l’infanzia, diabete, eczema, allergie alimentari, disturbi infiammatori intestinali e diarrea intrattabile. Questi molteplici problemi di natura autoimmune sfociano in un precoce decesso, poiché gli organi vengono distrutti uno dopo l’altro. La cosa sorprendente, tuttavia, è che il comandante supremo delle Treg antiinfiammatorie non è un tipo di cellula superiore umana che agisce unicamente nel miglior interesse del corpo, ma è piuttosto il microbiota a impartire gli ordini, utilizzando le Treg come pedine. Manipolando il numero di questa categoria repressiva di cellule, si assicura la propria sopravvivenza. Se il sistema immunitario è tranquillo e tollerante la vita è più facile, senza timori di attacchi o eliminazioni. L’idea che il microbiota si sia evoluto per sopprimere il sistema immunitario a suo proprio vantaggio appare leggermente inquietante. Un meccanismo di sicurezza fondamentale per la sopravvivenza di fronte all’attacco dei nostri più antichi avversari viene alterato al livello più alto. Ma non c’è da preoccuparsi: la nostra lunga storia evolutiva, in comune con il nostro microbiota, ha modulato alla perfezione l’equilibrio immunitario, affinché entrambi traggano il massimo vantaggio. Più preoccupante è la perdita di diversità che ha colpito il microbiota degli individui che hanno uno stile di vita occidentalizzato. Con una minore diversità, che ne è delle Treg? Un gruppo di scienziati, tra cui Agnes Wold, si è posto questa domanda, usando un vecchio amico dei laboratori, il topo privo di germi.
Gli studiosi hanno misurato l’efficacia delle Treg nei topi privi di germi e l’hanno comparata con quella dei topi normali. Per sopprimere la risposta immunitaria aggressiva, nei topi privi di germi era necessaria una proporzione assai maggiore di Treg rispetto alle cellule assalitrici, rivelando che quelle prodotte in assenza di un microbiota erano molto meno potenti di quelle di un topo normale. In un altro esperimento è bastato trasferire un normale microbiota intestinale in un topo privo di germi per aumentare il numero di Treg prodotte, sopendo in tal modo il comportamento aggressivo del sistema immunitario. Come riescono i membri del microbiota a fare tutto ciò? La superficie delle sue cellule è coperta di bandierine rosse, proprio come quelle che si trovano sui microbi patogeni, eppure esso riesce a pacificare il sistema immunitario, non a irritarlo. Per farlo sembra che ogni specie benefica abbia un proprio codice di identificazione, che soltanto lei e il sistema immunitario conoscono. Il professor Sarkis Mazmanian del California Institute of Technology ha scoperto tale codice, prodotto da un batterio chiamato Bacteroides fragilis. Questa specie è tra i membri più numerosi del microbiota e spesso vi si insedia subito dopo la nascita, producendo una sostanza chimica denominata polisaccaride A, o PSA, che viene rilasciata in piccole capsule dalla superficie del Bacteroides fragilis. Queste capsule sono avvolte da cellule immunitarie nell’intestino crasso, e il PSA all’interno provoca l’attivazione delle Treg, che a questo punto inviano messaggi chimici calmanti ad altre cellule immunitarie, impedendo loro di attaccare il Bacteroides fragilis. Utilizzando il PSA come codice di identificazione, il Bacteroides fragilis trasforma la reazione pro-infiammatoria in anti-infiammatoria. È probabile che il PSA e altri codici di identificazione prodotti da diversi coloni precoci rivestano una certa importanza nel sopire la reazione immunitaria e nel prevenire le allergie. Probabilmente si sono evolute molte varietà di questi codici di accesso, in modo tale da poter essere prodotti da singoli ceppi di microbi, che vengono quindi accolti tra i membri del club esclusivo all’interno del corpo umano. Proprio come accade nella fatale patologia immunitaria IPEX, gli animali con allergie hanno una carenza di Treg. Sembra che senza il loro influsso calmante il freno a mano non sia attivo e il sistema immunitario si lanci a tutta velocità, attaccando persino le sostanze più innocue. Vi parlerò adesso del colera, la patologia che provocava quei litri di acquosa e biancastra diarrea che aveva contaminato il sistema idrico di Soho nel 1854 e
che continua a causare oggigiorno tremende epidemie nei paesi in via di sviluppo. Il colera è scatenato da un piccolo e malevolo batterio, il Vibrio cholerae, che colonizza l’intestino tenue. Ma non intende starci a lungo. Se la maggior parte dei batteri infettivi tentano di infilarsi di nascosto oltre il sistema immunitario per rinforzare a sufficienza i propri ranghi tanto da resistere a un attacco e provocare un’infezione persistente, il Vibrio cholerae si manifesta apertamente nel momento in cui arriva. Nella prima fase della sua missione aderisce alla parete intestinale e si riproduce il più in fretta possibile. Ma invece che restarsene lì e provocare un’infezione permanente, questo batterio ha altre idee. Se ne va. E lo fa in massa, mescolato con l’impasto di acquosa diarrea che scarica dal corpo del suo ospite. La diarrea è una strategia sia del sistema immunitario sia del batterio. Quest’ultimo la usa come mezzo per propagarsi e infettare altri corpi ospitanti, mentre per il sistema immunitario è un modo per ripulirsi da un agente patogeno e dalle sue tossine. Il meccanismo è questo: la parete intestinale è piuttosto simile a un muro di mattoni, per il fatto che c’è uno strato di cellule che aderiscono l’una all’altra. Ma invece di usare della malta che le cementi in maniera permanente tra loro, tali cellule sono unite da proteine simili a catene. Il che rende la parete un po’ più flessibile. Per la maggior parte del tempo qualsiasi sostanza desideri passare dall’intestino al flusso sanguigno deve per forza cercare di passare direttamente attraverso una cellula, dove è sottoposta a interrogatori di ogni genere. Talvolta però le catene proteiche possono allentarsi, permettendo ad alcune sostanze di passare dal sangue all’intestino e viceversa. Se necessario, l’acqua può fluire dal sangue, attraverso le cellule del rivestimento intestinale, all’intestino, provocando la diarrea. Il che è utile se il corpo ha bisogno di spazzare via un agente patogeno. Due cose sono notevoli dell’acquosa strategia di fuga del Vibrio cholerae, una delle quali riguarda l’impatto delle nostre particolari colonie microbiche e dei meccanismi del nostro sistema immunitario. L’altra, da cui partirò, è semplicemente interessante. Quest’ultima riguarda la conversazione che i batteri di Vibrio cholerae intrattengono tra loro prima di andarsene. Non sto usando qui un linguaggio antropomorfo: questi batteri, e molti altri accanto, discorrono davvero. La strategia infettiva che hanno sviluppato funziona più o meno così. Fase uno: infettare l’intestino e riprodursi come conigli. Fase due: quando la popolazione ha raggiunto determinate dimensioni, e l’ospitante è in punto di morte, uscire in un fiume di diarrea, pronti per infettare nuovi ospitanti. La difficoltà di questa
strategia è come fare a “sapere” quando la popolazione è abbastanza numerosa da giustificare l’abbandono della nave. La soluzione si chiama quorum sensing. Ciascun batterio rilascia costantemente una minuscola dose di una sostanza chimica. Nel caso di Vibrio cholerae si tratta dell’autoinduttore 1 del colera, o CAI-1. Più è numerosa la popolazione batterica, maggiore la concentrazione di CAI-1 che la circonda. Pertanto, a un certo punto, viene raggiunto un “quorum”. Ovvero la soglia minima di presenti per la votazione. Con ciò, i batteri percepiscono che è tempo di andarsene. Il modo in cui funziona è davvero semplice. La concentrazione di CAI-1, con un altro autoinduttore, l’AI2, fa in modo che il Vibrio cholereae cambi la loro espressione genica. Tutti insieme, disattivano i geni che li aiutano ad aderire alla parete intestinale, poi ne attivano una serie che produce delle sostanze che costringono la parete intestinale ad aprire le chiuse. Uno di questi geni codifica una tossina chiamata zonula occludens, abbreviata in Zot, scoperta dallo scienziato e gastroenterologo italiano Alessio Fasano al Massachusetts General Hospital for Children di Boston. Il ruolo della tossina Zot consiste nell’allentare le catene che tengono unite le cellule intestinali, permettendo in tal modo all’acqua di riversarsi all’interno e al Vibrio cholerae di farsi strada lungo l’intestino e verso la libertà. La scoperta di Fasano lo ha portato a pensare: se la Zot è una sorta di chiave virale che entra in una serratura umana, che ci faceva lì quella serratura? Potrebbe forse esserci una chiave umana, destinata a quella serratura, che è stata riprodotta dal Vibrio cholerae? Fasano ha pertanto scoperto una nuova proteina umana, molto simile alla tossina Zot, e l’ha chiamata “zonulina”. Proprio come la Zot, la zonulina interviene sulle catene che uniscono le cellule intestinali le une alle altre e controlla la permeabilità della parete intestinale. Una quantità maggiore di zonulina provoca l’allentamento delle catene, le cellule si spostano e permettono a molecole più grandi di entrare e uscire dal sangue. La scoperta della zonulina da parte di Fasano ci conduce alla questione relativa all’immunità. In presenza di un microbiota normale, sano, le catene sono ben salde al loro posto e le cellule strettamente unite. Niente di grande e di pericoloso può attraversarle per entrare nel sangue. Ma quando il microbiota perde il suo equilibrio, agisce come una versione leggera del Vibrio cholerae, irritando il sistema immunitario, che risponde nel tentativo di difendersi, rilascia zonulina per allentare le catene, separare le cellule e ripulire il sistema con un getto d’acqua. Il rivestimento intestinale non è più una parete impenetrabile, che tiene tutto fuori eccetto le minuscole molecole di cibo. È diventato permeabile.
Attraverso le fessure tra le cellule penetrano immigrati illegali di ogni genere, che si fanno strada nella terra promessa del corpo umano. Ora, tutto ciò ci conduce in un territorio controverso. L’idea di un intestino permeabile è un cavallo di battaglia dell’industria alternativa della salute, che talvolta sa essere rapace e distorce la verità tanto quanto la sorella convenzionale, cioè Big Pharma. La convinzione che la “sindrome dell’intestino permeabile” sia all’origine di tutte le malattie e di molti altri disturbi connessi è vecchia come l’industria stessa. Soltanto in tempi recenti, tuttavia, si è approfondita la conoscenza scientifica delle sue cause, dei meccanismi e delle conseguenze. Sebbene Big Pharma abbia parecchie colpe, possiamo sintetizzare la “medicina alternativa” con i due generi di terapia che utilizza: le cure che non funzionano a sufficienza per meritarsi il titolo di “medicina” e quelle che non sono ancora supportate da prove scientifiche e mediche. Forse bisognerebbe citarne anche un terzo tipo: le cure che non possono essere brevettate e vendute, tra cui il riposo e una buona dieta. L’ambiente medico e scientifico è cauto riguardo al concetto di intestino permeabile. I pazienti stufi di non ricevere risposte sull’eterna stan-chezza, i dolori, i disturbi allo stomaco, il mal di testa e così via, trovano una convincente spiegazione nell’intestino permeabile. È una diagnosi che viene facilmente proposta sia dagli esperti di medicina alternativa, ben informati e benintenzionati, sia da ciarlatani che approfittano delle mode, con un ragionevole contorno di terapie basate su consigli relativi allo stile di vita. Esistono persino degli esami a cui i pazienti possono sottoporsi e che, se somministrati adeguatamente, misurano il grado di “permeabilità”. Il terapeuta alternativo pertanto è in grado non solo di dare una misura al problema, ma di monitorare i miglioramenti. Secondo i medici normali, dalle facoltà di medicina e dai ministeri della salute escono poche prove a sostegno dell’idea e la sua credibilità rimane bassa. Il sito web del National Health Service britannico offre ben poco sostegno ai pazienti che approfondiscono questa teoria: I sostenitori della “sindrome dell’intestino permeabile” – in gran parte nutrizionisti ed esponenti della medicina complementare e alternativa – ritengono che il rivestimento intestinale si possa irritare e diventare “permeabile” a causa di un’ampia gamma di fattori, tra cui una crescita eccessiva di lieviti o batteri nell’intestino, una dieta sbagliata e l’abuso di antibiotici. Costoro ipotizzano che le particelle non digerite di cibo, le tossine batteriche e i germi possano attraversare la parete “permeabile” dell’intestino e finire nel flusso sanguigno, risvegliando il sistema immunitario e provocando una persistente infiammazione in tutto il corpo. Tutto ciò, secondo loro, è legato a un’ampia gamma di problemi di salute e di malattie. Si tratta di una teoria vaga e ancora in gran parte non dimostrata.
E tuttavia si sta velocemente superando questo punto di vista. La riluttanza ad allinearsi con la prospettiva alternativa sulla salute, mettendo a repentaglio una credibilità conquistata a fatica, sta forse allontanando i medici e gli scienziati coinvolti nelle ricerche sulla permeabilità intestinale e l’infiammazione cronica. Anch’io, da scrittrice scientifica, nutro qualche dubbio all’idea di sollevare questo tema in un libro rigorosamente fondato sulla ricerca scientifica, per timore di far abbandonare ai lettori più scettici le proprie certezze. Ma la base di ricerca sta crescendo e i meccanismi vengono svelati. Prima che decidiate se si tratta di ciarlataneria o realtà, lasciate che vi esponga i fatti. Il tutto ha inizio con Alessio Fasano e la zonulina. Sebbene la sua intenzione fosse quella di apprendere di più sulle tattiche invasive del colera, ha finito per trovare delle risposte a un altro problema, molto più comune. Negli anni Novanta Fasano era un pediatra specializzato in gastroenterologia, da poco arrivato negli Stati Uniti dall’Italia. Tra i suoi pazienti c’erano dei bambini con la celiachia. Fino a quel momento si era trattato di un disturbo relativamente poco comune, neppure citato in un importante rapporto di 800 pagine sui disturbi della digestione pubblicato nel 1994. I bambini che Fasano aveva in terapia stavano molto male se mangiavano anche una minuscola quantità di glutine. Il glutine è una proteina contenuta nel frumento, nella segale e nell’orzo, che rende la pasta del pane elastica e si lega alle bolle d’aria prodotte dal lievito. Nella celiachia questa proteina suscita una reazione autoimmune. Le cellule immunitarie la trattano come se fosse un invasore e producono degli anticorpi contro di essa, i quali attaccano anche le cellule dell’intestino, provocando danni, dolore e diarrea. La celiachia è una malattia autoimmune piuttosto particolare: è l’unica di cui si conosca il fattore scatenante, ovvero il glutine. Questa conoscenza ha reso felici gli immunologi: sapevano da che cosa fosse provocata. Anche i genetisti si sono rallegrati: sono stati individuati molti geni che rendevano certi individui più soggetti alla celiachia rispetto ad altri. Dei geni difettosi più un fattore scatenante ambientale uguale malattia, pensavano. Ma da gastroenterologo Fasano non era contento, perché, affinché il glutine provocasse la malattia, doveva entrare in contatto con le cellule immunitarie. Ma per farlo avrebbe dovuto attraversare il rivestimento intestinale. Per lo stesso motivo per cui i diabetici devono iniettarsi l’insulina e non possono assumerla per via orale, il glutine non ci riusciva: si tratta di una proteina troppo grande per poter attraversare con le proprie forze la parete intestinale. La scoperta da parte di Fasano della tossina del colera, la Zot, e
dell’equivalente umano, la zonulina, si è rivelata l’indizio di cui aveva bisogno. Negli individui che si ammalano di celiachia, che abbiano otto oppure ottant’anni, non sono sufficienti una serie di geni difettosi e il glutine. Qualcosa deve lasciarlo passare. Fasano sapeva che nei celiaci le pareti intestinali sono permeabili e aveva la sensazione che la zonulina c’entrasse qualcosa. Pertanto ha analizzato i tessuti intestinali di alcuni bambini celiaci e di altri sani. Come sospettava, nei primi c’era una maggiore quantità di zonulina. Le loro pareti intestinali si schiudevano e lasciavano passare le proteine del glutine nel sangue, dove scatenavano una reazione autoimmune. Attualmente circa l’1 per cento della popolazione occidentale soffre di celiachia. I celiaci non sono gli unici ad avere un intestino permeabile e alti livelli di zonulina. Anche i diabetici di tipo 1 presentano un intestino particolarmente permeabile e Fasano ha scoperto che anche in questo caso, dietro, c’era la zonulina. In una razza di ratti usati per studiare il diabete, l’intestino permeabile precede sempre di diverse settimane la malattia, lasciando intendere che si tratti di un passaggio necessario anche nello sviluppo di questa patologia autoimmune. Se si somministra ai ratti un farmaco per bloccare l’azione della zonulina, in due terzi di essi si previene l’insorgenza del diabete. Ma che ne è delle altre malattie del XXI secolo? Anch’esse rivelano intestini permeabili o un incremento dei livelli di zonulina? Iniziamo dall’obesità. Nel secondo capitolo ho sostenuto che l’aumento di peso era legato ad alti livelli nel sangue di un composto chiamato lipopolisaccaride, o LPS. Potreste pensare a queste molecole come alle cellule della cute per i batteri. Ne proteggono la parte interna e tengono alla larga le minacce dall’esterno. E proprio come le cellule della cute, mutano e si rinnovano costantemente. Le molecole LPS rivestono la superficie dei batteri Gramnegativi. Si tratta di un raggruppamento che riguarda l’identificazione e la funzione dei microbi più che la specie, i generi e i tipi a cui sin qui ho fatto riferimento. Sia i batteri Gram-negativi sia quelli Gram-positivi vivono nell’intestino e non sono di per sé né “buoni” né “cattivi”. Il fatto tuttavia che nel sangue degli obesi si ritrovino alti livelli di molecole di batteri Gram-negativi è “cattivo”. E induce a chiedersi: come ci sono arrivati? L’LPS è una molecola relativamente grande. In circostanze normali non riesce ad attraversare il rivestimento intestinale. Ma quando l’intestino si fa permeabile – ovvero non è più “stagno” – penetra tra le cellule della parete intestinale e nel sangue. Nel passaggio stimola dei recettori, ovvero delle guardie appostate per assicurarsi che non ci siano brecce nella barriera. La loro reazione,
quando incontrano l’LPS, è di allertare il sistema immunitario, perciò rilasciano dei messaggeri chimici chiamati citochine che sfrecciano nel corpo dando l’allarme e allertando le truppe. In questo frangente, tutto il corpo può infiammarsi. Alcune cellule immunitarie chiamate fagociti invadono le cellule adipose che immagazzinano il grasso, costringendole a diventare sempre più grandi invece che a dividersi. In un individuo obeso, anche il 50 per cento del volume di queste cellule può non essere costituito da grasso, ma da fagociti. Il corpo di un obeso o di una persona sovrappeso è in uno stato di costante infiammazione, bassa ma cronica. L’LPS non solo incoraggia l’aumento di peso, ma nel sangue interferisce con l’ormone insulina, provocando il diabete di tipo 2 e la cardiopatia. È stato fatto un collegamento anche tra l’eccesso di LPS nel sangue e i disturbi mentali. I pazienti depressi, i bambini autistici e gli schizofrenici presentano spesso un intestino permeabile e un’infiammazione cronica. È curioso, ma anche alcuni eventi traumatici, come essere separati dalla madre quando si è bambini o perdere una persona cara, può rendere permeabile l’intestino. Non è ancora chiaro se questo sia l’anello mancante tra la sofferenza da stress e lo sviluppo della depressione, ma come per l’asse intestinomicrobiota-cervello, stanno crescendo le prove in tal senso. La depressione spesso accompagna problemi di salute, dall’obesità all’IBS all’acne, ma è di solito attribuita alla sofferenza del disturbo stesso. L’idea che l’intestino permeabile conduca a un’infiammazione cronica e scateni problemi sia fisici sia mentali è entusiasmante per la scienza medica. L’intestino permeabile non è certamente la causa di tutte le malattie, per non parlare di quelle politiche e sociali che qualcuno vorrebbe attribuirgli. L’idea tuttavia ha bisogno di essere ripensata e riformulata, a fronte dello scetticismo in cui incorre attualmente. Il lavoro scientifico di qualità, necessario per approfondirne l’importanza nella genesi di diverse malattie, è attualmente adombrato dal suo infamante passato. L’obesità, le allergie, le malattie autoimmuni e i disturbi mentali si manifestano in misura maggiore nella permeabilità dell’intestino, con una conseguente infiammazione cronica. Quest’ultima insorge sotto forma di iperattività del sistema immunitario, che reagisce agli immigrati illegali che attraversano i confini dell’intestino ed entrano nel corpo: da molecole di cibo come il glutine e il lattosio a prodotti batterici come l’LPS. Talvolta le stesse molecole del corpo rimangono coinvolte in questo fuoco incrociato, provocando delle malattie autoimmuni. Un microbiota sano ed equilibrato sembra agire come un’unità di protezione, che
rinforza l’integrità dell’intestino e protegge l’inviolabilità del corpo. Sulla linea del fuoco non ci sono soltanto gli allergeni e le cellule corporee, ma anche determinati membri del microbiota, come nel caso di uno dei disturbi più onnipresenti della civiltà: l’acne. In nome della ricerca scientifica ho visitato alcuni dei luoghi più isolati al mondo. Per una buona parte del tempo trascorso lontano dalla fredda e umida metropoli di Londra sono stata in habitat e culture totalmente diverse dalla mia. Giungle in cui la gente va a caccia di opossum e traguli per cena. Deserti in cui il mezzo di trasporto più veloce è il cammello. Comunità in cui interi villaggi galleggiano in mare, su delle zattere. In ciascuno di questi posti la vita quotidiana è diversa da quella da cui provengo. Il cibo viene catturato, ucciso e mangiato, senza bisogno di supermercati o confezioni. Il crepuscolo porta con sé l’oscurità, rischiarata soltanto da una lampada a olio o da un falò. E la malattia si accompagna all’eventualità molto concreta della morte imminente. Si tratta di luoghi in cui un bambino addormentato può perdere un occhio a causa di un pollo, in cui un incidente di lavoro potrebbe consistere nel cadere da un albero mentre si raccoglie del miele e in cui niente pioggia significa niente cibo. Fondamentalmente il cibo è ciò che si riesce a coltivare o a cacciare e la cura della salute è affidata a un’erba e a una preghiera. Quello che non vedete, sugli altipiani di Papua Nuova Guinea, a decine di chilometri dalla strada più vicina, o nei villaggi degli zingari del mare di Sulawesi, in Indonesia, sono persone con l’acne. Neppure gli adolescenti. E invece in Australia, in Europa, in America e in Giappone ce l’hanno tutti. Dico tutti, ed è approssimativamente vero. Oltre il 90 per cento degli individui del mondo industrializzato, a un certo punto della vita, soffre di brufoli. Gli adolescenti sono quelli messi peggio, ma negli ultimi decenni sembra che il disturbo si sia diffuso anche ad altre età. Adesso gli adulti, soprattutto le donne, continuano ad avere l’acne dopo i vent’anni e i trenta, e talvolta anche oltre. All’incirca il 40 per cento delle donne tra i venticinque e i quarant’anni soffre di un certo grado di acne, e molte di loro da adolescenti neppure ce l’avevano. La gente consulta il dermatologo per l’acne più che per qualsiasi altro disturbo della pelle. Come accade per la febbre da fieno, tendiamo a considerare l’acne un fatto della vita, soprattutto da adolescenti. Ma se fosse così, perché coloro che abitano le zone preindustriali del mondo non ne soffrono? A pensarci, è palesemente ridicolo che così tanta gente abbia l’acne. E quello che è ancora più ridicolo è che sia stata fatta così poca ricerca sulle cause, malgrado un inesorabile aumento dei casi, in particolare tra adulti usciti da
tempo dai tormenti adolescenziali. Per più di mezzo secolo ci siamo attenuti alla stessa vecchia spiegazione: ormoni “maschili” iperattivi, eccessiva produzione di sebo, iperattività del Propionibacterium acnes e pertanto una sgradevole risposta immunitaria a base di rossore, gonfiore e globuli bianchi (pus). Ma se ci si riflette bene non ha molto senso. Le donne con alti livelli di androgeni, gli ormoni maschili ritenuti responsabili dell’acne, in realtà non presentano una maggiore fioritura. E gli uomini, che hanno livelli decisamente maggiori di androgeni, non ne soffrono quanto le donne. E quindi che cosa succede? Secondo una nuova ricerca abbiamo guardato nel posto sbagliato. L’idea che il Propionibacterium acnes provochi l’acne è vecchia di decenni e deriva da una fonte ovvia. Volete sapere che cosa provoca i brufoli? Allora guardate in un brufolo e scoprite quali microbi ci sono dentro. Non ha importanza che alcuni di quei batteri vivano sulla pelle sana di coloro che soffrono di acne e sulla pelle di individui che ne sono privi. Non importa che alcuni brufoli non contengano affatto Propionibacterium acnes. La densità di Propionibacterium acnes non ha alcuna correlazione con la gravità del disturbo e i livelli di sebo e di ormoni maschili non preannunciano la presenza dell’acne. Il fatto che gli antibiotici, sia quando vengono applicati direttamente sul viso sia quando vengono ingeriti sotto forma di compressa, spesso migliorano la situazione ha avvalorato la teoria del Propionibacterium acnes e continua a farlo. Gli antibiotici sono i farmaci più comunemente prescritti contro i brufoli e molte persone li prendono per mesi, se non per anni. Essi però non colpiscono soltanto i batteri sulla pelle, ma anche quelli dell’intestino. Abbiamo visto prima che gli antibiotici cambiano il comportamento del sistema immunitario. Potrebbe essere questo il vero motivo per cui funzionano contro l’acne? Quello che si sta iniziando a capire è che il Propionibacterium acnes non è fondamentale per lo sviluppo dell’acne. Ancora si discute su quale sia il ruolo esatto di questo batterio della pelle, ma emergono nuove idee sul ruolo del sistema immunitario in questo moderno disturbo della pelle. L’epidermide dei pazienti acneici contiene cellule immunitarie extra, anche in zone apparentemente sane. A quanto pare anche l’acne è la manifestazione di un’infiammazione cronica. Alcuni ipotizzano persino che il sistema immunitario sia diventato ipersensibile al Propionibacterium acnes e forse anche ad altri microbi della pelle, per cui non li tratta più da amici ma da nemici. La stessa cosa vale per i disturbi infiammatori dell’intestino (IBD), come il morbo di Crohn e la colite ulcerativa. Probabilmente a causa di un mutamento nella composizione del microbiota, sembra che le cellule immunitarie
dell’intestino perdano il consueto rispetto per la colonia intestinale, forse perché le cellule Treg, con il loro influsso calmante, hanno smesso di controllare i più aggressivi membri del plotone immunitario. Perciò, invece di tollerare e incoraggiare i microbi benefici, organizzano un attacco contro di loro. Non si tratta tanto di autoimmunità, diretta contro il sé, quanto di coimmunità, ovvero di un attacco immunitario rivolto ai microbi “commensali” che normalmente intrattengono una relazione reciprocamente vantaggiosa con il corpo. Il fatto che coloro che soffrono di IBD abbiano probabilità considerevolmente maggiori rispetto ai sani di sviluppare un tumore colonrettale lascia intravvedere un legame più profondo tra disbiosi e salute. Ormai sappiamo da tempo che alcune infezioni possono favorire l’insorgenza di un tumore. Il papillomavirus umano (HPV), per esempio, è alla base della maggior parte dei tumori della cervice, e il batterio Helicobacter pylori, causa di ulcere allo stomaco, può anche far insorgere un tumore. La disbiosi che si accompagna agli IBD sembra aggiungere un altro fattore di rischio. L’infiammazione che provoca danneggia in qualche modo il DNA delle cellule umane che rivestono la parete intestinale, permettendo lo sviluppo dei tumori. Il ruolo del microbiota nell’insorgenza dei tumori non si limita a quelli dell’apparato digerente. Poiché la disbiosi può favorire la permeabilità dell’intestino e l’infiammazione, un microbiota non sano è causa di tumori anche a carico di altri organi. Il cancro al fegato offre l’esempio più chiaro del modo in cui tutto ciò si manifesta. In un esperimento per comprendere come l’obesità e le diete ad alto contenuto di grassi potessero giocare un ruolo nei tumori, i ricercatori hanno esposto dei topi, sia magri sia grassi, ad alcune sostanze chimiche cancerogene. La maggior parte dei topi magri ha opposto resistenza alla malattia, mentre un terzo di quelli obesi si è ammalato di cancro al fegato. Poiché non comprendevano come una dieta ricca di grassi potesse favorire dei tumori al di fuori dell’intestino, i ricercatori hanno comparato la composizione del sangue nei due gruppi di topi. Quelli obesi avevano livelli più alti di un composto nocivo, l’acido desossicolico (DCA), notoriamente dannoso per il DNA. Il DCA proviene dagli acidi biliari, sostanze prodotte per contribuire alla digestione dei grassi nella dieta. Ma è soltanto in presenza di un particolare gruppo di microbi, appartenenti alla clostridia, che gli acidi biliari vengono convertiti in DCA, che dev’essere poi scisso dal fegato. I topi obesi avevano livelli di clostridia assai più elevati nell’intestino rispetto a quelli magri, il che li rendeva particolarmente soggetti a sviluppare un tumore al fegato.
Somministrando loro un antibiotico mirato sulla clostridia, si riducevano le probabilità che si ammalassero. Sappiamo tutti che fumare e bere ci espongono al rischio di sviluppare un cancro, molto meno noto è il fatto che è decisamente più probabile ammalarci di tumore se siamo sovrappeso. Si stima che circa il 14 per cento dei decessi per tumore, negli uomini, sia collegato al peso in eccesso, mentre nelle donne questo dato è persino più alto, arriva al 20 per cento. Si pensa che molti casi di tumore al seno, all’utero, al colon e ai reni abbiano un legame con il peso in eccesso, e almeno in parte la responsabilità ricade sul microbiota “obeso”. La grande ironia della salute nel XXI secolo, adesso che si è concluso il regno delle malattie infettive, è che essere sani può dipendere dall’avere più microbi, non meno. È tempo di spostarci dalla teoria dell’igiene a quella dei vecchi amici: non sono le infezioni che ci mancano, ma i microbi benefici che addestrano e sopiscono il nostro sistema immunitario durante lo sviluppo. Nel primo capitolo mi sono chiesta che cosa legasse tra loro le malattie apparentemente autonome del XXI secolo, dall’obesità alle allergie, dalle patologie autoimmuni ai disturbi mentali. La risposta è ciò che, come una sotterranea corrente, le influenza tutte: l’infiammazione. Il nostro sistema immunitario, invece che prendersi una bella vacanza, adesso che si è concluso il regno delle malattie infettive, è più attivo che mai. Si ritrova ad affrontare una guerra infinita, non perché ci sono più nemici, ma perché da un lato abbiamo abbassato la guardia e aperto le porte ai microbi che dovrebbero essere nostri alleati, e dall’altro abbiamo perso la forza di pace che questi microbi addestrano. Perciò, se davvero volete rafforzare il vostro sistema immunitario, lasciate perdere le costose bacche e i beveroni speciali. Mettete invece al primo posto il vostro microbiota e il resto verrà da sé.
5. Guerra batteriologica
Nel 2005 Jeremy Nicholson, professore di Chimica biologica all’Imperial College di Londra, ha avanzato un’idea controversa: che dietro l’epidemia dell’obesità ci fossero gli antibiotici. I primi esperimenti di Fredrik Bäckhed tesi a dimostrare che il microbiota rivestiva un ruolo importante nell’estrazione e nello stoccaggio dell’energia dal cibo aveva aperto la mente degli scienziati alla possibilità che l’acquisizione di peso potesse essere controllata dai microbi. Se i microbi intestinali riuscivano a far ingrassare i topi, l’alterazione di quella composizione microbica mediante gli antibiotici poteva forse avere un ruolo nell’obesità umana? Anche se soltanto a partire dagli anni Ottanta un numero sempre maggiore di individui ha iniziato a ingrassare e a diventare obeso, la tendenza verso l’attuale epidemia era iniziata negli anni Cinquanta. Nicholson si è chiesto se la corrispondenza temporale con l’introduzione degli antibiotici di uso comune, nel 1944 – solo pochi anni prima dell’inesora-bile aumento dei casi di obesità – non abbia rappresentato qualcosa di più di un semplice caso. I suoi sospetti non erano semplicemente dovuti alla correlazione cronologica: sapeva già che gli allevatori usavano da decenni gli antibiotici per ingrassare il bestiame destinato al mercato. Sul finire degli anni Quaranta gli scienziati statunitensi avevano scoperto per caso che somministrare antibiotici ai polli ne aumentava la crescita fino al 50 per cento. Erano tempi duri e un numero sempre maggiore di cittadini americani erano stanchi degli alti costi della vita. Si rendevano conto di aver fatto abbastanza rinunce e la carne a buon prezzo era ai primi posti tra i desideri postbellici. Gli effetti degli antibiotici sui polli sembravano nientemeno che miracolosi e gli allevatori si fregavano tutti contenti le mani dopo aver scoperto che, con una piccola dose quotidiana di quei farmaci, i bovini, i maiali, le pecore e i tacchini reagivano allo stesso modo: un massiccio aumento nella crescita. Sebbene non avessero idea di come questi farmaci favorissero l’aumento di peso, né di quali potessero essere le conseguenze, il cibo era poco e i prezzi elevati. Era davvero spettacolare un aumento della produzione di tale entità in cambio di un po’ di mangime per polli. Da allora la cosiddetta terapia antibiotica
subterapeutica ha rappresentato una parte essenziale della zootecnia. Le stime sono sommarie, ma è possibile che in America fino al 70 per cento degli antibiotici siano impiegati nel bestiame. L’ulteriore vantaggio di poter ammassare più animali in uno spazio ridotto senza che prendano delle infezioni non ha fatto che promuovere il loro utilizzo. Senza questi promotori della crescita, negli Stati Uniti si dovrebbero allevare 452 milioni di polli, 23 milioni di bovini e 12 milioni di maiali in più all’anno per produrre lo stesso peso in carne. La preoccupazione di Nicholson era la seguente: se gli antibiotici potevano far ingrassare in maniera considerevole il bestiame, che prove avevamo che si comportassero allo stesso modo con noi? L’apparato digerente degli esseri umani non è poi così diverso da quello dei maiali. Sia gli uni che gli altri sono onnivori, sono dotati di uno stomaco semplice e di un grande colon, pieno di microbi che utilizzano gli scarti del nostro processo digestivo avvenuto nell’intestino tenue. Gli antibiotici sono in grado di aumentare le percentuali di crescita dei maialini di circa il 10 per cento al giorno. Per gli allevatori questo significa che sono pronti per la macellazione due o tre giorni prima, un bel guadagno su migliaia di animali. Sarebbe possibile ingrassare gli esseri umani a scopi commerciali mediante l’ingorda assunzione di antibiotici? Per molti individui che combattono con il proprio peso, essere magri è il desiderio più grande e tuttavia, per quanto lo vogliano, non ce la fanno. È tanto forte questa aspirazione, che i pazienti patologicamente obesi, dopo essere riusciti a dimagrire in maniera considerevole, hanno dichiarato nel corso di una ricerca che preferirebbero perdere una gamba, oppure diventare ciechi o sordi, piuttosto che ritornare obesi. Ognuno dei quarantasette pazienti sostiene che preferirebbe essere magro, piuttosto che miliardario ma obeso. Se la gente ci tiene tanto a essere magra, perché è così facile mettere su peso e così difficile perderlo e rimanere in forma? Persino secondo le stime più ottimistiche soltanto il 20 per cento degli individui sovrappeso a un certo punto riesce a dimagrire e a restare magro per più di un anno. Coloro che sono riusciti a perdere peso affermano che per rimanere magri devono ingerire meno calorie di quanto sarebbe necessario secondo una tipica dieta di mantenimento. Dimagrire è talmente difficile che alcune campagne pubbliche hanno ormai abbandonato il tentativo di far perdere chili ai cittadini, preferendo semplicemente evitare che ingrassino. La campagna americana Mantain, Don’t Gain va in questa direzione; molte aziende attualmente offrono corsi e consulenze per aiutare i dipendenti a evitare di ingrassare durante i tradizionali
periodi di indulgenza, come le vacanze e il periodo natalizio. Si tratta di un sospetto che collima con quello che sempre di più sappiamo sull’obesità come malattia. Se, come ho spiegato nel secondo capitolo, il professor Nikhil Dhurandhar ha ragione quando pensa che l’obesità non sia semplicemente un problema di squilibrio tra calorie assunte e consumate, ma piuttosto un disturbo complesso con moltissime cause, allora gli antibiotici potrebbero rivelarsi un fattore importante nell’epidemia, perché offrirebbero una spiegazione interessante per alcuni degli incredibili dati legati all’obesità. Anche il solo fatto che il 65 per cento degli individui in alcuni paesi sviluppati sia sovrappeso oppure obeso ci dà una visione allarmante del comportamento umano. Siamo davvero così pigri, ignoranti, ingordi e privi di motivazioni che ormai i membri della nostra specie in sovrappeso sono più di coloro che rimangono magri? Oppure per spiegare il peso in eccesso esistono ragioni più profonde di quanto abbiamo ipotizzato? Un’epidemia di obesità indotta o favorita dagli antibiotici non solo ci assolverebbe almeno in parte dalla responsabilità del nostro peso in eccesso, ma potrebbe anche darci modo di sconfiggerlo senza ricorrere a diete apparentemente inutili. Nel 1999 Anne Miller, una ex infermiera newyorkese, è morta all’età di novant’anni, avendone vissuti cinquantasette in più di quanto avrebbe dovuto. Nel 1942, quando ne aveva trentatré, Anne aveva avuto un aborto spontaneo, che le aveva causato un’infezione da streptococco, per cui si era ritrovata a un passo dalla morte in un letto d’ospedale del Connecticut. Quando la febbre di Anne aveva sfiorato i 42°C, il medico aveva chiesto alla famiglia il permesso di compiere un’azione drastica nel tentativo di salvarle la vita. Il medico voleva provare un nuovo farmaco, mai usato prima su un paziente, di cui aveva sentito parlare e che veniva prodotto in un’azienda farmaceutica del New Jersey. Si chiamava penicillina. La donna delirava per la febbre da un mese quando, il 14 marzo alle 15.30, le fu iniettata un’unica dose di farmaco pari a un cucchiaino da tè, la metà delle scorte complessive a livello mondiale. Alle 19.30 la febbre si era attenuata e le sue condizioni erano stabili. Qualche giorno dopo era guarita completamente. La vita di Anne Miller è stata la prima in assoluto a essere salvata grazie agli antibiotici. Da allora questi farmaci hanno prevenuto il decesso di innumerevoli milioni di persone, a partire dai soldati della Seconda guerra mondiale, feriti mentre attraversavano le spiagge della Normandia durante il D-Day del 1944. Man
mano che le storie di queste miracolose guarigioni raggiungevano il pubblico, la richiesta del farmaco cresceva. Nel marzo del 1945 il ritmo della produzione di penicillina aveva acquistato velocità e negli Stati Uniti chiunque la volesse poteva acquistarne un ciclo nelle farmacie locali. Nel 1949 il prezzo era calato da 20 dollari per 100.000 unità di penicillina a soli 10 centesimi. Nei successivi sessantacinque anni da allora, è stata sviluppata un’altra ventina di varietà di antibiotici, ciascuno dei quali ha un diverso obiettivo batterico. Tra il 1954 e il 2005 la produzione di antibiotici negli Stati Uniti è balzata da 900 tonnellate all’anno a 23.000. Tra tutti, questi straordinari farmaci hanno cambiato il modo in cui viviamo e moriamo. La loro invenzione ha rappresentato uno dei più grandi successi dell’umanità, evitando sofferenze e morte per mano di uno dei nostri più antichi e fatali nemici. È difficile immaginarlo ora, ma un tempo questi erano farmaci miracolosi. Il loro utilizzo era riservato ai casi più disperati ed erano, quasi letteralmente, dei salvavita. Adesso il loro impiego è, nel bene e nel male, pandemico. Vi sfido a trovare un singolo adulto che vive nel mondo sviluppato e che non abbia preso un antibiotico almeno una volta nella vita. In Gran Bretagna, nel corso della propria esistenza, una donna assume mediamente settanta cicli di antibiotici. Settanta. Non molto meno di un ciclo all’anno. Gli uomini, forse per via della loro riluttanza a frequentare i medici, o forse a causa delle differenze tra sistema immunitario maschile e femminile, ne prendono in media cinquanta cicli. In Europa il 40 per cento degli individui ha assunto degli antibiotici negli ultimi dodici mesi. In Italia la percentuale è del 57 per cento, riequilibrata da cifre più basse in Svezia (il 22 per cento). Gli americani sono alla pari con gli italiani: intorno al 2,5 per cento di loro è sotto antibiotico in un dato momento. In realtà è difficile anche trovare un bambino sotto i due anni che non abbia ricevuto un ciclo di questi farmaci. A più o meno un terzo dei bambini sono stati somministrati antibiotici prima dei sei mesi, che diventano quasi la metà a un anno e tre quarti a due anni. Quando compiono quattordici anni, i bambini dei paesi sviluppati hanno ricevuto in media tra i dieci e i venti cicli di antibiotici. Più o meno un terzo di tutti gli antibiotici prescritti dai medici vengono consumati dai bambini. I giovani americani consumano annualmente 900 cicli di antibiotici ogni 1000 bambini. I piccoli spagnoli prendono addirittura 1600 cicli di antibiotici all’anno ogni 1000 bambini, il che significa mediamente 1,6 cicli di antibiotici per ogni anno delle loro giovani vite. Circa la metà di queste prescrizioni infantili sono relative all’otite, cui i bambini vanno particolarmente soggetti. Durante l’infanzia il tubicino che
collega l’orecchio alla gola – quello che “schiocca” al mutare della pressione – è quasi orizzontale, si inclinerà con il passare del tempo. Il che significa che nei neonati il muco non scorre così facilmente verso la gola e il tubicino tende a intasarsi di residui. Le otiti colpiscono più o meno il doppio i bambini che usano il ciuccio, che ormai è di fatto onnipresente. Queste infezioni non vengono mai trascurate dai medici per via di due rischi, entrambi molto piccoli: il primo è che i bambini con ripetute infezioni alle orecchie hanno talvolta difficoltà di udito nel periodo cruciale in cui imparano a parlare; il secondo è che se l’infezione si diffonde più in profondità e attacca l’apofisi mastoide dietro l’orecchio, può trasformarsi in una faccenda piuttosto grave. Conosciuta come mastoidite, questa infezione batterica può provocare un danno permanente all’udito e persino la morte. Anche se si tratta di rischi estremamente rari, sono sufficienti a convincere molti medici a essere prudenti. Come c’è da aspettarsi, l’assunzione di questi farmaci non è sempre necessaria. L’agenzia che si occupa della sanità pubblica negli Stati Uniti – i Centers for Disease Control and Prevention – stima che metà degli antibiotici prescritti nel paese non sia necessaria o adatta. Molte di queste prescrizioni riguardano pazienti con raffreddore o influenza e che vogliono a tutti i costi una medicina, e vengono firmate da medici troppo stremati per negare loro una sostanza che li tranquillizzi. Non importa che raffreddori e influenze siano opera dei virus, non dei batteri, e che pertanto gli antibiotici siano privi di effetti. Né che la maggior parte dei raffreddori si esauriranno da soli nel giro di qualche giorno o qualche settimana, senza alcun rischio per la vita o l’incolumità fisica. Poiché la resistenza agli antibiotici sta diventando un problema sempre più serio, si fanno pressioni sui medici affinché siano più avveduti nelle prescrizioni. Si può migliorare davvero tanto. Nel 1988 negli Stati Uniti i tre quarti di tutti gli antibiotici dispensati dai medici di base riguardavano cinque infezioni respiratorie: otiti, sinusiti, faringiti (infiammazioni della gola), bronchiti e infezioni delle vie aeree superiori (URI). Dei 25 milioni di individui che si sono recati dal medico per una URI, al 30 per cento sono stati prescritti degli antibiotici. Non male, penserete, finché non vi rendete conto che soltanto il 5 per cento delle URI sono causate da batteri. Lo stesso vale per le infiammazioni della gola; quell’anno è stata diagnosticata la faringite a 14 milioni di pazienti e al 62 per cento di loro sono stati prescritti degli antibiotici. Soltanto il 10 per cento tuttavia aveva un’infezione batterica. Complessivamente, più o meno il 55 per cento degli antibiotici somministrati quell’anno non erano necessari. In quanto custodi dei farmaci, sembrerebbe che la responsabilità dell’abuso
di antibiotici ricada in ultima analisi sui medici, ma l’ignoranza dei pazienti può produrre un’enorme pressione. Nel corso di un’indagine condotta nel 2009 a livello europeo su 27.000 individui, il 53 per cento erroneamente credeva che gli antibiotici uccidessero i virus e il 47 per cento che fossero efficaci contro raffreddori e influenze, provocati da virus. Il timore di congedare un paziente ammalato a mani vuote, con il rischio che ritorni con una grave complicazione dovuta a un’infezione batterica, è sufficiente a convincere molti medici a prescrivere degli antibiotici, tanto per non sbagliare. I bambini piccoli, soprattutto, sono talvolta fonte di preoccupazione per un medico inesperto; un bambino può piangere disperatamente perché vuole le coccole o perché prova un forte dolore. Può essere tranquillo e apatico per via di una generosa dose di paracetamolo oppure perché è gravemente ammalato. Per un giovane medico, prevenire è meglio che curare. Ma ne vale la pena? In alcuni casi sì. Le infezioni al petto, per esempio, piuttosto spesso si rivelano polmoniti, soprattutto nelle persone anziane. Per evitare la polmonite mediante gli antibiotici in un anziano che presenta sintomi specifici, verranno curati senza alcun vantaggio all’incirca quaranta individui. Per molte altre malattie, vengono sprecati gli antibiotici su un numero anche maggiore di pazienti, per evitare una complicazione grave a uno di essi. Oltre 4000 individui con la gola infiammata e URI riceveranno degli antibiotici senza motivo, per evitare complicazioni soltanto a uno di loro. Il rischio è persino minore nel caso dei bambini affetti da otite. Si è stimato che verrebbero curati con gli antibiotici più o meno 55.000 bambini per prevenire un singolo caso di mastoidite. E in ogni caso la maggior parte dei bambini affetti da mastoidite guarisce senza problemi, il rischio di morte è circa uno su dieci milioni. La resistenza agli antibiotici che si svilupperà a causa di tutte queste terapie è indubbiamente più pericolosa per la salute pubblica che il minuscolo rischio dell’infezione stessa. È chiaro che nel mondo sviluppato prendiamo grandi quantità di antibiotici, la maggior parte dei quali non necessari. Il contrasto con l’impiego di questi farmaci nei paesi in via di sviluppo, dove le malattie infettive sono ancora comuni e gli antibiotici salvano delle vite, è stato evidenziato in un’intervista di BBC Radio 4 con il professor Chris Butler, medico di famiglia e professore di Prima assistenza alla Cardiff University, nel Galles. Ecco che cosa dice: Quando sono arrivato in Gran Bretagna provenivo da un grande ospedale in una zona rurale del Sud Africa, dove la pressione delle malattie infettive era incredibile e ci arrivavano parecchi individui, per altri versi sani e in buone condizioni, affetti da polmonite e meningite. Erano in pericolo di vita e se somministravamo loro in tempo i giusti antibiotici, nel giro di pochi giorni
spesso si rimettevano in salute e se ne tornavano a casa. Con questo farmaco miracoloso, l’antibiotico, era come se facessimo alzare e camminare i morti. Quando sono venuto in Gran Bretagna ho iniziato a fare il medico generico. Qui, nella pratica di medicina generale, usavamo lo stesso antibiotico che aveva salvato così tante vite in Sud Africa per curare quelli che in realtà erano ragazzini con il naso chiuso.
E quindi perché non prendere antibiotici per sicurezza? Che male ci possono fare? Le preoccupazioni di Butler sull’utilizzo di farmaci salvavita per tranquillizzare dei pazienti blandamente ammalati si fondavano soprattutto sullo sviluppo della resistenza agli antibiotici. Come molti altri scienziati, Butler prevede che potremmo ben presto entrare in un’epoca post-antibiotici molto simile a quella pre-antibiotici, in cui la chirurgia comportava alti rischi di decesso e ferite lievi potevano uccidere. Questa previsione è vecchia come gli antibiotici stessi. Sir Alexander Fleming, dopo aver scoperto la penicillina, più volte ha messo in guardia che usarne troppo poca, o per troppo poco tempo, o senza un buon motivo, avrebbe condotto alla resistenza. E aveva ragione. Nel corso del tempo i batteri sviluppano una resistenza agli antibiotici. I primi batteri resistenti alla penicillina sono stati scoperti soltanto pochi anni dopo l’introduzione del farmaco. È molto semplice: i batteri suscettibili muoiono, lasciandone talvolta alcuni che casualmente presentano una mutazione che li rende resistenti. Questi batteri resistenti quindi si riproducono e l’intera popolazione diventa immune agli antibiotici. Negli anni Cinquanta il comune batterio Staphylococcus aureus era diventato resistente alla penicillina. Alcuni membri della specie presentavano un gene che produceva un enzima, chiamato penicillasi, che scinde la penicillina rendendola inefficace. Poiché tutti i batteri che non avevano il gene della penicillasi morivano, quelli che lo avevano sono diventati dominanti. Nel 1959 è stato introdotto in Gran Bretagna un nuovo antibiotico, la meticillina, per curare le infezioni da Staphilococcus aureus resistenti alla penicillina. Ma soltanto tre mesi dopo, in un ospedale di Kettering, è spuntato un nuovo batterio. Resistente non solo alla penicillina ma anche alla meticillina, è il temuto MRSA, Staphylococcus aureus resistente alla meticillina. L’MRSA uccide decine o centinaia di migliaia di individui ogni anno e non è l’unico batterio resistente agli antibiotici. Le conseguenze sono non solo sociali ma anche personali: “Sappiamo che il maggior fattore di rischio di contrarre un’infezione resistente è avere preso degli antibiotici di recente.” Come osserva Chris Butler:
Se avete preso degli antibiotici, quando contraete un’altra infezione le probabilità che sia resistente aumentano considerevolmente. Ed è un problema, perché anche per infezioni comuni come quelle delle vie urinarie, se sono provocate da un organismo resistente, proseguono per più tempo, i pazienti prendono altri antibiotici, i costi per il servizio sanitario aumentano e gli ammalati presentano sintomi ben più gravi. Perciò non si danneggia soltanto la futura sensibilità dei batteri, c’è anche un grosso lato negativo per gli individui che prendono antibiotici non necessari.
La resistenza, tuttavia, non sembra l’unico lato negativo dell’abuso di antibiotici. Chris Butler solleva un’altra preoccupazione: gli effetti collaterali dannosi. Insieme al suo gruppo ha condotto un ampio esperimento clinico, testando i benefici degli antibiotici su individui che soffrivano di tosse a insorgenza improvvisa. Abbiamo scoperto che dovevamo curare trenta pazienti affinché uno di loro ne traesse beneficio, evitando un nuovo sintomo o un peggioramento, ma al contempo per ogni ventuno pazienti curati uno ne era danneggiato. Perciò vedete che la quantità di pazienti che bisognava curare per ottenere dei benefici era più o meno pari al numero necessario per provocare dei danni con la terapia antibiotica.
L’effetto dannoso si manifesta nella maggior parte dei casi sotto forma di eruzione cutanea o diarrea. Nei settant’anni trascorsi dall’introduzione della penicillina sono state sviluppate altre venti classi di antibiotici, ciascuna delle quali colpisce i batteri in maniera diversa. Si tratta dei farmaci prescritti più comunemente, e proseguono gli sforzi per trovare altri composti antibiotici al fine di contrastare una minaccia in continuo mutamento, provocata da batteri in evoluzione. Tuttavia, la vittoria sul nostro maggior avversario naturale – i batteri – è avvenuta nell’ignoranza dei danni collaterali che gli antibiotici provocano nel percorso di cura. Questi potenti farmaci infatti distruggono non solo i batteri che ci fanno ammalare ma anche quelli che ci mantengono in salute. Gli antibiotici non sono in grado di colpire un unico ceppo batterico. La maggior parte sono “ad ampio spettro”, cioè uccidono un’ampia gamma di specie. Il che è piuttosto utile per i medici, perché significa che è possibile curare i pazienti per infezioni di qualunque tipo senza sapere esattamente quale batterio stia provocando il problema. Essere più precisi significherebbe fare una coltura e individuare il colpevole, ma si tratta di una pratica lenta, costosa e talvolta impossibile. Anche gli antibiotici più mirati, “a spettro ristretto”, non selezionano il singolo ceppo batterico che provoca l’infezione per poi
distruggerlo. Qualsiasi altro batterio appartenente allo stesso gruppo familiare subirà lo stesso destino. Le conseguenze di questo “battericidio” di massa sono più profonde di quanto chiunque abbia mai previsto, compreso Sir Alexander Fleming. I due lati negativi degli antibiotici – la resistenza e i danni collaterali – uniscono le forze in una malattia spaventosa: l’infezione da Clostridium difficile. Questo batterio ha destato serie preoccupazioni in Inghil-terra a partire dal 1999, quando ha ucciso 500 persone, molte delle quali erano state curate con antibiotici. Nel 2007 quasi 4000 persone sono morte per lo stesso motivo. Non è un bel modo di perdere la vita. Il Clostridium difficile vive nell’intestino, dove produce una tossina che provoca una diarrea acquosa, inarrestabile e nauseabonda. A tutto ciò si accompagnano disidratazione, tremendi dolori intestinali e una rapida perdita di peso. Anche se le vittime di Clostridium difficile riescono a evitare l’insufficienza renale, devono talvolta sopravvivere al megacolon tossico, che è proprio quello che sembra: l’eccesso di gas prodotti nell’intestino fa sì che il colon si gonfi ben oltre le dimensioni normali. Il rischio, similmente all’appendicite, è che si rompa, ma le conseguenze sono anche più gravi. Con il rilascio di materia fecale e batteri di qualsiasi genere nello sterile ambiente della cavità addominale, le probabilità di sopravvivenza calano in maniera significativa. L’aumento dell’incidenza di Clostridium difficile e il bilancio delle vittime derivano in parte dalla resistenza agli antibiotici. Negli anni Novanta il batterio ha sviluppato un nuovo e pericoloso ceppo, più resistente e più tossico, diventato poi sempre più comune negli ospedali. Ma c’era anche una causa sottostante, che pone il nostro abuso di antibiotici sotto una luce più cruda e spaventosa. Il Clostridium difficile si trova nell’intestino di alcuni individui senza provocare troppi problemi, pur non essendo certo benefico. Dategli però la benché minima opportunità e diventerà davvero cattivo. E queste opportunità gliele danno gli antibiotici. Normalmente, un microbiota intestinale sano ed equilibrato tiene sotto controllo il Clostridium difficile, isolandolo e confinandolo in piccole sacche dove non può fare alcun danno. Con gli antibiotici, però, soprattutto quelli ad ampio spettro, il normale microbiota viene disturbato e il Clostridium difficile riesce a prendere piede. Se gli antibiotici possono consentire al batterio di prosperare, allora la domanda è: prendere antibiotici altera la composizione del microbiota? E se lo fa, quanto dura il suo effetto? La maggior parte degli individui avrà certamente provato quel gonfiore e quella diarrea che spesso sembrano accompagnare un
ciclo di antibiotici. Si tratta dell’effetto collaterale più comune di una terapia con questi farmaci e naturalmente è l’esito del disturbo arrecato al microbiota, la disbiosi. Di norma si risolve nel giro di qualche giorno dopo la fine della terapia, ma che ne è dei microbi che si lascia alle spalle? Riacquistano un normale e sano equilibrio? Nel 2007 un gruppo di ricercatori svedesi si è fatto proprio questa domanda. Erano particolarmente interessati a ciò che accade alla specie Bacteroides, poiché questi batteri sono specializzati nella digestione dei carboidrati vegetali e, come abbiamo visto nel secondo capitolo, hanno un grosso impatto sul metabolismo umano. I ricercatori hanno diviso in due un gruppo di volontari sani e hanno somministrato a una metà l’antibiotico clindamicina per sette giorni, mentre gli altri non sono stati sottoposti ad alcuna terapia. Subito dopo la somministrazione del farmaco, i microbi intestinali di coloro che avevano ricevuto la clindamicina sono stati colpiti in maniera grave. In particolare è diminuita la diversità dei Bacteroides. Il microbiota di entrambi i gruppi veniva controllato ogni pochi mesi, ma alla fine della ricerca i Bacteroides del gruppo trattato con la clindamicina non erano ritornati alla composizione originaria. E la terapia si era conclusa due anni prima. Per ottenere un effetto simile bastano cinque giorni di ciprofloxacina, un antibiotico ad ampio spettro utilizzato per curare le infezioni delle vie urinarie e la sinusite. Questo farmaco ha un “profondo e rapido” impatto sul microbiota, alterando la composizione delle specie intestinali in soli tre giorni. Con la terapia diminuisce la diversità batterica e in circa un terzo dei gruppi cambiano le quantità. L’alterazione persiste per settimane e alcune specie non riescono a ritornare del tutto in salute. Le conseguenze degli antibiotici sui bambini piccoli possono essere anche più gravi. Durante uno studio che analizzava le variazioni del microbiota nei bambini intorno all’anno di età, uno di essi, a causa del ciclo di antibiotici, era rimasto con così pochi batteri che i ricercatori non erano neppure riusciti a individuarne il DNA. Si è osservato questo impatto a lungo termine sul microbiota intestinale per almeno una mezza dozzina degli antibiotici più comuni, ciascuno dei quali cambia la composizione del microbiota in diversi modi. Persino i cicli più brevi e le quantità più basse hanno talvolta un impatto che sopravvive ben più dell’originario disturbo. Forse non è poi tanto un male: dopotutto non è detto che il cambiamento sia per forza in peggio. Ma ripensiamo all’insorgenza delle malattie del XXI secolo. Il diabete di tipo 1 e la sclerosi multipla negli anni Cinquanta, le allergie e l’autismo alla fine dei Quaranta. Dell’obesità sono stati
incolpati l’introduzione dei supermercati self service e il piacere privo di sensi di colpa del consumo anonimo. Ma quando si sono diffusi? Negli anni Quaranta e Cinquanta. Queste date coincidono con un altro evento importante: il ritiro all’ultimo minuto di Anne Miller dall’oscuro abbraccio del triste mietitore. O più precisamente, lo sbarco del D-Day nel 1944, quando gli antibiotici sono diventati in larga misura disponibili. Poco dopo essere stati massicciamente impiegati in questa giornata storica, si sono diffusi tra la popolazione. Il primo obiettivo era la sifilide, che colpiva intorno al 15 per cento degli adulti a qualsiasi età. Non molto tempo dopo, la produzione degli antibiotici è diventata economica e il loro uso frequente. La penicillina rimaneva nettamente il farmaco di riferimento, ma nel giro di un decennio sono state introdotte altre cinque classi di antibiotici, ciascuna delle quali mirava a una diversa malattia batterica. Nel caso di alcune delle malattie del XXI secolo, un leggero ritardo tra il 1944 e la scintilla che ne ha innescato la crescita potrebbe lasciar intendere che il collegamento è sbagliato, ma si tratta in realtà di un ritardo prevedibile. Ci è voluto del tempo perché gli antibiotici diventassero di uso comune, perché ne venissero sviluppati di nuovi, perché i bambini crescessero con gli effetti di questi farmaci nel proprio corpo e perché le malattie croniche si sviluppassero alla loro insidiosa maniera. Ci è voluto del tempo anche perché se ne chiarissero gli effetti tra le popolazioni, nei paesi e nei continenti. Se l’introduzione degli antibiotici è in qualche modo responsabile del nostro attuale stato di salute, gli anni Cinquanta sono il momento in cui ci aspetteremmo di vedere l’inizio del loro impatto. Cerchiamo però di non essere precipitosi. Come qualsiasi scienziato si affretterebbe a osservare, non sempre correlazione significa causalità. La tempestiva introduzione degli antibiotici potrebbe avere un collegamento irrealistico con l’insorgenza delle malattie croniche, proprio come i supermercati self service che hanno debuttato negli anni Quaranta. Le correlazioni di per sé, anche se rappresentano delle utili guide, non sempre forniscono un nesso causale. Un divertente sito web sulle correlazioni spurie mi dice che ci sono impressionanti e stretti legami tra il consumo pro capite di formaggio negli Stati Uniti e il numero di individui che perdono la vita ogni anno perché rimangono imprigionati tra le lenzuola. A parte gli incubi provocati dal formaggio, è piuttosto improbabile che esso provochi la morte perché non ci si riesce a districare dalle lenzuola, o che quel tipo di morte conduca altri individui a consumare più formaggio.
Trovare un autentico nesso causale richiede due elementi. Primo, una dimostrazione che il nesso sia reale: prendere degli antibiotici fa davvero aumentare i rischi di contrarre una malattia del XXI secolo? Secondo, un meccanismo che spieghi come il primo causi il secondo. Come accade che assumere degli antibiotici ci provochi allergie, malattie autoimmuni e obesità? L’idea che gli antibiotici possano alterare il microbiota, che a sua volta altera il metabolismo (obesità), lo sviluppo del cervello (autismo) e il sistema immunitario (allergie e patologie autoimmuni), ha bisogno di maggior sostegno rispetto alla semplice sincronia temporale. A prescindere dall’impatto degli antibiotici sul peso degli animali d’allevamento, sappiamo sin dagli anni Cinquanta che questi farmaci possono causare un aumento di peso negli esseri umani. In quel momento – prima che iniziasse l’epidemia dell’obesità – gli antibiotici erano in realtà impiegati intenzionalmente sugli esseri umani proprio per le loro proprietà di stimolo della crescita. Alcuni medici all’avanguardia, consapevoli degli effetti, da poco scoperti, degli antibiotici sulla crescita del bestiame, provarono a utilizzarli per curare i neonati prematuri e quelli malnutriti. I risultati furono spettacolari: i bambini godettero di un incremento di peso che a quanto pare li allontanò dagli artigli del rischio di morte. Visti tuttavia dall’odierna prospettiva delle masse sovrappeso, quei test avrebbero dovuto risuonare come un campanello d’allarme. I risultati a quel punto non vennero limitati ai più piccoli. Nel 1953 ebbe inizio un esperimento di terapia antibiotica tra le reclute della Marina statunitense, per verificare se una profilassi a base di aureomicina potesse ridurre la pressione delle infezioni da streptococco. Che l’altezza e il peso di questi ragazzi venissero registrati era dovuto alla tipica diligenza militare, ma portò a una sorprendente scoperta. Le reclute che ricevevano l’antibiotico ingrassavano decisamente di più rispetto a coloro che prendevano un placebo da un’identica confezione. Come accadeva per i bambini, questo inatteso esito della terapia antibiotica venne valutato nei termini del potenziale valore nutritivo che il farmaco offriva e non come un allarmante segnale dei tempi a venire. Con l’epidemia di obesità in pieno rigoglio e con l’attuale apprezzamento del banchetto microbico che ospitiamo nell’intestino, questi primi esperimenti offrono un punto di vista alternativo sul ruolo degli antibiotici nell’aumento di peso. Colpisce davvero che, a livello di ricerca, sia stato ignorato un effetto tanto evidente non solo sugli animali ma persino sugli esseri umani, date le proporzioni dell’epidemia di obesità. Sapevamo che gli antibiotici fanno
aumentare di peso, perché li impiegavamo per rimpolpare il bestiame e migliorare la nutrizione di coloro che più ne avevano bisogno, e tuttavia abbiamo ignorato questo effetto collaterale nel contesto di una catastrofe sanitaria globale. Le scoperte di Bäckhed, Turnbaugh e altri di cui ho parlato nel secondo capitolo, unite alla previsioni di Nicholson, hanno ispirato un nuovo modo di considerare questo vecchio legame. Chiaramente il microbiota riveste un ruolo importante nell’aumento di peso, ma gli antibiotici lo trasformano da comunità magra a comunità obesa? È una domanda difficile a cui rispondere: somministrare degli antibiotici a grandi quantità di individui altrimenti sani per scoprire se ingrassano non è certo etico, perciò gli scienziati si devono basare su esperimenti naturali e su qualche topo. Alcuni ricercatori di Marsiglia hanno colto la possibilità di testare la teoria di Jeremy Nicholson utilizzando degli adulti che soffrivano di una pericolosa infezione delle valvole cardiache. Questi pazienti, per stare meglio, avevano un disperato bisogno di ingenti quantità di antibiotici e rappresentavano dunque una grande opportunità per ricercare il connesso aumento di peso. Nel corso dell’anno successivo gli studiosi hanno comparato la variazione dell’Indice di Massa Corporea (IMC) dei pazienti con quello di una serie di individui sani, a cui non venivano somministrati antibiotici. Gli ammalati ingrassavano molto più dei sani, ma ciò avveniva solo in coloro che ricevevano una particolare combinazione di antibiotici: vancomicina più gentamicina. Quelli che prendevano altre varietà di antibiotici ne erano risparmiati e non ingrassavano più dei sani. Osservando il microbiota intestinale di questi due gruppi, i ricercatori avrebbero potuto capire se dell’aumento di peso fosse responsabile qualche specie in particolare, e hanno scoperto che una di esse, il Lactobacillus reuteri (un membro del tipo Firmicutes) era decisamente più abbondante nell’intestino dei pazienti a cui veniva somministrata la vancomicina. Questo batterio è resistente a quell’antibiotico, il che significa che poteva diffondersi come un’erbaccia mentre altre specie venivano abbattute dai farmaci. Attraverso la guerra batteriologica gli antibiotici avevano accordato un immeritato vantaggio al nemico. Non solo, il Lactobacillus reuteri produce di per sé delle sostanze chimiche antibatteriche. Conosciuti come batteriocine, questi composti riescono a prevenire la ricrescita di altri batteri, assicurando che il Lactobacillus reuteri mantenga il controllo dell’intestino. Le specie di Lactobacillus come il Lactobacillus reuteri sono state somministrate per decenni al bestiame:
anch’esse fanno ingrassare gli animali. Un altro studio ha attinto al tesoro di informazioni di una coorte di nascita nazionale danese. I ricercatori hanno analizzato i dati sanitari di quasi 30.000 coppie madre-figlio e hanno scoperto che somministrare antibiotici ai bambini aveva diversi effetti, a seconda del peso delle madri: i figli di madri magre avevano maggiori probabilità di diventare sovrappeso, mentre nei bambini nati da madri sovrappeso oppure obese l’effetto era opposto: riduceva il rischio che diventassero sovrappeso. È difficile sapere con precisione perché gli antibiotici abbiano effetti opposti su questi bambini, ma è affascinante pensare che forse stiano “correggendo” un microbiota obeso da una parte e disturbandone uno magro dall’altra. Grazie a un altro studio si è scoperto che il 40 per cento dei bambini sovrappeso avevano ricevuto antibiotici nei primi sei mesi di vita, contro il 13 per cento di quelli normopeso. Per quanto convincenti appaiano questi esperimenti, non dimostrano che gli antibiotici provochino un aumento di peso, o che esso sia una conseguenza di un microbiota alterato e non un effetto diretto dei farmaci. Un gruppo di ricerca guidato da Martin Blaser della New York University – un medico specializzato in malattie infettive nonché diret-tore del Progetto Microbioma Umano – si è proposto di stabilire con precisione quali potessero essere gli effetti degli antibiotici sul microbiota e sul metabolismo. Nel 2012 gli studiosi avevano dimostrato che somministrare basse dosi di antibiotici a giovani topi disturbava la loro composizione del microbiota, mutava i loro ormoni metabolici e aumentava la loro massa grassa, anche se non alterava complessivamente l’aumento di peso. I ricercatori sospettavano che il fattore temporale fosse decisivo e che somministrare più precocemente gli antibiotici ai topi potesse avere un effetto più tangibile. Gli studi epidemiologici avevano rivelato che i bambini a cui erano stati somministrati antibiotici nei primi sei mesi di vita avevano maggiori probabilità di diventare sovrappeso rispetto a coloro che avevano superato l’anno senza essere esposti al farmaco. Lo stesso si poteva dire per gli animali d’allevamento: per ottenere il miglior effetto di accrescimento di peso, è importante iniziare a somministrare gli antibiotici il più presto possibile. In una seconda serie di esperimenti, il gruppo di Blaser ha provato a dare basse dosi di penicillina ai topi femmina appena prima che partorissero, e poi ha continuato la somministrazione del farmaco per tutto l’allattamento. Piuttosto prevedibilmente, i topi maschi sotto penicillina, mentre venivano allattati, sono cresciuti molto più rapidamente del gruppo di controllo. Da adulti, sia i maschi sia le femmine erano più pesanti e avevano più massa grassa di quelli che non
avevano ricevuto farmaci. I ricercatori erano impazienti di sapere che cosa sarebbe accaduto se ai topi non fosse stata somministrata soltanto penicillina in basse dosi, ma anche una dieta ad alto contenuto di grassi. I topi femmina, sottoposti a dieta normale, all’età di 30 settimane hanno accumulato nel loro corpicino circa 3 grammi di grasso, indipendentemente dalla somministrazione di penicillina o meno. Con una dieta a elevato contenuto di grassi, un gruppo identico di topi femmina ha raggiunto una massa grassa di circa 5 grammi: non erano più pesanti ma avevano meno massa magra e più massa grassa. Aggiungendo a quella dieta ad alto contenuto di grassi una bassa dose di penicillina, un altro gruppo di topi femmina ha accumulato una massa grassa non di 5 grammi, ma di 10. La penicillina, pertanto, aveva in qualche modo amplificato l’effetto della dieta malsana, facendo sì che i topi immagazzinassero più delle calorie che stavano assumendo. Sui topi maschi la dieta malsana ha avuto un effetto maggiore, portando i 5 grammi di massa grassa di una dieta normale (con o senza penicillina) ai 13 grammi di quella ad alto contenuto di grassi. Anche in questo caso, unire la dieta a elevato contenuto di grassi con una bassa dose di penicillina amplificava l’aumento di peso, portando la massa grassa dei topi maschi fino a 17 grammi circa. Ovviamente una dieta ad alto contenuto di grassi da sola provocava l’obesità nei topi, ma gli antibiotici rendevano ancor peggiore una situazione già di per sé cattiva. Il trasferimento in topi privi di germi della comunità di microbi alterata, prodotta dagli antibiotici a basso dosaggio, ha provocato gli stessi cambiamenti nel peso e nel grasso, rivelando che era la composizione microbica a provocare l’aumento di peso nei topi e non il farmaco in sé. In maniera piuttosto preoccupante, anche se con l’interruzione degli antibiotici il microbiota ritornava in salute, gli effetti metabolici della terapia permanevano. La penicillina è la classe di antibiotici più prescritta ai bambini e, se c’è da credere ai topi, una cura con questi farmaci in età precoce potrebbe provocare alterazioni permanenti del metabolismo. È troppo presto per essere certi che gli antibiotici causino l’obesità, o per sapere quali varietà possano esserne responsabili, ma data la vasta e crescente ampiezza dell’epidemia di obesità, queste suggestive ipotesi secondo cui ci sarebbe una causa più profonda dell’ingordigia e della pigrizia ci mettono in guardia contro l’abuso di quei preziosi e complessi farmaci. Martin Blaser avverte che a una percentuale variabile tra il 30 e il 50 per cento delle donne
americane vengono somministrati di routine degli antibiotici durante la gravidanza e il parto, soprattutto penicilline come quelle ricevute dai topi. Anche se in gran parte sono giustificati, è ovviamente importante riconsiderare i costi e i benefici di questa pratica nel momento in cui emergono nuove prove. Quanto agli animali d’allevamento, una volta dimostrato che la resistenza agli antibiotici si trasmette dal bestiame agli esseri umani, almeno in Europa si è posto fine all’utilizzo degli antibiotici promotori della crescita. Dal 2006 agli allevatori dell’Unione Europea è stato vietato l’utilizzo di antibiotici semplicemente per incrementare il peso, anche se naturalmente sono ancora consentiti per curare le malattie. Negli Stati Uniti, e in molti altri paesi, gli antibiotici per promuovere la crescita continuano a essere utilizzati tutti i giorni. Anche se riuscite a evitare di mettere degli antibiotici nel vostro corpo, tutto ciò è sufficiente perché vi chiediate se state forse assumendo inconsapevolmente dei farmaci quando vi spazzolate una bistecca o attraverso il latte con i cereali. Dopotutto molti antibiotici vengono assorbiti nel sangue, penetrano nel muscolo e nel latte degli animali, e poi nel vostro intestino nel momento in cui li mangiate. Fortunatamente per coloro che vivono nei paesi più sviluppati, ci sono regole severe che obbligano gli allevatori a non macellare né mungere animali sottoposti da poco a una terapia. D’altro canto, nei paesi in cui le norme sono meno restrittive, i controlli a campione rivelano spesso cibo contaminato da residui di antibiotici oltre i livelli di sicurezza. A seconda di dove vivete, e dei luoghi in cui avete viaggiato, ci sono delle probabilità che abbiate assorbito almeno qualche antibiotico attraverso il cibo. I vegani tra noi possono reputarsi fortunati dopo aver letto queste pagine, ma a dispetto delle loro virtù non sono esclusi da questa particolare minaccia. I vegetali, sebbene non impestati direttamente dagli antibiotici, vengono spesso coltivati su suoli nutriti con concime animale. Questa sostanza non rappresenta soltanto una ricca fonte di nutrienti, ma anche di farmaci: intorno al 75 per cento degli antibiotici somministrati agli animali attraversa il loro corpo. Ecco che cosa significa utilizzare fertilizzanti naturali per mantenere verde e pulito il pianeta. Per certi tipi di antibiotici può esserci addirittura una dose di farmaco per litro di letame, che sarebbe un po’ come cospargere il contenuto di un paio di capsule di antibiotico ogni 10 m2 di terreno agricolo. Alcuni di questi antibiotici rimangono “attivi” sul suolo, ovvero restano in grado di uccidere i batteri come se fossero nella confezione. Il che significa che a ogni applicazione di letame la concentrazione può ulteriormente aumentare. Tutto ciò non avrebbe importanza se gli antibiotici rimanessero nel terreno, ma
non è così. Gli ortaggi e le erbe come il sedano, il coriandolo e i cereali contengono residui di antibiotici, piccole dosi per gambo o germoglio o lattina, ma nel corso delle settimane e degli anni gli effetti si sommano. Vi sono delle regole sulla somministrazione di antibiotici agli animali prima che vengano macellati per finire sulle nostre tavole, ma nessuna relativa ai farmaci nel concime impiegato per le colture. Può anche capitare che nel vostro piatto di carne con due contorni di verdura sia proprio quest’ultima a trasferire il suo fardello di antibiotici agricoli, mentre la carne viene risparmiata. Se i residui di antibiotici nel cibo possano davvero essere a fondamento dell’epidemia di obesità è argomento di dibattito scientifico, ma il legame è certamente persuasivo. La nostra circonferenza vita ha iniziato ad allargarsi negli anni Cinquanta, poco dopo che gli antibiotici erano stati resi disponibili alle masse. Tuttavia negli anni Ottanta si è avuta una brusca impennata nel numero degli individui sovrappeso e più o meno nello stesso periodo le tecniche agricole sono diventate tendenzialmente super-intensive. Ci sono circa 19 miliardi di polli vivi sulla terra in ogni istante (quasi tre pro capite!), molti dei quali ammassati in gabbie a più piani. Per tenere i polli in queste condizioni senza che si ammalino, servono di norma parecchi antibiotici. Il dottor Lee Riley, esperto di sanità pubblica, osserva che negli anni Ottanta e Novanta l’aumento maggiore di questi allevamenti di polli dipendenti dagli antibiotici è avvenuto negli Stati Uniti sud-orientali, proprio dove si trova l’epicentro dell’epidemia di obesità, dove attualmente gli americani sono più grassi. Se gli antibiotici riescono a farci ingrassare, di quale altro danno potrebbero essere responsabili? Ho citato diverse patologie che sembrano legate alla disbiosi intestinale: allergie, malattie autoimmuni e alcuni problemi mentali. Poiché gli antibiotici possono arrecare disturbo al microbiota, ciascuna di queste malattie potrebbe, in teoria, essere provocata dalla terapia antibiotica. Ricordate Ellen Bolte, nel terzo capitolo, il cui figlio Andrew era diventato autistico da piccolo? Bolte attribuiva l’improvvisa regressione di Andrew ai ripetuti cicli di antibiotici prescritti al bambino per quella che sembrava un’otite. Come l’obesità, l’autismo è una patologia che un tempo era rara. Ha iniziato ad aumentare dagli anni Cinquanta e adesso colpisce un bambino su 68. I maschi ne sono più soggetti, quasi il 2 per cento viene valutato nello spettro autistico entro gli otto anni. La responsabilità è stata attribuita a molti fattori, il più controverso dei quali era il vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia (MMR). Non ci sono prove però di un nesso causale e l’attenzione della ricerca si è spostata sul microbiota.
Sembra che i bambini autistici ospitino una comunità di microbi squilibrata. Questa disbiosi colpisce il cervello in via di sviluppo dei bambini piccoli, rendendoli irritabili, chiusi e ripetitivi. Ellen Bolte avrebbe forse potuto avere ragione sulla causa dell’autismo di Andrew? Gli antibiotici sono chiaramente in grado di arrecare disturbo al microbiota, ma quelli somministrati ad Andrew sono stati davvero responsabili di tutti i suoi problemi? La diagnosi relativa alla sua costante otite offre un indizio. Si scopre che il 93 per cento dei bambini autistici aveva avuto un episodio di otite prima dei due anni, rispetto al 57 per cento dei sani. Come ho già detto, nessun medico trascura un’otite infantile, per evitare che impedisca al piccolo di imparare a parlare o che gli causi per esempio la febbre reumatica. Perciò si rivolgono agli antibiotici: meglio prevenire che curare. Il legame tra più otiti e più antibiotici regge. Uno studio epidemiologico ha rivelato che ai bambini autistici si è somministrato mediamente il triplo degli antibiotici rispetto ai sani. Coloro che ricevono degli antibiotici prima dei diciotto mesi sembrano a maggior rischio. E c’è di più, questo è un nesso reale. Non è qualcosa di attribuibile a dei genitori ipocondriaci, convinti che il figlio sia ammalato e che pertanto chiedono degli antibiotici, oppure insistono per una diagnosi di autismo. Sappiamo che le cose non stanno così, perché prima della diagnosi i bambini autistici di questo studio non erano stati visitati dal medico, né avevano preso più farmaci di qualsiasi altro bambino che si sta normalmente sviluppando. Servono ricerche su molti più bambini per essere certi del legame ed è importantissimo svelare un meccanismo chiaro che spieghi come possa accadere, prima di averne la certezza. Ma poiché siamo già stati avvertiti dell’importanza di ridurre l’uso degli antibiotici, l’eventualità di far aumentare il rischio di autismo non fa che rendere ancora più sensati questi avvertimenti. È possibile scorgere un legame molto più chiaro, e forse più intuitivo, tra antibiotici e allergie. Nel precedente capitolo ho affermato che i bambini curati con antibiotici prima dei due anni sono doppiamente soggetti ad asma, eczema e febbre da fieno rispetto a coloro a cui non sono stati somministrati. Più farmaci ingeriscono più aumentano le probabilità che diventino allergici; quattro o più cicli significano il triplo delle probabilità di sviluppare delle allergie. La trama si complica se pensiamo alle patologie autoimmuni, che sono aumentate parallelamente all’impiego degli antibiotici. Fino a poco tempo fa, tuttavia, la responsabilità di queste malattie è stata attribuita alle infezioni. Il diabete di tipo 1 è un classico. Per decenni i medici hanno visto uno schema: un adolescente va dal medico per un raffreddore o un’influenza, poi, qualche
settimana dopo, ritorna: ha sempre una sete pazzesca ed è insopportabilmente stanco. Le cellule beta del pancreas hanno iniziato a mollare il colpo e a rifiutarsi di rilasciare insulina. Senza questo ormone fondamentale per convertire e immagazzinare il glucosio, quest’ultimo si accumula nel sangue. Risucchia acqua nei reni, disidratando lo sfortunato ragazzino. Nel giro di qualche giorno o di qualche settimana, la faccenda può diventare grave e, in assenza di cure, portare al coma e al decesso. Ma la cosa interessante è il nesso stabilito tra un raffreddore, o un’influenza, e l’insorgenza del diabete. Spesso si considera un’infezione virale il fattore scatenante, e non solo per il diabete, ma per molte altre patologie autoimmuni. Le statistiche, tuttavia, ci rivelano qualcosa di diverso. Il rischio di contrarre il diabete di tipo 1 non è più alto nei bambini che hanno effettivamente avuto delle infezioni. Inoltre, mentre i casi di diabete di tipo 1 sono in ascesa di circa il 5 per cento all’anno negli Stati Uniti, la percentuale di malattie infettive è scesa. E dunque perché l’apparente legame? Perché i medici osservano costantemente adolescenti che prendono il diabete dopo aver avuto un’infezione? È qui che finisce la scienza e inizia l’intrigo. Sappiamo già che i medici prescrivono troppi antibiotici, persino per malattie che sono probabilmente virali, non batteriche. Potrebbe essere che il diabete insorga non a causa di un’infezione, ma come conseguenza della terapia per quell’infezione, cioè gli antibiotici? I medici e le famiglie hanno la sensazione che un raffreddore, o un’influenza, o una gastroenterite scatenino il diabete. Gli antibiotici sarebbero degli innocenti spettatori. Ma potrebbero essere i farmaci stessi, o una combinazione tra le due cose, a innescare la malattia. Purtroppo per adesso non c’è una risposta chiara. Secondo uno studio danese sulla somministrazione degli antibiotici ai bambini piccoli non è emerso assolutamente alcun legame con il rischio dell’insorgenza del diabete in seguito. Ma in un altro studio condotto su oltre 3000 bambini c’era la propensione a collegare antibiotici e diabete. Lasciando da parte il diabete, altre patologie autoimmuni mostrano legami più chiari con gli antibiotici. Tra gli adolescenti e gli adulti che usano per mesi o anni un antibiotico chiamato minociclina per tenere a bada l’acne, il rischio di contrarre il lupus è due volte e mezzo maggiore rispetto a coloro che non prendono il farmaco. Questa malattia autoimmune, che aggredisce svariate parti del corpo, colpisce soprattutto le donne, ma il dato comprende gli uomini, che non sono soggetti al lupus. Se ci limitiamo alle donne, il rischio d’insorgenza dopo aver assunto la minociclina (ma nessun altro antibiotico del gruppo delle tetracicline) balza al quintuplo delle probabilità
rispetto a coloro che non prendono alcun antibiotico. E lo stesso vale anche per la sclerosi multipla (SM), una patologia autoimmune che danneggia i nervi, che colpisce con maggiori probabilità coloro che hanno assunto degli antibiotici poco tempo prima. Se siano gli antibiotici, le infezioni o una combinazione delle due cose all’origine di tutto questo è difficile saperlo. Sebbene i problemi della resistenza agli antibiotici e dei danni collaterali al microbiota siano seri, gli antibiotici non sono di per sé un male. Non dimentichiamo le innumerevoli vite che hanno salvato e le sofferenze che hanno evitato. Nel riconoscere che ci sono dei costi, accanto ai benefici, possiamo modularne al meglio l’importanza in ogni situazione data. È compito di tutti noi – compresi medici e pazienti – ridurre l’impiego di antibiotici non necessari, per il bene dei nostri ecosistemi interni e del nostro corpo. Anche se l’idea che stava alla base della teoria dell’igiene – ovvero che le infezioni ci proteggono dalle allergie – si è rivelata falsa, c’è un elemento che sopravvive. Noi siamo, a livello sociale, ossessionati dall’igiene e a causa dei suoi effetti sui microbi benefici che ospitiamo, provochiamo dei danni. La maggior parte di noi, nei paesi sviluppati, lava l’intero corpo almeno una volta al giorno, coprendo la pelle di sapone e acqua bollente. Si dice spesso che l’epidermide rappresenti la prima linea di difesa contro gli agenti patogeni, ma non è del tutto vero. Il microbiota della pelle, che si tratti di una comunità di Propionibacterium sul naso o di Corynebacterium sotto le ascelle, forma un ulteriore strato protettivo sulla superficie dell’epidermide. Come accade nell’intestino, questo benefico strato tiene alla larga potenziali agenti patogeni e regola le risposte del sistema immunitario nei confronti degli aspiranti invasori. Se gli antibiotici riescono ad alterare in maniera consistente la composizione del microbiota intestinale, quali effetti hanno i saponi su quello dell’epidermide? Osservando gli scaffali dei supermercati, è difficile trovare una saponetta o un detergente per superfici che non contenga degli antibatterici. Siamo assediati da pubblicità che insinuano che nelle nostre case i germi assassini girano a piede libero e che ci consigliano di mettere al riparo le nostre famiglie utilizzando prodotti per la pulizia contenenti antibatterici, che uccidono il 99,9 per cento dei batteri e dei virus. Quello che non ci dicono in queste pubblicità è che i saponi normali svolgono piuttosto bene il proprio compito e non danneggiano né voi né l’ambiente. Quando vi lavate accuratamente le mani, con acqua calda e con un sapone non antibatterico, non vi state sbarazzando di microbi potenzialmente nocivi
uccidendoli. Li state rimuovendo fisicamente. Il sapone e il calore dell’acqua non fanno loro del male, rendono soltanto più semplice rimuovere le sostanze a cui i microbi aderiscono: succhi della carne, sporco, oppure l’accumulo di oli e cellule morte della vostra pelle. Lo stesso accade con i detergenti per le superfici: pulire il ripiano della cucina rimuove i minuscoli avanzi di cibo di cui si nutrono i batteri nocivi. Non uccide i microbi, e non è neppure necessario. Aggiungendo degli antibatterici non si ottiene niente in più. Quando si afferma che i prodotti antibatterici uccidono il 99,9 per cento dei batteri, non ci si riferisce a test sulle mani delle persone, o sulle superfici della cucina, ma a test effettuati in recipienti. I collaudatori mettono molti batteri direttamente nel sapone liquido e dopo un certo periodo di tempo – ben più di quanto il sapone rimarrebbe a contatto con la vostra pelle – controllano quanti di essi siano ancora vivi. È impossibile sostenere che la percentuale di uccisione sia del 100 per cento, perché nessuno potrà mai dimostrare l’assenza totale di qualcosa da un piccolo campione. Come dicono gli scienziati: l’assenza di prove non è prova di assenza. Esattamente quali ceppi di batteri questi saponi uccidano viene dichiarato piuttosto di rado; il 99,9 per cento si riferisce alla proporzione di individui uccisi, non al fatto che può essere eliminato il 99,9 per cento delle specie batteriche mondiali. È utile tenere a mente che molti batteri patogeni sono comunque in grado di formare delle spore, che si ibernano con efficacia finché il pericolo è passato, indipendentemente dalle sostanze chimiche che si utilizzano. I prodotti antibatterici sono il trionfo della pubblicità e delle congetture sulla scienza. Come per molte sostanze chimiche della vita quotidiana, non è mai stata accertata sul serio la sicurezza degli antibatterici. Invece che pretendere che si dimostrino sicuri ed efficaci prima di essere messi sul mercato, come accade per i farmaci, si lascia agli enti di regolamentazione l’onere di dimostrare che sono pericolosi, e di vietarli, dopo essere stati autorizzati al pubblico. Delle 50.000 e passa sostanze chimiche impiegate in Occidente, soltanto 300 circa sono state testate per garantirne la sicurezza. Se ipotizziamo che anche soltanto l’1 per cento di quelle 50.000 sia nocivo, almeno 500 e oltre non dovrebbero stare nelle nostre case. È facile essere scettici sull’impatto di tali sostanze – dopotutto, non vedremmo forse la gente ammalarsi se fossero davvero pericolose? – ma l’insidiosa natura dell’accumulo e gli effetti impercettibili e lenti che possono avere non sono necessariamente facili da cogliere. D’altro canto vediamo la gente che si ammala. La nostra memoria è abbastanza corta e la rete di potenziali fattori piuttosto intricata, perciò abbiamo in effetti qualche difficoltà a separare
quello che è pericoloso da quello che non lo è. Prendete per esempio l’amianto: prima di essere vietata, questa sostanza chimica naturale era stata usata nell’edilizia di tutto il mondo. Centinaia di migliaia di persone sono morte per l’esposizione all’amianto, un tempo onnipresente, e continuano a morirne. Non sto sostenendo che gli antibatterici siano pericolosi quanto l’amianto, ma il fatto che siano presenti in migliaia di prodotti, dai deter-sivi ai taglieri, dagli asciugamani agli indumenti, dai contenitori di plastica ai saponi per il corpo, non garantisce che siano sicuri. Negli ultimi anni è finito sotto la lente d’ingrandimento un composto antibatterico particolarmente comune, il triclosan. I suoi effetti si sono rivelati sufficientemente preoccupanti da indurre il governatore del Minnesota a firmare un decreto che ne vieta l’utilizzo nei prodotti di consumo a partire dal 2017. Sono quasi certa che nelle vostre case avete almeno un prodotto che contiene del triclosan, se non decine. Ma è probabile che stareste meglio senza. Tanto per incominciare, è stato dimostrato che il triclosan non è più efficace nel ridurre la contaminazione batterica in casa rispetto a un sapone non antibatterico. E mentre le persone continuano a utilizzarlo, sta contaminando le nostre riserve idriche, dove riesce a uccidere i batteri e altera l’equilibrio degli ecosistemi d’acqua dolce. Come se questo non fosse abbastanza preoccupante, il triclosan penetra nel nostro corpo. Lo si può ritrovare nel tessuto grasso umano, nel sangue del cordone ombelicale dei neonati, nel latte materno e, in quantità significative, nell’urina del 75 per cento della gente ogni santo giorno. Nella letteratura scientifica si sta dibattendo su quanto tutto ciò sia preoccupante, ma quello che sappiamo per ora è che c’è un’evidente correlazione tra i livelli di triclosan nelle urine degli individui e la gravità delle loro allergie. Più triclosan il nostro corpo contiene, maggiori sono le probabilità di avere la febbre da fieno e altre allergie. Se si tratti di un effetto diretto del danno al microbiota, una forma di tossicità, o solo un riflesso della ridotta esposizione ai microbi benefici non è dato saperlo. Comunque sia, tutto ciò ci porta a osservare in maniera diversa le pubblicità focalizzate sull’igiene, in cui la mamma strofina il seggio-lone del suo piccino con delle salviettine antibatteriche prima di posare il cibo direttamente sulla superficie “pulita”. Ci sono delle prove che dimostrano che il triclosan in realtà aumenta le probabilità di contrarre un’infezione. Questa sostanza cola letteralmente fuori da noi: è normale trovarlo nelle “secrezioni nasali” – il muco – degli adulti. Ma il fatto che il nostro naso sia impregnato di antibatterici non ci aiuta a sconfiggere le infezioni: si è scoperto che maggiore è la concentrazione di triclosan nel
muco, più alta è la colonizzazione da parte dell’agente patogeno opportunista Staphylococcus aureus. Utilizzando il triclosan stiamo in realtà riducendo la capacità del nostro corpo di resistere alla colonizzazione e facilitiamo l’infezione di questo batterio, che uccide decine di migliaia di individui all’anno sotto forma di MRSA. Come se non bastasse, si è anche scoperto che il triclosan interferisce con l’azione degli ormoni tiroidei e blocca quella degli estrogeni e del testosterone nelle cellule umane sulle piastre di Petri. Per adesso la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti ha semplicemente imposto ai produttori di dimostrarne la sicurezza, o di affrontare un divieto. Come ho già detto, il governatore del Minnesota ha fatto un passo in più, vietando il triclosan nei prodotti di consumo a partire dal 2017, ma non per i motivi che ho citato. La sua preoccupazione, come quella di molti microbiologi, è che esporre i batteri al triclosan permetta loro di sviluppare una resistenza. Poiché nessuno vuole eliminare dalle mani tutti i vulnerabili batteri benefici, lasciando soltanto quelli nocivi e resistenti, le preoccupazioni si concentrano sulla resistenza agli antibiotici. Prendete un naso umano, che espelle muco impregnato di triclosan, il quale probabilmente induce resistenza, aggiungete un po’ di Staphylococcus aureus e lasciate agire per qualche giorno; che cosa otterrete? Una fabbrica mobile di MRSA, completa di un meccanismo di dispersione assai efficace. Ah, un’altra cosa. Quando il triclosan si mescola all’acqua clorata del rubinetto, si converte nella cancerogena nonché invalidante sostanza degli scrittori di gialli: il cloroformio. Aspettate che lo proibiscano, se volete, oppure leggete sempre l’etichetta. Lavarsi le mani – con un normale sapone non antibatterico e acqua calda per quindici secondi – è comunque importante. È il fondamento dell’igiene pubblica ed è stato dimostrato che fa tutta la differenza nella trasmissione delle infezioni, soprattutto di quelle gastrointestinali. Oltre che rimuovere i microbi “di passaggio” – quelli non residenti che raccogliamo dall’ambiente – lavarsi le mani ne disturba però il microbiota. È interessante come nelle diverse specie cambi la capacità di resistere al lavaggio oppure di ripristinarsi subito dopo. I membri degli stafilococchi e degli streptococchi, per esempio, si riformano in proporzione maggiore nella comunità subito dopo essersi lavati le mani e poi gradualmente diventano meno dominanti tra un lavaggio e l’altro. Secondo me tutto ciò è interessante perché richiama alla mente il disturbo ossessivocompulsivo (DOC). Una delle manifestazioni di questa patologia legata all’ansia consiste nel fatto che chi ne soffre crede di essere contaminato dai
germi. E sviluppa una “ossessione” per la pulizia e una “compulsione” a lavarsi le mani. Le cause di questo bizzarro e invalidante disturbo sono difficili da chiarire, malgrado svariate teorie. Una serie di indizi puntano verso un’origine microbica. Alla fine della Prima guerra mondiale fece la sua comparsa in Europa una misteriosa malattia. Nell’inverno del 1918 aveva ormai raggiunto l’America e negli anni seguenti colpì il Canada. Nel corso degli anni successivi la malattia spazzò il globo, conquistando l’India, la Russia, l’Australia e il Sud America. La pandemia continuò per un intero decennio. Conosciuta come encefalite letargica, tra i suoi sintomi c’erano un’estrema sonnolenza, mal di testa e movimenti involontari, un po’ come nel morbo di Parkinson. Spesso la malattia si manifestava in maniera simile a un disturbo psichiatrico, molti pazienti diventavano psicotici, depressi o ipersessualizzati. Tra il 20 e il 40 per cento degli ammalati moriva. Molti di coloro che sopravvissero alla pandemia di encefalite letargica non guarirono mai del tutto; a migliaia rimase il disturbo ossessivocompulsivo. All’improvviso una rara patologia comportamentale saltava fuori come se fosse un’infezione. I medici dell’epoca dibattevano ferocemente sul fatto che il problema avesse un’origine freudiana oppure “organica”, ma ci sarebbero voluti settant’anni prima di scoprirne la causa. Intorno al 2000 due neurologi inglesi, Andrew Church e Russell Dale, hanno iniziato a interessarsi alle cause dell’encefalite letargica. I due medici avevano visitato una manciata di pazienti i cui sintomi rientravano nel profilo di questa bizzarra patologia. Nella comunità medica si è sparsa la voce e i colleghi hanno iniziato a riferire di casi simili a Dale, finché quest’ultimo non si è ritrovato con venti pazienti a cui era stata diagnosticata una malattia che si ipotizzava scomparsa decenni prima. Insieme a Church, ha iniziato a cercare delle similitudini tra i pazienti, sperando di trovare degli indizi che li portassero a una causa e, con un po’ di fortuna, a una cura. In effetti c’era una costante: molti pazienti, nella fase acuta della malattia, avevano avuto un’infiammazione alla gola. Come gli americani – che spesso usano il termine strept troat – sapranno, le infiammazioni alla gola sono spesso provocate da membri del genere Streptococcus. Church e Dale con questo batterio pensavano di aver scoperto qualcosa, perciò hanno sottoposto ad analisi i loro pazienti e, come c’era da aspettarsi, tutti e venti erano stati infettati dallo Streptococcus. Invece di migliorare dopo qualche settimana, il batterio aveva innescato una reazione
autoimmune, che aveva aggredito un gruppo di cellule cerebrali conosciute come gangli della base. Di conseguenza, quella che normalmente sarebbe stata un’infezione respiratoria si era trasformata in una malattia neuropsichiatrica. I gangli della base sono coinvolti nella “selezione di azioni”: questa parte del cervello ci aiuta a decidere quale delle semplici azioni possibili dovremmo scegliere di compiere. A quanto pare i gangli della base sono in grado di apprendere in maniera subconscia quali azioni ci frutteranno una ricompensa: dovresti prendere o lasciare? Dovresti frenare o accelerare? Meglio prendere la tazza del tè o grattarti quell’improvviso prurito sulla testa? Più pratica accumulate in queste faccende, più informazioni avranno i vostri gangli della base quando dovranno selezionare tra le varie opzioni che attraversano la vostra mente conscia. Prendere o lasciare dipende da quali carte avete in mano, da quali ha il cartaio e da quali, secondo le valutazioni della vostra mente, sono rimaste nel mazzo. Più siete esperti e più sono affinati i vostri gangli della base, anche se la vostra mente conscia non lo è. Se queste cellule cerebrali vengono attaccate, però, la selezione di azioni non funziona più bene. Dovreste prendere o lasciare? Lasciare o prendere? O prendere? O lasciare? O semplicemente tremare d’indecisione. I muscoli che dovrebbero in automatico seguire le istruzioni del cervello sembrano ricevere molteplici ordini e invece di fluide azioni decisive provocano tremori simili a quelli del Parkinson. Anche le azioni di routine si fanno confuse: accendere le luci, chiudere le porte, lavarsi le mani. Per coloro che soffrono di DOC e si lavano compulsivamente le mani, c’è una possibilità non priva di fascino. Ho detto prima che alcuni gruppi di batteri diventano più numerosi appena dopo essersi lavati le mani, forse perché colgono l’occasione di espandersi in assenza dei loro compagni più vulnerabili. Vi risparmio il fastidio di andare a ricontrollare: gli streptococchi sono uno di questi gruppi. Non è affatto certo, ma forse questi patogeni opportunisti, dopo una buona lavata di mani, guadagnano abbastanza terreno sull’epidermide e nell’intestino da convincere il proprio ospitante, per mezzo dei gangli della base rinforzati dall’abitudine e che offrono una ricompensa, a continuare a lavarsele. Forse non sarà una sorpresa che un certo numero di disturbi “mentali” – o più appropriatamente di disturbi neuropsichiatrici – siano connessi sia a una disfunzione dei gangli della base sia allo Streptococcus. Pensate ai tic vocali e fisici della sindrome di Tourette, che può essere la conseguenza dell’incapacità dei gangli della base di decidere di non sopprimere l’idea della mente conscia legata ai dispetti. Lo Streptococcus riveste un ruolo, poiché i bambini che hanno
contratto più infezioni da un ceppo particolarmente maligno di questo batterio negli anni precedenti hanno quattordici volte le probabilità di sviluppare la sindrome di Tourette. Il Parkinson, l’ADHD e l’ansia sono anch’essi collegati allo streptococco e a un danno ai gangli della base. Non vi sto tuttavia consigliando di non lavarvi le mani per timore che lo streptococco faccia presa. Un esito assai peggiore sarebbe trasferire dei microbi comuni dai luoghi a cui appartengono (le feci, per esempio) ad altri a cui non appartengono (gli occhi o la bocca). Non sappiamo se i saponi antibatterici aggravino la temporanea conquista dello Streptococcus sulle mani, ma da ostinato opportunista abituato a resistere all’attacco di altri microbi, è ben possibile che sia stato più veloce a sviluppare una resistenza agli antibatterici rispetto ai benefici microbi della pelle. C’è tuttavia una circostanza in cui usare delle sostanze chimiche per uccidere i batteri sembra utile ed efficace, e sono i saponi liquidi a base di alcol. L’alcol disgrega i microbi a un livello talmente elementare che non sembrano più in grado di sviluppare una resistenza. Inoltre sembra efficace contro ceppi resistenti agli antibiotici, come l’MRSA, e può essere applicato velocemente e facilmente dagli operatori sanitari così come dai pendolari. Mentre siete occupati a controllare tutte le etichette dei vostri prodotti per l’igiene personale, potreste rimanere colpiti da quante sconosciute sostanze chimiche sembrano necessarie per farvi sentire puliti e profumati. Naturalmente senza gel doccia, crema idratante e deodorante la vostra pelle saprebbe bene come badare a se stessa. Se scar-pinare nella foresta pluviale tropicale può insegnarvi qualcosa, quella cosa è che sono gli stranieri a lavarsi una volta al giorno e a ricoprirsi quotidianamente di antitraspiranti dal cattivo odore, non certo la gente del posto. Malgrado si lavino di rado e non usino mai deodoranti o detergenti, i popoli tribali che vivono nei luoghi più semplici del pianeta non soffrono di cattivo odore corporeo. Gita Kasthala, un’antropologa e zoologa che lavora nelle remote aree della Papua Occidentale e dell’Africa Orientale, ha notato che, per quanto concerne l’igiene personale, i popoli tribali si possono dividere in tre gruppi. Nel primo ci sono coloro che hanno contatti molto scarsi con la cultura occidentale. “Queste genti spesso incorporano l’igiene personale in altre attività, per esempio la pesca. Ma non usano sapone e molti dei tessuti che utilizzano per coprirsi sono naturali” afferma. Nel secondo gruppo ci sono i popoli di remoti villaggi che sono stati esposti entro certi limiti alla cultura occidentale – spesso attraverso i missionari – e tendono a indossare abiti occidentali, magari di tessuto sintetico e
di seconda mano, risalenti agli anni Ottanta. “Questo gruppo ha spesso un odore incredibilmente pungente. Si lavano a dovere e usano il sapone, ma non capiscono più di tanto perché ci si lava e si lavano i vestiti. Sanno che a un certo punto lo si dovrebbe fare, che sia questa settimana, tra un mese o più raramente.” L’ultimo gruppo è stato totalmente immerso nella cultura occidentale, forse lavorando in un impianto petrolifero o per una società di disboscamento, e la gente che ne fa parte si lava quotidianamente con dei prodotti specifici. “I soggetti appartenenti a questo gruppo generalmente non puzzano, a meno che non lavorino eccessivamente o sia una giornata torrida” spiega Kasthala. “Ma il primo gruppo, che non usa mai sapone, non emana mai cattivo odore, anche quando lavora eccessivamente.” E quindi perché no? Come mai la maggior parte degli individui che vivono in una società moderna puzzano in maniera socialmente inaccettabile e sono unti dopo appena un giorno o due che non si lavano, mentre coloro che vivono liberi dal sapone e dall’acqua calda ai tropici riescono a restare puliti? Secondo una società appena fondata, la AOBiome, la faccenda riguarda essenzialmente un gruppo molto sensibile di microbi. Il fondatore della società, David Whitlock, era un ingegnere chimico che studiava i microbi che si trovano nel terreno. Nel 2001, mentre raccoglieva dei campioni per una scuderia, qualcuno gli ha chiesto come mai i cavalli amassero rotolarsi nella terra. Lui non ne aveva idea, ma la domanda lo ha fatto riflettere. Whitlock sapeva che il suolo e le fonti naturali d’acqua contenevano molti batteri ossidanti dell’ammoniaca, o AOB. Sapeva anche che il sudore contiene ammoniaca e si è chiesto se i cavalli e altri animali usassero l’AOB nel terreno per fare in modo che l’ammoniaca si accumulasse sulla loro pelle. La maggior parte dell’odore del sudore umano in realtà non proviene dai fluidi contenenti ammoniaca che le nostre ghiandole eccrine secernono, ma dalle ghiandole apocrine, o dell’odore. Confinate sotto le ascelle e all’inguine, sono ghiandole essenzialmente legate alla sessualità, fino alla pubertà non sono neppure attive, e gli odori che producono successivamente agiscono come feromoni, informando il sesso opposto sul nostro stato di salute e di fertilità. Il sudore rilasciato dalle ghiandole apocrine è in realtà totalmente privo di odore. Ne prende uno quando i microbi della nostra pelle si intrufolano e lo convertono in un vero e proprio ricettacolo di composti volatili odorosi. Quali aromi vengano esattamente prodotti dipende dalla composizione dei microbi che si ospitano. Lavandoci e applicando deodoranti, che tendono a rimuovere o a mascherare
i batteri che producono l’odore, alteriamo il microbiota cutaneo. Gli AOB sono un gruppo di batteri molto sensibili e lenti a riprodursi, perciò sono i più colpiti dal ciclone di sostanze chimiche che li bombarda ogni giorno. Il problema, secondo Whitlock, è che senza AOB l’ammoniaca del sudore non viene convertita in nitrito e ossido di azoto, ovvero sostanze chimiche che giocano ruoli fondamentali non solo nella regolazione della gestione delle cellule umane, ma anche nel governo dei microbi cutanei. Senza ossido di azoto, i corinebatteri e gli stafilococchi che si nutrono del nostro sudore si inselvatichiscono. L’alterazione nella quantità di corinebatteri, in particolare, sembra responsabile di quel cattivo odore che siamo così desiderosi di evitare. L’ironia, allora, è che lavandosi con sostanze chimiche e usando i deodoranti per essere certi di emanare un buon profumo, inneschiamo un circolo vizioso. I saponi e i deodoranti uccidono i nostri AOB; la mancanza di AOB provoca la distruzione degli altri batteri cutanei; l’alterazione della composizione batterica porta il nostro sudore ad aver un cattivo odore; pertanto dobbiamo usare un sapone per ripulire tutto il disastro e un deodorante per mascherare l’odore. Quello che AOBiome ipotizza è che reintegrare gli AOB spezzerebbe questo infinito circolo. Naturalmente potreste ottenere lo stesso scopo rotolandovi nel fango, oppure nuotando quotidianamente in acqua incontaminata e non trattata (se riuscite a trovarne un po’), ma quello che Whitlock e il resto della squadra di AOBiome propongono è che invece vi irroriate tutti i giorni con il loro AO+ Refreshing Cosmetic Mist. Ha lo stesso aspetto, odore e sapore dell’acqua, ma contiene dei Nitrosomonas eutropha vivi, AOB coltivati nel terreno. Al momento l’AO+ viene venduto come cosmetico, perciò AOBiome non deve dimostrarne l’efficacia, che è tuttavia il prossimo obiettivo. In un esperimento pilota la pelle dei volontari è migliorata nell’aspetto, nella levigatezza e nell’elasticità rispetto a quella di chi usava un placebo. Mentre coloro che non si lavano non saprebbero di fiori o di sapone come siamo abituati ad aspettarci dalla nostra pelle, molti dei volontari dell’esperimento con l’AO+ hanno scoperto che il loro odore naturale era in realtà buono, persino per gli altri. Il fondatore di AOBiome ha smesso totalmente di lavarsi dodici anni fa e ci hanno assicurato che non puzza. Molti altri membri della squadra di AOBiome hanno eliminato l’uso di saponi e deodoranti e si lavano poche volte alla settimana, alcuni poche volte all’anno. L’idea di non lavarsi con il sapone, o perlomeno di farlo meno spesso, probabilmente appare piuttosto disgustosa ai più. A me sembra davvero surreale
che questa idea sia talmente radicata nella nostra cultura, che ammettere di non usare il sapone tutti i giorni è praticamente un tabù. Ed è probabilmente anche più surreale che dopo 250.000 anni di storia di Homo sapiens in cui non abbiamo usato detergenti, siamo ormai così dipendenti da una doccia quotidiana con il sapone da non riuscire a immaginare di farne a meno. Come gli antibiotici, gli antibatterici occupano il proprio posto. Ma, in fatto di salute, il vostro corpo non è quel posto. Abbiamo già un sistema di difesa microbica, si chiama sistema immunitario. Forse faremmo meglio a cercare di usarlo.
6. Voi siete quello che loro mangiano
Sono seduta alla Harvard University a bere una tazza di tè con la dottoressa Rachel Carmody, e lei mi racconta di quando ha capito che il modo in cui fino a quel momento avevamo considerato l’alimentazione umana era completamente sbagliato. Aveva appena terminato di scrivere la tesi di specializzazione dedicata agli effetti della cottura sul valore nutritivo del cibo e la stava presentando all’esame orale. Alla fine della sessione, l’esaminatore seduto al capo opposto del lungo tavolo rispetto a Carmody si era alzato in piedi e aveva fatto scivolare verso di lei un fascio di studi scientifici appena pubblicati. Mentre le si sparpagliavano davanti, aveva colto tra i titoli parole come “microbioma” e “microbiota intestinale”. “Provi a pensare all’impatto che avrebbe tutto ciò sulle sue conclusioni” le aveva detto il docente. “La quantità di energia che riusciamo a estrarre dalla dieta orienta tutti gli studi biologici” mi spiega Carmody. “È probabile che l’aspetto di un organismo e il modo in cui si comporta siano legati alle modalità con cui si procura il cibo. Il problema era che, da biologa dell’evoluzione umana, che studia il modo in cui gli esseri umani digeriscono gli alimenti, mi stavo occupando solo di metà della questione.” Carmody si era concentrata sui processi digestivi che avvenivano nell’intestino tenue, ma poiché riviste prestigiose come “Nature” e “Science” iniziavano a pubbli-care numeri speciali sul ruolo del microbiota intestinale nella nutrizione e nel metabolismo, lei si era resa conto che la propria ricerca e quelle di altri studiosi della nutrizione umana non avrebbero potuto fornire tutte le risposte. “Quello che avevamo” prosegue Carmody, “era un sistema di pensiero sull’alimentazione penosamente incompleto.” Il punto di vista sulla nutrizione è completamente cambiato. Fino a poco tempo fa contava soltanto quello che accadeva nell’intestino tenue. Questo tubo lungo e sottile che parte dallo stomaco, a sua volta simile a un miscelatore, è il posto in cui accade tutto quello che concerne la digestione “umana”. Gli enzimi pompati dallo stomaco, dal pancreas e dallo stesso intestino tenue spezzano le grandi molecole di cibo in parti più piccole, in grado di attraversare le cellule del rivestimento intestinale e riversarsi nel flusso sanguigno. Le proteine, simili a
collane di perle attorcigliate e ripiegate, vengono divise in singoli grani chiamati aminoacidi e in catene più corte di questi mattoni da costruzione. I carboidrati complessi vengono affettati in porzioni più maneggevoli, cioè gli zuccheri semplici come il glucosio e il fruttosio. I grassi sono ridotti alle parti che li compongono, i gliceroli e gli acidi grassi. Queste unità più piccole svolgono i propri compiti all’interno del corpo: producono energia, si trasformano in carne, vengono riconvertite per essere utilizzate. La nutrizione umana, almeno secondo il dogma, si conclude essen-zialmente alla fine di questo tubo lungo sette metri che è l’intestino tenue, seguito dall’intestino crasso, più corto ma decisamente più largo. Questa sezione relativamente sporca delle viscere è stata finora ignorata, trattata semplicemente come un ingombrante tubo di scarico. A scuola ci è stato insegnato che l’intestino tenue serve ad assimilare i nutrienti, mentre il crasso è destinato ad assorbire l’acqua e a raccogliere gli scarti di cibo pronti per essere espulsi. Com’è accaduto con l’appendice, rivelatasi poi non così inutile, l’importanza dell’intestino crasso è stata sottovalutata. Il premio Nobel russo Elie Metchnikoff, che nell’ultimo decennio del XIX secolo fece notevoli scoperte sulle cellule immunitarie, pensava che senza l’intestino crasso ce la saremmo passata decisamente meglio. Scriveva: “Molte indagini sono state compiute sull’uomo, e sembrano aver stabilito l’assenza di una forza digestiva nell’intestino crasso.” Dalle riflessioni di Metchnikoff sull’intestino crasso fortunatamente molta acqua è passata sotto i ponti. Già da decenni abbiamo compreso che questo organo assorbe quantomeno delle vitamine fondamentali, sintetizzate dalla sua colonia di microbi. Senza di loro, ne andrebbe della nostra salute. La dieta di David Vetter, il “bambino nella bolla” tenuto in isolamento e quasi privo di germi negli anni Settanta, era integrata da molte vitamine per compensare la mancanza di microbi. Il contributo nutrizionale del microbiota però va ben oltre le vitamine. Per alcune specie sarebbe addirittura del tutto inutile mangiare se non ci fossero i servizi di estrazione dei nutrienti forniti dai microbi. Le sanguisughe e i pipistrelli che si nutrono di sangue portano all’estremo la propria dipendenza dal microbiota, perché, nonostante tutte le sue proprietà rigeneranti, il sangue non è certo l’alimento più nutriente. Contiene molto ferro, è vero, da cui il gusto metallico, e anche parecchie proteine, ma fornisce ben pochi carboidrati, grassi, vitamine e altri minerali. Senza i microbi intestinali che sintetizzano questi elementi mancanti, le specie sanguivore come sanguisughe e pipistrelli avrebbero qualche problema di sopravvivenza.
Il panda gigante è un altro classico. Benché sia un Carnivoro con la C maiuscola, nel senso che nell’albero della vita si trova accanto agli orsi – grizzly, orsi polari e altri – oltre che ai leoni, ai lupi e a cugini altrettanto feroci, non è un carnivoro in senso comune, ovvero un mangiatore di carne. Avendole preferito quella prelibatezza alimentare che è il bambù, il panda gigante ha voltato le spalle al suo passato evolutivo. Al suo semplice apparato digerente mancano però le grandi dimensioni di quello degli erbivori più completi, come le mucche e le pecore. Il che dà un sacco di lavoro all’intestino crasso e ai suoi abitanti microbi. Il panda, inoltre, possiede il genoma di un carnivoro, ha cioè un sacco di geni che codificano per enzimi in grado di scindere le proteine che compongono la carne, ma nessuno che codifichi per enzimi che scindano i resistenti polisaccaridi vegetali (carboidrati). Ogni giorno il panda ingerisce grossomodo 12 kg di asciutti e fibrosi gambi di bambù, di cui solo 2 vengono digeriti. Senza il microbiota quei 2 kg non si ridurrebbero quasi a niente. Tuttavia il microbioma del panda gigante – ovvero i geni annidati nel suo microbiota – contiene una serie di geni che scindono la cellulosa e che si trovano più comunemente nel microbioma degli erbivori, come la mucca, la wallabia e la termite. Grazie a loro, e ai microbi che li contengono, il panda gigante è sfuggito ai vincoli del suo passato di mangiatore di carne. Perciò vedete che se parliamo di alimentazione non possiamo igno-rare il microbiota. Per certi aspetti gli esseri umani non sono molto diversi dalle sanguisughe, dai pipistrelli o dai panda. Alcuni degli alimenti che ingeriamo vengono digeriti dagli enzimi codificati dal nostro genoma e poi assorbiti nell’intestino tenue. Molte molecole del cibo però – soprattutto quelle “indigeribili” – vengono scartate e finiscono nell’intestino crasso, dove incontrano una grande e disponibile moltitudine di microbi pronti a scinderle utilizzando i propri enzimi. Nell’atto di nutrire se stesso, il microbiota rilascia un’altra serie di avanzi. Insieme all’acqua di cui ci avevano parlato a scuola, queste molecole vengono assorbite nel sangue e, come scopriremo, sono decisamente più importanti di quanto ci saremmo mai aspettati. Quanto a Carmody, ha concluso il suo PhD consapevole di aver risposto soltanto a metà delle domande che si era posta, poi ha percorso il breve tratto di strada che separa l’edificio di Harvard dedicato alla Biologia dell’evoluzione umana dal Centro per la biologia dei sistemi, per cercare le risposte all’altra metà delle domande sotto la guida di un navigato cacciatore di microbi, Peter Turnbaugh.
Temo che mi dobbiate restituire la carta esci-gratis-di-prigione relativa all’obesità che vi ho consegnato nel capitolo precedente. Le conseguenze dell’assunzione di antibiotici, e del fatto che li ingeriamo con il cibo, sono certamente degne di attenzione, soprattutto nei bambini, ma non ci tolgono dai guai. Come suggeriscono gli studi di Martin Blaser, che ha somministrato ai topi basse dosi di penicillina e un’alimentazione ricca di grassi, è poco probabile che gli antibiotici siano l’unica causa dell’incremento di peso o delle altre malattie del XXI secolo. Anche l’alimentazione ha un ruolo, ma non è quello che vi aspettereste. Il modo in cui ci nutriamo è cambiato. Se percorrete le corsie di un supermercato pensando distrattamente alla provenienza del cibo – vegetale e animale – rimarrete colpiti da quanto poco assomigli a vegetali o animali. Tanto per incominciare, la metà delle corsie è piena di alimenti racchiusi dentro scatole di cartone, sacchetti di plastica e bottiglie. Quanti vegetali e animali si presentano in scatole di cartone? Broccoli? Polli? Mele? D’accordo, talvolta gli ingredienti crudi vengono confezionati in questo modo, ma sto parlando dei biscotti, delle patatine, delle bibite, dei pasti pronti e dei cereali per la colazione. Alcuni supermercati americani dall’esterno assomigliano più a magazzini che a negozi di generi alimentari. Se non si conoscono i marchi è talvolta difficile decifrare quale cibo contengano le file di scatole, un po’ come ordinare del sushi da un menù scritto soltanto in giapponese. Il vero cibo è riconoscibile. Una mela è una mela. Un pollo è un pollo. Ho il sospetto che per un acquirente degli anni Venti più della metà delle corsie di un moderno supermercato sarebbero state inutili. All’esterno del supermercato ecco altri cambiamenti. Fast food e piatti pronti per chi non ha tempo di cucinare. Lattine di bibite gassate e bottiglie di succo di frutta per quando l’acqua non è abbastanza gustosa, cibo da asporto per il venerdì sera, sandwich già pronti per l’ufficio. Gran parte di noi non controlla più del tutto quello che mangia. Cuciniamo il cibo meno spesso che mai e molto raramente lo coltiviamo personalmente. Quasi tutto il cibo, di provenienza sia animale sia vegetale, viene prodotto in maniera intensiva, addizionato con sostanze chimiche e confinato in spazi limitati. Persino quelli di noi che ritengono sana la propria dieta probabilmente la paragonano con la media: uno standard piuttosto basso. Ma che cos’è un’alimentazione sana? I consigli sul tema sembrano cambiare tanto spesso quanto la maggior parte di noi si cambia le scarpe, ma un fatto è certo: c’è qualcosa nell’alimentazione moderna che non funziona. Il numero di
individui sovrappeso e obesi a livello mondiale ha raggiunto proporzioni tali che sarebbe meglio parlare di pandemia piuttosto che di epidemia. Ma obesità a parte, una cattiva alimentazione aggrava tutta una serie di malattie, dall’artrite al diabete. Nel mondo sviluppato la cattiva alimentazione è responsabile della maggior parte dei decessi, che si tratti di cardiopatia, ictus o tumore. Molte delle patologie provocate o aggravate da una cattiva alimentazione sono malattie del XXI secolo, tra cui la sindrome dell’intestino irritabile, la celiachia e molti disturbi legati al peso in eccesso. Il problema è che sembra che nessuno riesca a concordare su cosa sia l’alimentazione perfetta. I sostenitori delle svariate e più o meno celebri diete sono quasi evangelici sui benefici della strategia prescelta, anche se in molti degli approcci più comuni vi sono opinioni decisamente diverse su quali gruppi di alimenti siano “buoni” e quali “cattivi”. Sembra che dietro tutte le diete celebri ci sia una spiegazione logica dal punto di vista evolutivo, al di là del comune scopo fondamentale, cioè la perdita di peso e il guadagno in termini di salute. Forse per ottenere un miglioramento basterebbe assumere il controllo della propria alimentazione, indipendentemente dal fatto che proviate a tenere bassi i carboidrati, i grassi o l’indice glicemico. Le teologie proposte dalla maggior parte delle attuali diete derivano da un principio fondamentale: che quello che suggeriscono sia il modo in cui gli esseri umani dovrebbero mangiare. Poiché abbiamo totalmente perso di vista ciò che costituisce una normale alimentazione umana, ci rivolgiamo ai nostri antenati. Pre-agricoltori, cacciatori-raccoglitori, uomini delle caverne e persino pre-umani che si nutrivano di cibo crudo e che ci ricordano più i nostri cugini scimmioni che gli uomini moderni, ma forse non è necessario guardare tanto indietro. Dopotutto i nostri bisnonni non soffrivano delle malattie di cui ci lamentiamo oggi e sono vissuti soltanto un centinaio di anni fa. Certamente, se paragonato agli attuali supermercati pieni di scatole di cartone e ai posti nei quali ti servono direttamente il cibo in auto, il loro approccio all’alimentazione era totalmente diverso dal nostro. Un modo per farsi una buona idea di “quello che gli esseri umani dovrebbero mangiare” è osservare le popolazioni la cui vita non è permeata dall’agricoltura intensiva, dall’alimentazione globalizzata e da scelte alimentari basate sulla comodità. Vediamo per esempio che cosa mangia la popolazione del villaggio rurale di Boulpon nel Burkina Faso. Un gruppo di scienziati e medici italiani ha scelto di comparare i bambini di questo villaggio africano a un campione di bambini di Firenze. Lo scopo era capire gli effetti dell’alimentazione sul
microbiota intestinale di ciascun gruppo. La gente di Boulpon conduceva un’esistenza non molto diversa da quella degli agricoltori di sussistenza vissuti più o meno 10.000 anni fa, appena dopo la rivoluzione neolitica. Si è trattato di un periodo decisivo dell’evoluzione. L’umanità aveva avuto due idee importanti: addomesticare gli animali e coltivare intenzionalmente le messi. Accanto agli ovvi vantaggi di avere una costante riserva di cibo, la rivoluzione neolitica ha permesso ad alcuni gruppi di esseri umani di abbandonare lo stile di vita nomadico e di stabilirsi in un determinato luogo. Con tutto ciò si è presentata l’opportunità di costruire delle strutture permanenti, di vivere in comunità più numerose e purtroppo di subire le malattie infettive tra la popolazione. Questa rivoluzione ha segnato l’inizio della cultura e della dieta moderne. Per l’alimentazione dei nostri antenati, l’agricoltura e la zootecnia significavano una stabile provvista di cereali, legumi e ortaggi, e in alcuni posti di uova, latte e talvolta un pezzo di carne. In certi luoghi è cambiato ben poco. Nel villaggio di Boulpon l’alimentazione locale è quella tipica dell’Africa rurale: miglio e sorgo macinati in farina e preparati in una gustosa polenta, accompagnata da una salsa di ortaggi coltivati sul posto. Di tanto in tanto si uccide e si mangia un pollo, e durante la stagione delle piogge le termiti rappresentano una saporita delizia. Non è esattamente un piano alimentare adatto a un libro occidentale di successo su che-cosa-dovremmo-mangiare, ma probabilmente rappresenta meglio la nostra recente mania per l’alimentazione ancestrale rispetto alle comuni diete alla moda piene di carne, in stile cacciatoreraccoglitore. I bambini italiani, nel frattempo, mangiavano il tipico cibo dell’alimentazione moderna occidentale: pizza, pasta, molta carne e formaggi, gelato, bibite, cereali per colazione, patatine e così via. Non sorprende che questi due gruppi di bambini avessero microbi intestinali completamente diversi. Mentre gli italiani ospitavano soprattutto batteri appartenenti al gruppo dei Firmicutes, il microbiota di quelli del Burkina Faso era dominato da Bacteroidetes. Oltre la metà dei microbi nell’intestino dei bambini del Burkina Faso appartenevano a un singolo genere, il Prevotella, e un altro 20 per cento erano Xylanibacter. Apparentemente così importanti per i bambini africani, questi due gruppi erano invece del tutto assenti dall’intestino di quelli italiani. Che cosa vi colpisce della differenza tra l’alimentazione dei due insiemi di bambini? Probabilmente la quantità di grassi e di zuccheri (carboidrati semplici) che mangiano gli italiani rispetto ai piccoli del Burkina Faso. Sappiamo tutti che
ingeriamo una quantità troppo elevata di questi alimenti e che, più di tutti gli altri, sono responsabili dell’epidemia di obesità e dei disturbi connessi. Certamente il modo più veloce per far ingrassare un ratto da laboratorio è alimentarlo con una dieta a elevato contenuto di grassi e di zuccheri, quella che gli studiosi del microbioma definiscono “dieta occidentale”. Dopo un solo giorno che si nutrono in questo modo, i microbi dei ratti hanno cambiato composizione e impiegano serie diverse di geni. Nel giro di due settimane dal passaggio alla dieta occidentale, i topi e i ratti diventano grassi. Ma è altrettanto vero l’opposto? Ritornare a una dieta a basso contenuto di grassi o a basso contenuto di carboidrati inverte le alterazioni microbiche e causa una perdita di peso? Ruth Ley, la donna che per prima ha notato l’alta proporzione di Firmicutes rispetto ai Bacteroidetes negli esseri umani obesi, voleva capire se, nel caso i soggetti sovrappeso si fossero messi a dieta, tale proporzione sarebbe tornata simile a quella che si riscontra nei magri. Per scoprirlo ha arruolato un gruppo di volontari obesi di cui ha utilizzato il peso e dei campioni di feci per svolgere un esperimento dietetico. Ai volontari è stata assegnata per sei mesi una dieta a basso contenuto di carboidrati oppure di grassi. Prima e durante l’esperimento ha registrato il loro peso e ha preso dei campioni del microbiota intestinale. Nei primi sei mesi entrambi i gruppi sono dimagriti e la proporzione tra Firmicutes e Bacteroidetes si è allineata con quella del peso corporeo che avevano perso. Curiosamente, questo mutamento microbico si è manifestato soltanto dopo che i soggetti a dieta avevano perso una determinata percentuale di peso. Gli individui sottoposti a dieta ipolipidica hanno dovuto perdere il 6 per cento del peso prima che la relativa abbondanza di Bacteroidetes iniziasse a rifletterne gli sforzi. Per una donna obesa alta 1,65 metri e del peso iniziale di 90 kg si tratta di 5,4 kg. A coloro che seguivano la dieta a basso contenuto di carboidrati è bastato invece un calo del 2 per cento, ovvero 1,8 kg nella stessa donna obesa, per influenzare la proporzione microbica. Resta ancora da capire se questa discrepanza nella perdita di peso iniziale, necessaria per spostare il microbiota verso un equilibrio più magro, abbia un senso con dodici volontari soltanto, così come l’importanza della proporzione microbica stessa. Ma è un fenomeno comunque interessante, perché le diete a basso contenuto di carboidrati sono celebri per i risultati veloci, anche se sul lungo periodo con quelle ipolipidiche si raggiungono e talvolta si superano le prime in termini di perdita complessiva di peso. Nell’esperimento di Ley, però, entrambe le diete erano ipocaloriche, da
1200-1500 calorie giornaliere per le donne e 1500-1800 per gli uomini. La verità è che seguire una dieta a basso contenuto calorico per un periodo significativo di tempo provocherà sempre una perdita di peso, indipendentemente dal fatto che sia o meno povera di grassi, oppure di carboidrati, che ti permetta di sforare solo nel fine settimana o escluda i cereali e i latticini della rivoluzione neolitica. Anche le diete bilanciate dal punto di vista dei nutrienti, in cui non si riduce né il contenuto relativo dei grassi né quello dei carboidrati, causano una perdita di peso, sempre che si mantenga basso l’apporto calorico. Ley e altri pensano che la proporzione tra Firmicutes e Bacteroidetes corrisponda probabilmente alle abitudini alimentari più di quanto rifletta l’obesità in sé. Se qualsiasi dieta ipocalorica funziona, quando l’obiettivo è la perdita di peso, ha davvero senso limitare l’apporto di grassi o di carboidrati? Le generiche affermazioni sul fatto che grassi e carboidrati siano “cattivi” celano la grande complessità di questi alimenti. Lasciando intendere che il grasso sia sempre cattivo si trascura il fatto che è fondamentale per la sopravvivenza; sarebbe un po’ come affermare che le automobili sono cattive perché uccidono la gente, ignorando che comunque ci semplificano la vita. Non so certo più di chiunque altro quale sia il migliore equilibrio tra grassi saturi, monoinsaturi, polinsaturi e trans. Come accade per le diete alla moda, persino gli esperti si dividono su quali vi faranno male alla salute e quali invece rappresentano un toccasana. D’altro canto è molto difficile valutare la reazione del microbiota – finora trascurata – nei confronti di grassi e zuccheri, persino in contesti sperimentali. Immaginate di voler usare dei topi per testare gli effetti sui microbi intestinali di una dieta a elevato contenuto di grassi. Aggiungete dei grassi al consueto cibo e osservate che cosa succede. Adesso però i vostri topi ricevono molte più calorie di prima, perciò non sapete se i cambiamenti siano dovuti all’aumento di grassi o a quello di calorie. Quindi aumentate l’apporto di grassi ma mantenete costante quello calorico, diminuendo i carboidrati nel cibo. Il problema è che adesso non sapete se i cambiamenti avvengono a causa dell’aumento dei grassi o della diminuzione dei carboidrati. In alimentazione niente può essere studiato separatamente da tutto il resto. Come ho già detto, sottoporre i topi a una dieta ricca di grassi ma po-vera di carboidrati provoca un’alterazione della composizione microbica e un aumento di peso. Al contempo si verifica un aumento della permeabilità della parete intestinale, della quantità di lipopolisaccaridi (LPS) nel sangue e dei marcatori di infiammazione. Questi cambiamenti sono stati associati non solo all’obesità ma
anche al diabete di tipo 2, all’autoimmunità e ai disturbi mentali. Una dieta ricca di zuccheri semplici come il fruttosio sembra creare gli stessi estesi cambiamenti, almeno nei roditori. Sembra pertanto che troppi grassi e zuccheri facciano male e in molti paesi del mondo l’aumento del consumo di queste sostanze corrisponde a un aumento dell’obesità. Ma ecco il paradosso: in Gran Bretagna, in alcune aree della Scandinavia e in Australia, a dispetto della consueta immagine mediatica del soggetto patologicamente obeso che ghermisce un hamburger e un dolcissimo milkshake, dalla Seconda guerra mondiale in poi il consumo di grassi e di zuccheri è in realtà diminuito. In Gran Bretagna il National Food Survey, gestito dal governo, ha monitorato il consumo di cibo nelle abitazioni inglesi dal 1940 al 2000. Le statistiche vanno contro qualsiasi ipotesi immaginabile su come sia cambiata la nostra dieta nel corso del tempo. Nel 1945, per esempio, il contenuto medio di grassi nella dieta britannica era di 92 grammi pro capite al giorno. Nel 1960, quando pochissimi inglesi erano sovrappeso, era di 115 grammi al giorno. Nel 2000 invece era calato a 74 grammi. Anche se scindiamo il grasso nei suoi diversi acidi grassi – saturi e insaturi – non siamo in grado di dare una spiegazione. Gli acidi grassi tradizionalmente ritenuti migliori – quelli insaturi – rappresentano la quota che gli inglesi consumano sempre di più. Burro, latte intero e strutto sono in calo, mentre salgono il latte scremato, gli oli e il pesce. Gli inglesi però continuano a ingrassare. Neppure se analizziamo la relazione tra consumo di grassi (in proporzione all’apporto energetico complessivo) e indice di massa corporea (IMC) riusciamo a scorgere un legame. In diciotto paesi europei, l’IMC medio e l’apporto medio di grassi negli individui di sesso maschile non avevano alcun legame: non c’era alcun nesso tra la proporzione di grasso consumato e il peso dei soggetti. Nelle donne invece la relazione era l’opposto di quanto vi sareste aspettati: nei paesi in cui più alta era l’assunzione media di grassi (fino al 46 per cento della dieta), le donne avevano un IMC più basso e in quelli in cui l’apporto di grassi era minore (il 27 per cento della dieta) l’IMC risultava più alto. Mangiare più grassi non necessariamente vi fa ingrassare. È più difficile valutare il consumo di zuccheri, perché l’indagine raccoglieva dati relativi ai tipi di alimenti, ma non al contenuto di zuccheri in sé. Il consumo di zucchero da tavola, marmellata, torte e dolciumi in genere è anch’esso calato nel corso del tempo. Nel caso dello zucchero da tavola, il consumo è passato da un’esagerata media di 500 grammi pro capite alla settimana, sul finire degli anni Cinquanta, a circa 100 grammi nel 2000. Adesso però gli inglesi bevono molti
più succhi di frutta e a colazione mangiano cereali con più zucchero aggiunto rispetto a prima. Complessivamente, secondo le stime, a partire dagli anni Ottanta gli inglesi consumano circa il 5 per cento in meno di zucchero, cioè grossomodo un cucchiaino in meno. Dagli anni Quaranta, senza dimenticare i periodi di razionamento durante e dopo la Seconda guerra mondiale, il declino è stato probabilmente ben maggiore. Anche gli australiani dagli anni Ottanta hanno ridotto il consumo di zucchero: mentre nel 1980 erano soliti mangiarne circa 30 cucchiaini al giorno, nel 2003 sono calati a 25. In questo stesso periodo il triplo degli australiani è diventato obeso. Sembra che neppure un aumento complessivo del consumo di calorie riesca a dar conto delle alterazioni. Il National Food Survey britannico rivela che negli anni Cinquanta l’apporto medio quotidiano di energia congiunto negli adulti e nei bambini toccasse le 2660 calorie, mentre nel 2000 era sceso a 1750 calorie pro capite al giorno. Anche in America alcuni studi dimostrano che, in periodi di aumento complessivo di peso, l’apporto calorico è diminuito. I dati del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), tratti dal loro Nationwide Food Consumption Survey, mostrano, tra il 1977 e il 1987, una diminuzione del consumo calorico da 1854 a 1785 calorie pro capite al giorno. Al contempo l’assunzione di grassi è scesa dal 41 al 37 per cento della dieta. Nel frattempo la quota di individui sovrappeso è aumentata da un quarto a un terzo della popolazione. A quanto pare il semplice eccesso di calorie assunte rispetto a quelle consumate ha certamente un impatto, in determinati periodi di tempo e in determinati luoghi, ma molti studiosi hanno osservato che non è in grado di spiegare la portata dell’epidemia di obesità, né in America né altrove. Quello che voglio dire non è che grassi e zuccheri in eccesso non facciano male, perché non è così. E neppure che il consumo di uno o di entrambi non sia aumentato complessivamente nel mondo, probabilmente è vero il contrario. Accade invece che, come nella dieta sperimentale dei topi, l’aumento del consumo di un nutriente deve influire sul consumo degli altri, soprattutto se l’apporto calorico complessivo rimane lo stesso. Negli ultimi anni ci si è chiesti soprattutto se siano i grassi oppure gli zuccheri a provocare l’epidemia di obesità. E se invece la colpa non fosse di nessuno dei due? Se le variazioni nel consumo di grassi, zucchero e calorie non spiegano in maniera esaustiva l’aumento dell’obesità, di chi è invece la colpa? Poiché sempre più individui sono diventati sovrappeso, ci siamo chiesti: che cosa è aumentato nelle nostre diete che ne dia conto? La risposta sembrava ovvia: grassi e zuccheri. In molti posti l’aumento del consumo di entrambi è andato di
pari passo con l’aumento dell’obesità. Tuttavia, anche se l’abuso di grassi rappresenta il paradigma intuitivo e perfetto dell’aumento di peso, non è semplice come sembra. Vediamo il grasso in eccesso sul nostro corpo e lo paragoniamo al grasso in eccesso nel nostro cibo: quello che orla una bistecca, o le striature bianche che attraversano le fette di bacon rosato. Ma non ha senso. Il grasso sul nostro corpo può essere creato da qualsiasi fonte di cibo che debba essere immagazzinata: proteine, carboidrati o grassi. Anche se a livello istintivo potremmo pensarlo, non c’è in realtà una grande differenza nel consumo di grasso tra i bambini del Burkina e gli italiani. I giovani abitanti di Boulpon assumevano circa il 14 per cento di grassi della dieta complessiva, mentre i fiorentini più o meno il 17 per cento. Ma se fosse troppo semplicistico cercare l’aumento di un singolo elemento della nostra dieta? Se dovessimo invece analizzare anche quello che è diminuito? Non è altrettanto intuitivo trovare un nesso tra la diminuzione di un elemento e l’aumento di un altro, ma è comunque plausibile. Considerando di nuovo la dieta dei bambini del Burkina Faso rispetto a quella degli italiani, osserviamo un’evidente differenza nell’assunzione dei nutrienti: le fibre. I vegetali, i cereali e i legumi che costituiscono il grosso della dieta di Boulpon sono ricchi di fibra. In media i bambini fiorentini tra i due e i sei anni ne mangiano meno del 2 per cento della dieta, mentre la proporzione di fibra consumata tra i piccoli del Burkina Faso è più del triplo, ovvero il 6,5 per cento. Un secondo sguardo alle statistiche degli ultimi decenni relative all’alimentazione nei paesi sviluppati riecheggia la stessa differenza. Negli anni Quaranta in Gran Bretagna un adulto consumava circa 70 grammi di fibra pro capite al giorno, mentre la media attuale è di circa 20 grammi. A quanto pare mangiamo decisamente meno vegetali. Nel 1942 consumavamo quasi il doppio della verdura rispetto a ora, e questo avveniva durante la guerra, quando le scorte erano limitate. Il consumo di verdura fresca, come broccoli e spinaci, ha subito un precipitoso declino, che non vede segni di rallentamento. Negli anni Quaranta una tipica porzione quotidiana di verdura fresca era di circa 70 grammi, mentre nell’ultimo decennio è scesa a 27. Anche il consumo di legumi, cereali (tra cui il pane) e patate – tutti alimenti ricchi di fibra – è diminuito rispetto agli anni Quaranta. Mangiamo semplicemente meno cibo ricavato da vegetali di quanto facessimo prima. Se osserviamo i geni contenuti nel microbioma dei bambini del Burkina Faso è facile capire perché il microbiota contiene una proporzione tanto alta di batteri
come Prevotella e Xylanibacter, cioè il 75 per cento delle specie totali. Entrambi questi gruppi celano geni che codificano per enzimi che permettono di scindere lo xilano e la cellulosa, due composti non digeribili che formano la struttura delle pareti cellulari dei vegetali. Grazie a questi i bambini sono in grado di estrarre ben più nutrienti da quei cereali, legumi e vegetali che costituiscono il grosso della loro dieta. I bambini italiani, d’altro canto, non hanno assolutamente né Prevotella né Xylanibacter. Non possono nutrire questi batteri, perché per sopravvivere entrambe le varietà hanno bisogno di un apporto di vegetali. Il microbiota dei bambini fiorentini è dominato invece dai Firmicutes, lo stesso gruppo di batteri che in diversi studi americani si è rivelato legato all’obesità. Nei bambini italiani la proporzione di batteri Firmicutes, associati all’obesità, rispetto ai Bacteroidetes, associati alla magrezza, era di quasi tre a uno, mentre in quelli del Burkina Faso era di uno a due. Una dieta ricca di vegetali, a quanto pare, favorisce un apparato di microbi intestinali “magri”. E quindi che cosa succede se assegnate a un gruppo di americani una dieta a base animale, ricca di carne, uova e formaggi, e a un altro gruppo una dieta a base vegetale, ricca di cereali, legumi e verdura? La composizione dei loro microbi intestinali cambia, e questo non sorprende. In coloro che consumano vegetali si è osservato un rapido aumento dei gruppi batterici che scindono le pareti cellulari vegetali, mentre i carnivori hanno perso i batteri che scindono i vegetali e acquisito specie che spezzano le proteine, sintetizzano le vitamine e disintossicano i composti cancerogeni che si trovano nella carne bruciacchiata. Il microbioma degli uni ha iniziato ad assomigliare a quello degli animali erbivori, quello degli altri al microbioma tipico dei carnivori. Un volontario dello studio era vegetariano da una vita, ma era stato assegnato al gruppo con la dieta a base animale. I suoi livelli di Prevotella, precedentemente elevati, sono scesi non appena ha iniziato a mangiare carne e nel giro di quattro giorni sono stati superati in numero dai microbi che preferivano le proteine animali. Questa veloce adattabilità serve a dimostrare quanto possa essere utile collaborare con i microbi quando è necessario approfittare del cibo disponibile in ogni dato momento. Utilizzando questi microbi flessibili i nostri antenati sono stati in grado di sfruttare al massimo la fibra al tempo del raccolto, o un pezzo di carne quando macellavano un animale. Si tratta di un espediente utile, soprattutto nel caso di diete con ingredienti insoliti. I giapponesi per esempio talvolta hanno microbi intestinali con geni che codificano per enzimi che
scindono nello specifico i carboidrati presenti nelle alghe. Poiché l’alga Porphyra (conosciuta come nori) rappresenta una grossa porzione della dieta a base di sushi, un esponente tipico del microbiota giapponese, il Bacteroides plebeius, si è impadronito della codifica genetica per gli enzimi porphyranasi che digeriscono l’alga nori, e lo hanno fatto sottraendola a un’altra specie di batteri, la Zobellia galactanivorans, che vive sulle alghe. Probabilmente molti dei microbi e dei geni microbici che ci permettono di sfruttare i diversi cibi hanno origine nei batteri che vivevano su quegli stessi cibi. Alcuni ipotizzano che la nostra alleanza con i bovini si sia dimostrata benefica non solo per la carne e il latte in eccesso che ci forniscono, ma anche a causa del trasferimento, dal loro intestino al nostro, dei microbi che digeriscono le fibre. L’idea che il calo del consumo di fibra possa avere un ruolo di primo piano nell’epidemia di obesità non significa che grassi e zuccheri siano irrilevanti. Un’alimentazione ricca di questi elementi scarseggerà necessariamente di altri macronutrienti, e cioè dei carboidrati complessi. Poiché molti tipi di fibra sono carboidrati, compresi i “polisaccaridi non amidacei” come la cellulosa e la pectina, e gli “amidi resistenti” che si trovano in alimenti come le banane verdi, i cereali integrali, i semi e persino il riso e i piselli cotti e poi raffreddati, se aumentiamo il contenuto relativo di grassi e di zuccheri della dieta quello di fibra in certi casi diminuisce. Perciò la nostra alimentazione potrebbe farci ingrassare non a causa del contenuto di grassi e di zuccheri, ma per la diminuzione di fibra. Ricordate Patrice Cani, di cui ho parlato nel secondo capitolo? È il professore di Nutrizione e Metabolismo all’Université catholique di Lovanio, in Belgio, che ha scoperto che gli individui magri hanno livelli molto più alti del batterio Akkermansia muciniphila rispetto a quelli sovrappeso. Cani ha rivelato che l’Akkermansia sembrava incoraggiare il rafforzamento del rivestimento intestinale, in parte obbligandolo a produrre uno strato più spesso di muco. In tal modo questa specie impediva alle molecole batteriche dei lipopolisaccaridi di attraversare il rivestimento intestinale ed entrare nel sangue, dove avrebbero provocato l’infiammazione del tessuto adiposo, sfociando in un malsano aumento di peso. Elettrizzato dalla possibilità che l’Akkermansia potesse contribuire alla perdita di peso, o per lo meno impedire di acquisirlo, Cani ha provato a nutrire dei topi con un integratore del batterio. Ha funzionato. Non solo i loro livelli di lipopolisaccaridi sono scesi, ma i topi hanno perso peso. Aggiungere Akkermansia rappresenta tuttavia una soluzione temporanea a un problema a
lungo termine. Senza ripetuti rabbocchi, la popolazione del batterio diminuisce. Perciò come possiamo tenerne alti i livelli dopo l’inserimento di quel batterio? E più nello specifico per molti di noi, come possiamo aumentare la popolazione di Akkermansia che forse già abbiamo? Cani ha trovato la risposta a questo interrogativo mentre cercava di accrescere la popolazione di un altro gruppo batterico, i bifidobatteri. Sottoponendo i topi a una dieta ricca di grassi, lo studioso aveva notato che la quantità di bifidobatteri diminuiva. Anche negli esseri umani si era osservato che più era alto l’IMC di un individuo meno bifidobatteri aveva. Cani sapeva che questi batteri hanno un debole per la fibra e si chiedeva se offrendo ai topi sottoposti a una dieta ricca di grassi un supplemento di fibra potesse accrescere il numero di bifidobatteri, e forse anche interrompere l’aumento di peso. Ha pertanto provato ad aggiungere alla dieta ricca di grassi un tipo di fibra conosciuta come oligofruttosio (talvolta chiamato frutto-oligosaccaride, o FOS) che si trova in alcuni alimenti, tra cui la banana, le cipolle e gli asparagi. La differenza si è sentita: la popolazione di bifidobatteri è aumentata. Ma se i bifidobatteri sembravano prosperare grazie all’oligofruttosio, è stato l’Akkermansia che è davvero decollato. Dopo cinque settimane un gruppo di topi obesi ob/ob, la cui dieta era stata arricchita con oligofruttosio, avevano una quantità di Akkermansia otto volte maggiore rispetto ai topi ob/ob che non avevano ricevuto il supplemento di fibra. Nei topi geneticamente obesi la fibra in più rallentava l’aumento di peso, mentre induceva la diminuzione di peso nei topi resi grassi da una dieta iperlipidica. Cani ha provato a somministrare ai suoi topi resi obesi dall’alimentazione un altro tipo di fibra, chiamata arabinoxilano. Essa rappresenta una parte consistente della fibra che si trova nei cereali integrali, come il frumento e la segale. Nei topi che ricevevano una dieta ricca di grassi integrata con arabinoxilano si sono osservati gli stessi benefici per la salute di coloro a cui veniva somministrato l’oligofruttosio. Non solo sono aumentati i bifidobatteri, ma le popolazioni di Bacteroides e di Prevotella sono ritornate ai livelli osservati nei topi magri. A dispetto della dieta ricca di grassi, la somministrazione di fibre ha bloccato la permeabilità intestinale di questi topi, ha incoraggiato le cellule adipose a moltiplicarsi invece che a crescere in volume, ha abbassato i livelli di colesterolo e ridotto il ritmo dell’aumento di peso. “Se somministriamo a un topo una dieta ricca di fibra, oltre che di grassi, questa riesce a contrastare l’obesità indotta dall’alimentazione” sostiene Cani. “Possiamo affermare che se non ingeriamo una quantità consistente di fibra
insieme a un’alta assunzione di grassi questi ultimi avranno un impatto deleterio sulla barriera intestinale. Sappiamo che i nostri antenati avevano un’alimentazione molto ricca di carboidrati non digeribili. Mangiavano circa 100 grammi di fibra al giorno, più o meno dieci volte tanto rispetto a quanta ne consumiamo noi oggi”. Nel nostro passato evolutivo l’aumento di peso rappresentava un fatto positivo, poiché ci permetteva di immagazzinare in tempi di abbondanza e di sopravvivere in tempi di carestia. Il motivo per cui l’aumento di peso appare così negativo – poiché provoca cardiopatia, diabete e molti tumori – è pertanto sconcertante. Molti ricercatori sostengono che abbiamo semplicemente portato il nostro peso talmente oltre le normali aspettative da avere attraversato il confine che conduce ai disturbi di salute legati al peso. La ricerca di Cani offre un ulteriore indizio sul motivo per cui un processo nel passato così benefico per tutta la nostra storia evolutiva è adesso tanto nocivo. Forse mangiare del grasso non è così dannoso, se ci si assicura che ci sia abbastanza fibra nella dieta da proteggere il rivestimento intestinale dai suoi effetti. Se la fibra rinforza i microbi che a loro volta rinforzano le difese della parete intestinale, i lipopolisaccaridi non possono raggiungere il sangue, il sistema immunitario resta sopito e le cellule adipose si moltiplicheranno invece di ingrossarsi. In realtà forse non sono i microbi in sé a essere importanti, ma piuttosto i composti che producono quando scindono la fibra della dieta, ovvero gli acidi grassi a catena corta, o SCFA, che ho citato nel terzo capitolo. Dopo aver consumato dei vegetali, i tre SCFA più importanti – acetato, propionato e butirrato – sono presenti nell’intestino crasso in quantità consistenti. Questi prodotti della digestione microbica della fibra rappresentano la chiave di un migliaio di serrature e la loro importanza per la nostra salute è stata sottostimata per decenni. Una di queste serrature, che va sotto il nome di recettore GPR43 (Gproteina accoppiata al recettore 43), sta sulle cellule immunitarie, in attesa che le chiavi degli SCFA arrivino e lo liberino. Ma che cosa fa? Come accade spesso in biologia, il modo più semplice per scoprire che cosa fa un determinato elemento è spezzarlo e vedere che cosa accade. Utilizzando dei topi “knockout” privi di GPR43, a cui dunque mancano le serrature, un gruppo di ricercatori ha scoperto che senza questi recettori i topi contraggono una grave infiammazione e sono soggetti a sviluppare infiammazione del colon, artrite o asma. Lo stesso effetto si manifesta lasciando la serratura al proprio posto ma portando via le chiavi. I topi privi di germi non possono produrre SCFA perché non hanno microbi per
spezzare le fibre. Perciò le loro serrature GPR43 rimangono chiuse e, di nuovo, i topi sono soggetti a disturbi infiammatori (Figura 6.1).
Figura 6.1 - Schema del funzionamento delle serrature GPR43 e delle chiavi SCFA.
Questo affascinante risultato ci dice che lo scopo del recettore GPR43 è offrire una via di comunicazione tra microbi e sistema immunitario. Producendo chiavi sotto forma di SCFA i nostri microbi amanti della fibra si inseriscono nelle serrature sulle cellule immunitarie e comunicano loro di non attaccare. Il recettore GPR43 si trova non solo sulle cellule immunitarie ma anche su quelle adipose. Qui, quando viene liberato da una chiave SCFA, obbliga le cellule adipose a dividersi invece che a ingrossarsi, immagazzinando energia in maniera sana. Inoltre, liberare il GPR43 attraverso gli SCFA provoca il rilascio di leptina, l’ormone della sazietà. In questo modo, mangiare fibre vi fa sentire pieni. Tutti e tre gli SCFA sono importanti, ma vorrei parlarvi nello specifico di uno di essi, il butirrato, che riveste una particolare importanza perché sembra il pezzo mancante nel puzzle dell’intestino permeabile. Ho sostenuto più volte che una comunità di microbi malsana si accompagna all’allentamento delle catene che uniscono le cellule che rivestono la parete intestinale. A questo punto l’intestino diventa permeabile, e composti di ogni genere filtrano nel sangue quando non dovrebbero. Lungo la strada stimolano il sistema immunitario e l’infiammazione conseguente è ciò che sta alla base di una parte delle malattie
del XXI secolo. Il compito del butirrato è chiudere le falle. Come le altre proteine che lavorano dietro le quinte nel nostro corpo, le catene proteiche che tengono unite le cellule intestinali sono prodotte dai geni. Ma abbiamo concesso ai microbi una parte del controllo di quei geni. Sono loro a decidere di quanto aumentare il volume dei geni che creano le catene di proteine della parete intestinale. Il butirrato è il loro messaggero. Più butirrato riescono a produrre, più catene proteiche i nostri geni sfornano e più ermetica sarà la parete intestinale. Per far sì che ciò accada, sono necessari due elementi: i microbi giusti (come i bifidobatteri per spezzare certe fibre in molecole più piccole e specie come i Faecalibacterium prausnitzii, i Roseburia intestinalis e l’Eu-bacterium rectale per convertire in butirrato quelle molecole più piccole) e una dieta ricca di fibra per nutrirli. Loro faranno il resto. Le scoperte di Patrice Cani e di altri danno una nuova interpretazione a ciò che sappiamo riguardo agli effetti del cibo che mangiamo sul peso. Invece che ridursi a un semplice equilibrio tra calorie assunte e consumate, il legame tra dieta (e in particolare tra fibra), microbi, SCFA, permeabilità intestinale e infiammazione cronica fa apparire l’obesità un problema di regolazione dell’energia più che un semplice caso di sovralimentazione. Cani ritiene che la cattiva alimentazione sia soltanto una via per l’acquisizione di peso, e che qualsiasi sostanza arrechi disturbo al microbiota, compresi gli antibiotici, possa avere lo stesso effetto, nel caso che l’intestino consenta ai lipopolisaccaridi di passare nel sangue. Questo significa che possiamo ordinare il dolce e mangiarcelo, se lo accompagniamo a un contorno di piselli? Forse. Molti studi hanno mostrato che l’obesità è legata al basso consumo di fibra. In una ricerca sui giovani adulti americani, durata dieci anni, al maggiore consumo di fibra corrispondeva un IMC più basso, indipendentemente dall’assunzione di grassi. In un’altra, che ha seguito per dodici anni 75.000 infermiere, i soggetti che consumavano più fibra sotto forma di cereali integrali avevano un IMC decisamente più basso di chi sceglieva cereali raffinati, più poveri di fibra. Altri studi hanno rivelato che aggiungere della fibra a diete ipocaloriche incrementa la perdita di peso; in una di tali ricerche si dimostra che dopo sei mesi di dieta a 1200 calorie al giorno, le donne sovrappeso a cui era stato somministrato un placebo avevano perso 5,8 kg, mentre quelle che avevano preso un integratore a base di fibre erano dimagrite di 8 kg. Anche alterare l’assunzione di fibra nel corso del tempo sembra avere un effetto sul peso. Attraverso il monitoraggio del peso e dell’assunzione di fibra di
250 donne americane per venti mesi si è scoperto che, per ogni grammo in più di fibra su 1000 calorie, le donne hanno perso 0,25 kg. Non sembra molto, ma con una tipica dieta da 2000 calorie al giorno le donne che hanno incrementato il consumo di fibra di 8g/1000 calorie hanno perso 2 kg. È come aggiungere alla vostra dieta quotidiana mezza tazza di crusca di grano e mezza di piselli lessati. I carboidrati meritano qui una menzione speciale. Come i grassi e certamente le fibre, non tutti i carboidrati sono stati creati uguali. I fautori delle diete povere di carboidrati affermano che sono tutti, indistintamente, “il male”, ma riflettete un momento: lo zucchero è un carboidrato, ma lo sono anche le lenticchie. Una torta, per esempio, è composta al 60 per cento da carboidrati, grazie alla farina bianca raffinata e allo zucchero, che vengono entrambi velocemente assorbiti nell’intestino tenue, ma i broccoli ne contengono più o meno la stessa quantità, intorno al 70 per cento, di cui quasi la metà è fibra, consumata dai microbi. Sotto il nome di “carboidrati” si raccoglie un’ampia gamma di alimenti, dallo zucchero puro, ai carboidrati raffinati come il pane bianco, a quelli non raffinati come il riso integrale, che spesso hanno un’alta proporzione di fibra completamente indigeribile. Le diete a basso contenuto di carboidrati danno l’impressione che un cucchiaio di marmellata e un cavoletto di Bruxelles siano altrettanto nocivi, e di conseguenza sono estremamente povere di fibre. Quello che i carboidrati fanno all’interno del corpo dipende soprattutto dal preciso genere di molecole che contengono; la loro azione non influisce soltanto su quante calorie assorbite, ma su quali microbi incoraggiate e, di conseguenza, su come viene regolato il vostro appetito, quanta energia immagazzinate sotto forma di grasso, quanto è permeabile il vostro intestino, quanto velocemente viene usata l’energia immagazzinata e il grado di infiammazione delle vostre cellule. Quando si tratta di carboidrati, come osserva Rachel Carmody, “conta davvero se vengono assorbiti nell’intestino tenue, oppure nel colon dopo essere stati convertiti in SCFA. E non c’è scritto nella tabella nutrizionale”. Ridurre gli alimenti in farina oppure in succo influisce sul contenuto di fibra. Mentre 100 grammi di cereali integrali contengono 12 grammi di fibra, il peso equivalente di farina integrale finissima contiene solo 3 grammi di fibra, la stessa quantità della farina bianca. 250 ml di frullato di frutta potrebbero contenere 2 o 3 grammi di fibra, ma il frutto che è finito lì dentro, se consumato intatto, avrebbe fornito 6 o 7 grammi di fibra. Una bottiglia da 200 ml di succo d’arancia conterrebbe forse 1,5 grammi di fibra, mentre le quattro arance che sono state spremute per ottenerlo restituiscono otto volte tanto: 12 grammi di fibra, compresa l’albedo.
Un’altra moda alimentare che ha probabilmente un impatto sul microbiota è la dieta crudista. Esiste una scuola di pensiero, sostenuta dal professor Richard Wrangham, biologo dell’evoluzione umana alla Harvard University – e relatore di dottorato di Rachel Carmody – secondo cui l’utilizzo del fuoco da parte degli esseri umani per cucinare il cibo ha favorito il passaggio della nostra specie in animali dal grande corpo e dal cervello ancora più grande. Come ha scoperto Carmody durante il dottorato, cuocere gli animali e i vegetali ne cambia la struttura chimica e rende disponibili alcuni nutrienti inaccessibili quando il cibo era crudo. Lo stesso vale per l’effetto della cottura sui nutrienti disponibili per il microbiota. Non solo, ma il calore distrugge alcune delle sostanze chimiche difensive naturali del vegetale che potrebbero altrimenti uccidere alcuni microbi benefici dell’intestino. D’altro canto è vero che mangiare cibo crudo aiuta gli individui a perdere peso: ci sono semplicemente meno calorie disponibili da assorbire. In realtà sul lungo periodo l’effetto è così estremo che risulta impossibile mantenere un peso sano affidandosi unicamente a una dieta crudista. “Se seguite i crudisti per un lungo periodo di tempo” dice Carmody, “scoprirete che non riescono a mantenere la massa corporea. Mangiano grandi quantità di cibo, anche in termini di calorie, ma continuano a perdere peso. I crudisti più intransigenti patiscono talvolta carenze energetiche talmente gravi che le donne in età riproduttiva smettono addirittura di ovulare.” Da una prospettiva evoluzionistica ovviamente non è una gran strategia. Tutto ciò significa che cuocere il cibo non è semplicemente un’invenzione culturale, ideata per migliorarne il gusto, ma una scoperta a cui la nostra specie si è adattata psicologicamente e che adesso siamo costretti a portare avanti. Carmody sta dedicando i propri studi a chiarire l’impatto della cottura del cibo sul nostro microbiota intestinale. Se la fibra fa bene, a questo punto potreste chiedervi come mai ci sono così tante persone intolleranti al frumento e al glutine. Il frumento e altri cereali integrali sono pieni di fibra e apportano molti e dimostrati benefici alla salute: riducono il rischio di cardiopatia e asma, migliorano la pressione sanguigna e contribuiscono a prevenire l’ictus. Tuttavia la popolarità dell’ultima moda alimentare – le diete “senza-qualcosa” – si basa sull’idea che il glutine che si cela nel frumento, nella segale e nell’orzo ci faccia male. Il glutine è quella proteina del pane che gli conferisce la tipica spugnosa morbidezza. Quando si impasta il pane “si sviluppano” dei fili di glutine, che poi intrappolano l’anidride carbonica prodotta dal lievito e in tal modo il pane
cresce. Il glutine è una molecola grande, piuttosto simile a una collana di perle, che viene in parte spezzata dagli enzimi umani nell’intestino tenue, lasciando proseguire nell’intestino crasso delle collane più piccole. Fino a non molto tempo fa gli alimenti senza glutine, così come quelli senza lattosio e senza caseina, erano totalmente assenti dai ristoranti e dai supermercati, ma nell’ultimo decennio si è sviluppato il mercato del senzaqualcosa. Diete di questo genere non sono più considerate “mediche”, cioè riservate a soggetti con insolite allergie e rare intolleranze, ma uno stile di vita scelto da milioni di individui e reso popolare dalle celebrities. Il decollo degli alimenti senza-qualcosa segue la tendenza degli ultimi anni ad attribuire delle colpe al cibo. Alcuni vorrebbero farci credere che non siamo “adatti” a mangiare il frumento e che consumare latticini non è “naturale”. Ho persino visto un sito web in cui si afferma che gli esseri umani sono l’unica specie che beve il latte di altre specie, e quindi non ci fa bene. Non importa che questo messaggio privo di basi scientifiche provenga da Internet, un medium non utilizzato, per quanto si sa, da altre specie. Il frumento, i latticini e i composti che contengono – glutine, caseina, lattosio e così via – vengono consumati da alcune popolazioni umane dalla rivoluzione neolitica, intorno a 10.000 anni fa, ma fino ad anni recenti non hanno provocato problemi di tale entità. Questa storia ci riporta al gastroenterologo italiano Alessio Fasano, del Massachusetts General Hospital for Children di Boston, il quale, conducendo una ricerca per creare un vaccino contro il colera, si era ritrovato a fare l’inattesa scoperta della “zonulina”, una proteina che allenta le catene del rivestimento intestinale e lo rende permeabile. Fasano si è reso conto che la zonulina era tra le cause di una patologia autoimmune, ovvero la celiachia. Il glutine penetrava attraverso la parete intestinale dei pazienti celiaci, resa in qualche modo permeabile da un eccesso di zonulina, e scatenava una reazione immunitaria che attaccava le cellule intestinali del paziente. Negli ultimi decenni la celiachia si è diffusa in maniera incredibile e l’unica terapia consiste nell’evitare persino la più minuscola quantità di glutine. I celiaci però non sono gli unici a rifuggire questa proteina. Milioni di individui si considerano intolleranti al glutine, con gran gioia dei produttori di alimenti speciali e con la costernazione di parecchi medici. I sostenitori della dieta senza glutine affermano che eliminandolo non solo si riducono i gonfiori e si migliora la funzione intestinale, ma la pelle diventa più luminosa, abbiamo un sacco di energie in più e una maggiore concentrazione. Coloro che soffrono di intestino irritabile sono particolarmente entusiasti. Anche l’intolleranza al lattosio si è
diffusa e adesso nei supermercati è piuttosto normale trovare prodotti che ne sono privi. Ma se il frumento e i latticini provocano questi disturbi, come mai i nostri antenati hanno iniziato a consumarli? Nel caso del lattosio – cioè lo zucchero del latte – gli individui di molte popolazioni hanno in realtà sviluppato quella che viene definita “persistenza della lattasi”. Da neonati tutti quanti tolleriamo il lattosio: è nel latte di nostra madre e abbiamo un gene che produce un enzima – la lattasi – proprio per scinderlo. Prima della rivoluzione neolitica quel gene si “spegneva” dopo l’infanzia, quando la lattasi non serviva più. Durante la rivoluzione neolitica, invece, alcuni popoli si sono messi ad allevare gli animali, cioè gli antenati delle attuali capre, pecore e mucche. Al contempo queste popolazioni hanno iniziato a sviluppare una persistenza del gene della lattasi, che non si spegneva più dopo lo svezzamento, ma rimaneva attivo per tutta l’età adulta. La selezione naturale a favore della persistenza della lattasi è avvenuta molto velocemente in senso evolutivo, il che significa una cosa: gli individui, anche da adulti, sono in grado di digerire il lattosio, che contribuisce sul serio alla sopravvivenza e alla riproduzione. In poche migliaia di anni, a partire dal Vicino Oriente, gli esseri umani di tutta Europa sono diventati tolleranti al lattosio. Adesso circa il 95 per cento degli europei del Nord e dell’Ovest riescono a tollerare il latte anche in età adulta. Altrove, diverse popolazioni umane che allevano animali, come i beduini egiziani con le greggi di capre e i tutsi del Ruanda con i bovini, hanno sviluppato autonomamente la persistenza della lattasi, attraverso una diversa mutazione rispetto agli europei. Il fatto che così tanti di noi non siano attualmente in grado di tollerare il glutine e il lattosio non rappresenta probabilmente la dimostrazione che non siamo “adatti” a consumare questi alimenti. Dopotutto gli antenati di molti di noi, soprattutto di coloro che hanno un’ascendenza europea, lo hanno fatto per migliaia di anni. È un po’ come se i cambiamenti dello stile di vita degli ultimi sessant’anni avessero disgregato quasi 10.000 anni di evoluzione alimentare umana. Quello che intendo dire non è che le intolleranze alimentari non siano un fenomeno reale, ma che l’origine di queste patologie non risiede nel nostro genoma, ma piuttosto nel nostro danneggiato microbioma. Ci siamo evoluti per mangiare il frumento e molti di noi si sono evoluti per tollerare il lattosio da adulti, ma possiamo essere diventati vulnerabili a reazioni eccessive a questi alimenti. A provocare il problema non sono gli alimenti in sé, ma quello che accade
dopo che sono entrati nel nostro corpo. A differenza dei celiaci però, negli individui con una sensibilità al glutine il rivestimento intestinale è intatto, come dovrebbe essere. Sembra invece che attraverso la disbiosi il sistema immunitario si preoccupi eccessivamente della presenza del glutine. È probabile che il problema sia aggravato dal fatto che si incrementa il contenuto di glutine del frumento per avere un pane più soffice e leggero, mettendo in tal modo alla prova un sistema immunitario già irritato. Mi piacerebbe pensare che invece di evitare il glutine e il lattosio potremmo cercare di ripristinare la nostra relazione post-neolitica con questi elementi nel momento in cui ristabiliamo l’equilibrio microbico. Con una frase diventata celebre, il giornalista ed esperto di cibo americano Michael Pollan ha dichiarato che dovremmo “mangiare cibo, non troppo, e soprattutto vegetale”. Anche se scriveva queste parole prima che le nostre conoscenze sul microbiota mutassero radicalmente, adesso sappiamo che è ancora più vero di prima. Se evitiamo il cibo confezionato in scatole di cartone e mantenuto “fresco” mediante conservanti chimici dai discutibili profili di sicurezza a lungo termine; se non ci rimpinziamo oltre il limite sopportabile dal nostro pancreas, dal tessuto adiposo e dall’appetito; se ricordiamo che i vegetali nutrono sia noi sia i nostri microbi, riusciremo a mantenere un equilibrio microbico che promuove la salute e la felicità. In questo capitolo mi sono occupata della fibra, ma vale la pena di sottolineare che nessun elemento della nostra dieta è isolato dagli altri. La grande complessità dei pro e dei contro di qualsiasi tipo di cibo, che si tratti delle varie forme dei grassi o delle dimensioni delle molecole dei carboidrati, deve rientrare nel contesto dell’alimentazione intesa come un insieme. Non è sufficiente dire che i grassi fanno male e la fibra fa bene, perché il vecchio adagio – di tutto un po’ – è valido indipendentemente da ciò che proclama l’ultima moda dietetica. Il valore della fibra risiede negli effetti sulla particolare comunità di microbi che la nostra specie ha coltivato durante il suo viaggio, dagli inizi erbivori al presente onnivoro. L’anatomia del nostro apparato digerente, con la sua enfasi sull’intestino crasso, dimora dei microbi amanti dei vegetali, e una lunga appendice che funge da cassetta di sicurezza e da magazzino, serve a ricordarci che non siamo carnivori puri e che i vegetali rappresentano la nostra dieta di base. Il nutriente che ci stiamo lasciando sfuggire è la fibra, ma sono i vegetali che dimentichiamo di mangiare. Talvolta penso a quanto siamo fortunati ad avere l’obbligo psicologico di mangiare tutti i giorni. È uno dei più grandi piaceri della vita ed è essenziale.
Non c’è quasi altra attività umana altrettanto piacevole e necessaria per la sopravvivenza. Ma dev’esserci un equilibrio tra questi due aspetti del mangiare: l’edonismo e il nutrimento. L’ironia è che coloro che vivono nei paesi sviluppati hanno accesso al cibo più abbon-dante, fresco, vario e nutriente della Terra, in qualsiasi stagione, e tuttavia molti di noi muoiono a causa di patologie indotte dall’alimentazione e legate all’alimentazione, più di quanti muoiano per malnutrizione e sottoalimentazione. Sì, possiamo presentarci pieni di accuse alla porta delle multinazionali del cibo che riempiono i prodotti di zucchero, sale, grassi e conservanti. Naturalmente dobbiamo sapere di più delle conseguenze delle pratiche agricole intensive e medicalizzate. Ed è indubbiamente vero che i medici e gli scienziati non hanno tutte le risposte sul perfetto equilibrio tra i nutrienti. Ma in fin dei conti ognuno di noi è responsabile della propria alimentazione e di quella dei propri figli e siamo liberi di assumere il controllo di ciò che mangiamo. Voi siete quello che mangiate. O meglio, voi siete quello che loro mangiano. A ogni pasto che consumate, dedicate un pensiero ai vostri microbi. A loro che cosa piacerebbe che vi metteste in bocca oggi?
7. Sin dal primo respiro
All’età di sei mesi il cucciolo di koala inizia a fare capolino dal marsupio della madre. È giunto il momento di iniziare il passaggio da un’alimentazione di solo latte alla dieta dell’adulto, a base di foglie di eucalipto. Per molti erbivori non è certo l’alimentazione più appetitosa, perché le foglie sono dure, tossiche e quasi prive di nutrienti. Il genoma dei mammiferi non possiede neppure i geni necessari a produrre enzimi che riescano a estrarre qualcosa di utile dall’eucalipto, ma i koala hanno trovato il modo di aggirare il problema. Come le mucche, le pecore e molti altri animali, sfruttano i propri microbi per trarre la maggior parte dei nutrienti e dell’energia di cui hanno bisogno da quella fibrosa materia vegetale. Il problema è che i cuccioli non hanno i microbi necessari per spezzare le foglie di eucalipto ed è compito delle mamme seminare una comunità microbica nel loro intestino. Quando arriva il momento, le madri producono una morbida e acquosa sostanza simile a poltiglia o a feci, composta da eucalipto predigerito e da un inoculo di batteri intestinali, e con questa nutrono i cuccioli, fornendo loro non soltanto un microbiota allo stadio iniziale, ma anche abbastanza cibo affinché la colonia si sviluppi. Una volta preso il controllo dell’intestino, il cucciolo ha la propria minuscola forza lavoro che trasforma le capacità digestive e rende commestibile l’eucalipto. Ricevere il microbiota dalla madre è comune anche tra i non mammiferi. Le madri degli scarafaggi conservano il microbiota in cellule specializzate, chiamate batteriociti, che espellono il contenuto insieme all’uovo che si sta sviluppando: prima di essere deposto, l’uovo incorpora infatti i batteri. Le madri delle cimici, d’altro canto, per dotare la prole di utili microbi, hanno un approccio più simile a quello dei koala, poiché imbrattano la superficie delle uova con feci ricche di batteri nel momento in cui le depositano. Quando le uova si schiudono, le ninfe consumano immediatamente le chiazze fecali. Un altro insetto, la Megacopta cibraria, si schiude privo di microbi e poi ingerisce un involucro pieno di batteri, lasciato dalla madre accanto all’uovo. Se non c’è, gli insetti iniziano a muoversi qua e là in maniera bizzarra, in cerca di involucri
appartenenti ad altre uova. Come sappiamo, anche gli uccelli, i pesci, i rettili e altri animali trasferiscono il proprio microbiota alla prole, o all’interno dell’uovo o dopo la nascita dei piccoli. Quali che siano le tendenze parentali delle specie, fornire ai cuccioli un buon apparato microbico per aiutarli lungo il cammino sembra un rituale pressoché universale. Che sia così comune la dice lunga sui benefici evolutivi di una vita vissuta in compagnia dei microbi. Se azioni come imbrattare le uova e incorporare i batteri sono la norma, c’è stato un processo evolutivo per arrivarci, per accrescere le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione degli individui. E noi esseri umani? È chiaro che il microbiota ci arreca dei benefici, ma come ci assicuriamo che i nostri cuccioli ricevano i semi per la loro personale colonia? Nelle sue prime ore di vita un neonato, che è in gran parte umano, diventa in gran parte microbico, almeno in termini di quantità di cellule. Immerso nel caldo sacco di liquido amniotico all’interno dell’utero, il bambino è protetto dai microbi del mondo esterno, compresi quelli della madre, ma una volta che si rompono le acque inizia la colonizzazione. Il viaggio del neonato dal ventre della madre all’esterno è un fuoco incrociato di microbi. In realtà “fuoco incrociato” dà l’impressione sbagliata, perché i microbi che il piccolo incontra non sono nemici, ma amici. Si tratta piuttosto di un rito di passaggio microbico, che riveste il neonato, prima quasi sterile, con una pellicola di microbi vaginali. Non appena viene alla luce, il bambino acquisisce un’altra dose di microbi, accanto a quelli della vagina. Per quanto possa apparire disgustoso, ingerire feci nei primi giorni di vita non capita solo ai koala. Durante il travaglio e la nascita dei piccoli d’uomo, gli ormoni che inducono le contrazioni e la pressione del bambino che scende provocano in molte donne la defecazione. Dei neonati di solito esce per prima la testa, rivolta verso il fondoschiena della mamma, e c’è poi un momento di pausa, in cui il capo e la bocca sono già all’esterno, mentre la madre in travaglio attende la contrazione successiva che la aiuti a far uscire il resto del corpo. Per quanto proviate un’istintiva repulsione all’idea, si tratta di un inizio promettente. Dopo la nascita, il dono della madre consistente in un rivestimento di microbi, fecali e vaginali, rappresenta per il neonato un semplice e sicuro abitino di compleanno. Si tratta anche probabilmente di un inizio “adattativo”: voglio dire che forse non è un male che l’ano sia così vicino alla vagina, o che gli ormoni che provocano le contrazioni dell’utero abbiano lo stesso effetto sul canale rettale. La selezione naturale può aver creato queste condizioni perché sono vantaggiose per il bambino, o se non altro non fanno più male che bene. Ricevere in dono dei
microbi, insieme ai geni che hanno lavorato in armonia con il genoma della madre, è davvero un grandioso inizio. Se paragoniamo i microbi intestinali di un neonato con dei campioni prelevati dalla vagina, dalle feci, dalla pelle della madre e da quella del padre, i più simili a quelli che colonizzano l’intestino del neonato sono i ceppi e le specie della vagina materna. Le specie più comuni appartengono a generi come Lactobacillus e Prevotella. Questi microbi vaginali sono un gruppo piuttosto selezionato – assai meno diversi da quelli dell’intestino materno – ma hanno a quanto pare un ruolo specializzato nell’apparato digerente in via di sviluppo del neonato. Dove c’è Lactobacillus, si pensa, non ci sono agenti patogeni. Non ci sono né Clostridium difficile né Pseudomonas né Streptococcus. I cattivi non ci mettono piede, perché i lattobacilli (cioè le svariate specie del Lactobacillus) tolgono loro tutto lo spazio disponibile. Questi microbi appartengono a un gruppo denominato batteri dell’acido lattico, comprendenti le specie che trasformano il latte in yogurt. Non solo l’acido lattico (che conferisce allo yogurt il tipico gusto aspro) crea un ambiente ostile agli altri batteri, ma i lattobacilli producono autonomamente anche degli antibiotici, chiamati batteriocine. Queste sostanze chimiche servono a uccidere i patogeni che si contendono con loro i terreni di maggior pregio nell’intestino vuoto del neonato. Ma come mai i microbi che colonizzano l’intestino dei bambini sono più simili a quelli del canale del parto della madre che a quelli del suo intestino? Se i microbi intestinali servono ad aiutarci a digerire il cibo, non sarebbero più adatti? I medici, e molte donne, sanno bene che i lattobacilli prosperano nella vagina: per molto tempo si è utilizzato un po’ di yogurt vivo come rimedio domestico per la candidosi (un’infezione da lievito). Spesso si presume che questi batteri dell’acido lattico siano lì per proteggere la vagina dalle infezioni, ma sebbene facciano un buon lavoro, non è il loro scopo principale. I batteri vaginali dell’acido lattico si nutrono di latte. Prendono lo zucchero contenuto nel latte – il lattosio – e lo convertono in acido lattico; nel farlo producono dell’energia per sé. Anche i neonati si nutrono di latte, convertendo il lattosio in due molecole più semplici, il glucosio e il galattosio, che vengono assorbite nel sangue attraverso l’intestino tenue e poi convertite in energia per il bambino. Il lattosio che non viene digerito e oltrepassa l’intestino non va tuttavia sprecato, perché raggiunge i batteri dell’acido lattico, in attesa nell’intestino crasso. I lattobacilli che il bambino acquisisce mentre attraversa il canale del parto, allora, non sono lì per proteggere la vagina della madre, ma per colonizzare il neonato. Forse appare eccessivo che la vagina sia costantemente
colonizzata dai batteri dell’acido lattico, ma partorire è quello a cui principalmente serve, e con una frequenza assai maggiore di quanto accada attualmente alle donne del mondo sviluppato. La vagina è il cancelletto di partenza del bambino e si è evoluta per offrire il migliore inizio nella gara della vita. Anche se i neonati, nei primi giorni di vita, traggono beneficio dai batteri dell’acido lattico, avranno sostanzialmente bisogno di un microbiota intestinale che, oltre a scindere il latte, faccia anche altro. Hanno bisogno di alcuni dei microbi intestinali della madre. A parte il benvenuto fecale della nascita, i neonati in realtà dal microbiota vaginale della madre acquisiscono anche alcuni microbi intestinali. Le comunità batteriche che vivono nella vagina di una donna incinta sono diverse da quelle abitualmente presenti nella vagina di donne non gravide. Tra le specie vaginali consuete ve ne sono alcune che si trovano più spesso nell’intestino. Prendiamo il Lactobacillus johnsonii, che si trova di norma nell’intestino tenue, dove produce degli enzimi che scindono la bile. Durante la gravidanza la sua presenza nella vagina aumenta vertiginosamente. Si tratta di un esserino aggressivo, che produce un sacco di batteriocine e può uccidere i batteri pericolosi, prendendosi più spazio per sé e quindi un piazzamento migliore nell’intestino del neonato. Durante la gravidanza il microbiota vaginale cambia, si fa meno eterogeneo, sembra quasi che riduca la comunità in preparazione della semina nel piccolo dei suoi primi e più importanti microbi. Quando un bambino viene colonizzato, i suoi microbi intestinali sono relativamente eterogenei: ne fanno parte alcuni dei batteri fecali (intestinali) della madre, oltre all’assortimento della vagina. Questo insieme iniziale però si assottiglia piuttosto rapidamente, riducendosi a quei batteri che possono contribuire alla digestione del latte. Io credo che le specie fecali che il bambino riceve dalla madre riescano velocemente ad accumularsi nella cassetta di sicurezza dell’appendice, pronte per essere usate in seguito. La prima colonia che prende residenza nell’intestino di un bambino rappresenta un punto di partenza cruciale per il microbiota che si svilupperà nel corso dei pochi mesi successivi, e stabilisce probabilmente la direzione che seguirà per diversi anni. Nel nostro mondo a macro-scala, su un’area di nuda roccia si accumula del lichene, poi del muschio, finché l’avvicendamento di questi pionieri produce abbastanza terra per nutrire piccole piante, e poi cespugli e alberi. Una nuda zona di terreno potrebbe un giorno diventare un bosco di querce in Gran Bretagna, una foresta di aceri e faggi negli Stati Uniti, oppure
una foresta pluviale tropicale in Malaysia. Lo stesso accade per il “nudo terreno” dell’intestino: il microbiota inizia con una semplice selezione di batteri dell’acido lattico, poi diventa sempre più complesso e diversificato. Si tratta di una successione ecologica: ogni stadio fornisce l’habitat e i nutrienti necessari al successivo. Nell’intestino del bambino, e sulla sua pelle, avviene una successione su micro-scala. I primi colonizzatori – i pionieri – influiscono sulla varietà delle specie che si insedieranno in seguito. Proprio come un bosco di querce fornisce ghiande e una foresta pluviale tropicale fornisce frutti, così il microbiota produce svariate risorse per lo sviluppo del bambino, che hanno un ruolo nel perfezionamento del suo metabolismo e nell’educazione del suo sistema immunitario. Le cellule immunitarie, i tessuti e i vasi crescono e si sviluppano sotto le istruzioni di un microbiota egoista ma benevolo. Grazie a una sana dose di microbi vaginali, l’alleanza microbica del bambino si mette in marcia, partendo con il piede giusto. Fin qui tutto bene. Eccetto che ogni anno milioni di bambini nascono senza neppure avvicinarsi alla vagina della madre. In alcuni posti partorire con il taglio cesareo è più comune che farlo per via vaginale. Quasi la metà dei figli delle donne brasiliane e cinesi vengono estratti direttamente dalla pancia invece che nascere mediante il parto. Tenendo conto del numero di donne che in questi paesi vivono in aree rurali e che quindi non hanno accesso agli ospedali, il tasso medio di cesarei nelle città è probabilmente anche più alto. In effetti in alcuni ospedali di Rio de Janeiro la percentuale dei cesarei supera il 95 per cento delle nascite. Il tremendo caso di Adelir Carmen Lemos de Goés nel 2014 permette di farsi un’idea di quanto sia radicata questa pratica nella società brasiliana. Dopo due tagli cesarei, Adelir voleva partorire per via vaginale, e quando le hanno comunicato che non sarebbe stato possibile ha deciso di dimettersi dall’ospedale e di partorire in casa. Poco tempo dopo però è stata prelevata dalla polizia armata, riportata in ospedale e costretta a subire un cesareo. Sembra che in molte strutture sanitarie brasiliane i parti vaginali siano considerati troppo lunghi e imprevedibili. Anche nei paesi in cui viene rispettata la scelta della donna, il cesareo è sorprendentemente comune. A molte viene detto che se si sottopongono al cesareo una prima volta poi dovranno farlo sempre, perché la cicatrice sull’utero del precedente intervento chirurgico potrebbe lacerarsi per via della pressione delle contrazioni, ma non è vero. Ci vuole del tempo perché le informazioni si
trasferiscano dagli studio-si a coloro che stabiliscono le linee guida sanitarie e poi al personale ospedaliero, ma ormai si ritiene che non vi siano rischi significativi se si partorisce per via vaginale, dopo aver subito fino a quattro cesarei. In alcuni ospedali degli Stati Uniti nascono con parto cesareo fino al 70 per cento dei bambini, e forse anche di più. La media complessiva nel paese è un consistente 32 per cento. Nei paesi sviluppati è piuttosto tipico che tra un quarto e un terzo dei parti sia cesareo, e molti paesi in via di sviluppo non sono tanto indietro. Anzi, ce ne sono alcuni in cui il cesareo va a gonfie vele: la Repubblica Dominicana, l’Iran, l’Argentina, il Messico e Cuba si posizionano tra il 30 e il 40 per cento. Inutile dire che non è sempre stato così. Per secoli il taglio cesareo è stato usato con molta parsimonia, di solito per evitare che un bambino rimasto intrappolato nella madre in fin di vita morisse insieme a lei. L’ultimo secolo, però, ha portato con sé anestetici tollerabili e tecniche chirurgiche perfezionate, perciò ha iniziato a concretizzarsi l’opportunità di salvare non solo il bambino ma anche la madre. Il parto cesareo ha offerto un’alternativa più sicura alle possibili carenze di ossigeno del neonato durante un parto difficile e a eventuali emorragie della madre. Dalla fine degli anni Quaranta in poi è diventato sempre più comune, mentre gli antibiotici riducevano i principali rischi a cui andava incontro la donna. Negli anni Settanta si è assistito a una brusca impennata e da allora la crescita è continuata pressoché senza sosta. Il cesareo è attualmente l’intervento chirurgico addominale più eseguito. Buona parte della stampa popolare, che rintuzza a ogni piè sospinto le “guerre tra mamme”, vorrebbe convincervi che questo incremento è dovuto al fatto che un numero sempre maggiore di donne “a spingere non ci tiene proprio”, per cui sceglie l’alternativa veloce, comoda e priva di dolore a un lungo travaglio, un metodo che inoltre risparmia la vagina. Sebbene sia in crescita la percentuale di cesarei elettivi, cioè decisi prima del travaglio, l’incremento maggiore è dovuto in realtà a cesarei d’urgenza, eseguiti durante il travaglio a seguito di una prescrizione del ginecologo o dell’ostetrica. Gli americani amano attribuire la responsabilità del comportamento del personale medico, restio ad assumersi dei rischi quando il travaglio o la nascita sembrano impegnativi, alla cultura un po’ troppo incline alla denuncia nei confronti della sanità privata. Ma anche nell’ambito dei servizi sanitari pubblici, come il National Health Service britannico, quando la faccenda si fa seria i medici si rivolgono senza indugi al cesareo. Stiamo parlando di travagli che non si concludono abbastanza in fretta, di bambini grandi che potrebbero rimanere bloccati o di parti podalici, dove il
feto si presenta con il sedere in avanti e non può essere girato. Per molte donne la raccomandazione medica di eseguire un cesareo durante il travaglio rappresenta una sorta di colpevole sollievo, perché offre l’occasione per sfuggire al dolore, alla fatica e al timore di un parto vaginale. La sola esistenza di un’alternativa velocemente disponibile al parto naturale toglie potere alle donne, dando loro la sensazione che far nascere il proprio bambino con delle spinte sia troppo difficile o troppo pericoloso. La realtà è diversa. In media per le madri i rischi connessi a un parto cesareo programmato sono maggiori di quelli di un parto vaginale. In Francia, per esempio, ogni 100.000 donne sane che partoriscono naturalmente ne muoiono circa quattro, mentre le vittime del cesareo sono più o meno tredici. Persino in circostanze non fatali il cesareo è più pericoloso del parto naturale, perché possono verificarsi infezioni, emorragie e problemi con l’anestesia, cioè i consueti rischi di qualsiasi intervento chirurgico addominale. Il cesareo è un’alternativa fondamentale al parto vaginale in circostanze necessarie dal punto di vista medico: alcune donne non hanno altra scelta che partorire in questo modo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che la quota ottimale di cesarei dovrebbe restare tra il 10 e il 15 per cento di tutte le nascite. Sono queste le percentuali che mettono al riparo le donne e i loro bambini dai pericoli del parto, senza esporli agli inutili rischi di un intervento chirurgico. Per i medici è difficile capire su quale 10 o 15 per cento delle donne dovrebbero eseguire il cesareo, mentre alle donne che scelgono il cesareo elettivo prima del travaglio spesso non vengono spiegati in maniera esauriente i rischi che corrono insieme ai propri bambini, talvolta neppure valutati da chi si prende cura di loro. Per come stanno le cose, i rischi principali del cesareo per il bambino si presentano di norma nei primi giorni o settimane di vita. Ecco quali sono secondo il National Health Service britannico: Talvolta può capitare di tagliare l’epidermide del bambino mentre si pratica l’incisione nel ventre. Accade ogni 2 bambini su 100 nati con il cesareo, ma di norma si rimargina senza ulteriori danni. Il problema più comune dei bambini nati con cesareo è la difficoltà a respirare, anche se è un fatto che riguarda soprattutto i prematuri. Per i bambini nati con taglio cesareo alla 39° settimana, o dopo, questo rischio respiratorio si riduce in maniera significativa, e si allinea a quello legato al parto vaginale. Subito dopo la nascita, e nei primi giorni di vita, il vostro bambino potrebbe presentare un respiro insolitamente accelerato. La maggior parte dei neonati si rimette completamente nel giro di due o tre giorni.
Si parla molto poco, tuttavia, degli effetti più a lungo termine della nascita con il
cesareo sul bambino che cresce. Si riconosce ormai che la pratica che un tempo veniva ritenuta un’innocua alternativa al parto vaginale comporta dei rischi per la salute sia della madre sia del neonato. Nei primi giorni, per esempio, i bambini nati con cesareo sono più soggetti a infezioni: fino all’80 per cento dei casi di infezioni da Staphylococcus aureus resistente alla meticillina si verifica nei bambini nati con il cesareo, i quali da piccoli hanno anche maggiori probabilità di sviluppare allergie. I bambini nati da madri allergiche – e quindi forse predisposti – se nascono con il cesareo hanno probabilità sette volte maggiori di sviluppare a propria volta un’allergia. È anche più probabile che a questi bambini venga diagnosticato l’autismo. I ricercatori del Centers for Disease Control (CDC) degli Stati Uniti stimano che, se nessuno nascesse con il cesareo, 8 bambini autistici su 100 eviterebbero di sviluppare la malattia. Parimenti, ci sono il doppio delle probabilità che gli individui che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo siano nati con il cesareo. Anche alcune patologie autoimmuni hanno un qualche legame con il cesareo, così come l’obesità. I bambini nati con il cesareo hanno inoltre più probabilità di contrarre il diabete di tipo 1 o la celiachia. Secondo uno studio condotto su giovani adulti brasiliani, il 15 per cento dei nati con il cesareo sono obesi, contro il 10 per cento dei ragazzi nati per via vaginale. Probabilmente avrete notato il legame: sono tutte malattie del XXI secolo. Sebbene ognuna di esse sia multifattoriale e abbia origine da un’ampia gamma di fattori di rischio ambientali e di predisposizioni genetiche, è evidente la sovrapposizione tra parto cesareo e aumento del rischio di contrarre una malattia del XXI secolo. Analizzare il microbiota intestinale dei bambini può rivelare se sono nati con parto cesareo o vaginale anche molti mesi dopo la nascita. Il microbiota vaginale che colonizza l’interno e l’esterno del corpo del neonato mentre emerge dal canale del parto non può colonizzare un neonato uscito dal tettuccio apribile. Un bambino venuto al mondo con il cesareo incontra invece per primi i microbi dell’ambiente circostante, perché il suo corpicino viene estratto da mani guantate, senza sfiorare la pelle del ventre materno, poi viene mostrato agli ansiosi genitori e infine allontanato velocemente dalla sala operatoria, accuratamente asciugato e visitato. In un intervento chirurgico sterile potrebbe trattarsi delle più resistenti infezioni ospedaliere – Streptococcus, Pseudomonas e Clostridium difficile forse – ma anche dell’epidermide dei genitori e del personale medico. Saranno questi microbi cutanei a formare la base del microbiota intestinale di un bambino nato con il cesareo. Tuttavia mentre dopo un parto naturale il microbiota vaginale della madre e
quello intestinale del neonato sono uguali, non è possibile appaiare i bambini nati con il cesareo e le madri osservandone i microbi. Al posto dei batteri che digeriscono il lattosio – Lactobacillus, Prevotella e simili – forniti dal parto vaginale, ci sono i fedeli compagni della pelle: Staphylococcus, Corynebacterium, Propionibacterium e così via. Non si tratta di batteri che digeriscono il latte, ma di specie che amano il sebo e il muco. Quella che dovrebbe essere la fondazione di un bosco di querce è invece l’inizio di una foresta di pini. Grazie alla ricerca si sta gradualmente scoprendo il modo in cui questa differenza nel microbiota intestinale si traduce in alcune conseguenze sulla salute legate al cesareo. Se conoscessimo meglio questi meccanismi, il nesso con i microbi si trasformerebbe da seria preoccupazione a conseguenza certa. Ma qualunque siano i meccanismi che vi stanno dietro, l’apprensione per l’impatto che la modalità del parto avrebbe avuto sullo sviluppo del microbiota ha portato lo studioso del microbioma Rob Knight ad agire nel momento in cui sua moglie nel 2012 si è ritrovata a dover partorire la figlia con un cesareo d’urgenza. Poiché aveva collaborato a diverse ricerche sullo sviluppo del microbiota intestinale dei neonati alla University of Colorado di Boulder, Knight voleva cercare in tutti i modi di prevenire qualsiasi conseguenza negativa dovuta al fatto che la bambina non sarebbe nata per via vaginale. Dopo aver aspettato che il personale medico uscisse dalla stanza lo studioso, servendosi di un tampone, ha trasferito il microbiota vaginale dalla moglie alla figlia. Anche se non sarebbe stato favorevolmente accolto tra il personale medico di turno, questo atto sovversivo reca con sé un grande potenziale. Rob Knight e Maria Gloria Dominguez-Bello, professoressa associata al Dipartimento di Medicina della New York University, stanno attualmente conducendo un vasto esperimento clinico per capire se trasferire i microbi dalla vagina di una donna al neonato possa mitigare alcuni degli effetti a breve e a lungo termine del cesareo. La tecnica sperimentale è semplice: un’ora prima che la madre venga portata in sala operatoria viene inserito un pezzetto di garza nella vagina, che viene poi rimossa e riposta in un contenitore sterile appena prima che si compia la prima incisione. Pochi minuti dopo, una volta nato il bambino, gli si strofina la garza sulla bocca, sul viso e poi sul resto del corpo. Si tratta di un intervento semplice ma efficace. I risultati preliminari su diciassette bambini nati in ospedali portoricani dimostrano che essi avevano un microbiota intestinale molto più simile a quello anale e vaginale delle madri rispetto a quelli nati con il cesareo ma non tamponati. Anche se il trattamento
non aveva normalizzato completamente il microbiota dei bambini, l’effetto era significativo, poiché incrementava il numero delle specie normalmente osservate nei bambini nati per via vaginale. Le conseguenze microbiche delle nascite vaginali e con il cesareo sollevano alcuni affascinanti interrogativi ancora privi di risposta. Come influisce per esempio il parto in acqua sul primo inoculo del bambino? Quanto incide l’acqua calda, probabilmente piena di residui del detergente antibatterico utilizzato sulle superfici della vasca, sul microbiota vaginale e sul suo trasferimento sull’epidermide e la bocca del bambino? E che dire di chi nasce con la camicia, ovvero quando il neonato esce dal grembo avvolto nel sacco amniotico, e non avviene il contatto con i microbi genitali della madre? Come paragonare, infine, da un punto di vista microbico, il parto in casa con quello che avviene nell’ambiente presumibilmente più pulito dell’ospedale? Nel mondo occidentale anche la nascita vaginale è una faccenda relativamente priva di germi. Se pensiamo al parto, spesso casalingo, di ampie zone dell’Asia, dell’Africa e del Sud America, dare alla luce un bambino in buona parte dell’Europa, del Nord America e dell’Australasia è una procedura molto medicalizzata e sterile. Prima di entrare in contatto con la donna in travaglio o il suo bambino, letti, mani e strumenti vengono lavati con saponi antibatterici e strofinati con dell’alcol. A quasi la metà delle donne americane vengono somministrate delle flebo di antibiotici, per evitare che trasferiscano al nascituro dei batteri nocivi, come quelli dello streptococco di Gruppo B. E tutti i bambini americani, appena dopo la nascita, ricevono una dose di antibiotico, nell’eventualità che la madre sia affetta da gonorrea, perché in rari casi potrebbe manifestarsi un’infezione agli occhi. Ignaz Semmelweis sarebbe contento di sapere che le sue misure antisettiche vengono messe in pratica in maniera tanto completa ed efficace, e non c’è dubbio che migliaia di madri e di bambini sono vivi grazie a questa igiene. Tuttavia non è quello che il genoma e il microbioma umani si aspettano. Tale discrepanza e le sue conseguenze rappresentano ciò che dovrebbe guidare il prossimo passo per migliorare l’assistenza medica alle donne e ai neonati. In fin dei conti non si tratta soltanto di una questione che riguarda le donne, né per cui debbano sentirsi colpevoli. Non è la sottoclasse relativamente piccola delle donne che scelgono un cesareo elettivo a dover cambiare, ma l’intera cultura della medicalizzazione della nascita. Esistono già molte iniziative per ridurre la percentuale di cesarei nel mondo, la maggior parte delle quali centrate sui rischi per la madre e sull’utilizzo di risorse già scarse per interventi chirurgici
non necessari. Insieme a queste preoccupazioni dovrebbe esserci una maggiore conoscenza dei rischi, e dei benefici, del parto cesareo per la salute dei neonati, sia a breve sia a lungo termine. Dopo che sono trascorsi i primi secondi di vita con i microbi che li accompagnano, i semi del microbiota del neonato hanno molta strada da fare per raggiungere la maturità. Quello che accade dopo dipende dal modo in cui essi vengono accuditi nei giorni, nelle settimane e nei mesi a venire. Nel 1983 la professoressa Jennie Brand-Miller è diventata madre. Qualche giorno dopo è stata costretta a interessarsi in maniera approfondita di coliche infantili, perché il suo bambino piangeva disperato, pur essendo apparentemente sano. Brand-Miller e il marito in precedenza si erano occupati di intolleranza al lattosio, cioè l’incapacità di alcuni individui di scindere il lattosio, ossia lo zucchero del latte, utilizzando l’enzima lattasi, perciò si sono chiesti se potesse essere questa la causa delle coliche. Il marito di Brand-Miller ha concentrato il suo dottorato di ricerca sulla risposta a questa domanda, organizzando un esperimento in cui si somministravano gocce di enzima lattasi a un gruppo di bambini con le coliche, con un campione di controllo a cui si somministrava invece un placebo. Purtroppo non si è osservata una differenza nel tempo trascorso dai bambini a piangere, tra coloro a cui veniva somministrata la lattasi e gli altri, ma tra bambini con le coliche e sani c’era invece una differenza nella quantità di idrogeno presente nel respiro. La faccenda li ha portati a riflettere. Un eccesso di idrogeno nel respiro indica che i batteri intestinali stanno scindendo del cibo. Il lattosio però dovrebbe essere scisso dagli enzimi del corpo in due zuccheri più piccoli: glucosio e galattosio. Se i batteri producevano idrogeno, probabilmente avevano ricevuto un pasto ragguardevole, il che portava a ipotizzare che c’era qualche altra molecola non digerita dall’intestino tenue. Jennie Brand-Miller sapeva che buona parte del latte materno era composta da una serie di sostanze chiamate oligosaccaridi, ma si riteneva che queste molecole fossero inutili, perché il corpo umano non possiede gli enzimi necessari a scinderle. Forse gli oligosaccaridi non servivano a nutrire il bambino, ma i suoi microbi intestinali? Gli oligosaccaridi sono carboidrati composti da corte catene di zuccheri semplici (oligo significa “poco”). Il latte umano ne contiene un’enorme varietà, più o meno 130 tipi diversi, molti di più rispetto al latte di altre specie: in quello di mucca per esempio ve ne sono soltanto una manciata di varietà. Da adulti non mangiamo niente che contenga queste molecole e tuttavia si formano nei tessuti
del seno delle donne incinte e che stanno allattando. Il che è un indizio della loro importanza: perché produrre appositamente una sostanza se non ha alcuna funzione? Per provare la loro teoria Brand-Miller e il marito hanno condotto un esperimento. Hanno misurato la quantità di idrogeno nel respiro dei bambini a cui venivano somministrati del glucosio oppure degli oligosaccaridi purificati nell’acqua. Nel caso del glucosio non si è osservato alcun aumento di idrogeno, a dimostrazione che veniva assorbito nell’intestino tenue e non scisso dai batteri intestinali. Il mix di oligosaccaridi invece ha prodotto un picco nei livelli di idrogeno, poiché questi composti attraversavano direttamente l’intestino tenue e nutrivano il microbiota intestinale, non il bambino. Adesso si sa che gli oligosaccaridi sono determinanti per favorire la proliferazione delle corrette specie di microbi nel microbiota intestinale in fieri del bambino. I neonati allattati al seno hanno un microbiota dominato da lattobacilli e bifidobatteri. A differenza del corpo umano, i bifidobatteri producono enzimi in grado di utilizzare gli oligosaccaridi come unica fonte di cibo. Il loro prodotto di scarto è rappresentato dai fondamentali acidi grassi a catena corta (SCFA): butirrato, acetato e propionato, più un quarto, di particolare valore per i bambini piccoli, il lattato (conosciuto anche come acido lattico). Questi ultimi nutrono le cellule dell’intestino crasso e rivestono un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema immunitario del bambino. In poche parole, mentre gli adulti hanno bisogno della fibra derivante dai vegetali, i bambini hanno bisogno degli oligosaccaridi del latte materno. Costituire una fonte di cibo per i batteri non è l’unica funzione degli oligosaccaridi del latte materno. Nei primi giorni e nelle prime settimane di vita, il microbiota intestinale di un bambino è molto semplice e assai instabile. I ceppi di batteri attraversano alti e bassi, il che rende la comunità vulnerabile. L’ingresso di un ceppo patogeno – lo Streptococcus pneumoniae per esempio – può generare il caos, decimando i ceppi benefici. Ma gli oligosaccaridi forniscono un servizio di assorbimento. Prima che un batterio patogeno possa provocare danni deve aderire alla parete intestinale, utilizzando speciali punti di aggancio sulla superficie batterica. Gli oligosaccaridi si adattano perfettamente a questi punti, privando le specie maligne della presa. Sappiamo che decine dei circa 130 composti sono specializzate per patogeni particolari e si inseriscono nei loro punti di aggancio come una chiave nella serratura. La composizione del latte materno si adatta alle necessità del bambino man mano che cresce. Appena dopo la nascita il primo latte, chiamato colostro, è
pieno di cellule immunitarie, di anticorpi e di quattro generosi cucchiaini per litro di oligosaccaridi. Con il trascorrere del tempo, mentre il microbiota si stabilizza, il contenuto di oligosaccaridi diminuisce. A quattro mesi dalla nascita è sceso a tre cucchiaini per litro e ora del primo compleanno del bambino ne contiene meno di uno. Ancora una volta possiamo prendere lezioni dal koala e da altri marsupiali, stavolta sull’importanza del contenuto degli oligosaccaridi nel latte. La maggior parte dei marsupiali è dotata di due mammelle posizionate all’interno del marsupio, ma durante il periodo dell’allattamento il cucciolo ne utilizza soltanto una. Se nascono due cuccioli in stagioni consecutive, ciascuno avrà la propria. La cosa straordinaria è che le due mammelle forniscono del latte adatto rispettivamente all’età di ciascun cucciolo. Il neonato riceve un latte ricco di oligosaccaridi e con poco lattosio, mentre il più grandicello avrà una dose minore di oligosaccaridi ma decisamente maggiore di lattosio. Una volta che il cucciolo ha lasciato il marsupio, il contenuto di oligosaccaridi del suo latte ne fornisce ancora alcune gocce. Questo latte personalizzato dimostra che gli oligosaccaridi non diminuiscono soltanto perché la madre non riesce a continuare a produrli. I marsupiali si sono adattati per fornire ai cuccioli il latte ideale per la loro comunità di microbi in evoluzione. La natura ha selezionato un latte che fosse per loro benefico, perché i microbi lo sono a propria volta per i mammiferi. Gli oligosaccaridi non sono l’unico ingrediente a sorpresa del latte materno. Da decenni le madri generose che allattano al seno donano il proprio latte alle apposite banche negli ospedali, offrendo un’ancora di salvezza ai bambini che non possono essere allattati dalla madre, spesso perché nati prematuri o gravemente ammalati per iniziare l’allattamento, per cui la madre ha smesso di produrne. Le banche del latte soffrono tuttavia di un persistente problema: il latte donato è sempre contaminato da batteri. Molti di questi microbi provengono dalla pelle dei capezzoli e del seno: per quanto l’epidermide della donatrice venga sterilizzata con cura prima della raccolta, i microbi nel latte materno non vengono mai eliminati. Le tecniche di raccolta del latte, sempre più sofisticate e asettiche, unite alla tecnologia di sequenziamento del DNA, hanno rivelato il motivo di questa cosiddetta contaminazione. I batteri appartengono al latte materno. Non stanno scroccando un passaggio dalla bocca del bambino o dal capezzolo, ma sono stati invece confezionati nel tessuto stesso del seno. Ma da dove vengono? Molti non sono batteri tipici della pelle sgattaiolati nei dotti lattiferi dalla loro consueta
dimora sull’epidermide, si tratta invece di batteri dell’acido lattico, che si trovano più di consueto nella vagina e nell’intestino; in effetti se si analizzano le feci della madre si scoprono ceppi simili nell’intestino e nel latte. In qualche modo questi microbi hanno viaggiato dall’intestino crasso al seno. Se si esamina il sangue in cerca di microbi migranti si scorge la strada che hanno seguito. Sono clandestini che viaggiano all’interno di cellule immunitarie denominate cellule dendritiche, le quali partecipano volontariamente al traffico di batteri. Poste nel fitto tessuto immunitario che circonda l’intestino, queste cellule riescono a penetrare nell’intestino mediante lunghe ramificazioni (dendriti), per controllare quali microbi siano presenti. Di solito si occupano di inglobare gli agenti patogeni in attesa che si presenti un’altra squadra di cellule immunitarie – le cellule “natural killer” – che li distrugge. Curiosamente le cellule dendritiche possono anche estrarre dalla moltitudine alcuni insospettabili batteri benefici, inglobarli e trasportarli nel sangue fino al seno. Possiamo osservare il sistema all’opera in uno studio sui topi. Mentre solo il 10 per cento delle femmine non gravide avevano batteri nei linfonodi, essi erano presenti nel 70 per cento di quelle in procinto di partorire. Dopo aver dato alla luce i cuccioli, il numero di batteri nei linfonodi calava bruscamente, ma al contempo schizzava verso l’alto la percentuale di topi con batteri nei tessuti mammari. Sembra che sia nei topi sia negli esseri umani il sistema immunitario lavori non solo per tenere alla larga i microbi malevoli, ma per acquisirne di buoni in modo che possano essere trasferiti al neonato. Si tratta di una grandiosa strategia: i batteri si creano una nuova casa contendendosi lo spazio con pochi altri, e il bambino acquisisce una fornitura di utili batteri per integrare quelli ricevuti mentre veniva al mondo. Proprio come il contenuto di oligosaccaridi varia al variare dell’età del bambino, così accade per il mix di microbi che il latte contiene. Le specie di cui un bambino ha bisogno il primo giorno sono diverse da quelle necessarie nel primo, nel secondo o nel sesto mese di vita. Il colostro prodotto nei primi giorni dopo la nascita contiene centinaia di specie. Nel latte materno sono stati scoperti generi come il Lactobacillus, lo Streptococcus, l’Enterococcus e lo Staphylococcus in quantità fino a 1000 individui per millilitro. Il che significa che un bambino potrebbe assumere circa 800.000 batteri al giorno soltanto dal latte. Nel corso del tempo i microbi nel latte si fanno meno numerosi e le specie si diversificano. Nel latte prodotto qualche mese dopo la nascita si trovano più microbi di quelli presenti nella bocca di un adulto; forse preparano il bambino all’introduzione del cibo solido.
Curiosamente, il modo in cui un bambino nasce ha un impatto molto importante sui microbi che si trovano nel latte materno. Il contenuto microbico del colostro delle donne che hanno scelto il cesareo prima del travaglio è decisamente diverso da quello di coloro che hanno partorito per via vaginale. Questa differenza persiste per almeno sei mesi. Nelle donne che subiscono un cesareo d’urgenza durante il travaglio, invece, il microbiota del latte è decisamente più simile a quello delle madri che partoriscono naturalmente. C’è un campanello che suona, durante il travaglio, informando il sistema immunitario che è ora di prepararsi all’uscita del bambino dal corpo, e che il bambino riceverà il nutrimento dal latte materno e non più dalla placenta. È probabile che questo campanello venga fatto risuonare dai molti e potenti ormoni rilasciati durante il travaglio stesso, che decidono quali microbi si debbano trasferire dall’intestino al seno per il bambino che sta arrivando. Il taglio cesareo pertanto provoca una duplice e spiacevole differenza: altera non solo l’inoculo microbico che un bambino riceve al suo ingresso nel mondo, ma anche i microbi successivi che assume dal latte materno. Gli oligosaccaridi, i batteri vivi e gli altri composti che si trovano nel latte materno rappresentano il cibo ideale sia per i neonati sia per il loro microbiota. Il latte materno favorisce l’insediamento dei microbi benefici e guida il microbiota intestinale verso una comunità simile a quella degli adulti, impedisce la colonizzazione da parte di specie nocive e insegna all’ingenuo sistema immunitario di che cosa dovrebbe preoccuparsi, e che cosa invece merita di rimanere. E quindi che dire del biberon (ovvero dell’alimentazione con latte artificiale)? Quali effetti ha il latte artificiale sull’embrionale microbiota del bambino? Le mode in fatto di nutrizione dei neonati sono capricciose quanto quelle sull’orlo delle gonne. Anche prima che l’allattamento artificiale diventasse una scelta realistica per le madri, esisteva un’alternativa all’allattamento al seno. Prima del XX secolo le balie erano una figura comune, e le mode tra le classi sociali cambiavano esattamente come quelle sul latte artificiale nell’ultimo secolo. Per un certo periodo si era ritenuto sconveniente che le donne aristocratiche allattassero i propri bambini, poi le operaie della Rivoluzione industriale si misero ad assumere le balie mentre le élite sociali tornarono ad accudire i figli. A cavallo tra il XIX e il XX secolo le balie iniziarono a perdere il lavoro per via dell’alternativa sempre più pratica rappresentata dall’allattamento artificiale. Grazie a biberon facili da sterilizzare, tettarelle in gomma lavabili e latte in
polvere derivato da quello di mucca modificato, l’allattamento artificiale, da alternativa dettata dal bisogno, si è trasformata in alternativa dettata dalla scelta e l’allattamento al seno è calato in maniera drastica. Nel 1913 il 70 per cento delle donne allattavano il proprio neonato, ma questa cifra è scesa al 50 per cento nel 1928 e solo al 25 per cento alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1972 l’allattamento al seno ha raggiunto la percentuale più bassa, il 22 per cento. Dopo decine di milioni di anni di lattazione dei mammiferi, in un solo secolo l’allattamento al seno era quasi scomparso. Se gli oligosaccaridi e i batteri vivi del latte materno sono tanto importanti per nutrire i semi del microbiota intestinale del bambino, cambiando in sincrono mentre cresce, quali sono le conseguenze dell’allattamento artificiale sui microbi? Molto spesso il latte artificiale è latte proveniente dal “seno”, sì, ma della mucca, non della donna. Malgrado un sacco di intromissioni umane negli ultimi 10.000 anni, il latte di mucca si è evoluto per essere il nutrimento ideale dei vitellini e dei loro microbi. Il microbiota intestinale dei vitelli è decisamente diverso da quello dei bambini umani, e prospera grazie all’erba masticata due volte, non ai resti di carne e verdura predigeriti dall’intestino tenue. Il latte di mucca è un alimento per neonati che lascia parecchio a desiderare e spesso causa una carenza di vitamine e minerali che può provocare scorbuto, rachitismo e anemia. Il moderno latte formulato viene integrato con molte sostanze essenziali, ma di norma non contiene cellule immunitarie, anticorpi, oligosaccaridi o batteri vivi. La differenza più ovvia nel microbiota intestinale dei bambini allattati con il biberon è la diversità di ceppi e specie. I bambini non allattati al seno hanno all’incirca il 50 per cento di specie in più nell’intestino. In particolare, i bambini nutriti esclusivamente con latte artificiale hanno più specie del gruppo Peptostreptococcaceae, che comprende il nocivo agente patogeno Clostridium difficile. Se il Clostridium difficile prende il sopravvento può provocare una diarrea incurabile, e nei bambini purtroppo è spesso fatale. Mentre un quinto dei neonati allattati esclusivamente al seno ha dentro di sé il Clostridium difficile, lo stesso batterio è presente in quasi quattro quinti di quelli nutriti da subito con latte artificiale. È probabile che molti di questi bambini lo abbiano preso in sala parto: più è lunga la degenza in ospedale, più è probabile che un neonato accolga questo agente patogeno. Mentre negli adulti la grande varietà di microbi sembra un indicatore di buona salute, nei bambini è vero l’opposto. Per proteggere i neonati dalle infezioni e preparare il loro giovane sistema immunitario, sembra importante, nei
primi giorni di vita, coltivare un gruppo di specie molto selezionate, con l’aiuto dei batteri dell’acido lattico vaginale e degli oligosaccaridi del latte. Anche la combinazione di allattamento al seno e artificiale aumenta l’indesiderata diversità microbica, compreso il Clostridium difficile, e produce un microbiota a metà strada tra quello dei neonati allattati esclusivamente al seno e quello dei neonati allattati solo artificialmente. Ma è davvero così grave se i bambini hanno un po’ di diversità in più nel pancino? Favorire un diverso gruppo di batteri può essere veramente nocivo? Spesso si dichiara che al seno è meglio, ma senza valutare più di tanto che cosa significhi in realtà per la salute del bambino, e sottintendendo che il latte artificiale va bene, e che quello materno è “soltanto” migliore. Ma se osserviamo i dati vediamo un netto contrasto tra la salute dei bambini allattati al seno o con il biberon. Tanto per incominciare, i bambini allattati artificialmente vanno più soggetti alle infezioni. Rispetto a quelli allattati esclusivamente al seno, i neonati che prendono il biberon hanno il doppio di probabilità di prendere un’otite, il quadruplo di finire in ospedale con un’infezione del tratto respiratorio, il triplo delle probabilità di soffrire di un’infezione gastrointestinale e il doppio e mezzo di prendere un’enterocolite necrotizzante, in cui il tessuto intestinale muore. Hanno anche il doppio delle probabilità di morire di morte infantile improvvisa. Negli Stati Uniti la mortalità infantile (prima dell’anno di vita) è più alta del 30 per cento tra i bambini non allattati al seno, anche tenendo conto di molti altri fattori, come il fumo in gravidanza, la situazione economica e l’istruzione, ed escludendo i bambini con una patologia che impedisce loro l’allattamento al seno. La mortalità infantile è già bassa nei paesi sviluppati, perciò il rischio aggiunto significa che da 2,1 decessi postneonatali su 1000 bambini nati vivi tra gli allattati al seno si passa a 2,7 su 1000 in quelli allattati esclusivamente con il biberon. Non si tratta di una grossa preoccupazione per i singoli bambini o per i loro genitori, ma sui circa 4 milioni di nati ogni anno negli Stati Uniti ci sono 720 bambini che potrebbero non morire. I bambini allattati artificialmente hanno anche quasi il doppio di probabilità di sviluppare eczema e asma. Esiste inoltre un rischio maggiore di contrarre la leucemia infantile, cioè un tumore del sistema immunitario. È più probabile che soffrano di diabete di tipo 1. Forse hanno anche maggiori probabilità di prendere l’appendicite, la tonsillite, la sclerosi multipla e l’artrite reumatoide. Per i genitori si tratta di rischi sufficientemente piccoli da non doversene preoccupare più di tanto ma, come per l’impatto dell’allattamento artificiale sulla mortalità
infantile, gli effetti su milioni di bambini nati ogni anno sono piuttosto significativi, e dovremmo preoccuparcene. È forse più rilevante che il latte artificiale aumenta le probabilità – forse addirittura le raddoppia – di diventare sovrappeso. Quando gli scienziati vogliono sapere se un effetto è una vera causazione, non una semplice correlazione di coincidenze, cercano la “dose-dipendenza”. Se un fattore – per esempio il volume di alcol consumato – causa realmente un effetto – per esempio rallenta il tempo di reazione – ci aspetteremmo che il tempo di reazione sia più lento in presenza di un maggiore volume (dosi extra) di alcol, almeno fino a un certo punto. Più alta è la dose, più lento il tempo di reazione. Si può osservare la stessa relazione tra l’allattamento al seno e il rischio di obesità. Uno studio ha rivelato che per ogni mese in più di allattamento al seno, fino all’età di nove mesi, il rischio medio che i bambini diventino sovrappeso scende di circa il 4 per cento. Con due mesi di allattamento esclusivo al seno il rischio cala dell’8 per cento, con tre mesi di circa il 12 per cento e così via. Dopo nove mesi di allattamento al seno un bambino ha il 30 per cento di probabilità in meno di diventare sovrappeso rispetto a un neonato allattato artificialmente dalla nascita. L’allattamento al seno senza alcuna integrazione con il latte artificiale sembra avere un effetto anche maggiore, facendo scendere il rischio di sovrappeso del 6 per cento per ogni mese in più. L’impatto dell’allattamento artificiale sulla probabilità di diventare sovrappeso non si limita all’infanzia. I bambini più grandi e gli adulti hanno probabilità maggiori di acquisire peso a seconda di come sono stati nutriti da neonati. L’obesità si accompagna spesso al diabete di tipo 2 e i bambini allattati artificialmente non rappresentano un’eccezione. Se si è nutriti solo con latte artificiale si hanno il 60 per cento di probabilità in più di contrarre il diabete da adulti. Proprio come per il taglio cesareo, molti dei rischi dell’allattamento artificiale hanno un nesso con le malattie del XXI secolo. Per i baby boomer, nati in un’epoca in cui il biberon era la norma, questi dati e queste cifre sono assolutamente tangibili. A metà degli anni Settanta l’allattamento al seno è tornato di moda, soprattutto tra le classi agiate e istruite. Forse è stato l’involontario impatto di aggressive campagne pubblicitarie da parte dei produttori di latte artificiale nei paesi in via di sviluppo ad aver condotto, sul finire degli anni Settanta, alla ripresa dell’allattamento al seno. In alcuni paesi i bambini nutriti con il latte artificiale hanno venticinque volte più probabilità di morire, soprattutto perché non si possono sterilizzare facilmente i biberon e le riserve d’acqua sono spesso contaminate di agenti patogeni. Man
mano che le donne europee e nordamericane si scagliavano contro i produttori di latte artificiale, l’allattamento al seno aumentava. Nel giro di un decennio, quasi il triplo delle madri aveva iniziato ad allattare i propri figli. Ma la generazione X e i millennials non sono esenti dai rischi recati dal biberon. Sebbene negli ultimi due decenni l’allattamento al seno nei paesi sviluppati abbia continuato ad aumentare, fino a circa il 65 per cento nel 1995 e all’80 per cento negli ultimi anni, i comportamenti connessi sono assai inferiori alle raccomandazioni ufficiali. Per il 20-25 per cento di bambini che non ricevono neppure un sorso di latte materno e un ulteriore 25 per cento che passa al latte artificiale nelle prime otto settimane, l’aumento dell’allattamento al seno non sarebbe di gran conforto. Anche tra quei bambini che vengono allattati al seno dopo la nascita, la metà inizia a ricevere un’integrazione artificiale entro la prima settimana. Negli Stati Uniti solo il 13 per cento delle madri segue le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che consiglia sei mesi di allattamento esclusivo, per poi proseguire l’allattamento integrandolo con adeguato cibo complementare fino a due anni e oltre. In Gran Bretagna solo l’1 per cento delle madri allatta ancora esclusivamente al seno il bambino quando raggiunge i sei mesi. Naturalmente l’allattamento è faticoso, soprattutto nei primi giorni e nelle prime settimane. Per alcune madri non c’è scelta, l’allattamento non è un’opzione, forse perché il piccolo non sta bene o esiste un reale problema di lattazione. Per altre sono la pressione economica e la mancanza di sostegno a dettare le scelte che devono compiere. Ma in quanto società, quando si tratta di nutrire i nostri bambini, forse abbiamo perso di vista ciò che è “normale”. Nelle società tradizionali preindustriali i bambini vengono allattati al seno più a lungo che in Occidente. Lo svezzamento avviene tipicamente intorno ai due, ai tre o ai quattro anni, e spesso coincide con l’arrivo di un altro figlio. La distorta prospettiva occidentale che si accompagna alla dichiarazione “al seno è meglio” (implicando che anche il biberon “va bene”) si estende all’approccio scientifico. Molti studi si chiedono: quali sono i benefici dell’allattamento al seno? E non: quali sono i rischi dell’allattamento artificiale? Statisticamente questo equivale a dire: come paragonare allattamento al seno e artificiale? Ma come osserva Alison Stuebe, professoressa associata di Medicina materno-fetale alla facoltà di Medicina della University of North Carolina, la prima domanda sottintende che l’allattamento al seno rappresenti una sorta di bonus per il bambino, un po’ come prendere un multivitaminico in una dieta comunque sana. La seconda domanda invece implica che il biberon sia una
faccenda rischiosa, un allontanamento dalla norma. L’allattamento al seno non è lo “standard aureo”, ma lo standard. Per le donne indecise su come nutrire i propri figli, la distinzione può rappresentare il vero discrimine rispetto alla scelta che compiono. Questa sottile differenza di espressione ha un impatto reale sull’interpretazione della gente nel dibattito su seno e biberon. Una ricerca condotta nel 2003 negli Stati Uniti ha rivelato che tre quarti degli individui non concordavano con l’affermazione: “Il latte artificiale è valido quanto quello materno.” Ma soltanto un quarto di loro concordava con l’affermazione: “Nutrire un bambino con il latte in polvere invece che con quello materno aumenta le probabilità che si ammali.” Sembra che non ci sia alcun legame tra quello che la gente pensa dei benefici del latte materno e delle conseguenze di non allattare al seno. In una campagna rivolta alle donne indecise sull’allattamento al seno, quelle che sono state informate sui “benefici del latte materno” erano meno propense a sceglierlo rispetto alle donne che avevano ricevuto la stessa informazione presentata però nell’ottica dei “rischi di non allattare al seno”. Le donne dovrebbero essere libere di scegliere come allevare i propri figli, ma nessuna madre dovrebbe compiere la propria scelta senza avere avuto accesso alle informazioni sull’impatto di ciascuna opzione, presentate con onestà. Oltre a sostenere le donne nei loro sforzi per allattare al seno e a rendere le informazioni più chiaramente e adeguatamente disponibili alle madri e agli operatori sanitari, i bambini trarrebbero beneficio dai miglioramenti qualitativi del latte artificiale. Attualmente soltanto una parte di essi contiene oligosaccaridi o batteri vivi. Il problema è che ottenere una miscela perfetta dei 130 tipi e includervi una sana comunità dei ceppi più benefici è oltre le nostre capacità. Tentare di farlo prima di conoscerne le conseguenze potrebbe fare più male che bene. Per i primi tre anni della vita di un bambino, il suo microbiota intestinale è altamente instabile. Le popolazioni di batteri vanno e vengono come se stessero contendendosi il territorio. Nuovi ceppi invadono, altri si ritirano. Nei primi anni di vita avviene un lento ma costante declino del numero di Bifidobacterium. I maggiori cambiamenti avvengono tra i nove i diciotto mesi, probabilmente in corrispondenza con l’introduzione di nuove varietà di cibo solido. In un esperimento si è osservato che l’introduzione di piselli e altri vegetali nella dieta di un bambino ha preceduto il mutamento da un microbiota dominato dai tipi Actinobacteria e Protebacteria a uno composto da Firmicutes e Bacteroidetes.
Questi profondi cambiamenti sono pietre miliari nello sviluppo del bambino. Tra i diciotto mesi e i tre anni il microbiota intestinale diventa sempre più simile a quello di un adulto e, con il trascorrere dei mesi, acquisisce stabilità e diversità. Con l’ingresso nel terzo anno di vita, le precedenti differenze nel microbiota causate dall’allattamento, al seno o al biberon, sono state ormai sommerse dai nuovi ceppi, raccolti da altra gente e da altri luoghi. I batteri dell’acido lattico, un tempo così abbondanti, diventano sempre più rari, mentre il microbiota si adatta a nuovi alimenti e nuove situazioni. Con il trascorrere del tempo i microbi dell’intestino assomigliano sempre meno a un microbiota vaginale e diventano sempre più simili al microbiota intestinale della madre. Tale madre, tale figlio; se lei ha un bosco di querce, così anche il suo bambino. Ciò avviene in parte perché vivono nella stessa casa, circondati dagli stessi microbi, e mangiano lo stesso cibo, ma è dovuto anche ai geni che condividono. Potrà sorprendere, ma il genoma ha un certo controllo sulle varietà di microbi che ospita. I geni che si occupano della programmazione del sistema immunitario hanno anche un influsso sulle specie batteriche a cui è permesso vivere nel nostro corpo. Poiché madre e figlio condividono più o meno la metà dei geni, un bambino può trarre beneficio dal possesso di un corrispondente apparato microbico. Dopotutto, nei primi minuti di vita, il sistema immunitario di un neonato se la deve vedere con una massiccia invasione di batteri, come non ne vedrà mai più. Il fatto che riesca persino a sopravvivere a quella che potrebbe essere considerata un’enorme infezione lascia intendere che è stato messo sull’avviso, geneticamente e immunologicamente. Avere una qualche intelligenza programmata su chi sono gli amici e chi i nemici probabilmente aiuterà per molto tempo il bambino ad affrontare l’assalto dei batteri vaginali della madre mentre scivola a testa avanti in un mondo pieno di microbi. La bellezza del microbioma è che, in modi in cui il genoma umano non potrà mai esserlo, è adattabile. Quando crescete, quando i vostri ormoni subiscono alti e bassi, quando provate cibi nuovi o visitate posti nuovi, i vostri microbi sfruttano al meglio la situazione. Cattiva alimentazione? Nessun problema, i vostri microbi vi aiuteranno a sintetizzare le vitamine mancanti. Carne alla griglia? Non preoccupatevi, i microbi detossificheranno i pezzetti bruciacchiati. Ormoni che cambiano? Va bene, i vostri microbi si adatteranno. Nell’età adulta il corpo ha bisogno di quantità diverse di vitamine e minerali rispetto a quando si era più giovani. I bambini piccoli, per esempio, hanno
bisogno di molto acido folico, ma non possono mangiare il cibo che lo contiene. Il loro microbioma, però, è pieno di geni che sintetizzano l’acido folico dal latte materno. Gli adulti non ne hanno così bisogno e ne assumono a sufficienza dall’alimentazione, perciò invece dei geni che sintetizzano quella vitamina, i loro microbi contengono geni che la scindono. Per la vitamina B12 è vero il contrario. Più invecchiate e più ne avete bisogno. Con il passare degli anni nel vostro microbioma aumenta il numero di geni che sintetizzano la B12 dal cibo. I vostri microbi non lo fanno per gentilezza, anche loro hanno bisogno di queste vitamine o dei loro precursori. Molti altri geni responsabili della sintesi o della scissione di molecole di cibo cambiano con gli anni, sfruttando al massimo l’alimentazione e affrontando i mutamenti del corpo. Anche le persone con cui vivete possono avere un grosso impatto sui microbi che portate con voi. Proprio come lasciate tracce della vostra presenza quando trascorrete del tempo in una casa – impronte digitali, orme, DNA caduto dai capelli e dalle cellule dell’epidermide – lasciate dietro di voi anche una firma microbica. Uno studio sugli individui e i microbi che risiedevano in sette abitazioni americane ha rivelato che era semplice capire a quale famiglia appartenesse ogni casa: bastava confrontare i microbi sulle mani, i piedi e il naso degli abitanti con quelli sui pavimenti, le superfici e le maniglie delle porte. Senza sorprese, i microbiota sul pavimento di cucina e camera da letto corrispondevano a quelli dei piedi dei membri della famiglia, e le comunità sui ripiani della cucina e sulle maniglie corrispondevano a quelle sulle mani. Durante lo studio tre famiglie hanno cambiato casa. Nel giro di pochi giorni le nuove case erano state colonizzate dai loro batteri, che avevano sostituito quelli dei precedenti abitanti. In realtà il contributo di un membro della famiglia al microbiota domestico è così dinamico che se qualcuno trascorresse anche un paio di giorni fuori casa la sua traccia microbica si dileguerebbe. Si potrebbe forse utilizzare il costante declino dell’ombra microbica di un individuo come una sorta di tabella di marcia degli eventi piuttosto affidabile anche per le indagini legali. La tecnologia del DNA ha cambiato totalmente le ricerche sulla scena del crimine, ma il nostro microbioma è persino più personale del genoma umano: immaginate quali segreti potrebbe rivelare. I membri della stessa famiglia tendono ad avere microbiota piuttosto simili tra loro e spesso i genitori condividono con i figli proprio gli stessi ceppi batterici. Se decidete di vivere con degli amici, o persino con degli estranei, potrebbe accadere che condividiate ben più del latte. In una delle abitazioni
comprese nello studio non viveva una famiglia ma tre individui senza alcun collegamento genetico. L’ambiente condiviso era sufficiente per causare una mescolanza dei microbiota. I tre coinquilini avevano molti microbi in comune, soprattutto sulle mani. Due di loro avevano una relazione e condividevano più microbi tra loro che con il terzo abitante. Nelle donne, gli alti e bassi ormonali su base mensile hanno talvolta un grosso impatto sulla composizione microbica del corpo. In molte il ciclo mestruale è collegato a un’improvvisa alterazione delle specie microbiche che vivono nella vagina, con popolazioni che si espandono e si contraggono in perfetta sincronia a ogni ciclo. In altre invece le alterazioni nella composizione del microbiota intestinale sembrano totalmente casuali e non mostrano alcun legame con il ciclo mestruale. Altre ancora hanno comunità quasi costanti, che non sembrano affatto influenzate dalle mestruazioni o dall’ovulazione. È interessante che in quelle donne le cui comunità procedono tra alti e bassi, l’attività dei ceppi e delle specie presenti spesso rimane la stessa. Un ceppo dominante di Lactobacillus che produce acido lattico potrebbe all’improvviso scomparire, per essere forse sostituito da un altro produttore di acido lattico, magari un ceppo amichevole di Streptococcus. Perciò, anche se le specie sono cambiate, i compiti svolti rimangono i medesimi. Ho detto prima che la composizione del microbiota vaginale di una donna cambia durante la gravidanza. Lo stesso avviene per quello intestinale. Durante la gravidanza il peso di una donna aumenta di circa 10-15 chili. A grandi linee queste cifre comprendono 3 chili di bambino e 5 di placenta, liquido amniotico e sangue. I restanti 3-7 chili sono di grasso. Nell’ultimo trimestre, se osserviamo gli indicatori metabolici di una donna incinta sembra di guardare quelli di chi soffre delle conseguenze dell’obesità sulla salute: grasso corporeo in eccesso, colesterolo alto, aumento dei livelli di glucosio nel sangue, resistenza all’insulina e indicatori di infiammazione possono accompagnare sia l’obesità sia la gravidanza. Ma mentre nell’obesità si tratta invariabilmente di indicatori di cattiva salute, nella gravidanza segnalano qualcosa di diverso. I cambiamenti nel metabolismo di una donna incinta – la sua capacità di trattare e immagazzinare energia – sono fondamentali. Lo strato in più di tessuto adiposo che acquisisce, anche se in realtà non è necessario “mangiare per due”, probabilmente fornisce al feto che si sviluppa una rete di sicurezza, assicurando che la madre abbia sufficiente energia per sostenerne la crescita. Significa anche che ha l’energia necessaria a produrre latte una volta che il bambino è nato.
Dopo aver scoperto le differenze tra il microbiota degli individui magri e obesi, Ruth Ley della Cornell University voleva sapere se i cambiamenti microbici alla base dell’obesità fossero anche responsabili delle alterazioni metaboliche tipiche della gravidanza. Insieme al suo gruppo ha studiato pertanto i microbi intestinali di novantuno donne nel corso di una gravidanza. Giunte al terzo trimestre, il loro microbiota era profondamente diverso da quello dei primi giorni. Era diventato molto meno eterogeneo e due gruppi – i Proteobacteria e gli Actinobacteria – erano diventati molto più abbondanti; si tratta di cambiamenti che ricordano quelli che nei roditori e negli esseri umani si accompagnano all’infiammazione. Come ho detto nel secondo capitolo, il trapianto del microbiota di un individuo obeso in topi privi di germi li porta ad acquisire velocemente grasso corporeo se paragonato al trapianto del microbiota di un individuo magro. Il trapianto rappresenta un modo efficace per dimostrare che i microbi sono responsabili dell’aumento di peso e non solo una sua conseguenza. Ruth Ley ha utilizzato lo stesso approccio con il microbiota delle donne nel terzo trimestre di gravidanza. Era la causa o la conseguenza di quei cambiamenti metabolici simili all’obesità? I topi privi di germi sottoposti a un trasferimento di microbi provenienti da donne al terzo trimestre di gravidanza hanno acquisito più peso, avevano livelli di glucosio più alti nel sangue e presentavano maggiore infiammazione dei topi a cui era stato trasferito un microbiota del primo trimestre. Queste alterazioni potevano contribuire a incamerare e trasferire risorse al bambino che si stava sviluppando. Dopo il parto il microbiota intestinale di una donna impiega un po’ di tempo per tornare alla normalità, e tuttavia avviene. Per adesso non si sa con precisione per quanto tempo i microbi della gravidanza rimangano nei paraggi, o che cosa li faccia nuovamente mutare, ma è affascinante pensare che possa esserne in qualche modo coinvolto l’allattamento al seno (e forse gli ormoni del travaglio). Gli effetti dell’allattamento al seno nello “smaltire il peso del bambino” sono ben noti, poiché probabilmente si esauriscono le calorie immagazzinate durante la gravidanza. Non si sa ancora se l’allattamento al seno inverta anche le alterazioni microbiche simili all’obesità tipiche della gravidanza, ma sappiamo che riduce i rischi di contrarre il diabete di tipo 2, di avere il colesterolo e la pressione alti oppure di incappare in un infarto in seguito. Sebbene sia influenzato dalla dieta, dagli ormoni, dai viaggi all’estero e dagli antibiotici, il microbiota intestinale è piuttosto stabile per tutta la vita adulta. La vecchiaia, però, oltre a dei cambiamenti nella salute, ne porta anche nella
comunità microbica. Se le cellule del corpo umano iniziano a mostrare i segni dell’età, così accade anche per i suoi passeggeri microbici. A livello individuale, naturalmente, ben poche cellule umane durano per tutta una vita, e la maggior parte di quelle microbiche resistono appena poche ore o alcuni giorni. Con il passare degli anni la colonia umana, intesa come superorganismo, inizia a funzionare meno efficacemente e a inciampare più spesso. Il sistema immunitario ne è in gran parte responsabile, poiché ha accumulato anticorpi per decenni. Con gli anni il sistema immunitario degli individui si fa più agitato. Il costante brusio dei messaggeri chimici pro-infiammatori che attraversano il corpo degli anziani ricorda il basso livello di infiammazione cronica riscontrata nelle malattie del XXI secolo. Denominata inflamm-ageing, questa caratteristica medica della terza età è strettamente legata alla salute. Non sorprende d’altro canto che sia anche legata alla composizione del microbiota intestinale. Gli individui anziani con un maggiore grado di infiammazione e una salute più debole hanno comunità intestinali meno eterogenee: sono meno le specie che tipicamente sopiscono il sistema immunitario e più quelle che lo irritano. Non è tuttora chiaro se l’età comporti infiammazione, e l’infiammazione comporti alterazioni al microbiota, oppure se siano i cambiamenti del microbiota dovuti all’età a provocare l’infiammazione. Ma poiché l’alimentazione nella vecchiaia riveste un ruolo di rilievo nel modellare la comunità microbica, è probabile che il microbiota rappresenti un elemento importante nel processo d’invecchiamento. Siamo agli inizi, ma alcuni scienziati sono eccitati alla possibilità di mantenere gli individui sani più a lungo, o persino di estendere la durata della vita umana, alterando il microbiota intestinale degli anziani. La nostra colonia di microbi ci accompagna dal primo all’ultimo respiro. Man mano che il corpo cresce e si modifica, il microbioma si adatta, offrendoci un’estensione del genoma che si regola nel giro di qualche ora per adeguarsi al meglio ai nostri bisogni, e ai propri. Se tutto va bene, i microbi di una madre faranno al bambino il regalo migliore che possa desiderare. Le scelte dei nostri genitori vivono insieme noi, più o meno letteralmente, mentre impariamo a camminare, a parlare e a prenderci cura di noi stessi. Da adulti, la responsabilità di accudire tutte le cellule del nostro corpo, sia umane sia microbiche, ricade su di noi. Da madri, le donne trasferiscono non solo i propri geni, ma anche quelli di centinaia di batteri. La lotteria genetica della vita ha un elemento legato al caso, ma anche uno legato alla scelta. Più ci rendiamo conto dell’importanza e delle conseguenze di un parto naturale e di un prolungato ed esclusivo
allattamento al seno, piĂš saremo in grado di dare a noi stessi e ai nostri figli le migliori opportunitĂ di vivere sani e felici.
8. Il ripristino dei microbi
La sera del 29 novembre 2006 la consulente trentacinquenne Peggy Kan Hai, mentre guidava sotto la pioggia per incontrare un cliente sull’isola di Maui, alle Hawaii, si è scontrata con un motociclista che viaggiava a 260 km/h. È rimasta intrappolata nell’auto accartocciata, con il sangue che le usciva dalla testa e dalla bocca, e a tratti perdeva conoscenza. Il ragazzo che le era andato addosso aveva perso la vita sulla strada, tra i rottami della sua motocicletta. Nel 2011, dopo cinque anni di interventi chirurgici per curare le lesioni alla testa e alle gambe, il piede sinistro di Peggy, gravemente ferito, è andato in necrosi. Poiché se l’infezione si fosse diffusa la donna avrebbe rischiato la vita, non ha avuto altra scelta che farsi amputare parzialmente il piede e unire le ossa della caviglia. Tre giorni dopo l’intervento Peggy si è ammalata gravemente, aveva vomito e diarrea. Il giorno successivo l’infermiera, preoccupata, ha convocato il chirurgo, il quale era certo che si trattasse di una semplice reazione ai farmaci – anestetici, antibiotici e antidolorifici – che le erano stati somministrati, e l’ha dimessa quella sera con delle medicine diverse. Qualche settimana dopo Peggy ha smesso di prenderle, malgrado il dolore al piede, nella speranza di stare meglio. Ma non è andata così. La mattina successiva ha segnato l’inizio di due mesi con una diarrea talmente grave da arrivare anche a trenta episodi al giorno. Peggy ha perso il 20 per cento del peso corporeo, le sono caduti i capelli, soffriva di tremori e aveva la vista appannata. Secondo il medico si trattava dei consueti sintomi di astinenza da oppiacei, poi ha optato per la sindrome dell’intestino irritabile o forse un reflusso gastrico. Peggy rifiutava i farmaci contro la diarrea, perché era certa che soffocare la causa della sua malattia non avrebbe fatto altro che peggiorarla. Diversi mesi dopo è stata mandata da un gastroenterologo dell’ospedale in cui era stata operata. A seguito di una colonscopia (un’ispezione dell’interno del colon con una piccola videocamera) ecco la spiegazione della tremenda diarrea di Peggy: aveva il Clostridium difficile. Si tratta del batterio particolarmente maligno di cui ho parlato nel quarto capitolo e che può provocare un’infezione gravissima, rischiosa per la vita
stessa. Si annida con tenacia negli ospedali e nell’intestino sano degli esseri umani e si serve di un paio di trucchetti che gli danno un indubbio vantaggio sugli altri microbi e sugli addetti alle pulizie degli ospedali. Tanto per incominciare, negli ultimi decenni si è evoluto un nuovo ceppo del batterio, sia più resistente sia più pericoloso delle versioni precedenti. Probabilmente si è trattato della risposta del Clostridium difficile all’attuale corsa agli armamenti degli antibiotici che scagliamo contro di lui e i suoi cugini. Al momento il batterio è in vantaggio. L’altro trucchetto lo condivide con almeno un terzo dei batteri che vivono nell’intestino e anche con molti agenti patogeni: può formare delle spore. Come un armadillo impaurito e raggomitolato nella sua corazza, si rinchiude in uno spesso strato protettivo per sopravvivere quando i tempi si fanno difficili. Detergenti antibatterici, acidi dello stomaco, antibiotici e picchi di febbre scivolano addosso alle spore, permettendo loro di resistere finché il pericolo è passato. La situazione di Peggy era tipica. Le avevano somministrato degli antibiotici durante l’operazione al piede e poi aveva trascorso diversi giorni in ospedale, cioè una roccaforte del Clostridium difficile. I farmaci, oltre a proteggerla dall’infezione alla ferita, avevano disturbato il suo microbiota intestinale, rendendola vulnerabile all’invasione del batterio, che come un’erbaccia si era diffuso nel territorio del suo intestino prima che lo strato protettivo di microbi benefici riuscisse a ristabilire le proprie colonie. Il gastroenterologo ha prescritto a Peggy cicli su cicli di antibiotici ad alto dosaggio per liberarla dall’infezione di Clostridium difficile, ma lui teneva duro e lei non faceva che aggravarsi. La vista e l’udito di Peggy peggioravano e il suo peso calava pericolosamente, perciò lei e il marito si sono resi conto che per ripristinare i suoi microbi intestinali ed espellere il Clostridium difficile era necessaria un’azione drastica. La domanda era: quale? Il dilemma di Peggy Kan Hai non riguarda solo gli ammalati di Clostridium difficile. L’interrogativo su come sconfiggere la malattia e reintegrare una colonia sana di amici microbi è rilevante per molti altri soggetti che hanno disturbi all’apparato digerente e patologie che si sviluppano in un ecosistema microbico danneggiato. Indubbiamente per mantenere sano il microbiota è fondamentale seguire una dieta sana ed evitare antibiotici non necessari, ma che cosa fare se la colonia è già stata decimata? Che fare se alcune specie fondamentali sono da tempo scomparse e gli opportunisti ne hanno preso il posto? Che fare se il sistema immunitario non capisce più chi siano i nemici e
chi gli alleati? Prendersi cura delle rovine di una comunità microbica un tempo prospera può servire a poco, un po’ come innaffiare i ramoscelli marroni e rinsecchiti di una pianta accanto a una casa abbandonata. Talvolta l’unica opzione è ricominciare: preparare il terreno e spargere nuovi semi. Nel 1908 Il’ja Il’ič Mečnikov pubblicò un libro il cui titolo mostrava una positività insolita per il biologo russo. Lo scienziato infatti aveva tentato due volte il suicidio, la prima con un’overdose d’oppio e la seconda infettandosi deliberatamente con una febbre ricorrente nel tentativo di diventare un martire della scienza. Tuttavia il suo terzo libro, The Prolongation of Life: Optimistic Studies, non si occupava dell’accelerazione della morte, ma del suo rinvio. Forse rappresentava il tentativo di risollevare il suo senescente spirito mentre si avvicinava al confronto finale, e questa volta inevitabile, con la sua stessa mortalità. Mečnikov, che aveva vinto il Nobel per i suoi studi sul sistema immunitario nello stesso anno in cui venne pubblicato il libro, condivideva con il suo antico predecessore, Ippocrate, l’idea che la morte risiedesse nell’intestino. Dalla sua prospettiva relativamente moderna e illuminata, sospettava che fossero i microbi dell’intestino, da poco scoperti, la vera sede della senilità. Leggere il trattato di Mečnikov dalla vetta metodologica della scienza del XXI secolo è un’esperienza allarmante e in certi casi divertente. Sebbene la sua ipotesi sia interessante, scarseggia di prove e contiene vere perle pseudocorrelative, come l’idea che i pipistrelli siano privi di intestino crasso, abbiano pochissimi microbi e tuttavia vivano molto più a lungo di altri piccoli mammiferi. È la presenza dei microbi, ipotizza, e dell’intestino crasso che li ospita, che conduce a una morte prematura i mammiferi più densamente infestati. E allora perché esiste l’intestino crasso?, rifletteva lo scienziato. “Per rispondere a questa domanda, ho formulato la teoria che l’intestino crasso si sia ingrandito nei mammiferi affinché fosse possibile a questi animali percorrere lunghe distanze senza doversi fermare a defecare. L’organo, allora, avrebbe semplicemente la funzione di deposito della materia di scarto.” Mečnikov non era l’unico a pensare che i microbi intestinali portassero alla cattiva salute. Tra medici e scienziati stava circolando un’importante nuova ipotesi sulla causa di molteplici malattie, sia fisiche sia mentali. Denominata “autointossicazione”, aveva a fondamento l’idea che il colon fosse, secondo le parole di un medico francese, “un ricettacolo e una fabbrica di veleni”. Si pensava che i batteri intestinali si limitassero a decomporre i resti di cibo e a creare tossine che provocavano non solo diarrea e stipsi, ma anche
affaticamento, depressione e comportamenti nevrotici. Nei casi di mania o grave melancolia si prescriveva spesso la rimozione del colon, conosciuta come procedura di “corto circuito”. Malgrado una percentuale di decessi spaventosamente alta e un enorme impatto sulla qualità della vita, questo intervento radicale era considerato assai utile dai medici dell’epoca. Lungi da me criticare il grado di aderenza al metodo scientifico di un Nobel, ma le scorribande di Mečnikov nella microbiologia intestinale, almeno in questo libro, a stento rispettavano ragionevoli standard di replicabilità, comparazione di controllo o preoccupazioni sul rapporto causa-effetto. La sua maturità scientifica coincideva con un periodo storico in cui gli studiosi di medicina erano in fermento per via delle strade di ricerca aperte dalla teoria dei germi di Louis Pasteur. Fiorivano le ipotesi e si dedicava poco tempo o energia mentale allo studio paziente, alla sperimentazione o alla costruzione delle prove prima che la nuova schiera di microbiologi della medicina zompasse scodinzolando dietro alle nuove idee. Nondimeno all’inizio del XX secolo i mezzi di informazione, il pubblico e un sacco di ciarlatani saltarono sul carro dell’autointossicazione. Oltre a infliggere un’operazione al colon, spuntarono un altro paio di terapie contro i batteri nocivi. Una era l’irrigazione del colon, ancora oggi proposta da alcuni cosiddetti stabilimenti medico-termali e vista non tanto di buon occhio dalla comunità medica. L’altra consisteva nell’ingerire quotidianamente una dose di batteri buoni, quelli che adesso si chiamano probiotici. Le riflessioni di Mečnikov sul prolungamento della vita umana erano ispirate a una teoria attribuita a uno studente bulgaro: correva voce che tra i contadini bulgari ci fossero molti centenari, e il segreto della lunga vita era che bevevano tutti i giorni del latte acido, ovvero dello yogurt. Naturalmente il gusto acido del latte fermentato proveniva dall’acido lattico prodotto quando i batteri, definiti da Mečnikov “bacillo bulgaro”, facevano fermentare il lattosio, cioè lo zucchero del latte. Adesso questo ceppo batterico è classificato come Lactobacillus delbrueckii sottospecie bulgaricus, anche se ci si riferisce spesso solo come Lactobacillus bulgaricus. Mečnikov credeva che questi batteri dell’acido lattico disinfettassero l’intestino, uccidendo i microbi nocivi, forieri della senilità e della morte. Ben presto nei negozi comparvero compresse e bevande contenenti Lactobacillus bulgaricus e un altro ceppo, il Lactobacillus acidophilus. Le riviste mediche e i quotidiani erano pieni di pubblicità che dichiaravano gli incredibili risultati. “Gli esiti sono nientemeno che straordinari. Non solo
scaccerà la depressione fisica e mentale, ma tutto il sistema sarà pervaso da una nuova vitalità” dichiarava un’azienda produttrice. L’autointossicazione venne presto ampiamente accettata dai medici e dal pubblico e nei primi decenni del XX secolo l’industria dei probiotici spiccò il volo. Ma la parabola fu breve. La teoria dell’autointossicazione era un castello di carte scientifico, su cui riposava un’industria dei probiotici sempre più sbilanciata. Ciascuno dei livelli di ipotesi interconnesse che formavano questa struttura aveva un senso, ma le prove che avrebbero dovuto cementare il tutto si limitavano a vaghi accenni. Proprio come accadde per la promettente e nuova ricerca sul ruolo dei microbi patogeni nelle gravi malattie mentali, sarebbero stati Freud e i suoi seguaci a far cadere tutta la costruzione, che sarebbe stata ironicamente rimpiazzata da un castello di carte assai più deleterio, sotto forma di psicoanalisi e di complesso di Edipo. Un medico californiano di nome Walter Alvarez ebbe un ruolo chiave nel rovesciare la teoria dell’autointossicazione. Utilizzando poche prove in più rispetto a quelle che supportavano le idee sui microbi di Mečnikov, Alvarez sposava in pieno la teoria psicoanalitica. Bollava come psicopatici tutti i pazienti che sollevavano l’idea dell’autointossicazione e dopo un primo consulto li congedava. Invece che assumere una prospettiva medica, tendeva a formulare la diagnosi a partire dal carattere e dall’aspetto dei pazienti. Secondo Alvarez, per esempio, bisognava ricercare le donne che soffrivano di emicrania tra quelle che avevano una figura piccola e slanciata, con il seno ben proporzionato. Consigliava ai colleghi medici di fare attenzione a queste donne e controllare pertanto i loro sintomi. Persino il più semplice disturbo gastrointestinale – la stipsi – non veniva più considerato dai medici dell’epoca una conseguenza di microbi molesti, ma un caso di ipocondria cronica unita a fissazioni anoerotiche. In quegli anni la scienza dell’autointossicazione mancava indubbiamente di rigore, soprattutto perché i microbiologi erano privi di strumenti adeguati. Nondimeno, tra ciarlatani, detergenti per il colon e yogurt di dubbia origine microbica c’erano alcune buone idee. È stato soltanto nel 2003 che, grazie a un coraggioso gruppo di scienziati, si è ridiscusso il valore dei probiotici nelle patologie mentali. Ma ormai c’erano la tecnologia per il sequenziamento del DNA, un sistema di valutazione indipendente e un ambiente scientifico libero dalle nubi dei sensi di colpa del pensiero freudiano. I probiotici, dunque, malgrado fossero riusciti a restare sugli scaffali dei supermercati sia sotto forma di cibo che di compresse, non sono rientrati nella
consapevolezza scientifica se non di recente. L’industria che li produce è di nuovo in crescita e ci sono una manciata di marchi famosi. Senza in realtà promettere niente, i produttori dei vasetti di yogurt utilizzano intelligenti strategie di marketing per suggerire che se ogni mattina vi scolate un paio di bevande arricchite con Lactobacillus vi sentirete più vivaci, svegli e freschi, meno gonfi, più attivi, felici e sani. I marchi si fanno concorrenza sui ceppi che i rispettivi prodotti contengono e sugli ipotetici benefici. Le richieste di brevetto sostengono il diritto di produrre e commercializzare le particolari combinazioni di geni e di ceppi che conferiscono a ogni varietà di probiotico i propri particolari poteri. Lactobacillus rhamnosus più Propionibacterium, per esempio, per scacciare l’Escherichia coli 0157. Oppure Lactobacillus unito a “dialchil isosorbide” per combattere l’acne. E che dire di una lavanda vaginale composta da nove specie di Lactobacillus e due di Bifidobacterium per tenere sotto controllo uno squilibrio del pH? E di una variante genetica molto specifica del Lactobacillus paracasei rivolta alle donne incinte per prevenire le allergie nel futuro bambino? Tutto molto bene ma, malgrado le richieste di brevetto, le norme che regolamentano i farmaci nella maggior parte dei paesi attualmente non permettono che i prodotti che contengono batteri diano indicazioni sanitarie. Quelli che una volta erano soltanto alimenti fermentati e integratori dietetici iniziano ora ad assomigliare ambiguamente a medicine, grazie alla ricerca scientifica sui benefici per la salute apportati dai batteri vivi che contengono. Naturalmente se le specie di Lactobacillus riescono davvero a prevenire le infezioni di Escherichia coli, a curare l’acne e a prevenire le allergie, i produttori di yogurt desiderano che i clienti lo sappiano. I veri farmaci però devono superare una costosa serie di esperimenti clinici prima di poter essere ammessi sul mercato, perché, almeno in teoria, le case farmaceutiche devono accertarsi che le loro medicine siano efficaci e al contempo sicure. Ovviamente mangiare dello yogurt non comporta rischi, ma che dire dell’efficacia? I probiotici riescono davvero a farvi stare meglio ed essere più felici? Tecnicamente la risposta è un clamoroso sì, ma questo perché l’autentica definizione di probiotici, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è che sono “microrganismi vivi che, quando vengono somministrati in dosi adeguate, apportano un beneficio per la salute del soggetto”. Chiedere: “I probiotici funzionano davvero?” è una domanda tautologica. La vera domanda, invece, è: quali batteri e in che quantità possono prevenire, curare o guarire le malattie? Vorrei impressionarvi con storie di miracolose guarigioni causate da niente
più che un vasetto di yogurt o una colonia di amichevoli batteri liofilizzati. Mi piacerebbe raccontarvi che il Lactobacillus inventedus curerà la febbre da fieno di vostro figlio e che il Bifidobacterium fantasium vi aiuterà a perdere peso. Ma naturalmente non è così semplice. Nel vostro intestino ci sono 100 trilioni di microbi. 100.000.000.000.000. Più o meno 1500 volte il numero di esseri umani che vivono sul pianeta, tutti accalcati nella vostra pancia. Tra questi 100 trilioni di microbi ci sono forse 2000 specie differenti, ovvero dieci volte più specie di quante siano le nazionalità degli uomini. E all’interno di quelle 2000 specie vi sono innumerevoli ceppi diversi, tutti con un arsenale di competenze genetiche differenti. Certo, dalla vostra prospettiva sono in gran parte “amichevoli”, ma tra loro non si dimostrano sempre altrettanto socievoli. Le popolazioni si contendono lo spazio, cacciando gli oppositori più deboli. Le specie difendono il proprio territorio con la guerra chimica, uccidendo chi osa invaderlo. Gli individui lottano per i nutrienti, sviluppando code per spingersi in territori più ricchi. Adesso immaginate di versare in questi calanchi un vasetto di yogurt. Immaginate il gruppetto di turisti che nuota tra il latte e lo zucchero del loro mezzo di trasporto. Sono più o meno una decina di miliardi, in cerca di un posto in cui stabilirsi. Potrebbero sembrare tanti, ma hanno quattro zeri in meno rispetto alla popolazione residente. Un esercito non certo impressionante da affrontare in un simile campo di battaglia. Come cuccioli di tartaruga che si avventurano per la prima volta nella vastità dell’oceano, molti vengono abbattuti durante i primi tuffi di libertà dal loro vasetto di plastica. Per coloro che raggiungono l’intestino – e certamente possono farcela – la sfida è aprire bottega e guadagnarsi dignitosamente da vivere. Cosa non certo facile in un’area già affollata e non particolarmente accogliente. Non solo sono in netta minoranza, ma l’insieme di competenze di questi coraggiosi turisti è piuttosto limitato. Appartengono tutti allo stesso ceppo batterico, con gli stessi geni e pertanto con gli stessi mezzi. Paragonati alle oltre 2000 specie che il vostro intestino contiene e ai loro due milioni e passa di geni, i turisti, probiotici o meno che siano, hanno un repertorio limitato di trucchi da estrarre dal cilindro. In definitiva, la portata dei particolari stratagemmi sulla salute degli ospitanti – cioè noi! – conta tanto quanto gli ostacoli sul cammino per portare i benefici impliciti nel loro status di probiotici. Prima che mi facciano causa, però, lasciatemi dire che cosa hanno da offrire questi turisti che riescono a restare lì per un po’ e in numero sufficientemente elevato da avere effetto. Non parlo soltanto di yogurt, qui, ma di compresse,
barrette, bustine e bevande di aspetto più medico che contengono batteri vivi, talvolta più di una specie. Iniziamo dall’aspettativa più semplice che potreste avere rispetto a un probiotico, e cioè che compensi gli effetti collaterali più spiacevoli degli antibiotici. La decimazione tra le fila del microbiota è spesso la conseguenza involontaria del tentativo di eliminare un microbo con gli antibiotici. Per molti individui – circa il 30 per cento dei pazienti – l’esito della dissipazione microbica è una diarrea che viene definita “diarrea associata ad antibiotici” e che di norma scompare una volta che il ciclo terapeutico è terminato, a meno che non siate così sfortunati da contrarre il Clostridium difficile o qualcosa di simile, come è accaduto a Peggy Hai dopo l’intervento chirurgico al piede. Se è semplicemente la perdita dei batteri buoni a scatenare la diarrea, sostituirli immediatamente con altri batteri buoni dovrebbe far cessare i sintomi, o per lo meno migliorare la situazione. E così accade. Non è un grande atto di fede credere che in 63 validi esperimenti clinici, che hanno coinvolto un numero di individui vicino ai 12.000 partecipanti, si è osservato che i probiotici riducono in maniera significativa le probabilità di contrarre una diarrea associata ad antibiotici. Dei 30 individui su 100 che normalmente soffrirebbero di diarrea, soltanto 17 la prenderanno comunque, pur assumendo dei probiotici. Non è facile stabilire con precisione quali batteri siano più efficaci e in che dose, ma è abbastanza probabile che ci siano degli antibiotici che più comunemente provocano la diarrea, pertanto sapere quali sono potrebbe portare a una prescrizione che comprende il probiotico, evitando in tal modo l’effetto collaterale. Si tratta di un valido impiego dei probiotici, se pensiamo che 8 milioni di americani in questo momento stanno prendendo degli antibiotici, che oltre due milioni di loro stanno soffrendo probabilmente di diarrea e che quasi 1 milione la eviterebbe se avesse a disposizione i probiotici adeguati. I probiotici inoltre possono rivelarsi importanti per i neonati. Talvolta quando i bambini nascono prematuramente il loro intestino inizia a morire, ma se somministriamo loro dei probiotici in via preventiva riduciamo del 60 per cento il rischio di decesso. Nei neonati e nei bambini affetti da diarrea infettiva, i probiotici – in particolare un ceppo conosciuto come Lactobacillus rhamnosus GG – hanno ridotto la durata della malattia. Ma che cosa dire delle malattie più complesse? Delle patologie ormai radicate? Riguardo ai disturbi mentali e alle malattie autoimmuni già sviluppate, come il diabete di tipo 1, la sclerosi multipla e l’autismo, il problema dei
probiotici è che probabilmente è troppo poco, ed è troppo tardi. Le cellule del pancreas che rilasciano insulina hanno già chiuso bottega, quelle nervose sono state ormai spogliate della loro guaina e le cellule cerebrali che si stanno sviluppando sono state danneggiate. Nel caso delle allergie, anche se non viene distrutta alcuna cellula, il sistema immunitario è già fuori controllo. Riportarlo sulla retta via può essere tanto difficile quanto risvegliare le cellule del pancreas o rivestire i nervi. Alcuni studi reali, sensati e verificati a livello scientifico hanno rivelato che i probiotici di determinate marche, specie e ceppi possono effettivamente rendervi più sani e più felici: migliorano l’umore, alleviano l’eczema e la febbre da fieno, alleggeriscono i sintomi della sindrome dell’intestino irritabile, prevengono il diabete in gravidanza, curano le allergie e favoriscono persino la perdita di peso. Questi disturbi, anche se non vengono curati tutti insieme, almeno non con qualche settimana o qualche mese di terapia a base di probiotici, qualche beneficio lo portano. Per constatare gli autentici effetti di queste sostanze, comunque, la prevenzione si sta certamente dimostrando migliore della cura. Prendete per esempio questo esperimento con i topi. Esiste una razza che, a causa di un capriccio genetico, quando raggiunge l’età adulta sviluppa quasi per certo una patologia equivalente al diabete di tipo 1. Se però somministrate a questi topi il VSL#3 – un probiotico composto da 450 miliardi di batteri di otto ceppi diversi – ogni giorno per quattro settimane dalla nascita, questo “destino” genetico si riduce. Mentre l’81 per cento dei topi a cui era stato somministrato un placebo a trentadue settimane avevano contratto il diabete, solo il 21 per cento di coloro che avevano ricevuto il VSL#3 si erano ammalati, mentre i tre quarti erano stati protetti da quella quasi inevitabile autoimmunità grazie a una singola dose quotidiana di batteri vivi. Iniziare la somministrazione di VSL#3 un po’ più tardi nella vita dei topi, a dieci settimane, ha rivelato che è meglio tardi che mai. A trentadue settimane circa il 75 per cento dei topi curati con un placebo erano diabetici, ma si era ammalato soltanto il 55 per cento di quelli a cui era stato somministrato il probiotico. Non certo un risultato eclatante quanto quello delle quattro settimane di età, ma comunque una significativa riduzione dei casi di diabete. Le centinaia di miliardi di batteri del VSL#3, che si dice contenga più individui e più specie di qualsiasi altro prodotto probiotico in commercio, sta in qualche modo alterando il processo della malattia diabetica in questi topi geneticamente soggetti. Normalmente il sistema immunitario si rivolterebbe contro le cellule del pancreas che producono insulina, ma questi batteri
sembrano impedirlo. A quanto pare il sistema immunitario dei topi trattati con VSL#3 mette insieme una squadra di globuli bianchi che marciano fino al pancreas, dove producono un messaggero chimico anti-infiammatorio che previene la distruzione delle cellule pancreatiche. È una faccenda che fa riflettere: forse un ciclo di probiotici programmato con criterio potrebbe fermare queste malattie prima ancora che attacchino gli esseri umani? È in corso un esperimento per testare proprio questa ipotesi, ma ne conosceremo i risultati soltanto tra un bel po’ di tempo. Per far bene alla salute i probiotici sostanzialmente devono influire in qualche modo sui meccanismi del sistema immunitario. Ritornando al fondamento delle malattie del XXI secolo, se i probiotici hanno un vero valore devono riuscire a sconfiggere l’infiammazione che affligge il nostro corpo. Ricordate le cellule T regolatorie (Treg) del quarto capitolo? Esse rappresentavano i generali di brigata del sistema immunitario, che sopivano le cellule soldato assetate di sangue quando non c’era niente da attaccare. Sostanzialmente questi generali sono controllati dal microbiota, che recluta una maggiore quantità di valide Treg per impedire al sistema immunitario di sferrare un attacco contro di lui. I probiotici imitano questo effetto, spingendo le Treg esistenti a sopprimere i membri ribelli tra le fila del sistema immunitario. Ancora una volta, il VSL#3 ha un effetto benefico sui topi, diminuendo la permeabilità dell’intestino che sembra essere al contempo causa e conseguenza dell’infiammazione. Ci sono tre elementi importanti che concernono i probiotici. Primo: quali specie e ceppi contiene un prodotto? Spesso non sono specificati in dettaglio, oppure non corrispondono al reale contenuto nel momento in cui viene fatta una coltura o vengono sequenziati. Probabilmente più sono le specie e meglio è, anche se sappiamo ben poco sull’impatto dei differenti ceppi sul corpo umano. Secondo: quanti batteri individuali, o quante “unità che formano colonie” (UFC) contiene un prodotto? Il che riporta alla competizione che i turisti si ritrovano ad affrontare durante il viaggio nell’intestino. Più UFC, più probabilità che ci sia un effetto. Terzo: come sono confezionati i batteri? I probiotici vengono offerti in molte forme: bustine, compresse, barrette, yogurt, bevande e persino creme e detergenti per la pelle. Alcuni sono mescolati ad altri integratori, per esempio multivitaminici. Ma non si conoscono gli effetti di queste preparazioni sui batteri. Molti probiotici sotto forma di yogurt sono accompagnati da una ragionevole dose di zucchero, che potrebbe anche renderli più malsani che benefici.
Il primo di questi punti – le specie e i ceppi – è probabilmente il più controverso. Il lascito di Mečnikov sopravvive in molti dei ceppi che vengono consuetamente commercializzati come probiotici. I membri del genere Lactobacillus, per quanto validi nella produzione dello yogurt, non sono così numerosi nell’intestino degli esseri umani adulti. Prosperano in quello dei bambini partoriti naturalmente e allattati al seno, d’accordo, ma una volta che hanno portato a termine il proprio compito il loro numero diminuisce fino a meno dell’1 per cento della comunità batterica intestinale complessiva. I lattobacilli sono partiti in vantaggio nell’industria probiotica soprattutto per un motivo: possono essere allevati. Poiché contrariamente alla maggior parte dei membri del microbiota intestinale sopravvivono in presenza d’ossigeno, è relativamente facile farli crescere sulle piastre di Petri o, per meglio dire, in un contenitore di latte tiepido. Il che significa che nei primi studi sulla flora batterica umana erano sovrarappresentati. Se i probiotici avessero spiccato il volo nel nuovo e coraggioso mondo del sequenziamento del DNA e delle colture anaerobiche (senza ossigeno), è piuttosto improbabile che avremmo considerato i lattobacilli il gruppo più adatto per fortificare le nostre diverse colonie. I probiotici hanno il loro perché, ma se vi trovaste voi nella situazione di Peggy Kan Hai? Con il peso che scendeva in picchiata e senza un antibiotico che funzionasse, era disperata. La preoccupava il rischio di contrarre il “megacolon tossico”; il colon poteva effettivamente esplodere, rilasciando il contenuto nell’addome. E se fosse accaduto, le probabilità di decesso erano spaventosamente alte. L’anno precedente in America erano morte circa 30.000 persone per l’infezione di Clostridium difficile – molte più di quante ne muoiano di AIDS, per dire – e Peggy non voleva essere dei loro. C’era un’altra opzione di cura. Peggy aveva saputo da un amico, la cui sorella faceva l’infermiera d’ospedale, che ad alcuni pazienti con diarrea incurabile veniva proposta una nuova terapia, disponibile solo in una manciata di ospedali in tutto il mondo, che a quanto pareva migliorava le loro condizioni. Peggy avrebbe tentato qualunque cosa, perciò dopo qualche telefonata a uno di questi ospedali si è messa a prenotare dei voli dalle Hawaii alla California per la terapia. Il marito l’avrebbe accompagnata, e non solo per darle sostegno morale. Sarebbe stato lui a dare a Peggy ciò di cui aveva un disperato bisogno: un nuovo apparato di microbi intestinali. Che questi microbi sarebbero stati trovati nelle sue feci non ha dissuaso nessuno dei due: era l’unica opzione rimasta. Si chiama trapianto di microbiota fecale, o batterioterapia oppure, il nome che preferisco, transposion, ed è proprio quello che pensate. Si prendono le feci
di un individuo e si trasferiscono nell’intestino di un altro individuo. Sembra disgustoso, ma non siamo la prima specie ad aver avuto l’idea. Altri animali, dalle lucertole agli elefanti, talvolta si abbandonano alla coprofagia. Per alcuni, come i conigli e i roditori, mangiare le proprie feci è un aspetto fondamentale dell’alimentazione, perché permette loro di avere un secondo accesso ai nutrienti intrappolati all’interno delle cellule vegetali una volta che i microbi intestinali le hanno schiuse. E non si tratta certo di un contributo insignificante al loro apporto calorico. I ratti crescono solo di tre quarti rispetto alla norma se viene loro impedito di mangiare la propria pupù. In altre specie, però, la coprofagia è piuttosto insolita e viene spesso bollata dagli zoologi come “comportamento abnorme”. Si è osservato per esempio che le matriarche dei branchi di elefanti producono degli escrementi acquosi, affinché i membri più giovani possano a quanto pare raccoglierli con la proboscide e mangiarli. Anche gli scimpanzé si cibano delle reciproche feci. Secondo l’autorevole zoologa Dame Jane Goodall – i cui appassionati studi sugli scimpanzé del Gombe Stream National Park in Tanzania hanno rivoluzionato le nostre conoscenze sul comportamento di questi animali – alcuni scimpanzé selvatici diventano coprofagi quando soffrono di diarrea. Troppa frutta appena maturata nella foresta può portare a uno scoppio di diarrea prima che il microbiota intestinale degli scimpanzé si adatti alla nuova fonte di cibo. Un soggetto studiato da Goodall, una femmina chiamata Pallas, ha sofferto per dieci anni di diarrea cronica ricorrente. Ogni volta che le tornava, lei diventava coprofaga. Dalla nostra nuova prospettiva microbica, siamo tentati di ipotizzare che sfruttasse le feci di scimpanzé sani per ripristinare il proprio equilibrio microbico. Forse gli scimpanzé che soffrono dopo essersi abbuffati di un nuovo tipo di frutti sono coprofagi perché in tal modo riescono ad acquisire microbi da altri membri del gruppo che hanno già affrontato più cicli di fruttificazione rispetto a loro, e i microbi sono lì a dimostrarlo. Pur trattandosi di un fenomeno raro allo stato naturale, gli animali dello zoo sono particolarmente interessati alla coprofagia, con gran diletto dei bambini e disappunto dei guardiani. La pratica viene spesso attribuita alla noia, insieme ai comportamenti ripetitivi come dondolarsi, camminare avanti e indietro e pulirsi ossessivamente. Uno psichiatra abituato ad avere a che fare con soggetti autistici, affetti da sindrome di Tourette e disturbo ossessivo-compulsivo, potrebbe notare alcune somiglianze comportamentali tra i suoi pazienti e gli animali in cattività. Non ultima la fascinazione per le feci – sia il mangiarle sia imbrattare – dimostrata dai bambini gravemente autistici, dagli schizofrenici e
dai pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo. Secondo l’interpretazione freudiana il comportamento ripetitivo e coprofago sia degli animali sia dei pazienti potrebbe rientrare in un’alienazione genitoriale o in una frustrazione psicosessuale. La psicologia, però, dà un’interpretazione che non esclude affatto il microbiota: quale modo migliore di correggere un microbiota aberrante, che produce un comportamento ripetitivo, che consumare feci di un altro e più sano individuo? La coprofagia, allora, non sarebbe un comportamento abnorme, ma adattivo: un animale malato sta cercando di correggere la propria disbiosi. In effetti, negli esperimenti, se si offrono delle foglie fibrose agli scimpanzé in cattività si riduce il loro comportamento coprofago. Gli animali a dire il vero non mangiano le foglie, ma le succhiano e le infilano sotto la lingua. È solo un’ipotesi, ma forse ne assorbono lo strato di batteri il cui compito consiste nel digerire quelle foglie. In tal modo possono seminare nel proprio microbiota quei batteri, o i geni batterici, che li aiutano a digerire il cibo, esattamente come i giapponesi che ho citato nel sesto capitolo, il cui microbiota contiene dei geni provenienti dai batteri che vivono sulle alghe con cui si prepara il sushi. Dopo che si sono acquisiti i microbi benefici delle foglie, per le scimmie in cattività forse la coprofagia diventa meno importante: mangiare il proprio cibo soltanto una volta è sufficiente. Fornire un nuovo microbiota ai topi da laboratorio privi di germi è semplice: basta metterli in contatto con dei topi che ne hanno già uno e dopo qualche giorno di coprofagia avranno dei microbi analoghi. Tanto che se facciamo vivere insieme due gruppi di topi dotati di un apparato microbico completo si potranno verificare delle alterazioni nelle specie microbiche che ospitano. In un ingegnoso esperimento condotto da Jeffrey Gordon alla Washington University di St. Louis nel 2013, i ricercatori hanno preso due gruppi di topi privi di germi e hanno inoculato in uno di essi il microbiota intestinale di un gruppo di esseri umani obesi. La particolarità di questo esperimento era che ciascuno dei soggetti obesi aveva un gemello, e questi erano tutti magri. Perciò la seconda serie di topi privi di germi ha ricevuto il microbiota intestinale dei gemelli magri. Come c’era da aspettarsi, i topi con il microbiota obeso hanno acquisito più grasso corporeo di quelli con il microbiota magro. Cinque giorni dopo l’inoculazione, i due gruppi di topi sono stati riuniti: ciascun topo con il microbiota del gemello obeso è stato unito a quello con il microbiota del corrispondente gemello magro. I topi obesi, vivendo insieme ai “gemelli” magri, hanno curiosamente preso meno peso di quanto sarebbe accaduto se non fossero stati a contatto con i magri. Analizzando il microbiota dei due topi si è scoperto che il microbiota di quello obeso si era in
parte avvicinato a quello del topo magro, mentre quello di quest’ultimo era rimasto stabile. Se fossimo degli scimpanzé per mantenerci magri e sani potremmo abbandonarci a un po’ di condivisione fecale. Fortunatamente però, per trarre beneficio dal microbiota sano di un compagno umano, la coprofagia non è davvero necessaria. Questo non per dire che la nostra alternativa più clinica – il trapianto fecale – sia assolutamente gradevole, perché nella sua forma più grezza consiste nel mescolare le feci di un donatore sano con un po’ di soluzione salina, farle girare a tutta velocità in un frullatore da cucina e immetterle nell’intestino crasso del paziente mediante un lungo tubo di plastica dotato di videocamera – un colonscopio – inserito dal basso verso l’alto, per così dire. Talvolta i trapianti fecali vengono eseguiti dall’alto, attraverso un sondino nasogastrico che penetra nelle narici e scende in gola e poi nello stomaco. Uno dei pionieri del moderno utilizzo del trapianto fecale, il dottor Alexander Khoruts, ricorda le prime volte in cui ha preparato la sospensione fecale: “Ho fatto i primi dieci trapianti alla vecchia maniera, con un frullatore nel bagno del reparto di endoscopia. Durante quell’esperienza mi sono velocemente reso conto degli ostacoli pratici dell’esecuzione di un trapianto fecale in un affollato ambiente ospedaliero. La potenza olfattiva del materiale fecale umano che si scatena semplicemente premendo il pulsante del frullatore può essere davvero disgustosa, può svuotare le sale d’aspetto.” Non solo, ma fare un aerosol con un estratto di feci – per quanto privo di agenti patogeni – probabilmente non è così esente da rischi per il medico che prepara la sospensione. Anche il microbo più benintenzionato può rivelarsi nocivo se arriva nel posto sbagliato: ciò che è sano nell’intestino potrebbe non esserlo nei polmoni. È un’idea disgustosa, vero? Se state ancora leggendo, permettetemi di sbarazzarmene. Ci sono due modi di affrontare il lato ripugnante del trapianto fecale. Uno consiste nel sorvolare, usare degli eufemismi e sperare che non stiate lì a rifletterci troppo. L’altro è confrontarsi con il disgusto. Sì, è vero, fa schifo, ma in fondo si tratta solo di microbi, piante morte e acqua. In gran parte sono batteri, circa il 70 per cento o anche più. Il colore marrone deriva dal pigmento dei globuli rossi guasti, convertiti dal vostro fegato ed espulsi come rifiuti. E sì, anche l’odore è pessimo. Ma sono semplici gas, soprattutto acido solfidrico e altri gas contenenti zolfo, creati dai vostri microbi intestinali quando scompongono i resti del cibo. Il disgusto è un’emozione protettiva. Si è evoluto perché ci tiene alla larga da cose nocive. Vomito, materia in decomposizione, sciami di insetti, il corpo di
persone che non conosciamo o non amiamo, cose viscide, appiccicose, schifose. E feci. Siamo particolarmente disgustati dalle feci di chi mangia carne – preferireste toccare la pupù di un cane o di una mucca? – e da quelle dei nostri compagni umani. In tutto il mondo, quando ci troviamo di fronte qualcosa di rivoltante, l’espressione è la stessa; tiriamo indietro la testa, appiattiamo il naso, aggrottiamo la fronte. Ci portiamo le mani al petto e ce ne andiamo. Se è davvero ripugnante vomitiamo all’istante. Questa reazione di disgusto codificata geneticamente ci aiuta a evitare di entrare in contatto con degli agenti patogeni che potrebbero farci ammalare. Potrebbero essere nel vomito, nella materia in decomposizione, nella cosa viscida o in quella appiccicosa. Potrebbero essere nelle feci. Perciò è assolutamente naturale non voler pensare alla pupù, alla pupù di qualcun altro nel vostro corpo. Pensate invece per un momento di ricevere una trasfusione di sangue. Probabilmente l’idea non vi disgusta allo stesso modo. Sacche di sangue raccolte con attenzione da donatori sani e analizzate in cerca di eventuali malattie annidate nelle cellule o nel plasma. Contrassegnate dal gruppo sanguigno e dalla data di raccolta, vengono appese, salvano delle vite. È un’immagine piuttosto ospedaliera, sterile, quasi futuristica. Il sangue però, come le feci, può portare con sé degli agenti patogeni, come l’HIV o l’epatite. Il sangue, come le feci, si deteriora quando viene esposto ai batteri presenti nell’aria. Mentre le feci, come il sangue, possono rappresentare un salvavita. Pensate alla sospensione del microbiota intestinale per quello che è: un liquido con proprietà curative. Il dottor Alexander Khoruts racconta la storia di una studentessa di medicina che era venuta a donare le feci da utilizzare su pazienti affetti da Clostridium difficile. Quando lo aveva raccontato agli amici, molti dei quali studenti di medicina come lei, questi invece di lodarla per l’altruismo e mormorare che avrebbero dovuto anche loro trovare il tempo per farlo, come sarebbe accaduto se lei avesse donato sangue, si erano messi a ridere e l’avevano presa in giro per il suo impegno. I medici del XXI secolo, consapevoli della scienza emergente del microbiota, non sono stati i primi a scoprire le proprietà salvavita delle feci. Un medico tradizionale cinese del IV secolo di nome Ge Hong scriveva nel suo Manuale di medicina d’urgenza che somministrare ai pazienti che soffrivano di un avvelenamento da cibo o di una grave diarrea una bevanda ricavata dalle feci di un individuo sano avrebbe provocato una miracolosa guarigione. La stessa terapia viene citata 1200 anni dopo, sempre in un manuale medico cinese, in cui viene definita “zuppa gialla”. Evidentemente rendere gradevole il trapianto
fecale ai pazienti, metaforicamente parlando, era arduo allora come oggi. D’altra parte non è così difficile convincere un individuo che ha trascorso gli ultimi tre mesi sul gabinetto e che ha perso un quinto del peso corporeo a fare un tentativo con il trapianto fecale. In Peggy Han Kai era totalmente scomparso il lato ripugnante che aveva forse provato per il trapianto fecale prima di ammalarsi. Durante la convalescenza nell’ospedale californiano, dopo la colonscopia e la somministrazione della sospensione con i microbi fecali filtrati del marito, Peggy stava già meglio. Per la prima volta dopo mesi non aveva bisogno di andare in bagno, ne è rimasta fuori per quarantotto ore di fila. Qualche giorno dopo la diarrea era scomparsa. Dopo due settimane avevano iniziato a ricrescerle i capelli, mentre dal suo viso di quarantenne scompariva l’acne e il peso perduto iniziava a ritornare. Se si curano le infezioni ricorrenti di Clostridium difficile con gli antibiotici si ha una percentuale di guarigione del 30 per cento circa: ogni anno vengono infettate oltre un milione di persone e ne muoiono decine di migliaia. La terapia con un unico trapianto fecale, invece, conduce a una percentuale di guarigione di più dell’80 per cento. Nel caso di rica-duta, come è successo in seguito a Peggy, un secondo trapianto porta la percentuale di guarigione oltre il 95 per cento. È difficile pensare a un’altra patologia che mette a rischio la vita e che può essere curata con una singola procedura, non chirurgica, senza bisogno di farmaci, al costo di qualche centinaio di dollari e con una percentuale tanto alta di successo. Per il professor Tom Borody, gastroenterologo, il trapianto fecale è diventato un pilastro delle terapie che propone al Centre for Digestive Disease di Sydney, in Australia. Nel 1988 una paziente di Borody, Josie, aveva contratto un’infezione mentre era in vacanza alle Fiji. Da allora soffriva di diarrea, crampi, stipsi e gonfiore. Quello che doveva essere un malanno curabile con un ciclo di antibiotici si è trascinato tanto a lungo che Josie era sull’orlo del suicidio. Borody era preoccupato per la difficile situazione della paziente e stava rimanendo a corto di alternative per ripristinarne lo stato di salute precedente al viaggio alle Fiji. Perciò ha approfondito la letteratura medica sul tema e ha scoperto i casi di tre uomini e una donna che, nel 1958, avevano avuto una grave diarrea con dolori addominali dopo essere stati curati con degli antibiotici: una situazione simile a quella di Josie. Tre di loro in terapia intensiva, rischiavano di morire e le statistiche non lasciavano presagire niente di buono: all’epoca la percentuale di mortalità per chi si trovava in quella situazione era del 75 per cento. Il loro medico, un certo Ben Eiseman, li aveva curati usando un trapianto fecale. Dopo qualche ora o qualche giorno dalla somministrazione
dell’enteroclisma fecale tutti e quattro i pazienti erano riusciti ad alzarsi e uscire dall’ospedale, liberi dalla diarrea che li aveva perseguitati per mesi. Borody, entusiasta alla possibilità che ci fosse una cura per la sua paziente, le ha ventilato l’idea. Come Peggy Kan Hai, lei era disposta a provarle tutte, e così nel giro di due giorni Borody le ha somministrato il trapianto. Qualche giorno dopo Josie stava incredibilmente meglio, al punto che era già in grado di tornare al lavoro. Nel frattempo il medico non aveva il coraggio di dire a nessuno che cosa avesse fatto per aiutarla, tale era all’epoca la resistenza all’idea. Ma da quel momento in poi lui e il suo gruppo di lavoro hanno iniziato a usare il trapianto fecale per curare le patologie che secondo loro potevano trarre beneficio da un ripristino microbico. Nell’anno successivo hanno eseguito cinquantacinque trapianti fecali per problemi che andavano dalla diarrea alla stipsi alle malattie infiammatorie intestinali. Ventisei pazienti sono rimasti stabili, nove sono migliorati e venti sono guariti completamente. Negli anni successivi Borody e i suoi colleghi hanno iniziato a capire quali patologie rispondevano positivamente al trapianto fecale e quali invece no. Ormai hanno eseguito oltre 5000 trapianti, molti dei quali per la sindrome dell’intestino irritabile con diarrea predominante e per infezioni da Clostridium difficile. Con una percentuale di guarigione di circa l’80 per cento nell’ospedale di Borody, il trapianto fecale è la terapia di gran lunga più efficace per questa forma di sindrome dell’intestino irritabile. La stipsi è più difficile da trattare, la percentuale di guarigione è solo del 30 per cento circa e può richiedere diversi trapianti ripetuti. Malgrado i successi e la richiesta da parte dei pazienti, Borody e gli altri medici che utilizzano il trapianto fecale vengono spesso accusati di essere dei ciarlatani, persino da altri autorevoli medici. Poiché le feci non sono un farmaco che può essere prodotto e venduto, questi trapianti non devono sottostare alle norme e alle regole delle altre medicine. Gli esperimenti clinici non sono strettamente necessari e molti medici, dal canto loro, sono scettici sulla loro reale efficacia. Peggy Kan Hai e altri nelle sue condizioni, però, hanno accettato molto volentieri l’idea. Come sostiene Peter Whorwell, professore di Medicina e gastroenterologia alla Manchester University: “I miei pazienti con la sindrome dell’intestino irritabile non vedono l’ora di farlo.” In realtà sono spesso i medici a tirarsi indietro, o a causa del connesso lato ripugnante o perché considerano il trapianto fecale una terapia fasulla. In America persino un organo di controllo come la Food and Drug Administration (FDA) ha tentato di mettere fine all’utilizzo del trapianto fecale nella pratica medica. Per due difficili mesi, nella
primavera del 2013, la FDA ha vietato il trattamento a tutti i medici, eccetto una manciata di soggetti autorizzati. Alcuni dottori che curavano con successo dei pazienti affetti da Clostridium difficile e da altre patologie dell’apparato digerente si sono ritrovati all’improvviso a dover richiedere una nuova autorizzazione. La FDA era preoccupata della sicurezza della procedura, poiché non era mai stata sottoposta a esperimenti clinici ufficiali. La reazione dei gastroenterologi però è sfociata nel ritiro del divieto alla stessa velocità a cui era entrato in vigore. Adesso i trapianti fecali sono temporaneamente consentiti, ma soltanto per la cura del Clostridium difficile. Immaginate di essere nella situazione di avere bisogno, o comunque desiderare, un trapianto fecale per stare meglio di salute. Vi serve un donatore, e naturalmente volete le feci migliori in circolazione. Forse tuttavia non sognate di acquisire le abitudini intestinali della vostra dolce metà. E forse i vostri parenti più prossimi soffrono loro stessi di una malattia del XXI secolo, che impedisce loro di diventare donatori. A meno di mandare una email di gruppo ai vostri amici per chiedere come va la salute, o di postare su Facebook una richiesta di amicizia a chiunque consideri sopra la media il comportamento del proprio intestino, che cosa potete fare per procuravi un po’ di pupù? Era questa la situazione in cui si è trovato un amico di Mark Smith, che stava facendo un dottorato al MIT nel 2011. Dopo diciotto mesi che soffriva di un’infezione ricorrente di Clostridium difficile, era messo piuttosto male. In quanto studente di medicina sapeva fin dall’inizio che se l’infezione non si fosse arresa agli antibiotici rimaneva l’opzione del trapianto fecale. Dopo tre cicli terapeutici falliti, era pronto per tentare con il passo successivo. Il problema era che non trovava un medico disposto a eseguire il trapianto. Non era la procedura in sé a dissuaderli, piuttosto la difficile e costosa ricerca di un donatore, per poi preparare l’infusione fecale. A Mark Smith, la cui tesi di dottorato si concentrava sui microbi che si trovano nelle risorse idriche, così come quelli del corpo umano, sembrava inaccettabile tanto ritardo nel somministrare al suo amico la cura che gli serviva. Smith ragionava sul fatto che i medici d’urgenza, i cui pazienti avevano bisogno di una trasfusione di sangue, non dovevano correre in giro a reclutare donatori, raccogliere il loro sangue, analizzarlo in cerca di agenti patogeni e poi controllare la compatibilità e confezionarlo in modo che potesse essere consegnato al paziente. Tutto quello che dovevano fare era una veloce telefonata alla banca del sangue, passare un ordinativo e continuare a occuparsi dei propri pazienti. Perché sarebbe dovuto essere diverso per i medici i cui pazienti
avevano bisogno di un trapianto fecale invece che di una trasfusione? Mentre l’amico di Smith si arrendeva dopo il settimo, inutile ciclo di antibiotici, e si somministrava infine un trapianto fecale casalingo, utilizzando le feci non controllate del suo compagno di stanza, Smith univa le forze con uno studente di Business Administration del MIT, James Burgess. I due, con l’appoggio del relatore di Smith, il professor Eric Alm, hanno in tal modo creato OpenBiome, una banca delle feci no-profit che si occupa della ricerca dei donatori, dell’analisi, della preparazione dell’infusione fecale e della spedizione degli esemplari. Il che significa che tutto ciò che i pazienti devono fare è trovare un medico disponibile armato di colonscopio e 250 dollari per coprire i costi dell’esemplare di feci stesso. Attualmente 180 ospedali in 33 stati utilizzano i servizi di OpenBiome, il che significa che l’80 per cento degli americani sono a quattro ore d’auto da una pupù sicura e congelata, dovessero mai averne bisogno. Grazie al lavoro di OpenBiome sono già state guarite circa 2000 persone affette da Clostridium difficile. La procedura di selezione a cui si sottopongono i volontari che desiderano donare a OpenBiome (in cambio di 40 dollari per le feci e del confortante pensiero che a ogni donazione potrebbero salvare due o tre vite) non è diversa da quel che vi aspettereste: nessuna recente esposizione ad antibiotici o viaggi all’estero, nessun problema di salute legato al microbiota, tra cui allergie o malattie autoimmuni, sindromi metaboliche o gravi depressioni, né microbi preoccupanti come HIV o Escherichia coli 0157. Ma provate a trovare un individuo che corrisponda alla descrizione. Da OpenBiome, per reperire un unico donatore idoneo devono intervistare e analizzare anche cinquanta richiedenti. I donatori di sangue volontari, tanto per fare un confronto, vengono accettati più del 90 per cento delle volte. Anche se il Centre for Digestive Diseases è una clinica gastroenterologica, Borody ha assistito a una manciata di straordinarie guarigioni da malattie non inerenti l’intestino. Non sorprenderà che alcuni dei suoi pazienti con stipsi e diarrea soffrissero anche di malattie del XXI secolo. C’era un uomo, Bill, che da molti anni era affetto da sclerosi multipla e non poteva più camminare; si era rivolto a Borody per un trapianto fecale solo per alleviare una stipsi cronica. Diversi giorni dopo le infusioni, però, Bill ha iniziato a sentirsi diverso. Con il trascorrere del tempo ha riacquistato la salute e la capacità di camminare. Adesso è come se non fosse mai stato malato di sclerosi multipla. Bill non è stato l’unico paziente autoimmune di Borody che si è ritrovato sano dopo aver ricevuto dei trapianti fecali. Altri due individui affetti da sclerosi
multipla, una giovane donna al primo stadio dell’artrite reumatoide, un malato di Parkinson e un paziente che soffriva di “porpora trombocitopenica idiopatica”, una malattia in cui il sistema immunitario distrugge le piastrine, sono guariti a seguito di trapianto fecale. Resta da capire se queste guarigioni apparentemente miracolose siano dovute ai trapianti in sé o si tratti di remissioni spontanee. Poiché le feci non sono farmaci, e tutto ciò che vi serve è un frullatore da cucina, un po’ di soluzione salina e un setaccio, con l’aiuto di qualche video su YouTube chiunque può somministrare un trapianto fecale e molte migliaia di individui lo fanno. Tra coloro che ci provano ci sono, e non sorprende, i genitori di bambini autistici. Lo stesso dottor Borody ha osservato dei miglioramenti nei piccoli autistici dopo i trapianti fecali e dopo ripetute somministrazioni di microbi fecali mediante una bevanda aromatizzata. La sua intenzione era alleviare i sintomi gastrointestinali, non quelli psichiatrici, ma Borody afferma che a seguito della sua terapia diversi pazienti sono migliorati. Il più incoraggiante è stato un bambino che possedeva un vocabolario di una ventina di parole soltanto e che nelle settimane successive alla terapia microbica è schizzato a circa 800. Per adesso si tratta semplicemente di aneddoti. A oggi non è stato condotto neppure un esperimento clinico per testare gli effetti del trapianto fecale su pazienti autistici, anche se alcuni sono in fase progettuale. La mancanza di prove tuttavia non fermerà i genitori: per molti ha senso tentare qualunque strada. Per patologie come l’autismo e il diabete di tipo 1 il trapianto fecale – come i probiotici – probabilmente è troppo poco, ed è troppo tardi. Se il danno è già stato compiuto e le finestre di sviluppo sono ormai chiuse, ripristinare un microbiota sano può semplicemente impedire ulteriori danni. Per altre malattie, con sintomi che peggiorano progressivamente, è forse possibile riportare indietro le lancette dell’orologio. Ricordate l’esperimento del secondo capitolo, in cui era stato trasferito il microbiota di un individuo obeso in un topo privo di germi? Due settimane dopo il topo era ingrassato, pur senza mangiare più del solito. Be’, che cosa succede se fate lo stesso esperimento al contrario? Che cosa succede se trasferite il microbiota di una persona sana e magra in un obeso? Per una volta non vi darò la risposta alla domanda parlandovi di topi. Vi dirò invece che cosa accade se inserite questi microbi “magri” in esseri umani obesi, perché è proprio questo che hanno fatto alcuni ricercatori, tra cui gli scienziati olandesi Anne Vrieze e Max Nieuwdorp dell’Academic Medical Center di Amsterdam. Lo scopo non era capire se gli individui obesi avrebbero perso peso, i
ricercatori piuttosto volevano sapere quale impatto immediato avrebbe avuto il microbiota magro. Ricevere una colonia microbica da un individuo magro avrebbe migliorato il metabolismo degli obesi? Nel secondo capitolo ho citato l’esistenza di due gruppi separati di obesi: quelli sani e quelli non sani. Gli obesi non sani – di gran lunga la maggioranza – non sono soltanto grassi, ma anche ammalati. Presentano sintomi della disabilità economicamente più rilevante di cui probabilmente non avete mai sentito parlare: la sindrome metabolica. Questa sindrome è composta da una pericolosa costellazione di disturbi: non solo l’obesità, ma il diabete di tipo 2, l’ipertensione e il colesterolo alto. Curare coloro che soffrono di sindrome metabolica costa decine di miliardi di dollari l’anno e negli ultimi tempi provoca la maggior parte dei decessi nel mondo sviluppato. In cima all’elenco delle cause di morte legate alla sindrome metabolica ci sono la cardiopatia, i tumori legati all’obesità e l’ictus. Un aspetto della sindrome metabolica – il diabete di tipo 2 – è un grande indicatore della salute di un individuo. A differenza dei diabetici di tipo 1, le cui cellule produttrici di insulina sono state distrutte dall’autoimmunità, i diabetici di tipo 2 continuano a produrne, ma il problema è che non reagiscono all’insulina stessa. L’insulina è un ormone che ordina alle cellule corporee di immagazzinare glucosio (zucchero) nel sangue sotto forma di grasso quando non è immediatamente necessario come energia. Al glucosio estratto dal cibo corrisponde un rilascio di insulina, per impedire che i suoi livelli nel sangue diventino pericolosamente alti. Ma se i livelli di insulina nel sangue sono sempre alti, il corpo inizia a ignorare la richiesta di immagazzinare glucosio. Questa è la resistenza all’insulina, ed è pericolosa. Il 30-40 per cento dei soggetti obesi soffre di diabete di tipo 2. L’80 per cento di loro finirà per morire di cardiopatia. Negli individui sani, che siano o meno sovrappeso, il livello di zucchero nel sangue aumenta notevolmente dopo un pasto. La concentrazione di glucosio cresce, viene rilasciata insulina, ed esso cala nuovamente. Questa veloce reazione significa che le cellule sono “sensibili” all’insulina: seguono le istruzioni e immagazzinano il glucosio da utilizzare in seguito. Tra gli individui con una resistenza all’insulina non ci sono picchi di glucosio nel sangue. Gli zuccheri aumentano, ma scendono molto lentamente. Trovare il modo per invertire la resistenza all’insulina potrebbe significare evitare dei decessi legati alla sindrome metabolica. Poiché somministrare ai topi dei microbi provenienti da individui obesi poteva farli ingrassare, Vrieze e Nieuwdorp si sono chiesti se sottoporre a un trapianto fecale degli individui obesi usando feci di individui sani e magri
potesse far regredire i sintomi legati all’obesità. È iniziato in tal modo un esperimento clinico denominato FATLOSE: Faecal Administration To LOSE insuline resistance (somministrazione fecale per perdere la resistenza all’insulina). Nello specifico, il trapianto fecale di un microbiota “magro” sarebbe riuscito a renderli più sensibili all’insulina? E quanto velocemente le loro cellule avrebbero immagazzinato il glucosio? I ricercatori hanno sottoposto nove uomini obesi a un’infusione composta di feci raccolte da donatori magri e altri nove a infusioni delle loro stesse feci, utilizzandoli come gruppo di controllo. Sei settimane dopo i trapianti fecali, gli uomini che avevano ricevuto il microbiota “magro” erano in effetti diventati più sensibili all’insulina. Le loro cellule immagazzinavano il glucosio a una velocità quasi doppia rispetto a prima, arrivando quasi a uguagliare la sensibilità all’insulina dei donatori magri e sani. Gli uomini obesi che avevano ricevuto le proprie feci nel colon, dopo il trapianto immagazzinavano il glucosio esattamente allo stesso ritmo di prima: la loro sensibilità all’insulina era rimasta scarsa com’era stata in precedenza. È straordinario pensare che avere una diversa comunità di microbi che vivono nell’intestino basti a fare la differenza tra essere sani e avere una malattia che comporta l’80 per cento di probabilità di morire di cardiopatia. La diversità del microbiota degli uomini ora sensibili all’insulina è salita da una media di 178 specie a una di 234 specie. Tra queste c’erano gruppi di batteri che producono il butirrato, un acido grasso a catena corta ritenuto importante nella prevenzione dell’obesità. Le cellule dell’intestino crasso sono alimentate dal butirrato, che gli impedisce di diventare permeabile, serrando le catene proteiche che legano tra loro le cellule e rivestendosi di uno strato più spesso di muco. Naturalmente Vrieze e Nieuwdorp vorrebbero sapere se i trapianti fecali di microbi magri possono anche provocare una perdita di peso nelle persone obese. Certamente ci riescono con i topi: se si somministrano a un topo obeso dei microbi magri si ottiene una diminuzione del 30 per cento di grasso corporeo. È attualmente in corso un secondo esperimento – FATLOSE-2 – per scoprire se funziona anche sugli esseri umani. I risultati potrebbero cambiare radicalmente il trattamento dell’obesità e della sindrome metabolica, risparmiando soldi e migliorando la vita delle persone. Se gli elementi della sindrome metabolica, compreso il diabete di tipo 2, possono essere annullati ripristinando un microbiota intestinale sano, i trapianti fecali sono davvero necessari? I probiotici non avrebbero lo stesso effetto? Due validi esperimenti sulle specie di Lactobacillus hanno dato risultati incoraggianti, apportando benefici sia alla sensibilità all’insulina sia al peso
corporeo. In fin dei conti, però, quali che siano le specie e l’esito, i probiotici rappresentano un sollievo. Un conforto. Ci passano attraverso, ma non si fermano a lungo. Per trarne benefici dovete continuare a prenderli, e anche se li prendete tutti i giorni, un semplice integratore a base di probiotici è simile a un soldato che va a fare la guerra senza neppure una scatola di munizioni. Per ottenere un effetto a lungo termine dobbiamo creare un ambiente in cui i microbi benefici possano prosperare giorno dopo giorno e senza bisogno di un intervento esterno che ne rimpolpi i numeri. E così arriviamo ai prebiotici. Non si tratta di batteri vivi, ma di cibo batterico, ideato per accrescere intere popolazioni dei ceppi più sani. Con nomi come frutto-oligosaccaridi, inulina e galatto-oligosaccaridi, sembrano sospettosamente simili agli additivi chimici elencati sul retro di un alimento confezionato e non particolarmente naturale. Ma sebbene si tratti di sostanze chimiche, non hanno origine sintetica, proprio come qualsiasi altro cibo, dalle carote (β-carotene, acido glutammico ed emicellulosa, per esempio) alla carne (dimetilpirazina, 3-idrossi-2-butanone e così via). I prebiotici si trovano negli alimenti vegetali, in particolare nella fibra non digeribile di cui dovremmo comunque cibarci, ma naturalmente sono disponibili anche sotto forma di integratori alimentari: perché mangiare dei vegetali quando potete semplicemente cospargere il vostro hamburger di polvere prebiotica? I benefici dei prebiotici, sia isolati sia nella loro deliziosa confezione originale (in particolare cipolla, aglio, porri, asparagi e banane, tanto per citarne alcuni) potrebbero essere più ampi di quelli dei probiotici. Si sono rivelati efficaci per favorire la guarigione dalle intossicazioni da cibo, nella cura dell’eczema e probabilmente nella prevenzione del tumore del colon, ma la ricerca è ancora a uno stadio iniziale. È appassionante che i prebiotici possano rappresentare anche una cura per la sindrome metabolica. Come ho scritto nel sesto capitolo, ormai si sa che stimolano i bifidobatteri e gli Akkermansia muciniphila, che contribuiscono a sigillare un intestino permeabile, riducono l’appetito, aumentano la sensibilità all’insulina e favoriscono la perdita di peso. In fin dei conti un trapianto fecale non è poi così diverso da un probiotico: l’idea di entrambi è fornire all’intestino dei microbi benefici. Di norma il secondo entra dall’alto, il primo dal basso, uno viene di solito coltivato in laboratorio, l’altro nell’ambiente perfetto dell’intestino di un altro individuo. È solo questione di tempo prima che i due concetti convergano. Se esistesse una capsula ben studiata che recapiti il proprio contenuto proprio nel punto esatto dell’intestino, la stessa comunità di microbi fecali che rappresenta la soluzione utilizzata in un trapianto
potrebbe riempire la capsula, che poi verrebbe inghiottita con un sorso d’acqua. La sua superiorità su un probiotico, composto da residui della storia scientifica – i lattobacilli – sarebbe enorme, senza nessuno degli inconvenienti, delle spese e della mortificazione legate al trapianto fecale eseguito con un colonscopio. Il professor Borody, sempre disponibile se ci sono nei paraggi un’idea rivoluzionaria e un po’ di humor in tema per alleggerire l’atmosfera, sta lavorando a una capsula del genere insieme ad Alexander Khoruts. Borody la chiama Crapsule. Nell’ambiente australiano, piuttosto rilassato dal punto di vista normativo, nel dicembre del 2014 è riuscito per la prima volta a usare la Crapsule per curare un paziente affetto da Clostridium difficile. Queste compresse contengono la stessa soluzione fecale genuina che Borody impiega nei trapianti, ma vengono invece assunte per via orale. La studiosa del microbioma Emma Allen-Vercoe, alle prese con le più rigide normative canadesi, sta lavorando su feci sintetiche calibrate più nello specifico. Utilizzando la stessa tecnologia che lei e il suo gruppo impiegano nella ricerca sull’autismo – la camera di coltura senza ossigeno che chiamano Robogut – lei e la specialista di malattie infettive Elaine Petrof della Queen’s University di Kingston, nell’Ontario, hanno messo a punto un cocktail di microbi noti da utilizzare nel trapianto fecale al posto delle feci grezze. La ricetta di questa miscela è stata affinata in oltre quarantuno anni nell’intestino di una donna estremamente sana. Per trovare qualcuno così in salute ci è voluto quasi lo stesso tempo. Ogni anno Allen-Vercoe tiene un corso di microbiologia introduttiva a circa 300 studenti della University of Guelph. E ogni anno pone al gruppo la stessa domanda: “C’è qualcuno tra voi che non ha mai preso antibiotici?” E nessuno alza la mano. Come Mark Smith, il fondatore di OpenBiome, Allen-Vercoe stava cercando un individuo, tra la giovane, sana e atletica popolazione degli studenti universitari, i cui microbi non fossero stati sottoposti al potenziale danno collaterale degli antibiotici. Alla fine ha conosciuto una donna cresciuta nell’India rurale, dove gli antibiotici non si trovavano tanto facilmente. Da bambina non ne aveva mai presi e da adulta ne aveva ricevuta un’unica dose, dopo che le avevano dato dei punti a un ginocchio. La ragazza era in forma, sana, priva di malattie e seguiva una dieta equilibrata e biologica: aveva infine trovato la donatrice di feci definitiva. Allen-Vercoe e Petrof hanno usato le feci della loro super-donatrice per coltivare una combinazione unica di microbi. Hanno selezionato trentatré ceppi batterici che non risultavano pericolosi, erano relativamente facili da coltivare e
potevano essere eliminati, se necessario, con degli antibiotici. Petrof aveva due pazienti, entrambe sofferenti da molti mesi di infezioni ricorrenti da Clostridium difficile a seguito di terapie antibiotiche. Invece che sottoporle a un tradizionale trapianto fecale, il progetto era seminare nel loro intestino le feci sintetiche, che erano state chiamate RePOOPulate. Dopo qualche ora di RePOOPulation, entrambe le donne si erano liberate della diarrea ed erano ritornate a casa. Grazie al primo successo della terapia, Allen-Vercoe e Petrof hanno fatto il grande passo, dal trapianto di microbiota fecale a qualcosa di totalmente moderno: la terapia dell’ecosistema microbico. Mentre Allen-Vercoe, Petrof e Borody affinano i propri prodotti e superano i necessari ostacoli normativi, il tradizionale trapianto fecale rimane il regime aureo nella terapia delle infezioni ricorrenti da Clostridium difficile. Ma il futuro del trapianto fecale è, naturalmente, la personalizzazione. Va molto bene usare feci da un donatore selezionato e analizzato, ma perché non compiere un passo ulteriore? Pensate alla procedura per scegliere un donatore di sperma. Le donne possono vedere dei video in cui un potenziale padre biologico viene intervistato sulla propria vita e le proprie idee. Possono leggere un curriculum vitae con i suoi successi scolastici e la carriera professionale. Possono studiare statistiche sul peso, l’altezza, la storia medica e la longevità del suo ceppo genetico, ovvero i futuri nonni e bisnonni biologici. Essenzialmente, quando scelgono un donatore di sperma, le donne stanno esaminando la provenienza dei minuscoli fasci di geni. Li scelgono per mescolarli ai propri, per completarli. Geni per la salute e geni per la felicità. Lo stesso vale per un donatore di pupù. D’accordo, i geni che ottenete arrivano confezionati in carta da pacco microbica, non in uno sciame di cellule umane specializzate, ma sono comunque geni quelli che ottenete. Geni che contribuiscono all’altezza, al peso, persino alla longevità. Geni che si mescolano con i vostri e li completano. Geni per la salute e per la felicità. È inevitabile che dato che i trapianti fecali diventano più comuni noi, da consumatori, saremo più esigenti verso i nostri donatori. Anche se sono già selezionati in base alle patologie legate al microbiota, compresi alcuni disturbi mentali, questi donatori non sono scelti con cura o accoppiati individualmente. Senza scendere al livello dei geni, è facile immaginare i vantaggi di un po’ di discriminazione. Che dire di donatori vegetariani per riceventi vegetariani? Probabilmente un microbiota tagliato su misura sulla vostra dieta renderà più semplice il passaggio delle consegne. Forse usare un donatore più magro potrebbe essere un bonus aggiuntivo per un ricevente sovrappeso nella sua
ricerca della salute. E forse potrebbero essere abbinati alcuni tratti della personalità: qualcuno desidera dei microbi estroversi? O persino migliorati: che cosa ne dite di una visione della vita un po’ più luminosa, grazie agli escrementi di un ottimista? E che ne dite di un po’ di Toxoplasma, per rendere il tutto più piccante? Per adesso è soltanto fantasia, ma ricorda i dibattiti sul “bambino programmato geneticamente” degli anni Novanta. Una volta che avremo sviscerato tutti gli aspetti pratici dei geni microbici e capito esattamente come interagiscono con i nostri, i dettagli di quello che stiamo consegnando al ricevente del trapianto fecale diventerà molto più importante. Al momento lavoriamo sull’idea che se una comunità microbica intestinale funziona piuttosto bene per un individuo, vada bene anche per un altro. Ma man mano che ci addentriamo nelle forze che modellano ognuna delle nostre colonie personali – la genetica, la dieta, il passato, le interazioni personali, i viaggi e così via – non c’è alcun dubbio che saremo molto più oculati nella selezione dei microbi da adottare. Il desiderio di ripristinare un microbiota sano è del tutto legittimo, ma solleva un’altra questione: che cos’è un microbiota sano? Come hanno scoperto Alexander Khoruts, Emma Allen-Vercoe e Mark Smith con il suo gruppo di OpenBiome, trovare un americano abbastanza sano da essere considerato un valido donatore di feci è difficile, perché più del 90 per cento dei benintenzionati volontari non soddisfa i criteri di selezione. Se pensate che questa gente si offre volontaria perché si considera sana, sappiate che la vera percentuale di occidentali di cui valga la pena trapiantare il microbiota inizia con uno zero. Perciò come possiamo paragonare i microbiota occidentali, segnati dagli antibiotici, crivellati di grassi e di zuccheri, bisognosi di fibra, a quelli genuini di individui che seguono uno stile di vita preindustriale? In realtà c’è una certa differenza, e non sorprende. Un gruppo internazionale di studiosi guidato dal pifferaio magico della ricerca sul microbioma, Jeffrey Gordon della Washington University di St. Louis, nel Missouri, ha raccolto le feci di oltre 200 individui che vivono in due società preindustriali, rurali e tradizionali. Il primo gruppo proveniva da due villaggi amerindi del Venezuela amazzonico, dove il mais e la manioca costituiscono la base di una dieta ricca di fibra e povera di grassi e proteine. Il secondo gruppo, che consuma alimenti simili, dominati da mais e verdura, proveniva dalle comunità rurali del Malawi, nell’Africa sudorientale. Il gruppo di Gordon ha sequenziato il DNA del microbiota intestinale di ciascun individuo e ha comparato i gruppi di microbi
scoperti con quelli di oltre 300 abitanti degli Stati Uniti. Se riportiamo su un grafico il microbiota dei tre popoli secondo il grado di reciproca somiglianza osserviamo una tangibile distanza tra gli esemplari statunitensi e quelli provenienti dalle due popolazioni non statunitensi. I microbiota degli amerindi e degli abitanti del Malawi invece si sovrapponevano, con poche differenze tra i microbi contenuti. Questi due gruppi di individui vivono a oltre 11.000 chilometri di distanza tra loro, e tuttavia i loro microbiomi sono più simili gli uni agli altri di quanto ciascuno di essi lo sia rispetto a quelli degli individui che vivono negli Stati Uniti. Il microbiota americano non solo è nettamente diverso nella composizione, ma è anche meno eterogeneo. Mentre nel microbiota degli amerindi ci sono in media 1600 ceppi diversi di microbi e in quello degli abitanti del Malawi se ne raggiungono 1400, gli americani ne hanno meno di 1200. Difficile non presumere che sia il microbiota americano a essere in difetto. Osservando i distinti gruppi batterici e il lavoro che svolgono, possiamo capire più facilmente se il microbiota occidentale sia danneggiato oppure soltanto diverso. I ricercatori hanno scoperto che i livelli di 92 specie in particolare permettevano di capire se un microbiota proveniva da un intestino statunitense oppure no. 23 di essi appartenevano a un unico genere, la Prevotella. Forse ve ne ricordate; era lo stesso genere assai comune nell’intestino dei bambini del Burkina Faso di cui ho parlato nel sesto capitolo. I bambini avevano questo gruppo di batteri a causa della dieta che seguivano: le cellule dei vegetali fibrosi nei cereali, nei legumi e nei vegetali che mangiavano rendevano i membri della Prevotella le specie dominanti nell’intestino. Ovviamente gli esemplari contenenti queste 23 specie di Prevotella appartenevano a microbiota non statunitensi. I ricercatori inoltre hanno dato un’occhiata alle maggiori differenze tra gli enzimi dei campioni statunitensi e gli altri. Gli enzimi sono le api operaie del mondo molecolare, ciascuno svolge un compito particolare, per esempio scinde proteine o sintetizza vitamine. Cinquantadue enzimi prodotti dai microbi intestinali dei campioni statunitensi e degli altri erano nettamente diversi tra i tre popoli. Una veloce domanda per voi: uno dei gruppi di questi enzimi discriminanti era quello impegnato nella sintesi di vitamine in una dieta che ne conteneva poche: quale gruppo ne aveva secondo voi in maggior numero? Il mio primo pensiero è stato che il campione statunitense ne avrebbe avuto meno bisogno, perché il facile accesso occidentale a cibo nutriente e ricco di vitamine non è certamente secondo a nessuno. E invece ho sbagliato in pieno. In realtà il
microbioma statunitense conteneva più geni di enzimi che sintetizzano le vitamine. Inoltre aveva prodotto più enzimi per scindere i farmaci, il mercurio, che è un metallo pesante, e i sali della bile prodotti dall’ingestione di cibo grasso. Essenzialmente le differenze tra i microbiomi statunitensi e gli altri due riflettevano le differenze tra mammiferi carnivori ed erbivori. Mentre i microbi intestinali statunitensi erano specializzati nel scindere le proteine, gli zuccheri e i surrogati degli zuccheri, quelli amerindi e del Malawi erano adatti a scindere gli amidi che si trovano nei vegetali. Uno spunto di riflessione, forse, per coloro che prendono in considerazione la paleo-dieta. Il ripristino microbico è un settore della medicina nuovo e incerto. Qualunque sia il potenziale medico di probiotici, prebiotici, trapianti fecali e terapie dell’ecosistema microbico, il vecchio adagio è ancora valido: prevenire è meglio che curare. La nostra specie si è ritrovata in decenni di costante perdita della diversità microbica che ci rende umani. Se non fosse per le restanti società che vivono senza antibiotici e senza fast food in alcune delle parti più incontaminate del mondo, non avremmo mai saputo come dovrebbe ipoteticamente essere il microbiota intestinale umano. Adesso è compito di coloro i cui ecosistemi interni riflettono già la perdita di biodiversità del pianeta Terra cambiare la situazione, per i nostri figli e i nostri nipoti.
Conclusione
La salute del XXI secolo Nel 1917 re Giorgio V d’Inghilterra spedì un telegramma a sette uomini e diciassette donne per congratularsi e festeggiare il loro centesimo compleanno. È iniziata in tal modo una tradizione che dura ancora oggi, con cartoline d’auguri al posto dei telegrammi, da parte della nipote di re Giorgio. La casa reale tuttavia è piuttosto impegnata di questi tempi, perché adesso la regina Elisabetta II deve firmare più biglietti d’auguri per i centenari in un solo giorno di quanto suo nonno facesse in un anno. I centenari di oggi erano dei bambini piccoli quando re Giorgio spedì i suoi primi messaggi di auguri, mentre durante la lunga vita di queste persone ormai anziane, i soggetti in Gran Bretagna che raggiungono la considerevole età di 100 anni sono passati da un numero a due cifre a circa 1000 all’anno. Nel XX secolo la nostra specie ha trovato il modo di controllare il suo più antico e temibile avversario. Grazie alle vaccinazioni, alla sanificazione delle pratiche mediche, alla disinfezione dell’acqua e agli antibiotici, abbiamo portato le nostre vite da una miserabile media di appena trentuno anni al doppio. Nel luogo in cui queste quattro innovazioni sono più ampiamente disponibili, ovvero nel mondo sviluppato, l’arco medio della vita si avvicina agli ottanta anni. Buona parte dei cambiamenti che ci hanno assicurato questa dilazione della morte si sono concentrati in un periodo di circa cinquant’anni, dall’ultimo decennio del XIX secolo alla fine della Seconda guerra mondiale. Adesso, nel XXI secolo, iniziamo un nuovo capitolo nella salute della nostra specie. Vivere a lungo, come spesso accade a coloro che stanno in Occidente, non è l’unico indicatore della salute. Anche coloro che raggiungono gli ottant’anni e oltre lo fanno entro i confini della qualità della vita che la loro salute fisica e mentale consente. Per i bambini intrappolati nel tormento dell’autismo, per i milioni di ragazzini che soffrono di eczema, febbre da fieno, allergie alimentari e asma, per gli adolescenti a cui viene comunicato che dovranno iniettarsi insulina per il resto della vita, per gli adulti che affrontano la disgregazione del proprio sistema nervoso e per i molti milioni che sono
sovrappeso, soffrono di ansia e di depressione, la qualità della vita è peggiore di quanto dovrebbe. Fortunatamente noi del mondo sviluppato non siamo più costretti a correre i rischi del vaiolo, della polio o del morbillo, e questo fatto rappresenta un grande balzo in avanti. Ma le malattie del XXI secolo di cui invece soffriamo non sono un’alternativa necessaria, come lasciava intendere l’originale teoria dell’igiene. La nostra ricerca di una vita più lunga è diventata la ricerca di una migliore qualità della vita per gli anni a venire. Il dogma della teoria dell’igiene, con il suo principio fondamentale secondo cui le infezioni ci proteggono da allergie e altri disturbi infiammatori, dev’essere accantonato nella mente del pubblico e dell’ambiente medico. Non sono le infezioni che ci mancano, ma i “vecchi amici”. Adesso sappiamo che l’appendice, un tempo considerata da tutti un inutile elemento vestigiale del nostro passato evolutivo, è in realtà una sorta di cassaforte microbica, che impartisce un’educazione al sistema immunitario. L’appendicite non è certo un’inevitabile fatto della vita, almeno per una parte di noi, ma una conseguenza della perdita di una ricca comunità microbica, ovvero dei vecchi amici che dovrebbero proteggerci dagli agenti patogeni invasori. Ravvivare quest’antica amicizia, la più vecchia che il corpo conosca, è alla nostra portata. Nel primo capitolo ho adottato un approccio epidemiologico per risolvere l’enigma della causa delle malattie del XXI secolo, chiedendomi dove si manifestassero, chi colpissero e quando fossero iniziate. Le risposte riflettevano i cambiamenti del nostro stile di vita, promossi dal benessere e dall’ingegno del mondo sviluppato, dove usiamo gli antibiotici come farmaci per qualsiasi cosa, dal più innocuo dei raffreddori alla peggiore delle infezioni che minacciano la nostra vita. Dove l’industria zootecnica si affida a questi stessi farmaci per incrementare la crescita degli animali e permette che un numero enorme di individui geneticamente simili vengano accalcati in spazi ridotti senza per questo ammalarsi. Dove la nostra alimentazione contiene i livelli più bassi di fibra che gli esseri umani abbiano mai assunto. Dove molti dei nostri figli non nascono, ma vengono estratti chirurgicamente dal corpo. E dove dopo millenni il latte materno è stato abbandonato in favore di quello artificiale. Questi cambiamenti si focalizzano sugli anni Quaranta, quando si sono resi disponibili gli antibiotici, quando l’alimentazione dopo la Seconda guerra mondiale è cambiata e quando l’impiego dei tagli cesarei e dell’allattamento artificiale ha subito un’impennata. Quello che finora è rimasto invisibile è l’impatto di questi cambiamenti a livello micro-scopico. Il giorno in cui abbiamo
dichiarato guerra ai microbi migliaia di generazioni di coevoluzione e cooperazione con i nostri partner simbiotici sono giunte a una fine involontaria. Le malattie del XXI secolo colpiscono tutti noi, dai neonati agli anziani, sia maschi sia femmine, di tutte le razze. Le donne subiscono il peso maggiore di molte di esse, soprattutto le patologie autoimmuni, anche se non se ne è mai chiarito il motivo. Un accurato esperimento dimostra che anche questa differenza di sesso è legata al microbiota. In una specie di topi geneticamente predisposta ad ammalarsi di diabete di tipo 1, conosciuta come topi diabetici non obesi (NOD), le femmine hanno il doppio delle probabilità di sviluppare la malattia rispetto ai maschi. Questa predisposizione di sesso probabilmente ha qualcosa a che fare con l’influsso degli ormoni sul sistema immunitario; castrare i topi per esempio li rende più vulnerabili. Ma se allevate topi NOD privi di germi la differenza scompare. Sembra che il microbiota controlli in qualche modo il rischio di ammalarsi. Trasferire il microbiota dei topi maschi nelle femmine le protegge dallo sviluppo del diabete, apparentemente alzando il livello di testosterone. Queste differenze determinate dal sesso si fanno evidenti soltanto dopo la pubertà però, il che spiega come mai negli esseri umani non vi sia una predisposizione sessuale per il diabete di tipo 1, poiché tende a svilupparsi prima della pubertà. In altre malattie autoimmuni, come la sclerosi multipla e l’artrite reumatoide, la predisposizione femminile si riduce quanto più avanti nella vita insorge la malattia. Dopo dove, chi e quando, mi sono chiesta perché e come si siano manifestate le malattie del XXI secolo. In breve, abbiamo danneggiato il nostro microbiota. Sostanzialmente, rompere l’equilibrio delle nostre comunità microbiche, in particolare quelle intestinali, provoca infiammazione, e l’infiammazione provoca malattie croniche. Avevamo sperato che il genoma umano si rivelasse una miniera di informazioni sui motivi delle malattie, ma la ricerca sui nostri geni ha svelato meno patologie controllate geneticamente di quanto si prevedesse. Gli “studi di associazione genome-wide” (GWAS) hanno svelato d’altro canto dei geni che condizionano soltanto la nostra predisposizione alle diverse patologie. Queste varianti genetiche non sono necessariamente errori, ma variazioni naturali che in normali circostanze potrebbero non portare a problemi di salute. Quando affrontano un particolare ambiente, tuttavia, le differenze genetiche possono aumentare le probabilità di sviluppare una determinata malattia in alcuni individui rispetto ad altri. È indicativo che molte delle varianti genetiche che hanno dei legami con le malattie del XXI secolo sono di geni che hanno a che fare con la permeabilità del rivestimento intestinale e la regolazione del
sistema immunitario. Nel 1900 le tre principali cause di morte nel mondo sviluppato, che si portavano via un terzo degli individui, erano la polmonite, la tubercolosi e la diarrea infettiva. La vita media della gente era di circa quarantasette anni. Nel 2005 le tre principali cause di morte, che si sono portate via la metà degli individui, sono state la cardiopatia, il cancro e l’ictus. La vita media era di circa settantotto anni. Ci piace pensare che queste siano malattie tipiche della terza età, una conseguenza inevitabile del fatto che viviamo più a lungo. Ma tra i popoli che vivono in parti del mondo non occidentalizzate, persino coloro che hanno affrontato i rischi delle malattie infettive, di incidenti e violenze e giungono vivi alla “vecchiaia”, tendenzialmente non muoiono a causa di queste tre ampie categorie di malattie. Quello che stiamo iniziando a capire è che il cuore non si irrigidisce, le cellule non si moltiplicano incontrollabilmente e i vasi sanguigni non scoppiano perché sono invecchiati. L’idea che sta emergendo tra i ricercatori medici è che queste non siano malattie legate all’età in sé ma all’infiammazione. Se c’è un effetto della vecchiaia, è che le moderne offese che arrechiamo al nostro corpo hanno il tempo necessario per generare un’infiammazione che conduce alla catastrofe. Se le cose stanno davvero così, ci sarebbe la possibilità di giungere a una veneranda età senza accumulare infiammazione per decenni. Proprio come la decodificazione del genoma umano ha annunciato una nuova era per la biologia, il riconoscimento che il microbiota è una sorta di organo nascosto ha dato il via a una nuova era della medicina. Le malattie del XXI secolo hanno lanciato una nuova sfida ai pazienti che vivono fino alla tarda età, ai medici che desiderano offrire delle cure e alle aziende farmaceutiche che progettano nuovi farmaci per il consumo cronico. Le terapie convenzionali sono giunte a un punto morto per quanto concerne molte delle patologie che affliggono tutti noi. Curiamo a lungo termine invece che in maniera completa: antistaminici per le allergie, insulina per il diabete, statine per la cardiopatia e antidepressivi per i disturbi mentali. Le terapie per queste patologie croniche ci sfuggono, perché fino a poco tempo fa non riuscivamo a capire con precisione che cosa le provocasse. Adesso, con il riconoscimento che il microbiota non è uno spettatore nella gestione del nostro corpo ma un partecipante attivo, abbiamo una nuova opportunità per affrontare all’origine le malattie del XXI secolo. Che cosa dovremmo fare, dunque? I rapporti con i nostri microbi sono minacciati da tre elementi: l’utilizzo di antibiotici, la carenza di fibra
nell’alimentazione e i cambiamenti nel modo in cui seminiamo e accudiamo il microbiota dei nostri bambini. Possiamo cambiare ciascuno di essi sia a livello sociale sia a livello individuale.
Cambiamenti sociali Il principio fondamentale dell’etica medica è: “Primo, non fare del male.” A ogni terapia si accompagna il rischio di effetti collaterali involontari e i medici devono bilanciare tale rischio con i benefici della cura. Finora le conseguenze involontarie dell’utilizzo di antibiotici sono state considerate minime e insignificanti. Nel riconoscere l’importanza del microbiota nella salute umana, dobbiamo anche accettare che prendere un ciclo di antibiotici può talvolta fare più male che bene. Anche quando questi farmaci curano con successo un’infezione, possono provocare un danno che sarebbe meglio evitare. Abbiamo già un motivo convincente per ridurre l’utilizzo degli antibiotici: il problema della resistenza. Malgrado i rischi a livello sociale e individuale, la resistenza non sembra attualmente abbastanza preoccupante da convincere medici e pazienti a tentare davvero di ridurli. Ma se vi uniamo le gravi conseguenze personali del danno collaterale al microbiota forse possiamo iniziare a considerare gli antibiotici nello stesso modo in cui consideriamo la chemioterapia per il cancro, ovvero una serie di terapie con gravi conseguenze anche per le cellule sane, a cui volgersi soltanto quando i benefici superano i costi. Ci sono alcuni passi pratici che la nostra società può compiere sia per limitare il ricorso agli antibiotici sia per ridurre il loro impatto quando non ci sono alternative. Sappiamo che i medici esagerano la prescrizione di questi farmaci, somministrandoli ai pazienti anche quando vi sono maggiori probabilità che il disturbo sia di origine virale, non batterico. Il problema è che solitamente un medico non è in grado di dire quale paziente sia malato a causa di un virus e quale a causa di un batterio. Allo stato attuale, per scoprire a quale agente patogeno dare la colpa dell’infezione, si dovrebbero spedire dei campioni da analizzare o mettere in coltura, e aspettare diversi giorni per ottenere il risultato. Per molti pazienti, e per molte infezioni, non è abbastanza veloce. Il primo passo per ridurre l’utilizzo inutile di antibiotici consisterebbe pertanto nello sviluppo di biomarcatori veloci che riescano a identificare la causa dell’infezione in qualche minuto o qualche ora, mediante campioni che si possano raccogliere in maniera
semplice, come feci, urina, sangue o persino respiro. Attualmente l’attività ad ampio spettro della maggior parte degli antibiotici è considerata un vantaggio. Per curare un’infezione i medici non hanno neppure bisogno di sapere quale specie batterica ne sia responsabile: un farmaco ad ampio spettro probabilmente sarà efficace. In un mondo ideale invece saremmo in grado di identificare rapidamente il batterio che la provoca e curarla utilizzando un antibiotico accuratamente mirato. Cercando le molecole specifiche di ciascun patogeno, potremmo creare antibiotici perfetti per distruggere soltanto lui, risparmiando il microbiota benefico che si trasforma altrimenti in un danno collaterale. I costi per sviluppare questi farmaci – uno per ciascun patogeno – sarebbero ampiamente compensati dalla riduzione delle spese per i futuri danni collaterali e dal pagamento anticipato di una terapia a basso rischio per combattere le infezioni. Il riconoscimento dell’importanza del microbiota non si limita alla riduzione dell’utilizzo degli antibiotici. Potremmo impiegare i microbi benefici come alleati nella battaglia contro i patogeni. Contrastando la colonizzazione di agenti patogeni come lo Staphilococcus aureus, il Clostridium difficile e la Salmonella, il nostro microbiota residente ci fa un gran favore, perciò fornire un sostegno alle difese con probiotici all’avanguardia, mirati e adeguati potrebbe aiutarci a combattere l’infezione o a ridurre l’infiammazione. La conoscenza e la manipolazione del microbiota di un individuo per ottimizzare le prestazioni dei farmaci è il passo successivo della medicina personalizzata. L’utilizzo della digossina per il cuore, per esempio, necessita di un approccio individuale. Al momento i medici devono in qualche modo tirare a indovinare quando decidono quale dose di digossina prescrivere ai pazienti. Per settimane o per mesi regolano il dosaggio di ciascun paziente in terapia, bilanciando costi e benefici. Le diverse reazioni dei pazienti non sono dovute a differenze genetiche ma alla composizione del loro microbiota intestinale. I pazienti che ospitano un unico ceppo di una specie batterica chiamata Eggerthella lenta reagiscono poco alla digossina, perché questo comune microbo rende inattivo il farmaco, che diventa inefficace. Se i cardiologi sapessero quali pazienti ospitano la Eggerthella lenta, potrebbero consigliare loro di aumentare l’apporto proteico, poiché l’aminoacido arginina impedisce che il batterio renda inattiva la digossina. Le reazioni umane ai farmaci sono difficilmente prevedibili. Non è possibile prevedere una particolare reazione soltanto grazie ai geni umani e all’ambiente, perché i 4,4 milioni di ulteriori geni del microbiota, in parte ereditati e in parte
acquisiti, giocano un ruolo importante nella reazione di un individuo ai farmaci. I microbi possono rendere le medicine attive, inattive oppure tossiche. Nel 1993 la capacità del microbioma di interferire con i farmaci è costata cara a diciotto pazienti giapponesi malati di tumore che avevano sviluppato un herpes zoster. Il loro normale microbiota intestinale aveva trasformato la terapia contro l’herpes in un composto che, a sua volta, aveva reso la terapia anticancro mortalmente tossica. Quando il farmaco contro l’herpes era stato approvato i pericoli dell’interazione erano noti e l’etichetta riportava un’avvertenza che sconsigliava di assumerlo insieme ad antitumorali. Sfortunatamente all’epoca in Giappone era pratica comune che i medici tenessero all’oscuro i pazienti sulla diagnosi di cancro e prescrivessero degli antitumorali senza dare una spiegazione esaustiva. È facile immaginare che potremmo iniziare a sequenziare i microbi dei pazienti, non solo per facilitare la diagnosi, ma anche per essere certi che ricevano il farmaco più appropriato nelle dosi corrette. Manipolare il microbiota aggiungendo o rimuovendo specie particolari potrebbe contribuire a ridurre gli effetti collaterali delle medicine, migliorarne le prestazioni e garantirne la sicurezza. Poiché i costi del sequenziamento del DNA continuano a ridursi, si fa sempre più realistica l’idea che potremmo monitorare il microbioma per valutare i rischi per la salute e programmare dei miglioramenti. L’uso eccessivo di antibiotici si estende all’allevamento intensivo. Nel suo eccellente libro The Great Food Gamble, il giornalista della BBC John Humphrys racconta la propria visita a un allevamento inglese di bovini. Mentre l’allevatore mostra a Humphrys i possenti animali cresciuti con l’impiego dei migliori farmaci offerti dalla medicina veterinaria, il giornalista nota una solitaria ed esile mucca in un angolino e chiede all’allevatore: “Ha qualche problema?” “Nient’affatto” è la risposta. “Quella è la scheletrica bestiaccia che finirà nel nostro congelatore. La mia signora non gradisce che i ragazzi mangino tutte quelle maledette medicine.” Nell’Unione europea gli allevatori hanno il divieto di usare i promotori della crescita, ma è inevitabile che spesso li impieghino come “terapia”. Gli Stati Uniti, d’altro canto, sono un bel po’ indietro nel divieto degli antibiotici promotori della crescita, anche se la Food and Drug Administration ha annunciato l’intenzione di limitarne l’utilizzo. Non sono solo i prodotti animali a subire gli antibiotici, perché è possibile utilizzare legalmente il concime addizionato di antibiotici per fertilizzare le colture, anche biologiche. Fondamentalmente l’allevamento senza antibiotici (e senza quei pesticidi, ormoni e altre sostanze con un discutibile profilo di sicurezza per gli esseri
umani) costerà di più, ma dove preferireste pagare: alla cassa del supermercato, oppure ogni santo giorno, con una salute cagionevole, costi medici extra e tasse più salate per tenere a galla il servizio sanitario? Quando si parla di alimentazione, siamo assediati dalle polemiche. Che cosa è peggio: il burro o l’olio? Quante calorie al giorno dovremmo assumere? Le noci fanno bene o male? Se vogliamo perdere peso meglio limitare i carboidrati o i grassi? Neppure gli studiosi concordano sulle risposte a queste domande, ma avreste difficoltà a trovare un esperto che ritenga che non dovreste mangiare una quantità maggiore di fibra. In Gran Bretagna nel 2003 è stata lanciata la campagna Five-a-Day per spingere i cittadini a consumare almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno. È ormai così radicata nella coscienza inglese che la gente scherza sul fatto che il vino, la marmellata e le caramelle aromatizzate “sono comunque frutta”. In Australia il messaggio della sanità pubblica è Go for 2&5, cioè due porzioni quotidiane di frutta e cinque di verdura. Sembra che questi messaggi abbiano avuto un certo impatto sulle abitudini alimentari delle persone, ma il problema è che si sono focalizzati su vitamine e minerali più che sulla fibra. Poiché i produttori di cibo hanno colto l’occasione per mettere in mostra i propri prodotti, sono stati fatti rientrare nella categoria alimenti eterogenei come la passata di pomodoro e il succo di frutta. C’è molta più attenzione verso la frutta, spesso sotto forma di succo o frullato, rispetto alla verdura, mentre alimenti di origine vegetale come cereali, semi e noci sono del tutto ignorati. La fibra, a quanto pare, non ha ottenuto la considerazione che le spetterebbe. Un messaggio migliore? Mangiate più vegetali. Forse la maggior difficoltà che affrontiamo come società in fatto di cibo è il ritmo delle nostre vite. È spesso la mancanza di tempo a condurci alla mancanza di fibra. Il tipico pranzo al volo in buona parte del mondo sviluppato consiste in un panino, che potrebbe tutt’al più contenere un sottile strato di foglie di insalata o una manciata di verdura grigliata. Non certo un tripudio di fibra. Anche la cena, quando il tempo per prepararla è poco, consiste spesso in piatti pronti scaldati frettolosamente al microonde, tutt’altro che celebri per il contenuto di vegetali. La frutta che consumiamo è spesso confezionata per comodità e velocità – succhi o frullati in bottiglia – così non è necessario pelarla, tagliarla o ammaccarla in cartella. Il problema risiede in parte nella mancanza di attrezzature per cucinare e mangiare nei luoghi di lavoro: la verdura fredda non è particolarmente buona. Anche dotare di microonde tutti i luoghi di lavoro
sarebbe un bel passo in avanti per consentire al personale di consumare pasti composti da vegetali. Siamo una società molto centrata sul cibo, ma ci impegniamo davvero poco sul suo consumo. E veniamo infine ai bambini. Nel corso dell’ultimo secolo abbiamo fatto passi da gigante nelle cure prenatali e nella riduzione della mortalità infantile, soprattutto dei nati prematuri. E dopo decenni in cui il latte artificiale era più comune di quello materno, almeno nel mondo sviluppato abbiamo fatto molta strada per riaffermare il primato di quest’ultimo nell’alimentazione dei neonati. In altri sensi però stiamo andando indietro. Riponiamo un’enorme fiducia nella scienza e nella medicina e un enorme valore nella libertà di scelta. Il risultato è che in molte città il taglio cesareo è più comune del parto naturale. Dovremmo essere più attenti su questo intervento: la ricerca dedicata ai temi della salute della donna e del bambino è relativamente poca, soprattutto in condizioni di “buona salute”, come durante la gravidanza, il travaglio e il parto. I ginecologi e le ostetriche dovrebbero conoscere le conseguenze microbiche del cesareo e le madri meritano di essere informate. Le tecniche che usiamo per far venire al mondo i bambini si basano sulle conoscenze di ciò che è meglio per madre e bambino. Ma quelle conoscenze continuano a evolversi. La conclusione è che il taglio cesareo non sarebbe tanto sicuro quanto pensavamo: la comunità microbica alterata che un bambino riceve può influenzarne la salute per i giorni, i mesi e gli anni a venire. La conseguenza è che abbiamo trasformato un’intera generazione di bambini in cavie da laboratorio di un gigantesco esperimento. Che cosa accade se si estrae chirurgicamente un bambino, spesso giorni o settimane prima di quando è pronto per nascere, invece di permettere che sia lui a dettare i tempi della propria venuta al mondo attraverso il canale del parto, che giustamente si chiama così? A parte i microbi, che cosa accade se deprivate un neonato degli ormoni rilasciati durante il travaglio, o della tipica pressione del parto vaginale? Che cosa accade al corpo di una madre se la gravidanza si conclude all’improvviso, nel momento in cui il chirurgo effettua il taglio, invece che dopo ore di preparazione chimica e fisica? Stiamo iniziando a conoscere le risposte a queste domande. Come società dobbiamo riservare il taglio cesareo alle madri e ai bambini che ne hanno davvero bisogno e lasciare che la natura faccia il proprio corso nei casi in cui invece non sia necessario. I bambini della generazione precedente invece sono stati cavie di un altro esperimento: che cosa succede se nutrite i neonati con latte di mucca invece che
con il vostro? Per circa un quarto dei bambini nati nel mondo sviluppato oggi questo esperimento continua. Naturalmente esiste un piccolo numero di donne (meno del 5 per cento, secondo le stime) che non riesce a produrre il latte necessario a soddisfare i bisogni dei figli. Altre hanno gravi e reali difficoltà a gestire l’allattamento al seno per sé e per il neonato. È fondamentale sostenere queste donne e offrire buone alternative al latte materno direttamente dal seno: potrebbe trattarsi di latte “tirato” dal seno, di latte umano donato o artificiale. Applicare allo sviluppo del latte artificiale per neonati le crescenti conoscenze sugli oligosaccaridi e sui microbi del latte umano contenuti in quello materno rappresenterebbe un importante contributo, sia per quelle madri che non possono allattare al seno sia per quelle che scelgono di non farlo. Se le ostetriche, i ginecologi e gli operatori sanitari in generale fossero sempre aggiornati sull’allattamento al seno, potrebbero fornire ai genitori i consigli e il sostegno migliori mentre riflettono sulle opzioni e valutano le necessità che riguardano la propria vita e quella dei figli.
Cambiamenti individuali Nel mondo sviluppato la vostra salute fortunatamente dipende in gran parte dalle scelte che fate. I microbi che ospitate, a differenza dei geni che i vostri genitori vi hanno donato o delle infezioni a cui l’ambiente vi espone, sono vostri e potete modellarli, coltivarli e accudirli. Da adulti, il cibo che mangiate e i farmaci che assumete determinano la vostra popolazione di microbi. Trattateli bene e vi restituiranno il favore. Se state progettando di avere dei figli siete responsabili del loro microbiota, soprattutto se sarete la madre. Io sono assolutamente favorevole alla scelta. La scelta è sia un segno sia un abilitatore di libertà. La scelta è il cuore della società civile. E la scelta conferisce agli individui il potere di migliorare la propria vita. Ma la scelta compiuta senza conoscere le informazioni disponibili non ha senso. La ricerca scientifica degli ultimi quindici anni sul microbiota ha rivelato un nuovo livello di complessità e di controllo del corpo umano, e ci fornisce nuove conoscenze sul modo in cui il nostro corpo – inteso come superorganismo – è programmato per funzionare. Le scelte che fate dopo esservi informati sono una vostra responsabilità. L’unica cosa che vorrei suggerirvi è che compiate queste scelte consapevolmente.
Vi esorto a fare una scelta consapevole sulla vostra alimentazione. Molti dei miei amici medici oberati dal lavoro mi dicono che una delle loro più grandi frustrazioni quotidiane è la difficoltà ad aiutare pazienti che non vogliono aiutare se stessi. Quello che i medici vorrebbero spesso prescrivere è uno stile di vita attivo e una dieta sana: povera di grassi, di zuccheri e di sale; e ricca di fibra. Alcuni pazienti però non vogliono saperne; preferiscono risolvere i propri problemi con i farmaci. Ma il cibo è un farmaco. Noi esseri umani ci siamo evoluti in quanto onnivori. Il nostro corpo si aspetta molti vegetali e poca carne. Molti di noi invece mangiano pochi vegetali, molta carne e un mucchio di cibo che assomiglia a stento ad animali o vegetali. Se scegliete di aumentare il vostro apporto di fibra mangiando più vegetali, è bene farlo lentamente e con costanza, per dare al microbiota il tempo di adattarsi. Molta fibra in un intestino popolato da microbi più abituati a una dieta formata da grassi, proteine e carboidrati semplici può produrre alcuni effetti indesiderati. Ricordate che la verdura e i legumi (cioè piselli, fagioli e simili) tendono ad avere un maggiore contenuto di fibra della frutta, e che frullare o centrifugare può ridurre il contenuto di fibra e aumentare l’accesso a calorie digeribili dagli enzimi umani e assorbite nell’intestino tenue. Se già soffrite di un disturbo gastrointestinale, prima di cambiare alimentazione chiedete consiglio al vostro medico. Mangiare vegetali che promuovono un benefico equilibrio microbico vi fornirà le basi per essere in buona salute. Fate una scelta consapevole per mangiare più vegetali. Vi esorto a fare una scelta consapevole sull’utilizzo degli antibiotici. Vorrei essere chiara: gli antibiotici sono farmaci salvavita, e in moltissime situazioni i benefici sono maggiori dei rischi. Sì, quando decidiamo se prendere degli antibiotici dobbiamo tenere conto del microbiota, ma senza antibiotici non potremmo permetterci di preoccuparci dei nostri microbi benefici. Il punto non è che gli antibiotici sono “cattivi” – sono invece un’arma cruciale nel nostro arsenale contro i batteri patogeni – ma che non abbiamo bisogno di usare bombe a grappolo per uccidere un ragno. I medici non sono gli unici a doversi assumere la responsabilità dell’uso eccessivo di antibiotici. Spesso un medico generico visita fino a due dozzine di pazienti prima di andare in pausa pranzo. Con meno di dieci minuti a disposizione per ascoltare una storia, fare una diagnosi, dare un consiglio a un paziente preoccupato e prescrivere un farmaco adatto, potrà spesso capitare che
il medico dia a un individuo insistente ciò che desidera solo perché in tal modo potrà passare al successivo e altrettanto importante appuntamento da dieci minuti. Fate una scelta consapevole e decidete se volete essere voi quel paziente insistente oppure no. Ci sono alcuni passi che potete compiere per cercare di capire se avete bisogno di antibiotici. Primo: considerate l’idea di aspettare un paio di giorni, per vedere se la vostra malattia migliora. Notate per favore che ho scritto considerate l’idea: usate il buon senso. Secondo: se il vostro medico vi propone un antibiotico, non tralasciate di fargli le seguenti domande: 1. Quanto siete certi che la mia infezione sia batterica, e non virale? 2. È davvero probabile che gli antibiotici mi facciano stare molto meglio, o mi aiutino a guarire molto più in fretta? 3. Quali rischi corro se rinuncio agli antibiotici e permetto al mio sistema immunitario di combattere per conto suo l’infezione? Spesso non esiste una risposta chiara sulla linea che dovremmo seguire rispetto agli antibiotici, ma fate una scelta consapevole, sapendo che possono fare male tanto quanto possono fare bene. Valutare se i benefici siano maggiori dei costi è il compito di un paziente informato che si consulta con un medico informato. Accertatevi di essere il primo e che il vostro medico sia il secondo. Infine, se la terapia per la vostra malattia implicasse un sostegno al vostro microbiota con una buona dieta, considerate l’idea di farla. Sarebbe un buon punto di partenza per migliorare la salute. Tenete a mente che questa è una scienza inesatta. La composizione del vostro microbiota non può (non ancora, almeno) rivelare quale malattia potreste avere. Se scegliete o meno di prendere degli antibiotici, fate la vostra scelta consapevolmente. Vi esorto a fare una scelta consapevole sul parto e sull’alimentazione del vostro bambino. Ci vengono date così tante informazioni e consigli sulla gravidanza e sull’allevamento dei figli che talvolta si ha l’impressione che gli istinti naturali che potremmo avere siano stati ormai soffocati. La buona notizia è che le nuove conoscenze sul microbiota ci forniscono una base certa per prendere delle decisioni sui nostri figli: se tutto va bene, seguiamo la natura. Se ci sono dei problemi, il taglio cesareo e il latte artificiale ci daranno certamente una mano. La cosa migliore che ciascuno di noi possa fare è essere preparato e
consapevole. Fate una scelta consapevole sul parto, con un piano-nascita che preveda di fornire ai vostri figli i semi di un microbiota sano. Il modo più efficace per riuscirci è il parto naturale. Se decidete di sottoporvi a un taglio cesareo, o se è inevitabile, prendete in considerazione l’idea di adottare le tecniche del tampone vaginale di Maria Gloria Dominguez-Bello. Condividete il progetto con il vostro compagno, il vostro medico e la vostra ostetrica. Fate una scelta consapevole sull’alimentazione del vostro bambino, ricordando che l’allattamento al seno si prende cura dei germogli del microbiota che riceve alla nascita. Se volete allattare al seno raccogliete con un buon anticipo informazioni, supporto e determinazione; su Internet ci sono un sacco di suggerimenti; il sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità fornisce, oltre a molte informazioni e consigli, le raccomandazioni sulla durata ideale dell’allattamento per la salute e la felicità dei bambini. Non sentitevi in colpa se non ce la fate: esistono molti modi per accudire il microbiota del vostro bambino. Ci sono altre buone notizie sull’allevamento dei figli. Possiamo rilassarci a proposito dei “germi”. La maggior parte dei microbi che i neonati incontrano nella vita quotidiana non farà loro alcun male, perché essi in realtà contribuiscono a rendere eterogeneo il microbiota e aiutano a educare il sistema immunitario. Utilizzare spray e salviettine antibatteriche probabilmente fa più male che bene. Qualunque scelta compiate, siate consapevoli. Nel 2000 alcuni dei membri più intelligenti della nostra specie hanno letto il codice del DNA responsabile della costruzione di quattro nuovi esseri umani in ogni secondo di ogni giorno. È stato un momento di definizione della specie ed è stato per me particolarmente significativo, poiché mi avviavo lungo la strada che mi avrebbe condotto a essere una biologa. Anni dopo, osservando alla Wellcome Collection di Londra i volumi con stampate le As Ts Cs e Gs che compongono il nostro genoma umano, ancora provavo un brivido pensando alla natura solenne della scoperta. Mi affascinava l’idea che quei 120 tomi contenessero l’anima dell’umanità e che ne avessimo catturato l’essenza sulla carta, e alimentava la seduzione nei confronti del lavoro che avevo scelto. È difficile immaginare che la decodifica del microbioma, anche artisticamente rappresentato in maniera così iconica, possa avere lo stesso magico impatto della decodifica del genoma. Ma la comprensione, negli ultimi dieci o vent’anni, che i microbi del corpo umano fanno parte di noi, e che i loro
geni fanno parte del nostro metagenoma, può avere un significato persino maggiore per la vita degli esseri umani. Il microbiota è un organo del corpo umano – l’organo dimenticato, non visto – che contribuisce alla nostra salute e alla nostra felicità esattamente come gli altri. Ma a differenza degli altri organi, questo non è fisso. A differenza dei geni umani, quelli microbici non sono inalterabili. Le specie che ospitiamo e i geni che contengono sono entrambi nostri; sono sotto il nostro controllo. Non potete scegliere i vostri geni, ma certamente potete scegliere i vostri microbi. La conoscenza dell’intimo rapporto con il microbiota pone in un contesto nuovo il nostro corpo e il nostro stile di vita. È l’inevitabile sodalizio con il passato evolutivo a collegare alle proprie radici la nostra vita tecnologica, carente di natura e su macro-scala. Da quando Darwin ha scritto L’origine delle specie abbiamo discusso dei rispettivi ruoli giocati dalla natura e dall’ambiente in quello che siamo. È un uomo alto perché lo è anche suo padre o perché è cresciuto con del cibo sano? È una bambina sveglia perché lo è anche sua madre o perché ha insegnanti bravissimi? Una donna si ammala di tumore al seno per via dei suoi geni o perché ha preso degli ormoni sintetici? Naturalmente si tratta di una falsa dicotomia. Sia la natura sia l’ambiente rientrano nella stragrande maggioranza delle nostre caratteristiche e delle nostre malattie. Se il Progetto Genoma Umano ci ha insegnato qualcosa, è che i geni – la natura – possono predisporci a tutto un insieme di patologie, ma se poi le svilupperemo oppure no dipende dallo stile di vita, dall’alimentazione, dall’esposizione. In breve, dal nostro ambiente. Adesso abbiamo un terzo attore, che siede a disagio tra natura e ambiente. Anche se il microbioma è una forza strettamente ambientale che opera sulle nostre eventuali caratteristiche, è comunque genetico ed è ereditato. Una buona porzione del microbioma non viene trasmessa ai cuccioli attraverso ovuli e sperma, e neppure attraverso i geni umani, ma dai genitori, soprattutto dalla madre. Molti genitori sperano di trasmettere ai figli la parte migliore di se stessi; film come Gattaca immaginano un futuro in cui questo desiderio non è lasciato al caso. La maggior parte dei genitori spera anche di offrire ai figli l’ambiente più sano e più felice possibile. Il microbioma, con il suo influsso genetico ma il controllo ambientale, conferisce ai genitori il potere di fare entrambe queste cose. Malgrado l’eccitazione che ne ha accompagnato la scoperta, il genoma umano non si è rivelato del tutto all’altezza delle nostre idee, che volevano farne un progetto per la vita e una filosofia per l’esistenza. “È nel nostro DNA”
diciamo, mentre siamo alle prese con la nostra umanità e le nostre idiosincrasie, ma in realtà sappiamo che il DNA ci dà ben poche istruzioni per affrontare la vita quotidiana. Anche l’altro 90 per cento però fa parte di noi, quei 100 trilioni di cellule e 4,4 milioni di geni. Ci siamo evoluti insieme a loro e non possiamo farne a meno. Per la prima volta, la teoria evolutiva di Darwin e l’altro nostro 90 per cento ci stanno mostrando come vivere. Accogliere i nostri microbi, che hanno viaggiato con noi per milioni di anni, è il primo passo per valutare chi siamo realmente e per essere sostanzialmente umani al 100 per cento.
Epilogo
100 per cento umani Nell’inverno del 2010, quando il dolore per me era quasi una costante e faticavo a stare sveglia per più di dieci ore al giorno, sarei stata disposta a fare qualsiasi cosa per stare meglio. La possibilità che gli antibiotici – celati in chicchi di plastica all’interno dell’osso cavo di un dito del piede, immessi nel sangue in forma liquida attraverso una cannula, sciolti nell’intestino in capsule piene di polvere – potessero curarmi le infezioni che mi tormentavano era un sogno che non osavo quasi sperare. Sarò sempre grata del fatto che queste potenti medicine mi abbiano ridato la salute e la pienezza della vita. E mi hanno dato anche un’altra cosa: la consapevolezza dei 100 trilioni di amici che condividono il mio corpo. Apprendere del loro contributo alla mia salute e alla mia felicità mi ha aperto una prospettiva totalmente nuova, sia sulla mia vita, sia sulla vita in senso biologico: l’esistenza, e la coesistenza, di esseri viventi. Alla base della mia ricerca per questo libro ce n’era una personale. Volevo sapere se danneggiando la mia comunità di microbi avevo inconsapevolmente danneggiato anche la mia salute. Inoltre, volevo sapere se sarebbe stato possibile ricostruire un microbiota che mi aiutasse a stare meglio. La bellezza del microbiota è che, a differenza dei geni, abbiamo un certo controllo su di esso. Quando ho iniziato le ricerche per questo libro ho mandato un campione del mio microbiota intestinale a un progetto di citizen science, l’American Gut Project, con sede nel laboratorio del professor Rob Knight della University of Colorado di Boulder. Sequenziando alcune sezioni del mio DNA batterico, i ricercatori hanno potuto dirmi quali specie ospitavo. Anche se mi ha fatto piacere constatare che dopo i molti cicli di antibiotici mi erano rimasti alcuni microbi, mi preoccupava la presenza di due tipi predominanti – i Bacteroidetes e i Firmicutes – a discapito di altri. Sembrava che la diversità fosse qualcosa a cui aspirare. Gli esemplari appartenenti a individui che vivevano nella foresta pluviale amazzonica e nel Malawi rurale, la cui vita era priva di antibiotici e della malsana dieta occidentale, che erano nati con parto naturale ed erano stati allattati al seno per anni, hanno una diversità maggiore rispetto a
quelli degli occidentali. Mi chiedevo se qualche microbo in più avrebbe potuto farmi stare meglio e se mangiare correttamente mi avrebbe aiutato ad acquisirlo. Ero affascinata dal fatto che tra i gruppi batterici presenti nel mio campione c’era una proporzione insolitamente elevata di un genere chiamato Sutterella. Durante la mia malattia avevo sviluppato la tendenza ad avere degli spasmi quando ero stanca: i muscoli del viso e del collo si contraevano involontariamente. Era seccante e leggermente inquietante. Poi ho appreso che la Sutterella era sovra-rappresentata anche negli autistici, molti dei quali soffrono di tic fisici come i miei. I responsabili dei miei tic erano forse tutti quei microbi di Sutterella? Per adesso è impossibile saperlo con certezza, perché c’è ancora parecchia ricerca da fare, ma dava certamente da riflettere. Naturalmente bisogna ricordare che questo settore scientifico è ancora in fasce. Ci vuole tempo per stabilire con precisione quale ruolo abbiano i generi, le specie e le comunità microbiche specifiche nella nostra salute e nella nostra felicità, e non abbiamo ancora le conoscenze per diagnosticare dei problemi di salute sulla base del microbioma. Prima di conoscere il microbiota – il mio microbiota – riflettevo ben poco su quello che mangiavo. Non seguivo l’idea secondo cui “siamo quello che mangiamo” ed ero scettica al pensiero che il cibo potesse influenzare la mia salute e il mio benessere nel breve periodo. Mi nutrivo in maniera piuttosto sana, senza mai ingozzarmi davvero al fast food o di dolciumi, ma la verdura non mi attirava più di tanto, ne mangiavo giusto un paio di porzioni al giorno, ed ero beatamente inconsapevole dello scarso contenuto di fibra dei miei pasti quotidiani. Sono sempre stata magra e ne desumevo che la mia dieta fosse sana. Adesso invece ho un’idea del cibo completamente diversa. Non penso soltanto ai nutrienti che le mie cellule umane estraggono, ma anche a che cosa ricevono da mangiare le mie cellule microbiche. Quali gruppi di microbi trarranno beneficio dal mio pasto? In che cosa lo convertiranno? Come influenzeranno quelle molecole la mia permeabilità intestinale? Quali conseguenze avrà tutto ciò su come mi sento? Ho ingerito abbastanza cibo per i microbi e quindi posso mangiarne un po’ per puro piacere? Non ho dovuto cambiare più di tanto la mia dieta per soddisfare il microbiota: i miei pasti sono in gran parte simili a prima, c’è solo un maggior contenuto di fibra. Per colazione, per esempio, prima mangiavo una ciotola di cereali confezionati, zuccherati e deprivati della fibra, mentre adesso prendo una ciotola di fiocchi d’avena, grano e orzo mescolati con noci, semi e frutti di bosco freschi, yogurt naturale vivo non zuccherato e latte. È più gustoso, più
economico e una vera gioia per i miei microbi. Non mi privo di una frittura nel fine settimana, ma mi assicuro di avere un contorno di fagioli e una porzione di funghi. Il riso bianco è diventato integrale. Di tanto in tanto sostituisco la pasta con le lenticchie. Il pesante e aromatico pane di segale prende talvolta il posto dei toast di soffice pane bianco. E integro il consueto pranzo con una ciotola di comodi piselli surgelati e scaldati al microonde o di spinaci al vapore. Secondo i miei calcoli ho portato il mio consumo quotidiano di fibre da circa 15 a 60 grammi al giorno, ed è stato sorprendentemente facile. La colazione conteneva soltanto 2 grammi di fibra mentre adesso ce ne sono addirittura 16, quanta ne consumavo prima in un’intera giornata. Suona ironico, ma i cereali confezionati che mangiavo strom-bazzavano sulla scatola l’alto contenuto di fibra. E quindi che cosa è successo al mio microbiota grazie a questi cambiamenti nella dieta? Dopo essere passata a un’alimentazione più amica dei miei microbi ho fatto sequenziare un secondo campione. Forse non è molto scientifico, ma è una vera soddisfazione vedere i miei sforzi concretizzarsi nei microbi. In cima alla lista dei cambiamenti c’era una fioritura del nostro amico Akkermansia, di cui nel secondo capitolo abbiamo osservato il legame con la magrezza. Il secondo campione ne conteneva una quantità sei volte maggiore rispetto a quella che avevo prima di imbarcarmi nella dieta a base di fibra. Posso solo immaginarli, che rivestono delicatamente la mia parete intestinale e creano un bello strato denso di muco, a protezione del mio corpo dall’invasione di molecole LPS, che recano disturbo al sistema immunitario e alterano la regolazione dell’energia. Anche la squadra di produzione del butirrato, composta da Faecalibacterium e Bifidobacterium era decisamente più numerosa di prima. Mi piace pensare che dia una mano alle cellule del rivestimento intestinale a rimanere unite e a sopire il sistema immunitario. Fin qui sono contenta, ma quale sarà l’impatto sulla mia salute? Sembra che la situazione stia migliorando: il mio affaticamento si attenua e, almeno per adesso, l’eruzione cutanea si è risolta. Il tempo dirà se si tratta di fortuna, di un effetto placebo o proprio del risultato del maggiore consumo di fibra, ma non interromperò questo regime. I cambiamenti del mio microbiota dopo essermi dilettata in una dieta ricca di fibra naturalmente non sono eterni, e per dare sostegno a tempo indeterminato ai microbi devo mantenere alto il contenuto di fibra della mia dieta. Nutrirmi al fine di avere un microbiota benigno ha per me un senso al di là della mia salute. Poiché sto prendendo in considerazione l’idea di diventare madre, sono certa di avere più motivi che mai per prendermi cura di tutte le mie
cellule, umane e microbiche. Se parto dall’ipotesi che assumere degli antibiotici abbia peggiorato il mio microbiota, vorrei cambiarlo di nuovo, per quanto possibile, prima di trasferirlo ai miei futuri figli. Se mangiare più vegetali mi aiuta nell’intento, allora è questa la scelta consapevole da fare. Fino a poco tempo fa avevo poche certezze sul parto e sull’accudimento dei figli. In linea di massima pensavo che la moderna medicina fornisse a me e a loro le cure migliori. Lo penso ancora, ma solo se ci sono dei problemi. Altrimenti, se va tutto bene, seguirò la natura. Mi atterrò al processo di nascita che i mammiferi usano da milioni di anni e al latte che si è evoluto per essere proprio quello adatto ad allevare un cucciolo di uomo. Devo ancora fare delle scelte e trovare dei compromessi, ma unirò le mie conoscenze sul valore del microbiota agli altri elementi importanti che formano quelle decisioni. Per me è una priorità trasferire un microbiota che non sia composto dai microbi dell’epidermide della mia pancia e delle mani di ostetriche e ginecologi. Se il taglio cesareo sarà la mia unica opzione, vorrei per lo meno imitare la natura e tamponare il mio bambino con i microbi vaginali, come suggerisce Maria Gloria Dominguez-Bello. Quanto all’allattamento al seno, sono pronta a utilizzare – insieme a mio marito – tutta la conoscenza, la forza e il sostegno possibili quando ci apriremo la strada nei difficili giorni di dolore, stanchezza e inesperienza che un nuovo bambino porta con sé. Spero di riuscire ad allattare secondo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: sei mesi di allattamento esclusivo, per poi continuare fino ai due anni e oltre. Questo è il mio scopo. Ed è la mia scelta consapevole. Veniamo infine agli antibiotici. Questi straordinari farmaci mi permettono di chiudere il cerchio, da un passato di malattie infettive a un presente di malattie del XXI secolo. Mi hanno restituito una qualità della vita che temevo di non avere mai più, ma lungo il cammino mi hanno condotto in un territorio nuovo, mai sperimentato prima. La lezione non è che gli antibiotici fanno male, ma che sono preziosi, imperfetti e hanno un costo. Dopo l’ultima dose della mia terapia ho avuto la fortuna di non doverne più prendere. Se io o i miei bambini ne avessimo bisogno – realmente bisogno – non avrei dubbi. Li prenderei insieme a dei probiotici, nella speranza di alleviare il rischio di effetti e danni collaterali. Ma se potessi aspettare, per capire se il mio sistema immunitario sia in grado di affrontare da solo un’infezione, questa sarebbe la scelta consapevole che farei. Quanto a me e ai miei microbi, stiamo lentamente ricostruendo la nostra relazione. Senza antibiotici la mia vita sarebbe alquanto diversa, ma adesso che sto di nuovo bene so per certo una cosa: i miei microbi hanno la precedenza.
Dopotutto sono umana soltanto per il 10 per cento.
Bibliografia
La letteratura scientifica sul ruolo del microbiota nella salute umana, sia fisica sia mentale, si sta ampliando a un ritmo esponenziale. È un campo nuovo, decollato sul serio soltanto un decennio fa. Oltre a molte conversazioni dal vivo, per telefono e per e-mail, con alcuni dei principali studiosi della scienza del microbiota, buona parte della ricerca che sorregge questo libro deriva da fonti primarie, ovvero le ricerche peer-reviewed pubblicate sulle riviste scientifiche. Le informazioni contenute nel libro provengono da centinaia di documenti, più di quanti riesca a elencare qui. Mi limito pertanto a citare una manciata di fonti relative agli studi più importanti e interessanti di cui ho scritto, insieme ad alcune proposte di lettura più generiche riguardanti questo promettente campo di ricerca.
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Indice analitico
abbigliamento abitazioni, microbi nelle Academic Medical Center, Amsterdam acetato acidi grassi acidi grassi a catena corta (SCFA) acidi grassi insaturi acido desossicolico acido fenico acido folico acido lattico acido solfidrico acne Actinobacteria adenovirus Adlerberth, Ingegerd adrenalina Africa: asma – alimentazione e microbiota intestinale – beccafichi – Ebola, epidemia di – igiene personale – nascite Africa orientale agenti patogeni agricoltura: impiego degli antibiotici in aironi Akkermansia Akkermansia muciniphila Alabama albero della vita alcol, strofinarsi le mani con Alexander, Albert alghe Aliivibrio fischeri
alimentazione occidentale alimentazione sana alimentazione: vedi cibo allattamento al seno allattamento artificiale Allen-Vercoe, Emma allergia alle arachidi allergia alle nocciole allergie – antistaminici – aumento dell’incidenza – differenze di genere – differenze razziali – dopo un parto cesareo – e allattamento artificiale – e antibiotici – e dimensioni della famiglia – e infezioni – e microbi – e probiotici – e prodotti antibatterici – e ricchezza – e sistema immunitario – nei paesi in via di sviluppo – teoria dell’igiene Alm, Eric Alpi Alvarez, Walter ambiente, e malattie del XXI secolo America centrale American Gut Project (AGP) amerindi amianto aminoacidi ammoniaca anchilostomatide androgeni anemia animali: allergie agli – antibiotici promotori della crescita – coprofagia – rivoluzione neolitica – trasmissione di microbi – vedi anche singoli tipi di animali ansia, disturbo antibiotici – antibiotici ad ampio spettro – benefici degli – come promotori della crescita nell’allevamento – e Clostridium difficile – e
acne – e allergie – e aspettativa di vita – e autismo – e diarrea – e lattobacilli – e malattie autoimmuni – e malattie del XXI secolo – e obesità – e parto – e residui nei vegetali – e sindrome dell’intestino irritabile – e sistema immunitario – e ulcere dello stomaco – effetti collaterali nocivi – effetti sul microbiota – prescrizioni non necessarie – resistenza agli antibiotici – sviluppo degli anticorpi antidepressivi antigeni antistaminici antrace AOBiome api appendice appendicite appetito, controllo dell’ apprendimento arabi arabinoxilano arance archei Argentina arginina aromi vedi odori artrite artrite reumatoide ascessi
Asia asma – allattamento al seno e – antibiotici e – differenze razziali – fibra e – incidenza – ricchezza e – sistema immunitario e Asperger, sindrome di aspettativa di vita Atkinson, Richard aureomicina Australia: acne – consumo di frutta e verdura – consumo di zuccheri – differenze razziali nelle malattie – encefalite letargica – malattie del XXI secolo – parto – trapianti fecali autismo – antibiotici e – differenze di genere – differenze razziali – disturbi dello spettro autistico – dopo il taglio cesareo – e coprofagia – e otiti – genetica e – incidenza dell’ – lipopolisaccaridi e – probiotici e – problemi di comportamento – propionato e – sintomi – sintomi gastrointestinali – sistema immunitario e – trapianti fecali e autoinduttore 1 del colera (CAI-1) autointossicazione autopsie avvelenamento da cibo
baciarsi Bäckhed, Fredrik Bacteroides Bacteroides fragilis Bacteroides plebeius Bacteroidetes BALB, topi balie bambini: allergie – assunzione di grasso – autismo – igiene – impiego di antibiotici – malattie del XXI secolo – malattie infettive – microbiota intestinale – mortalità – obesità – otiti – sviluppo cerebrale – vedi anche neonati batteri anaerobici batteri dell’acido lattico batteriocine batteriociti batteri ossidanti dell’ammoniaca (AOB) batterioterapia batteri: strofinarsi le mani con alcol – batteri anaerobici – batteri ossidanti dell’ammoniaca – danni collaterali degli antibiotici – e mitocondri – e ulcere dello stomaco – lipopolisaccaridi – prebiotici – probiotici – prodotti antibatterici – quorum sensing – resistenza agli antibiotici – sequenziamento del DNA – unità che formano colonie – vedi anche: microbiota; microbi e singoli tipi di batteri beccafichi
Bedson, Henry beduini benessere, e malattie del XXI secolo Bengmark, Stig Bifidobacterium Bifidobacterium infantis bile bioluminescenza bisonte Blaser, Martin bocca, microbi in Bolte, Andrew Bolte, Ellen Bolte, Erin Borody, Tom Boulpon, Burkina Faso bovini Brand-Miller Jennie Brasile Bray, George broccoli bronchite bubble boy Burgess, James Burkina Faso butirrato Butler, Chris bypass gastrico caffeina calamaro gigante delle Hawaii California Institute of Technology calorie: calcolo del contenuto nel cibo – calo del consumo di – diete – differenze nell’incremento di peso – e obesità – microbi ed estrazione delle Campylobacter jejeuni Canada
cancrena cani Cani, Patrice capre carboidrati: contenuto calorico – diete – digestione – effetti dei – fibra – oligosaccaridi – tipi di cardiopatia: e appendicite – alimentazione e – come causa di morte – digossina – fibra e – infarti – infezione delle valvole cardiache – lipopolisaccaridi e – obesità e – sindrome metabolica e – statine Carmody, Rachel carne carnivori caseina cavalli, si rotolano nella terra celiachia cellule adipose: controllo dell’appetito – fibra e – immagazzinamento di grasso – in gravidanza – in individui obesi – lipopolisaccaridi e cellule B di memoria cellule dendritiche cellule, mitocondri cellule “natural killer” cellule T helper cellule T regolatorie (Treg) cellulosa centenari
Centers for Disease Control (CDC) Centre for Digestive Diseases Sydney cereali cervello: connessione con l’intestino – disturbo ossessivo compulsivo – encefalite letargica – ictus – infiammazione – malattia di Whipple – microbi e – neurotrasmettitori – propionato e – ricordi – sinapsi – sistema immunitario – sviluppo del – tetano – vedi anche malattie mentali Chain, Sir Ernst Boris Charles University, Praga Chida, Yoichi Children of the 90s, progetto chiocciola segmentina Church, Andrew cibi senza-qualcosa cibi vegetali vedi frutta; verdura cibo – allergie e intolleranze – assunzione di grassi – cibo confezionato – conservanti – contenuto calorico – contenuto di fibra – cottura – dieta sana – digestione – e invecchiamento – e microbiota intestinale – residui di antibiotici nel – rivoluzione neolitica – svezzamento dei bambini ciclo mestruale cimici Cina ciprofloxacina
citochine ciuccio clindamicina Clinton, Bill cloro cloroformio Clostridium Clostridium bolteae Clostridium difficile – Lactobacillus e – allattamento artificiale e – antibiotici e – decessi da – nel microbiota intestinale dei neonati – sintomi – trapianti fecali Clostridium tetani codici di accesso, microbi benefici Cold Spring Harbor Laboratory, Stato di New York colera colesterolo coliche infantili colite ulcerativa colon: autointossicazione – digestione – irrigazione del colon – megacolon tossico, vedi anche microbiota intestinale; malattia infiammatoria intestinale, intestino; sindrome dell’intestino irritabile – tumore al colon colostro coltivazione vedi agricoltura comportamento: nell’autismo – alterazioni dovute ai microbi – neurotrasmettitori – propionato e comportamento sociale, autismo concime, contaminazione da antibiotici conigli conservanti, alimenti contraccettivi coorte di nascita nazionale danese coprofagia Cordyceps, fungo Cornell University Corynebacterium cottura del cibo
Crapsule Crohn, morbo di Cuba cucine, pulizia Cyanobacteria Dale, Russell Danimarca Darwin, Charles – L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali – L’origine dell’uomo – L’origine delle specie Dawkins, Richard, Il gene egoista D-Day, sbarco demenza deodoranti depressione derivati epidermici dermatite Dhurandhar, Nikhil diabete – alimentazione e – allattamento al seno e – allattamento artificiale e – differenze di genere – differenze razziali – e antibiotici – e taglio cesareo – incidenza del – intestino permeabile e – lipopolisaccaridi e – nell’infanzia – obesità e – probiotici e – sindrome metabolica – sintomi – trapianti fecali diarrea: antibiotici e – Clostridium difficile – colera – come causa di morte
– e autismo – e coprofagia – probiotici e – sindrome dell’intestino irritabile – trapianti fecali diarrea del viaggiatore dieta crudista dieta vegetariana diete diete a basso contenuto di carboidrati diete a basso contenuto di grassi differenze di genere: autismo – infezione da Toxoplasma – malattie del XXI secolo differenze razziali, malattie del XXI secolo difterite digossina Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) disbiosi dissenteria disturbo bipolare disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) disturbo ossessivo compulsivo (OCDC) DNA: e tumori – genoma umano – sequenziamento del DNA Dodd, Diane Dominguez-Bello Maria Gloria donatori di sperma donatori: trapianti fecali donne: acne – allattamento al seno – ciclo mestruale – consumo di grassi – e malattie del XXI secolo – gravidanza – infezione da Toxoplasma – lupus – morte di parto – obesità e tumori – parto vaginale – taglio cesareo – trasferimento di microbi al neonato – uso di antibiotici dopamina drosofila
Ebola Escherichia coli eczema – allattamento artificiale e – antibiotici e – incidenza – prebiotici e – probiotici e Eggerthella lenta Egitto Eiseman, Ben elefanti Elisabetta II, regina d’Inghilterra emicrania emozioni, e sindrome dell’intestino irritabile encefalite letargica energia: nel cibo – immagazzinamento nel corpo – mitocondri enterobatteri Enterococcus enterocolite necrotizzante enzimi epatite A epidemia epidemiologia epinefrina Epstein-Barr, virus di erbivori eruzioni cutanee estrogeni età, e malattie del XXI secolo Eucarioti Europa: acne – allattamento al seno – consumo di grassi – differenze razziali nelle malattie – encefalite letargica – parto – teoria dell’igiene – uso di antibiotici – vedi anche singoli paesi Europa orientale
evoluzione Faecalibacterium Faecalibacterium prausnitzii fagioli, contenuto di fibre fagociti famiglie, microbiota farina, contenuto di fibra faringiti farmaci: microbiota intestinale e – vedi anche antibiotici Fasano, Alessio fascite necrotizzante FATLOSE (somministrazione fecale per perdere la resistenza all’insulina) febbre da fieno febbre puerperale feci: e parto – coprofagia – sequenziamento del DNA microbico nelle – trapianti fecali – vedi anche microbiota intestinale felicità ferite feromoni feromoni sessuali fibra: e Akkermansia – assunzione di – campagna Five-a-Day – e appendicite – e butirrato – e microbiota intestinale – e obesità – intolleranza al glutine e al grano – nelle feci – prebiotici Finegold, Sydney Firenze Firmicutes Five-a-Day, campagna Fleming, Sir Alexander Florey Ethel Florey, Howard Food and Drug Administation (FDA) foresta amazzonica formaggio
formiche Francia Freud, Sigmund frutta frutto-oligosaccaridi (FOS) fruttosio fumo di sigaretta funghi galatto-oligosaccaridi galattosio gallinelle d’acqua gangli della base gastrite gastroenterite Gattaca (film) gatti Ge Hong, Manuale di medicina d’urgenza generazione X geni: controllo dell’appetito – donatori di sperma – e controllo del peso – e feromoni – e intolleranza al lattosio – e obesità – e permeabilità intestinale – e predisposizione alle malattie – e vitamine – mutazioni – selezione naturale gentamicina Germania ghepardi ghiandole apocrine ghiandole eccrine ghiandole linfatiche ghiandole odorifere Giappone giardiasi Giorgio V, re d’Inghilterra gliceroli globuli bianchi
glucosio glutine Gombe Stream National Park, Tanzania gonorrea Goodall, Jane GPR43 (G-proteina accoppiata al recettore 43) Gram-negativi, batteri Gram-positivi, batteri Gran Bretagna: utilizzo degli antibiotici – allattamento al seno – calo dell’apporto calorico – Clostridium difficile – consumo di frutta e verdura – consumo di grassi e di zuccheri – diabete nei bambini – microbi intestinali nei neonati – obesità – parto cesareo grassi: contenuto calorico – assunzione di – diete – diete ipolipidiche – digestione dei gravidanza – alterazioni metaboliche – antibiotici in – batteri vaginali – microbiota intestinale – probiotici in – toxoplasmosi Hai, Peggy Kan Harvard University Hawaii Helicobacter Pylori herpes zoster
HIV Hoffman, Dustin Homo Sapiens Humphrys, John, The Great Food Gamble ibernazione ictus
idrogeno, nel respiro dei bambini igiene “il Verme”, numero di geni immunità di gregge immunodeficienza combinata grave (SCID) Imperial College, Londra impianti fognari incidenti d’auto – e infezione da Toxoplasma incremento di peso: calorie e – in gravidanza – vedi anche obesità India Indice di Massa Corporea (IMC) Indonesia infezioni al torace infezioni del tratto respiratorio infezioni del tratto respiratorio superiore infezioni, e allergie infiammazione – e acne – e invecchiamento – e malattie del XXI secolo – e malattie mentali – fibra e – in gravidanza – nell’obesità – sindrome dell’intestino permeabile influenza insulina – diabete di tipo – lipopolisaccaridi e – probiotici e – resistenza all’insulina – trapianti fecali e integratori alimentari, prebiotici intestino – appendice – celiachia – cieco – colera – disbiosi – enterocolite necrotizzante – intestino permeabile – legame con il cervello – rivestimento di muco – sistema immunitario – topi privi di germi
– tumore colon-rettale – vedi anche colon; diarrea, microbiota intestinale; malattia infiammatoria dell’intestino; sindrome dell’intestino irritabile intestino cieco intolleranza ai cereali inulina invecchiamento iperfagia ipertensione ipoclorito di calcio Ippocrate Iran Irlanda del Nord isole del Pacifico isole del Sud Pacifico Italia Jenner, Edward Jumpertz, Reiner Kanner, Leo Kasthala, Gita Khoruts, Alexander Klebsiella, Knight, Rob koala Koch, Robert Kolletschka, Jacob Krau Wildlife Reserve, Malaysia Lactobacillus Lactobacillus acidophilus Lactobacillus bulgaricus Lactobacillus johnsonii Lactobacillus paracasei Lactobacillus plantarum Lactobacillus reuteri Lactobacillus rhamnosus lattasi lattato latte: antibiotici nel – allattamento al seno – allattamento artificiale – balie – banche del latte
– intolleranza al lattosio – latte di mucca – lattobacilli e – marsupiali – proteine del latte – yogurt latte artificiale latte di mucca latticini lattosio lavaggio delle mani legumi, contenuto di fibra Lemos de Goés, Adelir Carmen lenticchie leoni leopardi leptina leucemia Ley, Ruth libero arbitrio lince rossa linfoma lipopolisaccaridi (LPS) lisozima Lister, Joseph litio livelli di zucchero nel sangue Londra: epidemia di colera – Toxoplasma Louisiana luce, bioluminescenza lucertole lupus Lyman, Flo e Kay MacFabe, Derrick macrofagi maiali malattia di Huntington malattia di Whipple malattia infiammatoria intestinale (IBD) – differenze di genere – e microbiota intestinale – incidenza della
– trapianti fecali malattie: anticorpi – agenti patogeni – alimentazione e – epidemiologia – geni e – malattie infettive – obesità e malattie infettive – patologie causate dall’acqua – teoria dei germi – trasmissione dei microbi – vaccinazioni – vedi anche antibiotici e singole malattie malattie autoimmuni – appendice e – cellule T helper e – differenze di genere – differenze razziali – e antibiotici – e taglio cesareo – incidenza delle – IPEX, sindrome – nei paesi in via di sviluppo – nell’infanzia – probiotici e – ricchezza e – sistema immunitario e – trapianti fecali e – vedi anche singole malattie malattie del XXI secolo – alimentazione e – antibiotici e – differenze di genere – disbiosi – e taglio cesareo – infiammazioni – trapianti fecali e – vedi anche allergie; malattie autoimmuni; malattie mentali; obesità malattie infettive malattie mentali – differenze di genere – encefalite letargica – epidemiologia – lipopolisaccaridi e – microbi e
– probiotici e – sintomi gastrointestinali – sistema immunitario e – Streptococcus e – terapia farmacologica – vedi anche singole malattie malattie neuropsichiatriche, vedi malattie mentali Malawi Malaysia mal di gola mammiferi Marina statunitense Marshall, Barry Marsiglia marsupiali Massachusetts General Hospital for Children, Boston mastoidite Mazmanian, Sarkis McMaster University, Ontario Medical Hypotheses medicina alternativa medici: prescrizione di antibiotici – pratiche igieniche in ospedale Medio Oriente megacolon tossico Megacopta cibraria memoria meningite mercurio Messico metabolismo metaboliti Metchnikoff, Elie – Il prolungamento della vita meticillina microbi: e invecchiamento – albero della vita – antibiotici e – antigeni – baci e – cambiamenti di comportamento nell’ospitante – coltivazione – disbiosi
– diversità – e allergie – e autismo – e ciclo mestruale – e formazione dei ricordi – e malattie mentali – e neurotrasmettitori – e sudore – e tumori – e vitamine – evoluzione – feromoni – geni – habitat nel corpo umano – in casa – nei topi geneticamente obesi – nel latte materno – nella bocca – nella vagina – nelle narici – nello stomaco – pratiche di igiene ospedaliera – Robogut – sequenziamento del DNA – sistema immunitario e – sulla pelle – teoria dei “vecchi amici” – teoria dei germi – topi privi di germi – trasferimento da madre a figlio – trasmissione di – vivere senza – vedi anche batteri; microbiota intestinale; virus microbioma microbiota intestinale – alimentazione e – allattamento artificiale e – American Gut Project – antibiotici e – carnivori – come causa di cattiva salute – dieta crudista – e autismo – e bypass gastrici – e coliche infantili
– e digossina – e fibra – e intestino permeabile – e invecchiamento – e malattie mentali – e nutrizione – e obesità – e sindrome dell’intestino irritabile – ed effetti delle medicine – geni e – in gravidanza – nei bambini – nell’appendice – prebiotici – probiotici – società tribali – trapianti fecali – trasferimento da madre a figlio migranti, malattie del XXI secolo migrazione, beccafichi millennials Miller, Anne minerali Minnesota minociclina miosite Mississippi misure igieniche mitocondri Moraxella morbillo morbo di Parkinson mortalità infantile morte – cause di – Clostridium difficile – diarrea e – neonati e bambini morte infantile improvvisa MRSA (Staphylococcus aureus resistente alla meticillina) mucche
Mumbai muscoli, tetano mutazioni, geni Mycobacterium narici, microbi nelle nascere con la camicia nascita dei bambini vedi parto National Food Survey (Gran Bretagna) National Health Service (NHS) National Institutes for Health (Stati Uniti) National Institute of Health, Phoenix, Arizona Nature Nauru neonati – allattamento al seno – allattamento artificiale – antibiotici – balie – coliche – microbiota intestinale – mortalità infantile – nascere con la camicia – otite – parto cesareo – parto in acqua – parto vaginale – probiotici e – sistema immunitario – svezzamento – trasferimento dei microbi a nervi nervo vago neurotrasmettitori New York City New York University Nicholson, Jeremy Nieuwdorp, Max nitrito Nitrosomonas eutropha
Nobel, premio Nord America nori Nuova Zelanda nutrizione vedi cibo ob/ob, topi obesità – Akkermansia e – alimentazione e – allattamento al seno e – antibiotici e – beccafichi – bypass gastrico – cellule adipose – chirurgia per – come malattia infettiva – controllo dell’appetito – differenze di genere – differenze razziali – difficoltà nel perdere peso – e calo dell’apporto calorico – e diabete – e genetica – e sindrome dell’intestino irritabile – e taglio cesareo – e tumore al fegato – e tumori – incidenza di – microbiota intestinale e – nei paesi in via di sviluppo – nell’infanzia – trapianto fecale e – virus e Obesity Society odore corporeo odori: feci – feromoni oligofruttosio oligosaccaridi olobionte ominidi onnivori OpenBiome
Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ormoni: acne – ciclo mestruale – contraccettivi – controllo dell’appetito – della tiroide – dello stress – e sistema immunitario – in agricoltura – insulina – leptina – nel travaglio – sessuali orzo Ospedale Generale di Vienna ospedale pediatrico dell’università di Monaco ospedali, igiene ossido di azoto ossigeno ossitocina ossiuri ostetriche otite Oxford University Paesi Bassi paesi in via di sviluppo: uso degli antibiotici – malattie del XXI secolo Pakistan paleo-dieta pancreas panda gigante pane papillomavirus umano (HPV) Papua Nuova Guinea Papua Occidentale parassiti pareti intestinali permeabili Parigi Parker, Janet
parotite parto – antibiotici nel – febbre puerperale – igiene – nascere con la camicia – ormoni – parto in acqua – parto in casa – parto vaginale – taglio cesareo – trasferimento di microbi al bambino parto in acqua parto in casa Pasteur, Louis patate pecore pectina pelle – acne – eruzioni – feromoni – igiene – lavaggio – microbiota – psoriasi – sudore – vedi anche eczema penicillasi penicillina Penicillium Peptostreptococcaceae perdita di peso: diete – beccafico – dieta crudista – trapianti fecali persistenza della lattasi pertosse pesce, microbiota intestinale pesticidi
Petrof, Elaine Phipps, James pipistrelli pipistrelli vampiro Pirenei placche di Peyer poliomielite polisaccaride A (PSA) polisaccaridi Pollan, Michael polline polli: terapie antibiotiche – malattia virale polmoni polmonite Porphyra porpora trombocitopenica idiopatica Porto Rico povertà Praga prebiotici pressione del sangue Prevotella Prima guerra mondiale primati, XXIV probiotici prodotti antibatterici prodotti per la pulizia Progetto Genoma Umano (HGP) Progetto Microbioma Umano (HMP) propionato Propionibacterium Propionibacterium acnes proteine Proteobacteria Pseudomonas psicoanalisi psoriasi pulizia
Queen’s University, Kingston, Ontario quorm sensing rabbia rachitismo raffreddore Rain Man (film) rane ratti regno degli Animali RePOOPulate Repubblica Dominicana rettili, microbiota intestinale ricchezza, e malattie del XXI secolo Riley, Lee Rio de Janeiro riso risorse idriche: prodotti antibatterici nelle – clorazione – e sindrome dell’intestino irritabile – epidemia di colera – patologie causate dall’acqua rivestimento di muco, intestino rivoluzione industriale rivoluzione neolitica Robogut roditori Roseburia intestinalis Rosenberg, Eugene e Ilana rosolia rospi Rowen, Lee Ruanda Rush Children’s Hospital, Chicago Russia Salmonella Sandler, Richard sangue sanguisughe saponi Sardegna savant
Scandinavia scarafaggi scarlattina schizofrenia Science Scientific American scimmie scimpanzé sclerodermia sclerosi multipla (MS) – antibiotici e – differenze razziali – e allattamento artificiale – incidenza della – nei bambini – probiotici e – trapianto fecale e scorbuto Seconda guerra mondiale segale selezione dell’ologenoma selezione naturale Semmelweis, Ignaz “sentimenti della pancia” serotonina setticemia Sharon, Gil Shigella shock anafilattico sifilide sindrome dell’intestino irritabile – antibiotici e – diete prive di glutine – differenze di genere – e malattie mentali – emozioni e – incidenza della – microbi e
– probiotici e – sindrome dell’intestino irritabile post-infezione – trapianti fecali sindrome di Tourette sindrome IPEX sindrome metabolica sinusite sistema digestivo – vedi anche colon; microbiota intestinale; intestino sistema immunitario – antibiotici e – anticorpi – antigeni – appendicite e – celiachia – e acne – e allergie – e autismo – e cellule adipose – e il cervello – e intestino – e intestino permeabile – e intolleranza al glutine – e invecchiamento – e malattie del secolo – evoluzione – feromoni e – fibra e – malattia infiammatoria dell’intestino – microbi e – nei neonati – pandemia di influenza – probiotici e – sindrome IPEX – teoria dell’igiene – tipi di cellule – topi privi di germi – vaccini e – vivere senza microbiota – vedi anche malattie autoimmuni sistema nervoso, sclerosi multipla Smith, Mark
Snow, John società tribali: microbiota intestinale – igiene personale Soho, Londra Somalia sovrappeso Spagna spore, Clostridium difficile Staphylococcus statine Stati Uniti d’America: ricchezza e malattia – allattamento al seno – antibiotici – calo dell’apporto calorico – consumo di fibra – diabete – encefalite letargica – impego di antibiotici nei bovini – malattie infettive – microbiota intestinale – mortalità infantile – obesità – piani vaccinali – prodotti antibatterici – sindrome dell’intestino irritabile – supermercati – taglio cesareo – trapianti fecali steroidi stipsi stomaco – bypass gastrico – digestione, X – microbi nello – tumore – ulcere Strachan, David streptococco di Gruppo B Streptococcus Streptococcus prenumoniae stress: sindrome dell’intestino irritabile – e ulcere dello stomaco – ormoni dello stress – sindrome dell’intestino permeabile e studi di associazione genome-wide
(GWAS) Stuebe, Alison Stunkard, Albert successione ecologica succhi Sud Africa Sud America Sudo, Nobuyuki sudore Sulawesi suolo: batteri ossidanti dell’ammoniaca – contaminazione da antibiotici superfood Sutterella Svezia svezzamento Svizzera taglio cesareo Tanzania tenia teoria dei germi teoria dei “vecchi amici” teoria dell’igiene, allergie teoria del miasma terapia dell’ecosistema microbico termiti tessuti, abbigliamento testosterone tetano tetracicline antibiotici tic fisici tifo tonsillite topi: antibiotici e – comportamenti caratteristici – diabete nei – fibra nella dieta – numero dei geni – probiotici e
– topi ob/ob – topi geneticamente obesi – topi privi di germi – trapianti fecali – trapianti microbici topi gnotobiotici topi privi di germi topo svizzero Toronto torte tosse a insorgenza improvvisa Toxoplasma Transpoosion trapianto fecale trasfusioni di sangue travaglio vedi parto triclosan triptofano tubercolosi tumore al fegato tumore al seno tumore della cervice tumore dell’utero tumori: invecchiamento e – alimentazione e – allattamento artificiale e – chemioterapia – come causa di morte – herpes zoster e – infezioni e – linfoma – microbi e – obesità e – prebiotici e – sindrome metabolica e – sistema immunitario e – tumore al colon – tumore al fegato – tumore al seno – tumore allo stomaco – tumore della cervice
– tumori del sangue Turchia Turnbaugh,Peter tutsi uccelli uistitì ulcere, dello stomaco Ungheria unità che formano colonie (UFC), batteri University of Berna University of Birmingham University of Bristol University of Colorado, Boulder University of Göteborg University of Guelph, Ontario University of North Carolina, facoltà di medicina University of Tel Aviv University of Western Ontario University of Wisconsin vaccini vaccino MMR (parotite, rosolia, morbillo) vagina: microbi – lavande probiotiche – parto vaginale vaiolo vaiolo bovino vancomicina vegani vegetali, successione ecologica Venezuela verdura: contaminazioni da antibiotici – campagna Five-a-Day – contenuto di fibra – digestione – prebiotici vermi vermi trematodi Vetter, David Vibrio cholerae vie urinarie
virus – antibiotici e – ciclo mestruale – e malattie autoimmuni – e obesità – pandemia di influenza – poliomielite – rabbia – vaiolo – virus dei polli vitamine – carenza – enzimi e – sintetizzate dai batteri – vitamina B12 Vrieze, Anne VSL#3 Walkerton, Canada wallabia Warren, Robin Washington University, St. Louis Wellcome Collection, Londra Whitlock, David Whorwell, Peter Wold, Agnes Wrangham, Richard xilano Xylanibacter zecche Zobellia galactanivorans zonula occludens (Zot), tossina zonulina zuccheri – calo del consumo degli – diete ad alto contenuto di zuccheri – digestione – e obesità
– oligosaccaridi
Altri volumi di saggistica scientifica BEGUN D.R., Il vero pianeta delle scimmie, pp. X-262 (2016) BELLINI G. (a cura di), Dall’atomo all’Io, pp. XIV-290 (2017) BROGAARD B., MARLOW K., La mente superumana, pp. XII-292 (2016) CALONICO D., OLDANI R., Il tempo è atomico, pp. VI-250 (2013) CHAMBERS J., MITTON J., Dalla polvere alla vita, pp. XII-324 (2016) CHINNICI G., Assoluto e relativo, pp. X-278 (2015) COMINS N.F., Destinazione Spazio, pp. VI-298 (2017) COX B., FORSHAW J., L’universo quantistico svelato, pp. VIII-296 (2013) COX B., FORSHAW J., Perché E = mc2?, pp. XVI-224 (2012) COX B., FORSHAW J., Universal, pp. 304 ca., in preparazione (2017) NAHIN P.J., Sarai ancora vivo tra 10 anni?, pp. XXVI-230 (2015) TEMPORELLI M., Il codice delle invenzioni, pp. XXIV-264 (2011)
Informazioni sul Libro
Siamo umani soltanto al 10 per cento. Per ogni cellula che forma quel recipiente chiamato corpo, ce ne sono altre nove che, da autentici impostori, scroccano un passaggio. Non siamo fatti solo di carne e sangue, muscoli e ossa, epidermide e cervello, ma anche di funghi e batteri [...] Nel corso della vita ospitiamo così tanti microbi che il loro peso equivarrebbe a quello di cinque elefanti africani, perché in realtà non siamo individui ma colonie.
F
ino a non molto tempo fa eravamo convinti che il ruolo dei microbi fosse per lo più irrilevante, ma la scienza sta svelando un’altra verità: forse sono i microbi a gestire il nostro corpo e la salute senza di loro sarebbe impossibile. La biologa Alanna Collen ha scritto un libro affascinante e stupefacente in cui, attingendo alle più recenti scoperte scientifi che, dimostra che la colonia di microbi che ospitiamo infl uenza il nostro peso, il sistema immunitario, la salute mentale e persino la scelta del partner. Molte delle moderne patologie, tra cui obesità, autismo, disturbi mentali, problemi della digestione, allergie, malattie autoimmuni e persino i tumori, derivano dall’incapacità di prenderci cura della più fondamentale e duratura relazione che intratteniamo: quella con la nostra colonia di microbi. Ci sono però anche buone notizie: a differenza delle cellule umane, è possibile migliorare i microbi. La vita e il corpo umano non ci sembreranno più gli stessi.
Circa l’autore
ALANNA COLLEN è una scrittrice scientifica. Laureata in biologia all’Imperial College di Londra, si è specializzata in biologia evoluzionistica allo University College di Londra e alla London Zoological Society. Esperta zoologa, si è occupata in particolare dell’ecolocalizzazione dei pipistrelli ed è una sfortunata collezionista di malattie tropicali. Nel corso della sua carriera, ha scritto per il “Sunday Times Magazine” e, su temi riguardanti la natura, per ARKive.org.