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CONOSCERE LA
CONOSCERE
Cinecittà: il Duce e la sua Hollywood
LA CULTURA DEL DIRITTO E DELLA CONVIVENZA CHE CONQUISTÒ IL MONDO UN ESEMPIO DI CIVILTÀ CHE CAMBIÒ LA STORIA D’EUROPA PER SEMPRE
IMPERO
ROMANO LE VERE RAGIONI DEL SUO SUCCESSO La più grande battaglia navale di tutti i tempi
1916: Germania e Inghilterra si giocano il tutto per tutto nel Mare del Nord
Paolo e Francesca: amore e morte nel Medioevo Che cosa rivelano i documenti storici sulla tragica vicenda cantata da Dante
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Questa copia della Lupa Capitolina sorveglia la città spagnola di Segovia, con il suo splendido acquedotto romano. Sono molte le città del mondo che hanno riservato un posto d’onore al simbolo dell’Urbe, perfino dove le legioni non sono mai arrivate: la svedese Lidingö e la romena Chisinau, Tokyo, Washington, Montevideo, Buenos Aires, Narbona, Tarragona, Cincinnati, El Salvador e altre ancora. Queste Lupe sono il segno tangibile del rispetto e dell’ammirazione riservati a Roma antica, alle sue leggi e agli indimenticabili insegnamenti che ci ha lasciato in eredità.
Editoriale
Il regno della Lupa non ha confini
C
omprendere il presente è impossibile senza conoscere il passato, ed è questo che rende sempre attuale lo studio della Storia. In particolare, il nostro presente continua a essere debitore del passato grandioso di Roma imperiale, rimasto ineguagliato nell’intera storia dell’umanità. L’Impero Romano non fu, in assoluto, il più esteso, né territorialmente né temporalmente, ma la sua influenza sulla struttura del mondo così come lo conosciamo è stata decisiva e insuperata. Con la sua politica lungimirante e la straordinaria modernità delle riforme amministrative, nel I secolo d.C. Ottaviano Augusto realizzò pienamente le linee guida dell’idea imperiale, immortalate da Virgilio nell’Eneide: «Ricorda, romano, di dominare le genti. Queste saranno le tue arti: stabilire
regole alla pace, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi». Da allora, il concetto di “impero” come unica fonte di ordine pacifico per i popoli è rimasto vivo e operante, pur assumendo di volta in volta forme diverse. Dai sovrani di Bisanzio a Carlo Magno, da Carlo V agli Asburgo e infine a Napoleone, la visione potente di un punto di riferimento universale, garanzia di prosperità per tutte le genti, non ha mai smesso di sedurre i pensatori e le nazioni. E se il sogno non si è avverato, le tracce indelebili dell’impero dell’Urbe, che costellano ogni angolo d’Europa, sono oggetto di studio e ispirazione anche nei continenti ancora ignoti all’epoca dei Cesari. Da polo a polo, siamo tutti eredi di quella cultura e possiamo dirci idealmente, ancora e sempre, cittadini di Roma.
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SOMMARIO IL PROSSIMO NUMERO SARÀ IN EDICOLA DAL 27 DICEMBRE COVER
STORY
8
L’IMPERO ROMANO
LA PIÙ GRANDE COSTRUZIONE POLITICA E CULTURALE DELL’ANTICHITÀ HA FORGIATO IL NOSTRO MONDO
20 A che cosa si dovette l’eccezionale tenuta di Roma?
E perché la consideriamo la base della civiltà moderna?
6 Memorie personali
Manda le tue foto
Alla scoperta del passato attraverso le foto dei lettori
8 Costume
Una Hollywood per il Duce
1916, Apocalisse sul mare
La nascita di Cinecittà
14 I guerra mondiale
La battaglia dello Jutland
50 Settecento
La regina raggirata Lo “scandalo della collana” che affrettò la Rivoluzione
54 Collezionismo
Guerrieri in miniatura
La storia dei soldatini
60 Storia delle religioni
10 modi strani per adorare Dio
Culti bizzarri e dèi inventati
30 Canaglie & avventurieri 66 Grandi mostre
Augusto Pinochet
Il dittatore che trasformò il Cile in un mattatoio
34 Quattrocento
Milano sfida Venezia
La vera storia di Paolo e Francesca
La lotta per la terraferma
40 Medioevo
Gli amanti più famosi e infelici di tutti i tempi
44 Storia e mito
L’Iliade
Il primo poema omerico
14
40
Splendida Cartagine
La nemica dell’Urbe svela i suoi tesori nel cuore di Roma
72 Tecnologie
Una sfida ai ghiacci La conquista del Polo Nord
78 Aneddoti & curiosità
Cronache del tempo che fu
Personaggi e curiosità fra le pieghe della Storia
Libri, mostre, film, serie tv
44
80 Storia & Storie
QUESTA CARTA RISPETTA L’AMBIENTE Trova questa rivista e tutte le altre molto prima,ed in più quotidiani,libri,fumetti, audiolibri,e tanto altro,tutto gratis,su:https://marapcana.tech
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Memorie personali Tutte le famiglie conservano un tesoro di fotografie storiche, testimoni di piccole o grandi avventure, di personaggi da non dimenticare. Queste pagine sono a disposizione di chiunque voglia raccontarne la storia, ricercarne i protagonisti e condividere con gli altri lettori un frammento di vita del nostro Paese.
Inviate testi e scansioni delle vostre foto all’e-mail: cls@conoscerelastoria.it
Un giallo per Dàuli Trucchi ed eroi
Q
uest’estate ho acquistato su una bancarella dell’usato questo libro di Agatha Christie, che mi ha incuriosito per la copertina. Risale agli anni Trenta ed ero convinto che all’epoca si usassero soprattutto copertine monocrome, ma a quanto pare mi sbagliavo. Essendo un appassionato della Christie mi sono divertito a leggere il giallo, la cui traduzione, attribuita a un certo L. Graziani, risulta godibile nonostante l’uso di termini ormai desueti. Interessante il titolo, traduzione letterale di The Mysterious Affair at Styles, che nelle edizioni più recenti è stato alleggerito in Poirot a Styles Court. Giorgio Massi Mauri, Milano La Argo Edizioni di Milano, attiva dal 1933, era titolare di altri marchi (Edizioni Mediolanum, L’Editoriale Moderna) che servivano probabilmente a eludere la censura dell’epoca fascista. Del resto, uno dei membri della società fu Giuseppe Ugo Virginio Quarto Nalato (1884-1945), più noto con lo pseudonimo di Gian Dàuli, che collaborò con diverse case editrici e portò in Italia autori anglosassoni come Conrad, London o Stevenson. Amico del poeta irlandese Yeats, Dàuli fu il primo traduttore di Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline. Antifascista, scrisse Mussolini, l’uomo l’avventuriero il criminale (pubblicato postumo nel 1946) in cui definisce il Duce «un commediante assetato di teatralità». Fautore delle copertine illustrate, Dàuli realizzò anche (con il tipografo modenese Andrea Lucchi) edizioni straordinariamente economiche, affidate, per la vendita, ad ambulanti che le proponevano per strada o nelle fiere di paese.
L’
anno prossimo arriverà nelle sale il 25° film della serie di James Bond. Da sempre sono una grande fan del personaggio, passione ereditata da mio padre, che amava particolarmente la serie interpretata da Sean Connery (ma fra tutti i film del personaggio riteneva che il migliore fosse Vivi e lascia morire, con Roger Moore). Da lui ho anche ereditato questo modellino della celebre Aston Martin di 007, che custodiva come una reliquia. Anna Astolfi, Roma Vero pezzo da collezione: non biasimiamo suo padre se lo trattava come qualcosa di prezioso. La Aston Martin DB5 prodotta dalla Corgi Toys fu infatti un oggetto di culto per un’intera generazione di bambini, cioè quella che nel Natale del 1965, quando la macchinina arrivò sul mercato, aveva tra gli 8 e i 12 anni. Si trattò del primo gadget “bondiano” pensato anche per i bimbi (prima si riteneva che il target dei film di 007 fosse esclusivamente adulto) e ottenne un grande successo: vinse il premio “Best Boys Toy” nel 1965, ed entro la fine del 1966 vendette qualcosa come 2,7 milioni di esemplari. Per realizzare il modellino in tempi rapidi, i disegnatori della Corgi elaborarono gli stampi della Aston Martin DB4 (somigliante alla
DB5) e vi aggiunsero gran parte dei trucchi e marchingegni presenti sull’auto di Bond, che compare per la prima volta nel film Goldfinger, uscito nel 1964: ci sono le mitragliatrici anteriori, lo scudo posteriore, i rostri, perfino il tetto apribile e il sedile eiettabile, che permette di lanciare fuori dalla macchina il passeggero. Tutti i comandi sono perfettamente occultati; al modellino era abbinato un opuscoletto sigillato di istruzioni segrete, che ne spiegava il funzionamento. A differenza dell’auto che compare nel film, che è argentata, il modellino è in color oro, sia perché richiamava il nome Goldfinger, sia perché in versione argento sembrava non essere stata dipinta. Il modellino restò in produzione fino al 1969. In seguito furono realizzate le copie di altre auto bondiane (per esempio la Lotus sommergibile di La spia che mi amava), ma nessuna ebbe lo stesso successo.
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Le macchinine di Lucia
S
fogliando vecchi numeri di «Topolino» appartenuti a mio papà ho trovato queste curiose e graficamente stupende pagine pubblicitarie della Polistil, azienda che produceva automobiline giocattolo. Quello che mi ha incuriosito di più, tuttavia, è la presenza sulle pagine di una ragazza, Paola Pitagora (definita «la prima amica dell’Omino Rosso Polistil»), che mi par di capire fosse un’attrice, o una modella. Mi sono chiesto la ragione di un simile abbinamento, considerando che oggi, probabilmente, non avrebbe alcun successo, e, forse, sarebbe anche considerato sessista o “politicamente scorretto”. Donato Ardenzi, Pavia La Polistil, nata come Politoys (il cambio del nome fu dovuto al desiderio di non ingenerare confusione con quello di un produttore inglese dal nome molto simile) era un’azienda milanese: nata nel 1960, era specializzata nella produzione di modellini di auto di vario formato (dalle più piccole 1:66, alle grandi 1:25) e di piste elettriche. Il massimo vertice di popolarità lo toccò tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Proprio in quel periodo le sue pagine pubblicitarie videro la comparsa della giovane Paola Pitagora, attrice nata a Parma nel 1941, che a soli 26 anni era diventata una celebrità per aver vestito i panni di Lucia Mondella nella riduzione televisiva dei Promessi Sposi diretta da Sandro Bolchi nel 1967. Già prima si era messa in luce prendendo parte a film di registi importanti come Gillo Pontecorvo, Mauro Bolognini, Marco Bellocchio e Alberto Sordi, con il quale recitò in Scusi, lei è favorevole o contrario?, dove inter-
pretava la parte di una delle due figlie dell’attore romano (l’altra era Laura Antonelli). In queste pagine pubblicitarie della Polistil, la Pitagora osserva suadente il lettore o il piccolo protagonista della scena. La sua presenza non poteva certo sedurre un bambino, la cui attenzione doveva essere attirata dal modellino in primo piano. Tuttavia, secondo la filosofia pubblicitaria dell’epoca, mostrare una réclame siffatta a un papà poteva invogliarlo maggiormente a fare un regalo al figlio. La Pitagora fu una testimonial fedele della Politoys-Polistil per parecchi anni, quindi la strategia dovette risultare efficace; infatti,
l’azienda ebbe successo, tanto che nel 1971 e 1972 entrò nel Campionato Mondiale di F1 sponsorizzando la scuderia di un giovane inglese, Frank Williams, destinato negli anni successivi a vincere molti Gran Premi con piloti come Alan Jones, Nelson Piquet, Jacques Villeneuve e Alain Prost. Un discorso a parte merita l’Omino Rosso Polistil, che non era un semplice marchio, ma anche il “titolare” di un suo club: esso permetteva a tutti i collezionisti di automobiline Polistil di aggiudicarsi premi e regali esclusivi. Una forma di fidelizzazione che negli anni successivi sarebbe stata copiata da altri produttori di giocattoli, e non solo.
spesso finanziate dalle stesse aziende, si occupavano di gestire in qualche modo le attività ricreative svolte dai lavoratori al termine della normale fase produttiva. All’inizio del
Novecento, molti dopolavoro, soprattutto quelli legati ai movimenti socialisti, svolsero anche un’importante attività educativa e culturale. Soppressi dal fascismo, che li inglobò nell’Opera nazionale del dopolavoro, i Cral rinacquero liberamente dopo la guerra, quando molti imprenditori si resero conto che una migliore e più soddisfacente gestione del tempo libero non poteva che essere di beneficio anche all’attività svolta in azienda. Di stampo cattolico come l’Acli, o laico come quelle riunite nell’Arci, tutte queste associazioni hanno svolto un compito importante nella rinascita dell’Italia repubblicana.
L’Italia dei Cral E
cco una foto di mio padre (il secondo da sinistra) scattata a Gressoney, in Valle d’Aosta, nel 1952. Assieme a lui alcuni amici e colleghi di lavoro. Sono al campeggio organizzato dal Cral della Franco Tosi, importante azienda metalmeccanica legnanese. Era un’epoca in cui esistevano ancora forme di associazionismo e di filantropia che ora sono molto più rare. Alessandra Minelli, Legnano
I Cral (acronimo di Centro ricreativo aziendale lavoratori) erano una benemerita istituzione, oggi un po’ in disuso benché ancora esistente, superata da altre forme di associazionismo e anche da una maniera differente di vivere il tempo libero. Nate già alla fine dell’Ottocento e denominate “dopolavoro”, queste associazioni,
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La nascita di CinecittĂ
UNA
HOLLYWOOD per il DUCE
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All’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Luce, presso Cinecittà, campeggiava il pensiero di Mussolini sul cinema.
Conscio dell’importanza della propaganda cinematografica, il regime fascista dà vita a una portentosa macchina per la produzione di film. Un gioiello di organizzazione e maestria che sopravvive al regime, alla guerra e ai rinnovamenti tecnologici. Fino a oggi di Enza Fontana
L
a storia di Cinecittà ha un inizio preciso: 28 aprile 1937, anno XV dell’Era Fascista. Quel giorno fu Benito Mussolini in persona, convinto che il cinema fosse un impagabile strumento di propaganda, a inaugurare in pompa magna il vasto complesso di edifici destinati a ospitare la produzione italiana di film sotto il controllo diretto del regime. All’epoca, l’importazione di pellicole straniere era penalizzata dalla censura e dal protezionismo economico.
Fin dalla sua apertura, fortemente voluta dal Duce, Cinecittà s’impose come il centro di produzione cinematografica più importante e all’avanguardia d’Europa. Era seconda nel mondo solo a Hollywood, a cui venne subito paragonata. Sorgeva in una zona di campagna a una decina di chilometri dal centro di Roma, lungo la via Tuscolana, oltre le borgate del Quadraro e del Quarticciolo. Per realizzarla, su progetto dell’urbanista Gino Peressutti, c’era voluto pochissimo tempo. ®
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La nascita di Cinecittà
1936: Mussolini visita i primi studi realizzati a Cinecittà e assiste alla ripresa di un film.
La prima pietra era stata posata dallo stesso Mussolini il 29 gennaio 1936, nel corso di un’altra solenne cerimonia. Erano bastati quindici mesi per costruire «il nuovo moderno centro di operosità fascista», come lo definì Mussolini: una vasta area organizzata come una vera città, con tanto di viali e piazzette all’ombra dei pini, su cui si affacciavano uffici, laboratori di scenografia, sartorie, camerini e sale trucco, una piscina per le riprese acquatiche; e, soprattutto, teatri di posa dotati delle più nuove cineattrezzature, a cui si aggiungevano modernissimi stabilimenti di sviluppo, stampa e montaggio.
Mussolini ha fretta di “girare”
A far funzionare il complesso erano 900 dipendenti, che presto diventarono 1.200: truccatori, parrucchieri, scenografi e costumisti, e poi anche fabbri, falegnami, muratori, elettricisti. Erano le famose maestranze
1, conscio inema 3 9 1 l e n à Gi anza del cganda, t r o p m i ’ l l de di propa fil m a m r a e m co izzò i l a n e p i n i Mussol l fine di stimolare stranieri a ni italiane. le produzio di Cinecittà, uomini e donne che diventarono presto leggendari per l’altissima qualità del loro lavoro e i cui successori ancora oggi si distinguono a livello mondiale per livello di professionalità. Nelle immediate vicinanze di Cinecittà
furono edificate le nuove sedi dell’Istituto Luce (il cui nome era costituito dalle iniziali di “La Unione Cinematografica Educativa”, in evidente assonanza con la parola “Duce”) e del Centro sperimentale di cinematografia. La scuola, anch’essa voluta da Mussolini, venne da lui inaugurata davanti a un gigantesco striscione sul quale era scritto: «La cinematografia è l’arma più forte». Contrariamente a quanto si crede, il complesso era di proprietà privata, anche se alimentato da un’importante presenza di capitale pubblico: passò interamente allo Stato solo nel 1939, dopo la morte del suo fondatore, l’ingegner Carlo Roncoroni. Prima che di Cinecittà, Roncoroni era stato proprietario degli stabilimenti Cines, responsabili di metà della produzione cinematografica italiana, distrutti da un colossale incendio la notte del 26 settembre 1935. Un
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vero disastro, ma che aveva permesso l’iil 25 luglio cadde il fascismo e il 10 settemnizio di un’avventura ancora più grandiosa, bre, due giorni dopo l’armistizio, cominciò quella, appunto, di Cinecittà. l’occupazione tedesca della capitale. Nei suoi primi anni di attività, che furono Bombe, razzie e profughi anche gli ultimi anni di vita del regime, CiPer Cinecittà fu la fine di un’epoca: gli necittà realizzò sostanzialmente due filoni: studi vennero abbandonati, le maestranze da un lato il cinema dei “telefoni bianchi”, licenziate. Bande di delinquenti penetrarocommedie leggere di ambientazione borgheno nel complesso per rubare tutto ciò che se e ispirazione hollywoodiana; dall’altro riuscirono a portar via, a piedi o con mezzi quello di propaganda, concentrato sull’epica improvvisati. Ciò che rimase, come del Ventennio, sul patriottismo e le attrezzature più grandi e sull’esaltazione dei valori fapesanti, venne requisito scisti. Il primo filone era dai tedeschi: ben 16 rappresentato da registi vagoni merci partirocome Goffredo Alesno per la Germania sandrini, Mario carichi di costosi Camerini e Alesapparecchi cinesandro Blasetti; matografici. Il tra i suoi divi direttore genec’erano Amerale per la cideo Nazzari, nematografia, Alida Valli, Luigi Freddi, Valentina riuscì a diCortese, Gino rottare parte Cervi, Doris del materiale Duranti e la a Venezia, in coppia Osvalterritorio deldo Valenti-Lula Repubblica isa Ferida, che Sociale, dove ai dopo l’armistizio primi di novembre avrebbe seguito il del 1943 fu inauregime fino al suo gurata una versione tragico tramonto. Fellini, Mastroianni e la Loren: lagunare di Cinecittà frequentarono assiduamente Il secondo filone fu gli studi di Cinecittà. battezzata con il nome di inaugurato nel 1937 da un Cinevillaggio, o Cineisola. film supervisionato da VitNel frattempo, a Roma, Cinecittà torio Mussolini, figlio di Benito, continuava a vivere il periodo più drammatico e diretto da Alessandrini: Luciano Serra della sua storia. Nel gennaio 1944 gli studi pilota. Vi partecipò, tra gli sceneggiatori, furono bombardati dagli Alleati. Tra il 4 e il 5 colui che di lì a qualche anno, nell’Italia giugno dello stesso anno, gli americani liberapostbellica, sarebbe diventato il principale rono la capitale; il 6 giugno, stesso giorno delmaestro del neorealismo insieme a Vittorio lo sbarco in Normandia, la Città del Cinema fu De Sica: Roberto Rossellini. requisita dagli Alleati e adibita a magazzino, Il 19 luglio 1943 Roma venne bombardata, Peter Ustinov fu un indimenticabile Nerone nel colossal Quo vadis?, del 1951. Accanto a lui Patricia Laffan nel ruolo di Poppea.
dopodiché venne trasformata in un campo profughi. Fino al 1950, Cinecittà avrebbe ospitato migliaia di sfollati italiani e stranieri, tra cui senzatetto romani che avevano perso la casa sotto le bombe, esuli giuliano-dalmati ed ebrei reduci dai campi di concentramento nazisti. Nella primavera del 1945 la guerra, finalmente, terminò. Cinecittà non si riprese subito: mancavano macchine da presa e riflettori, era difficile trovare la pellicola, i teatri di posa erano occupati da migliaia di profughi che non si riusciva a sistemare altrove. Anche per questo il cinema lasciò gli studi e si spostò nelle strade, spesso ricorrendo ad attori non professionisti, per raccontare con maggiore forza narrativa le condizioni di vita ®
Il sogno del futurista Luigi Freddi Q
uando diventò di proprietà statale, Cinecittà finì sotto il controllo diretto di Luigi Freddi (nella foto), capo della Direzione generale per il cinema. Milanese, futurista, giornalista, Freddi venne definito “l’eminenza grigia del cinema di regime”. Era amico personale di Italo Balbo e nel 1933 ne aveva seguito la trasvolata atlantica come inviato del quotidiano “Popolo d’Italia”. Finiti i propri obblighi di corrispondente, anziché rientrare in Italia aveva prolungato il soggiorno negli Stati Uniti fermandosi per due mesi in California allo scopo di approfondire la conoscenza del modello produttivo hollywoodiano. Nel 1934 aveva fondato il Centro sperimentale di Cinematografia e, a partire dal 1936, aveva seguito tutta la costruzione di Cinecittà, che nei suoi piani sarebbe dovuta diventare l’alternativa ai film importati dall’America, con la stessa qualità e la stessa capacità di sedurre il pubblico.
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La nascita di Cinecittà
nell’Italia del dopoguerra. Era il neorealismo, una corrente cinematografica e culturale che avrebbe fatto scuola in tutto il mondo. Le maestranze di via Tuscolana, intanto, chiedevano di riaprire e ricostruire gli stabilimenti e di far tornare da Venezia le attrezzature che vi erano state trasportate nel 1943. Così, nel 1947, cominciò il secondo tempo di Cinecittà. Il primo film del Dopoguerra fu Cuore di Duilio Doletti, con Vittorio De Sica e Maria Mercader. A causa della povertà postbellica, in quell’ultimo scorcio degli anni Quaranta le produzioni rimasero pochissime (un unico film nel 1947, 4 nel 1948, 8 nel 1949), ma era solo questione di tempo. Di lì a poco, Cinecittà avrebbe iniziato la stagione più brillante della sua storia.
Gli anni della rinascita Nel 1950 il sottosegretario al cinema e allo spettacolo Giulio Andreotti visitò Cinecittà, manifestando l’interesse del governo italiano per il cinema e segnando ufficialmente l’inizio della ripresa. Di lì a poco arrivarono le grandi produzioni americane, attirate dai bassi costi di lavorazione uniti alla grande competenza delle maestranze locali. La prima di tutte fu la Metro Goldwyn Mayer. Negli studi romani furono girati colossal in costume di grande successo, da Quo Vadis (1951) a Ben-Hur (1959); oltre a risollevare le sorti dell’industria cinematografica italiana e il morale dei dipendenti di Cinecittà, ebbero il merito di dare occupazione ai profughi che ancora vivevano in alcuni teatri di posa, impiegandoli come comparse in costume. Uno dei successi più grandi dell’epoca, tuttavia, non fu un “sandalone” (come le maestranze romane chiamavano scherzosamente le produzioni ambientate nell’antica Roma), bensì una commedia sofisticata con Gregory Peck e una giovane attrice semisconosciuta nel ruolo della protagonista: era il 1953, l’attrice si chiamava Audrey Hepburn e il film era Vacanze romane, futuro campione d’incassi.
mericano a m l i f o Il prim i studi pe l g e n o t a z realiz Il princi u f à t t i c e di Cin i, una storia in delle volp iretta nel 1949 costume da Henry King. dal regist
7
Quo vadis? (1951, M. LeRoy)
capolavori di Cinecittà
Luciano Serra pilota (1937, G. Alessandrini) Il film tenne a battesimo Cinecittà ed ebbe per protagonista il “bello” dell’epoca, Amedeo Nazzari. Vinse la Coppa Mussolini (oggi Coppa Volpi) per il miglior film italiano a Venezia nel 1938 e fu campione d’incassi.
Il colossal (3 ore di durata e 2 miliardi di lire d’investimento) inaugurò la stagione della Hollywood sul Tevere. Tra le oltre 30 mila comparse ci fu, pare, una giovanissima Sofia Loren. Tutti i teatri di Cinecittà vennero occupati e 32 mila furono i costumi realizzati. Assistenti alla regia i giovanissimi Franco Zeffirelli e Sergio Leone.
Bellissima (1951, L. Visconti)
Un capolavoro con Anna Magnani nel ruolo di una madre che punta tutto sull’ascesa
della figlioletta nel mondo del cinema. La fa partecipare al concorso per la più bella bambina di Roma, il cui premio è una parte in un film di Alessandro Blasetti. Molte scene sono ambientate proprio a Cinecittà, la capitale italiana dei sogni e delle illusioni.
Ben-Hur (1959, W. Wyler)
Produzione Mgm, con Charlton Heston nel ruolo del protagonista. Le riprese durarono un anno e gli Oscar vinti furono ben 11: un record rimasto imbattuto fino all’uscita di Titanic, nel
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Il Cinevillaggio di Venezia I
l primo festival cinematografico internazionale del mondo è stato quello di Venezia, inaugurato nel 1932. Anche per questo la città lagunare venne scelta da Luigi Freddi per traslocarvi Cinecittà dopo l’armistizio con gli Alleati e la nascita della Repubblica Sociale. Le attrezzature furono trasferite da Roma alla Giudecca e nei padiglioni della Biennale. Poco lontano, in un palazzo a due passi da Piazza San Marco, s’insediò l’Istituto Luce (nella foto, l’inaugurazione). A causa delle difficoltà belliche, compresa la carenza di pellicola, i film girati in laguna furono meno di quelli previsti: appena una ventina
in due anni. Inoltre, molti attori, tecnici e registi rifiutarono di trasferirsi nella Rsi, cosicché gli unici divi del Cinevillaggio furono Doris Duranti e, soprattutto, la coppia formata da Osvaldo Valenti e Luisa Ferida: militanti fascisti fino all’ultimo, vennero giustiziati dai partigiani il 30 aprile 1945 nell’ippodromo di Milano.
Gli scenari realizzati per la serie tv britannica Rome (2005) stupirono per il loro realismo.
Liz Taylor in Cleopatra (1963): per i costumi vennero spesi ben 200 mila dollari di allora.
1997. Anche il remake del 2016, firmato da Timur Bekmambetov, è stato girato a Cinecittà.
La dolce vita (1960, F. Fellini) Palma d’Oro a Cannes per uno dei film italiani più belli di sempre. Famosissima la scena con Anita Ekberg e Marcello Mastroianni che fanno il bagno nella fontana di Trevi. Cleopatra (1963, J. Mankiewitz) Un colossal costosissimo, che mandò quasi in fallimento la 20th Century Fox. Sul set nac-
Anche i registi italiani tornarono a scegliere Cinecittà per i loro set. Bellissima (1951) di Luchino Visconti alludeva proprio al mito della Città del Cinema. Federico Fellini considerava il Teatro 5 di Cinecittà, uno dei più grandi d’Europa, la sua seconda casa, tanto
que l’amore fra Liz Taylor e Richard Burton, dietro i quali si scatenarono orde di paparazzi, sempre in cerca di foto rubate.
Gangs of New York (2002, M. Scorsese)
Uno dei quartieri più poveri e violenti della New York ottocentesca è stato interamente ricostruito da Dante Ferretti negli studi di Roma. Il cast era stellare, con attori del calibro di Leonardo DiCaprio, Cameron Diaz, Daniel Day-Lewis e Liam Neeson. Il film ha collezionato ben dieci nomination all’Oscar.
da realizzarvi praticamente tutti i suoi film, compresi quelli apparentemente girati in esterni: perfino la via Veneto della Dolce vita era tutta ricostruita in via Tuscolana dagli eccellenti scenografi romani. La gloriosa stagione in cui Cinecittà fu al centro dello star system e della mondanità internazionale durò fino a metà degli anni Sessanta. Poi le produzioni americane cominciarono a ritirarsi e per la Hollywood nostrana fu di nuovo crisi. Il che non impedì, tuttavia, che continuassero a esservi girati molti film di successo, da C’era una volta in America di Sergio Leone (1984) all’Ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci (1987), fino ai più recenti Gangs of New York di Martin Scorsese (2002) e La Passione di Cristo di Mel Gibson (2004). Con qualche concessione anche alla tv: come dimostra il successo dell’ambiziosa serie tv britannica Rome o il reality show Il Grande Fratello, che è stato realizzato proprio qui, dentro i cancelli di via Tuscolana. n
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1916 Apocalisse sul
La Battaglia dello Jutland
mare
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250 navi potentissime si sfidarono nelle acque del Mare del Nord in quello che doveva essere lo scontro navale definitivo della Grande Guerra. Ma le cose non andarono né come si aspettavano gli ammiragli tedeschi, né come desideravano quelli inglesi di Alessio Sgarlato
F
u la più grande battaglia navale della Prima guerra mondiale, anzi di tutta la Storia, e vide la maestosa flotta britannica, regina dei mari da quasi mezzo millennio, sfidata dalla Marina Imperiale germanica. La tradizione marinara del Reich non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella inglese, ma Berlino era costretta a competere sul controllo del mare contro il Regno Unito per rompere il blocco navale che la soffocava. Il vantaggio dei tedeschi era quello di avere come zona di combattimento uno spazio limitato, il Mare del Nord, dove però si sarebbero trovati ad affrontare una flotta molto più numerosa, blasonata, preparata e moderna. Gli inglesi misero in mare 28 corazzate di un tipo completamente nuovo, 17 incrociatori (di cui 9 particolarmente ®
La battaglia dello Jutland dipinta da Claus Bergen, artista ufficiale della Marina Imperiale germanica. Al centro, una Croce d’Onore assegnata dalla Kriegsmarine.
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La Battaglia dello Jutland
veloci e innovativi), altri 26 incrociatori di una variante più leggera e meno adatta alle battaglie in alto mare, 79 cacciatorpediniere e una risorsa mai vista prima: una nave in grado di lanciare idrovolanti che avrebbero potuto sorvegliare il nemico dal cielo. I tedeschi potevano schierare 16 corazzate di costruzione moderna e 6 antiquate, 5 incrociatori molto recenti, 11 del tipo leggero, e 61 cacciatorpediniere. In tutto si affrontavano ben 250 vascelli, 151 inglesi contro 99 tedeschi, destinati a darsi battaglia “alla vecchia maniera”, ossia sparando da grande distanza per poi accorciare progressivamente lo stacco fino a che una non si fosse trovata nella posizione ideale per infliggere il massimo danno all’altra.
Un nuovo tipo di corazzata Sul versante della modernità, in particolare, la novità del primo Novecento era stata la “corazzata monocalibro”: un tipo di grande nave da guerra armata con un numero di cannoni di enormi dimensioni, decisamente superiore ai quattro usati fino ad allora, e più veloce per l’introduzione della turbina a vapore. Gli inglesi erano stati i primi a realizzare quest’innovazione tecnologica, ma presto tutto il mondo li aveva copiati. Per affrontare il nemico, l’ammiraglio tedesco Reinhard Scheer concepì un piano grandioso, che avrebbe impegnato tutte le risorse belliche della Kaiserliche Marine. Esso comprendeva bombardamenti costieri contro i principali porti inglesi e agguati con i sottomarini, allo scopo di attirare la Royal Navy in una grande battaglia navale, in cui entrambe le flotte avrebbero scatenato il massimo potenziale per cercare d’infliggere più danni possibili. Per ragioni
Dentro la torretta di una nave da battaglia, un dipinto del pittore tedesco Claus Bergen.
LA CORAZZATA TIPO DREADNOUGHT L
a Dreadnought, o “corazzata monocalibro”, fu il tipo di nave da battaglia più rappresentativo del periodo compreso tra il 1906 e il 1922. Ideato nei primi anni del Novecento, si concretò con il varo della nave Dreadnought (nello schema), entrata in servizio nella Royal Navy il 2 dicembre 1906. Questo vascello da 18.700 t, lungo circa 106 m, poteva navigare a 21 nodi di velocità (circa 39 km/h) ed era armato con 10 cannoni da 305 mm, in grado di colpire a più di 22 km di distanza. Allo scoppio della battaglia dello Jutland, la Dreadnought era già superata: i nuovi gioielli della Royal Navy erano le unità classe “Queen Elizabeth”, cinque navi da 27.500 t, lunghe ciascuna 197 m e armate con 8 cannoni da 381 mm in grado di sparare a una
gittata massima di oltre 33 km. Quattro di queste unità parteciparono al grande scontro navale e il tiro efficace più lungo dei loro cannoni fu a 17.800 m: una distanza senza precedenti.
tecniche, il piano avrebbe funzionato solo se la flotta inglese fosse uscita dai porti per reagire alla provocazione entro il 31 maggio. Anche la Royal Navy aveva una strategia per annientare la flotta tedesca, frutto della mente dell’ammiraglio John Jellicoe, e aveva previsto di farla scattare il 2 giugno 1916. Il destino volle che la battaglia definitiva si consumasse proprio tra il 31 maggio e il 1° giugno, di fronte alla Penisola dello Jutland.
Invisibili al nemico Scheer, penalizzato nella sua strategia dal mediocre risultato di alcuni attacchi portati contro i porti britannici di Sunderland, Yarmouth e Lowestoft e dalle condizioni meteo sfavorevoli, aveva dato ordine di salpare per dare battaglia nello Skagerrak, uno stretto che separa la Danimarca dalla Norvegia. La flotta inglese, che all’insaputa del nemico già da due anni possedeva i codici segreti delle comunicazioni tedesche, captò tali ordini e decise di reagire al massimo delle proprie forze. In battaglie di questo tipo era consueto che ciascuna flotta mandasse in avansco-
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APPUNTAMENTO PER L’INFERNO
N
ella cartina, la linea tratteggiata rossa più in alto indica il punto in cui si trovava la flotta britannica di Jellicoe alle ore 14 del 31 maggio; quella più in basso indica la posizione della squadra inglese di Beatty alla stessa ora, cioè il momento in cui le due squadre iniziarono la manovra per congiungersi. La linea tratteggiata blu indica il punto in cui la squadra tedesca di Hipper invertì la rotta per attirare la flotta inglese in trappola, a cui seguì il primo scontro a fuoco; il cerchio tratteggiato in blu rappresenta la posizione della squadra tedesca di Sheer alle ore 17,30 dello stesso giorno, ossia nel bel mezzo del fuoco delle unità principali.
Scapa Flow, base della 1ª e 4ª Squadra da battaglia della Grand Fleet britannica
della y, base Cromart ra da battaglia 2ª Squad
Rotta della squadra di Sheer e area del primo scontro a fuoco
a ella flottaglia , base d Rosy th ciatori da batteatt y di incro ammiraglio B del vice
Punto raggiunto dalla squadra di Hipper
Baia di Jade, base della flotta tedesca
“Oggi qualcosa sembra andare sempre storto con le nostre maledette navi.” Ammiraglio David Beatty, nelle prime fasi dello scontro
Il conte John Rushworth Jellicoe fu a capo della Grand Fleet durante la guerra.
Verso le ore 17, le navi tedesche si trovaperta un gruppo veloce, comandato da un rono a tiro dell’avanguardia delle corazzate ufficiale alto in grado e dotato di una certa britanniche di recentissima costruzione, doautonomia di giudizio nel gestire il combattate d’imponenti cannoni da 381 mm. Nel timento. I tedeschi affidarono tale compito giro di pochi minuti, la Barham, la Valiant, all’ammiraglio Franz von Hipper, mettenla Warspite e la Malaya scatenarono tutto il dolo a capo di una squadra da ricognizione loro fuoco contro due incrociatori tedeschi: la composta prevalentemente da incrociatori da Moltke, responsabile del primo colpo, e la Von battaglia. Gli inglesi misero invece a capo di der Tann. Al termine di questa fase, le unità una squadra del tutto simile l’eclettico ammitedesche di avanscoperta si ritirarono raglio David Beatty. Fu Hipper ad e quelle inglesi si misero all’inseaprire le ostilità, alle 15,45 del guimento. Alcuni incrociatori 31 maggio, da una distanza germanici rimasti indietro, di 14 km. Il primo colpo però, continuarono lo a segno spettò all’incroscontro, affondando la ciatore tedesco Moltke, Queen Mary. che inflisse gravi danI tedeschi ripreseni alle torri dell’inro il combattimento crociatore britannico attorno alle 18,30, Tiger. Degno di nota dopo che entrambe le è il fatto che i somflotte, a turno (prima mergibili tedeschi, la tedesca, poi l’inpronti all’agguato glese), avevano tenfuori dai porti ingletato con le rispettive si, non erano serviti avanguardie di attirare a nulla, neppure a Franz Ritter von Hipper, il nemico in trappola comunicare le mosse al comando del 1° gruppo verso il nucleo della prodel nemico alle unità di da ricognizione, avanguardia pria flotta, senza successo. superficie. In questa fase, della flotta tedesca. La squadra di Scheer era invece, i britannici avevano ansiosa di dare una prova di forza usato con successo un aeroplano che scoraggiasse la Royal Navy dal comlanciato dalla nave appoggio idrovolanti battere di notte, quando era molto più diffiEngadine, il prototipo della futura portaerei, cile distinguere i bersagli e calcolare le gitche riportò molte informazioni circa la consitate. All’inizio di questa seconda fase, alcune ® stenza e la potenza della Kaiserliche Marine.
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La Battaglia dello Jutland
IL BIZZARRO BEATTY N
el Regno Unito, da secoli la carriera in Marina era ritenuta appannaggio dei nobili, affinché dessero il più alto esempio d’integrità morale e capacità di comando. David Beatty non sempre si dimostrava all’altezza di questo standard. Nato da un ufficiale di cavalleria irlandese, già ai tempi dell’accademia si era fatto notare per l’insofferenza della disciplina e per lo stile di vita licenzioso, con numerose relazioni con le attrici dei teatri londinesi. Il suo matrimonio, nel 1901, con un’americana divorziata da un ricco imprenditore (dopo una lunga relazione segreta) non contribuì a migliorare l’immagine di Beatty. Tuttavia, Beatty cercò in tutte le occasioni di farsi notare. La grande opportunità si presentò durante la guerra per il controllo del Sudan, nel 1898, quando egli si distinse anche come comandante. Fu Winston Churchill, anche lui giovanissimo e dallo stile di vita non convenzionale, a favorirne la carriera, portandolo al comando dell’avanguardia della flotta che difendeva il Regno Unito quando aveva solo 43 anni.
“Abbiamo spazzato via gli Unni. Certo, come sempre il diavolo era dalla loro parte, sia in terra che in mare.” Edoardo del Galles unità minori inglesi si trovarono a tiro delle quattro navi da battaglia di classe “Kaiser”, le più moderne a disposizione della Marina tedesca, che affondarono i cacciatorpediniere Nestor e Nomad. L’ammiraglio Jellicoe pensava ancora che la fuga degli avversari sarebbe continuata, perciò teneva una rotta verso est, idonea a riprenderli; i tedeschi erano invece rivolti nella direzione opposta: per loro, l’occasione di sorprendere in avvicinamento l’avanguardia britannica, ignara delle ultime manovre, era tanto ghiotta che Scheer aveva fatto rivolgere la flotta in direzione delle navi inglesi.
di Beatty reagì solo dopo che una serie di complesse manovre la portò a tiro di alcune vecchie corazzate tedesche che formavano la retrovia del gruppo di Hipper. Alle 21,40, gli inglesi cessarono il fuoco, i tedeschi si ritirarono un’altra volta e la tanto attesa battaglia notturna non si scatenò, anche
Agguati nella notte
Venendosi a trovare quasi in mezzo alla squadra avversaria, gli incrociatori Moltke, Von der Tann, Seydlitz, Derfflinger e Lutzow aprirono nuovamente il fuoco, affondando l’incrociatore da battaglia Invincible. Nel corso del combattimento, anche il Lutzow risultò colpito e andò in avaria perdendo velocità. La flotta tedesca, che aveva guadagnato un leggero vantaggio, agì meglio e colpì gli incrociatori Lion e Princess Royal. La squadra inglese
Danni prodotti da proiettili da 280 mm sullo scafo della nave britannica Warspite.
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se nelle ore successive le lunghe manovre offrirono numerose occasioni di scontro fra unità minori di entrambe le Marine. Attorno alle 23, le rotte delle due flotte s’incrociarono di nuovo, ma le tenebre impedirono ai rispettivi comandanti di rendersene conto. Mentre le squadre principali si allontanavano, i cacciatorpediniere che seguivano la flotta britannica incontrarono le principali unità tedesche. Più o meno alla stessa ora, la Tipperary fu inquadrata dai proiettori fotoelettrici delle navi da battaglia tedesche e affondata in pochi istanti dalla Westfalen. Seguì una mischia confusa, durante la quale diversi vascelli si speronarono e l’incrociatore leggero tedesco Elbing affondò, travolto dalla nave amica Posen.
Chi aveva vinto?
Tra la mezzanotte e l’alba del 1° giugno continuarono a verificarsi piccoli scontri, che costarono agli inglesi tre cacciatorpediniere e un incrociatore corazzato, il Black Prince; i tedeschi persero invece l’antiquata nave da battaglia Pommern, silurata e spezzata a metà, e il ben più moderno incrociatore da battaglia Lutzow, che non si era ripreso dai danni subiti. Anche altre due unità germaniche coinvolte nella seconda fase degli scontri, la Rostock e la Wiesbaden, erano state abbandonate allo stesso modo. La flotta principale tedesca aveva continuato tutta la notte a navigare verso acque sicure e alle ore 4 l’ammiragliato britannico trasmise a Jellicoe l’informazione che il nemico aveva raggiunto un’area protetta da campi minati dove non c’era più possibilità d’ingaggio. A mezzogiorno del 2 giugno 1916, il gover-
L’ESEMPIO GIAPPONESE T
ra il 27 e il 28 maggio 1905 si combatté l’ultima battaglia navale della Guerra russo-giapponese. Davanti allo sguardo attonito del mondo intero, una nazione che tutti credevano arretratissima, il Giappone, demolì una flotta potente e moderna come quella zarista, schierando 4 corazzate e 27 incrociatori di recente costruzione, che eseguirono alla perfezione la manovra del “taglio della T”. Nella moderna tattica navale si riteneva che il combattimento fosse deciso quando una flotta riusciva a sparare “in bordata”, cioè di lato, con il massimo della
potenza di fuoco, contro gli avversari in fila perpendicolare, ovvero quando potevano rispondere solo con i soli pezzi di prua. La battaglia (nel tondo, un piatto celebrativo giapponese) concluse il conflitto e pose fine alle mire espansionistiche dei russi verso la Corea. Al momento di combattere nello Jutland, il ricordo di Tsushima era ancora vivo, ed entrambe le flotte, tedesca e inglese, s’immaginavano che il combattimento sarebbe finito con la stessa manovra del “taglio della T”. Essa, tuttavia, non si verificò, e da allora la strategia navale dovette essere ripensata radicalmente.
Le fasi notturne della battaglia furono drammatiche: all’epoca, in genere, le flotte evitavano di sfidarsi nell’oscurità, dove l’esito degli scontri era dettato più dal caso che dall’abilità dei comandanti.
L’ultimo uomo, quadro eseguito da Hans Bohrdt, insegnante d’arte del Kaiser Guglielmo II.
no tedesco emanò un comunicato stampa in cui si attribuiva la vittoria; contemporaneamente, in assenza di comunicati ufficiali della Royal Navy, i giornali inglesi riportarono le dichiarazioni sensazionalistiche di trionfo della Kaiserliche Marine: ci volle una settimana perché l’opinione pubblica fosse tranquillizzata e messa al corrente della realtà dei fatti. I dati autentici erano questi: i tedeschi, con una flotta di 99 unità, avevano affondato 117 mila tonnellate di naviglio britannico; gli inglesi, con 151 navi, avevano distrutto 63 mila tonnellate di naviglio tedesco. Erano morti 6.094 marinai britannici e 2.551 tedeschi.
L’ammiraglio Scheer sapeva benissimo di non aver affondato un numero di navi inglesi sufficienti a togliere al nemico la supremazia sul Mare del Nord e che altri scontri estesi avrebbero logorato le forze della sua Marina prima di quella britannica. Ecco perché non vi fu una seconda battaglia dello Jutland, né nel Mare del Nord né altrove. Dopo quel confronto titanico, l’esperienza e le successive innovazioni tecnologiche portarono a ripensare del tutto la strategia della guerra navale. E l’idea di chiudere un conflitto mediante un colossale combattimento di flotte venne abbandonata per sempre. n
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Cover Story Story: L’Impero Romano, le vere ragioni del suo successo
L’IMPERO ROMANO Le vere ragioni suo successo
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Da un piccolo villaggio del Lazio sorse una grandiosa comunità politica e culturale destinata a dominare il mondo e a gettare le basi di una civiltà millenaria
N
on esiste, nella storia dell’umanità, alcun fenomeno paragonabile all’Impero Romano per importanza e durata. È certamente vero che molte civiltà del passato hanno conosciuto grandiosi tentativi di espansione e conquista delle regioni limitrofe: gli Ittiti penetrarono in Asia Minore e in parte del Vicino Oriente, l’Egitto dei faraoni provò (invano) a estendersi nelle regioni della
Mezzaluna fertile, Medi e Persiani s’impadronirono per breve tempo della Grecia, Atene giunse a realizzare una confederazione di città-Stato pur senza riuscire a oltrepassare i limiti geografici della penisola ellenica e dell’Egeo. Persino l’impero di Alessandro Magno, giustamente celebrato come una delle più audaci costruzioni politiche e militari mai realizzate, non fu che una meteora nel cielo della Storia. Quanto all’Estremo Oriente, neppure la Cina arrivò mai a concepire il progetto di un impero universale, pur costruendo uno Stato molto esteso, organizzato e duraturo.
Un’esperienza inimitabile
di Alessandra Colla
Questo quadro dell’inglese Thomas Cole (1801-1848), intitolato L’opulenza di un impero, mostra come la grandezza romana venisse celebrata dai sudditi del più vasto impero dell’epoca, quello britannico, che si sentiva erede dell’Urbe. Nella pagina a fronte, la statua equestre di Marco Aurelio ai Musei Capitolini di Roma.
L’Impero Romano fu qualcosa di completamente diverso. Benché eccezionalmente vasto ed esteso su tre diversi continenti, la sua potenza non stava nell’ampiezza territoriale: questo primato spettò prima all’impero medievale dei Mongoli, poi a quello britannico (XVII-XX secolo). A rendere unica e irripetibile la grandezza dell’Urbe fu piuttosto la sua straordinaria capacità di esercitare una profonda e salda influenza politica, militare e culturale sul resto del mondo allora conosciuto, sia all’epoca del suo splendore che ben oltre il suo declino. Ovunque misero piede, i Romani lasciarono un segno duraturo e inequivocabile della loro presenza: edificarono città e costruirono strade, ponti, acquedotti, terme, teatri e monumenti, che costellano ancora oggi ogni angolo d’Europa. Assimilarono le popolazioni rispettandone le tradizioni religiose e organizzarono genti e terre conquistate secondo un modello giuridico, sociale ed economico destinato a costituire la base della civiltà occidentale come la conosciamo. Gli storici sono soliti distinguere il periodo repubblicano romano da quello imperiale in senso stretto, iniziato con il principato di Ottaviano Augusto nel 27 a.C. Precedentemente, nella Repubblica, il governo era esercitato da magistrati eletti, nell’Impero divenne invece prerogativa di un autocrate, ma sempre con il concorso del Senato (non si verificò alcuna riforma costituzionale in senso stretto). In realtà, però, la Repubblica nata sui sette colli esercitava già da tempo il suo dominio su vaste zone dell’Europa e del Mediterraneo: quell’esteso insieme di regioni controllate da un’unica entità statale costituiva già, di fatto, un impero a pieno titolo. Roma l’aveva realizzato gradualmente, attraverso tre tappe fondamentali: dapprima sottraendosi al predominio etrusco e sconfiggendo i popoli vicini; poi (da metà del III fino a metà del II secolo a.C.) sbaragliando i Cartaginesi e attestandosi nel Mediterraneo; infine, sottomettendo il raffinato mondo ellenistico e da qui partendo alla conquista dell’Oriente. Guidati da un fiuto politico infallibile, i cittadini dell’Urbe si mossero per secoli seguendo una vocazione imperiale che i fatti e la Storia avrebbero assecondato ancora molto a lungo. ®
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Cover Story: L’Impero Romano, le vere ragioni del suo successo
La forza morale Determinazione ferrea, stabilità degli obiettivi e una lungimiranza rimasta senza eguali nella Storia dell’umanità: ecco la formula del successo romano
O
ggi, storici e archeologi concordano nel confermare quello che, appena pochi decenni fa, sembrava solo un mito impossibile da comprovare: il primo nucleo di Roma prese forma nell’VIII secolo a.C. presso il fiume Tevere, sul colle poi chiamato Palatino, al termine di un lungo processo di aggregazione dei piccoli insediamenti sparsi sulle alture tutt’intorno. Nell’arco di duecento anni quel villaggio, non molto dissimile da tanti altri che costellavano allora le regioni centrali della Penisola, divenne una piccola città-Stato ben organizzata, grazie ad alcuni punti di forza che avrebbero fatto la differenza: le alture su cui sorgeva la difendevano dagli attacchi esterni e dalle zanzare portatrici di malaria che infestavano le rive del Tevere; la pianura sottostante era fertile; il fiume che scorreva ai suoi piedi le consentiva un agevole accesso sia verso il mare che verso nord, nell’interno. Fu così che, esaurito il periodo monarchico, Roma divenne una repubblica forte e aggressiva: tra il V e il III secolo a.C. sottomise le popolazioni italiche dalla Sicilia alla Pianura Padana, per poi iniziare un’irresistibile espansione nel Mediterraneo, realizzatasi nel 146 a.C. con la conquista di Cartagine in Africa e Corinto in Grecia.
IL PRIMO IMPERATORE
L’artefice della potenza imperiale di Roma fu Ottaviano Augusto (qui accanto, ritratto nelle vesti di Giove), che seppe coniugare l’idea monarchica con la tradizionale autorità del Senato. Centocinquant’anni dopo di lui, Traiano portò l’Impero a raggiungere la sua massima estensione, quasi da un capo all’altro delle terre allora conosciute, allargandosi su tre diversi continenti, e formando un anello completo a circondare il mar Mediterraneo.
Volontà di potenza Un successo inaspettato e travolgente, che spinse lo storico greco Polibio a chiedersi «grazie a quale tattica, a quali forze e a quali mezzi Roma ha potuto concepire, riuscendovi, il disegno di soggiogare tutti i paesi e i mari conosciuti». Egli stesso individuò con esattezza la caratteristica vincente dell’imperialismo romano, una novità assoluta per la mentalità dell’epoca: la capacità di sviluppare una visione unitaria di ampio respiro. In precedenza, scrive infatti Polibio, «ogni impresa, ogni progetto rispondeva a ragioni particolari; un’azione interessava soltanto la regione in cui si svolgeva». Ma a partire dalla Seconda guerra punica (metà del III secolo a.C.) «tutte le vicende si compattano, per così dire, tanto che i fatti d’Italia e d’Africa si mischiano con quelli di Asia e Grecia,
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I CANTORI DELL’IMPERO F
u Cicerone il primo a delineare, nel trattato Delle leggi (52 a.C.), la figura ideale del princeps, ossia il primo dei cittadini, chiamato a «guidare, amministrare e pilotare» lo Stato secondo i precetti indicati dal filosofo greco Platone: «Vegliare sugli interessi dei suoi concittadini con dedizione continua e disinteresse assoluto, poi prestare le stesse cure a tutti e non manifestare predilezione per una parte sola a detrimento delle altre». Dopo di lui, toccò al poeta Virgilio propagandare l’ideologia incarnata da Ottaviano attraverso le sue opere: Bucoliche (39 a.C.), Georgiche (29 a.C.) ed Eneide (19 a.C.), il capolavoro che attribuisce origini divine alla gens Iulia, da cui discendevano Cesare e Ottaviano. I tre poemi rappresentano altrettanti motivi dominanti dell’ideologia augustea: il ritorno a una mitica età dell’oro, che ristabilisce la concordia tra le parti sociali dopo il dramma delle guerre civili; il ritorno alla terra che nutre e sostenta, vero fondamento dell’Impero; il ritorno alla tradizione monarchica di Roma attraverso la figura dell’imperatore, investito dagli dei celesti della sua missione conquistatrice e unificatrice.
Roma riuscì a scalzare potenze come Cartagine e l’Egitto grazie a strategie coerenti e lungimiranti.
tendendo tutti verso un medesimo fine». Che era uno soltanto: il dominio universale.
Come nasce un impero La conquista del raffinato e ricco mondo ellenistico, nel II secolo a.C., resuscitò nella Repubblica, travagliata dalle guerre civili, il fascino antico della monarchia. Dopo la caduta dei re Tarquini, nel 509 a.C., l’idea del governo di uno solo era stata bandita, ma il desiderio di una pace stabile e duratura sembrò renderla di nuovo appetibile. Nel 45 a.C. Giulio Cesare, il generale vittorioso che dal 49 a.C. ricopriva la carica di dictator, adottò il pronipote Ottaviano. L’anno
L’aquila, il simbolo principale dell’Impero, diffuso ovunque.
UN’IDEA IN ARMI
R
oma non avrebbe mai potuto affermare e mantenere la propria leggendaria invincibilità senza quella perfetta macchina da guerra che furono le legioni. I soldati romani non erano supereroi e qualche volta le loro armi erano tecnologicamente inferiori a quelle degli avversari, eppure riuscivano a sconfiggere quasi sempre il nemico, chiunque esso fosse. Contavano, certamente, l’esperienza dei combattenti e l’abilità dei comandanti, ma il vero segreto dell’esercito di Roma stava nel suo ferreo metodo organizzativo. Il comandante romano era prima di tutto un capo accorto, prudente e pragmatico, che preparava accuratamente le marce, avanzava con cautela, costruiva strade di approvvigionamento e ogni notte allestiva formidabili accampamenti fortificati; conosceva l’arte di resistere e di attendere, quella che aveva permesso a
Quinto Fabio Massimo “il Temporeggiatore” di trionfare su Cartagine. Infine, sapeva di essere il portatore di un progetto di civiltà, e tale consapevolezza faceva di lui il simbolo e lo strumento della potenza di Roma.
seguente Cesare cadde sotto i colpi di pugnale dei congiurati, e Ottaviano, benché appena ventenne, si fece carico dell’eredità politica e militare del prozio. Grazie a un’eccezionale combinazione di circostanze propizie, abilità strategica e lungimirante diplomazia, nell’arco di quindici anni riuscì a sanare la crisi della Repubblica e a gettare le basi di un inedito sistema di governo, il principato. Esso riuniva in sé due elementi di importanza centrale nella storia di Roma: il regime monarchico e l’autorità del Senato. Fu agendo con astuzia e determinazione che Ottaviano ricevette il titolo di Augusto e fondò l’Impero, nel 27 a.C. Una data decisiva nella storia d’Europa e del mondo. ®
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Cover Story: L’Impero Romano, le vere ragioni del suo successo
La capacità di trasformazione
Se il potere di Roma rimase in auge per tanti secoli, il merito va anche al rinnovamento delle istituzioni. Senza abolire il primato senatorio, l’Urbe fu capace di evolvere da repubblica a principato, e poi a impero
N
el periodo della prima età imperiale la struttura della società romana non si discostava da quella della tarda Repubblica: da un lato c’era la plebs, il popolo nell’accezione più vasta del termine, e dall’altro l’insieme dei ceti sociali più elevati per censo e per prestigio. Le uniche differenze stavano nel ridimensionamento della posizione occupata dal Senato (fatto inaudito nella storia di Roma) e nell’allargamento dell’accezione di “popolo” a un numero sempre crescente di genti conquistate.
Il Senato, anima dell’Urbe Istituito da Romolo, il Senato, ossia l’“assemblea degli anziani”, era un elemento connaturato all’esistenza stessa della città. Lo evidenziava la sigla S.P.Q.R., Senatus PopulusQue Romanus, “il Senato e il popolo di Ro-
ma”, a indicare il legame inscindibile tra gli elementi costitutivi del potere dell’Urbe. Fu soltanto nel II secolo che gli imperatori, a imitazione del suggestivo modello mediorientale, iniziarono a privilegiare l’organismo del consilium principis, una cerchia ristretta di giuristi fidata e più malleabile dell’assemblea senatoria. Ciononostante, il Senato continuò a ricoprire un ruolo di primo piano nella struttura statuale, impegnandosi spesso in una sorta di braccio di ferro con gli imperatori, che a più riprese tentarono d’imporre il modello ellenistico di un governo assoluto. Fu Costantino, all’inizio del IV secolo, ad assestare al Senato il colpo definitivo: convertitosi al cristianesimo, nel 330 l’imperatore fondò una seconda capitale, Costantinopoli (oggi Istanbul), sul sito dell’antica Bisanzio. La nuova capitale disponeva di un Senato
Nella maestosa ricostruzione di Jean-Léon Gérôme, Augusto è raffigurato davanti al tempio di Giano, dio degli inizi e mitico sovrano dell’Età dell’oro fatta rivivere da Augusto stesso. Nella parte inferiore del dipinto è ritratta la nascita di Gesù, avvenuta sotto il regno di Ottaviano (in alto, un busto dell’imperatore conservato a Istanbul, l’antica Costantinopoli).
UN CLUB POTENTE E RISTRETTO
I
membri del Senato erano stati scelti da Romolo tra i patres, ossia i patriarchi delle gentes, gli originari clan romani. In epoca monarchica il Senato aveva un ruolo centrale nell’amministrazione dello Stato: deteneva il potere esecutivo in caso di interregno, consigliava il sovrano nelle decisioni più delicate e insieme al popolo esercitava la funzione legislativa. Al tempo della Repubblica, l’importanza e le competenze del Senato aumentarono considerevolmente, e l’organismo finì per diventare strumento dell’élite di potere, conferendo così allo Stato romano un carattere marcatamente oligarchico. La situazione mutò con la nascita dell’Impero: Ottaviano Augusto ridusse sia il numero dei patres che la loro influenza, concedendo in cambio maggiori privilegi e benefici economici. Dopo
di lui, però, il conflitto tra imperatore e Senato s’inasprì sempre più. Quando il principato augusteo fu sostituito dal dominato di tipo dispotico, imposto da Diocleziano nel III secolo d.C., ebbe inizio il vero declino della classe senatoria (sotto, Appio Claudio Cieco in un dipinto ottocentesco di Cesare Maccari).
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parallelo a quello romano, alla cui ingerenza Costantino poteva così legittimamente sottrarsi. A poco a poco, il Senato di Roma perse importanza fino a scomparire, agli inizi del VII secolo, dopo essere formalmente sopravvissuto alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476.
Le province, corpo dell’Impero La prima, fondamentale riforma di Augusto riguardò le province, le massime unità amministrative
dei possedimenti romani al di fuori della penisola italiana. Il decadimento della Repubblica e della sua originaria moralità aveva investito anche la gestione di queste regioni, divenute nel tempo oggetto di sfruttamento e di rapina. Con Augusto, invece, le province recuperarono una dignitosa autonomia, in cambio di alcune condizioni non negoziabili: le élite locali potevano conservare la loro autorità a patto di
L’Impero di Roma era un organismo complesso e ben strutturato, in grado di amministrare genti e culture diverse.
garantire pace e ordine, consentire ai cittadini romani di esercitare indisturbati le proprie attività commerciali, mantenere in attivo il bilancio. In cambio, l’Impero concedeva l’ambito privilegio della cittadinanza romana a molti singoli abitanti delle province, a città e perfino a intere regioni. Così, nel corso del I secolo d.C. Roma giunse a governare non più un coacervo di territori asserviti, oppressi e sfruttati economicamente, bensì un mosaico ben strutturato di terre e culture diverse, dipendenti dall’Urbe e obbedienti al solo imperatore, in un’ottica di ® cooperazione e arricchimento reciproco.
I POTERI DEL PRINCEPS O
ttaviano fece la sua mossa vincente quando, nel 27 a.C., restituì al Senato i poteri straordinari conferitigli per combattere Marco Antonio, che alleandosi con l’Egitto di Cleopatra aveva tentato di sfidare Roma: non fu tanto un atto dovuto quanto la dimostrazione della sua raffinata intelligenza politica. Ottaviano evitò di mettersi in urto con la potente oligarchia senatoria che reggeva l’Urbe dalla fondazione, preferendo consolidare la sua credibilità agli occhi del popolo. In cambio, ricevette, fra gli altri, i titoli di Augusto, ossia “degno di venerazione e di onore”, e di princeps, “primo cittadino”. Non erano soltanto appellativi altisonanti: ciascuno di essi era carico di un profondo significato, che comportava l’assunzione di precisi diritti e doveri. In particolare, “augusto” indicava l’intangibile sacralità del ruolo, derivante dall’approvazione congiunta del Senato e del popolo romano; al princeps, invece, competeva la guida della res publica, senza tuttavia intaccare le istituzioni repubblicane. Sotto, il Trionfo dell’imperatore Tito (1885) secondo il pittore Lawrence Alma-Tadema.
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Cover Story: L’Impero Romano, le vere ragioni del suo successo
Il dilemma economico L’amministrazione di possedimenti così vasti e lontani dalla capitale obbligò Roma a costruire un sistema sociale raffinato ma fragile
L
a grande intuizione di Roma imperiale era stata l’esportazione del modello federativo oltre i confini della Penisola. Alleandosi con le aristocrazie locali delle regioni assoggettate e concedendo loro un ampio autogoverno in cambio di lealtà, sottomissione e pagamento dei tributi, l’Urbe riuscì ad amministrare con successo territori immensi e lontanissimi dal potere centrale. Inoltre, grazie alla sicurezza garantita alle vie di traffico per terra e per mare, il commercio ricevette un forte impulso. Nella capitale si moltiplicarono le botteghe e i laboratori degli artigiani, mentre i mercanti si spingevano ovunque nel mondo conosciuto, dal Baltico alla Serica, la remota regione dell’Asia che oggi chiamiamo Cina.
Monete romane rinvenute in Inghilterra. La valuta imperiale era diffusa ovunque.
GLI SCHIAVI, FORTUNA E ROVINA DI ROMA
L
a prosperità dell’Urbe si basava, da sempre, sulla massiccia presenza di schiavi, che costituivano la vera spina dorsale dell’economia romana. Quando la Repubblica iniziò a espandersi e a costruire quello che sarebbe divenuto l’Impero, il maggior vantaggio scaturito dalle conquiste fu l’acquisizione di schiavi, indispensabili per la produzione su larga scala necessaria a soddisfare le esigenze dei sempre più vasti possedimenti romani. Fu l’età imperiale ad avvalersi maggiormente dell’apporto della schiavitù: milioni di esseri umani, circa il 25% dell’intera popolazione dell’Impero, facevano funzionare la complessa macchina dello Stato quasi a costo zero. Gli schiavi, infatti, non godevano di alcun diritto ed erano considerati “oggetti” a tutti gli effetti. Bisognava, però, occuparsi della loro sopravvivenza per garantirsi la prestazione dei servizi, e mantenerne la disciplina. Non tutti gli schiavi, tuttavia, vivevano miseramente e
una certa parte di essi riusciva, con il tempo, a riacquistare la sospirata libertà. Nel III secolo, quando la politica espansionistica di Roma subì una battuta d’arresto e l’Impero entrò in una fase di stagnazione economica, gli schiavi divennero sempre più rari e più costosi. Lentamente, la schiavitù si trasformò in servitù, gettando le basi di quella che sarebbe stata, in età medievale, la cosiddetta “servitù della gleba”: uno stato di sudditanza moderato da precisi limiti.
Le donazioni di pane: per secoli una prassi abituale della propaganda politica a Roma.
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mila uomini, tra legionari e truppe ausiliarie. La conquista e lo sfruttamento delle miniere aurifere della Dacia e il controllo completo sulle vie carovaniere dell’Oriente, realizzati da Traiano stesso per consolidare la stabilità economica di Roma, benché importanti rappresentarono un beneficio di breve durata.
Un Impero troppo vasto
Combattimenti tra Romani e Goti immortalati sul sarcofago Grande Ludovisi (III secolo).
Nel corso del II secolo d.C. la fase delle guerre di conquista si concluse. L’ampliamento dei confini rese le entrate provenienti dalle province (non tutte ricche allo stesso modo) insufficienti a soddisfare i bisogni della crescente spesa pubblica, aggravata dalla particolare situazione dell’Urbe.
La capitale vorace
Roma, infatti, era popolata da una moltitudine di ex contadini e piccoli proprietari terrieri che avevano abbandonato i loro poderi per servire nell’esercito. Divenuti così una massa di manovra per i politici, costoro vivevano quasi senza lavorare e facendo affidamento sulle frequenti elargizioni pubbliche di grano e altri generi alimentari. Lentamente, fu proprio l’Urbe a diventare un peso insostenibile per l’economia dell’Impero. Secondo alcuni storici, anzi, l’intera organizzazione politica imperiale finì per ruotare attorno a due esigenze imprescindibili: da un lato il rifornimento di grano per Roma, e dall’altro l’approvvigionamento delle legioni di stanza ai confini, con un enorme dispendio per i trasporti via terra e via mare. Sotto Traiano (98-117) l’Impero raggiunse la sua massima estensione: un territorio di oltre 4 milioni di km2, con una popolazione compresa tra i 50 e i 60 milioni di abitanti. Eppure, a presidiarlo bastavano circa 400
L’Impero non riuscì mai a conseguire uno sviluppo economico stabile indipendente dalle conquiste, e l’aumento dei territori controllati impose un corrispondente aumento delle spese per l’apparato burocratico e quello militare, ossia gli strumenti indispensabili per la sopravvivenza stessa dell’Impero. Il III secolo fu segnato da un drammatico cinquantennio di anarchia militare. Fu Diocleziano (regnante dal 284 al 305) a riportare l’ordine con l’introduzione della “tetrarchia”, ossia la suddivisione del vastissimo Impero in quattro parti, ciascuna governata autonomamente, e la trasformazione del principato in “dominato”: la potente élite senatoriale venne gradualmente esclusa dai comandi militari, fu varata una riforma monetaria su larga scala e si procedette alla creazione di un apparato burocratico unitario. Tutte queste modifiche, però, non bastarono a risolvere la crisi economica che travagliava l’Impero da quasi cento anni, e che ne avrebbe portato al collasso la parte occiden® tale durante la seconda metà del V secolo.
La vastità dei territori e le esigenze economiche dell’Urbe indebolirono progressivamente la struttura imperiale.
IL RUOLO DEL CRISTIANESIMO
T
ra le cause riconosciute della caduta dell’Impero Romano figura la diffusione del cristianesimo. Alla sua comparsa, esso non fu altro che uno degli infiniti culti giunti a Roma dalle province orientali. Ma la tolleranza religiosa, che fu sempre una caratteristica dell’Urbe, gli permise di penetrare in larghi strati della società, soprattutto fra i più umili. Ben presto, però, fu chiaro che il messaggio cristiano si poneva in antitesi con le ideologie di potere sottese alla struttura stessa dell’Impero, e il cristianesimo assunse connotazioni marcate di pericolosità sociale: i padroni cristiani affrancavano gli schiavi, contribuendo inconsape-
volmente a minare le basi dell’economia; i cristiani rifiutavano di militare nell’esercito, e i soldati convertiti rifiutavano di combattere, favorendo così il ricorso a truppe barbariche mercenarie. Nel IV secolo l’imperatore Costantino (qui accanto, mentre riceve la visione della croce) si convertì al cristianesimo e, con l’editto di Milano del 313, sancì l’ufficialità del culto, infliggendo un duro colpo all’unità confessionale della Roma pagana. Dopo di lui, Teodosio I fece del cristianesimo la religione ufficiale, unica e obbligatoria dell’Impero, proibendo nel contempo ogni culto pagano e sradicando così la cultura stessa di Roma imperiale.
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Cover Story: L’Impero Romano, le vere ragioni del suo successo
Un ideale che rinasce Benché esaurito nella sua forma storica e istituzionale, l’Impero Romano continuò a esistere nella sostanza del suo ruolo civilizzatore
L
a fine dell’Impero di Roma è fissata tradizionalmente nell’anno 476, quando il generale germanico Odoacre depose Romolo Augusto, ultimo monarca d’Occidente. Ma all’epoca esisteva ancora l’Impero Romano d’Oriente, divenuto autonomo alla fine del IV secolo, dopo la morte di Teodosio I, ultimo sovrano ad aver regnato su di un impero unito. Esso continuò a prosperare, fra alterne vicende, fino al 29 maggio 1453, quando i Turchi ottomani del sultano Maometto II conquistarono definitivamente la capitale Costantinopoli. Con quel fatale evento si chiudeva un’epoca, e infatti alcuni storici propongono questa come vera data di passaggio dal Medioevo all’inizio dell’età moderna, rifiutando quella, più comune, legata alla scoperta dell’America.
Fu Giustiniano I (ritratto con il suo seguito nella basilica di San Vitale a Ravenna) a tentare di restaurare l’unità dell’antico Impero Romano.
UN VANTO PER L’ITALIA
S
otto l’Impero, lo status più prestigioso e ambito era quello di civis romanus, “cittadino di Roma”. L’espressione indicava l’appartenenza di fatto e di diritto alla più potente comunità politica e militare del mondo allora conosciuto, e garantiva l’inviolabilità all’interno dei confini imperiali. Per questo motivo, la concessione della cittadinanza romana agli abitanti delle terre conquistate era il massimo traguardo a cui poteva aspirare un suddito di Roma, ed era in cambio di tale privilegio che le province accettavano la sottomissione all’Urbe. Anche molti secoli dopo la fine dell’Impero, l’ammirazione per la grandezza di Roma rimase intatta: lo prova l’interesse sempre
vivo per la lingua e la civiltà latina in tutte le sue forme, diffuso a livello internazionale, che pone l’Italia al primo posto tra le mete del turismo culturale. Non solo per le sue grandiose vestigia, ma anche per il significato simbolico di culla dell’irripetibile civiltà romana.
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MOLTE DATE PER LA CADUTA I
ndicare un momento preciso per la vera fine dell’Impero Romano è assai difficile. Oltre alle date del 476 (caduta dell’ultimo sovrano d’Occidente) e del 1453 (caduta di Costantinopoli e dell’Impero Romano d’Oriente), si segnalano anche quelle del 392 e del 410. Il 392 si riferisce ai “decreti teodosiani”, ossia le prescizioni dell’imperatore Teodosio I, che inasprivano la proibizione dei culti pagani già affermata con l’editto di Tessalonica (380) e che sancirono l’inizio di un’autentica persecuzione del paganesimo. Poiché proprio il paganesimo e la tolleranza religiosa erano i fondamenti confessionali della romanità in quanto tale, la loro condanna viene interpretata da qualcuno come limite estremo dell’Impero considerato nella sua più compiuta espressione spirituale. Nell’agosto del 410, invece, Roma fu messa a ferro e fuoco dai Visigoti di Alarico I, che per tre giorni devastarono la capitale. La prima, sanguinosa violazione dell’Urbe, fulcro sacro e intangibile dell’idea imperiale, costituì, secondo alcuni, un fatto talmente grave da determinare la disgregazione dell’Impero, almeno a Occidente (a lato, il sacco di Genserico, 456 d.C.).
Ma già nel IX secolo era emersa la suggestiva tesi della translatio imperii, “il trasferimento dell’impero”, che schiudeva grandiosi scenari.
Tutti i volti dell’Impero
Considerato come un’entità unica ed eterna, l’impero sarebbe stato fondato da Alessandro Magno, poi trasferito ai Romani e infine ai Franchi con Carlomagno, incoronato il 25 dicembre dell’800 da papa Leone III. La prova della so-
Benché in forme diverse, lo spirito dell’idea imperiale ha attraversato il tempo mantenendosi quasi immutato. pravvivenza dell’Impero Romano, considerato il coronamento dell’ideale imperiale nella Storia, starebbe in due elementi del suo titolo: “Carlo serenissimo augusto incoronato da Dio grande e pacifico imperatore, custode dell’Impero Romano, e per misericordia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi”. Il sovrano franco era dunque “augusto”, aggettivo proprio degli imperatori di età romana, e “custode”, poiché si custodisce La corona del Sacro Romano Impero, forgiata nel X secolo: simbolo del supremo potere temporale di diritto divino ed emblema dell’impero germanico.
qualcosa che esiste e che bisogna preservare. L’idea di un Impero Romano ancora vivo e operante si rafforzò ulteriormente nel 962, quando Ottone I di Sassonia, già re di Germania e d’Italia, venne incoronato imperatore dei Romani da papa Giovanni XII. Con lui (e secondo alcuni già con lo stesso Carlomagno) nacque il Sacro Romano Impero: “sacro” perché sancito dal riconoscimento del pontefice, erede di Pietro e quindi vicario di Dio in terra; “romano” perché Ottone, e con lui tutta la sua discendenza, si considerava successore diretto degli imperatori romani; “impero” perché questa era la forma statale e politica più compiuta che si potesse desiderare.
Lo spirito che non muore Nel 1512, con l’imperatore Massimiliano I, entrò in uso l’espressione “Sacro Romano Impero della Nazione Germanica”. Contemporaneamente, però, l’appellativo dell’imperatore come Imperator Romanorum semper Augustus (“imperatore dei Romani sempre augusto”) rimase immutato fino al 1806 quando, dopo la pace di Presburgo firmata con Napoleone, Francesco II d’Asburgo-Lorena dovette riconoscere formalmente la cessazione del Sacro Romano Impero e rinunciare sia al titolo che alla corona, diventando semplicemente Francesco I d’Austria. Si concludeva così la leggendaria avventura dell’Impero Romano, durata 1.800 anni. Ma lo spirito che aveva animato la più straordinaria costruzione politica e culturale della Storia si è mantenuto intatto attraverso i secoli e le generazioni, in forme diverse, nutrendo senza posa le radici della nostra civiltà, e ancora oggi vive in ogni angolo d’Europa. n
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Canaglie & avventurieri
Pinochet Generale e dittatore Nel 1973, un colpo di Stato militare precipitò il Cile in un incubo sanguinoso durato fino al 1990, sotto la guida di un ufficiale ambizioso e spietato di Alessandra Colla
N
el XVIII secolo furono molti i francesi che lasciarono la patria per attraversare l’Atlantico e tentare la fortuna nel Nuovo Mondo. Tra quanti salparono, nel 1720, dal porto bretone di Saint-Malo c’era anche un intraprendente giovanotto, Guillaume Pinochet. Sbarcato a Concepción, in Cile, Pinochet scoprì di non potervi scaricare le sue merci perché le concessioni commerciali erano riservate agli spagnoli. Senza perdersi d’animo, Guillaume si affrettò a sposare una nobildonna del posto avviata allo zitellaggio e più anziana di lui di dodici anni, riuscendo così ad aggirare gli ostacoli burocratici. L’anno seguente, da quel matrimonio di convenienza nacque un figlio: divenuto capitano dell’esercito cileno, inaugurò la tradizione della carriera militare per i primogeniti maschi di casa Pinochet. Con il tempo, i Pinochet si trasferirono a Valparaíso, e fu qui che, il 25 novembre 1915, vide la luce Augusto José Ramón, il futuro dittatore del Cile. Come si usava nella buona borghesia cilena, Augusto compì i suoi studi nelle scuole cattoliche di Valparaíso; nel 1933, al terzo tentativo, il diciottenne fu ammesso alla prestigiosa Scuola militare “Bernardo O’Higgins” di Santiago. Ne uscì nel 1936 con il grado di sottotenente di fanteria, e iniziò a percorrere le tappe obbligate della formazione nell’esercito. Erano anni turbolenti per il Cile, che risentiva di quanto stava accadendo in Europa: l’ascesa di Hitler era vista con favore dalla ricca colonia tedesca stanziata da tempo nel Paese sudamericano e capace di influire sulle scelte politiche della nazione. Nel marzo 1937 le elezioni sancirono la vittoria delle destre, e l’anno seguente il Cile si ritirò dalla Società delle Nazioni, mantenendo la neutralità
fino al 20 gennaio 1943, quando il presidente Juan Antonio Ríos Morales, pressato dall’opposizione interna e dagli Stati Uniti, si decise a interrompere ogni rapporto con l’Asse. Nel dicembre 1944 il Cile stabilì relazioni diplomatiche con l’Urss e infine, l’11 aprile 1945, dichiarò guerra al Giappone, mossa obbligata per poter entrare a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
La scoperta della politica
Nel 1946 divenne presidente del Cile Gabriel González Videla, eletto con l’appoggio determinante del Frente Popular, la coalizione politica di centro-sinistra. Una volta preso il potere, però, con un improvviso voltafaccia Videla mise fuorilegge il Partito Comunista, ruppe le relazioni diplomatiche con l’Urss e con i Paesi del blocco orientale e represse violentemente lo sciopero dei minatori. I dirigenti del disciolto Partito Comunista furono rinchiusi nel campo di concentramento di Iquique, la cui responsabilità fu affidata a Pinochet, che ricopriva ora il grado di capitano. Come avrebbe scritto più tardi nelle sue memorie, il giovane Pinochet all’epoca non capiva nulla di politica: il suo mondo era l’esercito, e la sua unica fede la religione cattolica. Soltanto con l’inizio della Guerra Fredda iniziò a comprendere i nuovi equilibri che regolavano il mondo, ora diviso tra il blocco statunitense e quello sovietico. In particolare, fu proprio l’esperienza di Iquique che gli permise di familiarizzarsi con la dottrina marxista-leninista e crearsi una propria visione del mondo. La sua carriera, intanto, procedeva senza intoppi. Nel 1963 fu nominato vicedirettore dell’Accademia di Guerra; cinque anni dopo ®
Una carriera folgorante
Nel 1956 Pinochet fu inviato in Ecuador per organizzarvi una scuola militare. Nel 1963 venne nominato vicedirettore dell’Accademia di Guerra di Santiago; nel 1968 divenne generale di brigata e nel 1971 entrò a far parte dello stato maggiore dell’esercito.
1956-1971
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“Il potere deve essere attribuito alle forze armate, poiché solo loro hanno l’organizzazione e i mezzi per combattere il marxismo.” (Augusto Pinochet) 31 Trova questa rivista e tutte le altre molto prima,ed in più quotidiani,libri,fumetti, audiolibri,e tanto altro,tutto gratis,su:https://marapcana.tech
Canaglie & avventurieri
Manifestazioni in Cile contro il mancato processo a Pinochet, accusato di crimini gravissimi, durante gli ultimi anni di vita dell’ex dittatore.
La carovana della morte
I volti di alcuni desaparecidos, le persone scomparse il cui numero è stato stimato in alcune migliaia fra donne, uomini e perfino minori.
divenne generale di brigata e nel 1971 entrò a far parte dello stato maggiore dell’esercito. Frattanto, nel 1970 la presidenza del Cile era stata affidata a Salvador Allende, il primo politico marxista eletto democraticamente nelle Americhe. Il nuovo presidente ereditava una congiuntura economica instabile, alla quale cercò di ovviare perseguendo obiettivi quantomai invisi agli industriali e ai grandi proprietari terrieri: nazionalizzazione delle imprese ed espropri in favore dei contadini. Ma fu soprattutto la ripresa delle relazioni con la Cuba di Fidel Castro a impensierire gli Stati Uniti, preoccupati che il Cile socialista potesse diventare un esempio per gli altri Paesi sudamericani e trascinarli, così, in un effetto domino che avrebbe compromesso il tradizionale controllo degli Usa sul resto del continente. Come ammesso ufficialmente dalla Cia, che qualche anno fa ha desecretato i relativi
Nelle settimane successive al colpo di Stato, un gruppo di ufficiali guidati dal generale Sergio Arellano Stark percorse il Paese seminando il terrore, assassinando sistematicamente decine di militanti comunisti, socialisti e democristiani.
Militari cileni sfilano durante la dittatura di Pinochet.
documenti, gli StaAllende solo due settimane ti Uniti ricorsero a prima, accettò. Intanto il prequalsiasi mezzo per sidente, avuta notizia dell’imottobre 1973 destabilizzare il Cile. minenza di un colpo di mano La situazione preda parte dei militari, annunciò cipitò: il 6 marzo 1973, la proclamazione di un plebiscito elezioni regolari riconfermanazionale; questa mossa, che avrebbe rono il favore popolare ad Allendovuto gettare acqua sul fuoco, spiazzò i de, ma l’aumento delle azioni terroristiche da golpisti, inducendoli a passare all’azione. parte delle organizzazioni di estrema destra Il regime del terrore indusse il presidente a rivolgersi all’esercito Il colpo di Stato ebbe luogo l’11 settembre per riportare l’ordine. Il 23 agosto Allende 1973. Salvador Allende morì nel palazzo nominò Pinochet comandante in capo dell’epresidenziale, quasi certamente ucciso dai sercito, certo di potersi fidare di lui. L’idea golpisti, dopo una coraggiosa ma inutile residi un colpo di Stato, però, serpeggiava da stenza condotta insieme a pochi fedelissimi. tempo negli ambienti militari e ai primi di Al potere s’insediò una giunta militare guisettembre gli ufficiali golpisti decisero di rompere gli indugi: l’8 settembre avvicinaro- data dallo stesso Augusto Pinochet. Il generale scatenò subito una repressione no Pinochet, proponendogli di unirsi a loro, sanguinosa che sconvolse il mondo: i sostee il generale, che aveva giurato fedeltà ad nitori di Allende, o presunti tali, furono arrestati, imprigionati, torturati e messi a morte, senza riguardo per sesso ed età; lo stesso accadde a tutti coloro che erano sospettati di nutrire simpatie marxiste. I partiti politici
“A volte, la democrazia necessita di essere lavata nel sangue.” (Augusto Pinochet) 32
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L’assassinio di Letelier
L’uccisione di Orlando Letelier, ex ministro di Allende ed ex ambasciatore cileno negli Usa, commissionata da Pinochet, segnò l’inizio dell’allontanamento degli Stati Uniti dal Cile e richiamò l’attenzione del mondo sulla tragica situazione del Paese.
Le firme dei componenti della giunta militare golpista cilena dell’11 settembre 1973.
21 settembre 1976
Augusto Pinochet in un ritratto ufficiale, con i simboli di presidente della Repubblica.
della sinistra vennero sciolti e messi fuorilegge, e soppresse le libertà politiche e civili. Con la stessa lucida efficacia impiegata per eliminare fisicamente gli oppositori, il dittatore procedette alla riorganizzazione del Cile. In particolare, si appoggiò ai “Chicago Boys”, un gruppo di giovani economisti cileni formatisi all’Università di Chicago sotto la guida di Milton Friedman. Sostenitori della privatizzazione e del liberismo economico, i Chicago Boys cancellarono le riforme collettiviste volute da Allende, e per un breve periodo il Cile parve risollevarsi grazie a quello che lo stesso Friedman definì “il miracolo cileno”. In realtà, il “miracolo” fu soltanto un’illusione passeggera, e presto il Paese ripiombò nella crisi economica. Il che, tuttavia, non impedì al dittatore di accumulare una colossale fortuna, mentre la sua avventura governativa volgeva al termine. La brutalità del regime di Pinochet continuava a suscitare ovunque nel mondo orrore e riprovazione, fruttandogli ben 16 risoluzioni di condanna dall’Onu per “violazione dei diritti umani”: tra il 1973 e il 1990, anno in cui il generale lasciò il governo, quasi 3.000 persone
La giunta militare nel 1985: da sinistra, Rodolfo Stange, José Toribio Merino, Augusto Pinochet, Fernando Matthei e César Benavides.
furono assassinate, 33 mila arrestate arbitrariamente e 28 mila torturate; diverse migliaia svanirono nel nulla, dando luogo al tragico fenomeno dei desaparecidos, “gli scomparsi”. I cileni che espatriarono tra il 1973 e il 1989 furono poco meno di 1 milione.
Gli ultimi anni Sotto il peso di quest’evidenza, anche gli Stati Uniti avevano cominciato a prendere le distanze dal dittatore. Nel 1988, sotto la crescente pressione dell’opinione pubblica internazionale, Pinochet indisse un plebiscito per il rinnovo del mandato presidenziale. Svoltosi in modo regolare, sotto il controllo di osservatori neutrali, il plebiscito sancì il “no” del 60% dei votanti. Così, nel novembre del 1989 si tennero libere elezioni e nel marzo del 1990 Pinochet venne infine sostituito dal democratico cristiano Patricio Aylwin. La dittatura in Cile era durata oltre 16 anni. Il generale mantenne la carica di comandante in capo dell’esercito fino al marzo 1998, quando si ritirò dalla scena politica con la carica di senatore a vita e l’immunità
parlamentare, trasferendosi a Londra. Qui, nell’ottobre dello stesso anno, fu arrestato e messo ai domiciliari con l’accusa di crimini contro l’umanità, pronunciata dal giudice spagnolo Baltasar Garzón in base al principio della giurisdizione universale (la gravità di alcuni crimini è tale che qualsiasi Stato può esigerne la condanna e la punizione). Tuttavia, il governo cileno si oppose all’arresto, all’estradizione e al processo, avviando un clamoroso braccio di ferro diplomatico e giuridico con il Regno Unito. Estradato in Cile dopo un anno e mezzo, Pinochet fu dichiarato affetto da demenza e rimase, di fatto, impunito. Il 3 dicembre 2006 l’ex dittatore fu ricoverato d’urgenza per arresto cardiaco: le sue condizioni si aggravarono rapidamente e il 10 dicembre morì, all’età di 91 anni, nell’ospedale militare di Santiago. Gli furono negati i funerali di Stato, ma non le esequie militari. Mentre si svolgeva la cerimonia religiosa, gli oppositori rendevano omaggio alla memoria di Salvador Allende, la prima e più illustre vittima del generale, che diceva di sé: «Sono stato solo un aspirante dittatore». n
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MILANO SFIDA VENEZIA
Dopo aver sconfitto Genova sul mare, per Venezia era tempo di contendere i domini sulla terraferma, minacciata dai Milanesi di Mirko Molteni Nella pagina a fronte, Ritorno vittorioso da Chioggia del doge Andrea Contarini dopo la disfatta dei Genovesi, dipinto dal Veronese nel 1585-1586 e conservato nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale. Dopo il successo chioggiano, i Veneziani iniziarono a guardare con interesse all’espansione nell’entroterra, puntando gli occhi su Milano.
G
ravissimo fu il pericolo corso dalla repubblica lagunare nella quarta guerra contro Genova, verso la fine del XIV secolo. Il conflitto scoppiò per il controllo della strategica isola di Tenedo, presso lo stretto dei Dardanelli, da cui passava la rotta per il Mar Nero. Furono gli stessi Bizantini, nel 1376, a lasciare che l’isola fosse occupata dai Veneziani, provocando la reazione ostile della rivale ligure. Scoppiata la guerra, Venezia giocò d’anticipo, inviando la flotta del capitano generale da mar Vettor Pisani a sfidare il nemico nel Tirreno. Il 30 maggio 1378, l’ammiraglio veneziano batté una squadra genovese presso Anzio, per poi tornare nell’Adriatico e acquartierarsi nel porto di Pola, dove
passò l’inverno. Con l’arrivo della primavera, però, i Genovesi vennero a stanarlo. Il 7 maggio 1379, le galee di Luciano Doria arrivarono a Pola e Pisani si fece attirare in trappola credendo di avere il vantaggio numerico. Schierava 24 galee e nelle file genovesi ne contava solo ®
L’atrio dei cittadini illustri usto del celebre ammiraglio Vettor Pisani: fa parte B del cosiddetto “Panteon Veneto”, una collezione di statue e medaglioni conservata nell’atrio del magnifico Palazzo Loredan, a Venezia. Le opere, realizzate tra il 1847 e il 1932, rappresentano «uomini insigni nella politica, nelle armi, nella navigazione, nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, nati o vissuti lungamente nelle Province Venete dai tempi antichi fino al XVIII secolo».
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Milano sfida Venezia
A destra, Il doge Francesco Foscari destituito (1872) del pittore spagnolo Ricardo María Navarrete Fos: durante il suo dogado iniziò il lungo scontro tra la Repubblica di San Marco e il Ducato di Milano. Sotto, ambasciatori veneziani fanno rapporto al doge di ritorno da una missione diplomatica (Vittore Carpaccio, 1495 ca.).
16, ma non si avvide di altre 6 galee nascoste dietro un promontorio, che lo assalirono alle spalle. Persa la maggior parte della squadra, Pisani riuscì per miracolo a rifugiarsi a Venezia, dove fu imprigionato con l’accusa di incompetenza. Genova ne approfittò per tentare di annientare una volta per tutte la rivale. Mentre Ungheresi e Padovani, alleati dei Liguri, cingevano d’assedio la laguna dalla terraferma, la flotta genovese arrivò fino a Chioggia e la occupò, il 16 agosto 1379. Con il nemico alle porte, Venezia allestì difese d’emergenza, sbarrando lo sbocco del Lido di San Nicolò con navi incatenate fra loro e allestendo barriere in altri accessi. Ma popolo e marinai peroravano la causa di Vettor Pisani, rifiutandosi di servire sotto altri. Alla fine, il doge Andrea Contarini
riabilitò Pisani e lo associò a sé al comando di una forza navale che avviò la controffensiva per liberare Chioggia. Frattanto arrivava a dar manforte un altro grande comandante, Carlo Zeno, che dopo aver depredato molte navi nemiche appoggiò lo sforzo congiunto. Chioggia fu liberata il 23 giugno 1380, dopo un lungo assedio, e nel 1381 la pace fu siglata. Venezia l’aveva scampata bella, pur avendo perso Treviso.
L’espansione nell’entroterra Negli anni successivi, le esperienze della guerra di Chioggia portarono molti Veneziani a chiedere una robusta espansione nell’entroterra, per coprirsi le spalle e creare una base economica indipendente dai commerci marittimi, che potevano essere vulnerabili in caso di blocco
La prima bastonatura ai Turchi
L’
affacciarsi dei Turchi ottomani sul Mediterraneo fu una sorpresa per i Veneziani, anche se in un primo tempo la flotta della Serenissima riportò una grande vittoria. Tutto iniziò il 27 maggio 1416, quando una squadra di 15 galee veneziane comandate dal capitano generale da mar Pietro Loredan s’imbatté, al largo della Gallipoli anatolica (nell’Egeo), in una grossa squadra turca di un centinaio di navi, fra cui 13 galee. Le rispettive flotte non si molestarono, perché Venezia in quel momento era in pace con i Turchi, come Loredan specificò nel puntuale rapporto steso per il doge Tommaso Mocenigo: «Ho avuto la più gran cura di attenermi agli ordini della Serenità vostra, evitando ogni cosa che potesse recare offesa ai Turchi o suggerire
che avessimo intenzioni bellicose». E così fu. Ma poiché alcune navi veneziane si erano avvicinate alla costa, da terra i soldati turchi cominciarono a lanciare frecce avvelenate contro i marinai di Loredan. Prontamente, dalle galee venete partirono colpi di artiglieria, che uccisero alcuni dei soldati turchi sulla spiaggia. L’indomani, il capitano veneziano decise di inviare due galee al porto di Gallipoli in missione diplomatica, per chiarire l’accaduto e preservare la pace, ma un gruppo di navi turche si mise a inseguirle, facendole fuggire verso il grosso della squadra della Serenissima. I Veneti, a loro volta, diedero addosso alle navi ottomane, che si rifugiarono nel porto di Gallipoli. Così Loredan decise di ancorarsi davanti alla città per far ca-
pire che il Leone di San Marco non aveva voglia di scherzare. Per tutta la notte la flotta veneziana assediò il porto dal mare finché, il mattino del 29 maggio, le galee turche non uscirono dallo scalo per attaccare gli avversari. Riportò Loredan: «Feci subito disporre le mie navi in formazione d’attacco e diedi l’ordine ai rematori di vogare verso il largo con tutte le forze allo scopo di trascinare il nemico il più possibile discosto dalla riva. Quando vidi che la terra era ormai lontana, diedi il segnale d’attacco». Le galee venete si trasformarono da inseguite in inseguitrici e si scagliarono a tutta velocità contro le navi dei musulmani, speronandole e dando il via alla cruenta sarabanda degli arrembaggi. Lo stesso Loredan lottò in prima linea con i suoi uomini, a dispetto dei due dardi che lo ferirono al volto e a una mano. I Turchi, ancora inesperti nei combattimenti in alto mare, vennero massacrati in tutti i modi, con spade, frecce e con i primi proiettili di cannone apparsi sui mari. Non solo gran parte degli ufficiali ottomani (compreso il comandante) vennero uccisi, ma anche molti rinnegati europei che combattevano con loro dietro mercede. Di quelli catturati vivi, i traditori vennero impiccati, ma la sorte peggiore toccò a un veneziano rinnegato, tale Giorgio Calergi, tagliato a pezzi vivo su ordine di Loredan. Dopo aver distrutto la flotta nemica, quella veneziana poté fare ritorno impunemente di fronte a Gallipoli, cannoneggiando il palazzo del governo e incendiando molte delle navi ormeggiate in porto. Per molto tempo i Turchi non si fecero più vedere in mare, ma quel facile trionfo infuse nei Veneziani un’eccessiva sicurezza, che li spinse a sottovalutare le successive azioni del nemico.
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bito dopo la stipula dell’alleanza Venezia passò all’offensiva. Fin dalla prima campagna, che nel 1426 portò alla presa di Brescia, fu allestita una flotta fluviale di galee a remi, le prime ad essere chiamate “galeoni”, denominazione recuperata nel secolo successivo per gli omonimi velieri. Mentre la flotta risaliva il Po fino a Pavia, tagliando le comunicazioni nemiche, il Carmagnola prendeva la città di Brescia e si preparava a ulteriori operazioni. Il conflitto si trascinò fra alterne vicende. I combattimenti ripresero presto e, nonostante la sua abilità, il doge e il Maggior Consiglio cominciarono a pensare che il Carmagnola fosse fin troppo cauto, al confronto con lo spirito d’iniziativa del grande condottiero al servizio di Milano, Carlo II Malatesta, che passò il fiu-
Il conte di Carmagnola, me Oglio e penetrò in profondità rappresentato in nel Bresciano. Il 12 ottobre 1427, catene nello studio condusse comunque i Veneziani a nell’omonimo dipinto di una strepitosa vittoria nella battaglia Francesco Hayez (1820). di Maclodio, che sbaragliò le truppe di Malatesta. In seguito, il conte di Carmagnola guidò le truppe veneziane alla conquista della Val Camonica, stabilendo un ulteriore bastione di terraferma per la Repubblica. Dopo alcuni anni di tregua il conflitto riprese, segnando il destino di Francesco Bussone, sospettato di tradimento nell’ambito del fallito attacco alla piazzaforte di Cremona, nell’ottobre 1431, poiché, a detta della Serenissima, non aveva supportato a sufficienza la flotta fluviale veneta risalita dal Po. In quell’offensiva cominciò a distinguersi un suo giovane subalterno, Bartolomeo Colleoni, a sua volta riconosciuto come uno dei ®
navale. Inizialmente la Repubblica si appoggiò al duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, per contrastare insieme l’ambizioso signore di Padova, Francesco di Carrara, che espandeva i suoi domini nel Friuli tagliando le vie commerciali fra la laguna e il mondo germanico. Già nel 1389, la lotta portò Venezia a recuperare Treviso poi; quando l’alleato Visconti morì di peste (nel 1402), i Veneziani seguitarono la lotta da soli, giungendo entro il 1405 ad annettersi Vicenza, Bassano, Belluno, Verona e Padova. Infine, nel 1420, una guerra contro il re d’Ungheria Sigismondo li portò a conquistare Udine.
Il ruolo del doge Foscari Sotto il dogado di Francesco Foscari, il più lungo della storia veneziana, iniziò una lunga sfida al Ducato di Milano per portare il confine della Repubblica fino al fiume Adda: quest’epoca di guerre ebbe il suo prodromo nella firma di un’alleanza militare con Firenze, il 4 maggio 1425. Per i combattimenti sulla terraferma continentale, a cui erano meno avvezzi rispetto a quelli acquatici, i Veneziani si affidarono a uno dei più valenti mercenari dell’epoca, il condottiero piemontese Francesco Bussone, meglio noto come conte di Carmagnola, celebrato nel 1820 dall’omonima tragedia scritta da Alessandro Manzoni. C’è da dire che per i Veneziani la lotta contro Milano poteva parere una sorta di proseguimento del confronto storico con Genova, poiché in quel momento la città ligure era sottomessa allo Stato lombardo. Comunque fosse, su-
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Milano sfida Venezia
Un particolare del dipinto di Giorgione Ritratto di guerriero con uno scudiero, detto Gattamelata (1501 ca.), esposto a Firenze al museo degli Uffizi.
più celebri capitani di ventura del Rinascimento. In seguito a quest’episodio, il Carmagnola venne arrestato a Venezia e accusato dal Consiglio dei Dieci di connivenza con i Milanesi. Fu decapitato, il 5 maggio, fra le due colonne della Piazzetta. Tanto era caduto in disgrazia il Carmagnola, divorato dai sospetti, quanto cominciava a splendere l’astro di Bartolomeo Colleoni, che dalla nativa Solza, presso Bergamo, si fece un nome fra le maggiori compagnie di ventura.
Il “leone di Solza” Assoldato da Venezia a periodi alterni, nel 1432 Colleoni conobbe il rovescio di Delebio, in Valtellina, dove le milizie milanesi guidate da Nicolò Piccinino respinsero i Veneziani. Posto al comando di un reggimento di 300 cavalieri, si rifece nel 1437 resistendo valorosamente all’offensiva di Piccinino su Bergamo, che tenne duro, restando una delle roccaforti del Leone di San Marco. La figura di Colleoni si affermava sempre più per valore, ma dal punto di vista gerarchico veniva messa in ombra da altri condottieri parimenti al servizio della Serenis-
sima, come Erasmo Gattamelata. In questo periodo, mentre i Milanesi assediavano Brescia e avanzavano verso Verona, i Veneziani reagirono con un incredibile piano escogitato, sembra, da un ingegnere cretese, Niccolò Sorbolo. Dopo aver trasferito nel lago di Garda un’intera flotta da guerra, composta da 6 galee e una ventina di altre imbarcazioni, dapprima le fecero risalire il fiume Adige da Verona fin quasi a Rovereto, poi trasportarono le navi via terra fino alla punta settentrionale del Garda, facendole trainare per un tratto di una trentina di chilometri da oltre 2.000 buoi, in un’impresa durata un paio di settimane. La flotta lacustre veneziana fu sconfitta dai Milanesi, ma i Veneziani, che in quel momento avevano assoldato anche il condottiero Francesco Sforza, si presero una rivincita nel 1439, grazie a un piano ordito proprio da Colleoni. Da Verona, il “leone di Solza” si recò
all’accampamento dell’alleato Sforza, che assediava il Piccinino arroccato al castello di Soave. Gli suggerì di attirare in battaglia il nemico, promettendogli poi di andare in suo aiuto. Così misero in fuga Piccinino. Un anno dopo, i due sconfissero ancora i Milanesi nella battaglia di Soncino. Con la pace di Cremona, stipulata il 20 novembre 1441, Colleoni si ritenne libero di passare al servizio di Milano; del resto, lo stesso Sforza era destinato poco dopo a diventare signore della città lombarda, una volta esaurita la dinastia dei Visconti. Ciò non deve stupire, data l’estrema labilità delle alleanze e della fedeltà dei condottieri mercenari. Colleoni, tuttavia, continuava a considerarsi prima di tutto un suddito della Serenissima, e tornò presto al suo servizio. Nel frattempo le ostilità tra le due città si erano riaccese di nuovo, tanto più che Milano stava vivendo il periodo dell’effimera Repubbli-
“li Viniziani si sanno fare signori di Lombardia, e parmi la monarchia d’Italia.” Pievano Arlotto
Mille anni da Serenissima L
a storia di Venezia è talmente particolare da non conoscere paragoni, né in Italia né in Europa. Non si trattava solo di una fiorente repubblica marinara, ma di uno Stato modernissimo, avanzato in quasi tutti i settori della vita pubblica, dell’arte e della tecnologia. La sua epopea millenaria viene oggi raccolta in una pubblicazione speciale Venezia gloriosa, che ripercorre l’intera epopea della Serenissima, da quando era un umile villaggio lagunare fino ai fasti del Rinascimento e oltre. Potete trovare Venezia gloriosa (114 pagine, euro 9,90) in edicola, oppure ordinarla (anche in formato pdf) sul sito Sprea:
www.sprea.it/veneziagloriosa.
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1423: il testamento del doge
U
no dei documenti più interessanti circa il livello di potenza raggiunto dalla Repubblica di Venezia nel XV secolo è quella sorta di testamento politico che il doge Tommaso Mocenigo (a destra, il suo monumento funebre) indirizzò al Maggior Consiglio il 10 marzo 1423, sentendo approssimarsi la morte. Gravemente malato, aveva ormai 79 anni, età veneranda per l’epoca. Mocenigo era contrario all’espansione sulla terraferma e, soprattutto, a guerreggiare contro Milano, preferendo mantenere la priorità tradizionalmente assegnata all’espansione oltre mare e alla flotta, anche per non farsi cogliere impreparati dall’astro nascente dei Turchi ottomani. Garantendo ai posteri una messe di dati precisi, lasciò scritto: «Grazie alla pace, la nostra città impegna un capitale commerciale di 10 milioni di ducati nel mondo intero, in parte sulle navi, in parte sulle galee e altre imbarcazioni, così che noi ne riceviamo un utile di 2 milioni di ducati nell’esportazione e di 2 milioni di ducati nelle importazioni. Abbiamo in navigazione 3.000 imbarcazioni da 10 a 200 anfore, con 17.000 marinai; 300 navi con 8.000 marinai; e, piccole e grandi, 45 galee navigano ogni anno con 11.000
marinai». Poi, lanciava un accorato appello ai membri del Maggior Consiglio perché non mutassero una strategia ben collaudata che si era sempre rivelata fruttuosa, voltando le spalle al mare per avventurarsi nell’entroterra: «Le generazioni che ci hanno preceduto hanno fatto questo. Se voi conserverete la situazione nella quale vi trovate, sarete superiori a tutti. Che Dio vi faccia reggere e governare per il meglio». Mocenigo sapeva che gli umori prevalenti andavano in direzione dell’elezione del suo antagonista, Francesco Foscari, che viceversa mirava alle colline e pianure padane, e cercò di metterlo in cattiva luce con espressioni colorite, ma invano: «El dicto Francesco Foscari dise busie et anche molte cose senza alcun fondamento et sora et vola più che non fa i falchoni». Dopo la morte di Mocenigo, il 4 aprile, il patriziato veneziano decise di non dargli ascolto: il 15 aprile 1423 fu eletto doge Foscari che, complice la sua età relativamente giovane (aveva 49 anni), si rivelò il più longevo in carica, facendo in tempo a reggere la Serenissima per oltre un trentennio, durante l’intero ciclo delle guerre con Milano e fino a oltre la pace di Lodi, siglata nel 1454. Morì, infatti, il 23 ottobre 1457.
ca Ambrosiana, di cui Venezia si approfittò per prendere Crema, nel 1449. Un anno dopo Francesco Sforza diventava signore di Milano, grazie al suo matrimonio con una Visconti. La pace di Lodi, stipulata nel 1454, poneva fine a un trentennio di complesse guerre che avevano visto orbitare attorno alla specifica rivalità fra Milano e Venezia anche altre potenze italiane.
Veniva confermato l’Adda come confine occidentale della Repubblica e si affermava un equilibrio delle cinque potenze principali della penisola, ovvero Ducato di Milano, Repubblica di Venezia, Repubblica di Firenze, Regno di Napoli e Stato Pontificio, destinato a reggere per una quarantina d’anni. Nello stesso anno Colleoni ottenne finalmente il riconoscimento supremo che fino a quel momento gli era mancato, ovvero la nomina a comandante in capo delle truppe terrestri veneziane. Il Maggior Consiglio, tuttavia, non si fidava fino in fondo del bergamasco e di fatto lo tenne relegato nel castello di Malpaga, dove morì in tarda età nel 1475. Il condottiero, come prova di fedeltà alla sua patria, stabilì di lasciare in eredità all’erario della Serenissima circa metà dei 231.983 ducati che costituivano il totale delle ricchezze accumulate durante un’intera vita dedicata al “mestiere delle armi”. I Veneziani ne onorarono la memoria pochi anni dopo, con la statua equestre a lui dedicata e commissionata allo scultore fiorentino Andrea Verrocchio, maestro di Leonardo da Vinci, posta nel 1488 presso la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. n
Il Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni, realizzato da Andrea del Verrocchio tra il 1480 e il 1488: la statua, voluta da Venezia per rendere onore al celebre capitano di ventura, sorge in campo San Zanipolo.
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La vera storia di
Paolo e Francesca Resi immortali dalla penna di Dante, che pur compatendoli li pone all’Inferno, sappiamo che i due amanti assassinati appartenevano a potenti famiglie romagnole. Ecco come e perché si consumò la loro tragedia di Enza Fontana
«G
aleotto fu il libro e chi lo scrisse...» Anche chi non ha particolare dimestichezza con la letteratura sa che queste parole appartengono alla Divina Commedia e che si riferiscono alla tragica vicenda dei due cognati Paolo e Francesca: una delle coppie di amanti più celebri di tutti i tempi, vittime di un fatto di sangue accaduto all’epoca di Dante e da lui resi indimenticabili con la forza dei versi del V canto dell’Inferno. Nella finzione poetica, Dante incontra Paolo e Francesca nel secondo cerchio, quello dei lussuriosi, condannati a essere travolti per l’eternità da un’incessante bufera che li trascina nelle tenebre. Le due anime colpiscono l’attenzione del poeta perché sono le uniche a volare abbracciate nella tormenta. Attraverso le parole di Francesca, veniamo a sapere molte cose: che i due sventurati si erano innamorati per colpa di un libro; che quel libro raccontava la storia d’amore tra Lancillotto e Ginevra; che Paolo e Francesca avevano trovato il coraggio di baciarsi leggendo del primo bacio tra i due protagonisti; e che proprio mentre si baciavano erano stati colti sul fatto dal loro assassino, il quale li aveva trapassati insieme con la spada.
Lo Sciancato si vendica Questo è più o meno tutto ciò che Dante ci rivela. Non fa i nomi né del giovane ucciso (cioè di Paolo), né del duplice omicida. Dai suoi versi non sappiamo nient’altro, tranne che lei si chiamava Francesca e che era nata a Ravenna («Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace ®
Gli amanti visti dal pittore scozzese William Dyce (1808-1864). A sinistra, le loro anime si avvinghiano sotto gli occhi di Dante e Virgilio (sullo sfondo) in un’opera di Gustave Doré.
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La ver a storia di Paolo e Fr ancesca
Il famoso Galeotto L
a tragica storia d’amore di Lancillotto e Ginevra, evocata da Dante nell’episodio di Paolo e Francesca, si svolge a Camelot, la fortezza di re Artù, di cui lei è la splendida moglie e lui il cavaliere migliore. Lancillotto è giovane e coraggioso, e Ginevra se ne innamora perdutamente. Il cavaliere cerca di resistere più che può alla passione, ma alla fine l’amore lo travolge. E poi c’è Galeotto (Galehaut) a fare da Cupido. Amico di Lancillotto e siniscalco di Ginevra, è proprio Galeotto a sbloccare la situazione: conoscendo la timidezza del giovane, spinge la regina a prendere l’iniziativa. Così lei lo bacia appassionatamente sulla bocca (sotto, in una miniatura del Trecento) ed è questo il punto del libro in cui Paolo e Francesca arrivano a leggere quando vengono uccisi.
co’ seguaci sui») e non a Rimini, come impropriamente è invece passata alla Storia. Della vicenda non esiste altra testimonianza scritta se non quella, poetica, lasciata da Dante. Era solo una piccola storia ignobile che non meritava molte parole, oppure che era meglio mettere a tacere. Tuttavia, il lavoro degli storici ha permesso di scoprire qualche dettaglio in più. Intanto, alcune carte d’archivio confermano la reale esistenza storica dei tre protagonisti della vicenda. E soprattutto, i due amanti sono stati identificati in Francesca da Polenta, discendente di una nobile famiglia ravennate di parte guelfa, e Paolo Malatesta, figlio di Malatesta da Verucchio, fondatore della dinastia dei signori di Rimini. Quanto all’omicida, non vi sono dubbi che fosse Giovanni Malatesta, detto Gianciotto (Gianni “il Ciotto”, cioè lo zoppo, o “Gianne lo Sciancato”), marito di lei e fratello maggiore di lui, che li sorprese in flagrante adulterio.
È anche stato individuato l’arco temporale più plausibile per lo svolgersi dei fatti, che si situano tra il 1283 e il 1286. Scena del delitto, secondo la tradizione, fu il castello malatestiano di Gradara, che sorge in cima a un colle marchigiano, in posizione dominante sulla costa. Tuttavia è molto improbabile che possa avere ospitato l’amore e la morte di Paolo e Francesca, visto che ai tempi della tragedia evocata da Dante era ancora una semplice fortificazione militare e che il maniero che vediamo oggi fu completato solo nel 1325, circa mezzo secolo dopo i fatti. Più probabile, ma senza alcuna certezza, che i due si fossero amati nelle case dei Malatesta a Rimini, poi distrutte per far posto al castello di Sigismondo.
Un testamento rivelatore Il casato dei Polenta (o Polentani), che dominò su Ravenna e Cervia dal 1275 al 1444, doveva il nome al castello di Polenta,
Gounod, Rachmaninov e Prokofiev trassero ispirazione dalla vicenda per comporre appassionate musiche e celebri balletti.
I corpi degli amanti, trafitti dalla spada di Gianciotto, in una tela del ferrarese Gaetano Previati (1887 ca.): molti artisti di epoca romantica rimasero affascinati dalla tragica vicenda narrata da Dante. Nel tondo della pagina a fronte, il castello malatestiano di Gradara, in cui la tradizione situa (erroneamente) il duplice assassinio.
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nei pressi di Bertinoro. Il padre di Francesca, Guido Minore da Polenta, aveva avuto nove figli tra legittimi e bastardi. Da quel pochissimo che si sa di lei, Francesca nacque probabilmente verso il 1260 e doveva avere quindici o sedici anni quando andò in moglie a Gianciotto. Intorno al 1280 la coppia ebbe una figlia, battezzata Concordia in onore della nonna paterna. Quando la madre venne meno, la bambina era ancora piccola. Anni dopo, alla morte del nonno Malatesta da Verucchio, Concordia ebbe la sua parte di eredità, poiché il nonno l’aveva ricordata nel suo testamento, il quale, tra l’altro, conteneva anche un accenno a Francesca: è proprio quel testamento a costituire una prova certa della reale esistenza delle due donne, la figlia e la madre. All’epoca della sua relazione con Francesca, anche Paolo era sposato. Sua moglie era la contessa Orabile Beatrice di Giaggiolo,
nipote di Guido da Montefeltro. Aveva anche due figli: Uberto e Margherita. Era un bravo militare, ma anche un diplomatico e un uomo piacevole e colto; nel 1280 fu nominato capitano del popolo a Firenze, dov’è possibile che Dante l’avesse incontrato. Quanto a Gianciotto, ossia l’assassino della coppia dantesca, di lui si sa che era nato un po’ prima del 1250. Molto meno avvenente del fratello e decisamente più rozzo e feroce, era anch’egli un soldato e un uomo di governo: nell’ultimo quarto del Duecento fu podestà prima di Pesaro, poi di Faenza e infine di Forlì. Con ogni probabilità, il matrimonio tra lui e Francesca era di natura politico-diplomatica: doveva infatti servire a consolidare i rapporti tra i due governi confinanti di Rimini e Ravenna. Poco tempo dopo la morte di Paolo e Francesca, Gianciotto si risposò con una nobildonna di Faenza, Zambrasina di Tebaldello
degli Zambrasi, dalla quale ebbe cinque figli, tutti citati nel testamento di Malatesta da Verucchio, lo stesso in cui compaiono anche i nomi di Concordia e di Francesca.
Chi ne parlò a Dante? Come faceva Dante a conoscere la storia di Paolo e Francesca? L’ipotesi più accreditata è che l’avesse sentita raccontare di prima mano, pochi anni dopo il duplice omicidio, da uno dei fratelli maggiori di Francesca, Bernardino, che era anche marito di Maddalena Malatesta, sorellastra di Paolo e Gianciotto. Nel 1289 anche Bernardino, come Dante, aveva partecipato alla battaglia di Campaldino, in cui i guelfi avevano sconfitto i ghibellini, e lì i due avrebbero potuto conoscersi. O forse, molti anni più tardi, il poeta ebbe un resoconto della tragedia da Guido Novello da Polenta, nipote di Francesca, che fu suo mecenate a Ravenna negli ultimi anni di vita, tra il 1318 e il 1321. Comunque sia, è a Dante che Paolo e Francesca devono la loro immortalità di personaggi letterari. Senza di lui sarebbero stati consegnati all’oblio, vittime di un banale delitto d’onore, come tanti prima e dopo di loro. Grazie al poeta, invece, sono entrati nel mito. n
Una ragazza ingannata A
nche Giovanni Boccaccio (a destra), nel Commento alla Divina Commedia, si occupò dell’accaduto. Secondo la sua ricostruzione del delitto, il matrimonio tra Francesca e Gianciotto sarebbe avvenuto per procura, con Paolo mandato a Ravenna a sposare la ragazza per conto del fratello maggiore: il loro padre Malatesta, infatti, credeva che se la giovane avesse visto il brutto Gianciotto non l’avrebbe voluto per marito. Purtroppo, Francesca aveva creduto che il vero promesso sposo fosse il suo bellissimo fratello minore e se n’era subito innamorata. Anche Paolo s’invaghì di lei, e poiché Gianciotto era spesso lontano da Rimini per svolgere il suo lavoro di podestà, i due giovani ebbero modo di trascorrere molto tempo assieme, fino a cadere inevitabilmente l’una nelle braccia dell’altro. Perciò, secondo Boccaccio, Francesca era colpevole solo a metà, in quanto vittima di un fatale malinteso.
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Il primo poema omerico
L’Iliade Uomini e dei si scontrano sotto le mura di Troia, fra gesta eroiche, tradimenti e duelli d’onore, nel più antico racconto omerico, prototipo di tutte le storie di guerra di Tommaso Meregatti
“P
oema di Ilio”, altro nome con cui era chiamata la città di Troia, l’Iliade è il più antico dei componimenti attribuiti a Omero. Inizialmente composta e tramandata in forma orale, era già nota nel VI secolo a.C. Alcuni “libri di Omero”, infatti, erano conservati nella biblioteca del tiranno di Atene Pisistrato, stando alla testimonianza di Cicerone. Tuttavia, fu solo fra il III e il II secolo a.C. che i filologi alessandrini operarono una sistemazione e un’analisi critica del poema, i cui 15.696 versi esametri vennero
suddivisi in 24 libri, ciascuno contrassegnato da una lettera dell’alfabeto greco. Il poema racconta della guerra che i Greci portarono sotto le mura di Troia, sulla costa nordoccidentale dell’odierna Anatolia, in Turchia. Il conflitto sarebbe stato scatenato dalla volontà di vendetta ellenica per l’affronto subito da uno dei loro condottieri, il re di Sparta Menelao, la cui bellissima moglie Elena era stata rapita da Paride, figlio del re di Troia Priamo, che l’aveva condotta con sé al di là del mare. ® Elena era così avvenente da essere pro-
Achille, protetto dal dio Marte, travolge Ettore con il carro in un affresco della Reggia di Caserta (XVIII secolo); a fronte, i Greci rappresentavano i loro eroi in armi ma con il corpo seminudo.
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«Cantami, o Diva, del PelÌde Achille / l’ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco / generose travolse alme d’eroi...» Iliade, Proemio, vv. 1-4
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Il primo poema omerico tagonista di una serie di altri miti. Secondo la versione più comune, era figlia di Leda e moglie del re di Sparta Tindaro (le Spartane erano note per la loro bellezza), ma in realtà sarebbe stata concepita da Zeus, presentatosi a Leda sotto forma di un sensuale cigno. Giunta in età da marito, Elena era corteggiata dai migliori giovani di Grecia.
La donna della discordia
Su suggerimento del saggio Ulisse, Tindaro sacrificò agli dei un cavallo, poi fece salire sulla sua pelle tutti i pretendenti alla mano della figlia, affinché giurassero che, chiunque fra loro fosse stato il prescelto, gli altri sarebbero sempre accorsi in suo aiuto in caso di guerra. La sorte arrise al re di Sparta Menelao, mentre la sorella di Elena, Clitennestra, andò in sposa al fratello di questi, Agamennone, re dell’Argolide. Da Menelao Elena ebbe una figlia, Ermione, ma la sua bellezza non venne meno con la maternità, dal momento che fu rapita dal principe troiano Paride, giunto dall’altra parte del mare al solo scopo di far sua la donna più avvenente del mondo. Egli era stato scelto come giudice in una disputa fra tre dee di particolare bellezza e fascino: Era, moglie di Zeus, Afrodite, dea dell’amore, e Atena, custode della sapienza. Costoro si erano disputate una mela sulla quale Eris, dea della discordia, aveva inciso la frase “Alla più
Efesto, dio del fuoco, consegna a Tetide le armi che ha forgiato per Achille (Altes Museum di Berlino, 490-480 a.C.)
bella”. Poiché Zeus si era rifiutato di fare da arbitro, le dee avevano richiesto un responso a Paride. Ciascuna delle divinità gli aveva offerto una ricompensa qualora l’avesse scelta, e quella promessa da Afrodite era la mano della più bella fra le mortali: Elena, appunto. Ecco perché, dopo aver attribuito il pomo del-
la discordia ad Afrodite, il principe era salpato alla volta della Grecia, deciso a prendersi il premio. Fu grazie al patto sacro che univa tutti i pretendenti di Elena a suo marito che Menelao poté raccogliere una schiera di guerrieri abbastanza nutrita da organizzare una spedizione in Asia per riprendersi la moglie, facendo scoppiare la Guerra di Troia. Benché la guerra di Troia sia durata dieci anni, nell’Iliade il racconto si concentra sui cinquanta giorni (tra il nono e il decimo anno del conflitto) che vedono Achille, il più grande condottiero dei Greci, ritirarsi dal combattimento. Ciò a causa dell’offesa subita da parte del re di Micene Agamennone, fratello di Menelao e promotore della spedizione contro Troia, che ha sottratto ad Achille la schiava Briseide. L’antefatto che ha innescato lo scontro, ossia il rapimento di Elena, così come gli anni del lungo assedio e la caduta della città, non vengono raccontati da Omero, che sceglie di far entrare il lettore direttamente nel vivo della vicenda.
L’ira di Achille Il vero oggetto della narrazione, dunque, è l’ira di Achille, con tutte le conseguenze che derivano dalle scelte compiute dall’eroe e dal suo comportamento. Il lettore ne è avvertito fin dall’incipit, famosissimo: «Cantami, o diva, del Pelìde Achille / l’ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei». È interessante notare come, nell’originale
L’uccisione di Ettore per mano di Achille in un dipinto dello spagnolo Rafael Tejeo (1825 ca.). Nella pagina a fronte, retro dell’Achille morente, che ne mostra il punto debole (Achilleion, Corfù, 1884).
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La storia dei Greci U
n affascinante viaggio alla scoperta della civiltà che inventò la filosofia e l’arte, il teatro e la democrazia, riscrivendo le regole del vivere civile e cambiando per sempre il volto della società. Se il mondo occidentale è come lo conosciamo oggi, il merito spetta ai Greci. Furono loro a insegnarci le basi di quasi tutte le arti e le scienze, e comprendere la storia ellenica significa assistere alla nascita della cultura, del mito e del pensiero. Una pubblicazione speciale di 116 pagine interamente dedicata a eroi, miti e vita quotidiana della Grecia antica sarà disponibile in edicola dal 26 ottobre. Puoi acquistare la tua copia anche online sul nostro sito, all’indirizzo www.sprea.it/greci. Priamo prega Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore, in un marmo conservato a Copenaghen.
«In Omero un uomo non “È” un eroe, “È detto” tale. “essere detti” equivale a essere.» Eva Cantarella greco, il proemio inizi con la parola ménin, “ira”, quasi a voler concentrare subito l’attenzione sull’importanza che essa avrà nel corso dell’intero poema. Nel mondo greco, e più in generale in quello antico, l’ira non indica semplicemen-
te la rabbia e non ha una valenza esclusivamente negativa; designa, piuttosto, l’eccesso dei sentimenti, la passione, il furore che, nel bene e nel male, inducono l’uomo a compiere gesta eroiche. Ed è proprio questa passione incontenibile a guidare Achille nelle sue azioni: la lite con Agamennone, la decisione di deporre le armi, la disperazione per la morte dell’amico Patroclo; fino al colloquio con il re di Troia Priamo, venuto a chiedere la restituzione delle spoglie del figlio Ettore, durante il quale Achille si abbandona a un pianto liberato® rio, preludio alla conclusione dell’Iliade.
IL punto debole dell’ eroe S
olo da fonti tarde, e non da Omero, veniamo a conoscenza dell’immortalità di Achille. Secondo alcune versioni della tradizione, la madre Tetide, nel tentativo di far vivere il figlio per sempre, lo immerse nelle acque del fiume infernale Stige: soltanto il tallone destro, per il quale la donna reggeva il piccolo, non avrebbe beneficiato dell’azione magica delle acque. Da qui l’espressione “tallone d’Achille”, per indicare il punto debole di una persona. Secondo una diversa tradizione, Tetide mise il figlio nel fuoco di un braciere, allo scopo di renderlo immortale, ma venne interrotta dal padre dell’eroe, Peleo. L’Iliade tralascia gran parte della vita di Achille: non solo l’infanzia e la giovinezza, ma anche la morte che, secondo alcune fonti, sarebbe avvenuta per mano di Paride, la cui freccia, guidata dal dio Apollo, avrebbe colpito l’eroe proprio nell’unico punto vulnerabile, il tallone destro.
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Il primo poema omerico Libri I-IV W La disputa per Briseide Omero ci fa entrare subito nel vivo della vicenda. L’accampamento greco è stato colpito da una pestilenza: il dio Apollo si è vendicato per il rifiuto di Agamennone di restituire al sacerdote troiano Crise la figlia Criseide, fatta prigioniera. Dopo una movimentata assemblea con gli altri capi greci, Agamennone accetta a malincuore di rendere Criseide al padre; tuttavia, facendo leva sulla sua autorità, per sostituirla sottrae ad Achille la sua schiava personale, Briseide. L’eroe greco, adirato, decide di ritirarsi dalla guerra. Il giorno seguente, Agamennone schiera l’esercito, ma prima della battaglia, per saggiare la volontà dei suoi guerrieri, annuncia di volersi ritirare a sua volta. I Greci esultano, stanchi del lungo conflitto, e il saggio re di Itaca Ulisse è costretto a intervenire per riportare l’ordine e dare nuovo slancio alle truppe. Ha inizio l’assalto alla città di Troia, durante il quale il troiano Paride e il greco Menelao, ossia i due che si condendono la bella Elena, si affrontano a viso aperto. Quando il primo, preso dalla paura, fugge, il fratello Ettore lo accusa di viltà e lo rimprovera duramente. A quel punto, Paride propone di sfidare Menelao in un duello destinato a segnare le sorti della guerra. Il confronto ha inizio: il principe troiano sta per avere la peggio, quando in suo favore interviene la dea Afrodite, che lo porta in salvo nascondendolo in una fitta nebbia. Agamennone dichiara Menelao vincitore e
Il corpo di Ettore viene riportato a Troia (rilievo romano del 180-200 d.C. ca., Museo del Louvre).
invoca a gran voce la fine del conflitto. Gli dei discutono su quale debba essere il destino di Troia: il verdetto finale è che la città venga distrutta, e perché questo avvenga la dea Atena dovrà consigliare i Troiani di rompere i patti con i loro nemici greci.
Uno scudo divino
4
N
el libro XVIII dell’Iliade, Omero descrive nel dettaglio lo scudo usato da Achille per combattere contro Ettore. Dopo aver perduto le armi prestate a Patroclo, poi rimasto ucciso nello scontro contro Ettore, l’eroe greco riceve dalla madre Tetide armi nuove, forgiate per lui dal dio Efesto in rame, oro e argento. Tra queste appare un complicato scudo, composto da varie fasce istoriate (riprodotte, qui a destra, da Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, 1755-1849).
8
9 5 7
1
L’aratura
5
2
La mietitura
6 La danza
3 La vendemmia 4
La mandria bovina
7
Il gregge La città in pace
8 La città in guerra 9 Il cielo
6
1
Libri V-XV W La battaglia infuria
Per volere di Atena, il troiano Pandaro scaglia una freccia contro Menelao, ferendolo: la guerra torna così a infuriare. Nonostante il valore del principe troiano Ettore e il suo ardore in battaglia, il conflitto volge decisamente a favore dei Greci. La moglie di Ettore, Andromaca, lo supplica di non esporsi al pericolo, ma lui, pur consapevole del proprio destino, le ricorda i suoi 3 doveri di guerriero. Ettore e il greco Aiace Telamonio si sfidano in un duello che prosegue fino al sopraggiungere delle tenebre, quando viene decisa una tregua. I Greci ne approfittano per seppellire i propri morti e costruire un muro a difesa delle navi. A questo punto, Zeus ri2 balta la situazione e decide di accordare il proprio favore ai Troiani, impedendo alle altre divinità di intervenire in battaglia. Sostenuti dal padre degli dei, gli assediati riprendono vigore e le sorti del conflitto sembrano ribaltarsi. I capi greci chiedono ad Agamennone di inviare un’ambasciata ad Achille per convincerlo a tornare a com-
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battere con i suoi uomini: Ulisse e Aiace Telamonio si recano dall’eroe con molti doni, ma questi rifiuta le scuse di Agamennone e dichiara che il giorno successivo salperà per fare ritorno in patria. Durante la notte, Agamennone invia Diomede e Ulisse a spiare il campo dei Troiani. Questi s’imbattono in Dolone, che si sta infiltrando nel campo greco per compiere una missione analoga, e lo catturano; sperando di salvarsi la vita, Dolone tradisce i compagni, svelando a Diomede e Ulisse la posizione degli alleati dei Troiani, i Traci. Ulisse, dopo aver fatto parlare Dolone, lo uccide: grazie alle informazioni ricevute, assieme al compagno Diomede fa strage dei Traci, addormentati nelle loro tende. Il giorno successivo, il combattimento riprende. I Greci si trovano in grave difficoltà, tanto che il loro anziano condottiero Nestore chiede a Patroclo, il migliore amico di Achille, il permesso di scendere in campo con le armi dell’eroe, spacciandosi per lui affinché i nemici ne restino intimoriti. Nel frattempo, la battaglia infuria tra duelli e scontri che coinvolgono anche le divinità, e i Troiani continuano ad avnazare, fino a giungere all’assalto delle navi greche.
Da Troia a Roma D
alle vicende dell’Iliade prendono le mosse non solo i Nostoi, i poemi che narrano il ritorno a casa degli eroi greci (il più celebre dei quali è naturalmente l’Odissea), ma anche l’Eneide. L’opera più rappresentativa della letteratura latina venne composta da Virgilio tra il 29 e il 19 a.C., negli ultimi anni di vita del poeta. Protagonista dei 12 libri che compongono il poema è Enea, figlio di Anchise e della dea Afrodite, già descritto da Omero come uno dei più valorosi combattenti troiani. Fuggendo dalla città in fiamme, con il vecchio padre sulle spalle, il figlio Ascanio e le statue dei Penati (le divinità protettrici del focolare domestico, nella foto), l’eroe è destinato dagli dei a diventare il progenitore dei Romani. Prima, però, come Ulisse nell’Odissea, è costretto a navigare a lungo per il Mediterraneo: dalla Tracia a Delo, da Creta
«All’Odissea ho sempre preferito l’Iliade, dove l’eroe non È perÒ Achille, bensÌ Ettore.» Jorge Luis Borges
Il cadavere di Ettore, legato al carro di Achille, viene trascinato intorno alle mura di Troia, sotto lo sguardo straziato del padre e della moglie (Hamilton Gavin, 1794).
alla Sicilia, rinunciando all’amore della regina di Cartagine Didone, per riuscire finalmente ad approdare sulle coste del Lazio. Sbarcato in Italia, una nuova guerra lo attende, contro i Latini e i Rutuli, questi ultimi guidati da Turno. Enea ne esce vittorioso e può sposare Lavinia, figlia del re dei Latini, già promessa sposa di Turno: dalla loro unione nascerà una discendenza destinata a rendere grande Roma.
Libri XVI-XXIV W La morte di Ettore Achille acconsente alla richiesta di Patroclo e gli consegna le proprie armi affinché vengano indossate da Nestore. I Troiani, credendo che Achille sia tornato in campo, si perdono d’animo; ma non Ettore, che affronta Patroclo e lo colpisce a morte. Prima di morire, il greco fa in tempo a predirgli che morirà per mano di Achille. Disperato e desideroso di vendetta per l’uccisione dell’amico, l’eroe greco si riconcilia con Agamennone e torna a combattere. Affiancati dagli dei, i due schieramenti si affrontano ancora una volta. La furia di Achille è incontenibile: il guerriero fa strage di nemici, tanto che i Troiani sono costretti a ritirarsi dentro le mura della città. Solo Ettore resta sul campo, pronto ad accettare il proprio destino e a perire per mano di Achille, come gli è stato predetto da Patroclo. Il principe troiano e il campione greco si affrontano in un duello all’ultimo sangue, al termine del quale Ettore soccombe. Achille fa scempio del suo cadavere, agganciandolo a un carro e trascinandolo nella polvere, mentre dall’alto delle mura di Troia giunge la disperazione dei congiunti di Ettore, la moglie Andromaca e il padre Priamo. Il re di Troia si reca nella tenda di Achille per chiedere la restituzione del corpo del figlio: l’eroe greco, impietosito da Priamo che gli ricorda il padre Peleo, acconsente concede ai Troiani una tregua di dieci giorni. L’Iliade si chiude con il funerale di Ettore. n
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La regina raggirata
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Una truffa sofisticatissima, certamente la più audace del Settecento, gettò nuovo fango sull’innocente Maria Antonietta. E, forse, contribuì a porre le basi per la svolta cruenta della Rivoluzione Francese di Enza Fontana
S
iamo al tramonto del Settecento. La regina Maria Antonietta di Francia, austriaca di nascita, è una donna graziosa, civettuola, vivace e perfino sventata. Tutto il contrario di suo marito, Luigi XVI, un sovrano timido e impacciato, disinteressato alle donne. Si sono sposati giovanissimi, il 16 maggio 1770, e per ben sette anni il matrimonio non è stato neppure consumato. Lei ama i gioielli, il lusso e le feste, ma non sopporta l’etichetta di corte, dove viene chiamata, con disprezzo, “l’Austriaca”. Appena può si allontana da Versailles per rifugiarsi al Petit Trianon, una dependance ai margini del parco di Versailles, dove ammette solo pochi eletti. Più si isola,
L
tuttavia, più si espone alle chiacchiere; per esempio, le attribuiscono un’eccessiva simpatia per le donne, così come sospettano suo marito d’impotenza. Gira voce che Maria Antonietta sia bisessuale e che Madame de Polignac, l’amica del cuore, sia la sua amante favorita.
L’odio verso l’“Austriaca” Contro la regina si concentra l’ostilità dei francesi. I nobili la detestano perché è austriaca e l’Austria, nonostante gli sforzi di Maria Teresa per provare il contrario, è sempre stata nemica giurata della Francia; tutti gli altri la odiano perché, mentre lei è la regina più elegante d’Europa, il bilancio statale si aggrava sempre più e la povertà aumenta, anche a ®
Una collana da capogiro
a collana che fa vacillare il trono di Francia (sotto, una copia) è composta da 647 diamanti e ha un valore enorme: 1,6 milioni di livres, un centinaio di milioni di euro attuali. È stata creata per la favorita del precedente sovrano Luigi XV, Madame du Barry. I gioiellieri Böhmer e Bassenge hanno impiegato anni a raccogliere le gemme e investito un’ingente quantità di denaro per comprarle. Poi
sono rimasti con il cerino in mano: Luigi XV è morto prima di poter acquistare il collier e Madame du Barry è stata bandita dalla corte. Per ben due volte Böhmer e Bassenge provano a proporre la collana a Maria Antonietta, di cui è nota la passione per i gioielli, ma lei rifiuta. Quando entra in scena Jeanne de Valois, la speranza degli orefici si riaccende: forse è arrivato il momento buono...
La Reggia di Versailles, circondata dal parco dove si consumò la scena madre della truffa. Al centro, Maria Antonietta all’età di 27 anni.
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Lo scandalo della collana
causa degli inverni rigidissimi e delle conseguenti carestie. Manca il pane e la Francia è vicina alla bancarotta a causa delle guerre, ma secondo il popolo tutto ciò è principalmente colpa delle spese folli dell’“Austriaca”. Molti, comunque, cercano di entrare nelle sue grazie. Tra essi il cardinale Louis-René de Rohan, ex ambasciatore francese alla corte di Vienna e ora grande elemosiniere di Francia: vuole diventare primo ministro, ma sa che per ottenere la carica deve vincere l’avversione di Maria Antonietta. La regina lo detesta da quando ha scoperto che, in una lettera, lui ha parlato male di sua madre, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Rohan discende da uno dei casati aristocratici più influenti di Francia. È un uomo di Chiesa, ma completamente privo di senso morale; e l’imperatrice austriaca, cattolica convinta, lo ha cacciato da Vienna per la sua propensione a partecipare a festini a base di orge, talvolta travestito da donna. Tuttavia, il vero punto debole di Rohan è l’ambizione. Per sfruttarlo, entra in scena Jeanne de Valois, contessa de La Motte. Questa scaltra avventuriera si è introdotta in qualche modo alla corte di Versailles e riesce a far credere a Rohan di poter intercedere in suo favore presso la regina, di cui millanta l’amicizia. Jeanne è bella, spregiudicata e priva di scrupoli; Rohan è ricchissimo ma ingenuo: il perfetto pollo da spennare. Con l’aiuto di suo marito Nicolas, Jeanne fabbrica alcune
Maria Antonietta (qui intenta a suonare l’arpa) frequentava il meno possibile la corte, dove sapeva di essere disprezzata e detestata dai più.
La contessa truffatrice C
ome altri protagonisti di questa vicenda, anche Jeanne de Valois, contessa de La Motte (1756-1791, nel ritratto), è di antico sangue blu: quello dei Valois, che diedero alla Francia molti re. Ma suo padre apparteneva a un ramo secondario e decaduto, e sua madre era una serva. Jeanne cresce in povertà, rubando e mendicando. Se ha un’educazione, lo deve alla marchesa de Boulainvilliers che, impietosita, la raccoglie dalla strada e la fa studiare a proprie spese. A 24 anni, Jeanne sposa un ufficiale della piccola nobiltà, Antoine-Nicolas de La Motte, anch’egli un arrampicatore sociale. Anziché a corte, dopo lo scandalo della collana Jeanne finisce in carcere: viene rinchiusa alla Salpêtrière, la prigione delle prostitute, ma il 5 giugno 1787 riesce a evadere travestita da ragazzo per raggiungere il marito a Londra, dove muore in circostanze misteriose a soli 35 anni.
lettere false in cui Maria Antonietta chiede al cardinale di anticiparle del denaro per le sue opere di carità. Rohan, pur di entrare nelle sue grazie, paga senza fiatare. Poi, quando il cardinale richiede una prova che la regina lo perdonerà davvero, Jeanne organizza un abboccamento segreto tra lui e Maria Antonietta: di notte, nel bosco di Versailles, che era considerato uno dei luoghi meno sicuri di Francia. Ovviamente, quella che il cardinale va a incontrare non è che una sosia della sovrana, ma lui casca nell’inganno. A questo punto, Jeanne sa che può alzare ancora il tiro: userà Rohan per impadronirsi della collana più bella e preziosa del mondo. Escogita il piano in ogni particolare. Se dovesse scoppiare lo scandalo, sa che l’intera responsabilità ricadrebbe su Rohan o, al limite, sul suo amico Conte di Cagliostro, al secolo Giuseppe Balsamo. Mago e avventuriero siciliano, è uno dei personaggi più discussi dell’epoca a causa di raggiri perpetrati in mezza Europa: data la sua mala fama è un perfetto capro espiatorio.
Un piano ben congegnato Ecco che cosa s’inventa Jeanne, parlando con Rohan: la regina Maria Antonietta prega il cardinale di fare da intermediario presso i gioiellieri Böhmer e Bassenge per l’acquisto di una collana di diamanti. La sovrana (sempre secondo il racconto di Jeanne) vuole
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Lo scalpore suscitato dal processo si ritorse contro i sovrani: i francesi non credettero che la regina fosse del tutto innocente.
Il Conte di Cagliostro in un busto scolpito da Jean-Antoine Houdon proprio all’epoca dello scandalo della collana.
comprare il gioiello in incognito, di nascosto dal marito e soprattutto dall’opinione pubblica, ben sapendo che la spesa esorbitante la metterebbe in cattiva luce. Rohan acconsente e versa un acconto. Il 1° febbraio 1785 gli viene recapitata la collana, che a sua volta egli consegna alla contessa. Passano i mesi e arriva il giorno del secondo versamento, da effettuare il 1° agosto. Ma nessuno si presenta in gioielleria; così, otto giorni dopo, l’orefice Böhmer si reca a Versailles a battere cassa. Maria Antonietta casca dalle nuvole, tanto che il gioielliere è costretto a mostrarle il contratto di vendita stipulato da Rohan e da lei sottoscritto. Ma la firma di Maria Antonietta, ovviamente, è falsa e l’inganno si svela. Convinta che il cardinale sia un truffatore, la regina chiede al marito di umiliarlo davanti a tutta la corte. Il 15 agosto 1785, festa dell’Assunzione, il cardinale Rohan dovrebbe celebrare la messa solenne nella cappella di Versailles, ma viene arrestato nella Galleria degli Specchi, affollata di aristocratici, e condotto alla Bastiglia, la prigione del re. Tre giorni dopo è la volta di Jeanne, trascinata anche lei in galera; suo marito, invece, non viene catturato e riesce a fuggire a Londra con la preziosissima collana. In compenso, viene arrestato anche il Conte di Cagliostro, tirato in ballo dall’astuta Jeanne. A quel punto, Luigi XVI compie un passo falso. Anziché risolvere la questione nella relativa intimità della reggia, affida il caso al Parlamento e così l’“affare della collana” diventa di dominio pubblico. Il 5 settembre 1785 comincia il processo, e la regina, per quanto innocente, viene consegnata all’odio del popolo. La sua reputazione, già macchiata dalle continue maldicenze, ne esce ancora più compromessa. Rohan, prima di essere un cardinale, è anche un principe e ha alle spalle una famiglia potente. Finisce per ottenere piena assoluzione, sia perché i magistrati
Il rescritto con cui si ordinava la reclusione del cardinale Rohan nel carcere della Bastiglia.
credono nel fatto che sia stato a sua volta raggirato dalla contessa de La Motte, sia perché l’opinione pubblica è compatta contro la regina, vista come l’unica e vera responsabile dell’inganno. Viene assolto perfino Cagliostro. Quanto a Jeanne, è condannata al carcere a vita: ma prima viene flagellata e riceve il marchio d’infamia dei ladri, la lettera “V” (voleuse, “ladra”) impressa a fuoco sulla spalla.
Premessa della Rivoluzione? La vicenda getta enorme discredito sulla monarchia, che di lì a poco sarà travolta dalla Rivoluzione. La nazione non crede alle parole della sua regina: tutti sono convinti che abbia cercato di ottenere la collana senza pagarla e che abbia usato Jeanne per colpire Rohan. Le conseguenze politiche saranno gravissime. Secondo il celebre scrittore tedesco Goethe, l’affare della collana «intaccò le fondamenta dello Stato, annientò il rispetto verso la regina e, in genere, verso le classi elevate: giacché tutto quello che venne in discussione non fece che manifestare chiaramente l’orribile corruzione in cui si trovava impaniata la corte e gli aristocratici». Insomma, la Rivoluzione Francese ebbe inizio anche in gioielleria. n
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RIA DEI SOL DATINI STO
GUERRIERI IN MINIATURA
Da balocchi infantili a strumenti di strategia militare: nel tempo, la millenaria epopea dei soldatini ha attraversato fasi molto diverse. Fino all’attuale, che li ha trasformati nei protagonisti di complesse rievocazioni ludiche per appassionati di Storia di Lorenzo Sartori
L
a più antica collezione di soldatini conosciuta risale a 4.500 anni fa, ai tempi della XII dinastia egizia. Ritrovata nella tomba del principe Emsah, si compone di due gruppi di guerrieri, egizi e numidi, realizzati in legno e dipinti in modo particolareggiato. Poiché Emsah morì adulto, non sappiamo se questa sia stata la sua collezione da bambino o una passione dell’età matura. Possiamo però affermare con certezza che fin dall’antichità i soldatini sono stati un passatempo comune a molti futuri regnanti, in special modo tra il XVII e il XVIII secolo. Luigi XIV di Francia, il Re Sole, regalò un’intera collezione di soldatini al suo delfino, Luigi di Francia, e lo stesso fece, qualche decennio dopo, Caterina la Grande con suo figlio, il futuro Pietro III, zar di Russia. Ma esistono testimonianze sul fatto che giocare a soldatini era pratica abbastanza comune anche tra i figli del popolo già dal Medioevo,
quando fece la sua prima comparsa il soldatino di piombo (prima di allora i materiali usati erano stati il legno e l’argilla). Verso la fine del Seicento nacquero, in Germania, i primi produttori di figurine piatte in stagno, chiamate Zinnfiguren. Norimberga ne divenne la capitale e “piatti di Norimberga” è il nome con cui tuttora sono conosciuti questi guerrieri bidimensionali. I tedeschi, nel tempo, imposero anche uno standard sulle dimensioni, a cui tutti i produttori del mondo presto si adeguarono: 30 mm di altezza per i fanti e 40 mm per i cavalieri.
La terza dimensione Per trovare soldatini in metallo a tutto tondo dobbiamo aspettare l’età napoleonica, allorché il primato della produzione passò ai francesi. Nel 1858, tre artigiani transalpini, Cubertly, Blondel e Gerbau, fondarono la Cbg. In questo periodo ®
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Sopra, un plotone di Guardie Reali britanniche al tempo della Guerra di Crimea (1853-1856), creato come giocattolo; sotto, il ben piĂš particolareggiato squadrone di cavalleria napoleonica, realizzato per i wargame (foto di Renato Genovese).
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RIA DEI SOL O T DATINI S furono le notizie di attualità a condizionare la produzione dell’azienda transalpina e dei suoi concorrenti. I giornali parlavano di scavi archeologici, ed ecco che si producevano legionari romani od opliti greci; se scoppiava un conflitto in qualche parte del mondo i produttori erano pronti a fondere figure che richiamassero i combattenti di quella guerra. Fu così che, nell’Ottocento, il soldatino divenne sia un oggetto da collezionismo che un giocattolo sempre più diffuso. Fu solo nel 1893 che gli inglesi si affacciano a questo mercato in espansione, dopo avere importato per lungo tempo prodotti realizzati in Germania o in Francia. William Britain, fondatore della Britains, ditta tuttora attiva, ebbe l’intuizione di realizzare soldatini in piombo cavi. Il risultato furono modelli più leggeri, resistenti ed economici dei precedenti. Grazie anche all’espansione dell’Impero Britannico e alla varietà di truppe che Londra inviava in tutto il globo (dagli scozzesi, con i loro variopinti tartan, agli esotici Lancieri del Bengala), i soldatini di Mr. Britain s’imposero rapidamente anche all’estero.
I soldatini di legno ritrovati nella tomba egizia di Emsah ritraggono un reparto di fanteria numida.
Giocare alla guerra
La maggiore rivoluzione, dopo quella di Britain, si ebbe nel secondo dopoguerra, con l’avvento della plastica: un materiale poco costoso e facilmente modellabile, che permise al
IL FASCINO DEL WARGAME P
rima ancora che un gioco, il wargame è un hobby. Il wargamer colleziona eserciti in miniatura ed è un modellista, visto che queste armate vanno dipinte, ma anche un appassionato di Storia: ricostruire un esercito richiede un minimo di ricerca, per quanto ormai esistano in commercio ottimi sistemi di gioco che fanno da guida. Non esiste un unico regolamento per giocare a soldatini. Si può attingere a un’infinità di sistemi, più o meno popolari, ognuno focalizzato su un certo periodo storico o scala di rappresentazione: rievocare un piccolo scontro della Seconda guerra mondiale con una squadra di paracadutisti impegnata a conquistare un ponte della Normandia è cosa diversa da programmare uno sfondamento corazzato in Russia con più divisioni in campo. Esistono, poi, sistemi semplici e veloci e altri più lenti e particolareggiati. Ognuno sceglie la formula che gli è più congeniale, in base anche allo spazio (elemento da non sottovalutare) e al tempo a disposizione. Ogni sistema di gioco, di solito, è diviso in turni: in ogni turno le truppe di un contendente possono muovere, cambiare formazione, fare fuoco, testare il morale in caso di perdite.
Tutto ciò avviene con l’ausilio di righelli (per muoversi) e dadi. Il modo migliore per avvicinarsi a questo hobby è conoscere qualcuno che lo pratichi o frequentare un club: nell’era
di Internet e dei social non è difficile entrare in contatto con altri appassionati. Esistono anche riviste specializzate, come «Dadi&Piombo», dedicate a tornei, regolamenti, miniature, ecc.
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La qualità dei soldatini di stagno fu elevata nel Settecento dal lavoro della famiglia Hilpert di Coburgo, in Germania, specializzata in figurine militari di tutte le potenze europee. soldatino di diventare un giocattolo di massa. Ma il soldatino non è solo un balocco e, soprattutto, ha cessato di essere un trastullo per i bambini delle nuove generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”. Sono i loro padri, ora, a fermarsi davanti a uno stand in fiera o alla vetrina di un negozio che espone soldatini. Per la prima volta dopo tanti secoli, questo mercato ha smesso di guardare al giovane pubblico per rivolgersi a quello adulto, più esigente e consapevole. Lo stesso termine soldatino viene utilizzato sempre meno, soprattutto tra gli appassionati, sostituito da “figurino”, per indicare il modello (solitamente alto 54 mm e rigorosamente in lega di metallo) da dipingere, collezionare ed esporre nei concorsi; o da “miniatura”, ovvero il soldatino realizzato in una scala più piccola (di solito 15 o 28 mm, in metallo o in plastica), concepito per il gioco simulativo, ovvero il wargame. Un primo riferimento all’uso di soldatini per simulazioni militari si deve a Svetonio (69-122), il quale descrive un gioco consi-
La Zinnfigur, realizzata in stagno stampato, era bidimensionale.
Uno stampo per realizzare soldatini di latta da 40 mm.
stente in un cavallo cavo dentro cui possono essere nascosti piccoli guerrieri greci (con evidente riferimento alla Guerra di Troia). Si deve però attendere l’Illuminismo per arrivare a qualcosa che si avvicini al moderno wargame, ovvero la ricostruzione in scala di una battaglia, con tanto di plastico e centinaia di soldatini. Partendo dagli scacchi, nel XVIII secolo si iniziano a sviluppare i famosi Kriegsspielen tedeschi. Nate con obiettivi militari, nel tempo queste simulazioni sviluppano sempre più la loro vocazione ludica. ® Oggi, giocare alla guerra con i soldatini
Lo scrittore di fantascienza H.G. Wells codificò le regole per giocare a soldatini in Little Wars.
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RIA DEI SOL O T DATINI S
SCALE E COLORAZIONE E
sistono soldatini di varie dimensioni: sia nel mondo dei figurini che in quello del wargame la misura è calcolata in millimetri (la misurazione avviene dagli occhi alla pianta dei piedi). Le scale più comuni sono 90 mm e 54 mm per i figurini da collezione, mentre per il wargame si riducono: 28 mm (la più diffusa), 20 mm (corrispondente all’1/72 del modellismo), 15 mm, 10 mm, 6 mm e persino il microscopico 2 mm. Ciascun produttore possiede il proprio standard, per cui la “compatibilità” tra miniature di una marca e quelle di un’altra costituisce uno dei principali assilli del giocatore di wargame. Essendo fabbricati in metallo, plastica o resina monocromatica, i soldatini devono essere dipinti a mano. Solitamente si usano colori acrilici (diluibili in acqua e inodori), pennelli di dimensione “0” o minori (per i dettagli) e areografi (impiegati soprattutto per i veicoli). Per chi non ha tempo, pazienza o manualità esistono servizi di pittura a pagamento e un mercato di miniature già dipinte. Sotto, un cavaliere, medievale (dalla rivista «Dadi&Piombo»).
Mitraglieri britannici della Seconda guerra mondiale.
rappresenta un hobby diffuso in tutto il mondo e trova il suo epicentro nei Paesi anglosassoni; in particolare nel Regno Unito, dove questo passatempo nasce ufficialmente nel 1913. In quell’anno, H.G. Wells, noto scrittore di fantascienza e autore di best seller come La guerra dei mondi (da cui sono stati tratti due film, l’ultimo con Tom Cruise), pubblicò Little Wars (Piccole guerre), un vero manuale per dar vita a battaglie tridimensionali in miniatura. Wells presenta il suo volume con queste parole: «Un gioco per ragazzi dai dodici ai centocinquanta anni e per quelle ragazze di particolare intelligenza che amano i giochi dei maschietti e i libri. Contiene istruzioni, posizioni e variazioni per il gioco dei soldatini di piombo». Siamo alla vigilia della Grande Guerra e l’autore, socialista e pacifista convinto, pensa che giocare a soldatini su un tavolo o sul pavimento possa costituire un antidoto al desiderio antico dell’uomo di affrontarsi sui campi di
battaglia. Little Wars è scritto con l’intento di far sperimentare il brivido dello scontro armato senza le sue tragiche conseguenze. Una frase che tutt’oggi i giocatori di wargame inglesi tendono a ripetere quando viene chiesto loro per quale ragione giochino alla guerra è: «Perché non esistono vedove di piombo».
Le regole del re della fantascienza Il regolamento sviluppato da Wells non fermò certo il conflitto che l’anno successivo deflagrò in Europa, ma lanciò un messaggio tuttora raccolto da migliaia di appassionati in tutto il mondo: non fate la guerra, ma giocatela con i soldatini in compagnia dei vostri amici. Little Wars prevedeva l’utilizzo di cannoni a molla per colpire e abbattere le truppe avversarie, qualcosa di ben lontano dal moderno wargame, ma anche dalla tradizione dei Kriegsspielen tedeschi, in cui la risoluzione degli scontri e il successo delle manovre si
Proprio come Federico II di Prussia, Churchill era un famoso appassionato di soldatini, che usava non solo per svagarsi, ma anche per “ragionare” sui problemi bellici e saggiare nuove strategie. 58 Trova questa rivista e tutte le altre molto prima,ed in più quotidiani,libri,fumetti, audiolibri,e tanto altro,tutto gratis,su:https://marapcana.tech
MANIFESTAZIONI ED EVENTI I
Il quadro Piccoli patrioti di Gioacchino Toma (1862) rappresenta costosi soldatini d’epoca.
l modo migliore per entrare in contatto con questo mondo è prendere parte a qualche evento dedicato ai soldatini. Per il wargame esiste un ricco calendario di convention, occasioni in cui i club presentano le loro creazioni e dove, in molti casi, si può provare a giocare. Il più importante evento a livello mondiale è il “Salute”, che si tiene a Londra in aprile, ma anche in Italia le occasioni non mancano. Eventi specializzati sono: “MilanoWargames” di Novegro (Mi) a fine febbraio; “Hellana” di Agliana (Pt) ad aprile; “Treviglio in Gioco” (Treviglio, Bg) a settembre; EmpoliGames (Empoli, Fi) a novembre. Il wargame è presente anche nei due eventi ludici più prestigiosi del
nostro Paese: “Play” a Modena, in aprile, e “Lucca Comics&Games”, a fine ottobre. Proprio a Lucca tutti gli anni è presente la “Miniature Island”, un’area dedicata a insegnare a giocare e dipingere i soldatini.
se in produzione i primi soldatini di plastica in scala HO, ovvero figurini alti circa 20 mm, mentre i produttori di miniature in metallo (stagno e piombo) imposero una nuova scala di riferimento per il wargame: quella da 25 mm, oggi evolutasi in 28 mm.
Giocare per rievocare
Una legione romana di epoca imperiale, in scala 28 mm, dipinta da Paul O’Gorman.
basavano su calcoli e sull’utilizzo dei dadi. Concluse le due guerre mondiali, ci volle un po’ prima che qualcuno riscoprisse il gusto di giocare a soldatini. Nei primi anni Sessanta, l’inglese Donald Featherstone rispolverò il manualetto di Wells, dando vita al wargame moderno. Nel 1960 fondò la prima rivista au-
toprodotta, “Wargamer’s Newsletter”, e l’anno successivo organizzò la prima manifestazione per appassionati. Si presentarono personalità accademiche, studiosi di storia militare, giornalisti, ex alti ufficiali delle forze armate: furono loro a rilanciare il gioco della guerra. In quegli anni l’azienda britannica Airfix mi-
Dagli anni Sessanta iniziò un proliferare di produttori, associazioni, riviste specializzate e articoli sul wargame, apparsi anche in riviste più generaliste, come «Sports Illustrated». Negli anni Settanta, il wargame sbarcò in tv con programmi di divulgazione e fece la sua apparizione anche in qualche telefilm. Tutto ciò avvenne, naturalmente, nel Regno Unito, ma anche in Italia qualcosa iniziò a muoversi. Nei nostri negozi arrivarono le scatole di soldatini della Airfix e, soprattutto, a Treviglio (Bg) venne fondata l’azienda Atlantic. Chi è stato bambino in quegli anni ricorda quasi sicuramente le ammiccanti pubblicità di questa ditta e gli slogan che fecero breccia nel cuore di una generazione: “Ehi, ragazzo, hai 100 lire?” (il costo di una scatola di soldatini); oppure, “Portaci a scuola con te senza nasconderci” (slogan presente sulle scatole dedicate alle civiltà antiche). Parliamo di altri tempi, quando la Storia veniva studiata a scuola (magari non sempre insegnata nel migliore dei modi) e non relegata a materia secondaria. Un ottimo modo per imparare la Storia è quello di giocare a soldatini, mettendosi nei panni, anche solo per una sera, di Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone o Rommel. n
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Culti bizzarri L’inquietante Mictlantecuhtli era dio dei morti e re del Mictlan, la parte più profonda degli Inferi nella tradizione azteca. Questo popolo, pur avanzatissimo, irrorava la terra con il sangue di migliaia di sacrifici umani affinché il sole non smettesse mai di risplendere.
10 MODI STRANI PER ADORARE DIO 60 Trova questa rivista e tutte le altre molto prima,ed in più quotidiani,libri,fumetti, audiolibri,e tanto altro,tutto gratis,su:https://marapcana.tech
Nella sua lunga storia, l’uomo ha sempre avvertito il bisogno di dialogare con la divinità, e spesso l’ha fatto in modi decisamente bizzarri di Valerio Sofia
KHEPRI
LO SCARABEO STERCORARIO
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on è tra le divinità egizie oggi più famose, eppure era tra le più importanti, come dimostra l’enorme quantità di sigilli e gioielli che lo raffiguravano e il fatto che essi venivano deposti sopra il cuore delle mummie. Di recente è stata scoperta una tomba che conserva un grande numero di piccoli animali mummificati. Non dev’essere stata una procedura facile, dato che si trattava di scarabei stercorari. L’insetto prende il suo nome dal fatto di creare palle di deiezioni animali che fa rotolare con le zampe posteriori fino alla tana. Lo sterco è il suo nutrimento e soprattutto il luogo per deporre le uova, e quindi si può
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el corso dei millenni, l’umanità ha sempre cercato un rapporto con il divino, e da ciò sono scaturite manifestazioni e credenze dei tipi più diversi. Quali siano stati i culti più strani, curiosi e raccapriccianti è difficile dire. Ogni religione conserva riti e rituali nati in circostanze speciali o estreme, che talvolta si sono in parte conservati e in parte evoluti, anche al di fuori del loro tempo e del loro mondo. Abbiamo scelto di raccontare la storia di culti, più o meno antichi, che presentano alcune caratteristiche estreme.
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ben dire che da esso lo scarabeo “rinasca”. Gli Egizi identificavano lo scarabeo stercorario con il dio Sole al suo sorgere. C’era probabilmente un’immedesimazione tra la sfera che esso spinge, rigorosamente in linea retta, orientandosi con la luce, e l’immagine del globo solare che attraversa il cielo. Proprio per questo, l’insetto venne associato, dal popolo dei faraoni, anche alla resurrezione dell’anima. Inoltre, era a Khepri, lo scarabeo sacro, che veniva affidato il compito di prendere le difese del cuore del defunto nel momento in cui esso sarebbe stato processato dagli dei per giudicare la sua condotta in vita.
MYLITTA
LA PROSTITUZIONE SACRA
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olti scrittori antichi raccontano di come fosse diffusa presso i templi la prostituzione sacra, anche se oggi gli studiosi tendono a dare interpretazioni più articolate. Il greco Erodoto, in particolare, offre dettagli per quanto riguarda gli Assiri, descrivendo una pratica rituale connessa al culto della dea Mylitta (Mullissu, la moglie del dio Assur e la Afrodite di Ninive): «Ogni donna del paese deve andare nel santuario di Afrodite una volta nella sua vita e unirsi a un uomo straniero. Nel santuario di Afrodite si mettono sedute molte donne con una corona di corda attorno al capo; le une vengono, le altre vanno. In tutte le direzioni ci sono passaggi diritti in mezzo alle donne, e passandovi attraverso gli stranieri scelgono. Quando una donna ha
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preso posto lì non torna a casa prima che uno degli stranieri, gettatole in grembo del denaro, non si sia unito a lei fuori del tempio. Gettando il denaro egli deve dire queste parole: “Io invoco la dea Militta”. La donna segue il primo che le abbia gettato del danaro e non respinge nessuno. Quelle che hanno un bell’aspetto fisico presto se ne vanno, mentre quelle di loro che sono brutte rimangono per molto tempo, non potendo soddisfare la legge; e alcune fra loro rimangono anche per un periodo di tre o quattro anni». Prostitute sacre erano presenti anche nella stessa Grecia, così come nell’antica Roma, in India (dove tale pratica è tuttora presente: nella foto, un “amplesso sacro”) e tra diversi popoli che ® abitavano l’America precolombiana.
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Culti bizzarri
IL PITAGORISMO
L’ARMONIA DELLA MATEMATICA
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Crotone, nella Magna Grecia, intorno al 530 a.C. Pitagora fondò una comunità che era sì una scuola, ma anche una setta religiosa. Da una parte il filosofo propugnò una specie di culto della scienza, e soprattutto della matematica e della geometria che garantivano l’armonia del mondo, le quali venivano studiate insieme ad astronomia, musica e filosofia. Dall’altra infuse una decisa impronta mistica (il linguaggio della scuola era in codi-
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ce) e diede alla scienza una marcata valenza salvifica, considerandola come la via della purificazione e dell’armonia. I pitagorici credevano nell’immortalità dell’anima e nella reincarnazione. Ai seguaci venivano imposti numerosi tabù e regole, alcune delle quali stranissime: la più famosa obbligava a stare il più lontano possibile dalle fave, ma c’era anche il divieto di mangiare carne, di spezzare il pane, di bere alcolici, di mettere in
discussione le affermazioni del maestro; in più, gli adepti avevano l’obbligo del celibato. I pitagorici potevano ascoltare il maestro ma non vederlo, tanto che egli teneva le sue lezioni al riparo di una tenda. I rituali prevedevano l’obbligo di passeggiate ed esercizi ginnici. Il culto aveva anche implicazioni politiche: il partito della scuola pitagorica, di stampo fortemente aristocratico, arrivò anche a governare Crotone e influenzò molte altre città elleniche.
SABAZIO
IL SERPENTE BARBARICO
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io della Frigia e della Tracia associato ai serpenti, Sabazio vide diffondersi il suo culto prima nel mondo greco, poi in quello romano. Il suo rito era caratterizzato da elementi misterici e orgiastici, in buona parte connessi in origine al mondo agreste, più tardi all’aspettativa salvifica. Per quanto diffuso nel Mediterraneo ellenistico, fu quasi sempre considerato un culto straniero, che i “veri” Greci e Romani non accettavano e spesso persino deridevano. L’oratore ateniese Demostene descrive in modo caricaturale un corteo diurno dei fedeli di Sabazio, che danzano e gridano per strada con in testa corone di finocchio, dietro a un sacerdote che agita serpenti. Di notte, invece, avvenivano le iniziazioni ai misteri: l’adepto mangiava carne cruda e beveva una bevanda sacra, era coperto con una pelle animale, poi si stendeva al suolo, dove veniva cosparso di fango e crusca. Infine, si poteva alzare per pronunciare la formula di rito, poi sopra il suo corpo veniva inscenata un’unione carnale mistica con la divinità attraverso un serpente dorato che il sacerdote faceva passare sotto gli abiti del novizio, dall’alto verso il basso, in un gesto osceno. Nell’immagine, una mano bronzea di Sabazio, in cui è visibile il serpente, attorcigliato intorno a mignolo e anulare.
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SERAPIDE
IL DIO CHE NON C’ERA
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l culto di Serapide venne inventato, praticamente a tavolino, da Tolomeo I Lagide, sovrano macedone e faraone d’Egitto. Tolomeo fece costruire il tempio del dio, il Serapeo, nella sua nuova capitale Alessandria, tra il delta del Nilo e il Mediterraneo. Il dio Serapide riuniva molte caratteristiche, sia religiose sia simboliche, di divinità precedenti. Il nome derivava probabilmente dalla fusione del dio egizio dell’aldilà Osiride e del toro Api, simbolo del Nilo e della fertilità. Contaminato con elementi delle divinità olimpiche (e identificabile di volta in volta con Zeus, Ade, Asclepio), Serapide ricevette un aspetto ellenistico, cui si aggiunse un vaso sulla testa, al modo delle divinità egizie. Sembra che Tolomeo, più che essere colto da un impulso mistico, abbia deciso di dare vita a una divinità “meticcia” che potesse essere apprezzata e venerata dalla comunità multietnica di Alessandria, dove si stavano fondendo Egizi, Greci e Macedoni, con una consistente componente di Ebrei (infatti Serapide mostrava anche tendenze verso il monoteismo). In seguito, secondo l’imperatore Adriano, Serapide sarebbe stato accettato e integrato anche dai cristiani. Tale divinità, in realtà, non riscosse mai successo in Egitto; invece, grazie alle sue caratteristiche generiche e sincretiche, si diffuse rapidamente nell’Impero Romano e in tutto il mondo antico.
CIBELE
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LA DOCCIA DI SANGUE
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u un sortilegio a importare a Roma uno dei culti apparentemente più distanti dalla mentalità romana: quello della Magna Mater anatolica, Cibele. Quando Annibale, nel 205 a.C., era in Italia, i vaticini tratti dagli antichissimi Libri Sibillini imposero alle autorità romane di adottare dall’Anatolia il culto di Cibele, una dea frigia, selvaggia signora delle fiere, che viaggiava su un carro trainato da leoni. Sotto vari nomi, era adorata nella forma di una meteorite o roccia vulcanica, la celebre “pietra nera” conservata e venerata a Pessinunte, nel centro della Frigia (attuale Turchia centrale), dove si trovava anche la tomba di Attis, a lei collegato nel culto. I Romani celebravano feste e giochi paludati in onore della dea, secondo la loro tradizione. Ma era in privato che riemergevano le tradizioni misteriche cruente della divinità originaria. Il “taurobolio” (nell’illustrazione in alto), cioè il sacrificio di un toro, era un rito misterico che doveva assicurare benessere su questa terra: il fedele scendeva in una fossa, che veniva poi chiusa con tavole forate sopra le quali veniva sgozzato il toro, cosicché ® una pioggia di sangue, divino e benefico, colasse sopra di lui.
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Culti bizzarri
ATTIS
L’AUTOCASTRAZIONE
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trettamente connesso al culto frigio della Grande Madre c’era quello di Attis, una giovane divinità frigia dalla tragica storia d’amore finita nel sangue. A primavera se ne commemoravano la morte e la resurrezione, che rappresentava la rinascita della vegetazione. Ma non era un culto innocente: il corteo di sacerdoti
EL GABAL
L’INTRUSO A ROMA
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ivinità solare adorata a Emesa, in Siria, El Gabal si incarnava in una pietra nera. Quando il quattordicenne Marco Aurelio Antonino, che discendeva dai grandi sacerdoti di Emesa, divenne imperatore di Roma (218-222), provò a imporvi il suo culto atavico. Egli stesso è conosciuto soprattutto con il nome di Eliogabalo, che viene, appunto, da El Gabal. I riti prevedevano che il sacerdote-imperatore danzasse intorno alla pietra sacra, costringendo i senatori ad assistere. Durante le grandi cerimonie del solstizio d’estate, la pietra veniva posta su un carro con sei cavalli e portata in parata mediante un grande corteo per tutta Roma. Per l’intera durata della cerimonia, l’imperatore camminava all’indietro, tenendo le briglie dei cavalli rivolte verso la pietra, come se stesse trascinando il carro.
eunuchi di Cibele e Attis, i “galli”, si mettevano a girare freneticamente al suono dei corni, inebriati dalla danza, dai flauti, dai piatti e dai tamburelli. Storditi dall’estasi, si flagellavano con staffili (le cui corde erano rese taglienti dalla presenza di molti ossicini), si ferivano battendosi il petto con pigne, si mutilavano a coltellate; coloro che non erano ancora eunuchi si castravano da soli, a imitazione di Attis. La cerimonia avveniva in un’atmosfera di esaltazione parossistica collettiva, realizzata a mezzo di canti litanici, danze e musiche assordanti, al cui culmine chi si voleva votare cruentemente alla Grande Madre si denudava e si evirava usando una scheggia di selce o di coccio. I suoi genitali venivano raccolti in un vaso e conservati come oggetto di culto. A Roma, che non amava le esagerazioni, i riti più cruenti erano celebrati esclusivamente in forma privata da sacerdoti stranieri, con forti limitazioni per i cittadini romani.
8 Altri riti di El Gabal erano orgiastici e sanguinosi. Scandalizzando i cittadini dell’Urbe, Eliogabalo sposò una sacerdotessa vestale, ossia una vergine sacra della più antica e schietta tradizione romana. Soprattutto, il giovane imperatore orientale tentò di trasformare El Gabal nell’unica divinità di Roma, con un sincretismo quasi monoteistico: a questo scopo lo mise al di sopra di Giove e lo identificò con i maggiori numi adorati dai Romani. Fece celebrare nozze sacre, in cui El Gabal si univa a dee come Minerva, Astarte e la cartaginese Urania; riunì tutti gli oggetti più sacri di Roma (la Magna Mater, il fuoco di Vesta, gli scudi Ancili dei sacerdoti Salii, il Palladio e gli altri pignora imperii) e pretese che anche i culti di cristiani ed Ebrei venissero trasferiti nel tempio di El Gabal sul Palatino. Ma presto Eliogabalo morì e la pietra nera fu rimandata a Emesa.
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TAIPING
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IN GUERRA PER LA PACE
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na delle più sanguinose rivolte della Storia ebbe origini religiose, in nome della pace. Negli anni Quaranta del XIX secolo, in Cina, un certo Hong Xiuquan fondò il movimento religioso degli “Adoratori di Dio”, proclamandosi fratello minore di Gesù e Tianwang (“re celeste”). Messia, taumaturgo e capo politico, annunciava un nuovo millennio e il ritorno del Taiping tianguo, o “Regno celeste della Grande pace”. Hong, che aveva fallito nel tentativo di entrare nei ranghi della gerarchia confuciana, adottò una bibbia tradotta approssimativamente in cinese quale suo libro sacro e utilizzò elementi di cristianesimo, taoismo, buddismo e religione tradizionale del Celeste Impero, variamente mescolati, predicando monoteismo ed egualitarismo. Organizzati su base militare, nel 1851 i seguaci di Hong fondarono un loro Stato e conquistarono Nanchino (nell’immagine), espandendosi in gran parte del sud della Cina, ribellandosi agli imperatori Qing. Ne derivò una devastante guerra civile che si combatté tra il 1851 e il 1864, quando la rivolta venne repressa al prezzo di milioni di morti. Ormai spacciato, Hong si tolse la vita ingoiando lamine d’oro.
IL TEMPIO DEL POPOLO
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SUICIDIO DI MASSA
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el 1955, il predicatore James Warren Jones (che era stato anche assessore a San Francisco), detto Jim Jones, fondò negli Stati Uniti “Il Tempio del popolo dei Discepoli di Cristo”, noto anche come “Tempio dei popoli”, dopo aver inizialmente avuto la denominazione di Wings of Deliverance (“Ali della liberazione”). Il culto fondeva, in una miscela bislacca, il comunismo con una patina di cristianesimo, criticando ferocemente l’Antico Testamento della Bibbia, che a suo avviso era razzista, sessista, violento e usato dal maschio bianco per giustificare il proprio dominio. I membri vivevano in comune, e furono accusati di promiscuità sessuale e attività politiche segrete, motivo per cui un migliaio di loro si trasferì a Jonestown, nella giungla della Guyana. Nessuno poteva uscire dalla colonia, e quando i parenti dei “fedeli”, preoccupati per la sorte dei loro cari, ottennero che gli Usa inviassero una delegazione, la sicurezza del campo sparò, uccidendo cinque persone. A quel punto, il 18 novembre del 1978 il leader e 912 seguaci della setta si uccisero in massa bevendo un cocktail al cianuro. Chi non accettò di togliersi la vita venne giustiziato. Nella foto, datata 1977, Jim Jones predica a un gruppo di seguaci di Martin Luther King. n
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Pendenti a forma di testa in pasta vitrea dal Museo nazionale di Cartagine, Tunisia. Sotto, da sinistra: rostro romano dalle Egadi con Vittoria alata e iscrizione con i nomi dei due questori (Soprintendenza del mare, Palermo); Mosaico della Dama di Cartagine, V-VI sec. d.C., Museo nazionale di Cartagine (Fethi Belaid/Afp/Getty Images); collana in oro. Nella pagina a fronte, statua di bambino da Bustan esh-Sheikh in Libano, V sec. a.C. (Tony Farraj, Beirut).
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Grandi mostre
SPLENDIDA CARTAGINE
Uno scenario spettacolare per una mostra irripetibile: per la prima volta la grande nemica di Roma, la capitale del ricchissimo impero punico, esibisce i suoi gioielli più rari nel cuore stesso dell’Urbe di Osvaldo Baldacci
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i dice spesso che una mostra è imperdibile, ma questa volta è proprio vero. Anche perché la “protagonista” non si esibisce molto spesso, e questa volta lo fa in uno scenario unico al mondo. Per gli amanti di storia antica è d’obbligo una gita a Roma per andare a conoscere da vicino la sua più grande rivale, Cartagine. Dopo più di duemila anni dalla sua definitiva sconfitta, la città di Didone e di Annibale è riuscita a conquistare il cuore dell’Urbe, che le dedica la prima grande mostra completamente incentrata sulla splendida città nordafricana. Proprio all’interno del Colosseo e del Foro Romano vengono esposti tutti i più importanti reperti relativi alla capitale punica, fornendo un’occasione unica per ammirare reperti magnifici e molto noti, ma solitamente dispersi tra moltissimi musei di tutto il mondo. 409 capolavori provenienti da numerose collezioni della Sicilia, della Sardegna, del Lazio, della Tunisia (com-
presi ovviamente i Musei di Cartagine e del Bardo), del Libano (di cui erano originari i Fenici), di Malta, della Spagna (con le molte colonie che costituirono la vera base di Annibale) e perfino della Germania. Sarà difficile avere un’altra occasione di rivedere tutti insieme questi tesori.
La regina dei mari La mostra “Carthago. Il mito immortale” racconta la storia della signora del Mediterraneo attraverso più di mille anni, dalla sua fondazione nel IX-VIII secolo a.C. fino al termine dell’era antica, nel VI secolo d.C. L’esposizione è curata da Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo, Francesca Guarneri, Paolo Xella e José Ángel Zamora López, con Martina Almonte e Federica Rinaldi, coadiuvati dall’organizzazione di Electa, e resterà aperta fino al ®
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Grandi mostre Sarcofago detto “della sacerdotessa alata”, in marmo policromo, dalla necropoli cartaginese di Santa Monica, IV-III sec. a.C., ora al Museo nazionale di Cartagine.
Ad accogliere i visitatori, anche il Moloch utilizzato in celebri pellicole: è l’esemplificazione di uno dei miti da sfatare sul mondo punico.
29 marzo 2020. Il percorso è strutturato con un criterio cronologico, che approfondisce anche alcuni aspetti tematici. Ad accogliere i visitatori, il Moloch utilizzato in celebri pellicole: è l’esemplificazione concreta di uno dei propositi che l’esibizione si è data, quello cioè di portare al grande pubblico le recenti scoperte sulla verità della realtà cartaginese, analizzando anche l’immagine che nel tempo abbiamo ereditato di questa città, considerata altra e aliena, come una copia negativa di Roma. Il Moloch di bronzo che al suo interno bruciava i bambini ben rappresenta questa terribile alterità, spietata e minacciosa. In verità, un dio di nome Moloch con questi particolari riti non è mai esistito (benché sacrifici di bambini siano certificati in molte colonie cartaginesi, anche in Sardegna): si tratta di una creazione della tarda antichità, poi ripresa dai moderni. L’invito è quindi subito quello di rivedere i nostri pregiudizi per aprirci a scoprire gli inestimabili tesori punici.
I più bei mosaici d’Africa
Può stupire anche la storia dei rapporti intercorsi fra Cartagine e Roma, costantemente presenti all’interno della mostra. Oggi noi non possiamo fare a meno di mettere in relazione la capitale punica con l’Urbe, la città con la quale si è contesa il ruolo di padrona del Mediterraneo: il nostro mondo è nato proprio da quel conflitto, che se avesse avuto un esito diverso ci avrebbe inevitabilmente consegnato un mondo del tutto differente. Non si possono dimenticare le tre feroci Guerre puniche, le
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Corazza in bronzo dorato con decorazioni geometriche, vegetali e volto di dea guerriera, proveniente da Ksour es-Saaf, III-II sec. a.C. (A. Dagli Orti/ Bridgeman Images). A destra, statuetta di elefante da Pompei, I secolo d.C., ora al Museo archeologico nazionale di Napoli. Sotto, scarabeo in corniola con Iside e Horo montato in oro, da Cartagine, V-VI secolo a.C.
battaglie navali testimoniate dai meravigliosi rostri di bronzo ritrovati di recente nel mare dove si combatté la battaglia delle Egadi (241 a.C.) ed esposti qui per la prima volta; le imprese e l’odio irriducibile di Annibale, cui è dedicata una sala dove si possono ammirare anche i raffinati armamenti dei suoi soldati. Infine, la cancellazione di Cartagine voluta dai Romani (146 a.C.), di cui forniscono eccezionale testimonianza i materiali bellici provenienti proprio dallo strato archeologico della distruzione della città. Ma quelle guerre, pur così decisive, hanno coperto poco più di un secolo di storia sulla dozzina abbondante raccontati dalla mostra. Cartagine infatti è stata soprattutto un prospero centro commerciale, a lungo punto di riferimento dell’intero Mediterraneo e in particolare di quello occidentale, capace di raccogliere e redistribuire le influenze di tutti i popoli rivieraschi, favorendo l’incontro e il rinnovamento delle culture. I Punici (come i Romani chiamavano i Cartaginesi, che erano di stirpe fenicia) disseminarono le coste con i loro insediamenti, colonie ed empori commerciali, mescolandosi alle popolazioni locali e dando vita a nuove culture meticce, la cui eredità arriva fino a oggi. Magnifici esempi sono rappresentati nell’allestimento presso il Tempio di Romolo al Foro, vale a dire gli insediamenti di Pantel-
leria, in Sicilia, e di Nora, in Sardegna. La terza parte della mostra, sviluppata nello scenario della Salita imperiale al Foro presso Santa Maria Antiqua, racconta la Cartagine che per secoli fu romana, regalandoci alcuni dei più straordinari mosaici dell’antichità. Roma, infatti, rase al suolo la sua nemica, ma già Giulio Cesare provò a ricostruirla e infine ci riuscì Augusto, fondando nel 29 a.C. Colonia Concordia Iulia Carthago. Così, l’antica rivale dell’Urbe tornò a splendere durante l’impero, diventando centro propulsore del cristianesimo (san Cipriano, Tertulliano, santa Monica e sant’Agostino erano tutti cartaginesi); poi fu capitale del prospero regno dei Vandali, che sotto Genserico saccheggiò Roma, quasi come vendetta delle antiche sconfitte puniche; infine, con Giustiniano la città divenne un magnifico centro d’impronta bizantina.
tanti celebri tesori propriamente punici come quello, meraviglioso, della sacerdotessa alata; e poi i gioielli, i talismani, i coloratissimi e caratteristici visi, le maschere, il prezioso corredo di bordo della nave punica di Marsala con anfore, piatti, resti di animali, cime di bordo, chiodi in bronzo, parti di fasciame e frammenti di lamine di piombo: una straordinaria testimonianza dell’unico esemplare d’imbarcazione fenicia esistente datata al III secolo a.C. La mostra si avvale anche di eccellenti contributi multimediali, con la ricostruzione della battaglia navale delle Egadi o il poeta Virgilio che legge se stesso, descrivendo la città di Cartagine ricostruita da Augusto nel 29 a.C. Supporti che servono anche per avvicinare il pubblico più giovane, cui sono dedicate alcune iniziative mirate, come una scuola di mosaico e un laboratorio sull’alfabeto, che proprio con i Fenici è nato e si è diffuso nel mondo. n
Ori che risplendono Ma il vero cuore della mostra, lo scrigno dei tesori, è la parte esposta tra le arcate del Colosseo. Qui si viene quasi sopraffatti dalla bellezza e dal lusso degli oggetti, che richiamano l’origine fenicia di Cartagine e si snodano fino al terribile confronto fra Annibale e Scipione. Le lamine d’oro di Pyrgi (il porto etrusco di Cerveteri), con le loro iscrizioni religiose in fenicio ed etrusco, ci rammentano il ruolo di alleata e partner commerciale che per secoli Cartagine svolse verso le popolazioni italiche, Etruschi e Romani per primi. Ci sono poi i
Carthago. Il mito immortale Colosseo e Foro Romano, fino al 29 marzo 2020. Orari: 8,30-19 (la chiusura varia con il calendario). Ingresso: 12 euro (16 euro dal 1° novembre). www.parcocolosseo.it tel. 06 39 96 77 00.
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LA CONQUISTA DEL POLO NORD
UNA SFIDA AI GHIACCI DURATA DUEMILA ANNI
Il vertice del mondo, dove le bussole impazziscono e il cielo ruota in cerchio perfetto intorno alla Stella Polare: è il Polo Nord, una delle mete più ardue per marinai ed esploratori di tutti i tempi di Alessio Sgarlato
N
ella parte più settentrionale del nostro pianeta si estende un territorio formato da una calotta di ghiaccio le cui dimensioni variano moltissimo: tra i 5.500.000 e i 15.000.000 km², a seconda delle stagioni. Una massa gelida tanto ampia che si finisce per confonderla con un continente; ma diversamente da quanto accade agli antipodi, cioè nell’Antartico, non vi è alcuna terra a sostegno della calotta polare artica. Nel cuore di questa colossale distesa di ghiaccio galleggiante si trova il Polo Nord, cioè il punto geografico in cui l’asse di rotazione interseca la superficie della Terra. Esistono testimonianze risalenti all’epoca di Alessandro Magno su alcuni navigatori che, come Pitea, procedendo verso nord si imbatterono in territori sempre più freddi, fino a un oceano ghiacciato sul quale “il sole non tramontava mai”. All’epoca non furono tenuti in grande considerazione, perché terre così remote e ostili non facevano gola La spedizione di Robert Peary in posa al Polo a nessuno. Ma oltre un millennio più tardi, a partire dall’epoca di Carlomagno, alcune ® Nord nel 1909: ma i loro calcoli erano errati.
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Il Polo Nord disegnato da Mercatore (1606): al centro vi sarebbe un’“altissima rupe nera”.
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LA CONQUISTA DEL POLO NORD
LA TRAGEDIA DELLA TENDA ROSSA D
ue anni dopo l’esperienza del Norge, Umberto Nobile ritentò l’impresa di sorvolare il Polo Nord con un dirigibile (questa volta orgogliosamente battezzato Italia), e un equipaggio quasi tutto di connazionali il 23 maggio 1928. Dopo 27 ore di volo in territorio artico una tormenta di neve travolse l’aeronave e ne causò lo schianto. Nove uomini tra cui lo stesso Nobile precipitarono fuori dalla navicella prima del disastro, insieme a parte del carico, tra cui una tenda e una fiala di anilina per le rilevazioni altimetriche. Grazie al composto chimico, la tenda fu dipinta di rosso per facilitarne l’avvistamento. Ci vollero ben 49 giorni per completare le operazioni di soccorso dei dispersi: alcuni di loro non sopravvissero e al suo ritorno in patria Nobile, che era stato faticosamente portato in salvo per primo dall’aereo dello svedese Einar Lundborg (nella foto), fu oggetto di un lungo processo, durante il quale fu accusato di aver abbandonato il suo equipaggio. Venne prosciolto, ma il danno di reputazione fu tale da fargli lasciare l’Italia per molti anni.
Il dirigibile Italia attraccato a Ny-Ålesund, la base operativa sulle isole Svalbard.
IL GRECO PITEA DISSE CHE, NAVIGANDO ALL’ESTREMO NORD, ACQUA E ARIA DIVENIVANO TUTT’UNO, FORMANDO UN “POLMONE MARINO”. popolazioni vichinghe e russe si spinsero, per vari motivi, fino ad abitare le propaggini più settentrionali del nostro pianeta.
Il mistero delle due navi A partire dal XVI secolo, dopo la scoperta delle Americhe, il rinnovato interesse per la cartografia e la ricerca di nuove rotte per il commercio marittimo spinsero diversi esploratori verso quegli stessi remoti territori. Si cercava il fantomatico “Passaggio a Nordovest”, ossia una rotta navale che collegasse gli oceani Atlantico e Pacifico attraverso il Mar Glaciale Artico: chi l’avesse trovato avrebbe accorciato le crociere di mesi. Già nel 1523, il re Francesco I di Francia inviò il navigatore italiano Giovanni da Verrazzano a esplorare le coste del Nordamerica, dalla Florida a Terranova, alla vana ricerca di una rotta per l’Asia. Da lì in poi, le spedizioni furono sempre più frequenti, e pur non riuscendo a trovare alcun passaggio, ottennero il prezioso risultato di mappare i lidi più settentrionali del pianeta; in questi stessi anni si ottennero le prime carte nautiche per navigare i fiumi San Lorenzo e Hudson, in Nordamerica. Nel 1789 una spedizione spagnola otten-
ne dati rilevanti sui fenomeni magnetici in prossimità del Polo Nord. L’interesse precipuo di queste missioni restava la ricerca di nuove rotte commerciali, ma tra il Cinque e il Settecento la comunità scientifica cominciò ad avere tra i suoi obiettivi anche la mappatura completa del pianeta. Nel 1845 la spedizione inglese guidata da Sir John Franklin, con 129 uomini e due navi, la Erebus e la Terror, tentò di forzare il passaggio attraverso i ghiacci artici, dalla Baia di Baffin al Mare di Beaufort, nell’odierno Canada. Poiché la spedizione non rientrava in patria, diverse squadre di ricerca furono inviate in soccorso, contribuendo a completare l’esplorazione dell’Artico canadese. I diari di bordo di Sir John Franklin indicano che le sue due navi rimasero bloccate dalla morsa di ghiaccio vicino all’Isola di Re William, a circa metà strada del passaggio, e non furono in grado di disincagliarsi durante l’estate successiva; lo stesso comandante, a quanto pare, perì nel 1847. Non è chiaro il motivo per cui tutti i membri della spedizione, pur ben equipaggiata e rifornita, perirono, ma un’ipotesi recente ritiene che la morte sia stata causata da avvelenamento da piombo, presente nei
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250 CANI MANCANO L’OBIETTIVO L’
americano Robert Peary (nella foto) fu l’esploratore che si spinse più a nord con mezzi terrestri. Nel 1909, dopo aver vissuto tra gli eschimesi e partecipato alle loro battute di caccia e pesca per guadagnarsene la fiducia, ne coinvolse una settantina nell’impresa di esplorare le distese ghiacciate. Peary raggiunse in nave il Capo Sheridan, stabilì un accampamento e da gennaio iniziò a inoltrarsi sempre più a nord per mezzo di slitte. Con 23 uomini arrivò fino al Capo Columbia, il punto più settentrionale della Terra di Grant. Dal 22 febbraio iniziò la corsa per il Polo. L’avanzata sulla banchisa si svolse a tappe: il primo gruppo si fermò alla latitudine di 85° 33’; il secondo a 86° 33’ e il terzo a 87° 47’. Gli ultimi 250 km alla meta furono percorsi da un manipolo comandato da Peary in persona: c’erano il suo servitore, quattro eschimesi e 40 dei 250 cani che erano stati imbarcati inizialmente per trainare le slitte. Il 6 aprile del 1909 raggiunsero un punto che identificarono come il Polo Nord, ma oggi si ritiene che avessero sbagliato i loro calcoli.
contenitori metallici delle scorte alimentari. I relitti della Erebus e della Terror furono ritrovati soltanto tra il 2014 e il 2016.
Amundsen trova un passaggio
A parte il clima rigidissimo, l’ambiente artico riserva due minacce sempre molto insidiose: gli iceberg che ostacolano la navigazione e la presenza degli orsi bianchi, i plantigradi più grandi e pericolosi del pianeta Terra.
A partire dall’Ottocento, gli esploratori che ritenevano di essere più vicini a trovare l’agognato passaggio aggiunsero ai loro obiettivi il raggiungimento della “latitudine 90°”, ossia il Polo Nord. Nel 1827, l’ammiraglio inglese William Perry, veterano di quattro spedizioni in cerca del Passaggio a Nordovest, condusse un’esplorazione che arrivò a 82° 45′ di latitudine: era giunto vicinissimo all’obiettivo, e la sua esperienza si rivelò preziosa per coloro che tentarono dopo di lui. Il passaggio venne finalmente conquistato nel 1906 dall’esploratore norvegese Roald Amundsen, che completò un viaggio di tre anni su di un peschereccio di 47 tonnellate di stazza modificato in rompighiaccio. Alla fine del viaggio approdò nella città di Circle, in Alaska, ed inviò un telegramma che annunciava il suo successo. La sua rotta, tuttavia, non era pratica dal punto di vista commerciale: in aggiunta al tempo di percorrenza troppo lungo, attraversava acque basse, inadatte al traffico dei mercantili e minacciate da pericolosi iceberg. Dopo quest’impresa, nel 1908 l’esploratore americano Frederick Cook affermò di aver raggiunto il Polo Nord, ma senza riuscire a convincere la comunità scientifica internazionale, che non avvalorò la sua impresa. Un anno ®
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LA CONQUISTA DEL POLO NORD
NEL TEMPO, ALLA BRAMA DI SCOPRIRE IL PASSAGGIO A NORDOVEST SI UNÌ L’ORGOGLIO DI ESSERE I PRIMI A RAGGIUNGERE IL POLO.
L’AVVENTURA DEL DUCA DEGLI ABRUZZI L
uigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, nel 1899 acquistò una baleniera a vela di 48 m di lunghezza per farne una nave da esplorazione artica, ribattezzandola Stella Polare. La spedizione salpò da Oslo il 12 settembre 1899. A bordo del brigantino c’erano venti uomini, undici italiani e nove norvegesi. La Stella Polare (nella foto) si spinse nel punto più settentrionale che fosse possibile raggiungere via mare; poi, dall’11 marzo 1900, la spedizione proseguì sul pack con slitte trainate da cani. Il 25 aprile, un gruppo di esploratori composto dal capitano di corvetta Umberto Cagni, il marinaio Simone Canepa e le guide alpine Giuseppe Petigax e Alessio Fenoillet raggiunse gli 86° 34’ di latitudine nord, arrivando a soli 381 km dal Polo. Ma le condizioni erano davvero estreme: la strumentazione per orientarsi non funzionava e si resero necessarie amputazioni di arti a causa del congelamento. Cagni ordinò di non avventurarsi oltre, e l’impresa italiana si concluse con il record mondiale di avvicinamento al Polo Nord, ma senza il traguardo sperato.
dopo Robert Peary reclamò lo stesso risultato, suscitando altri dubbi. Vent’anni dopo, nel 1928, la spedizione del dirigibile Norge, frutto della collaborazione tra Italia, Norvegia e Stati Uniti, vide al comando nuovamente l’esploratore Roald Amundsen, questa volta affiancato dall’ingegnere aeronautico e pilota italiano Umberto Nobile: fu la prima a cui venne riconosciuto in maniera incontrovertibile il primato di aver raggiunto il Polo Nord. Umberto Nobile, uno dei maggiori esperti di dirigibili al mondo, aveva supervisionato personalmente in Italia i preparativi dell’avveniristica aeronave: lunga 116 m, pesava 11.750 kg a vuoto e volava a una velocità di crociera di 93 km/h.
Dirigibili e bugie
Il Norge si staccò da terra il 10 aprile 1926 a Ciampino; nell’arco di un giorno circa volò fino a Pulham-Market, in Inghilterra, il 13 aprile giunse a Oslo e il 15 a Leningrado. Dopo una breve sosta a Vadso, in Norvegia, arrivò alla Baia del Re, luogo scelto come ultima tappa, in cui si imbarcarono anche gli ultimi elementi dell’equipaggio: c’erano sei italiani, compreso Nobile (o sette, se si vuole contare anche Titina, la sua inseparabile cagnolina portafortuna), e otto norvegesi, tra cui Roald Amundsen e alcuni veterani delle sue precedenti missioni. Completavano l’equipaggio il meteorologo svedese Finn Malmgren e il finan-
Il norvegese Roald Amundsen, uno dei grandi protagonisti della corsa al Nord, nel 1911 conquistò anche il Polo Sud.
ziatore privato americano Lincoln Ellsworth. Il dirigibile lasciò l’hangar l’11 maggio, e sorvolò tranquillamente il Polo Nord all’1,30 del mattino del giorno dopo. Da bordo furono lanciate le bandiere delle tre nazioni che avevano promosso l’impresa, l’aeronave girò in tondo per un po’ sul Polo, poi fece rotta verso l’Alaska, a causa dell’improvviso maltempo. Alle 7,25 del mattino dello stesso giorno, dopo 70 ore e mezza dalla partenza dalle isole Svalbard, percorsi 5.300 km (circa 13 mila dall’Italia), il Norge attraccò in Alaska. Di fronte alla stampa, Amundsen e Nobile cominciarono subito a litigarsi i meriti dell’impresa, con il grande esploratore che reclamava per sé solo il successo, sminuendo l’italiano al punto da definirlo «un capitano preso a nolo». Invece, non solo Umberto Nobile aveva progettato il dirigibile, stabilito il piano di volo, selezionato l’equipaggio base e pilotato per l’intera durata della trasvolata, ma c’erano anche un 25% di fondi dell’impresa forniti dallo Stato italiano. Amundsen, al contrario, aveva fatto quasi tutto il volo seduto in poltrona. Anche altri tentarono di reclamare il primato: i piloti americani Richard Byrd e Floyd Bennet affermarono di aver sorvolato il Polo Nord tra l’8 e il 9 maggio 1926, a bordo di un trimotore Fokker battezzato Josephine Ford. Si trattava di una bugia: i due avevano sofferto una grave avaria, ma erano rimasti in volo il più a lungo possibile per dare l’impressione di essere arrivati più lontano di altri trasvolatori artici e non avevano potuto produrre dati precisi o prove a conferma delle loro affermazioni. La verità venne a galla solo molti anni dopo, ma nel frattempo la rabbia per le contestazioni e il desiderio di ripetere l’impresa con una spedizione totalmente italiana spinsero Nobile a ritentare l’esplorazione qualche anno dopo, con esiti disastrosi: detenere il primato non significava affatto aver sconfitto i pericoli che ancora oggi fanno del Polo Nord uno dei luoghi più inospitali al mondo. n
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Cronache del tempo che fu
Frugando tra le pieghe della Storia emergono mille fatti curiosi che solitamente non trovano posto nei libri, ma che contribuiscono a gettar luce su persone ed eventi la valle dei diavoli el 1926 uscì nelle sale cinematograNgenere fiche Maciste all’inferno, un film di fantastico diretto da Guido Bri-
gnone, che ottenne un enorme successo di pubblico. Due anni prima, nel corso della lavorazione, la troupe del film era stata oggetto di un curioso incidente, riportato dal settimanale «La vita cinematografica» nell’ottobre del 1924. Le riprese si svolgevano in autunno, in una zona particolarmente selvaggia della valle Stura, in Piemonte. Travestiti da diavoli, agli ordini del regista, gli attori si aggiravano saltellando grottescamente tra i dirupi, quando da un sentiero sbucò improvvisamente un ragazzo che abitava in un paese vicino. Sgomento, il giovane cacciò un urlo e tornò da dove era venuto. Nemmeno un’ora dopo, sul luogo si presentò una folla minacciosa di montanari, armata di randelli e forconi, capeggiata dal parroco e intenzionata a far piazza pulita di quell’orda infernale. Fortunatamente l’equivoco si chiarì alla svelta: le riprese poterono continuare e i valligiani si accamparono nei dintorni, godendosi in anteprima alcune tra le scene più suggestive del film.
i guerrieri che fecero il giappone ra il XVI e il XVII secolo TGiappone si realizzò l’unificazione del a opera di tre condottieri, diversissimi tra loro ma ugualmente capaci. Il primo, Oda Nobunaga, seppe riunire i
feudi minori sotto il suo controllo; era rozzo e violento, ma coraggioso e imbattibile in battaglia. Il suo successore, Toyotomi Hideyoshi, consolidò il potere grazie alle sue doti politiche e a una strategia militare così efficace che gli storici lo paragonarono ad Alessandro Magno e a Napoleone. Alla sua morte, il suo posto fu preso da Tokugawa Ieyasu, considerato il Machiavelli del Giappone per la sua straordinaria abilità diplomatica. Le loro differenti caratteristiche sono esemplificate da una storiella popolare nipponica: di fronte a un uccello che non vuole cantare, Nobunaga dice “lo ucciderò”, Hideyoshi “lo costringerò a cantare” e Ieyasu “aspetterò che canti”.
l’inflessibile saggezza della serenissima rima di cadere nelle mani di Pcento, Napoleone, alla fine del Settela Serenissima Repubblica di Venezia godeva di enorme prestigio. In particolare, vantava il perfetto funzionamento delle sue istituzioni e soprattutto della polizia. Nella sua Storia della Repubblica di Venezia, il conte Pierre-Antoine-Noël-Bruno Daru narra la disavventura di Marc de Beauvau, principe di Craon, che trovandosi
nella città lagunare fu derubato di una grossa somma. Molto seccato, accusò la Serenissima di non saper garantire la sicurezza dei cittadini e degli stranieri, e pochi giorni dopo l’accaduto decise di lasciare la città. Al momento della partenza, la gondola che lo trasportava alla terraferma fu bloccata da un battello della polizia. Gli agenti lo invitarono a salire a bordo, e qui gli mostrarono un
cadavere che stringeva ancora in mano la borsa piena di quattrini rubata al principe pochi giorni prima. L’aristocratico, confuso, fece per dire qualche parola di ringraziamento ai poliziotti ma fu interrotto: «Signore, giustizia è fatta. Ecco il vostro denaro: prendetelo, andatevene e dite al mondo che non si rimette più piede in un Paese in cui si è criticata a torto la saggia condotta del governo».
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un fotografo tra gli alligatori testimoniare l’eroica Adell’esploratore e sfortunata impresa Robert
Falcon Scott in Antartide, tra il 1910 e il 1913, fu il fotografo inglese Herbert Ponting. Di indole avventurosa, Ponting girò tutto il mondo, realizzando straordinari reportage che gli valsero la nomina a membro della prestigiosa Royal Geographic Society. Dopo aver seguito sul campo la Guerra russo-giapponese del 1904-1905, Ponting soggiornò in India. Qui fu protagonista di un incidente che per poco non gli costò la vita. Si trovava sulle rive di un fiume per fotografare un gruppo di alligatori. Nell’intento di attirarli in una posizione più favorevole per le sue inquadrature, non si accorse di un grosso esemplare alle sue spalle. Preparandosi ad attaccare, l’animale emise un poderoso sbuffo, e soltanto allora Ponting
i soldatini dell’aquilotto el 1811 Napoleone Bonaparte ebbe NLuisa finalmente dalla seconda moglie, Maria d’Austria, il figlio maschio che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto diventare l’erede dell’Impero Francese. Per l’occasione, il sovrano donò al piccolo un gruppo di 240 soldatini di piombo, originariamente placcati in oro e raffiguranti due squadroni dell’Arrmée, che avrebbero dovuto essere consegnati al bimbo non appena fosse stato in grado di giocarci. Il piccolo Napoleone II, soprannominato “l’Aiglon”, l’aquilotto, ricevette il prezioso dono soltanto nel 1821, alla morte del padre: ma per volere del principe di Metternich i soldatini erano stati ridipinti con i colori austriaci, per togliere al bambino ogni possibile ricordo della passata grandezza paterna.
intuì il pericolo. Senza neppure girarsi, istintivamente balzò di lato e spiccò una corsa, appena prima che le mascelle dell’alligatore si richiudessero sulle sue gambe. «Quello schiocco a vuoto», scrisse il fotografo nelle sue memorie, «mi fece proprio gelare il sangue».
nella terra dei thug
no dei più prolifici scrittori dell’Ottocento Udecine fu il francese Philarète Chasles, che lasciò di scritti di varia natura, ripresi e tra-
dotti nelle principali lingue europee. Nel 1842 il periodico italiano «Rivista europea» pubblicò un suo scritto sulle “Presenti condizioni e avvenire morale della società anglo-indiana”, in cui l’autore raccontava il seguente, bizzarro episodio. Un fachiro e un soldato erano in viaggio quando un mendicante chiese di potersi unire a loro per un tratto di strada. Il fachiro acconsentì nonostante le proteste del soldato, e i tre ripresero il cammino. Giunta la sera, il fachiro scelse di dormire sotto un albero e invitò i compagni a recarsi in un villaggio vicino. I due si avviarono, ma presero strade diverse, e a un certo punto il soldato udì delle grida provenire dal punto in cui aveva lasciato il fachiro. Subito accorse, e vide che il mendicante, che altri non era che uno strangolatore della setta dei Thug, aveva aggredito il fachiro. Inaspettatamente, il sant’uomo riuscì a liberarsi e ad atterrare l’assalitore. Il soldato voleva ucciderlo subito, o almeno portarlo dal giudice del villaggio, ma il fachiro si oppose: «Quando quest’uomo mi ha aggredito stavo pregando, e vedo in questo un segno della benevolenza divina; poi, non si deve uccidere nessuno. Tuttavia, voglio poter riconoscere il mio assalitore se mai dovessi incontrarlo di nuovo». Detto questo, prese il suo coltello e tagliò il naso al thug. Poi raccolse le sue cose e proseguì il viaggio come se niente fosse.
Storie da record il francobollo più grande...
Creato in Liberia nel 2000 per commemorare l’Assemblea del millennio delle Nazioni Unite, il francobollo più grande del mondo misura 31 cm di larghezza e 7 cm di altezza. Raffigura capi di Stato e genti di tutto il mondo riuniti insieme in un’ambientazione fantastica, ed è un inno alla fratellanza e alla concordia del genere umano.
… e quello più raro
Martedì 17 giugno 2014, a New York, fu battuto all’asta il francobollo più raro e più costoso del mondo: l’acquirente, che volle restare anonimo, se lo aggiudicò per l’incredibile cifra di 9,5 milioni di dollari, pari a più di 7 milioni di euro. Il francobollo, noto come One-Cent Magenta ed emesso dalla colonia inglese della Guyana Britannica nel 1856, è semplicissimo. Stampato in nero su fondo rosso magenta, reca il disegno di una nave e il motto latino della colonia: “Damus tetimusque vicissim”, ossia “Diamo e ci aspettiamo qualcosa in cambio”.
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Storia & Storie
Libri, mostre, film, serie tv
a cura di Alessandra Colla
GUERRIERE DAL SOL LEVANTE
P
er otto lunghi secoli la storia del Giappone è stata punteggiata da scontri e battaglie che hanno visto protagonisti i leggendari samurai. Accanto a loro, però, hanno combattuto altre figure, non meno importanti ma rimaste nell’ombra: sono le donne guerriere, le onna-bugeisha, addestrate proprio come gli uomini all’uso delle armi, al combattimento in campo aperto e perfino al suicidio rituale. Di loro l’Occidente sa ben poco, e per questo motivo la scuola di cultura e discipline orientali Yoshin Ryu, in collaborazione con il Museo d’Arte orientale di Torino, ha organizzato la mostra Guerriere dal Sol Levante. La figura della donna guerriera in Giappone.
Attraverso numerosi oggetti storici e artistici, provenienti da collezioni museali e private e affiancati da videoinstallazioni, è possibile andare alla scoperta della vita e delle imprese di queste eroine, capaci d’ispirare la modernità: il Giappone le ricorda attraverso manga e anime, entrati ormai stabilmente nella cultura contemporanea mondiale. durata: fino al 1° marzo 2020 costo del biglietto: intero € 10; altre info sul sito luogo: Torino, Mao - Museo d’Arte orientale orario: martedì-venerdì, 10-18; sabato e domenica, 11-19; lunedì chiuso info: tel. 011 4436932; mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it
GIOCATTOLI, CIBO PER LA MENTE
“S
enza gioco non c’è cultura”: è questa la grande verità enunciata negli anni Trenta dallo studioso Johan Huizinga. Eppure, ancora oggi si attribuisce al gioco una dimensione frivola e priva di spessore. Niente di più sbagliato, come sa bene l’autore di queste Storie di giocattoli: Andrea Angiolino, uno dei massimi esperti ludici e di storia del gioco a livello italiano ed europeo. È lui a raccontarci le storie straordinarie dei molti adulti di successo la cui vita è stata, in qualche modo, il proseguimento di un gioco iniziato da piccoli e mai più abbandonato. Tra i casi più singolari c’è quello dei fratelli Wilbur e Orville Wright: da binbi ebbero in regalo dal padre un’elica di legno capace di levarsi nell’aria; la cosa li affascinò tanto da spingerli a costruirsene altre, sviluppando la passione per il volo che li avrebbe portati a inventare l’aeroplano. Ma anche se non tutti sono come i giovani Wright, tutti hanno avuto giocattoli che li hanno fatti sognare o da cui non hanno mai voluto separarsi. Dalle biglie alle automobiline, dalle Barbie al Lego, dalla girandola al palloncino, dalle matrioske al meccano. Angiolino ci guida nel mondo meraviglioso dei giocattoli di tutti i tempi, permettendo al “fanciullino” che tutti ci portiamo dentro di abbandonarsi, ancora una volta e con la magia di sempre, all’incanto del gioco. titolo: Storie di giocattoli. Dall’aquilone al tamagotchi autore: Andrea Angiolino - disegni di Alessandro Sanna editore: Gallucci, pp. 168, 14,90 euro
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ORIZZONTALI: 1 1 2 3 4 5 6 7 Si coniuga nell’arte topiaria - 7 Cassa per 16 17 il grano - 16 Nato dalla fantasia - 18 19 20 21 Relativo al settimo pianeta del sistema 22 23 24 solare - 19 Astici - 20 Riportare un sistema 27 29 28 allo stato iniziale - 22 Il “de” olandese - 23 33 34 35 Sono “sliding” in un film con Gwyneth 38 39 Paltrow - 25 Asta per l’azionamento di 42 particolari dispositivi - 27 Una delle ultime 45 glaciazioni - 29 Corpi vegetativi dei funghi - 31 Comodità, benessere materiale - 33 Funzione cui si adempie in luogo di altri - 35 Lanciere prussiano - 37 Abbreviazione di interno - 38 Piccola botte per vin santo - 40 Fermenta nei tini - 42 Pantofole plebee - 43 Mossiere - 45 Giallo residuo della distillazione della trementina - 46 Essere al colmo della contentezza.
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VERTICALI: 1 Gigantesco mollusco tentacolato - 2 A 18 questo punto - 3 Regione mineraria del Sudafrica - 4 Aria poetica - 5 Vale 25 26 un “blitz” - 6 Al termine del tunnel 30 31 32 - 8 Kurt, divo di Hollywood - 9 Altari 36 37 dei pagani - 10 La Marlee di Figli di un 40 41 dio minore - 11 Gravi affronti - 12 Isola 43 44 dell’arcipelago della Sonda - 13 Addetti 46 degli autosilos - 14 Istituto Nazionale per le Esportazioni - 15 In mezzo al caos - 17 Affollano il Walhalla - 21 Robustissimi - 24 Gruccia per abiti - 26 Il cuore... dell’automobile - 28 Si parla a Belgrado - 30 Confina a ovest con Birmania e Thailandia - 32 “Undici” nerazzurro milanese - 34 Centro per l’assistenza fiscale (sigla) - 36 A questo punto... fra vecchi versi 38 Codesta cosa - 39 Etnologia (abbr.) - 41 C’è quello “nero” - 42 Centimetro cubo - 44 Informa in tivù. 8
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NEL PROSSIMO NUMERO I VICHINGHI SIAMO NOI
Venuti dal Nord a bordo di navi snelle e veloci, i popoli che comunemente chiamiamo Vichinghi si avventurarono anche nel Mediterraneo. Non solo in Sicilia, dando poi vita alla casata regale degli Altavilla, ma compiendo scorrerie lungo le coste tirreniche, come quella che colpì Luni, in Toscana. La vicenda vichinga in Europa e nel Mediterraneo è molto più complessa e importante di quanto non si creda, e l’eredità dei biondi guerrieri scandinavi si rivela assai più ricca e duratura di quanto siamo abituati a pensare.
L’ENIGMA DI ATLANTIDE
Ne parlò approfonditamente Platone, e da allora il suo mito non ha fatto che crescere e complicarsi nel corso dei secoli. Atlantide, il continente scomparso, posto al di là delle Colonne d’Ercole, è stato vanamente ricercato da studiosi, filosofi, geografi, naviganti e avventurieri. Qualcuno afferma che si trovasse non nell’Atlantico, dove la tradizione lo situava, bensì nel nostro piccolo Mediterraneo,
fucina di molte grandi civiltà del passato. Oggi nuove ipotesi si sommano alle vecchie, recando come prova indizi davvero sbalorditivi.
NAPOLEONE IN EGITTO
La curiosa epopea del futuro imperatore dei francesi nelle desertiche terre del Nilo, fra predoni, saccheggiatori, scoperte scientifiche, pestilenze e tranelli militari e politici. Una storia particolarissima e avventurosa oltre ogni immaginazione, ricca di aneddoti e di sorprese, attraverso la quale Napoleone costruì il suo personaggio di condottiero invincibile che l’avrebbe portato alla conquista d’Europa.
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RADIO LONDRA
Per ovviare alla censura fascista e alla distorsione delle notizie rilasciate dalla propaganda di regime, durante la Seconda guerra mondiale molte famiglie italiane ascoltavano in segreto Radio Londra. Naturalmente, anche quelle propagate dalla Bbc erano informazioni abilmente filtrate e manipolate a fini bellici, ma contenevano in sé almeno il germe di quelle verità che i nostri bollettini nazionali non potevano permettersi di divulgare. Ecco come funzionava il sistema di disinformazione via radio più sofisticato degli anni Quaranta, e che cosa fecero le forze dell’Asse per contrastarlo e per copiarlo.
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IMPERO ROMANO • Cinecittà, il Duce e la sua Hollywood • La più grande battaglia navale della Storia • Paolo e Francesca: amore e morte nel Medioevo
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Pinochet, il dittatore del Cile
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Milano contro Venezia nel ’400
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L’incredibile scandalo della collana
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