LA SCIENZA DELLA PASTICCERIA - LE BASI LA CHIMICA DEL BIGNÈ
Dario Bressanini
ISBN edizione cartacea: 9788858012307
INTRODUZIONE
Se entrate in una qualsiasi libreria, dalle più piccole di qualche sperduta località di alta montagna a quelle più grandi con le poltrone per leggere in tranquillità e i bar interni dove sorseggiare un cappuccino, vi potete sicuramente accorgere che la sezione “cucina e gastronomia” occupa sempre uno spazio importante, con gli scaffali delle novità in bella vista. La sezione “scienza” invece, ammesso che ci sia, è quasi sempre molto piccola, spesso relegata tra “esoterismo” e “giardinaggio”, e sicuramente i suoi scaffali sono meno visitati e aggiornati con meno frequenza di quelli con gli Chef stellati in bella vista. Non so dove il vostro libraio abbia posizionato questo libro ma sarei felice se si potesse trovare in entrambe le sezioni, perché questo è contemporaneamente un libro scientifico, ma con pochissime formule, e un libro di cucina, ma con poche ricette. C’era proprio bisogno di un altro libro di cucina? Scritto poi da uno che cuoco non è e nemmeno pasticcere, ma fa il chimico? La mia risposta è ovviamente sì e non posso fare a meno di spiegarvi perché ho deciso di scriverlo e perché, forse con poca modestia, ritengo che sia diverso da tutti gli altri libri di pasticceria che avete nella vostra libreria. La stragrande maggioranza dei libri di cucina si sofferma sul quanto (“prendete 100 g di burro, due cipolle e un pizzico di sale”) e sul quando (“fate bollire per 30 minuti”, “infornate per un’ora”), non sempre sul come (“cuocete a fuoco alto”, sì ma a che temperatura esattamente? È importante?) e praticamente mai sul perché (“aggiungete un pizzico di sale”, “aggiungete 20 g di bicarbonato”, “coprite il basilico con l’olio”, sì ma perché?). Ecco, questo è un libro che spiega i perché delle cose, una sorta di manuale di istruzioni per tutte le ricette già
scritte e per quelle ancora da inventare, ma che necessariamente seguono gli stessi principi chimici e fisici. Da circa dieci anni scrivo una rubrica mensile intitolata “Pentole e Provette” dedicata all’esplorazione scientifica del cibo e della gastronomia sul mensile di divulgazione scientifica “Le Scienze”, e dal 2007 curo il blog “Scienza in Cucina”. In questi anni ho cercato di spiegare ai miei lettori i perché scientifici della cucina, spaziando tra bistecche, salse, pasta al pesto o alla carbonara, meringhe, mousse al cioccolato, bevande, granite e così via. Ogni mese argomenti diversi, scelti più o meno d’impulso, senza una pianificazione. Era venuto il momento di scrivere qualcosa di più strutturato, con un ordine logico e che esplorasse in modo il più esaustivo possibile quella che mi piace chiamare “la cucina scientifica”: la descrizione dei processi chimici e fisici che avvengono nelle nostre padelle e nei nostri forni, con l’obiettivo dichiarato di spiegare come un po’ di conoscenze scientifiche possano essere utilissime nella cucina di tutti i giorni, e non solo in quella dei grandi Chef. Dopo aver stilato un indice di massima degli argomenti principali, ognuno suddiviso in sottoargomenti, mi sono accorto che mi sarebbero serviti almeno un migliaio di pagine e qualche anno di tempo per scrivere il mio libro di cucina scientifica. Impossibile. Nulla però mi vietava di suddividere, per ora solo concettualmente, l’opera in più volumi, ognuno dedicato a un argomento ben preciso. Ho quindi deciso di iniziare dalle basi della pasticceria: in fondo chi non ha mai preparato una torta o un dolce al cucchiaio anche solamente usando le buste pronte? I cinque capitoli di questo libro sono dedicati ai cinque ingredienti indispensabili per la pasticceria: gli zuccheri, le uova, la famiglia del latte, la farina e i gas. Se non avete mai letto quest’ultimo ingrediente in una ricetta ecco un ulteriore motivo del perché un approccio scientifico alla cucina e, in particolare, alla pasticceria sia utile per interpretare meglio anche le ricette più classiche. Ogni capitolo è corredato da alcune ricette, testate, che
Ogni capitolo è corredato da alcune ricette, testate, che servono per illustrare i concetti scientifici esposti nella parte teorica. Di ricette è pieno il web, per non parlare delle riviste, dei libri e persino delle trasmissioni televisive. Alcune sono affidabili e riproducibili, altre no. In questo libro mi concentro sulla spiegazione di ciò che accade quando ne eseguiamo una, del perché un certo ingrediente è necessario o superfluo, o del perché una determinata temperatura è l’ideale oppure porta al disastro, in modo da dare al pasticcere, casalingo o meno, la possibilità di modificare la preparazione con cognizione di causa e non procedendo alla cieca. Ecco perché ho scelto di approfondire alcune ricette della pasticceria di base, come le meringhe o il pan di Spagna. La scelta di quali ricette includere e quali, ahimè, escludere non è stata semplice. Ma non rimanete delusi se non ho incluso la “vostra” ricetta di base preferita: dopo aver terminato questo libro avrete sicuramente gli strumenti per analizzarla scientificamente così come io ho fatto per quelle che ho scelto. E poi, chissà, potrebbe venirmi la voglia di scrivere un secondo libro con tutto quello che non sono riuscito a far stare in questo. Prima di iniziare a cucinare leggete sempre tutta la ricetta da cima a fondo. L’avete capita? Vi sono chiare tutte le procedure da compiere? Avete tutti gli ingredienti? A volte per capire perché funziona una ricetta, o per migliorarla, dovrete ideare degli esperimenti culinari, variando qualche ingrediente o modificando la procedura. A questo scopo è utile, come si fa in un laboratorio scientifico, tenere in cucina una sorta di “quaderno di laboratorio”. Io uso una Moleskine (comprata in offerta a metà prezzo) perché mi hanno detto che ogni scrittore che si rispetti deve averne una, ma qualsiasi quadernetto può andare bene. Trascrivete meticolosamente le ricette che provate o inventate. È importante che gli ingredienti siano misurati in modo preciso. Le misure “occhiometriche” non vanno bene. Se fate delle modifiche in corso d’opera annotatele. Quando poi assaggerete (e farete assaggiare) il vostro parto culinario trascrivete i suggerimenti per migliorare
vostro parto culinario trascrivete i suggerimenti per migliorare la ricetta, secondo il vostro gusto, la volta successiva. In questo modo arriverete presto a ottimizzare le “vostre” ricette. Sulla mia agendina alla voce “ragù” dopo la prima ”esecuzione” ho scritto “aggiungere una cipolla, dimezzare le carote, ridurre a 100 grammi il concentrato di pomodoro”. E ricordatevi che solo perché una ricetta è riportata in un certo modo non vuol dire che non possa essere migliorata o che tutti i passaggi siano corretti e necessari. Anche se è rimasta immutata per centinaia d’anni. Per uno scienziato i numeri sono indispensabili, servono a misurare il mondo che ci circonda. Se non l’avete vi consiglio vivamente di acquistare una bilancia digitale per misurare gli ingredienti. Allo stesso modo, non trascurate le temperature: sia quelle raggiunte internamente da un alimento sia quelle del forno. È indispensabile quindi avere un buon termometro digitale: ve la cavate con una spesa di una decina di euro, ma non avrete più problemi nel preparare una meringa svizzera oppure una crema inglese. Per quel che riguarda le temperature da impostare nel forno, purtroppo i nostri apparecchi casalinghi non sono in grado di mantenere delle temperature costanti in modo accurato. Provate a misurare con un termometro da forno e avrete delle belle sorprese: regolandolo a una certa temperatura il forno in realtà continuerà a oscillare tra temperature inferiori e temperature superiori per tenere “mediamente” (si spera) la temperatura desiderata. Qui sotto potete vedere come esempio le misurazioni che ho effettuato sul mio forno impostandolo a 100 °C: in realtà oscilla tra 96 °C e 120 °C. Per alcune ricette questo non conta, ma per altre è importante non superare certe temperature, per cui vi consiglio di fare qualche prova con il vostro forno per capire quanto sia affidabile. Se quella particolare ricetta non vi è mai venuta, nonostante abbiate seguito alla lettera le istruzioni, la colpa potrebbe essere delle temperature sbagliate raggiunte dal vostro forno.
dal vostro forno. TEMPERATURA DEL FORNO TEMPERATURA IMPOSTATA
MIN
MAX
50 °C
42 °C
67 °C
75 °C
65 °C
90 °C
100 °C
96 °C
120 °C
E ora forza: mettetevi il grembiule, tirate fuori zucchero, uova, burro e farina, e iniziamo!
I ZUCCHERO E ZUCCHERI L’ESSERE UMANO HA UNA ATTRAZIONE INNATA PER IL SAPORE DOLCE. I NOSTRI AVI CERCAVANO PRODOTTI ZUCCHERINI PRESENTI IN NATURA PER NUTRIRSI, PERCHÉ IL SAPORE DOLCE ERA UN SEGNALE CHE QUEL CIBO POTEVA FORNIRE MOLTA ENERGIA. È NATURALE QUINDI CHE IL PRIMO CAPITOLO DI QUESTO LIBRO SIA DEDICATO AGLI ZUCCHERI CHE POSSIAMO CONSUMARE E SFRUTTARE IN PASTICCERIA.
CONOSCIAMO GLI ZUCCHERI Tutte le materie prime di cui parliamo in questo libro, come burro, farina e uova, si utilizzano normalmente in cucina per preparare antipasti, primi e secondi piatti, contorni. Solo lo zucchero però definisce, con il suo sapore dolce, la stragrande maggioranze delle preparazioni di pasticceria. Quando parliamo colloquialmente di “zucchero” intendiamo la molecola che i chimici chiamano “saccarosio” la cui formula è C12H22O11. Tuttavia in pasticceria utilizziamo, spesso inconsapevolmente, anche altri “zuccheri”. Gli zuccheri appartengono alla più grande famiglia dei carboidrati e sono formati da combinazioni di soli tre atomi: carbonio, idrogeno e ossigeno. A seconda della loro complessità si distinguono in monosaccaridi, disaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi. ZUCCHERI SEMPLICI Partiamo dai più semplici, i monosaccaridi.
Ne esistono molti ma solamente due hanno una grande importanza in cucina: il glucosio e il fruttosio. Gli altri, come il galattosio, si incontrano solo raramente. Unendo chimicamente due monosaccaridi insieme otteniamo gli zuccheri disaccaridi. Sono ancora considerati “zuccheri semplici”. Il più diffuso e noto è il saccarosio, il normale zucchero da tavola. Si ottiene quando una molecola di glucosio si lega a una molecola di fruttosio. Se due molecole di glucosio si legano insieme invece otteniamo il maltosio, presente nello sciroppo di malto. Se uniamo glucosio e galattosio otteniamo l’unico zucchero di origine animale che si incontra, indirettamente, in cucina: il lattosio.
ZUCCHERI COMPLESSI Se a un disaccaride aggiungiamo un
altro monosaccaride otteniamo un trisaccaride, e così via. Fino a dieci unità legate vengono chiamati oligosaccaridi. Aggiungendo altre unità si parla di polisaccaridi, e siamo nel campo dei carboidrati complessi. L’amido è un polisaccaride formato da molte migliaia di molecole di glucosio legate insieme. Un altro esempio di polisaccaride sono le maltodestrine che si trovano in vendita nei negozi di fitness, sempre formate da unità di glucosio. L’inulina – da non confondersi con l’insulina – invece è un polisaccaride formato da moltissime unità di fruttosio presente in alcuni ortaggi come il topinambur e la cicoria.
PROPRIETÀ DEGLI ZUCCHERI Dal punto di vista nutrizionale, tutti i carboidrati, quindi tutti gli zuccheri, forniscono lo stesso apporto calorico pari a 4 kcal/g e tutti vengono trasformati in glucosio nel nostro corpo prima di poter essere utilizzati per fornire energia alle cellule. L’unico zucchero “dietetico” è quello… che non si mangia, rassegnamoci! Il nostro corpo reagisce più o meno velocemente all’ingestione di zuccheri diversi: per esempio il glucosio viene metabolizzato molto più in fretta del fruttosio e quindi i due zuccheri hanno un indice glicemico (IG) differente. Sebbene gli zuccheri semplici siano una famiglia di molecole abbastanza simili, le loro proprietà sono sufficientemente diverse e quindi in gastronomia hanno usi e finalità distinti. Vediamo le principali proprietà. SONO DOLCI La caratteristica principale degli zuccheri è
sicuramente quella di soddisfare l’istinto innato di ricerca del dolce. Tutti sono dolci e questa sicuramente è la proprietà più utilizzata in pasticceria, sia per dolcificare sia per attenuare il sapore amaro di un prodotto, come il caffè o il cacao, oppure quello aspro del limone o dello yogurt. La sensazione di dolcezza che proviamo mangiando un dolce è sempre influenzata, oltre che dal tipo di zucchero, anche da altri fattori quali la temperatura, il pH e gli altri ingredienti. In più noi esseri umani non siamo macchine tutte uguali e rispondiamo diversamente ai vari ingredienti. Anche assaggiando gli zuccheri puri disciolti in acqua non è possibile misurare in modo oggettivo il grado di dolcezza con un apparecchio. È però possibile, con degli esperimenti sensoriali appropriati e un panel di assaggiatori esperti, ordinarli dal meno dolce al più
dolce e, fissata arbitrariamente a 100 la dolcezza del saccarosio puro, dare valori indicativi della dolcezza relativa degli altri zuccheri rispetto a quello. TAB. 1
DOLCEZZA DEGLI ZUCCHERI ZUCCHERO
DOLCEZZA RELATIVA
lattosio
40
maltosio
50
glucosio
70
saccarosio
100
fruttosio
120-170
DANNO STRUTTURA Dopo la dolcezza la proprietà più
importante degli zuccheri in pasticceria è quella di conferire la struttura desiderata ai prodotti una volta evaporata parzialmente o totalmente l’acqua. Pensateci: una meringa non si sosterrebbe se non ci fosse lo zucchero. In questo caso il saccarosio cristallizzato agisce da “sostegno” alle proteine dell’albume. Aggiunti in un impasto, gli zuccheri interferiscono con la formazione del glutine, con la coagulazione delle proteine dell’uovo e con la gelatinizzazione degli amidi. Ecco perché, per esempio, è così importante la quantità di zucchero aggiunto a una pasta frolla: una frolla deve essere friabile, legata debolmente dalle proteine dell’uovo, con poca formazione di glutine. Se in un improvviso impulso salutistico riducete troppo lo zucchero nella vostra frolla, otterrete un prodotto duro perché non avrete impedito lo sviluppo del glutine. Zuccheri diversi interferiscono in modo diverso con la gelatinizzazione degli amidi. Questo aspetto è importante perché l’amido, insieme al glutine, funge da “impalcatura” per
moltissime torte e se la gelatinizzazione viene ritardata troppo a causa di un eccesso di zuccheri nell’impasto, la struttura può collassare perché l’amido non gelatinizza. Il fruttosio interferisce meno del saccarosio, che può addirittura raddoppiare i tempi di gelatinizzazione. FORMANO CRISTALLI Tutti gli zuccheri semplici formano
cristalli. La formazione di cristalli può essere desiderata e favorita. Pensate alle caramelle, o anche alla croccantezza dei prodotti secchi da forno. In altri casi, la formazione dei cristalli è un evento da scongiurare o per lo meno da ritardare il più possibile, come nelle glasse lucide o nei gelati. Per impedire o sfavorire la cristallizzazione del saccarosio, ma non solo, si usa l’accorgimento di miscelare una piccola quantità, attorno al 510%, di un altro zucchero, solitamente glucosio o fruttosio. Le molecole di zuccheri di tipo diverso interferiscono le une con le altre e rendono più difficoltosa la formazione del reticolo cristallino. Ecco perché in molte ricette di pasticceria classica per evitare la formazione di cristalli si aggiungeva un po’ di miele, oppure si aggiungeva al saccarosio una sostanza acida come il cremor di tartaro – il nome comune per l’idrogeno tartrato di potassio – oppure il succo di limone, formando glucosio e fruttosio a partire dal saccarosio e sfavorendo così la cristallizzazione. Il glucosio viene ampiamente usato a questo scopo per produrre caramelle che devono restare morbide e al tempo stesso non essere troppo dolci, esaltando il sapore della frutta. SI SCIOLGONO Tutti gli zuccheri amano l’acqua e sono molto
solubili. Spesso al punto da formare degli sciroppi molto densi e viscosi, contenenti fino a 80 g di zucchero per 100 g di sciroppo. Più uno zucchero ama l’acqua, più le sue molecole riusciranno a sciogliersi in una stessa quantità d’acqua. Questo è uno dei motivi per cui, a volte, nel bilanciamento di alcune ricette, gli zuccheri in presenza di acqua vengono contati come
liquidi. Lo zucchero meno solubile, tra quelli usati in pasticceria, è il lattosio. È il responsabile, per esempio, della consistenza sabbiosa di alcune ricette dove il latte o la panna vengono concentrate (vedremo più avanti il dulce de leche) o della granulosità di alcuni gelati non conservati perfettamente. Seguono nella scala di solubilità il maltosio e poi il glucosio. Il saccarosio ha un’ottima solubilità, ma è il fruttosio in assoluto lo zucchero più solubile. Per confronto, a 20 °C in 100 g di acqua si riescono a sciogliere 36 g di cloruro di sodio, il comune sale da cucina. Gli zuccheri sono enormemente più solubili: in 100 g di acqua si possono sciogliere 69 g di glucosio, oppure 204 g di saccarosio e ben 375 g di fruttosio. ASSORBONO UMIDITÀ Se tutti gli zuccheri amano molto l’acqua,
sebbene in misura diversa, non ci stupisce che cerchino di prendersela anche dall’aria se possono e, una volta catturata, cerchino di tenersela il più possibile. Questa proprietà, chiamata igroscopicità, ha caratteristiche positive e negative in pasticceria. È la responsabile di un problema molto comune: quando spolveriamo una torta o dei biscotti con lo zucchero a velo, se l’ambiente non è perfettamente asciutto dopo un po’ la polvere zuccherina assorbirà l’umidità dall’aria sciogliendosi e formando uno sciroppo appiccicoso. In altri casi l’affinità degli zuccheri per l’acqua è desiderata, per mantenere umidi i prodotti, come alcune torte o i plum cake. In questo caso si dice che gli zuccheri agiscono da umettanti. Come per la solubilità, i diversi zuccheri mostrano capacità diverse di mantenere umidi i prodotti. In particolare, il fruttosio, essendo lo zucchero più affine all’acqua, ha una forte igroscopicità e mantiene umidi più a lungo i prodotti rispetto al saccarosio. Questa proprietà si trasferisce anche agli sciroppi che contengono fruttosio come lo zucchero invertito, il miele, lo sciroppo d’agave e lo sciroppo di glucosio-fruttosio. Questo è uno dei motivi per cui non è possibile sostituire completamente il saccarosio con il miele in alcuni prodotti che invece devono restare secchi, croccanti e friabili come i biscotti.
L’assorbimento di acqua del fruttosio presente nel miele è tale da cambiare completamente la consistenza e le caratteristiche del biscotto, rendendolo persino molle e un po’ gommoso. CARAMELLIZZANO E MAILLARDIZZANO La doratura superficiale e
in parte interna di molti prodotti da forno è dovuta principalmente alla reazione di Maillard. Questa reazione produce una serie di composti aromatici e gustosi di colore scuro, e si innesca velocemente solo a temperature superiori ai 140 °C. La reazione di Maillard avviene tra le proteine e alcuni zuccheri che i chimici chiamano riducenti. Fruttosio e glucosio, insieme a lattosio e maltosio, sono riducenti e sono utili a dorare i prodotti da forno, mentre il saccarosio non lo è e quindi non partecipa direttamente alla reazione di Maillard. Può però lentamente fornire glucosio e fruttosio all’impasto sia attraverso l’azione di alcuni acidi presenti, se l’impasto è acido, sia attraverso il lavoro degli enzimi presenti nella farina. I monosaccaridi sono generalmente più reattivi nella reazione di Maillard rispetto ai disaccaridi. Inoltre, gli zuccheri ad alte temperature caramellizzano e decomponendosi formano anche in questo caso composti bruni aromatici. Di tipo diverso però rispetto alla reazione di Maillard. Spesso in gastronomia queste due reazioni, chimicamente ben distinte, vengono confuse e tutto ciò che produce un composto bruno è definito “caramellizzazione”. Tuttavia è bene distinguere. La caramellizzazione avviene solo per effetto della temperatura e non vi è bisogno di proteine con cui reagire. Per il saccarosio la decomposizione, con relativo brunimento e formazione di composti aromatici e di sapore caratteristico avviene verso i 160 °C: temperatura ben più alta di quella richiesta per la reazione di Maillard. Il fruttosio comincia a decomporsi a 105 °C mentre il glucosio a 150 °C. Più la caramellizzazione è spinta, più il caramello è scuro, e meno dolce risulta al palato assumendo via via un gusto amarognolo. Nella maggior parte dei casi, quando i cibi si dorano o bruniscono è per effetto della reazione di Maillard. Questa reazione è talmente diffusa in cucina che qualcuno ha
Questa reazione è talmente diffusa in cucina che qualcuno ha coniato il verbo “maillardizzare” sulla scia di “caramellizzare”. Chissà se avrà successo ed entrerà nel vocabolario italiano. CONSERVANO Gli zuccheri sono dei conservanti proprio perché
hanno una forte affinità con l’acqua: la attraggono a sé e quindi la tolgono ai microrganismi come muffe o batteri che ne avrebbero bisogno per vivere e riprodursi. Questo è il principio che sta alla base della preparazione di confetture e marmellate: il metodo tradizionale di conservare la frutta anche per mesi dopo che è stata raccolta. Allo stesso modo la frutta candita si conserva esattamente per lo stesso principio. ABBASSANO IL PUNTO DI CONGELAMENTO DELL’ACQUA (E AUMENTANO QUELLO DI EBOLLIZIONE) Tutti gli zuccheri, disciolti in
acqua, ne abbassano il punto di congelamento. In altre parole una soluzione zuccherina non congela più a 0 °C ma a temperature inferiori. Il punto di congelamento può ridursi anche di svariati gradi. Questa proprietà, che dipende sia dalla quantità di zucchero disciolto che dal tipo di zucchero, è sfruttata nella preparazione di granite, sorbetti e gelati. Una proprietà analoga è quella di aumentare il punto di ebollizione: uno sciroppo contenente l’80% di saccarosio bolle non più a 100 °C ma a 112 °C. Anche questa proprietà non è molto sfruttata in pasticceria ma è alla base della preparazione di caramelle e prodotti affini. FAVORISCONO LA FERMENTAZIONE Gli zuccheri possiedono
anche altre proprietà. Una importantissima: forniscono un substrato fermentabile per lieviti e batteri. L’anidride carbonica necessaria per far aumentare di volume gli impasti viene fornita dai lieviti e deriva dal metabolismo del glucosio che trovano nell’impasto.
ZUCCHERI Ăˆ venuto il momento di descrivere i vari zuccheri, nella forma di solidi bianchi cristallini, nel dettaglio. A vederli sembrano tutti uguali ma ognuno di loro ha caratteristiche peculiari, e per sfruttarli al meglio in pasticceria abbiamo bisogno di conoscerli per bene.
IL GLUCOSIO Ci sono dei sapori che mi richiamano immediatamente l’infanzia, come le gelée alla frutta che trovavo a casa della zia: caramelle gommose in commercio ancora oggi; forse un po’ fuori moda ma proprio per questo con il fascino dei tempi passati. Non è difficile prepararle, e in rete si trovano molte ricette diverse con ingredienti di facile accesso come succhi di frutta, gelatina o pectina e zucchero. Serve però anche un ingrediente meno comune per chi non è un pasticciere: il glucosio. L’angolo chimico: il glucosio Il glucosio ha formula chimica C6H12O6. I chimici ne disegnano spesso lo scheletro con un esagono a cui attaccano lettere e segni grafici. Qui lo rappresentiamo semplicemente con un esagono con una G in mezzo.
Più conosciuto al grande pubblico per le sue funzioni biologiche nel corpo umano – è uno dei parametri più
importanti da controllare nelle analisi del sangue – che per i suoi utilizzi gastronomici, questo zucchero ha assunto un’importanza sempre maggiore in pasticceria e gelateria, ma non ancora nelle cucine casalinghe. Il nome glucosio deriva dalla parola greca gleukos che significa «vino dolce». Il termine è stato introdotto dal chimico francese André Dumas nel 1838 e si riferiva al composto dolce isolabile dall’uva, ricca appunto di glucosio. Nonostante sia lo zucchero più diffuso in natura, presente in ogni essere vivente, è solo nell’ultimo secolo che la chimica ne ha permesso la produzione su larga scala per uso alimentare. Un tempo nelle ricette tradizionali la funzione del glucosio era svolta dal miele, che contiene glucosio e fruttosio. Oppure si produceva direttamente nella ricetta aggiungendo del cremor di tartaro, un sale acido, allo zucchero. L’acidità trasforma una parte del saccarosio in glucosio e fruttosio ottenendo il cosiddetto zucchero invertito. Ora è possibile aggiungere direttamente nelle ricette gli zuccheri più opportuni nelle quantità desiderate. La fonte primaria industriale di glucosio è l’amido, un polimero formato da una lunga catena di molecole di glucosio legate insieme. L’amido viene trattato con acidi e con enzimi per liberare il glucosio. A differenza del fruttosio che ormai si può acquistare al supermercato, reperire il glucosio è un po’ più difficile, ma non impossibile. Lo potete trovare sicuramente nei negozi specializzati in articoli per dolci. Se siete pratici di acquisti sul web lo potete trovare senza problemi in molti negozi online. Come terza opzione potete trovarlo in negozi specializzati in articoli per il fitness. Come abbiamo già avuto modo di vedere, il glucosio è meno dolce del saccarosio (vedi tabella a pag. 11), ha una solubilità inferiore a quella del fruttosio e del saccarosio (vedi pag. 12) e il suo sapore, oltre a essere meno dolce del saccarosio, è diverso. Ha anche la caratteristica peculiare di creare una sensazione di freschezza in bocca, perché per sciogliere i cristalli di glucosio serve calore che viene “prelevato” dalla
nostra bocca. TANTI NOMI PER UN UNICO PRODOTTO A livello commerciale il
glucosio ha vari nomi, e questo genera spesso una certa confusione in chi vuole procurarselo per utilizzarlo nella pasticceria, confetteria o gelateria casalinga. Allo stato solido cristallino si usa ancora il vecchio nome coniato nel 1866 dal chimico Kekulè: destrosio. Disponibile però sia anidro (senza acqua nei suoi cristalli) o come monoidrato (con una molecola d’acqua). Le due forme hanno alcune proprietà, come il punto di fusione, diverse se usate in assenza di acqua. Negli usi tipici della pasticceria e della gelateria, dove l’acqua è quasi sempre presente, le due forme sono equivalenti e l’unica accortezza da prendere è di tenere conto nella ricetta dell’acqua già presente nel glucosio monoidrato. Un altro nome utilizzato è zucchero d’uva nonostante gli acini contengano anche altri zuccheri. Se volete cimentarvi nella produzione di gelée di frutta potete anche usare solo del comune zucchero da tavola, il saccarosio, ma l’aggiunta di glucosio, puro o in sciroppo, evita la formazione dei cristalli che toglierebbero quella sensazione di morbidezza che caratterizza il gusto antico delle gelée dell’infanzia.
IL FRUTTOSIO Fino a pochi anni fa l’unico zucchero puro presente nelle nostre dispense era il saccarosio. Da un po’ di anni sugli scaffali dei supermercati, e spesso nelle cucine degli italiani, si è affiancato il fruttosio, anche grazie all’immagine “naturale” e “salutistica” con cui spesso è commercializzato. L’angolo chimico: il fruttosio Il fruttosio, anticamente chiamato levulosio, ha formula chimica C6H12O6. I chimici ne disegnano spesso lo scheletro con un pentagono a cui attaccano lettere e segni grafici. Qui lo rappresentiamo semplicemente con un pentagono con una F in mezzo.
Il fruttosio si trova in grandi concentrazioni nel miele, dove può anche rappresentare la metà del peso totale, e nella frutta; per questo motivo a volte viene chiamato “lo zucchero della frutta”. Un po’ impropriamente però, poiché solitamente la frutta contiene una miscela di saccarosio, glucosio e fruttosio dove questi ultimi due sono spesso presenti in percentuali
dove questi ultimi due sono spesso presenti in percentuali simili. Anche se le confezioni di fruttosio riportano immagini di frutta, per richiamare la sua presunta origine, è bene ricordare che quello in commercio è prodotto a partire dall’amido, quasi sempre di mais. Questo viene trasformato prima in glucosio attraverso alcuni enzimi, poi è parzialmente convertito in fruttosio ottenendo uno sciroppo di glucosio e fruttosio. Quest’ultimo è quindi separato dal glucosio, asciugato e venduto quasi puro. Il processo di produzione è lungo e costoso e questo è il motivo principale per cui un kg di fruttosio costa di più di un kg di comune zucchero. Sono allo studio altri processi, potenzialmente meno costosi e più efficienti, di produzione del fruttosio su larga scala a partire dalla cicoria, ma per ora si tratta solo di studi pilota. In commercio è possibile trovare anche piccole quantità di fruttosio estratto dall’uva. Il maggior costo è l’unica differenza rispetto a quello prodotto a partire dall’amido poiché la struttura chimica è esattamente la stessa. In tabella potete vedere il contenuto tipico in zuccheri, suddiviso tra fruttosio, glucosio e saccarosio, di alcuni alimenti. TAB. 2
ALIMENTO (100 g)
FRUTTOSIO (g)
GLUCOSIO (g)
SACCAROSIO (g)
mela
5,9
2,4
2,1
albicocca
0,9
2,4
5,9
banana
4,9
5,0
2,4
uva
8,1
7,2
0,2
pesca
1,5
2,0
4,8
pera
6,2
2,8
0,8
anguria
3,4
1,6
1,2
melone
1,9
1,5
4,4
melassa
13
12
29
miele
38
31
1
Il fruttosio ha caratteristiche che lo differenziano da tutti gli altri zuccheri. È lo zucchero più dolce che esista. La percezione del sapore dolce del fruttosio è influenzata da molti fattori quali la temperatura (la dolcezza diminuisce se aumenta la temperatura) e il pH. Il fruttosio ha anche un “profilo gustativo” diverso dal saccarosio: il suo sapore viene percepito più velocemente e con maggiore intensità, e ha il vantaggio di dissiparsi prima. Per questo motivo è considerato molto più adatto del saccarosio per la preparazione di sorbetti, granite o in generale preparazioni a base di frutta, dove una volta svanito il sapore dolce del fruttosio sul palato rimangono i sapori della frutta, invece di essere mascherati dalla persistenza del sapore del saccarosio. Un po’ di storia: il fruttosio Ogni studente di chimica sa che il saccarosio è composto da una molecola di glucosio legata a una di fruttosio. E sa che trattando lo zucchero con degli acidi i due monosaccaridi vengono liberati. Potrebbe sembrare semplice quindi inventare un processo per produrre fruttosio a partire dal saccarosio. Tuttavia non è così per una serie di complicazioni pratiche ed economiche. Negli anni ’60 alcuni produttori finlandesi, tedeschi e francesi iniziarono a produrre fruttosio puro a partire dal saccarosio, ma il processo era costoso e durava più di una settimana. Fu solo nel 1981 che il primo stabilimento di produzione del fruttosio a partire dall’amido di mais entrò in funzione a Thomson, Illinois (USA), con un tempo di produzione ridotto a cinque giorni. Per la prima volta sul mercato divenne disponibile, e in grande quantità, il fruttosio puro cristallino.
Lo sapevate che
Un grammo di fruttosio apporta le stesse calorie del comune saccarosio, ma, a freddo, è più dolce e quindi è possibile ridurre le calorie assunte mantenendo lo stesso grado di dolcezza. L’angolo chimico: la dolcezza del fruttosio Molte molecole non sono rigide e disciolte in acqua assumono varie forme che i chimici chiamano conformazioni. In particolare il fruttosio disciolto in acqua si ripiega in tre forme diverse di cui però solo una risulta dolce al nostro palato. A 25 °C la conformazione dolce, l’unica presente nel fruttosio solido, rappresenta il 68% delle molecole totali, ed ecco perché il fruttosio sciolto in acqua è meno dolce del fruttosio cristallino. La percentuale relativa delle tre forme però varia all’aumentare della temperatura. A 80 °C solo il 50% delle molecole di fruttosio è presente nella forma dolce e questo spiega come mai la dolcezza del fruttosio diminuisce aumentando la temperatura.
Il fruttosio può prendere parte alla reazione di Maillard e produrre la caratteristica crosticina bruna aromatica e gustosa dei prodotti da forno. Tuttavia raramente è il solo zucchero utilizzato perché causa un brunimento troppo elevato. Il fruttosio, sia quello ingerito tale e quale sia quello che il nostro corpo ricava dal saccarosio, è metabolizzato dal nostro organismo in modo completamente differente rispetto al glucosio. Se il suo assorbimento nel tratto gastrointestinale è più lento di quello del glucosio, nel fegato il processo di conversione del fruttosio in glucosio è veloce. Ha quindi un indice glicemico più basso e un effetto modesto sulla secrezione di insulina. Per questi motivi viene a volte consigliato nelle diete di alcuni diabetici in sostituzione del saccarosio. Per chi non è diabetico non esistono motivi salutistici per preferirlo al saccarosio. Dal punto di vista dietetico, se, come abbiamo visto, contiene le stesse calorie di qualsiasi altro zucchero presente in natura, la sua dolcezza (a seconda di come viene misurata la dolcezza alla temperatura corporea risulta tra il 20% e il 50% più dolce del saccarosio) porta a usarne meno nelle ricette e quindi a ingerire meno
porta a usarne meno nelle ricette e quindi a ingerire meno calorie. In attesa che vengano messe a punto ricette casalinghe adatte al fruttosio, come è accaduto in gelateria dove da tempo oltre al saccarosio vengono utilizzati glucosio, fruttosio e altri dolcificanti, il suo utilizzo diretto resta tuttavia limitato a dolcificare.
IL SACCAROSIO Il saccarosio è un disaccaride, è cioè composto da due monosaccaridi legati tra di loro. Questi due zuccheri sono il glucosio e il fruttosio, rispettivamente chiamati, anticamente, destrosio e levulosio. Il nostro organismo scinde il saccarosio nei due zuccheri di cui è composto. La scissione, che i chimici chiamano idrolisi, avviene grazie agli acidi presenti nello stomaco ma soprattutto grazie ad alcuni enzimi presenti nell’intestino. Il saccarosio è più o meno presente in tutte le piante, prodotto dalla fotosintesi, ma è economicamente conveniente estrarlo solamente dalla canna da zucchero (Saccharum officinarum) e dalla barbabietola (Beta vulgaris ssp. Vulgaris). Circa i tre quarti della produzione mondiale di zucchero provengono dalla canna da zucchero, ma quello prodotto in Europa è quasi tutto da barbabietola. FIG. 1 Rappresentazione tridimensionale della molecola di saccarosio. Sono visibili i due anelli, del glucosio e del fruttosio, legati insieme.
Se la molecola estratta, il saccarosio, è esattamente la stessa, diversi sono però i residui e le impurezze che, prima della purificazione finale, sono ancora presenti nel prodotto grezzo. Questi residui si chiamano melassa o melasso. I residui della barbabietola non sono molto gradevoli e vengono eliminati completamente nelle varie fasi di purificazione. Quelli presenti nella canna da zucchero invece sono apprezzabili al palato ed è possibile trovare in commercio zuccheri di canna con un diverso grado di purificazione. La melassa in commercio contiene i residui della raffinazione dello zucchero di canna. IL CARAMELLO Il saccarosio puro a circa 160 °C comincia a
liquefarsi. Contemporaneamente le molecole di saccarosio
cominciano a rompersi e i frammenti reagiscono tra loro formando tutta una serie di composti bruni aromatici: lo zucchero sta caramellizzando, cioè formando, appunto, il caramello. A seconda del grado di caramellizzazione si può ottenere un caramello dal colore biondo chiaro sino a uno rosso cupo, bruno o addirittura nerastro, se è stato scaldato troppo e ha iniziato a decomporsi. Non dovete mai arrivare a questo stadio. Il caramello, raffreddando, diventa duro e rigido come il vetro. Aggiungendo poca acqua si ottiene uno sciroppo più o meno denso che chiamiamo sciroppo di caramello. Il caramello solido viene utilizzato per la produzione di molte caramelle mentre lo sciroppo liquido, a parte gli usi in pasticceria, è utilizzato dall’industria alimentare anche come colorante.
SIA DALLA CANNA CHE DALLA BARBABIETOLA I metodi di produzione a partire dalla barbabietola da zucchero e dalla canna da zucchero sono molto simili, differendo solo nelle fasi iniziali. La produzione dello zucchero dalla canna inizia nel IV secolo in India con la scoperta del processo di cristallizzazione dello zucchero a partire dalla bollitura del suo succo. Lo zucchero di canna venne introdotto in Europa nel Medioevo tramite i mercanti arabi ed era un prodotto costoso, considerato alla stregua di una medicina. Nel 1493, nel suo secondo viaggio, Cristoforo Colombo portò la canna da zucchero nel Nuovo Mondo, dando inizio alla storia delle famose, e famigerate, piantagioni di canna da zucchero nelle Americhe con gli schiavi importati dall’Africa. Nel 1747 il chimico tedesco Andreas Sigismund Marggraf scoprì il saccarosio nella barbabietola, ma fu il suo studente Franz Achard all’inizio dell’800 a perfezionare il primo processo industriale di estrazione dello zucchero. Processo in seguito adattato anche alla canna. Le guerre napoleoniche, con il blocco dei porti europei da parte della Marina Britannica, bloccarono le importazioni in Francia dello zucchero di canna dalle piantagioni oltreoceano. Napoleone sollecitò lo sviluppo di un processo alternativo e nel 1812 aprì il primo stabilimento francese di produzione dello zucchero a partire dalla barbabietola. Le barbabietole del tempo avevano un contenuto di saccarosio molto basso, attorno al 4,5%. Ora dopo due secoli di selezioni e miglioramenti genetici si è arrivati al 16-18%. Il resto è costituito da acqua (75%), fibre (5-6%) e altre sostanze (2-3%). LA PRODUZIONE DALLA CANNA Dopo essere stata tagliata, in
molte parti del mondo ancora a mano, la canna da zucchero viene pulita e trasportata immediatamente, poiché si deteriora velocemente, allo stabilimento di produzione dove viene frantumata e schiacciata per estrarre il sugo dell’acqua. Il residuo legnoso, chiamato bagasse, viene seccato e utilizzato come combustibile rendendo l’impianto di produzione quasi autosufficiente dal punto di vista energetico. Il sugo della canna viene filtrato, si aggiunge idrossido di calcio per far precipitare le impurezze e i residui presenti vengono separati per centrifugazione. Il succo a questo punto viene riscaldato per concentrarlo facendo evaporare parte dell’acqua. Il calcio in eccesso viene eliminato insufflando anidride carbonica che si “prende” gli ioni calcio e forma il carbonato di calcio che si deposita né più né meno di come fa nella vostra lavastoviglie. Solo ora inizia la fase di cristallizzazione in cui il saccarosio viene separato dalla melassa, in più fasi successive di centrifugazione ed evaporazione, sino a produrre lo zucchero grezzo di canna che possiamo comperare al supermercato. La melassa viene principalmente utilizzata come mangime animale, ma trova qualche utilizzo anche in pasticceria grazie al suo aroma intenso. La raffinazione è il processo per cui lo zucchero grezzo viene separato dai residui di melassa, che hanno un valore nutritivo insignificante se lasciati nello zucchero, per ottenere il saccarosio bianco cristallino. Per eliminare i riflessi giallastri rimasti nel saccarosio si fa passare la soluzione su del carbone attivo che assorbe, nei suoi pori, alcune sostanze rimaste in soluzione. È lo stesso processo che si utilizza in una delle fasi per rendere potabile l’acqua dei nostri rubinetti, o negli acquari casalinghi. Una serie di cristallizzazioni e centrifugazioni successive portano allo zucchero bianco che tutti conosciamo. Dalla barbabietola Il processo a partire dalle barbabietole da zucchero è simile a quello della canna. Le barbabietole dopo essere state raccolte e lavate vengono tagliate in tante fettucce e passate in acqua calda che scioglie il saccarosio e altre
sostanze. La concentrazione di zucchero a questo punto è solo del 10-15%. Questo liquido, chiamato “sugo grezzo”, ha un colore che va dal marroncino al nero a causa di tutte le sostanze organiche disciolte e dei processi di ossidazione innescati dagli enzimi, che devono essere eliminati. A questo punto, come per il succo proveniente dalla canna, si aggiunge dell’idrossido di calcio che fa precipitare una parte delle impurezze. La CO2 viene fatta gorgogliare nel succo per far precipitare il carbonato di calcio che porterà con sé altre impurezze. La purificazione che porta allo zucchero bianco prosegue in modo analogo allo zucchero di canna.
LE VARIE TIPOLOGIE DI SACCAROSIO IN COMMERCIO Ora che conoscete le differenze tra i vari zuccheri disponibili, e avete deciso che per i vostri biscotti volete utilizzare il saccarosio, davanti agli scaffali del supermercato avete l’imbarazzo della scelta con saccarosio di granulometrie e colori diversi. Che differenze ci sono? Vediamole. LO ZUCCHERO SEMOLATO Il saccarosio cristallino puro è bianco.
La tipologia di zucchero più comune nelle nostre cucine è il cosiddetto semolato. Si chiama così lo zucchero da tavola perfettamente bianco e dai cristalli piccoli. Lo zucchero bianco biologico deriva da coltivazioni biologiche di canna o di barbabietola, ma ha esattamente le stesse caratteristiche e proprietà. Alcuni produttori vendono uno zucchero di grana extrafine, con vari nomi commerciali, che si scioglie più velocemente dello zucchero semolato. LO ZUCCHERO A VELO Spesso venduto in bustine a tenuta
stagna, perché se lasciato all’aria aperta assorbe facilmente l’umidità formando dei grumi, lo zucchero a velo non è nient’altro che normale zucchero ridotto in polvere molto fine. Nei Paesi anglosassoni è chiamato confectioners’ sugar o icing sugar. In pasticceria si usa sia spolverato su torte, biscotti e prodotti da forno, che aggiunto in alcuni impasti perché, a differenza del normale zucchero semolato, si scioglie più velocemente e rende l’impasto più fine. Lo zucchero a velo commerciale solitamente contiene un po’ di amido per assorbire l’umidità e a volte è vanigliato, è stato aggiunto cioè dell’aroma di vaniglia. Se non desiderate aggiungere amido alla
vostra ricetta, o se non desiderate l’aroma di vaniglia, è possibile preparare lo zucchero a velo molto facilmente frullando dello zucchero semolato in un macinino da caffè. LO ZUCCHERO DEMERARA Lo zucchero di canna può subire vari
gradi di purificazione e portare a prodotti leggermente diversi: dallo zucchero bianco, identico a quello di barbabietola, a prodotti più scuri. Quello in bustine, con cristalli ben visibili e leggermente giallognoli, è del tipo detto Demerara, con una percentuale molto alta di saccarosio cristallino, attorno al 99%, e pochissima melassa. Il nome deriva dalla regione della Guyana dove questo tipo di zucchero fu inizialmente prodotto. Molto zucchero Demerara viene prodotto nelle Isole Mauritius nell’Oceano Indiano. Dal punto di vista nutrizionale è praticamente identico al normale zucchero bianco e a volte è addirittura prodotto a partire da questo, aggiungendo a posteriori una piccola percentuale di melassa. Questa operazione consente ai produttori di controllare meglio la dimensione dei cristalli e, soprattutto, di non interrompere il processo di purificazione. Spesso i cristalli dello zucchero Demerara sono leggermente più grandi di quello semolato, quindi si sciolgono più lentamente in acqua. Potete sostituire lo zucchero semolato con la stessa quantità in peso di zucchero Demerara, perché le piccole quantità di melassa non sono tali da influenzare troppo il bilanciamento delle ricette. L’unica accortezza è di non utilizzarlo in preparazioni dove è necessario sciogliere velocemente lo zucchero, come nelle meringhe, perché si rischia di avere un prodotto finale con una struttura meno fine e più grezza.
Lo sapevate che Lo zucchero grezzo di canna è semplicemente uno zucchero che ha subito una raffinazione parziale: le differenze di colore e sapore dipendono dalla presenza di piccole quantità di melassa che non vantano
particolari proprietà nutrizionali. Il piccolo contenuto di minerali negli zuccheri grezzi è del tutto insignificante dal punto di vista nutrizionale. Sia dal punto di vista calorico che da quello salutistico questi zuccheri sono equivalenti allo zucchero bianco.
Lo sapevate che Per secoli lo zucchero era più o meno scuro, contenente una certa percentuale di melassa. Più era chiaro e raffinato, più era considerato pregiato e costoso. Al contrario di oggi, in cui lo zucchero meno raffinato, nonostante costi meno produrlo, è venduto a un prezzo superiore. LO ZUCCHERO BRUNO Fermandosi a uno stadio precedente
della raffinazione rispetto al Demerara si ottiene lo zucchero Muscovado o Mascobado, più scuro e con circa il 95% di zuccheri. Contiene una piccola percentuale di melassa. Prodotto originariamente nelle Barbados, nei Carabi, ora è prodotto anche in altri Paesi come le Filippine. I cristalli di zucchero del Muscovado sono formati da saccarosio puro, ma essendo ricoperti di melassa lo zucchero risulta pastoso e umido. Se non lo trovate al supermercato cercatelo nel circuito “Equo e Solidale”. È molto aromatico, con un vago sentore di liquirizia, e contiene piccole quantità di glucosio e fruttosio. A differenza del Demerara il glucosio e fruttosio presenti, molto amanti dell’umidità, fanno sì che la sostituzione totale di zucchero semolato con lo zucchero bruno porti a prodotti più umidi e persino gommosi. LO ZUCCHERO INTEGRALE Esistono altri tipi di saccarosio che
hanno subito raffinazioni parziali. Non c’è una nomenclatura accettata universalmente, e neppure valori di riferimento del
grado di melassa contenuta nei vari zuccheri che varia da produttore a produttore. Per zucchero integrale si dovrebbe intendere il succo di canna fatto bollire ed essiccato, come, per esempio il Panela. È importante ricordare come anche gli zuccheri venduti come “grezzi” hanno comunque subito una raffinazione parziale. DIFFERENZE IN PASTICCERIA Non ci sono motivi nutrizionali o
salutistici per preferire lo zucchero grezzo o integrale a quello bianco raffinato. Le varie tipologie di saccarosio hanno, però, proprietà diverse, quindi può essere più conveniente utilizzare l’uno o l’altro. Lo zucchero grezzo ha retrogusto e aroma tipici dovuti alla melassa. Il gusto simile alla liquirizia può dare un tocco particolare ai dolci. Io, per esempio, a volte lo utilizzo per la panna cotta. Le differenze più importanti si possono osservare quando lo zucchero bruno sostituisce quello bianco in biscotti e torte. Oltre al saccarosio, la melassa contiene glucosio e fruttosio. Questo rende lo zucchero bruno più igroscopico: assorbe più acqua mantenendo più umide le torte. Biscotti che con lo zucchero bianco sarebbero friabili, diventano morbidi e un po’ gommosi con quello grezzo. Per alcuni prodotti, come le meringhe, questo effetto può essere deleterio. Lo zucchero integrale è leggermente acido, a causa dei residui di melassa, quindi se ne deve tenere conto nel caso la ricetta preveda un bilanciamento tra sostanze acide e alcaline, soprattutto se si usa lievito chimico. L’angolo chimico: il saccarosio Il saccarosio è un disaccaride di formula chimica C12H22O11: unione di una molecola di glucosio e una di fruttosio. Le due componenti si scindono nel nostro sistema digerente.
IL LATTOSIO Il lattosio è un disaccaride: unione di una molecola di glucosio e una di galattosio. È poco dolce e ha un sapore caratteristico. Viene estratto dal siero di latte, un sottoprodotto della produzione del formaggio. È uno zucchero riducente quindi aiuta il brunimento nei prodotti da forno. Alcune persone sono intolleranti al lattosio perché mancano di un enzima in grado di rompere il legame tra il glucosio e il galattosio: il primo passo verso la metabolizzazione di questo zucchero. Nel latte a ridotto contenuto di lattosio viene aggiunto un enzima che scinde questo zucchero nelle sue due componenti, evitando spiacevoli effetti collaterali a chi non è in grado di metabolizzarlo. L’angolo chimico: il lattosio Il lattosio è l’unico zucchero di origine animale che incontriamo comunemente. È composto da una molecola di glucosio legata a una di galattosio.
IL MALTOSIO Se uniamo insieme due molecole di glucosio otteniamo il maltosio: un disaccaride. Come indica il nome è presente nel malto: i semi germogliati ed essiccati di alcuni cereali come l’orzo o il grano. Ha un sapore caratteristico e questo è il motivo principale del suo utilizzo in alcuni prodotti come bevande e caramelle. È importante soprattutto nella produzione della birra. L’angolo chimico: il maltosio Il maltosio è un disaccaride: unione di due molecole di glucosio.
Lo sapevate che Negli Stati Uniti lo sciroppo di glucosio si produce a partire dall’amido di mais e quindi viene chiamato sciroppo di mais (Corn Syrup) mentre in Europa viene prodotto anche da amido di frumento o di patate ed è chiamato semplicemente sciroppo di glucosio. A volte pasticcieri e gelatieri chiamano glucosio lo sciroppo di glucosio rendendo la nomenclatura ancora più
confusa!
SCIROPPI Abbiamo descritto i vari zuccheri nel dettaglio nella loro forma solida. Disciolti in acqua questi possono formare sciroppi più o meno densi. In commercio però si trovano anche sciroppi di miscele di zuccheri semplici, sia di origine naturale come il miele, lo sciroppo d’acero o lo sciroppo d’agave, che prodotti dall’uomo come lo zucchero invertito e lo sciroppo di glucosio. In larga parte le proprietà degli sciroppi si possono ridurre alle proprietà degli zuccheri semplici che vi sono disciolti. La maggior parte degli sciroppi contiene tra il 70% e l’85% di zuccheri. Più ne contengono e più denso e viscoso è lo sciroppo. Molti sciroppi sono colorati e aromatici – pensate per esempio allo sciroppo d’acero – perché contengono anche piccole quantità di altre sostanze che impartiscono colori e aromi caratteristici.
LO SCIROPPO DI GLUCOSIO O DI MAIS Esiste un prodotto, chiamato sciroppo di glucosio, che non è glucosio puro in sciroppo; questo è causa di grande confusione quando lo si trova in qualche ricetta. Il punto di partenza per ottenere il glucosio su larga scala, a parte piccole produzioni che partono dall’uva, è l’amido, che viene trattato con acidi ed enzimi per spezzare la catena in elementi più piccoli. A seconda delle condizioni si forma una miscela di glucosio, maltosio e altre molecole più grandi. Il grado di scissione dell’amido si misura con un parametro chiamato DE (Destrosio Equivalente) stabilito dal produttore in fase di produzione. L’amido puro ha DE pari a 0. Se la trasformazione è completa si ottiene uno sciroppo di glucosio puro, con DE pari a 100. Questo viene filtrato, centrifugato, purificato e cristallizzato per ottenere il glucosio cristallino. Un valore di DE intermedio tra 0 e 100 indica una trasformazione parziale dell’amido in glucosio. Il DE misura la percentuale di zuccheri riducenti presenti rispetto al numero totale di molecole di glucosio (legate o meno) presenti. Sciroppi comunemente utilizzati hanno DE pari a 45 o DE pari a 65. È curioso notare come lo sciroppo a DE pari a 45 in realtà, nonostante il nome, contenga solo circa il 3% di glucosio: lo zucchero prevalente è il maltosio (50%) e c’è poi una buona percentuale di altre molecole, meno dolci, contenenti 3 o più unità di glucosio. Lo sciroppo di glucosio a DE pari a 65, per confronto, ha invece il 39% di glucosio e il 35% di maltosio.
LO ZUCCHERO INVERTITO Per zucchero invertito si intende uno sciroppo contenente glucosio e fruttosio in egual misura. Per esempio 40 g di glucosio e 40 g di fruttosio disciolti in 20 g di acqua. Lo zucchero invertito ha fatto il suo ingresso come ingrediente in pasticceria semplicemente perché un tempo non erano separatamente disponibili commercialmente i due costituenti che hanno proprietà diverse dal saccarosio. A volte lo zucchero invertito veniva usato per la presenza del glucosio. Altre volte per la presenza del fruttosio, più dolce del saccarosio. Ora entrambi i prodotti sono disponibili sul mercato in forma cristallina, per cui in teoria sarebbe possibile riformulare le ricette, ma solo in alcuni casi, come nella preparazione di sorbetti, granite e gelati, questo è stato fatto. Abbiamo visto come il saccarosio sia composto da una molecola di glucosio legata a una di fruttosio che vengono separati nel nostro organismo con un processo di idrolisi. È possibile sfruttare questa reazione per produrre lo zucchero invertito, trasformando parzialmente o totalmente il saccarosio in glucosio e fruttosio. A livello industriale si utilizza un enzima, chiamato invertasi, che catalizza la reazione, rompe il legame tra fruttosio e glucosio e produce uno sciroppo che contiene una eguale quantità dei due monosaccaridi e che può contenere, a seconda del tipo di prodotto, anche del saccarosio non trasformato. Il termine “invertito” si riferisce al diverso comportamento che la luce polarizzata mostra quando viene fatta passare attraverso una soluzione di saccarosio oppure di zucchero invertito, un fenomeno di nessuna importanza in pasticceria. La scomposizione del saccarosio in glucosio e fruttosio può avvenire anche in presenza di un acido, e questo era il metodo che veniva utilizzato una volta a livello sia casalingo che industriale per produrlo: si trattava una soluzione di saccarosio con acidi come l’acido solforico o il cloridrico avendo cura di
con acidi come l’acido solforico o il cloridrico avendo cura di scaldare la miscela cautamente per un certo periodo. Alla fine della reazione l’acido veniva neutralizzato con della soda, del bicarbonato di sodio o altre sostanze alcaline, lasciando inevitabilmente un residuo salino. A livello industriale questi residui venivano eliminati ma non è facile farlo in casa. Un tempo questi acidi forti si potevano acquistare in una qualsiasi drogheria. Ora se provaste a chiederli probabilmente penserebbero che state cercando di preparare degli esplosivi, per cui lasciate perdere. Se avete bisogno dello zucchero invertito potete acquistare lo sciroppo già preparato. Non è facilissimo trovarlo ma neanche impossibile. A volte in qualche supermercato si trova il Golden Syrup. È un tipico prodotto inglese: zucchero invertito a cui hanno lasciato un po’ di melassa bruna derivante dalla raffinazione dello zucchero di canna. È per questo che ha un colore ambrato e viene da alcuni usato come sostituto a basso costo del miele o dello sciroppo d’acero sui pancake. La composizione specifica dipende dal grado di scomposizione del saccarosio. A livello professionale, oltre allo zucchero invertito propriamente detto in cui tutto il saccarosio è stato trasformato in glucosio e fruttosio, si trova anche lo “zucchero parzialmente invertito” dove solo la metà del saccarosio si è trasformata in glucosio e fruttosio. ZUCCHERO INVERTITO FAI DA TE Se siete degli appassionati di
arcaiche procedure chimico-culinarie e, in un eccesso di masochismo, volete a tutti i costi produrvi il vostro zucchero invertito a partire dal saccarosio, potete usare degli acidi meno pericolosi, come l’acido citrico o l’acido tartarico. Non pensate nemmeno di usare l’acido muriatico in vendita al supermercato! Non è per uso alimentare! La reazione di idrolisi è tanto più veloce quanto più è basso il pH e tanto più è alta la temperatura. Il tipo di acido è praticamente ininfluente, conta solo il pH della soluzione. Il tempo necesario per la reazione non è facile da stimare perché dipende dalla temperatura e dal pH.
perché dipende dalla temperatura e dal pH. Supponiamo di partire da 1.000 g di zucchero e di aver aggiunto acqua e acido citrico in modo tale da essere a pH 3, che potete misurare con delle cartine indicatrici in vendita in farmacia o nei negozi di articoli per acquari. A 80 °C servono quasi un paio di ore per trasformare i primi 500 g di zucchero in glucosio e fruttosio. E i restanti 500 grammi? Se pensate che vi basti aspettare altre due ore vi sbagliate. Senza entrare nei dettagli, sappiate che di quei restanti 500 g, la metà, e cioè 250 g, verranno trasformati nelle due ore aggiuntive. La metà della metà, quindi 125 g, aspettando altre due ore e così via. Potete vederla come la versione chimico-zuccherina della storia di Achille e la tartaruga. Per questo motivo a livello casalingo non è facile riuscire a produrre dello zucchero totalmente invertito. Per esempio a pH 2 e a 80 °C servono 97 ore per arrivare a una purezza del 99,99%. Tuttavia, se vi accontentate di superare il 90% sono sufficienti 30 minuti. L’angolo chimico: lo zucchero invertito Il saccarosio si scinde in glucosio e fruttosio nel nostro corpo, e nella produzione di zucchero invertito, grazie all’acidità e agli enzimi.
La reazione di inversione procede anche a temperatura ambiente, seppur più lentamente. Questo significa che
ambiente, seppur più lentamente. Questo significa che preparazioni dolci e acide, come marmellate, confetture o succhi di frutta, subiscono una lenta trasformazione anche lasciate a se stesse. L’effetto più immediato è che la dolcezza cambia un poco, poiché il saccarosio si è trasformato parzialmente in zucchero invertito, più dolce a basse temperature ma soprattutto con un profilo gustativo diverso. LO ZUCCHERO INVERTITO IN CUCINA Lo zucchero invertito ha
delle proprietà peculiari: abbassa il punto di congelamento più del saccarosio; ha una affinità per l’acqua più alta di quella del saccarosio e quindi mantiene più umidi i prodotti, specialmente le torte. Questo significa che le torte fatte con lo zucchero invertito si seccano meno facilmente se esposte all’aria. Un’altra proprietà utile in pasticceria è quella di evitare o ritardare la cristallizzazione. È per questo motivo che si usa per preparare glasse e coperture.
Lo sapevate che A volte si usa inconsapevolmente lo zucchero invertito: succede ogni volta che facciamo bollire una soluzione acida con dello zucchero per preparare una marmellata o una confettura.
IL MIELE Inseriamo tra gli sciroppi il miele, anche se non siamo abituati a chiamarlo così, perché è uno sciroppo a tutti gli effetti, essendo una miscela di fruttosio e glucosio disciolti in acqua. È stato per millenni l’unico dolcificante noto e sfruttato. Esistono oltre 16.000 specie di api, ma non più di una decina, oltre alla più diffusa Apis mellifera, è in grado di produrre il miele. Le api raccolgono il nettare dai fiori di varie piante: un liquido contenente, tra le altre cose, zuccheri, amminoacidi e minerali. La composizione esatta del nettare, e quindi il tipo di zuccheri contenuti, dipende da molti fattori: primariamente dal tipo di pianta scelta dall’ape per la sua raccolta, ma anche dalle condizioni ambientali. Gli zuccheri contenuti variano dal 7% al 70%. Una singola ape operaia, succhiando il nettare dai fiori prescelti, ne raccoglie al massimo 25 mg, immagazzinandolo in una sorta di serbatoio alla fine dell’esofago. Lì cominciano ad agire alcuni enzimi che trasformano il saccarosio e gli oligosaccaridi presenti in glucosio e fruttosio. Ritornata all’alveare l’ape passa il nettare raccolto a un’altra ape operaia che ripetutamente lo rigurgita e lo risucchia per un periodo di 15-20 minuti. Alla fine la goccia di nettare viene depositata nella celletta esagonale. Gli enzimi continuano a lavorare, trasformando il saccarosio, e contemporaneamente gran parte dell’acqua evapora, anche grazie all’aria costantemente messa in circolo dalle api con le loro ali. La trasformazione è completa in 1-3 giorni. Quando la celletta è piena viene chiusa con della cera. Alla fine della trasformazione il miele è una soluzione molto densa e viscosa di zuccheri (fino all’82%) in acqua. Altre sostanze sono presenti in piccole quantità, ma sono quelle che caratterizzano l’aroma e il sapore del miele. Del saccarosio di partenza non ne è rimasto quasi più, mediamente l’1%, mentre lo zucchero prevalente è il fruttosio (38%) seguito dal glucosio (30%). Altri oligosaccaridi, come il maltosio, l’isomaltosio e il
(30%). Altri oligosaccaridi, come il maltosio, l’isomaltosio e il maltulosio, sono presenti in quantità minori.
Lo sapevate che Il miele ha una composizione di zuccheri quasi identica allo zucchero invertito e allo sciroppo di glucosio e fruttosio, contenendo percentuali molto simili dei due monosaccaridi. Se avete bisogno di zucchero invertito in una ricetta potete usare del miele poco aromatico, eventualmente diluito in acqua. L’alta concentrazione di zucchero rende il miele un ambiente ostile per i batteri, motivo per cui a volte è usato come conservante. Può contenere però muffe, lieviti, polline e spore come quelle del botulino (Clostridium botulinum). Questo è il motivo principale per cui si sconsiglia vivamente di dare il miele ai bambini con meno di un anno di età. Le concentrazioni dei singoli zuccheri nel miele sono più basse delle solubilità individuali, ma poiché la concentrazione di zuccheri totali è superiore a quanto possa disciogliere la poca acqua presente con il tempo lo zucchero meno solubile, il glucosio, forma dei cristalli venendo eliminato dalla soluzione. Questo è un fenomeno ben noto agli appassionati di miele. Il miele non è assolutamente “andato a male” come alcuni pensano. È sufficiente immergere il barattolo in acqua calda per un po’ per risciogliere il glucosio. La sua composizione è molto simile allo zucchero invertito e quindi si comporta in modo simile. Il glucosio e il fruttosio partecipano alle reazioni di Maillard in cottura producendo biscotti e torte più scure. Ha una dolcezza superiore a quella del saccarosio, a causa della maggiore percentuale di fruttosio, e aiuta a mantenere umide le torte. Se lo scopo è di sfruttare il contenuto di glucosio e fruttosio è consigliabile usare un miele poco aromatico come quello d’acacia. I mieli molto aromatici, e spesso costosi, è meglio sfruttarli a crudo per il loro gusto e per il loro magnifico aroma.
il loro magnifico aroma.
Lo sapevate che Il miele è abbastanza acido, avendo un pH attorno a 4. L’acidità è dovuta alla presenza di acido gluconico, prodotto dall’ossidazione del glucosio. Sono presenti anche altri acidi, che possono contribuire al sapore caratteristico del miele. Questo significa che è possibile ottenere un effetto lievitante aggiungendo un poco di bicarbonato a un impasto a cui è stato aggiunto il miele.
LO SCIROPPO D’AGAVE Lo sciroppo d’agave, chiamato anche “nettare d’agave”, viene ottenuto da alcune specie di Agave, soprattutto l’Agave blu (Agave tequilana) usata in Messico anche per la produzione della Tequila. Il cuore della pianta è spremuto per ottenere la linfa che contiene vari polisaccaridi tra cui il principale è l’inulina: un polimero composto da fruttosio. Il succo viene scaldato e degli enzimi spezzano l’inulina producendo fruttosio, lo zucchero principale dello sciroppo d’agave. A seconda del metodo di produzione e del materiale di partenza lo sciroppo d’agave può avere dal 70% al 90% di contenuto di fruttosio, rispetto agli zuccheri totali presenti, una concentrazione che lo rende lo sciroppo di origine naturale con il più alto contenuto di fruttosio.
LO SCIROPPO DI MALTO Il malto è il prodotto della germinazione del seme di un cereale. Nel corso del processo di germinazione, l’amido presente nel seme è parzialmente trasformato in zuccheri. Dal chicco germinato si può ottenere della farina, chiamata farina maltata, oppure si può aggiungere acqua e, dopo una filtrazione, ottenere una soluzione zuccherina che concentrata opportunamente porta allo sciroppo di malto. Tutti i semi dei cereali come orzo, frumento o mais, sono ricchi di amido e possono essere usati per produrre il malto, ma spesso si ottiene dall’orzo, anche perché è il punto di partenza per la produzione della birra. Lo sciroppo di malto è ricco di maltosio e ha un sapore caratteristico. Si aggiunge a prodotti da forno perché il maltosio ha molte proprietà simili al glucosio, tra cui la capacità di partecipare alla reazione di Maillard, a differenza del saccarosio, e quindi di dorare e brunire i prodotti.
Lo sapevate che Il malto diastatico contiene ancora degli enzimi che sono serviti alla scissione dell’amido. Questi enzimi, insieme alla farina, forniscono ulteriori zuccheri fermentabili al lievito. Il malto non diastatico è stato trattato ad alte temperature e gli enzimi che servono a spezzare le catene di glucosio sono stati disattivati.
LO SCIROPPO D’ACERO È il classico sciroppo da mettere sui pancake. È prodotto principalmente in Canada facendo bollire a lungo la linfa raccolta da alcune specie di acero come l’acero da zucchero, l’acero nero e l’acero rosso. Il succo viene fatto bollire per evaporare l’acqua e durante la lavorazione si producono molte sostanze aromatiche dovute alla reazione di Maillard, oltre che piccole quantità di glucosio e fruttosio dalla scissione del saccarosio. La linfa, un liquido chiaro e quasi senza sapore, ha un contenuto di saccarosio tra il 2% e il 5%. Poiché per legge lo sciroppo d’acero deve avere almeno il 66% di zuccheri, per ottenere 1 kg di sciroppo d’acero si deve partire da 15-30 l di linfa raccolta dall’albero. Questo è uno dei motivi per cui lo sciroppo d’acero è tanto costoso. TAB. 3
HFCS sta per High Fructose Corn Syrup (sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio), indicato in Italia come “sciroppo di glucosio-fruttosio”. È una miscela di glucosio e fruttosio. HFSC 42 contiene il 42% di fruttosio e viene principalmente usato dall’industria dolciaria nella produzione di prodotti da forno e dessert. HFCS 55 contiene il 55% di fruttosio ed è usato quasi esclusivamente per dolcificare bevande.
COMPOSIZIONE TIPICA IN % DEGLI ZUCCHERI IN VARI SCIROPPI ORDINATA SECONDO LA PERCENTUALE DI FRUTTOSIO CONTENUTO RISPETTO AGLI ZUCCHERI TOTALI La quantità d’acqua solitamente è tra il 20% e il 30% del peso totale e dipende dal produttore.
SCIROPPO
SACCAROSIO
GLUCOSIO
FRUTTOSIO
OLIGOSACCARIDI
glucosio DE 45
0
3
0
97
glucosio DE 67
0
39
0
61
sciroppo d’acero
98
1
1
0
Golden Syrup
35
33
32
0
zucchero invertito medio
50
25
25
0
HFCS 42
0
53
42
5
miele
1
40
49
10
zucchero invertito
0
50
50
0
HFCS 55
0
42
55
3
sciroppo d’agave
0
26
74
0
I CRISTALLI DI ZUCCHERO In pasticceria molto spesso si cerca di evitare la formazione dei cristalli di zucchero (intendendo il saccarosio), sfruttando solitamente l’aggiunta di altri ingredienti come zuccheri di altro tipo o grassi. Ma avete mai visto da vicino un bel cristallo di zucchero? È meraviglioso! E non è poi così difficile produrre bei cristalli a casa. Serve solo un po’ di pazienza. E a differenza di altri cristalli questi sono perfettamente commestibili, tanto è vero che in alcuni locali li servono per dolcificare tè e tisane. Proviamo a farli insieme. Ma quanto si scioglie lo zucchero? Quando aggiungete un cucchiaino di zucchero alla vostra tazza di tè – ammesso che non siate come me che il tè lo sorseggio senza zucchero – potrete notare che nel giro di pochi secondi si scioglie completamente. Inoltre, la velocità con cui lo zucchero si scioglie aumenta all’aumentare della temperatura dell’acqua: un cucchiaio di zucchero si scioglie più lentamente in un bicchiere di acqua fredda che in uno di acqua calda. Quello che non tutti sanno è che non solo la velocità, ma anche la quantità totale di zucchero che si può sciogliere in una determinata quantità d’acqua dipende dalla temperatura. I chimici parlano di solubilità intendendo la massima quantità di una certa sostanza che si può sciogliere
intendendo la massima quantità di una certa sostanza che si può sciogliere completamente in 100 g di acqua. Se mettete 100 g di acqua a 20 °C in un recipiente, e cominciate ad aggiungere zucchero, alle prime aggiunte questo si scioglierà molto velocemente poi, a mano a mano che aggiungete, sempre più lentamente, sino a quando non ne rimarrà una certa quantità indisciolta depositata sul fondo. Si dice che la soluzione a questo punto è satura perché non può più aumentare la concentrazione di zucchero disciolto. Lo zucchero si scioglie moltissimo in acqua, però in prossimità del punto di saturazione e a basse temperature serve molto tempo e un sacco di pazienza perché si sciolga. Per questo molte ricette di sciroppi chiedono di portare la soluzione all’ebollizione: per evitare di lasciare indisciolti dei cristallini troppo piccoli per essere visti a occhio nudo. Nella tabella potete vedere esattamente quanto zucchero si scioglie a una data temperatura in 100 g di acqua. Vi starete chiedendo cosa c’entra questo con i cristalli. Adesso ci arriviamo. Ci sono due modi per produrre cristalli di zucchero (o di sale o altre sostanze solubili in acqua): per raffreddamento e per evaporazione. TAB. 4
CRISTALLI PER RAFFREDDAMENTO Prendete 250 g di zucchero, pesati esattamente con una bilancia, e metteteli in un pentolino insieme a 100 g di acqua, anche questa pesata su una bilancia. Dalla tabella sappiamo che non tutti i 250 g di zucchero si potranno sciogliere a temperatura ambiente. Se scaldate dolcemente, però, tutto lo zucchero si scioglierà. Portate all’ebollizione. Quando tutto lo zucchero è sciolto e la soluzione è diventata limpida spegnete il fuoco. Trasferite lo sciroppo ottenuto, facendo attenzione a non scottarvi, in un recipiente di vetro o di plastica per uso alimentare provvisto di tappo. Chiudete. La soluzione pian piano si raffredda e ritorna a temperatura ambiente. A 20 °C – supponiamo che questa sia la temperatura della vostra cucina – avrete probabilmente ancora uno sciroppo limpido. A questa temperatura tuttavia l’acqua è in grado di sciogliere solamente 204 g di zucchero mentre in questo caso ce ne sono 250 g. Si dice che la soluzione è sovrassatura, cioè contiene più zucchero di quello che potrebbe a quella temperatura. Lo zucchero in eccesso, quei 46 g in più, cercheranno di “uscire” dalla soluzione formando dei cristalli sul fondo, sulle pareti del recipiente o sulla superficie a contatto con l’aria. Tuttavia la formazione di questi cristalli, inevitabile, è comunque molto lenta, specialmente se il recipiente è molto liscio. Per innescare la cristallizzazione è opportuno aggiungere allo sciroppo qualche piccolo cristallo già formato. Io utilizzo qualche cristallino di zucchero di canna
piccolo cristallo già formato. Io utilizzo qualche cristallino di zucchero di canna Demerara, perché a differenza di quello bianco da tavola solitamente viene venduto con una granulometria più grossa e si possono osservare i singoli cristallini. Aggiungete una decina di cristallini allo sciroppo, chiudete il recipiente, riponetelo in un luogo dove la temperatura non si alzi o si abbassi troppo e non muovetelo più. Ci vorranno un po’ di giorni per vedere i primi cristalli a occhio nudo, anche più di una settimana, ma pian piano i grammi di zucchero in eccesso rispetto alla soluzione satura si depositeranno sotto forma di cristalli. Quando non cresceranno più potrete aprire il barattolo, estrarli con una pinzetta e asciugarli con della carta. Se la soluzione viene raffreddata bruscamente è probabile che otteniate tanti piccoli cristalli opachi, mentre se il raffreddamento è molto lento vi sono più probabilità di ottenere pochi cristalli ma più belli, trasparenti e grandi. CRISTALLI PER EVAPORAZIONE Il secondo metodo utilizzabile per far crescere cristalli è quello per evaporazione. Partite sempre con 100 g di acqua ma questa volta aggiungete esattamente la quantità di zucchero indicata dalla tabella. Quindi se la temperatura nella vostra cucina è di 20 °C aggiungete 204 g di zucchero. Potete scaldare un po’ per aiutare il saccarosio a sciogliersi, sino a quando la soluzione non è limpida. Ora versate in un recipiente, come nel caso precedente, ma questa volta senza chiuderlo. Ricopritelo solamente con un velo di un tovagliolo di carta, giusto per evitare che polvere e insetti ci finiscano dentro, lasciando però la possibilità all’acqua di evaporare lentamente. Come prima, riponetelo in un posto dove la temperatura non vari troppo e aspettate pazientemente che l’acqua evapori. Badate che ci vorrà molto di più rispetto a quanto ci impiegherebbe dell’acqua senza zucchero, perché quest’ultimo trattiene l’acqua in soluzione. A mano a mano che l’acqua evapora la concentrazione aumenta e, come nel caso precedente, la soluzione diventa sovrassatura. Se 100 g di acqua possono sciogliere 204 g di zucchero, quando l’acqua è evaporata un po’ e ne sono presenti solo 90 g un po’ di zucchero dovrà necessariamente cristallizzare. Anche qui come prima aggiungere dei cristallini di Demerara può aiutare l’innesco della cristallizzazione. Oppure potete aggiungere dei cristallini che avrete prodotto in precedenza e farli crescere. IL METODO MISTO Occorrente: 200 g di acqua, 600 di zucchero bianco, alcuni cristallini di zucchero di canna Demerara, spiedini di legno. Seguiremo un procedimento intermedio tra i due allo scopo di velocizzare la produzione di cristalli. Useremo molto più zucchero di quello che 200 g di acqua possono sciogliere a temperatura ambiente, ma lasceremo il recipiente aperto per far continuare a crescere i cristalli anche dopo il raggiungimento della saturazione.
1 _ Sciogliete 600 g di zucchero in 200 g di acqua in un pentolino. Portate a ebollizione mescolando con un cucchiaio sino a quando la soluzione non diverrà limpida. A questo punto spegnete.
2 _ Prendete uno spiedino di legno, sporcate un po’ la sua superficie con dello sciroppo, dalla punta sino a qualche centimetro più in su, a seconda delle dimensioni del recipiente che userete. Ripulite con della carta da cucina per lasciare solo un velo di sciroppo sul legno e passatelo poi in un po’ di zucchero di granulometria non troppo piccola, come per esempio il Demerara. Lasciate asciugare.
3 _ Nel frattempo versate lo sciroppo caldo in un recipiente alto a sufficienza per contenere gli spiedini di legno con ancorati i piccoli cristallini da far crescere. Quando lo sciroppo non sarà più bollente potrete immergere lo spiedino. Se riuscite a bloccare con una molletta lo spiedino in modo che la punta sia a qualche centimetro dal fondo è meglio. Nel giro di qualche giorno i legnetti si ricopriranno di cristalli di zucchero. Potete servirli per dolcificare tè o caffè, come se fossero cucchiaini, con lo zucchero attaccato.
LO ZUCCHERO INVERTITO Nella maggior parte delle ricette di pasticceria sviluppate prima della disponibilità commerciale di glucosio e fruttosio, lo zucchero invertito sfruttava la presenza di uno o dell’altro zucchero. In linea di principio le ricette potrebbero essere riformulate utilizzando solamente il monosaccaride desiderato, o una miscela di fruttosio e glucosio non necessariamente in parti uguali. Nei casi in cui lo zucchero invertito è insostituibile esiste però una procedura alternativa molto più semplice e veloce. Visto che lo zucchero invertito è composto da glucosio e fruttosio, e che ora entrambi si trovano facilmente in commercio, perché semplicemente non combinarli nella giusta proporzione? Il fruttosio lo potete acquistare in qualsiasi supermercato, mentre il glucosio – non lo “sciroppo di glucosio”, come abbiamo già avuto modo di spiegare – oltre che nei negozi specializzati in ingredienti per pasticceria lo potete trovare anche in negozi di articoli per il fitness. La percentuale di acqua nello zucchero invertito è solitamente tra il 20 e il 30%. Prima però di assemblare il nostro zucchero invertito dobbiamo dare un’occhiata all’etichetta del barattolo di glucosio acquistato:
Se 100 g di prodotto contengono 100 g di carboidrati allora avete del glucosio anidro. Se invece sono presenti 91 g di carboidrati accanto a una molecola di glucosio c’è anche una molecola di acqua (il glucosio monoidrato). Voi non la vedete, e il prodotto è perfettamente asciutto, ma in quei cristallini c’è dell’acqua. 100 g di glucosio monoidrato contengono 91 g di glucosio e 9 g di acqua. A questo punto possiamo fare il calcolo degli ingredienti necessari per lo zucchero invertito. Se per esempio volessimo 100 g di zucchero invertito con il 72% di zuccheri dovremmo sciogliere 36 g di fruttosio e 40 g di glucosio monoidrato in 24 g di acqua. Ed ecco subito pronto il nostro zucchero invertito, di cui sappiamo esattamente la composizione, a differenza di quello che accade a livello casalingo se tentiamo di produrlo con il vecchio metodo usando acido citrico e scaldando. Per ottenere un liquido limpido è necessario scaldare un po’. A livello professionale è anche disponibile lo zucchero parzialmente invertito. In questo sciroppo il saccarosio rappresenta il 50% degli zuccheri presenti, mentre il glucosio e il fruttosio sono, ognuno, al 25%. Anche in questo caso la percentuale di acqua può variare come nel caso precedente.
RICETTA
Gelée al lampone Perché questa ricetta? Per illustrare la capacità del glucosio o dello sciroppo di glucosio di prevenire la cristallizzazione e rendere più morbidi prodotti con un alto contenuto di saccarosio.
La produzione casalinga di caramelle di tutti i tipi era molto in voga tra l’Ottocento e il Novecento. Ora è un’abitudine quasi scomparsa, ma produrre caramelle non è difficile, ed è anche divertente. Potete sostituire i lamponi con altri frutti o con succhi, a patto di aggiustare la quantità di zucchero. Ingredienti – 125 g di lamponi (una vaschetta di frutti freschi) – 90 g di zucchero – 10 g di glucosio (o sciroppo di glucosio) – 4 fogli di gelatina (colla di pesce)
La procedura
1 _ Mettete la gelatina in ammollo in acqua fredda per 5-10 minuti: in questa fase assorbirà acqua allentando i legami tra le fibre di collagene di cui è composta.
2 _ Mettete i lamponi in un pentolino. Aggiungete lo zucchero e il glucosio, che renderà meno dolce e più morbida la caramella.
3 _ Accendete il fuoco e portate a ebollizione, mescolando ogni tanto. Lasciate bollire sino a quando con un termometro non misurerete 106 °C. Servirà qualche minuto per far evaporare parte dell’acqua e concentrare lo zucchero. Spegnete il fuoco e lasciate raffreddare. Quando la miscela non sarà più bollente aggiungete, uno alla volta, i fogli di gelatina, mescolando dopo ogni aggiunta per scioglierli completamente. Le molecole di collagene ora si disperdono nel liquido.
4 _ Versate il liquido in un contenitore ricoperto internamente di carta da forno, in modo che abbia uno spessore di 1-2 cm. Coprite e fate raffreddare a temperatura ambiente. La gelatina sarà tanto più solida quanto più lento è il raffreddamento, quindi è meglio non metterla in frigorifero immediatamente. Una volta portata a temperatura ambiente mettetela in frigorifero per una notte.
5 _ Una volta gelificata, la gelatina può restare in frigorifero per qualche giorno. Quando desiderate utilizzarla, estraetela dal contenitore, tagliatela a cubetti o striscioline e passate i pezzi nello zucchero semolato per ricoprirli *. Le gelatine sono pronte per essere consumate. * Lo zucchero superficiale estrae l’acqua dalle gelatine per osmosi, quindi non è possibile conservare le gelée ricoperte poiché si rammollirebbero in poche ore. Per ovviare a questo problema e stabilizzarle, le gelatine commerciali utilizzano anche altri ingredienti, come la pectina.
RICETTA
Caramello e salsa al caramello Perché questa ricetta? Per illustrare la caramellizzazione del saccarosio quando viene riscaldato a temperature superiori a 160 °C.
Attenzione: con lo zucchero fuso ci si può far molto male. Io lavoro sempre con occhiali di protezione quando ho a che fare con lo zucchero fuso. Uno schizzo di caramello bollente sulla pelle o peggio ancora negli occhi vi farà molto ma molto male, quindi state bene attenti quando lo maneggiate. E che non vi venga in mente di toccare il caramello fuso con le dita per sentire la sua temperatura oppure, peggio, di leccare il cucchiaio rovente che avete appena usato per mescolarlo. Quando lavorate con il caramello tenete sempre a portata di mano una bacinella con ghiaccio e acqua. Se vi capita di scottarvi o ustionarvi le dita immergetele immediatamente nella bacinella. Se vi ustionate altre parti del corpo lavate subito la parte lesa sotto abbondante acqua fredda, e cercate aiuto per valutare la gravità delle bruciature. Detto questo, per preparare il caramello vi sono tre metodi: asciutto, bagnato e al microonde. Vediamoli tutti.
METODO ASCIUTTO È il metodo più rischioso perché si potrebbe riscaldare lo zucchero in modo non uniforme e farlo bruciare. Ma se volete cimentarvi… Ingredienti – 125 g di zucchero – 125 ml di panna
La procedura
1 _ Mettete lo zucchero in una padella e scaldate a fuoco medio-alto. Mescolate con una spatola in grado di reggere le alte temperature (di silicone per esempio, o di legno). Non appena lo zucchero inizia a liquefarsi riducete il fuoco al minimo.
2 _ Con la spatola mescolate per miscelare lo zucchero già fuso e quello ancora solido, così da evitare di bruciarlo nelle zone più calde della padella. Più lo terrete sul fuoco e più si caramellizzerà, diventando sempre più scuro. Non essendo presente acqua non c’è alcun bisogno di farla evaporare.
3 _ Per ottenere la salsa al caramello, quando lo zucchero è completamente fuso e di colore scuro aggiungete 125 ml di panna, poco alla volta, continuando a mescolare per emulsionare bene, facendo attenzione a eventuali schizzi.
METODO BAGNATO Ingredienti – 200 g di zucchero – 100 g di acqua – 1 cucchiaino di succo di limone filtrato – 125 ml di panna
La procedura
1 _ Prendete un pentolino spesso e pesante, così che il calore si diffonda in modo uniforme. Il pentolino deve essere abbastanza alto, riempito per non più di un terzo, in modo da evitare che schizzi di zucchero fuso possano uscire. Aggiungete lo zucchero, l’acqua e il succo di limone. La consistenza deve essere simile a quella della sabbia bagnata. La quantità di acqua comunque non è molto importante perché poi evaporerà: serve solo per sciogliere inizialmente parte dello zucchero e iniziare a scaldarlo senza il rischio di bruciarlo. Cominciate a scaldare a fuoco medio-alto.
2 _ Quando l’acqua inizia a bollire dovete fare attenzione a non muovere o mescolare la miscela, altrimenti potreste mandare dei piccoli spruzzi sulle pareti del pentolino che rischierebbero di bruciare, o peggio fare cristallizzare immediatamente la soluzione sovrassatura. Il modo classico per ridurre il rischio di cristallizzazione è quello di avere a portata di mano un pennello da pasticceria, intingerlo all’occorrenza in acqua limpida e pennellare verso il basso ogni schizzo cristallizzato finito sulle pareti sopra lo sciroppo che sta bollendo. Fate attenzione a non intingere il pennello nello zucchero e ripulitelo sempre dopo ogni operazione. Se per caso lo sciroppo si cristallizza niente paura: aggiungete acqua, risciogliete e iniziate da capo.
3 _ Lo zucchero, avendo poca acqua a disposizione per rimanere sciolto, mentre continua a cuocere ha la tendenza, se disturbato anche minimamente, a formare cristalli anche nella soluzione e non solo sulle pareti. Il modo migliore per evitare una cristallizzazione indesiderata è aggiungere un altro tipo di zucchero con cui il saccarosio si può miscelare senza problemi e che può raggiungere le alte temperature, per esempio lo sciroppo di glucosio o lo stesso glucosio. È sufficiente aggiungere 1 cucchiaio di glucosio o sciroppo di glucosio. In alternativa, se non li avete, potete anche aggiungere, come si faceva una volta quando non erano ancora disponibili commercialmente il glucosio e i suoi sciroppi, un po’ di succo di limone oppure una punta di cucchiaino di cremor di tartaro. L’acidità scinde un po’ di saccarosio in glucosio e fruttosio riducendo il rischio di cristallizzazione.
4 _ A 160 °C l’acqua è quasi completamente evaporata e a 170 °C lo zucchero fuso comincia a caramellizzare cambiando colore. Ora non c’è più il rischio di una cristallizzazione improvvisa e mescolare non è più un problema. Tuttavia è meglio non immergere cucchiai o altri utensili nello zucchero fuso. Potete invece gentilmente roteare il pentolino per mescolare.
5 _ Se a questo punto volete preparare un croccante, predisponete due teglie di alluminio, carta da forno e proseguite con la ricetta apposita descritta più avanti. Se
invece volete preparare una salsa al caramello, da aggiungere per esempio a una panna cotta o ad altri dessert, procedete così. Continuate sino a quando il caramello non avrà assunto un colore scuro, oltre i 170 °C. Avete sempre gli occhiali di protezione addosso, vero? Roteate il pentolino per mescolare lo zucchero fuso. Continuerà a cuocere e diventare più scuro.
6 _ Quando il caramello è scuro non vi distraete un attimo e assolutamente non lasciate il pentolino sul fuoco per rispondere al telefono, perché rischiate di bruciare tutto e di combinare anche disastri peggiori. Versato su marmo o carta da forno e lasciato raffreddare diventa duro e fragile come il vetro.
7 _ Quando è quasi nero, ma non sta ancora fumando, togliete dal fuoco e aggiungete 125 ml di panna tutta in una volta. C’è chi scalda la panna prima di aggiungerla ma è sufficiente che sia a temperatura ambiente, visto che comunque verrà in contatto con lo zucchero fuso tra i 170 °C e i 180 °C.
8 _ Dopo aver aggiunto la panna rimettete il pentolino sul fuoco a bollire per qualche minuto, giusto il tempo per emulsionare bene la panna ed eventualmente risciogliere quei cristallini di zucchero che si siano formati. Attenzione a non tenerlo troppo sul fuoco, altrimenti si romperà l’emulsione e il grasso della panna si separerà. Se volete una salsa più liquida potete a questo punto aggiungere un poco di latte.
9 _ Aggiungendo la panna avete implicitamente aggiunto acqua. Se aggiungete solo quella ottenete il caramello semplice. Per 200 g di zucchero aggiungete 50 g di acqua. Mescolate sino a ottenere una consistenza omogenea. Aggiustate l’acqua aggiunta per ottenere la densità e viscosità desiderata.
10 _ Il sapore del caramello ottenuto è diverso a seconda della temperatura massima a cui è stato portato lo zucchero.
Questo perché i prodotti di decomposizione del saccarosio sono diversi e hanno aromi e sapori diversi. Potete combinare due caramelli ottenuti a temperature diverse, una più bassa e quindi più dolce e l’altra più alta, meno dolce ma più intensa, per ottenere un sapore più complesso. La salsa al caramello è pronta per guarnire un gelato o per essere usata su un budino o una panna cotta. Se vi piace potete anche aromatizzarla con un po’ di estratto di vaniglia.
AL MICROONDE È in assoluto il metodo più semplice e sicuro. L’unica difficoltà risiede nel fatto che, poiché i forni a microonde hanno potenza diversa, dovrete trovare i tempi giusti per il vostro. Ingredienti – 100 g di zucchero – 20 g di sciroppo di glucosio – 10 g di acqua
La procedura
1 _ Mettete tutti gli ingredienti in un recipiente di Pyrex o comunque adatto al microonde e resistente alle alte temperature.
2 _ Lo sciroppo di glucosio aiuterà a non cristallizzare prematuramente lo zucchero fuso e, con l’acqua che contiene, assorbirà più velocemente il calore nel microonde.
3 _ Mescolate per amalgamare i vari ingredienti. Mettete nel microonde a massima potenza per 3-6 minuti, a seconda della potenza del vostro apparecchio: più è alta la potenza e meno minuti servono. Io ho un microonde da 650 Watt e lo accendo per 4 minuti.
4 _ Riscaldate lo zucchero fino a quando non avrà assunto un colore ambrato intenso. Il tempo che impiegherà a brunire dipende anche dalla composizione esatta del tipo di sciroppo di glucosio che utilizzate. A questo punto tiratelo fuori dal microonde e lasciate riposare per qualche minuto. Essendo ancora caldissimo continuerà a cuocere e a diventare più scuro. Aggiungete acqua quando è ancora caldo per ottenere la consistenza desiderata.
RICETTA
Croccante alle mandorle Perché questa ricetta? Per illustrare la capacità dello zucchero fuso di trasformarsi in un materiale vetroso che può intrappolare altri alimenti.
Adoro la frutta secca: nocciole, mandorle, noci, pistacchi, e quando alle fiere paesane è presente un venditore ambulante che vende croccanti devo sempre resistere alla tentazione di comprarne uno per tipo, senza dimenticare poi anche quelli al sesamo e alle arachidi, con gravi ripercussioni sul mio giro vita. Gli ingredienti sono talmente semplici, zucchero e semi tostati, e l’accostamento così delizioso che non stupisce il fatto che preparazioni di questo tipo risalgano addirittura al Medioevo, quando lo zucchero arrivò per la prima volta in Europa portato dagli Arabi. The forme of cury, per esempio, il primo manoscritto di cucina in lingua inglese arcaica redatto attorno al 1390 dai cuochi di re Riccardo II, tra le più di 200 ricette riporta una sorta di croccante preparato con zucchero, miele, pinoli e polvere di zenzero. Ora noi lo catalogheremmo come un dolcetto ma, con uso tipicamente medievale, era servito ai banchetti per accompagnare pesce fritto o carne. In un libro dedicato alla scienza della pasticceria non posso non citare, facendo un bel balzo temporale, Pellegrino Artusi e il suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene che alla ricetta 617 insegna come fare un semplicissimo croccante alle mandorle.
Ricetta storica di Pellegrino Artusi Mandorle dolci, grammi 120 Zucchero in polvere, grammi 100 Sbucciate le mandorle, distaccatene i lobi, cioè le due parti nelle quali sono naturalmente congiunte, e tagliate ognuno dei lobi in filetti o per il lungo o per traverso come più vi piace. Ponete queste mandorle così tagliate al fuoco ed asciugatele fino al punto di far loro prendere il colore gialliccio, senza però arrostirle. Frattanto ponete lo zucchero al fuoco in una cazzaruola possibilmente non istagnata e quando sarà perfettamente liquefatto, versatevi entro le mandorle ben calde, e mescolate. Qui avvertite di gettare una palettata di cenere sulle bragi, onde il croccante non vi prenda l’amaro, passando di cottura, il punto preciso della quale si conosce dal color cannella che acquista il croccante. Allora versatelo a poco per volta in uno stampo qualunque, unto prima con burro od olio, e pigiandolo con un limone contro le pareti, distendetelo sottile quanto più potete. Sformatelo diaccio e se ciò vi riescisse difficile, immergete lo stampo nell’acqua bollente. Si usa anche seccar le mandorle al sole, tritarle fini colla lunetta, unendovi un pezzo di burro quando sono nello zucchero.
Artusi partiva dalle mandorle con la buccia e non ancora tostate. Useremo le sue stesse dosi ma ci serviremo di mandorle già sbucciate, acquistabili in un qualsiasi supermercato o negozio di alimentari. Se avete delle mandorle ancora con la buccia potete sbollentarle per qualche minuto, scolarle e sbucciarle. La procedura
1 _ Mettete le mandorle spellate per 5-10 minuti in un forno a 150 °C senza che si scuriscano. La tostatura potreste anche farla in una padella antiaderente ma rischiate di bruciarle.
2 _ Io preferisco i croccanti con un misto di mandorle intere e tritate, quindi taglio grossolanamente metà delle mandorle con un coltello.
Preparate una teglia con della carta da forno.
3 _ Seguite ora la preparazione del caramello sino ad arrivare a 170 °C. Potete anche utilizzare il metodo a secco se desiderate. Non è necessario il termometro, vi potete regolare con il colore: quando lo zucchero sarà biondo aggiungete tutte le mandorle.
4 _ Mescolate con una spatola di silicone. Quando aggiungete le mandorle la temperatura del caramello scenderà bruscamente, facendolo diventare più solido. Continuate a scaldare, mescolando, sino a quando il caramello non ritorna fluido. Spegnete il fuoco e versate sulla teglia, facendo molta attenzione a non scottarvi. Stendete e appiattite la miscela usando la spatola, dove Artusi suggeriva di usare un limone, ovviamente tagliato a metà. Prima dell’avvento della carta da forno si era soliti versare il caramello su una lastra di marmo eventualmente unta con olio o burro per poi facilitare il distacco del croccante.
5 _ Tagliate il croccante quando è tiepido nelle forme che desiderate, classicamente a quadrotti o a rombi.
Potete ridurre la quantitĂ di zucchero rispetto alle mandorle, e provare con nocciole, pistacchi o altro. Attenzione ai denti quando lo mangiate! Se volete un croccante piĂš morbido potete sostituire una parte dello zucchero, dal 15 al 25%, con dello sciroppo di glucosio oppure con del miele poco aromatico, esattamente come nella ricetta del 1380 dei cuochi di re Riccardo II.
II LE UOVA LE UOVA SONO SICURAMENTE L’INGREDIENTE PIÙ VERSATILE CHE ESISTA IN PASTICCERIA. INTERE OPPURE NELLE LORO COMPONENTI SEPARATE, SVOLGONO UNA QUANTITÀ ENORME DI FUNZIONI DIVERSE, A SECONDA DELLA RICETTA. SERVONO A LEGARE GLI IMPASTI, A DARE CORPO ALLE CREME, A EMULSIONARE GRASSI E ACQUA, A INCORPORARE ARIA PER LA LIEVITAZIONE, A FORNIRE COLORE E SAPORE ALLE PREPARAZIONI A CUI SONO AGGIUNTE E A TANTE ALTRE COSE. POSSIAMO DIRE CON SICUREZZA CHE LA PASTICCERIA, PER COME LA CONOSCIAMO OGGI, NON ESISTEREBBE SENZA UOVA. IMPARIAMO QUINDI A CONOSCERNE LE PROPRIETÀ.
CONOSCI LE TUE UOVA Quando in pasticceria si parla di uova si intendono quasi esclusivamente le uova di gallina. Altri tipi di uova, come quelle di anatra, di quaglia o di struzzo, sono più che altro delle curiosità e non posseggono proprietà molto diverse da quelle delle uova di gallina. Probabilmente avrete notato che su ogni singolo uovo è stampigliato un codice. È una sorta di “carta di identità” di quell’uovo che fornisce al consumatore alcune informazioni su come e dove è stato prodotto. FIG. 2
CODICE IDENTIFICATIVO DELLE UOVA
La cifra iniziale indica il tipo di allevamento, le due lettere successive indicano il Paese di provenienza delle uova. L’Italia è autosufficiente per quel che riguarda la produzione e quindi è rarissimo trovare uova che non abbiano stampigliata la sigla IT per Italia. Seguono poi alcune informazioni che servono per
per Italia. Seguono poi alcune informazioni che servono per poter risalire, volendo, al Comune, alla Provincia e all’allevamento di produzione. La tipologia di allevamento − biologico, a terra e così via − non ha grande influenza sulle proprietà culinarie delle uova. Molto più importante invece è la loro freschezza, che potete verificare dalla data di scadenza. Cercate di acquistare sempre uova molto fresche perché alcune proprietà, come la capacità di formare una schiuma stabile, diminuiscono con il passare del tempo. Inoltre, ricordate che la data di scadenza, o di deposizione, è riportata solo sulla confezione e non sulle singole uova. Una volta deposte, le uova vengono esaminate una a una per scovare incrinature del guscio, macchie di sangue, doppi tuorli o altri difetti. Quelle che acquistiamo normalmente hanno superato questo esame e sono state classificate, secondo la legislazione Europea, come uova di categoria A, o “uova fresche”. Queste uova non devono aver subito processi di conservazione, come per esempio la refrigerazione. Se sono vendute entro sette giorni dalla produzione è possibile apporre la dicitura “extra”. Uova che presentano difetti invece sono classificate con le lettere B (uova di seconda qualità o conservate) o C (uova declassate destinate all’industria alimentare) e a seconda del tipo di difetto possono essere scartate o destinate alla trasformazione. Le uova, prima di essere imballate, sono poi classificate in base alle dimensioni. FIG. 3
CLASSIFICAZIONE DELLE UOVA
Le ricette casalinghe solitamente indicano il numero di uova. È una tradizione che risale a quando nelle cucine non era abitudine tenere una bilancia. Tuttavia, se una ricetta prevede 100 g di zucchero, 100 g di farina e 2 uova non meglio specificate, capite bene che se usiamo 2 uova piccole peseranno meno di 106 g, mentre se ne usiamo 2 grandi queste peseranno più di 126 g: una differenza del 20% rispetto al peso dello zucchero! E questa differenza può trasformare una ricetta ben bilanciata in un orribile fallimento. Per alcune ricette è sicuramente meglio pesare le uova, o i tuorli e gli albumi, con una bilancia digitale e scalare gli altri ingredienti in base al peso ottenuto.
Lo sapevate che Le uova sono vendute non refrigerate per evitare che durante il trasporto a casa, essendo stata interrotta la catena del freddo, lo sbalzo di temperatura formi umidità sul guscio che potrebbe favorire una proliferazione batterica. Non appena arrivati a casa riponete le uova in frigorifero e non toglietele più sino al loro consumo.
Dove riporre le uova? Tutti i frigoriferi hanno uno speciale alloggiamento, solitamente posizionato nella porta, per riporre le uova singolarmente. Quello, purtroppo, è il posto meno indicato dove conservarle. Ogni volta che aprite il frigorifero, anche per pochi secondi, la temperatura della porta aumenta molto più velocemente che non quella in fondo ai ripiani, e questo riduce il tempo di conservazione delle uova. In più il continuo movimento, anche brusco, può causare delle microfratture sul guscio. Il posto migliore per conservare le uova è all’interno della loro confezione di cartone (che ha il vantaggio di assorbire l’umidità) o plastica, sopra uno dei ripiani interni del frigorifero. In questa maniera non verranno continuamente agitate, rimarranno molto più isolate termicamente e infine potrete sempre leggere la data di scadenza indicata sulla confezione, senza rischiare di utilizzare uova troppo vecchie o, peggio, scadute.
COME È FATTO UN UOVO L’uovo è senza dubbio un ingrediente complesso. Possiede una struttura interna con varie componenti, ognuna con la sua composizione chimica, le sue proprietà e le sue funzioni. Iniziamo a guardarlo da vicino. In figura 4 possiamo osservare la “radiografia” di un uovo. FIG. 4
“RADIOGRAFIA” DI UN UOVO
Nella tabella 5 potete trovare le percentuali in peso, rispetto al totale, delle tre componenti principali di un uovo: il guscio, l’albume e il tuorlo. Vi può tornare utile se avete in casa dei cartoni di albumi o tuorli pastorizzati. Se la vostra ricetta
prevede 10 albumi di uova medie potete calcolare facilmente il peso richiesto e versare dal cartone la quantità esatta. TAB. 5
COMPONENTI
PERCENTUALE MEDIA IN PESO
guscio
9%-11%
albume
60%-63%
tuorlo
28%-29%
IL GUSCIO Il guscio esterno è formato principalmente da
carbonato di calcio, la stessa sostanza di cui è formato il marmo. Il colore può essere bianco, rosato o più bruno a seconda della razza della gallina ovaiola e non ha alcuna relazione con le proprietà nutrizionali o gastronomiche del contenuto. Alcune galline addirittura producono gusci con toni verdi e azzurri: molto belli dal punto di vista estetico, ma non aggiungono nulla dal punto di vista gastronomico. Il guscio è poroso ed è per questo motivo che con l’andar del tempo l’acqua contenuta evapora, anche se lentamente. La porosità del guscio permette anche agli odori forti presenti nel vostro frigorifero di essere assorbiti (vi siete ricordati di chiudere bene la confezione di gorgonzola?). LE CALAZE Dalle due estremità dell’uovo partono due
“cordicelle” biancastre attorcigliate chiamate calaze, costituite da albume molto denso, che arrivano fino al tuorlo e lo tengono fermo. Con il passare del tempo, le due calaze si indeboliscono perdendo consistenza, come il resto dell’albume. Se l’uovo è molto fresco è opportuno eliminare le due calaze dall’albume nelle preparazioni in cui la loro consistenza potrebbe sentirsi.
LA CAMERA D’ARIA Tra il guscio e l’albume vi sono due sottili
membrane che impediscono ai batteri di entrare nell’uovo. Il raffreddamento successivo alla deposizione provoca una contrazione della membrana più interna formando così una camera d’aria alla base dell’uovo. Con l’invecchiamento la piccola sacca d’aria diventa sempre più grande e questo fatto è alla base del vecchio metodo di riconoscimento della freschezza di un uovo. Se immergete un uovo in acqua, più aria è contenuta nella sacca più l’uovo avrà la tendenza a sollevarsi, fino a galleggiare se è particolarmente vecchio. FIG. 5
TEST DI FRESCHEZZA DELLE UOVA
L’ALBUME, O BIANCO D’UOVO L’albume è praticamente privo di
grassi ed è costituito quasi unicamente da acqua (88%) e proteine (10%), con tracce di carboidrati e minerali. Se rompete un uovo molto fresco vi accorgerete che l’albume è in realtà composto da strati diversi a viscosità alternata: uno strato più liquido seguito da uno più viscoso e sodo e così via
andando dal guscio al tuorlo. Con il passare dei giorni la parte soda diventa meno viscosa ed è per questo motivo che è più facile separare l’albume dal tuorlo quando l’uovo è fresco. IL TUORLO, O ROSSO D’UOVO Il tuorlo è costituito da acqua
(49%), proteine (16%), vitamine, minerali e molti grassi (32%-35%). Questi sono principalmente trigliceridi, fosfolipidi e colesterolo con una percentuale importante di grassi saturi (il 37% saturi, il 47% monoinsaturi e il 16% polinsaturi). Così come per il colore del guscio anche quello del tuorlo non è indicativo né della qualità gastronomica dell’uovo né delle sue proprietà nutrizionali. Dal giallo pallido all’arancio intenso, il colore del tuorlo è unicamente determinato dall’alimentazione delle galline: più è ricca di carotenoidi e più il tuorlo ha una colorazione intensa. Esistono mangimi appositi per arricchire i toni arancioni e rossi del tuorlo, una qualità particolarmente richiesta per alcune preparazioni (la pasta all’uovo, per esempio). Una delle caratteristiche del tuorlo di maggior interesse in pasticceria è la presenza di una sostanza chiamata lecitina: è un emulsionante, cioè permette di “legare insieme”, o emulsionare, acqua e grassi in modo uniforme, quindi svolge una funzione indispensabile in impasti e pastelle nei quali un liquido acquoso debba coesistere con un grasso senza separarsi. Il tuorlo ne contiene circa il 10% in peso. Pensatela come una molecola con due capi: mentre un capo è attratto dai grassi, l’altro ha una forte affinità per l’acqua. Nella maionese il tuorlo agisce da emulsionante, oltre che fornire il sapore: sbattendo insieme acqua e olio senza la presenza di un emulsionante non è possibile ottenere una salsa cremosa stabile. Le lecitine si trovano anche in molti vegetali: quella in vendita in barattolo al supermercato solitamente è estratta dalla soia.
Lo sapevate che
È più facile separare il tuorlo dall’albume quando l’uovo è freddo, appena tolto dal frigorifero. TAB. 6
COMPONENTI DELL’UOVO
COMPOSIZIONE APPROSSIMATA IN PERCENTUALE acqua
proteine
grassi
carboidrati
minerali
uovo intero
75%
12,8-13,4%
10,5-11,8%
0,3-1,0%
0,8-1,0%
guscio
1,6%
6,2-6,4%
0,03%
tracce
91-92%
albume
87,6%
9,7-10,6%
0,03%
0,4-0,9%
0,5-0,6%
tuorlo
48,7%
15,7-16,6%
31,8-35,5%
0,2-1%
1,1%
L’angolo chimico: il colore del tuorlo cotto La colorazione grigio-verde che assume il tuorlo esternamente, dopo essere stato cotto nell’uovo intero, è dovuta essenzialmente al solfuro di ferro ed è innocua. Il tuorlo contiene ferro, mentre dall’albume durante la cottura si libera lo zolfo sotto forma di acido solfidrico, H2S, dal tipico odore di uova andate a male. All’interfaccia tra albume e tuorlo, zolfo e ferro si incontrano per formare il solfuro di ferro. Poiché il pH alcalino aiuta la liberazione dello zolfo, più è vecchio l’uovo, più velocemente si forma la pellicola verdastra.
L’UOVO IN CUCINA La funzione principale dell’uovo, specialmente quando lo si aggiunge nell’impasto di prodotti da forno, è quella di fornire struttura. Con la cottura, le proteine dell’uovo coagulano e formano un’impalcatura, che si aggiunge a quella costituita dalle proteine della farina, quando è presente, capace di mantenere “in piedi” il resto degli ingredienti: amido, zuccheri, acqua e altro. Anche nei biscotti la funzione principale dell’uovo è quella di legare insieme gli ingredienti. Le proteine dell’uovo scaldate in presenza di acqua alla giusta temperatura gelificano, formando una sorta di struttura semisolida; è una struttura della materia che gli scienziati chiamano gel. Il termine gelatina è specifico per quel gel formato dalla cosiddetta colla di pesce, e cioè dal collagene: un’altra proteina di origine animale che tradizionalmente si usa per gelificare liquidi e ampiamente utilizzata in pasticceria per preparare bavaresi, panne cotte e altri dolci al cucchiaio. L’uovo poi, quando è sbattuto sufficientemente a lungo, forma una schiuma abbastanza stabile che incorpora e intrappola, almeno temporaneamente, moltissima aria. L’aria, come vedremo, è un ingrediente fondamentale in molte ricette di pasticceria, ma non possiamo aggiungerla come se fosse zucchero o farina: la dobbiamo “intrappolare”. Le proteine dell’uovo sono adattissime a intrappolare l’aria per poterla aggiungere al resto degli ingredienti sino a quando, durante la cottura, la struttura non si stabilizza definitivamente. Spennellato su alcuni prodotti da forno il tuorlo, da solo o con l’albume, fornisce una sorta di patina translucida. Aggiunto ai sorbetti l’albume evita la formazione di cristalli di ghiaccio e mantiene la cremosità (è consigliabile usare albumi pastorizzati per evitare il rischio di salmonellosi). L’uovo a volte funge da semplice “colla alimentare”. Pensate a quando si prepara una pastella a base d’uovo per ricoprire un prodotto e poi, prima di friggerlo, lo si passa nella farina o nel
prodotto e poi, prima di friggerlo, lo si passa nella farina o nel pangrattato o altro. Anche in un polpettone l’uovo funge essenzialmente da collante.
Lo sapevate che Le proteine dell’uovo hanno un profilo nutrizionale ottimale, contenendo tutti gli amminoacidi essenziali di cui abbiamo bisogno. L’angolo chimico: denaturazione e coagulazione DENATURAZIONE Le proteine sono molecole composte da moltissimi amminoacidi legati uno in fila all’altro a formare una struttura complessa. Questa sorta di “filo molecolare” (struttura primaria) si ripiega e raggomitola a seconda della sequenza di amminoacidi, arrivando a costruire la forma caratteristica di ogni proteina. Per poter svolgere la loro funzione fisiologica, le proteine devono mantenere quella particolare forma. Molte proteine dell’uovo si dicono globulari perché assomigliano a un gomitolo. Altre, come le proteine che costituiscono i muscoli, si dicono fibrose perché formano lunghissime fibre lineari. La particolare forma che assumono le proteine viene indicata come struttura terziaria. Alcuni agenti esterni possono alterare la struttura “srotolando” in parte o totalmente la proteina. Questo processo, chiamato denaturazione, può essere causato dal riscaldamento, dalle variazioni di pH, dalla presenza di ioni, di alcol, per agitazione meccanica o per altri meccanismi ancora. Ogni volta che sbattiamo un albume (agitazione meccanica) o cuociamo una bistecca (aumento di temperatura) stiamo denaturando le proteine, e spesso ne vediamo l’effetto anche attraverso un cambiamento di colore. Quando la denaturazione di una proteina avviene per effetto della temperatura, si è soliti riportare un valore preciso al grado. Tuttavia si deve ricordare che la denaturazione non è un cambiamento repentino come, per esempio, la trasformazione del ghiaccio in acqua. La temperatura di denaturazione indicata è spesso quella per cui la metà delle proteine si sono denaturate. La denaturazione può iniziare alcuni gradi prima e finire alcuni gradi dopo. COAGULAZIONE Una volta denaturata la proteina, specialmente se è in ambiente acquoso, può incontrarne un’altra denaturata e legarsi a essa. Quando un numero sufficiente di proteine denaturate si aggrega abbiamo il fenomeno della coagulazione. Nell’uovo le proteine coagulate formano un reticolo tridimensionale che intrappola e immobilizza l’acqua formando una struttura semisolida chiamata gel. Anche la coagulazione, come la denaturazione, è
influenzata da molti fattori. Più è alta la temperatura, più è probabile che avvengano questi incontri. Non è tecnicamente corretto parlare di “temperatura di coagulazione”, perché una volta denaturate le proteine possono coagulare se la concentrazione è sufficientemente elevata. Tuttavia la velocità con cui lo fanno varia moltissimo con la temperatura: aumentandola di un grado la velocità di coagulazione dell’albume aumenta di quasi 200 volte. La coagulazione dipende dalla combinazione di tempi, temperature e concentrazioni. È invece corretto parlare di temperature minime di coagulazione, anche se spesso si omette il “minime”. In ogni caso quando ci si riferisce a temperature di coagulazione prendetele come indicazioni di massima e non come definite in modo preciso. Se le proteine sono riscaldate a temperature troppo elevate, o per troppo tempo, abbiamo il fenomeno della sovracoagulazione, ben visibile quando cuociamo troppo le uova strapazzate: la coagulazione è talmente elevata che l’acqua precedentemente intrappolata nel gel viene “strizzata” fuori dal reticolo con la formazione di grumi. FIG. 6
L’ALBUME Le uova sono probabilmente l’unico alimento da cui si possono separare due distinti ingredienti con alcune proprietà
simili ma tante altre diverse. L’albume, con le sue proprietà, potrebbe entrare a buon diritto nella cassetta degli attrezzi di un prestigiatore. Pensateci: si può trasformare da semiliquido a solido, da trasparente a bianco opaco, oppure può aumentare moltissimo di volume incorporando aria o altri gas. Un pasticciere, non meno di un prestigiatore, avendo una conoscenza approfondita delle proprietà chimiche e fisiche dell’albume può sfruttarle per ottenere moltissime preparazioni diverse.
LE PROTEINE DELL’ALBUME Le proteine costituiscono circa il 10% dell’albume. I primi chimici che studiarono le proprietà dell’albume, cercando di capire di cosa fosse composto, rimasero molto perplessi. Questa sostanza quasi liquida si comportava in maniera completamente diversa dal solito. Pensate al ghiaccio: è solido e se lo riscaldiamo si trasforma in acqua liquida. Con l’albume accade esattamente il contrario: scaldandolo da una fase semiliquida trasparente si trasforma in un solido biancastro. Ben presto i chimici intuirono che anche altri alimenti contenevano sostanze simili, che ora noi chiamiamo “proteine”. All’inizio si pensava che l’albume fosse composto da un’unica proteina: l’albumina. Solo studi successivi dimostrarono che in realtà sono presenti molte proteine diverse. Vediamo alcune di queste proteine e la loro funzione dal punto di vista gastronomico. OVALBUMINA Rappresenta il 54% delle proteine dell’albume. È
stata la prima proteina a essere cristallizzata in laboratorio, da Franz Hofmeister nel 1890, e consiste di 385 amminoacidi. L’ovalbumina si denatura facilmente per azione meccanica: sbattendo con una frusta o una semplice forchetta, la proteina si srotola parzialmente e si mette all’interfase tra acqua e aria. Sebbene l’ovalbumina si denaturi facilmente per azione meccanica, è abbastanza resistente al calore, denaturando completamente solo a 84 °C. A mano a mano che l’uovo invecchia, si trasforma in S-ovalbumina, ancora più resistente al calore, denaturando a 92 °C. Con i suoi gruppi solforati liberi contribuisce al sapore “sulfureo” dell’albume cotto.
OVOTRANSFERRINA (O CONALBUMINA) Questa proteina, a
differenza dell’ovalbumina, denatura meno per azione meccanica, ma denatura e coagula a temperature più basse: a 61 °C. L’ovotransferrina è infatti la prima proteina a coagulare quando si scalda un uovo. Ha la capacità di legarsi a ioni metallici modificando la propria struttura. Per questo motivo il colore dell’albume montato in un recipiente di rame è giallino/dorato, diventa rosato se montato in recipiente di ferro e grigio se in uno di alluminio. Inoltre, i complessi dell’ovotransferrina con i metalli resistono a temperature più elevate: un uovo strapazzato coagula a temperature superiori a 61 °C perché il ferro contenuto nel tuorlo si lega all’ovotransferrina, che quindi inizia a coagulare a temperature superiori. La capacità dell’ovotransferrina di legare ioni metallici, di rame in particolare, è all’origine del suggerimento che si trova in vecchi libri di cucina di montare gli albumi in recipienti di rame, perché ne impedisce la coagulazione eccessiva. OVOMUCOIDE È molto stabile al calore. Al pH tipico
dell’albume denatura a 79 °C, ma non coagula. OVOMUCINA Le proteine dell’albume hanno una forma
globulare, tranne l’ovomucina, che ha una struttura fibrosa. Non coagula con il calore e per questo le calaze, che ne contengono alte concentrazioni, resistono molto bene al riscaldamento rendendo necessaria in alcune ricette la loro eliminazione. L’ovomucina ha però una grande importanza perché aiuta a compattare sia l’albume montato sia quello cotto e coagulato. Infatti, quando si monta a neve, l’ovomucina precipita sulle bolle d’aria formando un film insolubile che stabilizza la schiuma. L’eccessiva sbattitura insolubilizza troppa ovomucina, diminuendo l’elasticità delle bolle e facendo “impazzire” gli albumi.
LISOZIMA Ha la capacità di legarsi alle altre proteine,
specialmente all’ovomucina, e così facendo stabilizza la schiuma. Il cloruro di sodio (il comune sale da cucina) inibisce questa reazione, provocando, se aggiunto, la destabilizzazione degli albumi montati. GLOBULINE Le globuline aiutano moltissimo la formazione
iniziale della schiuma perché hanno buone capacità schiumogene. Hanno una viscosità elevata e quindi diminuiscono la tendenza del liquido a sfuggire dall’albume montato. TAB. 7
PROTEINA
ovalbumina S-ovalbumina
TEMPERATURA PROPRIETÀ PERCENTUALE DI CULINARIE DENATURAZIONE
54%
84 °C 92 °C
denatura facilmente e coagula per battitura; è relativamente resistente al calore
ovotransferrina (conalbumina)
12%
61 °C
meno resistente al calore ma più alla battitura; è la prima proteina a coagulare quando si scalda l’albume; legata a ioni metallici diventa più stabile
ovomucoide
11%
79 °C
stabile al calore; denatura ma non coagula
4% 4%
92 °C 64 °C
montano facilmente
globulina G2 globulina G3
lisozima
3,4%
75 °C
stabilizza la schiuma formando complessi con le altre proteine; ha
3,4%
ovomucina
3,5%
75 °C
le altre proteine; ha proprietà antimicrobiche stabilizza la schiuma; è stabile al calore
L’ALBUME IN PASTICCERIA Che cosa hanno in comune una meringa, un soufflé e una mousse al cioccolato? A parte il fatto che sono buonissime, queste preparazioni utilizzano tutte gli albumi montati a neve: sfruttano la loro capacità di intrappolare l’aria in una struttura schiumosa stabile. La preparazione più semplice, ma anche più versatile, che utilizza l’albume è sicuramente la meringa. O, per meglio dire, “le” meringhe, perché ne esistono di vari tipi che si differenziano per la quantità di zucchero utilizzata e le temperature raggiunte durante la lavorazione dalla miscela di albumi e zucchero. La meringa può essere seccata al forno e usata per decorazioni o pasticcini, come i classici funghetti spolverati di cacao o parzialmente ricoperti di cioccolato, o usata morbida per decorare torte. Oppure può essere miscelata ad altri ingredienti per ottenere creme di vario tipo, o ancora utilizzata come supporto in dolci come la pavlova. L’albume però svolge anche altre funzioni, come vedremo.
INCORPORA ARIA Quando viene sbattuto, l’albume incorpora
talmente tanta aria da aumentare fino a otto volte il proprio volume. A riuscire in questo piccolo miracolo gastronomico è la particolare combinazione di proteine diverse che lo costituiscono. FORNISCE STRUTTURA Le proteine dell’albume denaturando e,
successivamente, coagulando con il calore forniscono struttura a molti prodotti, aiutando gli altri ingredienti strutturali come lo zucchero e gli amidi. Pensate a quando fate cuocere in un padellino l’albume: questo da trasparente semiliquido diventa bianco semisolido, tuttavia senza mai diventare rigido. È solo in combinazione con le proprietà strutturali di altri ingredienti che contribuisce a sostenere un prodotto. Una meringa francese, per esempio, non starebbe in piedi senza lo zucchero, ma neppure senza l’albume.
GELIFICA A 61 °C le proteine dell’albume iniziano a coagulare
e formano un gel, come possiamo osservare ogni volta che prepariamo un uovo fritto in padella. Tuttavia, a differenza del tuorlo che è spesso usato da solo nella preparazione di creme e dolci al cucchiaio, questa proprietà dell’albume raramente viene sfruttata da sola. Congelare gli albumi Avanzano sempre un sacco di albumi in casa. E questo perché alcune ricette prevedono l’uso di soli tuorli (se non avete mai provato la pasta alla carbonara fatta con i soli tuorli non sapete cosa vi perdete!). Non siete costretti a utilizzarli subito, e non dovete neanche buttarli: metteteli in freezer. Li potrete utilizzare quando vi serviranno. Io li metto nel contenitore per fare i cubetti di ghiaccio e una volta congelati li trasferisco in un sacchetto, da dove posso prelevarli all’occorrenza. Gli albumi mantengono quasi totalmente la loro capacità di montare a neve anche dopo essere stati sottoposti al congelamento. Quando vi servono dovete solo lasciarli scongelare e portarli a temperatura ambiente prima di usarli.
FIG. 7
MONTARE L’ALBUME Poiché l’albume in pasticceria è principalmente utilizzato per la sua capacità di montare a neve incorporando molta aria, è opportuno approfondire questa proprietà per poterla sfruttare appieno nella preparazione di una ricetta. Se provate con una cannuccia a soffiare in un bicchiere d’acqua non riuscirete a produrre bolle stabili. Questo perché la tensione superficiale è troppo elevata e le molecole d’acqua preferiscono avere intorno altre molecole d’acqua invece dell’aria contenuta nelle bolle della schiuma. Se invece aggiungete del sapone, o dell’albume, soffiando con una cannuccia riuscirete a ottenere bolle abbastanza stabili. Questo perché le sostanze che avete aggiunto diminuiscono la tensione superficiale dell’acqua andando a posizionarsi tra l’aria e l’acqua e formando una schiuma liquida, cioè un sistema a due fasi (liquido/gas) in cui una fase gassosa discontinua è dispersa in una fase liquida continua. La schiuma formata dal sapone non è gastronomicamente interessante, ma quella formata dall’albume sì. Possiamo immaginare le proteine nell’albume come dei piccolissimi gomitoli di lana sospesi in un oceano d’acqua (grossolanamente il rapporto è di 1.000 molecole di acqua per una proteina). Le proteine parzialmente denaturate si raccolgono attorno alle bolle d’aria, stabilizzandole: le zone idrofobiche si rivolgono verso l’aria e quelle idrofiliche verso l’acqua. Una volta formate le prime bolle è più facile per l’aria successiva venire inglobata, allargando le bolle esistenti. Continuando a sbattere gli albumi, sempre più proteine si denaturano, i filamenti srotolati di proteine cominciano a legarsi tra loro e inizia la “coagulazione”. Le bolle, inoltre, cominciano a suddividersi in bolle sempre più piccole. A questo punto, le proteine formano un reticolo irregolare che imprigiona l’acqua, che a sua volta imprigiona le bollicine di aria. Attenti però a non montare troppo: se la coagulazione è eccessiva il reticolo si
non montare troppo: se la coagulazione è eccessiva il reticolo si infittisce troppo e rende le bolle d’aria troppo piccole, facendo precipitare le proteine che non riescono più a rimanere in soluzione. L’acqua viene letteralmente “strizzata” fuori dal reticolo, e non c’è modo di rimettercela: potete buttare tutto. Quella che avete prodotto è una struttura instabile, che lasciata a se stessa entro poche decine di minuti comincia a rilasciare liquido. È quindi necessario solidificare la schiuma con la cottura.
I FATTORI CHE INFLUENZANO LA MONTATURA Montare gli albumi a neve non è difficile, è sufficiente usare qualche accorgimento e, soprattutto, non seguire consigli errati. Uno di questi, molto diffuso, è quello di aggiungere un pizzico di sale prima di montare gli albumi: come vedremo, si ottiene esattamente l’effetto opposto. Vedremo invece cosa si può fare per montare in modo infallibile gli albumi. Sulle riviste di cucina, o sui libri, o anche in rete, è possibile trovare tantissime ricette e procedure che utilizzano albumi montati a neve, ma quasi mai si spiegano gli effetti dei vari ingredienti sulla schiuma. Credo invece sia importante, per un pasticciere, capire bene i fenomeni che avvengono, per poter modificare le ricette non alla cieca ma sapendo esattamente cosa succederà sostituendo una delle componenti. Ci sono almeno tre fattori da considerare quando si monta un albume: il volume massimo finale ottenibile, il tempo necessario per raggiungere quel volume e la stabilità rispetto alla perdita di acqua. Vediamo che cosa può influenzare questi fattori. Le prime bolle d’aria che si formano durante la battitura degli albumi. Man mano che si montano le bolle d’aria diventano sempre più piccole.
TEMPO DI BATTITURA L’albume per montare adeguatamente e
raggiungere stabilità deve essere montato a lungo, specialmente se sono presenti sostanze, come gli zuccheri, che ritardano la formazione della schiuma. In condizioni sfavorevoli può anche essere necessario sbattere gli albumi per 20 minuti o più. Una battitura troppo breve è probabilmente la prima causa di insuccesso in preparazioni, come le meringhe, dove l’albume montato deve essere completamente stabile. INVECCHIAMENTO DELLE UOVA Con il passare del tempo, il pH delle uova tende a modificarsi diventando più alcalino. Questo succede perché l’uovo contiene anidride carbonica, sotto forma di acido carbonico disciolto in acqua che, con il passare del tempo, passa attraverso i pori del guscio e fuoriesce. L’albume passa da pH 7,6-8,5 (appena deposto) a 9,2 dopo 3 giorni, e via via aumenta fino a 9,7, il tuorlo passa da pH 6,0 (appena deposto) a 6,6. Più è basso (acido) il pH più stabile risulterà la schiuma. Inoltre, con il tempo parte dell’ovalbumina si
trasforma in S-ovalbumina, meno idrofobica, diminuendo la stabilità della schiuma e aumentando la perdita d’acqua. Poiché l’albume, con il tempo, diventa più liquido e meno sodo, produrrà una schiuma più voluminosa ma meno stabile.
Lo sapevate che Aggiungere il proverbiale pizzico di sale agli albumi, come spesso si legge nelle ricette, è deleterio per la stabilità della schiuma. Invece del sale aggiungete una spruzzata di succo di limone: la schiuma rimarrà bianca e molto più stabile. TEMPERATURA Aumentando la temperatura si riduce la
tensione superficiale dell’acqua, facilitando quindi la formazione della schiuma. La temperatura dell’albume però non influenza il volume finale, né la sua stabilità. A temperatura ambiente la denaturazione è più veloce rispetto a uova tenute in frigorifero a 4 °C ed è possibile riscaldare l’albume sino a 58 °C, per 3 minuti, per migliorarne le capacità schiumogene. A temperature superiori le proteine cominciano a denaturare riducendo le loro proprietà funzionali, a meno che non siano presenti, come nella meringa svizzera, altre sostanze che impediscono la coagulazione. pH Aggiungere acidi, come acido citrico, acetico o tartarico, o cremor di tartaro (tartrato acido di potassio) aiuta a montare perché permette alle proteine, cariche negativamente, di avvicinarsi. Il volume finale aumenta, così come la stabilità e
questo permette al calore di penetrare e provocare la coagulazione delle proteine durante la cottura senza il collasso delle bolle d’aria. In più, l’acido citrico, come altri acidi, mantiene bianca la schiuma perché cattura eventuali ioni metallici presenti che la potrebbero colorire formando un composto con la conalbumina. Non bisogna esagerare con gli acidi, però, perché poi la stabilità ne risente. Per avere meringhe perfette aggiungete qualche goccia di succo di limone, o una punta di cremor di tartaro. ACQUA È possibile aggiungere fino al 40% in più di acqua, aumentando il volume e ottenendo una schiuma meno densa e leggermente meno stabile. Le meringhe ottenute aggiungendo il massimo possibile di acqua si sciolgono in bocca e sono quasi trasparenti, ma sono difficilissime da preparare e cuocere. ZUCCHERO Lo zucchero ritarda la formazione della schiuma, specialmente se aggiunto all’inizio della battitura, e riduce il volume, formando una schiuma più densa. Questo è il motivo per cui in una meringa francese lo zucchero non si aggiunge immediatamente ma solo dopo che l’albume ha già incorporato un po’ d’aria. Lo zucchero aumenta la stabilità della struttura sia perché rende più viscoso il liquido, sia perché le molecole di zucchero impediscono alle proteine di coagulare troppo velocemente. Se nella preparazione di un soufflè in cui l’albume si monta da solo è facile superare il punto di non ritorno e far “impazzire” gli albumi facendoli coagulare, nella preparazione delle meringhe questo problema non si presenta mai proprio grazie allo zucchero. TUORLO E GRASSI Una sola goccia di tuorlo, con i suoi grassi, può ridurre di due terzi il volume finale della neve. In generale, i grassi riducono o inibiscono la montatura. Pensate a cosa accade quando aggiungete dell’olio a una vasca da bagno piena d’acqua ricoperta di schiuma di sapone. RAME Il rame forma un composto stabile con l’ovotransferrina. Per questo motivo sbattendo gli albumi in un recipiente di rame, come viene consigliato dai testi classici di cucina, si impiega un tempo maggiore, ma la schiuma risultante sarà più stabile.
SALE Il sale aiuta solo nella fase iniziale, perché il sodio,
legandosi alle proteine cariche negativamente, le aiuta a venire in contatto. Tuttavia riduce la stabilità e aumenta le perdite di liquido per la sua igroscopicità, interferendo anche con la formazione dei complessi del lisozima. L’aggiunta del proverbiale pizzico di sale, quindi, è assolutamente da evitare. SCIROPPO DI AMIDO Aggiungere sciroppo di amido aumenta la montabilità dell’albume e dona stabilità alla struttura durante la cottura perché l’amido può assorbire l’acqua che eventualmente fuoriesce. Solitamente si aggiunge un po’ di sciroppo d’amido quando si preparano grandi dischi di meringa da usare come basi per torte.
LA COTTURA DELL’ALBUME La schiuma è instabile e deve essere stabilizzata con la cottura. Riscaldandosi, l’aria contenuta nelle bolle aumenta di volume e il debole reticolo formato durante la battitura ha bisogno di essere rinforzato con dei nuovi legami, altrimenti si distrugge. La temperatura minima di cottura dovrebbe essere quindi quella di denaturazione dell’ovotransferrina, 61 °C. Tuttavia, per stabilizzare maggiormente la schiuma dovremmo anche denaturare/coagulare l’ovalbumina ancora disciolta in acqua, quindi arrivare a 84 °C. La temperatura può essere alzata fino a 100 °C per ridurre i tempi di cottura, ma attenzione, perché se state cuocendo delle meringhe, alzando ancora la temperatura si innesca la reazione di Maillard, e le vostre meringhe si coloreranno di marroncino, più o meno chiaro. L’angolo chimico: il pH dell’albume La quasi totalità dei cibi che mangiamo presenta un pH acido. Più precisamente ha un pH inferiore a 7, valore convenzionale per una sostanza neutra, come per esempio l’acqua. L’albume rappresenta un’eccezione: è praticamente l’unico alimento ad avere un pH alcalino (o basico), che può arrivare a 9, superiore cioè al pH del bicarbonato di sodio, la sostanza alcalina più comune nelle nostre cucine.
IL MITO DEL SALE PER MONTARE GLI ALBUMI Dopo aver spiegato cosa succede all’albume quando viene montato a neve, è tempo di sfatare uno dei miti riguardanti l’albume più resistenti in cucina, e cioè il suggerimento che viene spesso dato di aggiungere un pizzico di sale prima di iniziare a montare. Questo consiglio spesso si legge in libri e riviste di cucina o viene passato di bocca in bocca come “consiglio della nonna”. La “scienza in cucina” sconsiglia questa pratica, perché il sale destabilizza la schiuma, e lo possiamo vedere con un piccolo esperimento.
possiamo vedere con un piccolo esperimento. Il sale da cucina (o cloruro di sodio) nei primissimi istanti della battitura effettivamente aiuta la formazione di schiuma, e questo è probabilmente la spiegazione dell’origine di questa pratica (divenuta poi un consiglio). Come ho spiegato, le proteine sono cariche negativamente e si respingono. L’aggiunta di un sale, come il cloruro di sodio, neutralizza parzialmente la carica negativa iniziale delle proteine, permettendo a queste di avvicinarsi. Tuttavia, lo ione sodio è piuttosto ingombrante, e quindi allo stesso tempo impedisce al reticolo di proteine di formarsi completamente. In più il cloruro di sodio interferisce con il lisozima, una delle proteine dell’albume, fondamentale per dare stabilità alla schiuma. Da ultimo, il cloruro di sodio, amando l’acqua, la “sottrae” alla schiuma, contribuendo ulteriormente a destabilizzare la fragile struttura. Questa pratica forse è nata in qualche fredda cucina settecentesca dove montare a neve gli albumi a mano, magari con solo una forchetta, poteva essere un’impresa lunga e faticosa. Ora, con l’avvento delle fruste elettriche, l’aggiunta di sale serve solo, ove necessario, a dare sapore alla preparazione, ma è deleteria per la schiuma delicata che cerchiamo di formare. L’aggiunta di acidi raggiunge lo stesso scopo – aiutare la montatura – con gli ioni + H , senza le controindicazioni del sale. Albume montato a neve con l’aggiunta di succo di limone (a sinistra) e di sale da cucina (a destra) appena montati. Potete notare la differente struttura, più liscia a sinistra e più granulare a destra.
Dopo 15 minuti l’albume montato con il pizzico di sale ha una vistosa perdita di liquido, invece solo accennata nell’albume montato con succo di limone.
Se siete ancora scettici e credete che i consigli della tradizione siano sempre veritieri, eccovi l’esperimento…
1 _ Ho montato a neve un paio di cucchiai di albume, aggiungendo il proverbiale “pizzico di sale”. Per confronto ho anche montato la stessa quantità di albumi aggiungendo uno spruzzo di limone. Faccio partire il cronometro. Ho sbattuto per 15 secondi a mano e per altri 2 minuti con una frusta elettrica. Lo scopo è verificare la stabilità della schiuma. Ho deposto su una teglia l’albume montato a neve.
2 _ Potete osservare dalla fotografia della pagina a finco (a sinistra) che la struttura dell’albume montato con il succo di limone ha una struttura molto più liscia di quella dell’albume montato con il sale.
3 _ Dopo 15 minuti (fotografia a destra) l’albume montato con il sale mostra una struttura precaria e una vistosa perdita di liquido, mentre l’albume montato con succo di limone è molto più stabile. In conclusione, il sale è deleterio per la stabilità della schiuma, e non vi sono reali vantaggi nell’utilizzarlo visto che ormai tutti sono dotati di fruste elettriche. In alcuni casi potrebbe essere semplicemente ininfluente: per esempio quando si
In alcuni casi potrebbe essere semplicemente ininfluente: per esempio quando si preparano dei soufflé. In questo caso la povera schiuma di albume ha quasi sempre dei problemi ben maggiori dovuti alla presenza di grassi (sono rari i soufflé senza grassi) che “uccidono la schiuma”, per cui aggiungere o meno il sale può avere poco effetto sul risultato finale. Sicuramente comunque non aiuta. In conclusione il suggerimento “è meglio aggiungere un poco di sale per montare gli albumi” è falso. Meglio utilizzare acidi come il cemor tartaro o il succo di limone per stabilizzare l’albume.
Lo sapevate che L’albume diventa bianco opaco una volta sbattuto perché le proteine denaturate e parzialmente coagulate formano una maglia tridimensionale abbastanza fitta da deviare i raggi di luce.
IL TUORLO Il tuorlo ha una struttura molto più complessa dell’albume. Oltre ad acqua e proteine contiene grassi di vario tipo (soprattutto trigliceridi, colesterolo e fosfolipidi). Grassi e proteine nel tuorlo sono spesso associati in strutture di vario tipo e grandezza diversa, come sfere e granuli sospesi in un plasma acquoso. La maggior parte dei grassi è legata direttamente a proteine chiamate, per questo motivo, lipoproteine, come le lipovitelline. Si distinguono in LDL (Low Density Lipoprotein, lipoproteine a bassa densità) e HDL (High Density Lipoprotein, lipoproteine ad alta densità). Le proteine
contenute nel tuorlo, le livetine disciolte nel plasma, le fosvitine aggregate nei granuli e le lipoproteine hanno proprietà diverse rispetto a quelle contenute nell’albume e quindi diversi sono i loro usi in pasticceria.
IL TUORLO IN PASTICCERIA Se il ruolo principale dell’albume in pasticceria è quello di aiutare a inglobare aria, quello del tuorlo è legato soprattutto alla capacità delle sue proteine di coagulare donando al tempo stesso, a differenza dell’albume, anche corpo e sapore. Molte ricette di pasticceria devono la loro riuscita alla conoscenza delle proprietà del tuorlo e all’interazione con gli altri ingredienti, che andiamo ora a esplorare. AGISCE DA LEGANTE STRUTTURALE Le proteine del tuorlo, come quelle dell’albume, coagulando agiscono da legante in un impasto aiutando le altre componenti, come zuccheri e amidi, se sono presenti, a sostenere la struttura globale. INGLOBA ARIA In alcune preparazioni di base in pasticceria, nel pan di Spagna per esempio, non si utilizza il lievito chimico e l’effetto lievitante è dovuto unicamente all’aria che si riesce a inglobare nell’impasto nella fase cruciale di battitura dei tuorli o delle uova intere. Se l’albume riesce ad aumentare di volume anche 8 volte, il tuorlo, contenendo grassi, non riesce a incorporare così tanta aria, ma ne ingloba comunque a sufficienza per fornire un effetto lievitante. FORNISCE COLORE E SAPORE La quasi totalità del colore e del sapore apportato da un uovo in una ricetta risiede nel tuorlo. Se volete delle torte con l’interno di un colore più intenso cercate le uova che vengono solitamente vendute per fare la pasta fresca: hanno il tuorlo di un arancione più acceso. Oltre a fornire sapore, i grassi contenuti nel tuorlo contribuiscono a veicolare altri sapori eventualmente presenti nel prodotto. GELIFICA Innalzando la temperatura, le proteine del tuorlo denaturano parzialmente e, in seguito, iniziano a coagulare formando un reticolo tridimensionale che imprigiona l’acqua. Questa proprietà è alla base della preparazione di molte classiche creme, come la crema inglese o la crema pasticciera. EMULSIONA L’altissima percentuale di lecitine contenute nel
tuorlo lo rende un emulsionante efficacissimo ogni volta che in un prodotto, specialmente nelle pastelle liquide, abbiamo una base acquosa, come latte o panna, e dei grassi, come il cacao o il burro. Senza il potere emulsionante dei tuorli non potremmo avere le crêpe. Anche nei gelati a base d’uovo il tuorlo agisce da emulsionante.
I FATTORI CHE INFLUENZANO LA COAGULAZIONE Non si contano le preparazioni di pasticceria in cui il tuorlo viene fatto coagulare, in condizioni, temperature e con ingredienti diversi. Il pasticciere se, per esempio, vuole variare le proprietà di una crema pasticciera, deve conoscere come influenzano la coagulazione i vari ingredienti. Vediamo i principali, tenendo presente che ogni volta che un fattore facilita la coagulazione, questa viene raggiunta a temperature più basse, mentre aggiungendo un ingrediente che la sfavorisce si devono raggiungere temperature più alte per ottenere la stessa consistenza. TEMPERATURA È il parametro più importante che governa la coagulazione delle proteine una volta denaturate. Più è alta, più velocemente avviene la coagulazione. Se l’albume inizia a coagulare a partire da 61 °C e a 70 °C cessa di scorrere come un liquido perché l’ovotransferrina è completamente coagulata, il tuorlo inizia a coagulare da 65 °C. A 70 °C è ormai sodo, mentre l’albume rimane morbido perché l’ovalbumina non è ancora coagulata. La reazione di coagulazione richiede calore: per questo i cibi contenenti molte uova possono rimanere alla stessa temperatura, anche se riscaldati, sino a quando le proteine non sono tutte coagulate. Bisogna fare molta attenzione, però: fornire troppo calore, sia perché la temperatura è troppo alta sia perché si è tenuto per troppo tempo un prodotto a temperature più basse, può portare a una sovracoagulazione con formazione di grumi, un fenomeno da evitare soprattutto nella preparazione di creme. Per esempio, nel caso della crema inglese è opportuno lavorare a temperature più basse per tempi più lunghi. La pazienza, e il cucchiaio per mescolare, sono amici di una crema inglese ben riuscita. Per le creme da cuocere al forno, senza
mescolamento, si usa spesso la tecnica di immergere il contenitore con il prodotto da cuocere in un bagnomaria, per proteggerlo da un riscaldamento troppo veloce. ACQUA Se si aggiunge acqua al tuorlo o all’albume la coagulazione viene sfavorita perché la probabilità che una proteina denaturata ne incontri un’altra diminuisce. Anche la struttura del gel che si forma ne è indebolita. Viceversa, se si estrae l’acqua dal tuorlo, per esempio mettendolo in contatto con lo zucchero e favorendo, per osmosi, l’estrazione dell’acqua, la coagulazione sarà favorita e le proteine del tuorlo assumeranno una consistenza simile a quella ottenuta da una coagulazione termica. GRASSI I grassi rallentano la formazione dei legami tra proteine aumentando così la temperatura minima di coagulazione. Più grassi sono presenti e più è marcato questo effetto, quindi creme a base di latte e uova gelificano prima di creme a base di panna e uova. SALI La loro aggiunta favorisce la coagulazione sia perché riduce la repulsione tra le proteine sia perché inibisce la loro capacità di legare l’acqua, aiutandole a venire in contatto per formare un legame. Ecco perché l’aggiunta di sale al tuorlo ne aumenta la viscosità. Questo effetto dipende però anche dal pH. Nella preparazione di un uovo in camicia si aggiungono cloruro di sodio e aceto all’acqua bollente proprio per favorire la coagulazione. Gli ioni calcio hanno un effetto ancora maggiore dovuto alla doppia carica positiva che portano, e rinforzano la struttura del gel. Questo spiega come mai latte e panna, ricchi di calcio, irrobustiscono la struttura di prodotti a base di uova coagulate. Se provate a sostituire con acqua distillata o povera di sali il latte o la panna in una crema non riuscirete a ottenere la stessa consistenza, e nella maggior parte dei casi avrete una sorta di frittata dispersa in acqua. Un po’ di sali sono necessari per la coagulazione. Allo stesso tempo, però, i sali, anche quello da cucina, oltre a ridurre la temperatura minima di coagulazione, influenzano la struttura della preparazione, perché inibiscono una coagulazione troppo spinta, impedendo alle proteine di avvicinarsi troppo e
producendo quindi una struttura coagulata più morbida. L’aggiunta di cloruro di sodio al tuorlo provoca una disgregazione dei granuli con conseguente liberazione di proteine disponibili. Questo causa sia un aumento delle capacità emulsionanti che di quelle gelificanti. Come conservo i tuorli avanzati? Se vi avanzano dei tuorli freschi che volete conservare per 1-2 giorni, potete metterli in una ciotolina e coprirli d’acqua. Ricordatevi che le uova, molto nutrienti, sono un ottimo mezzo per far crescere batteri, anche patogeni, per cui utilizzate i tuorli così conservati cuocendoli sempre. È possibile congelare i tuorli, ma le basse temperature denaturano alcune proteine portando a un prodotto molto più viscoso. Questo può essere un vantaggio per alcune preparazioni come la maionese, ma uno svantaggio per altre. Per ridurre questo fenomeno si può aggiungere zucchero o sciroppo di glucosio nella misura del 510%. Questo ovviamente presuppone che, scongelato, il tuorlo venga usato in preparazioni dolci.
ZUCCHERI L’aggiunta di zuccheri sfavorisce la coagulazione,
perché le loro molecole impediscono alle proteine di venire in contatto. Più zuccheri sono presenti, più è alta la temperatura per la coagulazione. Tuttavia, quando si aggiunge lo zucchero al tuorlo si deve sempre mescolare bene, per scioglierlo immediatamente nell’acqua presente. Altrimenti, come abbiamo visto, i cristalli di zucchero attirano l’acqua legata alle proteine causando denaturazioni e coagulazioni localizzate con conseguente formazione di grumi. Esperimento Qui possiamo vedere in azione l’effetto protettivo dello zucchero sulla coagulazione del tuorlo. Ho preso due piccole pirofile. A sinistra ho messo 80 g di tuorli, a destra ho messo 40 g di tuorli e 40 g di zucchero, mescolando. Entrambe le ho poi messe a bagnomaria a 80 °C per 30 minuti. Il tuorlo a sinistra è coagulato mentre a destra è ancora liquido.
LATTE E PANNA Il latte aumenta la temperatura minima di
coagulazione sia perché contiene acqua sia per effetto dei grassi presenti. Nel latte e nella panna sono presenti le sieroproteine che, se denaturate per riscaldamento, possono partecipare alla formazione del gel conferendo una consistenza caratteristica. In più il calcio presente nel latte rinforza la struttura del gel. Ricordate che quando sostituite parte del latte con la panna in una ricetta oltre ad aumentare i grassi state anche riducendo l’acqua, e quindi le creme con la panna hanno una consistenza più solida a parità di peso di latte sostituito. ACIDI L’aggiunta di acidi riduce la temperatura necessaria per la coagulazione, e questo è un effetto sfruttato in alcune preparazioni in cui vengono aggiunti succhi di frutta – acidi – al tuorlo per farlo coagulare. L’ambiente acido sfavorisce anche la formazione di particolari legami tra proteine che coinvolgono lo zolfo, producendo un gel con meno legami e quindi più morbido. BASI Anche le sostanze alcaline, le basi, possono causare una coagulazione. A pH 12, per esempio, l’albume coagula formando, curiosamente, un gel trasparente. Sono rari i piatti della cucina occidentale in cui le uova vengono coagulate da sostanze alcaline. Nella gastronomia cinese le “uova dei
cent’anni” sono ricoperte con una sostanza alcalina per causare una coagulazione lenta. AMIDO Le lunghissime catene di glucosio di cui è composto l’amido interferiscono con la formazione di legami tra proteine. La loro funzione è estremamente efficace tanto che la crema pasticciera, sia che venga fatta con la farina che con l’amido, si può portare all’ebollizione senza che si manifesti una sovracoagulazione. Portare la crema pasticciera a temperature molto elevate non è solo una possibilità, ma anche una necessità: serve a disattivare l’enzima alfa amilasi presente nel tuorlo che altrimenti, una volta raffreddata la crema, comincerebbe a rompere le catene di glucosio dell’amido, e vedremmo la nostra crema liquefarsi letteralmente, priva della struttura gelificata dell’amido.
I PRODOTTI DELLA COAGULAZIONE In pasticceria le preparazioni che sfruttano il fenomeno della coagulazione del tuorlo, o dell’uovo intero, sono tantissime. A volte hanno la consistenza di una crema più vicina a un liquido, come la crema inglese, altre volte più vicina a un solido, come la crema catalana. Nel mondo anglosassone tutte queste preparazioni sono classificate con il termine custard che possiamo tradurre grossolanamente con “creme all’uovo”, anche se nella terminologia italiana spesso non sono chiamate creme. Una custard è una miscela di uova intere o tuorli con latte o panna, zucchero e aromatizzanti vari, da non confondere con i budini dove è presente anche l’amido come agente gelificante. Le proporzioni di uova, latte e zucchero possono essere diversissime, così come il rapporto tra latte e panna. Sono tutte coagulate dal calore: le proteine prima si denaturano e poi si aggregano formando una sorta di reticolo tridimensionale che intrappola e immobilizza le molecole d’acqua. Più riscaldiamo, più le proteine si legano tra loro e più il reticolo si infittisce e irrigidisce, sino a quando l’acqua non riesce più a essere trattenuta e viene letteralmente strizzata fuori, più o meno come accade strizzando un panno bagnato. Ovviamente a questo punto il dolce o la crema che intendevamo preparare può essere gettato direttamente nella spazzatura. Il controllo della temperatura è cruciale per tutte le preparazioni a base di uova, e avere sempre sotto mano in cucina un termometro può fare la differenza tra un’ottima crema inglese e una pozza di liquido con grumi d’uovo galleggianti dal sapore di frittata. Meno tuorli e albumi sono presenti, più delicato e fragile sarà il prodotto coagulato, perché le proteine sono più diluite e hanno più difficoltà a legare insieme la massa liquida. Poiché la coagulazione è influenzata sia dalle temperature raggiunte sia dai tempi di riscaldamento, in queste preparazioni è meglio procedere con temperature più basse e
preparazioni è meglio procedere con temperature più basse e tempi più lunghi, in modo da avere sotto controllo il grado di coagulazione e capire per tempo se siamo pericolosamente vicini alla sovracoagulazione, tenendo presente che le reazioni chimiche una volta innescate non si fermano immediatamente, anche se togliamo dal fuoco o dal forno la nostra preparazione. A seconda degli ingredienti aggiunti al tuorlo o alla miscela tuorlo+albume, le temperature di coagulazione variano tra gli 80 °C e gli 85 °C e questa temperatura, tranne rare eccezioni come la crema pasticciera, non deve essere mai superata. Più tenete bassa la temperatura e più a lungo dovrete cuocere la crema o il gel. Cotture troppo veloci a temperature elevate sono sconsigliate perché, oltre a essere rischiose per via della possibile sovracoagulazione, impediscono la completa denaturazione delle proteine che quindi non possono esprimere a pieno il loro potenziale gelificante. Possiamo dividere le creme all’uovo in due categorie: quelle continuamente mescolate durante il riscaldamento e quelle che coagulano indisturbate. Solitamente le prime vengono preparate in un pentolino o in un apparecchio che riscalda e agita contemporaneamente, mentre le seconde vengono cotte al forno. Le creme mescolate, come la crema inglese, rimangono fluide e non gelificano completamente. L’effetto è simile a un addensamento perché il continuo mescolamento impedisce al gel di formarsi in modo completo. Una classica preparazione anglosassone che ricade in questa classe è il lemon curd, dove il tuorlo, o l’uovo intero, viene fatto coagulare con il calore e il succo di limone. Le creme da forno, quali per esempio la crème brûlée o il crème caramel, gelificano completamente poiché rimangono indisturbate durante la cottura, spesso a temperature moderate. Il liquido da gelificare viene messo in forno in stampi appositi. Per evitare una cottura troppo rapida della crema a diretto contatto con le pareti del contenitore, si utilizza un bagnomaria, coprendo tra la metà e i due terzi dell’altezza dei recipienti con acqua calda. Questa agisce da isolante proteggendo da una coagulazione troppo rapida le parti della
preparazione vicine alle pareti. Le creme da forno sono a loro volta classificabili in due sottocategorie: quelle che hanno una consistenza abbastanza solida da potersi reggere autonomamente senza un contenitore, come il crème caramel, e quelle che invece sono troppo morbide e vanno consumate direttamente dentro il recipiente di cottura, come la crema catalana. La differenza è dovuta alla diversa percentuale di tuorli, o uova intere, nei due tipi di preparazioni.
TUORLI E ALBUMI INSIEME
Ora che abbiamo esplorato le proprietà dell’albume e del tuorlo separatamente, è molto più facile capire il comportamento, in una ricetta, di una miscela dei due. Le ricette classiche prevedono spesso un numero uguale di tuorli e albumi. Tuttavia ormai non vi è motivo per non considerare tuorli e albumi come ingredienti separati che possiamo pesare e mescolare nelle proporzioni che riteniamo più adatte a una ricetta. Quando in una ricetta cercate di capire l’effetto della
combinazione di albumi e tuorli su una particolare proprietà, in prima approssimazione pensate al risultato ottenuto usando le due componenti separatamente e considerate un valore intermedio, anche se vi sono delle eccezioni. Più albumi sono presenti e più quella proprietà si avvicinerà a quella per gli albumi puri, e la stessa cosa varrà per i tuorli. COME UMIDIFICANTI Il tuorlo è composto per il 50% di acqua,
l’uovo intero per il 75% e l’albume per l’88%. Quindi se in una ricetta sostituite, a parità di peso, un uovo con soli tuorli dovete tenere conto che state anche riducendo l’acqua, mentre se usate soli albumi la state aumentando. COME LEGANTI Sia le proteine dell’albume sia quelle del tuorlo
contribuiscono a legare le preparazioni a cui sono aggiunti. Tuttavia la presenza nel tuorlo di grassi fa sì che questi siano meno efficaci se usati da soli. Se in una ricetta sostituisco un uovo con, a parità di peso, solo albumi, rinforzo la struttura del prodotto, mentre se lo sostituisco con solo tuorli la indebolisco. I biscotti in cui è stato usato solo tuorlo invece che un uovo intero avranno una struttura più friabile. COME SCHIUMOGENI L’albume riesce a incorporare più aria del
tuorlo e quindi un uovo intero riuscirà a inglobare una quantità intermedia di aria. La base di partenza di alcune torte, come il pan di Spagna, è una schiuma a base di tuorli e albumi. Se lo desiderate potete alterare la proporzione di albumi e tuorli sino ad arrivare alle quantità che ritenete ottimali. COME GELIFICANTI Le proteine dell’albume denaturano e
iniziano a gelificare a 61 °C. A 65 °C l’albume non è più liquido e a 70 °C è un solido morbido, che coagula completamente a 84
°C. Le proteine del tuorlo iniziano a denaturare e coagulare a 65 °C e arrivati a 70 °C il tuorlo è sodo. Una miscela dei due inizia a gelificare a temperature intermedie a seconda delle proporzioni. La consistenza dipende dalla temperatura poiché le proteine dell’albume coagulano a temperature differenti. La forza del gel formato però è superiore a quelle delle due componenti separate, poiché il ferro presente nel tuorlo interagisce con la conalbumina dell’albume. COME EMULSIONANTI I tuorli sono i migliori emulsionanti in
cucina, ma anche gli albumi, con le loro proteine, possono svolgere questa funzione, seppur in modo molto meno efficace. Pensate che la maionese con solo albume è già descritta nei libri di cucina francese di più di un secolo fa! Le uova intere hanno quindi una capacità emulsionante intermedia, proprietà importante in tutte quelle preparazioni a cui si devono aggiungere grassi, come il burro, per formare una pastella. COME INSAPORITORI Il sapore che un uovo apporta a una
ricetta risiede principalmente nel tuorlo, quindi riducendo la proporzione di tuorli rispetto agli albumi ridurremo anche il sapore.
RICETTA
Le meringhe La meringa è uno degli strumenti più versatili nelle mani di un pasticciere, sia esso professionista o casalingo. Si può cuocere in forno per seccarla, usarla come supporto per torte, oppure si può usare morbida per decorazioni, o come ingrediente in creme al burro, mousse, semifreddi e altre preparazioni. Esistono tre tipi di meringhe. O meglio, esistono tre metodi di preparare la meringa a seconda del tipo di utilizzo, che si differenziano sia per il momento in cui viene aggiunto lo zucchero che per le temperature raggiunte nella lavorazione. La meringa più familiare nelle cucine italiane è sicuramente quella francese ed è spesso la bestia nera del pasticciere casalingo. L’albume viene montato a neve, previa una piccola aggiunta di un acido come il cremor di tartaro o il succo di limone. La proverbiale aggiunta del pizzico di sale, come abbiamo visto, è assolutamente da evitare ed è una delle principali cause della instabilità della meringa così preparata, motivo dell’insuccesso che molti hanno sperimentato. Lo zucchero, solitamente in quantità doppia in peso rispetto agli albumi, viene aggiunto poco alla volta a partire da quando il volume dell’albume è aumentato di circa quattro volte. Una volta montata questa meringa può essere cotta e seccata in forno, per preparare i classici dolcetti, ma è sconsigliabile utilizzarla a crudo per decorare torte o cupcake perché manca di stabilità. Oltretutto, non essendo stata cotta, la rara ma possibile presenza di salmonella nell’uovo di partenza consiglia di essere prudenti verso il suo consumo a crudo. Ecco perché per le decorazioni si usano gli altri due tipi di meringhe: quella italiana e quella svizzera. La prima si prepara aggiungendo a filo agli albumi parzialmente montati uno
aggiungendo a filo agli albumi parzialmente montati uno sciroppo di zucchero cotto, la cui temperatura può arrivare a superare i 120 °C. A causa dello sciroppo di zucchero bollente questa meringa è raramente preparata a livello amatoriale, anche se è la preferita dai professionisti per le decorazioni. A 120 °C uno sciroppo di zucchero all’ebollizione contiene solo il 13% di acqua e quindi si ottiene l’effetto di cuocere la meringa aggiungendo pochissima acqua. Se si aggiunge lo sciroppo a temperature inferiori, per esempio 115 °C, la meringa risulterà un po’ più morbida perché a quella temperatura lo sciroppo contiene il 15% di acqua. È difficile preparare la meringa italiana a casa se non si possiede una planetaria o un apparecchio che permetta di colare a filo uno sciroppo bollente mentre si sta montando l’albume. Una valida alternativa, preparabile a casa senza l’utilizzo dello sciroppo di zucchero bollente, è la meringa svizzera. Descriviamo ora la preparazione della meringa francese, da seccare in forno, e di quella svizzera, da usare per decorazioni.
LA MERINGA FRANCESE Le meringhe francesi sono molto diffuse in Italia e sono spesso chiamate semplicemente “meringhe”, “spumiglie” o con altri nomignoli. Le meringhe alla francese hanno un rapporto albumi:zucchero che varia da 1:1 a 1:2. Più zucchero mettete e più le meringhe saranno rigide e dense. Se volete che il centro della meringa resti un po’ morbido diminuite la quantità di zucchero. Perché questa ricetta? Per illustrare la capacità dello zucchero di stabilizzare la schiuma e ritardare la coagulazione dell’albume, permettendo al calore durante la cottura in forno di penetrare nelle meringhe asciugandole prima che collassino.
Ingredienti – 100 g di albume * – 100-200 g di zucchero – 1 cucchiaino di succo di limone, oppure 1/2 cucchiaino di cremor di tartaro
La procedura
1 _ Separate l’albume dal tuorlo. Non deve rimanere la più piccola traccia di tuorlo perché il grasso contenuto impedirebbe la montatura completa dell’albume. Il tuorlo si separa più facilmente dall’albume quando è freddo, appena tolto dal frigorifero, per via della differenza di viscosità. Potete anche usare degli albumi che avete surgelato in precedenza.
2 _ Dopo aver separato l’albume (o averlo tolto dal freezer), aspettate sino a quando non arriva a temperatura ambiente. Una temperatura più alta facilita la montatura. Qualcuno riscalda anche leggermente gli albumi (fino a 40 °C) ma non è strettamente necessario.
3 _ Mettete gli albumi in una bacinella. È importante che sia pulita e priva di tracce di grasso. È per questo che è meglio evitare le bacinelle di plastica: poiché per struttura chimica sono affini ai grassi, a volte ne rimane traccia sulla superficie anche dopo averle lavate. Certo c’è plastica e plastica, ma se non volete rischiare… Nei secoli scorsi i cuochi suggerivano di montare gli albumi in recipienti di rame. Il motivo è che una proteina dell’albume, l’ovotransferrina, forma un complesso con il rame che stabilizza la schiuma. Il rame in grande quantità è tossico ma non si corrono rischi nel montare gli albumi. In mancanza del rame va benissimo un recipiente di acciaio. Evitate il ferro e l’alluminio, poiché colorano la neve degli albumi.
4 _ Lo zucchero si deve sciogliere nell’acqua contenuta nell’albume, e si scioglierà più facilmente se con un frullatore lo trasformerete in zucchero a velo. Non è obbligatorio ma influenzerà la grana della vostra meringa: più fine usando zucchero a velo, più grossa usando zucchero semolato. Lo zucchero a velo commerciale spesso contiene degli agenti che evitano la formazione di grumi da umidità, come l’amido, e costa di più. L’amido tuttavia non influenza negativamente le meringhe, anzi. Contribuisce a mantenere più facilmente la forma finale in cottura. Alcuni lo aggiungono appositamente nella preparazione delle meringhe di grosse dimensioni.
5 _ Gli acidi favoriscono la montatura. Se avete del cremor di tartaro in casa potete aggiungerne all’albume una punta di cucchiaino (0.5 g ogni 100 g di albume) prima di iniziare a montare. In alternativa potete utilizzare del succo di limone: 1/2 cucchiaino ogni 100 g di albume andrà bene. L’acido citrico ha il vantaggio estetico di rendere molto bianca la neve montata perché intrappola gli ioni metallici che potrebbero colorare le meringhe. Ricordate che per montare meglio gli albumi non dovete
aggiungere sale! Il sale destabilizza la schiuma, come abbiamo già detto. Non usatelo. Questo consiglio viene riportato spesso nelle ricette, ma è errato. Il sale nei primissimi istanti della montatura promuove la denaturazione delle proteine, e quindi inizialmente la schiuma si forma più facilmente, specialmente se, come la vostra bisnonna, montate a mano in una cucina fredda. Successivamente il sale rende instabile la schiuma. Ora che utilizziamo degli elettrodomestici per montare gli albumi, non abbiamo bisogno dell’aiuto iniziale.
6 _ Agli albumi potete aggiungere fino al 40% in peso di acqua. Più acqua mettete e più leggera risulterà la meringa, ma tenete presente che sarà anche più instabile e più difficile da asciugare. Sono riuscito ad aggiungere il 15% di acqua senza problemi, ma solitamente non lo faccio, a meno che non voglia meringhe delicatissime. Ricordate, comunque, che se avete aggiunto del succo di limone avete già apportato dell’acqua.
7 _ Iniziate a sbattere gli albumi lentamente. Non mettete lo zucchero. Non ancora. Prima aggiungete lo zucchero, minore sarà il volume finale e maggiore la densità delle meringhe. Continuate a media velocità fino a quando non si è formata un po’ di schiuma morbida e poi continuate ad alta velocità. Sapendo che, montato a dovere, l’albume può raggiungere 8 volte il volume iniziale, è raccomandabile aspettare di aggiungere lo zucchero sino a quando il volume non sia aumentato di 4 volte. Ovviamente se preferite delle meringhe di densità maggiore potete aggiungere parte dello zucchero sin dall’inizio.
8 _ A questo punto aggiungete, mentre continuate a sbattere, lo zucchero poco alla volta. Lentamente. Più zucchero aggiungete e più dense e stabili saranno le vostre meringhe. Lo zucchero si deve sciogliere completamente.
9 _ Continuate fino a incorporare tutto lo zucchero, e poi sino a quando la schiuma non risulta molto soda.
Rovesciando il recipiente la schiuma non deve cadere: deve essere “ferma” e formare delle punte sulla frusta che mantengono la forma anche se rovesciate.
10 _ Quando il composto sarà montato, potete formare delle meringhe usando la tasca da pasticciere, ponendole su carta da forno in una teglia.
11 _ Nel frattempo avrete acceso il forno e portato in temperatura. Quale? La temperatura minima di cottura è 61 °C gradi, perché questa è la temperatura di denaturazione dell’ovotransferrina. A 84 °C denatura anche l’ovalbumina, quindi a mio parere la temperatura ottimale per la cottura è superiore agli 85 °C. Qualche vecchia ricetta suggerisce di cuocere le meringhe solo con la luce del forno. Questo suggerimento oggi non ha molto senso. Una volta per illuminare i forni utilizzavano probabilmente lampadine potenti che scaldavano molto. Con i forni moderni non riuscireste a scaldare nulla. Un altro suggerimento che spesso si legge è quello di lasciare socchiuso il forno. Anche questo consiglio probabilmente risale a un periodo nel quale i forni erano tutti a gas, che bruciando produce vapor d’acqua, che rischia di rammollire le meringhe. Lasciare leggermente aperto il forno permette al vapor d’acqua di uscire. Con un forno elettrico, magari ventilato, questo è meno necessario perché l’umidità che si sviluppa dalle meringhe non è molta. Io non lo faccio, ma ho sempre cotto al massimo una teglia di meringhe alla volta. * Potendo è meglio usare uova fresche. Più vecchie sono le uova e meno stabile sarà la schiuma, anche se monteranno di più. Inoltre, pesate gli albumi. Spesso le ricette indicano solo il numero di uova, ma non c’è nessun motivo di non pesare gli ingredienti se vogliamo essere accurati. Le uova possono essere grandi, medie, piccole… È sempre meglio misurare tutto. Dopo aver pesato gli albumi ricalcolate in proporzione il peso degli altri ingredienti.
L’interno di una meringa non deve essere assolutamente molliccio. Deve risultare friabile e ben aerato.
Cuocete le meringhe a 85 °C per 2-3 ore (dipende dalla temperatura reale che raggiunge il vostro forno). Se dopo tre ore non sono ancora asciutte, aprite il forno e lasciatele riposare: se è un problema di umidità nel forno, questa dovrebbe uscire. Fate attenzione alle alte temperature, perché il rischio è quello di brunire parzialmente lo zucchero, ottenendo così meringhe con una colorazione beige, abbastanza brutta a mio parere. Nella foto della pagina precedente potete vedere un esempio di cottura a 120 °C confrontata con una a 90 °C. È possibile cuocere fino a 100 °C (effettivi) senza timore di colorare le meringhe, quindi io regolo il mio forno sugli 80 °C, essendo sicuro così che non andrà mai sotto i 60 °C, né sopra i 100 °C. Per quel che riguarda il vostro forno, temo che dobbiate fare delle prove di temperatura.
LA MERINGA SVIZZERA Perché questa ricetta? Per illustrare come l’aggiunta di zucchero all’albume innalzi la sua temperatura minima di coagulazione permettendo la stabilizzazione e la pastorizzazione della schiuma ottenuta durante la montatura.
Questa meringa è molto più stabile di quella francese ed è adatta a preparare creme e per guarnire torte. Mentre nella meringa francese l’albume viene montato a temperatura ambiente, in quella svizzera si aggiunge lo zucchero all’albume in un recipiente e si monta riscaldando la miscela. Poiché lo zucchero viene aggiunto sin dall’inizio la meringa svizzera risulterà più densa, meno aerata di quella francese, a tutto vantaggio però della stabilità nel tempo. La cottura della meringa svizzera Sino a che temperatura è possibile scaldare albume e zucchero nella preparazione della meringa svizzera? La chimica ancora una volta può venire in aiuto: nell’albume puro a circa 61 °C la conalbumina inizia a denaturare, alterando la propria struttura tridimensionale raggomitolata e lasciando libere alcune zone di legarsi ad altre proteine iniziando la coagulazione. In una meringa svizzera è presente una percentuale di zucchero rilevante sotto forma di sciroppo. Le molecole di saccarosio circondando le proteine dell’albume rendono molto più difficoltosa la formazione di un legame tra due proteine denaturate e quindi l’albume zuccherato può essere portato sino a 70 °C senza rischi. In questo modo la percentuale di proteine denaturate aumenta e una volta montata la meringa sarà molto più stabile.
Ingredienti – 100 g di albume – 100 g di zucchero * – 1 cucchiaino di succo di limone
– 1 cucchiaino di succo di limone
La procedura
1 _ Aggiungete lo zucchero all’albume e mescolate mentre il tutto viene riscaldato a bagnomaria.
2 _ Nella procedura classica, quando lo zucchero è ben sciolto e la miscela è calda si inizia a montare con una frusta, o con un robot, senza più riscaldare. Si continua a sbattere sino a quando la meringa è solo leggermente tiepida. La letteratura culinaria è molto discordante riguardo alla temperatura a cui si devono scaldare albumi e zucchero, con consigli che vanno dai 40 ai 60 °C. Anche famosi pasticcieri danno indicazioni discordanti, e senza una reale giustificazione. Grazie alla protezione offerta dallo zucchero rispetto alla coagulazione, in una meringa svizzera si può portare la miscela fino a una temperatura di 70 °C.
3 _ Portate la miscela, continuando a mescolare con una frusta, sino a 70 °C . Questa temperatura, mantenuta per alcuni minuti, assicura anche che la salmonella eventualmente presente venga eliminata.
4 _ Raggiunta la temperatura desiderata dateci dentro con le fruste.
5 _ A questo punto, dopo averla montata e lasciata un po’ raffreddare, potete mettere la meringa in una tasca da
pasticciere e usarla per decorare, oppure farla seccare in forno, ottenendo un risultato molto simile alla meringa francese. * Solitamente lo zucchero è in peso uguale all’albume.
RICETTA
Pâte à bombe Perché questa ricetta? Per illustrare la capacità dello zucchero di innalzare la temperatura minima di coagulazione del tuorlo e di aiutare, sciogliendosi nell’acqua presente, a inglobare aria.
Così come la meringa è la preparazione più semplice che si può preparare con l’albume, la pâte à bombe è quella più semplice che coinvolge il tuorlo. Come nella meringa, lo zucchero ha il ruolo di proteggere le proteine denaturate del tuorlo da una coagulazione troppo spinta, e quindi dal punto di vista strutturale possiamo considerarla come la versione “rossa” della meringa italiana o della meringa svizzera, perché la preparazione finale rimane morbida e non si riesce a seccarla completamente. La pâte à bombe è una base estremamente versatile e si può utilizzare congelata per preparare un gelato, oppure cremosa come base di un dolce al cucchiaio, oppure ancora mescolata ad altri ingredienti per produrre creme, mousse, semifreddi e tante altre cose ancora. Una volta preparata potete congelarla e usarla in seguito. È una di quelle basi la cui padronanza non deve mancare al pasticciere, sia casalingo che professionista. Classicamente la pâte à bombe si prepara in due modi diversi, uno analogo a come si prepara la meringa italiana, l’altro analogo a come si prepara la meringa svizzera. Non vi sono però particolari differenze nel prodotto finale e quindi vi descriverò solo la versione “svizzera”, più semplice da preparare a casa.
Ingredienti – 60 g di tuorlo (circa 3-4 tuorli) – 85 g di zucchero – 55 g di acqua
La procedura
1 _ Mettete i tuorli, lo zucchero e l’acqua in un recipiente di acciaio e mescolate per amalgamare gli ingredienti.
2 _ Appoggiate il recipiente sopra una pentola riempita per un terzo o un quarto con acqua che porterete all’ebollizione. È importante che il fondo del recipiente non tocchi l’acqua, altrimenti i tuorli si scalderanno troppo.
3 _ Cominciate a montare con una frusta elettrica. Quando lo zucchero sarà completamente sciolto vedrete il colore del tuorlo cambiare, diventando più chiaro. È l’effetto dell’inclusione delle bollicine d’aria. Tenete controllata la temperatura con un termometro. Fermatevi quando avrete raggiunto gli 85 °C.
4 _ Togliete il recipiente dal calore e immergetelo in un bagno di acqua e ghiaccio, continuando a sbattere con la frusta per raffreddare velocemente la crema. Riponetela in frigorifero se la dovete usare nel giro di un giorno, avendo cura di ricoprirla con pellicola per alimenti adatta al contatto con cibi grassi, per evitare il contatto con
l’aria. Se non resistete alla tentazione di mangiarvela a cucchiaiate immediatamente, potete ricoprire la pâte à bombe con nocciole tritate, o frutta fresca tagliata a pezzi oppure ridotta in purea. Ottimi i lamponi, le fragole o le pesche. Avendo raggiunto temperature ben superiori a quella di pastorizzazione ogni possibile traccia di salmonella è stata sicuramente eliminata, per cui non avete nulla da temere nel mangiare la pâte à bombe. Tranne ovviamente diventarne seriamente dipendenti.
RICETTA
La crema inglese Perché questa ricetta? Per mostrare come zucchero, latte e panna aumentino la temperatura di coagulazione del tuorlo fino a 85 °C.
La crema inglese, che in realtà nei paesi anglosassoni è chiamata vanilla custard cream oppure crème anglaise alla francese, è la crema più semplice e con la lista di ingredienti più corta che si possa preparare. Semplice però non significa “di facile esecuzione”. Ci sono alcuni punti nella ricetta che, se non ben eseguiti, possono trasformare questa crema deliziosa e dalla consistenza setosa in un composto pieno di grumi. Conoscendo però i fenomeni chimici e fisici che avvengono durante il riscaldamento del tuorlo, non avrete problemi nel preparare questa crema e modificarla secondo il vostro gusto. Ingredienti – 80 g di tuorlo (circa 4-5 tuorli) – 100 g di latte – 100 g di panna – 55 g di zucchero – vaniglia (a piacere)
Prima di iniziare prendiamo spunto dalla crema inglese per fare qualche considerazione generale sulle quantità degli ingredienti che compongono le varie ricette. Ogni preparazione ha aspetti e caratteristiche diverse che la distinguono dalle altre. Una crema inglese si prepara scaldando una miscela di
altre. Una crema inglese si prepara scaldando una miscela di tuorli, zucchero e latte e/o panna. Se però prendete dieci libri di pasticceria troverete con molta probabilità dieci creme inglesi con quantità diverse dei vari ingredienti. E questo perché a seconda del gusto personale e dell’utilizzo che se ne vuole fare i rapporti tra gli ingredienti possono, e devono, variare. Un bravo pasticciere deve sapere come intervenire sugli ingredienti per ottenere le modifiche alla ricetta di partenza che più ritiene opportune. Vi è a volte una tendenza esagerata a focalizzarsi sulle quantità e le percentuali degli ingredienti in una ricetta, come se queste fossero immutabili. Addirittura qualcuno pretende di dare il proprio nome a una particolare combinazione di ingredienti. Vediamo quindi la “crema inglese di pinco pallino” o quella dello “chef Auguste Gusteau”. In realtà è molto più importante sapere come modificare una ricetta che non imparare a memoria una lista di ingredienti e relative percentuali. Prendiamo le quattro caratteristiche principali della crema inglese: deve essere aromatica, avere un sapore dolce, essere addensata ma ancora liquida e persistere in bocca con un certo corpo dovuto ai grassi. L’aroma è completamente a vostra scelta. Nella ricetta classica si utilizza una capsula di vaniglia (chiamata a volte un po’ impropriamente “stecca” o “baccello”) per aromatizzare il latte, ma si può optare per una profumazione con scorze di limone o zafferano o qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Il sapore dolce è quasi del tutto indipendente dagli altri fattori perché dipende principalmente dallo zucchero aggiunto, trascurando il lattosio presente in latte e panna (in percentuali molto più piccole del saccarosio, di cui è anche molto meno dolce). Questo è uno di quei casi in cui è opportuno pesare i tuorli utilizzati e scalare gli altri ingredienti, per ottenere sempre una crema con la dolcezza desiderata. La consistenza della crema dipende principalmente dalla percentuale di tuorli ma anche, in misura minore, dalla percentuale di panna rispetto al latte perché, come abbiamo visto, la panna porta a un prodotto più sodo rispetto al latte. Infine la corposità, che dipende essenzialmente dai grassi, è influenzata sia dai tuorli che dalla quantità di latte e/o panna
influenzata sia dai tuorli che dalla quantità di latte e/o panna che aggiungete. Armati di queste considerazioni potete modificare qualsiasi ricetta di crema inglese proviate per adattarla agli usi che ne volete fare. Come vi ho detto io ho l’abitudine di tenere un quadernetto in cucina dove annoto, di volta in volta, le variazioni che apporto a una ricetta. Se la crema inglese che ho preso da un libro risulta, al mio gusto, troppo dolce e troppo poco densa, sotto la ricetta mi segno un appunto per la volta successiva: “ridurre del 10% lo zucchero e aumentare del 15% i tuorli. Non cambiare panna e latte”. E così poco alla volta perfeziono la quantità di ingredienti. Veniamo alla procedura. La procedura
1 _ Mettete una bacinella di metallo o di vetro in freezer per almeno 10 minuti prima di iniziare a preparare la ricetta. Servirà a raffreddare velocemente la crema. Potete anche preparare un recipiente più grande contenente del ghiaccio misto ad acqua in cui potrete immergere la bacinella per raffreddare ancora più rapidamente la crema. Questo è necessario se state preparando grandi quantità di crema.
2 _ Mettete il latte e la panna in una casseruola. Io aromatizzo con qualche goccia di profumatissimo estratto alcolico casalingo di vaniglia che trovo molto comodo da utilizzare. Se non avete l’estratto potete utilizzare una capsula di vaniglia aperta in due per la lunghezza: aggiungerete la polpa, che raschierete con un coltello, ai tuorli e mettete la capsula raschiata nel latte.
3 _ Mettete i tuorli in una bacinella e mescolateli: la
struttura interna del tuorlo viene rotta per evitare la formazione di grumi. Aggiungete lo zucchero, ed eventualmente la polpa della vaniglia, e mescolate immediatamente sino a quando lo zucchero non sarà ben disciolto, altrimenti i cristalli di zucchero possono denaturare in alcuni punti il tuorlo e formare dei piccoli grumi.
4 _ Iniziate a scaldare il latte e la panna. Non dovete farli bollire ma arrivare a circa 85-90 °C, per essere sicuri di aver fatto denaturare le proteine del siero che così potranno partecipare alla formazione del gel insieme alle proteine del tuorlo.
5 _ Spegnete il fuoco, prelevate qualche cucchiaio di latte caldo e aggiungetelo, mescolando subito, alla miscela di tuorli e zucchero. Questa è la procedura tipica da eseguire quando si devono aggiungere delle uova a un liquido molto caldo. Se aggiungessimo il tuorlo e lo zucchero direttamente al latte a 90 °C le proteine coagulerebbero immediatamente, facendoci ottenere una sorta di frittata zuccherata. Se invece stemperiamo un po’ di latte caldo nei tuorli, aumentiamo la loro temperatura rimanendo ben al di sotto di quella di coagulazione, e in più li diluiamo, riducendo il rischio che le proteine coagulino immediatamente, poiché hanno meno probabilità di incontrarsi.
6 _ Ora aggiungete i tuorli stemperati al latte rimasto nella casseruola, mescolando per bene. Potete riaccendere il fuoco, ma tenetelo al minimo. Più lento è il riscaldamento meno probabilità avrete di formare grumi e più controllo
avrete sulla consistenza finale della crema.
7 _ La crema inglese è una crema mescolata, perché l’agitazione continua disturba la formazione del gel, e questo contribuisce a mantenerla liquida, a differenza delle creme cotte al forno. Non si deve inglobare aria, quindi mescolate con un cucchiaio o con una spatola di silicone, non con una frusta. Togliete la vaniglia se l’avete aggiunta.
8 _ Con un termometro tenete costantemente sotto controllo la temperatura della miscela durante il riscaldamento. La massima temperatura raggiungibile da questa crema, che dipende però anche dalla quantità di zucchero e di panna, è 85 °C. Io la tolgo quando ha raggiunto gli 82 °C. Vi accorgerete che attorno a questa temperatura la crema sarà leggermente addensata e velerà la spatola che usate per mescolare. Raffreddandosi diventerà più viscosa. Ricordate che anche dopo aver spento il fuoco la coagulazione delle proteine continuerà, quindi fermarsi a 82 °C permette di evitare possibili sovracoagulazioni.
9 _ Togliete la bacinella dal freezer e versatevi la crema. Mescolate con la spatola spargendola sulle pareti per raffreddarla. Se preparate molta crema sarà necessario immergere la bacinella in acqua e ghiaccio. Se la crema non si raffredda velocemente continuerà ad addensarsi formando grumi. Nel caso in cui succedesse, non è da buttare. Passatela con un frullatore a immersione e filtratela per eliminare i grumi. Non sarà perfetta, ma per lo meno è utilizzabile.
La crema è pronta: la potete usare cosÏ, a freddo, per guarnire dei frutti di bosco, oppure tiepida su uno strudel o una torta. Potete aggiungere cioccolato e panna montata per farne una mousse oppure gelatina e panna per farne una crema bavarese, e cosÏ via.
RICETTA
La crema pasticciera veloce Perché questa ricetta? Per illustrare la capacità dell’amido di innalzare la temperatura di coagulazione del tuorlo impedendo la formazione di grumi, contribuendo all’addensamento della crema.
Pere Castells è un chimico che dal 2004 dirige il dipartimento per la ricerca scientifica e gastronomica della Fondazione Alícia, un centro di ricerca vicino a Barcellona focalizzato sull’innovazione tecnologica nel campo della gastronomia. Il “padre” di Alícia è il famoso chef catalano Ferran Adrià, noto per essere uno dei cuochi più innovativi degli ultimi decenni e per aver sposato con successo, nella cucina del suo ristorante El Bulli, la ricerca scientifica e la cucina creativa. Specialmente in Italia questo connubio tra scienza e cucina è stato spesso descritto in modo caricaturale dalla stampa e dalla televisione, come se la “chimica in cucina” si limitasse all’uso di particolari additivi gelificanti o emulsionanti e fosse in assoluta contrapposizione alle ricette della cucina tradizionale. Se state leggendo questo libro saprete che questo non è affatto vero, e Pere Castells ce lo dimostra ancora una volta con questa sua versione di una preparazione classica: la crema pasticciera. Ingredienti – 80 g di amido di mais – 1 l di latte – 200 g di tuorli – 200 g di zucchero
Seguendo il metodo della tradizione i tuorli vanno sbattuti insieme a zucchero, farina e un po’ di latte. Si aggiunge poi il resto del latte opzionalmente aromatizzato a caldo con una stecca di vaniglia. A fuoco dolce si continua a mescolare, per evitare la formazione di grumi e per distribuire bene il calore, sino a quando la crema non ha raggiunto la consistenza desiderata. Il punto critico della preparazione è il continuo mescolamento e il fatto che il calore arrivi in modo disomogeneo dal fondo del pentolino. Un attimo di disattenzione o una cottura troppo prolungata possono portare a una crema non perfetta e piena di grumi.
Negli ultimi decenni molti pasticcieri hanno messo a punto ricette e procedure diverse da quella tradizionale per velocizzare la preparazione di questa classica crema ed evitare la formazione di grumi. Vediamo il metodo messo a punto dal chimico Castells alla Fondazione AlĂcia. Abbiamo bisogno di un litro di latte: il quantitativo minimo da utilizzare perchĂŠ la ricetta riesca. Se ve ne serve di meno questo può essere un inconveniente, ma ricordatevi che potete conservare la crema una volta fatta per due o tre giorni in frigorifero, coperta con pellicola per alimenti in modo che non si alteri.
pellicola per alimenti in modo che non si alteri. Nelle ricette classiche si usa spesso la farina per addensare e gelificare. Nello specifico si sfruttano le proprietà dell’amido contenuto. Castells suggerisce quindi di usare direttamente l’amido. In commercio trovate facilmente quello di mais, chiamato maizena. In questo modo evitiamo la formazione di glutine, che invece si formerebbe usando la farina. La procedura
1 _ Mescolate bene l’amido con 80 g di latte a temperatura ambiente, conservando il rimanente che farete bollire con lo zucchero. Cercate di eliminare tutti i grumi che si sono eventualmente formati: il modo migliore per farlo è aggiungere inizialmente un cucchiaino di latte alla volta a tutto l’amido mescolando sino a quando non si è formata una pastella.
2 _ Unite 200 g di tuorli e mescolate sino a formare una pastella. È importante che il recipiente usato sia grande abbastanza da poter contenere anche il resto del latte.
3 _ In una pentola unite 200 g di zucchero al latte rimanente e portate all’ebollizione vigorosa. È necessario usare una pentola abbastanza alta in modo che il latte all’ebollizione non fuoriesca.
4 _ Versate il latte bollente nella pastella preparata in precedenza e mescolare velocemente con una frusta. Il latte va aggiunto tutto in una volta e quindi un aiutante vi può far comodo.
5 _ Nel giro di pochi secondi, continuando a mescolare vigorosamente, sotto i vostri occhi si formerà una crema pasticciera senza nessun grumo. Il tuorlo comincia a coagulare a 65 °C, e a 70 °C è già completamente coagulato. Se però viene diluito con latte e mescolato ad altre sostanze, come lo zucchero e l’amido, può resistere a temperature molto più alte senza gelificare. Nel procedimento illustrato il latte deve essere portato all’ebollizione in modo tale che, una volta aggiunto ai tuorli e all’amido, la crema raggiunga istantaneamente una temperatura superiore agli 80 °C, facendo contemporaneamente gelificare l’amido e le proteine del tuorlo: la crema pasticciera più veloce del mondo.
RICETTA
Lo zabaione (o zabaglione) Perché questa ricetta? Per illustrare la capacità del tuorlo di formare una schiuma che viene parzialmente stabilizzata dal calore.
L’albume monta facilmente in una schiuma, punto di partenza per moltissime ricette. Il tuorlo invece monta con più difficoltà, nonostante sia ricco di emulsionanti che dovrebbero aiutare: servono tempi molto più lunghi e il volume non aumenta tanto come nell’albume. Un motivo di questa difficoltà è che il tuorlo contiene dei grassi che ostacolano la formazione di una schiuma. Tuttavia il fattore più limitante è la poca acqua contenuta nel tuorlo rispetto all’albume. Per riuscire a inglobare bolle d’aria serve anche abbastanza acqua per ricoprirle e separarle da altre bolle. L’acqua contenuta nel tuorlo semplicemente non è sufficiente per formare una schiuma copiosa come accade con l’albume. Possiamo però aggiungerla. Potete fare una prova: in una ciotola mettete un tuorlo e, dopo aver aggiunto un cucchiaio d’acqua, iniziate a montare. Vedrete che riuscirete a formare senza problemi molta più schiuma del solito. La capacità del tuorlo di formare una schiuma aggiungendo un liquido è sfruttata in molte preparazioni. A qualche lettore non più giovanissimo sarà forse venuto in mente un dolce che una volta veniva preparato per bambini e non: lo zabaione o zabaglione. Il liquido aggiunto era, tipicamente, il vino Marsala o il moscato, anche se ai bimbi veniva più spesso somministrata una versione non alcolica. La ricetta classica prevede due tuorli per persona, ma secondo me con tre tuorli si prepara zabaione sufficiente per due persone.
Ingredienti – tuorlo – zucchero – vino liquoroso (a piacere)
La procedura
1 _ Separate i tuorli dall’albume e metteteli in un pentolino che conduca bene il calore. Il controllo della temperatura è cruciale: scaldate troppo e il tuorlo coagulerà in fretta lasciandovi con un’immangiabile frittata zuccherata alcolica. Se volete andare sul sicuro, e non osate scaldare a fuoco diretto, mettete i tuorli in una bacinella di metallo che scalderete a bagnomaria.
2 _ Aggiungete un cucchiaio da minestra raso di zucchero per ogni tuorlo. Le ricette consigliano poi di misurare il liquido usando un mezzo guscio d’uovo, in modo da tenere conto grossolanamente della grandezza del tuorlo: mezzo guscio riempito di liquido per ogni tuorlo. Come vedete questa ricetta non ha bisogno di misure particolarmente accurate.
3 _ Mescolate per amalgamare bene gli ingredienti e poi mettete sul fuoco. Iniziate a sbattere la miscela a mano o con una frusta elettrica per incorporare aria. Gli emulsionanti contenuti nel tuorlo, le lecitine, inizieranno a formare una schiuma, resa più stabile dalla presenza dello zucchero. Tuttavia senza l’effetto coagulante del calore la schiuma non regge a lungo.
4 _ Continuate a sbattere e riscaldare la miscela: a circa 50 °C alcune proteine del tuorlo cominciano a denaturare e a intrappolare più efficacemente le bolle d’aria. Aumentando ancora la temperatura si aggiungono anche le bolle derivanti dal vino: sia per l’alcol che comincia a evaporare sia, eventualmente, per l’anidride carbonica presente se avete usato un vino che la contiene, come il moscato.
5 _ Il tuorlo da solo coagula completamente a 70 °C. L’aggiunta di altri ingredienti modifica questa temperatura. Lo zucchero ostacola l’avvicinamento delle proteine tra loro aumentando quindi la temperatura di coagulazione. Allo stesso modo l’aggiunta di acqua rallenta la coagulazione, perché le proteine hanno meno probabilità di incontrarsi. Superati i 70 °C, la struttura diviene sempre più solida.
6 _ Togliete dal fuoco quando lo zabaione raggiunge la consistenza cremosa desiderata e servite con dei biscotti secchi quali savoiardi, lingue di gatto o krumiri. Un dolce medievale Lo zabaione è un dolce italiano molto antico. La prima ricetta scritta conosciuta risale alla seconda metà del XV secolo ed è riportata in un manoscritto noto come “Cuoco napoletano”, posseduto dalla Pierpont Morgan Library di New York. Con dosi e prescrizioni un po’ diverse appare in molte raccolte di ricette successive. Curiosa quella riportata da Mastro Martino in un manoscritto della seconda metà del Quattrocento. Per fare bono zabaglione Per fare bono zabaglione per farne una taza, piglia quatro ova - zoe, lo rossumo - e del zucharo e canella a sufficienzia e de bono vino amabille - e sel fusse troppo fumoso, mettelli uno pocho d’aqua o de brodo magro; poy fa lo cocere como se coce lo brodeto et sempre menalo con lo cugiaro; et quando se imbratta, leva lo zabaglione dal focho, poy mettello in una taza. E questo se da a la sera quando l’homo va a dormir. Et notta ch’el conforta lo cervello. Lo zabaione, che va dato all’uomo prima di andare a dormire perché “conforta il cervello”, non è sbattuto ma solo mescolato per raddensarlo. Ancora oggi molte ricette di zabaione non inglobano aria ma contano solo sulle bollicine di alcol che si sviluppano dal vino per creare un po’ di spumosità.
III LATTE, PANNA E BURRO DAL PUNTO DI VISTA DELLA COMPOSIZIONE CHIMICA, IL LATTE SCREMATO, IL LATTE INTERO, LA PANNA, IL MASCARPONE E IL BURRO, GIUSTO PER MENZIONARE I PIÙ COMUNI PRODOTTI A BASE DI LATTE, FANNO PARTE DI UN’UNICA FAMIGLIA IN CUI LA VARIABILE PRINCIPALE È LA PERCENTUALE DI GRASSI PRESENTI. OVVIAMENTE VI SONO MOLTE DIFFERENZE TRA I VARI PRODOTTI, DI COMPOSIZIONE, DI AROMA E SAPORE NONCHÉ DI STRUTTURA E DI UTILIZZO, VISTO CHE IL BURRO È SEMISOLIDO MENTRE IL LATTE È LIQUIDO, PER ESEMPIO. È TUTTAVIA UTILE TRATTARLI NELLO STESSO CAPITOLO, ANCHE SE È PIUTTOSTO INCONSUETO PER UN LIBRO DI PASTICCERIA. MA ORMAI AVRETE CAPITO CHE QUESTO NON È UN LIBRO COME GLI ALTRI.
IL LATTE Tutte le specie di mammiferi, incluso l’uomo, producono latte allo scopo di nutrire i cuccioli. L’unico altro cibo prodotto dagli animali per nutrire è il miele. Nel periodo Neolitico, circa 10.000 anni fa, in Anatolia e nel vicino Oriente, con il passaggio dalla vita nomade a quella più stanziale, il nostro avo cacciatore-raccoglitore imparò a domesticare pecore, capre e bovini. Nei millenni successivi l’“invenzione” dell’allevamento si
Nei millenni successivi l’“invenzione” dell’allevamento si diffuse nel Medio Oriente, in Grecia, nei Balcani e successivamente in tutta Europa. Circa 8.000 anni fa capre, pecore e bovini erano ormai presenti nel Sud e Sudest d’Europa, e si diffusero nel Nord d’Europa poco dopo. Nei paesi caldi, tradizionalmente, per le difficoltà di conservazione di un alimento così nutriente e così deperibile, il latte veniva fatto fermentare o trasformato in prodotti più stabili come il burro o il formaggio. I popoli nordici invece sono ancora oggi dei grandi bevitori di latte fresco e, conseguentemente, non hanno mai sviluppato una solida cultura del formaggio come è invece successo nell’area mediterranea.
Lo sapevate che Il termine corretto per la bovina da latte è vacca. Tuttavia, dato anche l’uso del termine, in senso dispregiativo, al di fuori dell’ambito zootecnico, colloquialmente si usa il termine poco scientifico mucca. Il latte proveniente dalle mucche è comunque chiamato latte vaccino. Il latte è un alimento molto nutriente. Questo non sorprende affatto se pensiamo che deve servire per crescere un neonato. Contiene quindi tutti gli elementi nutritivi necessari alla crescita: proteine, carboidrati, grassi, acqua, sali minerali, ma anche vitamine, colesterolo, fosfolipidi e molte altre sostanze chimiche.
Lo sapevate che Il latte ha una composizione chimica molto complessa che dipende dall’alimentazione, dalla razza di animale, dal clima, dallo stato di salute e da molti altri fattori. Nel latte sono state trovate più di 100.000 molecole diverse.
In cucina si usa quasi esclusivamente latte di vacca. Tuttavia negli ultimi anni negli scaffali dei supermercati o dei negozi di gastronomia si possono trovare anche altri tipi di latte. È interessante confrontare la loro composizione, nel caso vogliate sostituire in una preparazione il latte vaccino con latte di capra o di asina. Dubito molto però che riusciate a procurarvi del latte di balena o di elefante. TAB. 8
100 G DI LATTE CONTENGONO… Fonte: Webb, B. H., Johnson, A. H., & Alford, J. A. (1974). Fundamentals of dairy chemistry Avi Publ. Co., Westport, CT. PROTEINE (g)
GRASSI (g)
CARBOIDRATI (g)
ENERGIA (kcal)
vacca
3,3
3,7
4,9
66
uomo
1,1
4,2
7,0
72
bufala
4,1
9,0
4,8
118
capra
2,9
3,8
4,7
67
pecora
4,6
7,2
4,8
102
asina
1,9
0,6
6,1
38
elefante
4,0
5,0
5,3
85
scimmia rhesus
1,6
4,0
7,0
73
topo
9,0
13,1
3,0
171
balena
10,9
42,3
1,3
443
foca
10,2
49,4
0,1
502
TIPO DI LATTE
LA COMPOSIZIONE DEL LATTE Il latte di vacca contiene mediamente l’87% di acqua e il 13% di sostanze solide. Di questo, il 3,7% sono grassi (dal 2,4% al 5,5%) mentre nella parte restante, chiamata tecnicamente MSNF (Milk Solid Non Fat, «solidi del latte non grassi»), ci sono il 4,9% di lattosio, il 3,3% di proteine e un po’ di minerali. Vediamo qui le componenti principali, ricordando che, sebbene in percentuali diverse, sono le stesse sostanze che ritroviamo nella panna e nel burro. I GRASSI I grassi del latte e della panna sono gli stessi che
costituiscono il burro. Solo che invece di essere concentrati in un panetto (esamineremo in seguito la struttura del burro) sono dispersi in un liquido acquoso. Dal punto di vista chimico sono quasi tutti trigliceridi, molecole formate da tre acidi grassi legate a una molecola di glicerina. Gli acidi grassi sono di diverso tipo. I chimici li classificano in saturi e insaturi a seconda della loro struttura, ma i dettagli sono ininfluenti per i nostri scopi. Ci basti sapere che in generale i trigliceridi formati in prevalenza da acidi grassi saturi (e d’ora in poi abbrevieremo questa lunga locuzione con “grassi saturi”) sono prevalentemente solidi a temperatura ambiente, mentre i grassi insaturi sono prevalentemente liquidi. Questo semplice fatto ha delle importanti conseguenze, perché con il tempo un accumulo nel nostro sistema circolatorio di grassi saturi, che tendono a solidificare, può avere gravi conseguenze sulla nostra salute. Ecco perché attualmente le autorità sanitarie consigliano di non consumare troppi grassi saturi. Evitarli totalmente è praticamente impossibile perché ogni grasso alimentare contiene sia grassi saturi che grassi insaturi. Latte, panna e burro contengono acidi grassi saturi come l’acido
palmitico, l’acido miristico e l’acido butirrico, ma anche acidi grassi insaturi come l’acido oleico. Certo, esattamente quello presente nell’olio di oliva. E quindi non vi stupirà sapere che anche l’olio di oliva contiene grassi saturi. La differenza la fanno le percentuali: mentre l’olio di oliva contiene solo il 15% circa di grassi saturi, nel burro i grassi saturi sono il 66%-70% dei grassi totali. Questo è un valore medio, perché la composizione varia moltissimo con la stagione e con il tipo di alimentazione delle vacche. I grassi principali sono l’acido palmitico e quello oleico che insieme ne rappresentano circa il 50%. I grassi del latte hanno anche un’importanza nutrizionale perché permettono di sciogliere tutte quelle vitamine, come la A, la D, la E e la K, che non si sciolgono in acqua ma solo nei grassi. Oltre ai trigliceridi sono inoltre presenti anche piccole quantità di acidi grassi liberi, cioè non legati alla glicerina, e altri tipi di grassi: i fosfolipidi, il colesterolo, i monogliceridi e i digliceridi. LE PROTEINE In cucina, e nella preparazione di formaggi e
latticini, le proteine del latte giocano un ruolo fondamentale. Queste molecole giganti, formate da una o più catene di amminoacidi legati insieme, quando sono immerse in acqua assumono una carica elettrica che dipende dal pH, acido o basico, della soluzione. Il valore di pH per cui la carica netta su una proteina è zero viene chiamato punto isoelettrico. Se le proteine sono cariche elettricamente tenderanno a respingersi e a rimanere lontane le une dalle altre, rendendo difficile la coagulazione. Se invece il pH si avvicina al punto isoelettrico le proteine possono avvicinarsi le une alle altre, rendere possibile, eventualmente, l’aggregazione di più proteine tra loro e innescare così la coagulazione. Il latte fresco ha un pH leggermente acido, solitamente tra 6,5 e 6,7. Poiché il punto isoelettrico delle proteine del latte è inferiore, queste si respingono e rimangono sospese nel latte. Le proteine del latte e della panna possono essere divise in due categorie: le caseine e le sieroproteine. Le caseine,
due categorie: le caseine e le sieroproteine. Le caseine, insolubili nel siero, non subiscono la coagulazione termica, a meno che non si faccia bollire il liquido per molto tempo. Rappresentano l’80% circa del contenuto proteico del latte e, se coagulate da acidi o dal caglio, lavorano con i grassi per dare struttura ed elasticità ai formaggi. Le proteine del siero sono solubili in acqua e spesso rimangono nel siero dopo la caseificazione. Non sono elastiche ma sono in grado di trattenere più umidità delle caseine. Gelificano e montano, intrappolando aria. Non coagulano per effetto degli acidi a meno che non siano state prima denaturate per riscaldamento. La denaturazione termica delle sieroproteine inizia a 65 °C, ma è significativa solo oltre gli 80 °C. Forse sarà capitato anche a voi di mettere il latte a bollire in un pentolino, dimenticarvene e tornare quando il latte è fuoriuscito. Eppure il pentolino era sufficientemente alto. Come mai è uscito? All’ebollizione le sieroproteine si denaturano velocemente e coagulano unendosi e formando una sorta di pellicola sulla superficie del latte che impedisce al vapore che si sviluppa di sfuggire. Il vapore solleva velocemente la pellicola, che funge da tappo, e in brevissimo tempo il vostro fornello è da pulire. IL LATTOSIO Questo zucchero è presente per circa il 4,9% e
contribuisce a formare il sapore del latte. È lo zucchero che viene fermentato dai batteri lattici. Consumando lattosio questi microrganismi producono acido lattico, che abbassa il pH del latte iniziando una coagulazione delle proteine. Questo è il primo stadio della produzione di vari prodotti fermentati. Non è invece fermentabile dal lievito. I MINERALI Nel latte sono presenti molti minerali e non
stupisce, dato il ruolo del latte, che siano presenti tutti quelli considerati essenziali per la crescita e il funzionamento
dell’organismo. Il minerale maggiormente presente è il calcio.
LA STRUTTURA FISICA DEL LATTE Se la composizione chimica del latte è complessa, la sua struttura fisica non è da meno, per la presenza contemporane di grassi e proteine sospesi in acqua e di sostanze disciolte. Se consideriamo i grassi sospesi in acqua possiamo considerare il latte una emulsione di grassi in acqua. Se invece poniamo l’attenzione sulle proteine il latte è una sospensione colloidale, perché le caseine non si sciolgono in acqua ma restano sospese. Se consideriamo invece il lattosio e le altre sostanze solubili in acqua, il latte è una soluzione. Dal momento che il latte è contemporaneamente tutte queste cose non stupisce che le sue proprietà siano piuttosto complesse e che, a seconda del trattamento, si possano produrre preparazioni tanto diverse come formaggi, yogurt, creme e molto altro. FIG. 8
STRUTTURA FISICA DEL LATTE
I GLOBULI DI GRASSO Se vi versate un bicchiere di latte e lo
osservate con attenzione da vicino non riuscirete a vedere niente se non un bianco opaco uniforme. Ora immaginate di inghiottire una pillola magica che, come in Alice nel paese delle meraviglie, vi faccia diventare più piccoli e vi riduca di 1.000 volte. Nuotando nel latte notereste delle palle fluttuanti nel liquido: sono i globuli di grasso. Più del 95% dei grassi del latte è contenuto in questi globuli: piccole “palline” che hanno una dimensione da 0,1 a 15 millesimi di millimetro. Poiché i grassi non amano stare in contatto con l’acqua, come potete osservare versando un po’ d’olio in un bicchiere d’acqua, per poter fluttuare nella parte acquosa del latte i globuli sono ricoperti da una sottile membrana composta da proteine e fosfolipidi. La membrana ha il duplice scopo di mantenere il grasso in soluzione, attraverso le proprietà emulsionanti dei fosfolipidi, e di evitare la degradazione dei grassi operata dagli enzimi. I grassi sono meno densi dell’acqua e quindi i globuli, pian piano, cominceranno a risalire e a concentrarsi sulla superficie, formando uno strato liquido più concentrato di globuli che, comunemente, chiamiamo panna. I globuli più grandi risalgono più velocemente di quelli più piccoli. Molto tempo fa, quando ancora i lattai facevano il loro giro la mattina presto, lasciando la bottiglia di latte fresco sull’uscio di casa e al contempo ritirando quella vuota, si raccomandava di agitare vigorosamente la bottiglia prima di aprirla per consumarlo. Questo perché i globuli di grasso erano saliti nella parte superiore della bottiglia formando uno strato di panna, lasciando un latte scremato (cioè privato della crema) sul fondo. Agitare serviva a ridistribuire il grasso in modo omogeneo in tutta la bottiglia. Ora non è più necessario agitare perché quasi tutto il latte in vendita è omogeneizzato durante la lavorazione: viene fatto passare attraverso piccoli ugelli in modo da rompere i globuli di grasso più grandi in globuli più piccoli che non riescono più a risalire o lo fanno lentissimamente: una comodità per il consumatore, sicuramente. C’è però anche un effetto negativo: rompendo un globulo in dieci o cento globuli più piccoli la membrana che
globulo in dieci o cento globuli più piccoli la membrana che inizialmente lo proteggeva deve essere ripartita tra i globuli più piccoli, e se questi sono troppi non vi sono abbastanza proteine e fosfolipidi per ricoprirli completamente. Questo lascia parzialmente esposti i grassi a una ossidazione più veloce. In più, le sensazioni che si provano bevendo del latte omogeneizzato sono un po’ diverse rispetto al latte di partenza, perché i globuli di grasso molto piccoli si percepiscono diversamente e il latte ha meno “corpo”.
Lo sapevate che Il latte non è affatto bianco visto da vicino: il suo colore è dovuto alla luce che va a “sbattere” contro i globuli di grasso venendo diffusa in tutte le direzioni. Le sfumature gialline sono dovute al betacarotene disciolto nei globuli di grasso. Ecco perché il latte scremato, privo di grassi, sembra avere un colore con sfumature azzurrine: sono presenti solo le più piccole micelle di caseina per diffondere la luce. LE MICELLE Proseguiamo nel viaggio alla scoperta del latte.
Provate a immaginare di prendere un’altra pillola magica che vi fa rimpicciolire di altre 100 volte. Ora vedrete dei corpuscoli più piccoli, a volte ancorati ai globuli di grasso, a volte fluttuanti nel liquido. Queste strutture si chiamano micelle di caseina. O meglio, di caseine, perché di queste proteine ne esistono di tipi diversi con proprietà diverse. Solo le caseine sono presenti nelle micelle, perché le sieroproteine sono disciolte in acqua. A fare da “collante” tra le caseine nelle micelle è il fosfato di calcio. Più del 90% del calcio presente nel latte infatti è nelle micelle. Le micelle possiedono una carica negativa e quindi tendono a respingersi a vicenda impedendo la coagulazione. Quando aggiungiamo un acido al latte, abbassando il suo pH, la repulsione tra le micelle si riduce e queste iniziano ad aggregarsi e a legarsi formando un reticolo tridimensionale.
aggregarsi e a legarsi formando un reticolo tridimensionale. Una volta raggiunto pH 4,6 il fosfato di calcio si scioglie, le caseine precipitano e coagulano non riuscendo più a rimanere sospese in acqua. Se il latte non ha subito trattamenti a temperature sufficientemente alte, le sieroproteine non si sono denaturate e quindi non partecipano alla coagulazione rimanendo sospese nel siero. Da qui possono essere recuperate, per esempio preparando la ricotta, facendole coagulare con il calore. Il processo di produzione tradizionale della ricotta sfruttava proprio questo meccanismo: dopo aver prodotto il formaggio aggiungendo il caglio, si raccoglieva il siero, lo si scaldava aggiungendo aceto e si raccoglievano le sieroproteine producendo la ricotta, cioè “cotta due volte”. La ricotta originale non conteneva o quasi grassi, perché questi erano stati intrappolati nel formaggio preparato in precedenza. Per venire incontro al gusto del consumatore moderno, che troverebbe la ricotta originale troppo “asciutta” e poco morbida, si aggiunge latte intero o panna durante la sua produzione. Se invece il latte, o la panna, vengono scaldati a più di 65 °C le sieroproteine cominciano a denaturare, cambiando la loro struttura e srotolandosi parzialmente. Una volta denaturate, tutte o in parte, dopo l’acidificazione si possono associare alle micelle di caseina, legarsi tra loro e contribuire a formare un gel. Senza questo passaggio le proteine del siero rimarrebbero disciolte. Queste hanno un punto isoelettrico più alto rispetto a quello delle caseine, e quindi è sufficiente un’acidificazione più leggera per indurre la formazione del gel. Questo fenomeno è spesso sfruttato nella produzione dello yogurt, dove è necessario denaturare le sieroproteine scaldando il latte, oppure utilizzando quello UHT, per poter avere una formazione di gel soddisfacente. E il resto delle componenti? Dov’è il lattosio? Beh, per vedere quello dovreste ridurvi ancora tantissimo e diventare piccoli come una molecola perché, a differenza dei grassi e delle caseine, che sono aggregati in strutture molto più grandi, il lattosio e le altre componenti che si sciolgono in acqua fluttuano libere nel latte.
fluttuano libere nel latte. TAB. 9
COMPOSIZIONE DEL LATTE
CONOSCI IL TUO LATTE In commercio si trovano varie tipologie di latte ed è bene che chi si diletta in pasticceria sappia che differenze ci sono tra i vari prodotti. Dal punto di vista legislativo quando si parla di latte si intende esclusivamente quello vaccino. Si trova in vendita anche latte di altri mammiferi, come quello di capra o di bufala, ma in questo caso deve sempre essere specificata la specie animale. La classificazione commerciale del latte si basa da un lato sul contenuto di grassi, dall’altro sul trattamento termico subito. GRASSI CONTENUTI Considerando i grassi contenuti, la
normativa distingue il latte intero, contenente almeno il 3,5% di grassi, il latte parzialmente scremato, con un contenuto di grassi da 1,5% a 1,8%, e il latte scremato, con un contenuto di grassi inferiore allo 0,5%. Il tenore di grassi del latte intero può essere stato “normalizzato”, cioè modificato dopo la mungitura. Per esempio un produttore può decidere di vendere sempre latte con il 3,6% di grassi e togliere quelli in eccesso. Un particolare tipo di latte intero viene denominato “Alta Qualità”. Non è uno slogan commerciale ma una tipologia ben precisa. È latte trattato termicamente entro 48 ore dalla mungitura, con un tenore di grassi non inferiore a 3,5% e una percentuale di proteine non inferiore al 3,2%. Latte modificato Negli ultimi anni accanto alle tipologie tradizionali se ne sono aggiunte altre in cui il latte è stato modificato in qualche modo. Il latte microfiltrato prima della pastorizzazione viene filtrato con una membrana dai pori sufficientemente piccoli da intrappolare la maggior parte dei batteri. Ha quindi una durata molto superiore al normale latte pastorizzato. Vi è poi il latte ad alta digeribilità (latte a ridotto contenuto di lattosio o HD, High Digestibility) che viene incontro alle
esigenze delle persone intolleranti al lattosio. Questo latte è stato trattato con un enzima che trasforma quasi tutto il lattosio presente nelle due molecole costituenti: il glucosio e il galattosio, rendendo il prodotto più dolce di quello di partenza perché questi zuccheri sono più dolci del lattosio.
TRATTAMENTO SUBITO Se invece consideriamo il trattamento
termico subito, il latte può essere crudo, pastorizzato o UHT. Il latte crudo non ha subito trattamenti termici e si vende “alla spina” in distributori ormai diffusi in tutta Italia ed è solamente latte intero, senza alcuna modifica del tenore di grassi. In passato in Italia sono stati segnalati casi di intossicazioni dovute all’assunzione di latte crudo da parte di bambini, con gravi complicazioni sanitarie. A seguito di quegli episodi il Ministero della Sanità consiglia, prima di consumare il latte crudo, di farlo bollire. Il latte venduto negli scaffali refrigerati di un supermercato invece è stato pastorizzato, cioè riscaldato per un periodo di tempo sufficiente a distruggere tutti gli eventuali batteri patogeni e ridurre in generale il numero di microrganismi presenti per permettere al latte di durare, refrigerato, un po’ di giorni. La pastorizzazione ha anche lo scopo di disattivare gli enzimi naturalmente presenti che porterebbero all’irrancidimento dei grassi. Più è alta la temperatura del trattamento, minore è il tempo necessario per uccidere i batteri. La pastorizzazione viene effettuata a varie combinazioni di temperatura/tempo: per esempio a 75 °C per 15 secondi. La combinazione di tempi e temperature utilizzate nella pastorizzazione è un buon compromesso: i valori nutritivi sono modificati molto poco, così come il sapore. A volte potete leggere la scritta “alta pastorizzazione”. Significa che sono state utilizzate per pochi secondi temperature superiori a 80 °C, allo scopo di prolungare la vita del prodotto rispetto a un prodotto che ha subito una pastorizzazione più blanda. Aumentando la temperatura si possono ridurre i secondi di riscaldamento, tuttavia si alterano un poco sia il profilo nutrizionale sia il sapore del latte. Il latte pastorizzato contiene ancora dei batteri, ed è per questo che
pastorizzato contiene ancora dei batteri, ed è per questo che anche senza aprire la confezione a lungo andare i batteri consumeranno il lattosio presente producendo acido lattico che farà cagliare il latte. Il latte venduto nei cartoni sugli scaffali non refrigerati invece ha subito un trattamento termico molto più drastico, denominato UHT (Ultra High Temperature, «temperature ultra elevate»). Si raggiungono per pochissimi secondi temperature superiori a 131 °C che uccidono tutti i batteri permettendo la conservazione del prodotto, fuori dal frigorifero, anche per vari mesi. Tuttavia il sapore ne è compromesso, assumendo delle sfumature di “cotto”. Dal punto di vista della pasticceria, se nella ricetta che volete riprodurre non è indicata una particolare tipologia di latte, cercate di usare del buon latte intero fresco e ricordate che il latte UHT spesso ha una qualità organolettica inferiore.
LA SCHIUMA DEL LATTE La mattina a colazione prendete un cappuccino e una brioche (o magari un cornetto). A fine pranzo vi concedete la panna montata sopra le fragole. Infine, a cena pasteggiate con la birra. Evidentemente avete un debole per gli alimenti in cui i gas giocano un ruolo fondamentale nella formazione di schiume. Nel cappuccino, nella panna montata e nella schiuma della birra minuscole bollicine di gas sono disperse in un liquido acquoso. Per formare delle schiume sono necessari gas, acqua, energia e surfattanti. Questi ultimi, chiamati anche tensioattivi, sono molecole che stabilizzano le bollicine formate, per esempio, dall’agitazione del liquido o dall’iniezione di gas. La “schiuma del mattino”, il cappuccino, viene solitamente preparata a partire da vapore acqueo e aria insufflata direttamente nel latte. Se provate ad agitare l’acqua pura non si formerà alcuna schiuma. Questa invece si forma e rimane relativamente stabile sia nella birra sia nel latte, grazie alle proteine contenute nei due liquidi. Queste agiscono da surfattanti disponendosi sulle bollicine di gas intrappolate, stabilizzandole per un tempo più o meno lungo e impedendo che scappino troppo velocemente o che si uniscano ad altre bollicine. La schiuma perfetta per un cappuccino dovrebbe avere bollicine talmente piccole da non essere quasi visibili a occhio nudo, essere setosa, di buona consistenza e scorrevolezza. La preparazione di una perfetta schiuma di latte per il cappuccino è più un’arte che una scienza: la “mano” del barista, con i suoi movimenti, è fondamentale. I grassi sono deleteri per la stabilità della schiuma, quindi è più facile montare il latte scremato che il latte intero. Al palato però la differenza tra i tipi di latte si sente ed è da preferirsi il latte intero.
Lattasi e intolleranza al lattosio Tutti i cuccioli di mammifero, compreso l’uomo, possiedono un enzima, la lattasi, che metabolizza il lattosio nell’intestino tenue. Alla fine dello svezzamento nella maggior parte degli individui cessa la produzione dell’enzima diventando, in misura diversa, intollerante al lattosio. Tuttavia, il 35% della popolazione mondiale possiede una modifica genetica che mantiene la produzione della lattasi anche da adulti. Questa modifica genetica è molto diffusa nei paesi nordici e cala progressivamente verso il sud dell’Europa. È poi presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia.
È fondamentale riuscire a disperdere più gas possibile durante il tempo di riscaldamento dovuto al vapore insufflato nel latte. A questo scopo è importante usare latte freddo da frigorifero a circa 5 °C. Partendo da queste temperature l’aria si scioglie meglio nel liquido. A mano a mano che la temperatura si innalza le proteine del siero si denaturano parzialmente, stabilizzando le bollicine. Quando la temperatura ha raggiunto i 65 °C è ora di togliere la schiuma e versarla sull’espresso appena preparato. Partendo da latte freddo abbiamo più tempo a disposizione per formare la schiuma prima che il latte raggiunga la temperatura di 65 °C.
LA PANNA La panna, o crema di latte, è un’emulsione di grassi in acqua prodotta dalla lavorazione del latte attraverso il procedimento di scrematura. Possiamo considerare la panna come una sorta di latte “concentrato in grassi”. La sua struttura microscopica, quindi, è molto simile a quella del latte.
CONOSCI LA TUA PANNA La ricetta per il crem caramel recita “100 g di panna”. Sì, ma quale? Passeggiando tra i corridoi di un supermercato se ne possono trovare di tipi diversi. Alcuni nel banco frigo, altri sugli scaffali non refrigerati. Quale devo scegliere? E fa differenza? Beh, sì, fa differenza. Anche la panna, come il latte, è commercializzata in diverse tipologie, ed è bene conoscerne le differenze per evitare errori nella preparazione di un dolce. PANNA FRESCA PASTORIZZATA La panna fresca è quella che tipicamente si usa in pasticceria. Se una ricetta richiede la panna si intende panna fresca. Ha una percentuale di grassi solitamente del 35%-36%. È il punto di partenza per preparare il burro, la panna montata – o chantilly come si chiama in Francia –, la panna cotta e innumerevoli altri dolci al cucchiaio. La panna in commercio solitamente è stata pastorizzata. La pastorizzazione riduce la carica batterica ma non riesce a sterilizzare completamente la panna, per cui sugli scaffali di vendita questo prodotto, mantenuto refrigerato, dura circa una decina di giorni. Generalmente più è alta la temperatura di pastorizzazione più è lunga la vita del prodotto, ma allo stesso tempo la panna assume un leggero sapore di “cotto” e peggiora un poco la sua capacità di montare. Spesso, ma non sempre, alla panna fresca viene aggiunta la carragenina, una sostanza estratta dalle alghe che serve a stabilizzare l’emulsione tra acqua e grassi. PANNA DA MONTARE UHT Se state preparando delle fragole e vi accorgete che non avete in casa della panna fresca, potete utilizzare la panna da montare UHT. Questa contiene, come la panna fresca, solamente crema di latte e, eventualmente, carragenina. Il processo UHT sterilizza la panna a temperature molto superiori a 100 °C, per pochi secondi. Perciò questo prodotto può resistere anche per vari mesi senza essere refrigerato prima di essere aperto per l’utilizzo. Tuttavia, per
evitare che durante questo periodo il grasso si separi dalla fase acquosa, la panna UHT è sottoposta a un processo di omogeneizzazione drastico, che danneggia parzialmente i globuli di grasso e diminuisce la capacità del prodotto di montare. La percentuale di grassi è sempre attorno al 35% ma, poiché è stata trattata ad alte temperature, il sapore può risentirne. PANNA DA CUCINA UHT Accanto alla panna UHT da montare, al supermercato trovate anche la panna da cucina, anch’essa sottoposta al trattamento UHT. Pure in questo caso nessun ingrediente estraneo è stato aggiunto oltre a crema di latte e, eventualmente, carragenina. Quello che cambia rispetto alla panna da montare è la percentuale di grassi. Nella panna da cucina, che la confezione suggerisce di utilizzare per esempio per condire tortellini, ravioli e simili, i grassi sono solitamente il 21-22%. La panna da cucina non può essere montata perché contiene troppo pochi grassi. Al contrario, se volete, potete utilizzare la panna fresca al posto di quella da cucina, eventualmente compensando il diverso contenuto di grassi diluendola con poco latte. PANNA VEGETALE Da ultimo vediamo la cosiddetta panna vegetale. Visto che è vegetale ovviamente non è vera panna. Per poter essere montata e avere una consistenza simile alla panna da latte deve necessariamente contenere dei grassi, che hanno un’origine vegetale. Questi prodotti a base di grassi emulsionati e montabili contengono a volte grassi idrogenati. I grassi idrogenati non sono considerati salubri e andrebbero evitati per quanto possibile. Se scegliete di usare panna vegetale invece di quella animale per motivi salutistici tenetelo presente e controllate sempre l’etichetta. Ovviamente è l’assunzione prolungata che può produrre degli effetti negativi sulla salute e se qualche volta usate dei grassi idrogenati non succede assolutamente nulla. Personalmente però preferisco acquistare solamente panna fresca, dal gusto nettamente superiore. Ovviamente, se consumate regolarmente panna fresca avrete degli effetti collaterali, se non necessariamente sulla salute sicuramente sulla linea.
LA PRODUZIONE DELLA PANNA Tradizionalmente la panna, o crema di latte, veniva separata dal latte per affioramento, lasciando cioè alla panna, più grassa del latte e quindi meno densa, il tempo necessario per affiorare. Nelle latterie si raccoglieva il latte da vari allevamenti, e poteva passare del tempo prima che la panna venisse separata. Durante questo intervallo alcuni batteri entravano in azione, convertendo il lattosio in acido lattico, inacidendo la panna e creando anche alcune molecole aromatiche che ancora oggi associamo con l’aroma del burro. Oggigiorno, quasi ovunque, la crema viene separata per centrifugazione, processo molto più veloce ed efficace. Per ridurre la proliferazione di microrganismi, anche patogeni, il latte, dalla mungitura sino alla separazione della crema, dovrebbe essere mantenuto a temperature molto basse. La panna ottenuta per centrifugazione è più ricca di grassi, grazie alla maggiore efficienza del processo e, grazie alla rapidità di separazione, non è inacidita. Viene chiamata crema dolce e contiene circa il 35-44% di grassi. Dopo la separazione la crema viene di solito pastorizzata ed eventualmente omogeneizzata.
MONTARE LA PANNA Dal latte si possono produrre moltissime prelibatezze, ma per i bambini, e forse non solo, la panna montata occupa sicuramente una delle prime posizioni. Se siete consumatori abituali di panna spray e non avete mai provato a montarla a partire dalla panna fresca vi invito a provare, se non altro perché così potete dosare la quantità di zucchero da aggiungere, e avrete anche un maggior controllo sulla qualità della materia prima. Iniziando a montare la panna, la frusta incorpora nel liquido delle bolle d’aria. L’agitazione causa la coalescenza parziale dei globuli di grasso (fig. 9A). Le bolle d’aria vengono stabilizzate dai globuli di grasso aggregati che si pongono all’interfaccia tra l’aria e l’acqua (fig. 9B). Continuando a montare le bolle d’aria si rompono e diventano più piccole; cominciano ad associarsi tra loro sempre per effetto dei globuli di grasso e iniziano a dare rigidità alla struttura. Proseguendo la montatura tutte le bollicine d’aria ricoperte di grasso si uniscono formando una struttura semirigida (fig. 9C). FIG. 9
MONTATURA DELLA PANNA
Fig. A - Coalescenza parziale di globuli di grasso. Le “bacchette” rosse rappresentano i cristalli di grasso. Il giallo è il grasso libero allo stato liquido.
Fig. B - Coalescenza parziale di due globuli di grasso. Notate che la membrana, rimarcata in tratto nero, si srotola parzialmente. I grassi non più protetti dalla membrana si dispongono verso l’aria.
Fig. C - Bolle d’aria stabilizzate dai globuli di grasso si aggregano e formano una struttura tridimensionale.
È cruciale che il grasso rimanga parzialmente cristallizzato per evitare la coalescenza totale dei globuli in un unico ammasso, e quindi è necessario operare a bassa temperatura. Se la montatura procede troppo a lungo il grasso si aggrega in particelle troppo grandi e si separa il burro. Le bombolette di panna spray che troviamo in commercio contengono un gas chiamato protossido di azoto sciolto nel liquido. Aprendo l’ugello la panna liquida fuoriesce; il gas tende a tornare nell’atmosfera formando delle bollicine che montano la panna.
I SEGRETI PER UN’OTTIMA PANNA MONTATA Quattro sono le proprietà della panna montata che interessano il pasticciere: il tempo necessario a montarla, la consistenza ottenuta, il volume di aria incorporata (chiamato overrun) e la stabilità della panna montata rispetto alla perdita di liquidi. Il primo aspetto, da quando esistono le fruste elettriche o i robot da cucina, è diventato meno importante degli altri. Ci sono vari parametri che possono influenzare la montabilità della panna, e purtroppo solo alcuni sono sotto il nostro controllo, visto che siamo costretti, quasi sempre, a montare un prodotto che troviamo in commercio già confezionato. TEMPERATURA Il parametro più importante per montare con
successo la panna è sicuramente la temperatura: la panna va montata fredda, possibilmente a una temperatura compresa tra i 2 e i 6 °C. I frigoriferi domestici solitamente sono tarati per mantenere una temperatura, nei ripiani più freddi, di 4 °C, quindi abbiate cura di tenere la panna in frigorifero almeno un paio d’ore prima di montarla. Questo vale ovviamente anche se usate la panna a lunga conservazione UHT, che non viene normalmente conservata in frigorifero. Il freddo è necessario perché, come abbiamo visto, i globuli di grasso devono unirsi tra loro, allo stato parzialmente solido, per riuscire a circondare le bolle di aria. La panna non va assolutamente congelata, perché questo potrebbe danneggiare la membrana dei globuli di grasso, compromettendo in questo modo la montabilità. TAB. 10
LE PERCENTUALI DI GRASSI NELLA PANNA ANGLOSASSONE Half and half
12%
Light cream
20%
Whipping cream
30-35%
Heavy cream
36-40%
Double cream
48%
CONSISTENZA E GRASSI CONTENUTI La caratteristica della panna
che più influenza la sua montabilità è sicuramente la percentuale di grassi contenuti. Più è alta questa percentuale e minore è il tempo necessario per montarla. La panna con il 25% di grassi richiede quasi 10 minuti di battitura e il risultato è molto instabile, mentre un minuto è sufficiente per montare panna al 42% di grassi. La rigidità della panna montata ottenuta procede di pari passo con la percentuale di grassi: più è alta e più la schiuma finale è ben ferma e stabile. Diminuendo i grassi diminuisce anche la stabilità del prodotto finale, che tende dopo un certo tempo a perdere liquidi e a sgonfiarsi. In pasticceria è opportuno montare solo panna con più del 30% di grassi. VOLUME DI ARIA Il volume di aria incorporato invece aumenta
con la percentuale di grassi, ma solo sino ad un certo punto. Oltre il 33% di grassi circa il volume di aria incorporata diminuisce drasticamente. TRATTAMENTO TERMICO La panna in commercio è praticamente
tutta pastorizzata o UHT. La panna cruda non pastorizzata, praticamente introvabile, monta più velocemente. In generale
più alta è la temperatura raggiunta dalla panna durante il trattamento termico e meno velocemente monta. Quindi la panna pastorizzata monta più lentamente di quella cruda, mentre la UHT ha la montabilità minore. ALTRI FATTORI Ovviamente queste indicazioni dipendono
anche da come la panna è stata trattata e dalla sua qualità, tuttavia sono utili perché ci danno un’idea del comportamento generale. Un altro fattore che influenza la velocità di montatura della panna, ma non il volume finale, è il tempo di maturazione della panna. La montatura è più rapida dopo 24 ore dalla separazione dal latte e poi decresce. Ovviamente noi pasticcieri casalinghi non possiamo intervenire su questo parametro poiché normalmente nei prodotti in commercio non viene indicata la data di mungitura.
Lo sapevate che La panna è più saporita del latte intero che, a sua volta, è più saporito del latte scremato. Il motivo risiede nella diversa percentuale di grassi contenuti, perché la maggior parte delle molecole che costituiscono il sapore del latte si sciolgono solo nei grassi.
IL BURRO Se latte e panna sono un’emulsione di globuli di grasso dispersi in liquido acquoso, il burro è un’emulsione di minuscole goccioline d’acqua disperse in un grasso, tenute in sospensione dalle sostanze emulsionanti naturalmente presenti nel latte, che cercano di impedire che acqua e grassi si
separino. Queste goccioline d’acqua contengono principalmente proteine e lattosio. In base al Reg. UE 2991/94 il burro deve contenere almeno l’80% di grassi e al massimo il 16% di acqua. Il burro in vendita in Italia tipicamente ha l’82% di grassi. Servono quasi 25 l di latte per fare un kg di burro. Burro da panna non pastorizzata È ormai molto raro trovare del burro preparato a partire da panna non pastorizzata, a causa delle norme igieniche imposte nella produzio ne moderna. L’aroma e il gusto di questo prodotto sono diversi da quello pastorizzato, ma ormai è divenuto una rarità sul mercato, in Italia, visto che il basso consumo di burro crudo non giustifica il prezzo maggiore. Se però fate un giro in qualche malga di montagna dove ancora si produce il burro crudo, provate ad assaggiarlo. Non essendo stato pastorizzato ha ovviamente una durata inferiore al burro a cui siamo abituati.
LA FERMENTAZIONE Negli USA e in Gran Bretagna solitamente il burro è preparato dalla crema dolce. Viene salato successivamente, sia per compensare la mancanza di sapore che per aiutare la conservazione. Ecco perché in molte ricette americane di pasticceria si specifica unsalted butter (burro non salato). In gran parte dell’Europa continentale invece, Francia e Italia comprese, per tradizione siamo abituati a un burro più acido e più aromatico, prodotto dalla crema fermentata. Il burro ha un gusto più intenso della panna perché i batteri durante la fermentazione producono, oltre all’acido lattico, anche molecole dal caratteristico aroma “burroso”. La salatura non è necessaria perché la maggiore acidità aiuta la conservazione. Questo burro si avvicina maggiormente al burro “preindustriale”, dove la fermentazione batterica era naturale. Poiché la panna è stata pastorizzata uccidendo i microrganismi utili alla fermentazione, è necessario introdurre una coltura di batteri appositi per permettere la formazione delle molecole che forniscono l’aroma. Questi batteri possono essere per esempio il Lactococcus lactis ssp. diacetilactis che produce una molecola che associamo all’aroma del burro fresco: il diacetile (2,3 butandione). Il Lactococcus lactis ssp. lactis invece viene aggiunto per produrre l’acido lattico che acidificherà la crema. Storia La preparazione del burro è probabilmente uno dei metodi più antichi di conservare i grassi del latte inventati dall’uomo. Si hanno notizie di burrificazione, per usi alimentari, cosmetici, cerimoniali e medici in Asia risalenti anche a 2.000 anni prima dell’era cristiana. Visto che capre e pecore sono state domesticate molto prima delle vacche, è probabile che il primo burro fosse prodotto originariamente con quei tipi di latte. Del burro parla Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, citandolo
come “alimento raffinato dei popoli barbari”, e il suo consumo distingue i ricchi dai poveri in quelle popolazioni. Curiosamente, anche nell’Italia del primo Novecento uno dei mercati importanti del burro fu il Sud d’Italia. Il burro, prodotto al Nord, veniva consumato al Sud dalle famiglie benestanti che desideravano distinguersi dai meno abbienti, consumatori di olio d’oliva prodotto in quelle zone. Nel Medioevo la chiesa proibì, durante i periodi di digiuno e in Quaresima, di consumare burro e altri alimenti di origine animale. Nei Paesi del Sud Europa questo non era un grosso problema, perché comunque utilizzavano l’olio. Nel Nord Europa, invece, il burro era di uso comune in cucina. Durante la Quaresima i commercianti del Sud Europa vendevano olio al Nord. Olio, a quanto pare, di bassa qualità. Nel tardo Medioevo divenne possibile comperare dalla Chiesa delle lettere di indulgenza, per ottenere dispense e poter quindi consumare il burro anche durante i periodi proibiti. Una delle torri della cattedrale di Rouen è chiamata “torre del burro” perché fu costruita con i soldi ricavati dalla vendita di tali dispense durante la Quaresima. In un discorso ai nobili tedeschi del 1520, Martin Lutero, padre spirituale della riforma protestante, si scaglia contro questo mercimonio, incitando i nobili a riformare la Chiesa, e prende il burro come esempio: «Perché a Roma loro stessi ridono dei digiuni, e costringono noi stranieri a mangiare olio con cui loro non si ingrasserebbero gli stivali, e poi ci vendono la libertà di mangiare il burro e tutto il resto».
Dopo la separazione e la fermentazione, la panna è raffreddata tra i 7 e i 15 °C per permettere la cristallizzazione di parte del grasso. La velocità con cui avviene il raffreddamento è molto importante ai fini della consistenza finale del burro. Se il raffreddamento è molto veloce, si formeranno moltissimi cristalli di piccole dimensioni. Se invece il raffreddamento è lento si formeranno meno cristalli, ma più grossi. I cristalli legano il grasso liquido sulla loro superficie, quindi se sono presenti molti cristalli piccoli, avranno una maggiore superficie disponibile per “legare” il grasso liquido, e quindi il burro risulterà più duro.
Lo sapevate che Il colore del burro può andare dal bianco al giallo, e dipende principalmente dall’alimentazione delle vacche. Più caroteni le vacche assumono con l’alimentazione, più il burro risulterà colorato. Il burro prodotto d’inverno, quindi, avrà un colore diverso dal
burro prodotto d’estate, se le vacche sono al pascolo. Il burro, come il latte, è una fonte importante di vitamina A, ancora una volta con variazioni tra estate e inverno. Dalla panna al burro L’agitazione meccanica rompe la superficie dei globuli di grasso, liberando i grassi all’interno. Siccome questi non amano molto stare in acqua, si aggregano via via ad altre molecole di grasso, separandosi dalla fase acquosa: si dice che l’emulsione viene invertita perché si passa da una emulsione di olio in acqua (spesso indicata con o/w: oil/water) a una emulsione di acqua in olio (w/o). La zangolatura non è altro che una violenta battitura meccanica, che ha lo scopo di rompere la membrana dei globuli di grasso liberandone il contenuto. La temperatura di zangolatura può variare da 7 a 13 °C. È importante che la temperatura non sia troppo alta perché la presenza di cristalli di grasso aiuta la rottura della membrana dei globuli. I cristalli sbattono contro i globuli danneggiando la membrana e liberando il grasso liquido. Se la temperatura è troppo elevata, o se rimane troppo grasso liquido, il burro avrà una consistenza molle e trasuderà goccioline di grasso liquido. La parte acquosa liquida, il latticello, viene separata e il burro lavorato per raggiungere la consistenza desiderata. In alcuni metodi di lavorazione la coltura batterica viene inoculata a questo punto, invece che nella panna, per risparmiare sui costi.
FIG. 10
TIPICO PROFILO DI CONTENUTO SOLIDO PER IL BURRO IN FUNZIONE DELLA TEMPERATURA
I grassi che fondono tra -40 e +10 °C sono grassi polinsaturi, oppure con catene molto corte. Quelli che fondono tra i 10 e 20 °C sono monoinsaturi, o con catene corte. I grassi altofondenti, tra 20 e 40 °C, sono grassi saturi a catene lunghe.
LA STRUTTURA Il burro è normalmente solido a temperatura ambiente e fonde attorno ai 37 °C. Tuttavia il suo punto di fusione non è ben definito: a mano a mano che si scalda il burro diventa morbido e spalmabile e solamente arrivati a 40 °C è completamente fuso. Le sue caratteristiche di spalmabilità dipendono dalla temperatura. È impossibile spalmare su una fetta di pane del burro appena tolto dal freezer: il burro diventa spalmabile a partire dai 15 °C circa. È per questo che, in un frigorifero, lo scomparto per il burro è solitamente nella parte superiore della porta, la zona più calda del frigorifero; purtroppo ancora troppo fredda per farlo rimanere morbido e spalmabile. D’altra parte è problematico da utilizzare, per esempio in molte preparazioni di pasticceria, quando la temperatura ambiente è troppo elevata, perché è troppo molle. Questi sono due dei motivi per cui in molti Paesi del mondo, specialmente quelli che consumano molto burro crudo, il consumo di questo alimento è diminuito moltissimo negli ultimi decenni, a favore della margarina, che in alcuni Paesi è consumata ora più del burro. Come mai il comportamento del burro differisce così tanto da quello, per esempio, del ghiaccio? Avete mai visto il ghiaccio molle? No di certo: a una temperatura ben definita da solido si trasforma in liquido. Il burro però ha una composizione complessa e a ogni temperatura tra -40 e 40 °C è una miscela di un liquido e un solido. È composto da una fase di olio liquido immersa in un reticolo di grasso cristallino e di globuli grassi intatti, oltre che da goccioline di acqua. Proprio per questa sua struttura complessa il burro ha un comportamento insolito: fonde attorno ai 37 °C, ma per risolidificarlo si deve abbassare la temperatura anche sotto i 25 °C. A 37 °C ormai quasi tutti i grassi sono liquidi e quelli che fondono a temperature più alte si sciolgono in quelli già liquidi.
si sciolgono in quelli già liquidi. Se potessimo separare i vari tipi di grassi presenti in un panetto di burro, ne troveremmo alcuni che sono liquidi già a 0 °C, e altri che rimangono solidi anche a 40 °C. Per esempio il glicerolo tributirrico fonde a -75 °C mentre il glicerolo tristearico a 72 °C. La temperatura modifica la quantità e la grandezza dei cristallini di grasso sospesi nel liquido. Se la temperatura diminuisce si formano più cristalli e il burro si indurisce, e la cremosità del burro dipende dal rapporto cristalli/liquido presente, oltre che dalla composizione dei grassi e dalla percentuale di globuli intatti ancora presenti. I burri migliori da utilizzare per la pasticceria sono quelli che hanno un’alta percentuale di grassi cristallini, a parità di temperatura. La consistenza del burro dipende anche dall’alimentazione: foraggio fresco ricco di grassi polinsaturi produrrà un burro morbido. Per questo motivo il burro estivo è solitamente più morbido di quello prodotto in inverno. FIG. 11
STRUTTURA FISICA DEL BURRO
Rappresentazione grafica della struttura del burro: in rosa il grasso liquido. Le goccioline di acqua sono azzurre. I globuli di grasso sono gialli, e i cristalli di grasso, sia dentro i globuli che fuori, sono rossi. Notate la struttura connessa formata dai cristalli di grasso.
L’angolo chimico: l’aroma del burro Una delle molecole che caratterizzano l’aroma del burro è il diacetile, a volte aggiunto anche alla margarina, altrimenti completamente inodore e insapore, per farle assumere degli aromi di burro. Oltre al diacetile anche l’acido butirrico contribuisce all’aroma del burro. Tuttavia quando è in eccesso è uno dei responsabili dell’odore di rancido. Il burro cotto ha un gusto particolare dovuto ad alcune molecole inodori che però scaldandosi si trasformano in metilchetoni, che impartiscono aroma ai piatti cucinati con il burro.
CONSERVAZIONE E DEGRADAZIONE Poiché l’acqua presente nel burro è finemente suddivisa in una moltitudine di goccioline, la proliferazione batterica è fortemente impedita. Un batterio eventualmente presente in una gocciolina finirebbe rapidamente il nutrimento, e non riuscirebbe a replicarsi e a trasferirsi in un’altra gocciolina. Il burro quindi diventa rancido per un’azione puramente chimica. Con il tempo le molecole di grasso e le proteine si rompono in molecole più piccole, che quindi possono raggiungere i recettori olfattivi del naso, e il burro assume aromi e sapori di rancido. Più è alta la temperatura e più velocemente il burro si degrada, quindi se lo volete conservare a lungo mettetelo nel freezer. Anche la luce può contribuire all’irrancidimento del burro. In frigorifero tenetelo ben chiuso, poiché la superficie grassa ha la tendenza ad assorbire come se fosse una spugna tutte le molecole solubili nel grasso presenti nell’atmosfera dal frigorifero. Non per niente nel (buon) burro potete addirittura “sentire” l’alimentazione delle vacche, se hanno mangiato erba, fiori o granaglie. Anche evitando il contatto con l’ossigeno, che reagisce con i grassi insaturi formando composti con aromi non apprezzati, non potete fare molto contro gli enzimi presenti che rompono i trigliceridi in glicerina e acidi grassi.
IL BURRO CHIARIFICATO Il burro, in molte cucine straniere, è un ingrediente irrinunciabile; e anche in Italia, specialmente al Nord prima della diffusione dell’olio di oliva, ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Un buon risotto, tradizionalmente, si fa con il burro, e anche la famosa cotoletta alla milanese si dovrebbe friggere con il burro. Tuttavia friggere nel burro può essere un’operazione molto rischiosa, perché la probabilità di bruciare tutto è molto alta. Quando scaldiamo il burro, a 100 °C l’acqua contenuta comincia a bollire, e osserviamo la caratteristica schiuma. Quando l’acqua è evaporata completamente la temperatura può ricominciare a salire, tuttavia tra i 120 e i 140 °C la caseina ancora presente comincia a brunirsi, e non è possibile raggiungere temperature superiori senza far annerire e bruciare tutto. Una procedura migliore, ormai poco praticata nelle cucine di oggi ma spesso utilizzata nel passato, è quella di chiarificare il burro: liberarlo cioè sia dell’acqua che della caseina e tenere solo i grassi. Facendo così, questi possono raggiungere temperature adatte per friggere la vostra cotoletta, circa 170 °C, senza correre il rischio di bruciare. Burro chiarificato fatto in casa Sciogliete un panetto di burro a fuoco dolce in un pentolino, oppure nel forno a 80 °C. Io preferisco usare il forno. Se usate un pentolino e il burro raggiunge l’ebollizione per breve tempo non succede nulla di irreparabile: siamo a 100 °C e la caseina ancora non si degrada. E non temete di degradare il grasso, perché la sua temperatura di decomposizione è molto superiore. Una volta fuso il burro potrete osservare della schiuma sulla superficie del grasso: sono proteine e bollicine d’aria intrappolare. Agitate un poco la superficie per rompere le bollicine d’aria e far precipitare sul fondo la maggior parte della caseina insieme all’acqua. Dovrete attendere ancora un po’ per far separare completamente le minuscole bollicine d’acqua ancora disperse. Dopo 40 minuti di raffreddamento a riposo nel forno spento, la maggior parte della caseina è precipitata. Aspettate che si sia raffreddato a sufficienza, tenendo presente che il burro
Aspettate che si sia raffreddato a sufficienza, tenendo presente che il burro fino a 40 °C sarà ancora completamente fuso. A questo punto potete trasferirlo in un bicchiere di plastica termoresistente per alimenti. Vedrete che le due fasi si saranno completamente separate. È meglio che il bicchiere sia stretto e alto per facilitare la separazione delle due fasi. Copritelo con pellicola per alimenti e mettetelo in freezer. Più velocemente viene raffreddato, più cristalli di grasso si formano e più duro verrà il burro. Facendolo raffreddare lentamente in frigorifero si otterrebbe un burro troppo molle e trasudante grasso liquido. Il raffreddamento rapido in freezer permette di ridare solidità al burro, che si manterrà anche quando riporremo il panetto di burro chiarificato nel frigorifero. Una volta solido (ci vorranno un’ora o due) potete togliere il bicchiere dal freezer. Premendo il fondo del bicchiere il burro chiarificato con lo strato di ghiaccio uscirà senza problemi. Prendete un coltello, magari aspettate qualche minuto se è troppo duro, e separare il ghiaccio dal grasso. Raschiate via la caseina ancora presente dalla parte superiore e da quella inferiore del burro solido utilizzando un coltello. Se il burro fosse diventato troppo duro per poterlo tagliare potete lavare via delicatamente il ghiaccio e la caseina mettendolo sotto un filo d’acqua fredda corrente. Riponete il burro chiarificato nella sua confezione e mettetelo in freezer se lo volete conservare a lungo.
CONOSCI IL TUO BURRO Oltre al classico panetto di burro con l’80% circa di grassi, da alcuni anni al supermercato è possibile trovare altre tipologie di burro. Anche se quasi nessuna di queste ha una particolare applicazione in pasticceria, vediamole velocemente per completezza. BURRO CHIARIFICATO È burro a cui sono state tolte le proteine,
l’acqua e tutto quanto è disciolto in acqua, come il lattosio. È possibile prepararlo a casa con pochissima difficoltà come abbiamo visto. BURRO ALLEGGERITO Contiene tra il 60% e il 62% di grassi. È
anche chiamato “burro tre quarti” perché ha il 25% di grassi in meno del burro tradizionale. Per anni il burro, con i suoi grassi saturi e il suo colesterolo, è stato demonizzato da medici e nutrizionisti. A volte, paradossalmente, consigliando di sostituirlo con la margarina che all’epoca era ancora prodotta con grassi idrogenati non salubri. Non è questo il luogo adatto per fare una disamina del legame tra il consumo di burro, di margarina e la nostra salute. Ora si assiste a una parziale “marcia indietro” ma ancora in molti diffidano del burro. I burri con meno grassi sono evidentemente diretti a questa tipologia di consumatori. Se hanno tolto il 25% di grassi, vuol dire che li hanno sostituiti con qualcos’altro. Cosa? Se provate a leggere l’etichetta lo scoprite subito: il burro “alleggerito” è molto più ricco di acqua. D’altra parte se voglio togliere del grasso, dovrò pure metterci qualcosa, e l’acqua è una scelta logica, oltre che a buon mercato, visto che il burro già contiene acqua. A fronte del 60% di grassi invece che i soliti 80%-82%, compare l’acqua
tra gli ingredienti. Visto che il burro è una emulsione di acqua in grasso è possibile senza grosse difficoltà aumentare la percentuale di acqua e diminuire quella di grasso. Se l’acqua aumenta però il burro corre più rischi di subire un deterioramento da muffe e batteri, quindi gli si aggiunge un conservante, il sorbato di potassio. Non è possibile utilizzare questo burro nelle ricette di pasticceria, poiché contiene meno grassi e più acqua, a meno di ricalcolare le proporzioni di tutti gli ingredienti. BURRO METÀ Accanto al burro con il 60% di grassi si trova
anche il burro in cui la percentuale di grassi da latte è tra il 39% e il 41%. Questa volta, però, invece di aggiungere acqua si aggiungono grassi vegetali. Anche in questo caso non vi sono reali motivazioni per utilizzare questo burro in pasticceria. Se una persona desidera evitare il burro può usare la margarina, visto che ora sono quasi tutte prodotte senza grassi idrogenati, oppure in alcune ricette sostituire il burro con l’olio. Non ha molto senso, per esempio, sostituire solo metà del burro in una ricetta con una miscela di burro e una specie di margarina di qualità ignota.
IN PASTICCERIA I derivati del latte in pasticceria svolgono funzioni molto diverse, principalmente a seconda della quantità di grassi contenuti. In piÚ tutti apportano un sapore caratteristico insostituibile. Impariamo a conoscere i loro molteplici usi anche, all’occorrenza, per sostituirli con un ingrediente simile.
LATTE E PANNA IN PASTICCERIA Latte, panna e burro in pasticceria svolgono molteplici ruoli. Il primo è ovviamente quello di apportare un gusto particolare ai prodotti. Molto più spesso però questi ingredienti sono richiesti nelle ricette per i grassi che contengono, per le proteine, per il lattosio, oppure per una combinazione di questi. Alcune ricette richiedono sia acqua che latte, altre sia panna che latte. In questi casi lo scopo, spesso non dichiarato, è di ottenere una determinata percentuale di grassi da aggiungere. Miscelando acqua, latte scremato, latte intero e panna fresca è possibile ottenere facilmente un “latte” con un tenore di grassi a piacere tra 0% e 35%. AMMORBIDISCONO La sostituzione di una parte di acqua con del latte rende molti impasti più morbidi e soffici, sia internamente che sulla crosticina. L’effetto è dovuto soprattutto alla presenza delle proteine del siero che ritengono l’acqua più a lungo ritardando l’evaporazione. In più le componenti del latte ritardano la retrogradazione degli amidi, il processo per cui l’amido cristallizza e i prodotti amidacei diventano duri e secchi. VEICOLANO I SAPORI Una funzione molto importante dei grassi del latte, siano essi provenienti dal latte, dalla panna o dal burro, è di sciogliere e rendere disponibili tutte le molecole gustose presenti nel cibo che non si sciolgono in acqua e quindi non riescono a essere facilmente percepite dalle nostre papille gustative. I globuli di grasso invece, con i loro fosfolipidi che da una parte amano l’acqua e dall’altra i grassi, riescono in questo scopo portando le molecole gustose sulle nostre papille. Nei gelati questo effetto è fondamentale. LUBRIFICANO I grassi del latte agiscono da lubrificanti impartendo un sapore più “rotondo” e “morbido” ai prodotti in cui si sostituisce parte dell’acqua con il latte o con una miscela di latte e panna. Questo effetto è percepibile quando
confrontiamo un sorbetto con un gelato alla frutta. I sorbetti non contengono latte o panna e sono perciò, a differenza dei gelati, privi di grassi. Quando si farcisce un pan di Spagna con una crema contenente grassi l’effetto lubrificante è immediatamente percepibile. PARTECIPANO IN EMULSIONI Quasi sempre se un cibo contiene grassi e acqua finemente dispersi è presente un qualche tipo di emulsione. Le emulsioni possono essere di due tipi: piccole goccioline di grassi disperse in un “mare” di acqua – il latte e la panna, ma anche la maionese o la salsa olandese appartengono a questa categoria – oppure piccole goccioline di acqua disperse in un “mare” di grasso – il burro e la margarina rientrano in questa tipologia. Se quando prepariamo una maionese, emulsione di un olio in acqua, abbiamo bisogno di aggiungere un emulsionante, solitamente il tuorlo d’uovo, quando prepariamo una crema utilizzando latte o panna gli emulsionanti sono già presenti, perché sono quelle proteine e quei fosfolipidi che emulsionano i globuli di grasso mantenendoli separati e fluttuanti in acqua. È quindi più facile emulsionare i grassi provenienti da altri ingredienti, per esempio il cacao, per formare una crema che non si separa. PARTECIPANO ALLA FORMAZIONE DI GEL Le sieroproteine del latte e della panna possono partecipare alla formazione di un gel se vengono denaturate scaldandole. Questa proprietà viene sfruttata per esempio nella produzione del mascarpone, in cui oltre alla panna non vi sono altri ingredienti che possano formare un gel. In creme in cui invece sono presenti o amidi o proteine dell’uovo, come la crema pasticciera e la crema inglese, i gelificanti principali sono l’amido o l’uovo, mentre le sieroproteine aiutano la formazione del gel. Anche in dolci al cucchiaio in cui si aggiunge la gelatina per gelificare, come la panna cotta, scaldare la panna oppure, a dispetto del nome, gelificarla a crudo, porta a una differenza di struttura perché nel secondo caso le sieroproteine non partecipano alla gelificazione. PARTECIPANO ALLA REAZIONE DI MAILLARD Il lattosio è uno zucchero riducente e può reagire con le proteine per dare la
reazione di Maillard. A volte l’effetto ricercato è leggero, come quando si aggiunge un po’ di latte a un impasto per dorare la superficie di un prodotto secco da forno. In altri casi invece, come nella preparazione del dulce de leche o della salsa mou, è l’effetto che caratterizza il dolce che stiamo preparando.
Lo sapevate che In pasticceria, più che in altri settori della cucina, l’ordine con cui si aggiungono gli ingredienti è fondamentale e parte integrante di una ricetta. Cambiare l’ordine con cui vengono aggiunti e lavorati gli ingredienti può portare a un risultato radicalmente diverso.
IL BURRO IN PASTICCERIA Il burro, con il suo alto contenuto di grassi, scioglie e veicola i sapori nei prodotti in cui è presente, analogamente a latte e panna. È questo uno dei motivi per cui si aggiunge la proverbiale noce di burro a molti piatti. I grassi contribuiscono al gusto di un piatto riuscendo a sciogliere le molecole aromatiche liposolubili (che si sciolgono nei grassi) ma non idrosolubili (che si sciolgono in acqua). Le goccioline di grasso, con all’interno le varie molecole gustose, porteranno sulle nostre papille quelle molecole che altrimenti verrebbero ingoiate senza lasciare una traccia… gustosa. Pensate a quando preparate un soffritto: fate quasi sciogliere le cipolle nel burro, fino a quando non sono traslucide. In questo modo le molecole aromatiche che si formano si sciolgono nei grassi, e si diffondono in seguito nel risotto e sulle vostre papille. Alcuni effetti, come quelli di lubrificazione, sono identici a quelli già descritti parlando del latte e della panna. Altri invece sono peculiari del burro. BLOCCA LA FORMAZIONE DEL GLUTINE Il motivo principale per
cui si aggiunge il burro a un impasto con la farina è per bloccare la formazione del glutine. Questo effetto è fondamentale per dare la struttura caratteristica a una pasta frolla o a una pasta brisée. I grassi del burro avvolgono sia i granuli di amido della farina che le proteine. Quando viene aggiunta l’acqua questa riesce solo in minima parte a reagire con le proteine presenti nella farina (la gliadina e la glutenina) per formare il glutine perché il grasso impedisce fisicamente alle proteine di legarsi tra loro. Ovviamente è cruciale, al fine di riuscire nell’intento, aggiungere acqua o altri liquidi solo dopo che il burro è stato impastato finemente con la farina. La riduzione della formazione del glutine può ovviamente
La riduzione della formazione del glutine può ovviamente essere ottenuta anche attraverso l’uso di altri grassi come la margarina, lo strutto o altri grassi saturi. I grassi insaturi, per esempio quelli presenti in un olio di oliva, sono meno efficaci nel bloccare la formazione del glutine. FORMA UNA STRUTTURA LAMINARE In alcune particolari
lavorazioni il burro è fondamentale per costruire una struttura laminare. L’esempio migliore è la pasta sfoglia. Il particolare tipo di lavorazione fa sì che vi sia l’alternanza di sottilissimi strati di burro e altrettanto sottili strati di pasta. Il burro tiene ben separati gli strati di pasta impedendo la formazione del glutine. In cottura l’acqua contenuta nel burro evapora e il vapore solleva leggermente i vari strati separandoli e donando la caratteristica struttura a sfoglia sfruttata in molti dolci, dai croissant alla torta millefoglie. PARTECIPA ALLA REAZIONE DI MAILLARD Se in un impasto è
presente solo saccarosio questo non può direttamente prendere parte alla reazione di Maillard. Nel burro tuttavia è presente il lattosio, che può partecipare alla reazione e dare luogo, reagendo con le proteine presenti, a tutta una serie di composti saporiti. Possiamo vedere la reazione di Maillard in azione nel burro anche semplicemente scaldandolo in un pentolino. A 40 °C è completamente liquido. Verso i 70 °C cominciano a comparire delle bollicine, dovute all’acqua che comincia a evaporare. A 100 °C il burro produce una schiuma intensa. Quando l’acqua evapora del tutto, la temperatura del burro fuso comincia a salire. A 120 °C le proteine si combinano con il lattosio per formare varie molecole color marroncino che donano il tipico aroma “nocciolato” a questa fase del burro. Questo è quello che nella cucina francese si chiama beurre noisette.
FORNISCE UN SAPORE DI BURRO COTTO I prodotti di pasticceria
che contengono il burro si distinguono, per esempio, da quelli prodotti con la margarina per il sapore e l’aroma inconfondibile che emanano. Il sapore di burro cotto è causato da molecole (lattoni e metilchetoni) presenti solo in tracce nel burro fresco; con la cottura la concentrazione di queste molecole aumenta donando il sapore caratteristico. Questi composti reagiscono anche nella reazione di Maillard, creando nuovi aromi, come quelli che sentite quando odorate un croissant fatto con il burro. AERA IL PRODOTTO In molti prodotti da forno il primo passo
verso la preparazione dell’impasto consiste nello sbattere il burro morbido insieme allo zucchero. In questa fase il burro incorpora aria che servirà, una volta impastati gli altri ingredienti, a costituire delle microbollicine che in cottura potranno espandersi ulteriormente, anche per effetto del lievito chimico eventualmente aggiunto, e fornire prodotti più leggeri. PRODUCE UNA STRUTTURA FINE Nell’impasto di un prodotto da
forno il burro contribuisce a formare una struttura fine. In cottura il burro si scioglie, l’acqua evaporando lascia delle piccole cavità e il grasso viene assorbito dalla farina. Questo è uno dei motivi per cui la sostituzione del burro con l’olio può portare a una struttura interna diversa.
Lo sapevate che Il burro migliore è ottenuto per centrifugazione. Il burro da affioramento, metodo di produzione tradizionale, non sempre è in grado di evitare la proliferazione batterica nella panna durante le lunghe ore necessarie all’affioramento, e questo può determinare un deterioramento della qualità
organolettica del burro.
NUVOLE DI LATTE «La scoperta di un nuovo piatto è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella» diceva Anthelme Brillat-Savarin, famoso gastronomo francese autore del fondamentale La fisiologia del gusto pubblicato nel 1825. Nel libro che tenete tra le mani le ricette servono solamente a illustrare i meccanismi chimici e fisici alla base della pasticceria, e quindi ho volutamente scelto preparazioni di base molto semplici e nessun “nuovo piatto”. Tuttavia mi preme sottolineare come le conoscenze scientifiche dei processi che stanno alla base delle ricette di pasticceria classica, così come della cucina più in generale, non servano solamente per capire nel dettaglio quello che succede nel forno o in padella, ma possano servire anche per creare nuove preparazioni. Vediamo come. Come nasce una nuova ricetta? Molti piatti di successo sono nati da una combinazione di intuizione e ricerca. Altri per puro caso, oppure per sfruttare le poche materie prime a disposizione. Spesso il processo creativo, in campo gastronomico come in quello artistico, è visto come difficilmente imbrigliabile in un ragionamento formale, e la scienza, con le sue regole, viene spesso percepita come nemica dell’invenzione gastronomica. Non è necessariamente così. Capire l’esatta funzione di ogni ingrediente in una ricetta può anche aiutare a trasformarla in qualcosa di nuovo. Un approccio possibile è quello di scomporre una ricetta nelle sue componenti chimiche e funzionali in un processo che mi piace chiamare “riduzionismo gastronomico”. E ricomporre poi la ricetta usando ingredienti diversi che abbiano proprietà simili. Dobbiamo quindi avere una visione più “chimica” di una ricetta. Vediamo un esempio partendo da un caso molto semplice: le meringhe alla francese. Come abbiamo visto sono composte solamente da albume e zucchero. Per i nostri scopi però dobbiamo andare oltre la lista degli ingredienti e considerare che l’albume è composto dal 90% di acqua e dal 10% di proteine, con la completa assenza di grassi, che impedirebbero una buona montatura. Le proteine vengono denaturate intrappolando l’aria e l’acqua. Lo zucchero agisce da supporto e cristallizza in fase di asciugatura rendendo rigide le meringhe. La nostra ricetta “ridotta” prevede quindi dell’acqua, una piccola percentuale di proteine, dell’energia per denaturarle, e dello zucchero per stabilizzare la schiuma in fase di montatura e renderla rigida in cottura. Proviamo ora a ricomporre la ricetta usando ingredienti diversi, a patto che abbiano le stesse funzioni di quelli originari. Abbiamo bisogno di proteine in grado di denaturare e formare una schiuma: viene immediato pensare a quelle del latte che vediamo ogni volta che beviamo un cappuccino. Vista la necessità di evitare i grassi possiamo pensare di utilizzare del latte totalmente scremato. Questo però
grassi possiamo pensare di utilizzare del latte totalmente scremato. Questo però contiene meno proteine dell’albume: solitamente non superano il 4%. Sarà possibile montare il latte scremato, a cui va aggiunto lo zucchero, per ottenere delle “meringhe di latte”? Di fronte a una domanda di questo genere non c’è che da provare perché la teoria può solo rispondere che “è possibile ma non è detto”. È però necessario sicuramente cambiare un poco la procedura rispetto alle classiche meringhe alla francese: le proteine dell’albume denaturano per semplice agitazione meccanica mentre nel latte per denaturare le sieroproteine e permettergli di stabilizzare la schiuma abbiamo bisogno di calore. Tuttavia se scaldiamo troppo le sieroproteine coagulano formando sulla superficie del latte la classica pellicola. Perché questa ricetta? Questa ricetta mostra come le sieroproteine del latte abbiano delle proprietà simili a quelle dell’albume e si possano quindi utilizzare anche per produrre delle meringhe di latte.
1 _ Prendete 100 g di latte scremato e scaldatelo a 80 °C per 5 minuti. Temperatura e tempi dovrebbero essere sufficienti per denaturare almeno parzialmente le sieroproteine senza farle coagulare. Inutile dire che avete bisogno di un termometro. Durante il riscaldamento tenete il pentolino coperto in modo da non disperdere il calore.
2 _ Lasciate intiepidire e poi montate con una frusta elettrica: vedrete formarsi una schiuma persistente, anche se non così stabile come quella dell’albume. Se non si forma è possibile che abbiate scaldato troppo o per troppo tempo, facendo coagulare completamente le sieroproteine.
3 _ A questo punto bisogna aggiungere zucchero. Quando si inventa una ricetta nuova si procede un po’ per tentativi e un po’ per analogia. Vista la ridotta quantità di proteine nel latte scremato possiamo provare con una piccola quantità di zuccheri, visto che il latte già contiene lattosio. Come primo tentativo possiamo aggiungerne 20 g, continuando a frullare. Con così poche proteine e poco zucchero la schiuma rimarrà un po’ liquida, ma sufficientemente stabile da poterla raccogliere con un cucchiaio e posizionarla su una teglia per cuocerla in forno a 90-100 °C.
4 _ Dopo 3 ore in forno le “meringhe di latte” saranno pronte.
La ricetta è ancora lontana dall’essere ottimizzata e fa scaturire alcune domande: qual è la combinazione temperatura/tempo migliore per la denaturazione? E quanto zucchero è meglio mettere? Porsi delle domande e progettare esperimenti per trovare le risposte è il procedere tipico della scienza, e dovrebbe esserlo anche per la “scienza in cucina”. Provate ad aggiungere a 100 g di latte 0, 15, 30, o 50 g di zucchero e osservate il risultato. Potrete notare come il latte a cui non avete aggiunto nulla ha comunque prodotto delle meringhe (dopo tutto il latte già contiene zuccheri), che però non hanno mantenuto la struttura. 50 g di zucchero, invece sono troppi: la schiuma è molto liquida e instabile, e questo si riflette sulla quantità e grandezza delle bolle. I risultati migliori di questo esperimento li otterrete con una quantità di zucchero di 15-30 g ogni 100 g di latte. La grana delle meringhe con 15 g è più fine di quelle ottenute con 30 g, ma queste meringhe sono anche più friabili e delicate. Siamo ancora lontani dall’avere una ricetta con tutti i crismi, ma siamo sulla buona strada, e una domanda tira l’altra, portando a possibili nuove ricette. Per esempio,
strada, e una domanda tira l’altra, portando a possibili nuove ricette. Per esempio, è possibile utilizzare il latte di soia per produrre meringhe che non usino prodotti animali? O il latte scremato in polvere? Lo scopo di questo esempio era mostrare come la conoscenza precisa dei meccanismi scientifici che sono alla base dei processi culinari possa servire anche a ideare nuove preparazioni. Certo, a volte un’idea per una nuova ricetta, brillante sulla carta, potrà non funzionare e non produrrà nulla di commestibile. Altre volte invece potrete ottenere risultati interessanti. Giocate anche voi con il riduzionismo gastronomico! Ah, se vi state chiedendo che sapore abbiano queste nuvole di latte, beh, sanno… di latte cotto, un sapore molto simile a quello delle caramelle galatine.
RICETTA
Il dulce de leche Perché questa ricetta? Questa ricetta ci permette di illustrare la capacità del lattosio di partecipare alla reazione di Maillard, e l’uso del bicarbonato per contrastare l’acidità e prevenire la coagulazione delle proteine. In più il pH leggermente basico del bicarbonato favorisce la reazione di Maillard.
Se vi avanza un litro di latte, magari già aperto e prossimo alla scadenza, e non sapete cosa farne potreste prendere in considerazione l’idea di trattarlo come se fosse frutta da conservare e fare una specie di marmellata di latte: il dulce de leche. Una crema spalmabile il cui sapore ricorda molto da vicino le caramelle mou, che si ottengono con un procedimento simile. È un dolce di origine argentina, ma ormai diffuso anche in molti Paesi latinoamericani come il Messico (preparato con latte di capra e chiamato cajeta) e il Brasile. Ingredienti – 1 l di latte intero – 250 g di zucchero – 1 bacca di vaniglia (a piacere) – 1 g di bicarbonato di sodio (una punta di cucchiaino)
La procedura
1 _ Mettete a scaldare il latte in una pentola capiente, meglio se antiaderente. Usate preferibilmente latte intero, che ha una percentuale di grassi almeno del 3,5%. Quando il latte è tiepido aggiungete lo zucchero e, se volete, la
bacca di vaniglia tagliata in due per la lunghezza.
2 _ Dopo aver mescolato per sciogliere lo zucchero aggiungete il bicarbonato di sodio. Tenete il fuoco molto basso, lasciando sobbollire il latte e mescolando se necessario, altrimenti il bicarbonato genererà troppa schiuma che uscirà dalla pentola causando un conseguente disastro culinario. Non ridete, mi è capitato davvero!
3 _ A mano a mano che il latte evapora il liquido diventa più denso. Dopo un’ora potete togliere la vaniglia, nel caso l’abbiate aggiunta. Il colore diventa progressivamente più scuro, quasi marrone.
4 _ Il dulce de leche è pronto quando la concentrazione di acqua ha raggiunto il 30%. Potrebbero servire anche 2 o 3 ore, a seconda del fuoco utilizzato.
5 _ Potete prelevarne un cucchiaino e farlo raffreddare su un piattino per controllare che abbia raggiunto la viscosità desiderata, un po’ come fareste per la marmellata. Quando avete ottenuto la consistenza di una crema spalmabile toglietelo dal fuoco, filtratelo con un colino e mettetelo in un barattolo di vetro, quindi riponetelo in frigorifero. Il colino serve a bloccare eventuali grumi che si fossero formati durante la cottura.
A causa dell’alta concentrazione di zucchero il dulce de leche si conserva per almeno due settimane. Sempre ammesso che vi duri così tanto, visto che il suo consumo provoca dipendenza! L’industria dolciaria spesso aggiunge dell’amido – circa il 2% sul totale – per aumentare la viscosità e usarlo come ripieno di dolci e caramelle. Il bicarbonato di sodio è comunemente usato, direttamente o nel lievito chimico, come agente lievitante. È molto più raro invece vederlo usato per la sua proprietà di alzare il pH. In questa preparazione svolge un duplice ruolo. Il latte fresco ha un pH di poco inferiore a 7. Al procedere della cottura la soluzione diventa più acida e questo può portare alla coagulazione parziale della caseina e alla formazione di grumi. Per ovviare a questo problema si aggiunge il bicarbonato che, in quanto alcalino, neutralizza gli acidi presenti alzando il pH. Il colore bruno, l’aroma e il sapore caratteristico di questa preparazione sono prodotti dalla reazione di Maillard, che avviene tra il lattosio e alcuni amminoacidi presenti nelle proteine, specialmente la lisina. La velocità di questa reazione aumenta in ambiente alcalino, quindi viene favorita dal bicarbonato. Attenti però a non esagerare. Se volete un prodotto di un colore più pallido riducete il bicarbonato.
Uno dei difetti che può presentare il dulce de leche è una certa “sabbiosità”. Questa è dovuta al fatto che, con l’evaporazione dell’acqua, oltre una certa concentrazione il lattosio non riesce più a rimanere disciolto e cristallizza in minuscoli cristallini che, al palato, danno una sensazione di sabbiosità. Il lattosio ha una bassa solubilità, che nel dulce de leche viene ulteriormente ridotta dalla presenza del ben più solubile saccarosio. Un modo per ovviare a questo problema, specialmente se si desidera un prodotto molto denso, è partire da latte a ridotto contenuto di lattosio, ormai comunemente in vendita al supermercato per le persone intolleranti, in cui questo zucchero viene scisso, tramite un enzima, nei due zuccheri semplici che lo costituiscono: il glucosio e il galattosio. Un altro accorgimento che si può utilizzare è quello di sostituire sino al 15% del saccarosio con del glucosio o dello sciroppo di glucosio. Se non lo avete potete usare del miele. Il glucosio interferisce con la formazione dei cristalli di lattosio riducendo il rischio di cristallizzazione.
RICETTA
La panna montata Perché questa ricetta? Questa ricetta mostra come a basse temperature i globuli di grasso presenti nella panna possano depositarsi attorno alle bolle d’aria stabilizzandole.
Ingredienti – 250 ml di panna fresca – 20 g di zucchero
Armati delle nostre conoscenze ora possiamo montare la panna perfettamente: la temperatura deve essere tra 2 °C e 6 °C e la percentuale di grasso contenuto tra il 30% e il 36%. È meglio usare panna fresca pastorizzata, se possibile in modo blando. Non c’è alcun motivo di preferire la panna UHT se avete a disposizione quella fresca. Sarebbe meglio usare panna appena prodotta; purtroppo però la data di produzione non è quasi mai riportata sulle confezioni. In linea di principio potremmo avere delle indicazioni osservando la data di scadenza e sceglierne una che abbia la data di scadenza più in là possibile. Tuttavia pastorizzazioni più spinte possono ritardare di qualche giorno la scadenza della panna, con il risultato di peggiorarne la montabilità. In più la qualità della materia varia da produttore a produttore. Provate a usare panna di produttori diversi finché non trovate quella che per voi è la migliore. In mancanza di altre informazioni io compero sempre panna pastorizzata che sia la più fresca possibile, leggendo la data di scadenza. Mentre la panna fresca in commercio in Italia ha un tenore di grassi del 35%-36%, in altri Paesi vendono anche panna con
una percentuale di grassi superiore, fino al 40% (la heavy cream delle ricette anglosassoni, per esempio). Come abbiamo visto questa panna non è l’ideale per essere montata e dovrebbe essere un po’ diluita con del latte. La panna italiana ha una percentuale di grassi molto vicina al valore ottimale suggerito del 33% e quindi non è necessario diluirla. La procedura
1 _ La panna va tenuta in frigorifero. Se è troppo calda non monterà. Se non è molto fredda e volete andare sul sicuro potete anche tenerla per 5 minuti in freezer, ma state attenti a non farla congelare.
2 _ Montatela con una frusta elettrica o un robot da cucina. Per mantenere fredda la panna durante l’operazione è consigliabile mettere nel freezer per almeno 10 minuti la bacinella di metallo che userete per montare, insieme agli accessori rotanti. Potete montare la panna anche con un robot da cucina, se volete. Non sono molto adatti invece quegli apparecchi con un accessorio rotante fissato al fondo di un recipiente. Questo non riesce a incorporare aria in modo efficace, essendo solitamente troppo piccolo e disposto in modo non adatto allo scopo.
3 _ Cominciate a montare a bassa velocità, aumentandola quando avrete già inglobato un po’ d’aria. È importante, mentre montate, continuare a muovere la frusta per riuscire a inglobare più aria possibile. Verso la fine, se necessario, aggiungete lo zucchero. Usate quello di grana extrafine affinché si sciolga più velocemente. Quanto zucchero aggiungere dipende dal vostro palato. La mia
dose ottimale è di 20 g ogni 250 ml di panna. Mi raccomando, pesate lo zucchero, non andate a occhio!
4 _ Dopo pochi minuti la panna montata è pronta. Potete anche affondare un dito e assaggiarla. I globuli di grasso si sono disposti attorno alle bollicine d’aria inglobata stabilizzandoli. Se la panna è montata a dovere dovrebbe restare al suo posto anche se capovolgete la ciotola, ma non fatelo se non ne siete sicuri. Come la preferisco? Semplicemente messa sulle fragole tagliate, senza altra aggiunta di zucchero. La morte sua!
RICETTA
Il mascarpone «Così, precisi come quej de la mascherpa, hinn restaa lì i sò amis a vedè i carabinier...» Faceva il Palo, WaldiJannacci. Così, precisi come quelli della Mascherpa, sono restati lì i suoi amici, a vedere i carabinieri… Perché questa ricetta? Questa ricetta mostra come l’aumento della temperatura e la riduzione del pH riescano a far denaturare e coagulare le proteine della panna.
Il dessert italiano più conosciuto e apprezzato nel mondo è sicuramente il tiramisù. Questo dolce al cucchiaio, inventato negli anni Settanta nel ristorante trevigiano Le Beccherie, deve almeno parte del suo successo alla cremosità del suo ingrediente fondamentale: il mascarpone. Questo latticino ricco di grassi – fino al 50% –, chiamato anche mascherpone, è spalmabile, cremoso, dal sapore di panna, solo leggermente acidulo, e da consumarsi fresco perché facilmente deperibile. Originario della Lombardia, veniva una volta prodotto artigianalmente solo nei mesi invernali, quando il freddo aiutava a ridurre il rischio di deterioramento del prodotto dovuto a ossidazioni e fermentazioni indesiderate durante la produzione e la breve conservazione. Il nome deriva dal termine dialettale lodigiano mascherpa, che significa «ricotta», dato che la preparazione del mascarpone ricorda molto da vicino quella della più magra
ricotta. Il mascarpone è il risultato della coagulazione acidotermica (quindi ottenuta scaldando e acidificando) della crema di latte, comunemente detta panna. Contrariamente ad altri prodotti nei quali l’acidificazione è dovuta alla lenta produzione di acido lattico da parte di batteri, nel mascarpone, come nella ricotta, l’acidità aumenta aggiungendo un acido dopo aver riscaldato la panna. Solitamente si usa acido citrico, ma a volte sono impiegati anche altri acidi organici come l’acido acetico o l’acido tartarico. In passato artigianalmente si usava del succo di limone o dell’aceto per far avvenire la coagulazione. Ecco dunque la ricetta schematica per preparare il mascarpone: si scalda la panna al 25-35% di grassi a 80-90 °C, e si acidifica portandola a pH 5,7-6,4. La panna coagulata viene quindi trasferita a spurgare su teli a maglia fine. Nella produzione artigianale, dopo 8-10 ore si formavano dei fagotti da 20-25 kg e si mettevano in celle frigorifere a 8-10 °C per la spurgata finale, drenando il siero per 20 ore.
Nei mascarponi in commercio la percentuale di grassi varia tra il 30% e il 50%. I prodotti con meno grassi sono solitamente quelli di qualità inferiore, i “primo prezzo”. Alcune aziende utilizzano solo panna nella produzione di mascarpone, altre una miscela di panna e latte. La cosa non deve stupire perché alla fine quello che conta è la percentuale di grassi della panna utilizzata nel procedimento. Noi useremo 200 g di panna fresca. Industrialmente per indurre la coagulazione della panna si usa l’acido citrico (a volte indicato solo con il suo codice di additivo: E330), un solido bianco che viene comunemente
additivo: E330), un solido bianco che viene comunemente venduto nei negozi di enologia. Se non trovate l’acido citrico potete usare del succo di limone. Ingredienti – 200 g di panna fresca – 5 g di acido citrico in 95 d di acqua, oppure 5 ml di succo di limone filtrato – 95 g di acqua
La procedura
1 _ Preparate una soluzione al 5% in peso sciogliendo 5 g di acido citrico in 95 g di acqua (ce l’avete in cucina una bilancia che misura i grammi, vero?!?).
2 _ Mettete la panna in un pentolino e scaldate a fuoco basso fino ad arrivare a 85 °C (ce l’avete un termometro, vero?!?) e tenete questa temperatura per 5 minuti (se sgarrate di uno o due gradi in più o in meno non cambia nulla). Durante questo tempo state denaturando le sieroproteine che così potranno aggregarsi alle caseine. Spegnete il fuoco e aggiungete, mescolando, 5 ml della soluzione che avete preparato prima. Usate una siringa per misurare la quantità di liquido che vi serve. Se non avete l’acido citrico usate 5 ml di succo di limone filtrato.
3 _ L’aggiunta dell’acido causa una rapida coagulazione delle proteine. A causa dell’elevato contenuto di grasso non si nota una cagliata come per la ricotta, ma solo un ispessimento della panna, dovuto alla formazione di piccolissimi grumi. Lasciate raffreddare per una decina di minuti.
4 _ Versate in un colino con sopra un telo a maglie molto fitte o un filtro di carta come quelli per il caffè, posto sopra un recipiente per raccogliere il siero. Mettete in frigorifero e lasciate spurgare il siero per almeno 12 ore. Quando il mascarpone si stacca facilmente dal telo è pronto per essere trasferito in un contenitore e consumato. Il siero spurgato apparirà di un colore giallino quasi trasparente. Oltre a preparare dessert e creme varie potete usare il mascarpone per molte preparazioni al posto della panna. Oppure potete semplicemente gustarlo con un po’ di zucchero e del cacao amaro spolverato sopra. Io ne ho spalmato un po’ su un biscotto e gnam (sono come una droga)…
RICETTA
Il burro fatto in casa Perché questa ricetta? Questa ricetta mostra come la vigorosa agitazione della panna, strappando la membrana protettiva dei globuli di grasso, riesca a invertire l’emulsione e a produrre il burro.
È molto facile produrre il burro in casa, divertente, e didatticamente utile, specialmente se avete dei bambini. Prendete una confezione di panna fresca (non panna da cucina!). È opportuno che la panna sia fredda. La temperatura ottimale dovrebbe essere tra i 7 e i 13 °C, ma per questo esperimento casalingo va benone della panna raffreddata in frigorifero. Attenzione alla panna che acquistate: per facilitare la produzione di panna montata alcuni produttori aggiungono uno stabilizzante dell’emulsione, solitamente la carragenina (E407). Poichè vogliamo produrre il burro e non la panna montata, scegliete un prodotto senza stabilizzanti. Ingredienti – 250 ml di panna fresca – 1 bottiglia di plastica vuota da 500 ml – 1 biglia di vetro – 1 volontario
La procedura
1 _ Il modo più semplice per preparare il burro è usare una frusta elettrica, come per montare la panna, ma continuando a oltranza sino a quando il grasso non si
separa. Se però volete fare tutto a mano, e magari far partecipare i vostri figli o nipoti all’esperimento, versate la panna, solitamente in confezioni da 250 ml, in una bottiglietta di plastica vuota da 500 ml. Per rendere più efficace la “zangolatura” potete introdurre nella bottiglia una biglia di vetro.
2 _ Chiudete bene il tappo e cominciate ad agitare. La biglia andando a sbattere contro la superficie della panna aiuterà a rompere i globuli rilasciando il grasso che comincerà a separarsi.
3 _ Dopo qualche minuto di vigorosa agitazione non sentirete più il rumore della biglia che sbatte, e vedrete la consistenza della vostra panna liquida cambiare e diventare quasi solida.
4 _ Ancora pochi colpi e la panna montata che avete nella bottiglietta si trasformerà in burro, separando la parte liquida. Continuate a sbattere sino a quando il grasso non sarà ben separato. Aprite la bottiglia, versate il liquido contenuto (il latticello) e introducete nella bottiglia una quantità equivalente di acqua ghiacciata. Sbattete ancora per un po’ per lavare il burro. Potete ripetere questo passaggio più volte, finché il liquido non sarà abbastanza limpido. Badate però che più lavate il burro e meno sapore avrà.
5 _ Ora potete tagliare la bottiglietta e togliere il burro. Mettetelo in una ciotola e lavoratelo con una forchetta, per schiacciare fuori le sacche di latticello eventualmente ancora presenti all’interno. Infine appoggiatelo su un telo molto fine, o un fazzoletto, e strizzatelo.
6 _ Complimenti: avete preparato il vostro primo panetto di burro. Assaggiatelo: poiché, a differenza di quello commerciale, non ha subito il processo di fermentazione batterica sarà meno saporito, con un sapore “di panna”. Potete utilizzarlo per le preparazioni di pasticceria in cui non volete che prevalga l’aroma del burro classico, ricordando però che il contenuto di acqua è superiore a quello del burro commerciale. Se volete conservarlo per più di qualche giorno tenetelo in freezer. In frigorifero non dura a lungo poiché contiene troppa acqua, che favorisce l’ossidazione e l’irrancidimento.
IV LA FARINA LA FARINA È LA REGINA DELLA PASTICCERIA. BISCOTTI, TORTE, CROSTATE E DOLCI LIEVITATI SONO PRODOTTI CHE POSSONO AVERE PROFUMI E SAPORI DIVERSISSIMI, A SECONDA DEGLI INGREDIENTI AROMATICI CHE CONTENGONO COME CACAO, FRUTTA SECCA O CANDITA, MIELE E COSÌ VIA. MA TUTTI DEVONO LA LORO STRUTTURA PORTANTE ALLA FARINA. NON A CASO LE PRIME RICETTE DI DOLCI CONSISTEVANO SEMPLICEMENTE DI PANE, CHE FUNGEVA DA IMPALCATURA, CON MIELE E FRUTTA SECCA AGGIUNTI NELL’IMPASTO.
LA FARINA E LE SUE COMPONENTI In pasticceria quando si parla di farina si intende quella di grano (o frumento) tenero (Triticum aestivum). I piÚ grandi produttori di grano tenero sono Cina, India, Stati Uniti, Francia e Russia. Il nostro Paese nel 2012 era al 18° posto e, non essendo autosufficienti, importiamo la maggioranza del frumento tenero che consumiamo. Siamo invece al secondo posto dietro il Canada come produttori di grano duro, che
usiamo principalmente per produrre pasta, ma anche in questo caso siamo costretti a importarne il 40%. FIG. 12
“RADIOGRAFIA” DI UN CHICCO DI GRANO
In figura 12 potete vedere una rappresentazione grafica di un chicco di grano o, più precisamente, di una cariosside. La buccia esterna, i tegumenti, costituisce la crusca. Abbiamo poi il germe o embrione e infine l’endosperma, cioè la parte che contiene l’amido che gli dà il caratteristico colore bianco e le proteine che formano il glutine. Nel processo di produzione della farina si priva il chicco del germe e dell’involucro esterno. L’endosperma, che costituisce la maggior parte del chicco, viene poi rotto e macinato in fasi successive per produrre la farina del tipo desiderato. Solo nella
successive per produrre la farina del tipo desiderato. Solo nella produzione di farina integrale si macina il chicco completo di germe e crusca. Il germe, l’embrione di una nuova pianta, contiene piccole quantità di grassi che con l’andar del tempo irrancidiscono, ed è questo il motivo principale per cui la farina integrale non si conserva tanto quanto quella raffinata. La crusca, di colore più scuro dell’endosperma, contiene molte fibre insolubili costituite principalmente di cellulosa, che non vengono metabolizzate dal nostro corpo ma che sono utili per il buon funzionamento del nostro apparato digerente. La farina di grano tenero è composta per la maggior parte da amido e proteine. Diamo un’occhiata più approfondita a queste due componenti e alle loro proprietà.
IL GLUTINE Si parla sempre più spesso di glutine. Ora sono popolari le diete “senza glutine” e molte persone scoprono o sospettano di essere intolleranti. E pensare che invece agli inizi del secolo scorso aggiungere glutine alla pasta per poter vendere la “pasta glutinata” era una pratica commerciale di cui vantarsi. Ma che cos’è esattamente il glutine e quali sono le sue proprietà? La farina contiene dal 9 al 15% di proteine, contenute sia nell’endosperma, principalmente glutenine e gliadine, sia nella crusca, nel caso la farina non sia completamente raffinata. Glutenine e gliadine, che vengono chiamate “proteine del glutine”, a contatto con l’acqua e per azione meccanica si legano fra loro chimicamente, in un modo ancora non completamente chiarito, per formare un complesso proteico chiamato glutine, creando una specie di maglia elastica. Pensatelo come una sorta di supermolecola che si estende per tutto l’impasto. Il glutine assorbe da una volta e mezzo a due volte il suo peso in acqua e durante la lievitazione trattiene l’anidride carbonica sviluppata dal lievito. È questa la proprietà più importante in pasticceria e per la panificazione. La percentuale relativa di glutenine e gliadine determina le proprietà dell’impasto: le prime lo rendono tenace ed elastico, le seconde estensibile. Ecco perché le farine non sono tutte uguali e dovete conoscerne le differenze. Dal momento che la formazione di glutine richiede energia meccanica, la fase di impasto è fondamentale. Continuando a impastare il glutine diventa sempre più forte perché si formano nuovi legami tra proteine, mentre l’acqua viene completamente incorporata e l’impasto non è più appiccicaticcio ma assume una consistenza setosa. Quando il glutine è correttamente sviluppato è possibile stendere l’impasto sino a renderlo estremamente sottile senza che si rompa.
La celiachia È una malattia autoimmune: il sistema immunitario cioè, detto semplicisticamente, si attiva contro l’organismo stesso. Colpisce circa l’1% della popolazione e, per motivi sconosciuti, ci sono molte più donne celiache che uomini. Nelle persone geneticamente predisposte alla malattia la risposta del sistema immunitario è scatenata dal glutine. Più precisamente il celiaco deve temere una classe di proteine, le prolammine. Il glutine del frumento ne contiene una: la gliadina. Una porzione di 33 amminoacidi di questa proteina non viene “digerita” e quindi permane nell’intestino dove, nei celiaci, scatena una reazione che porta a una infiammazione dei tessuti intestinali a cui fanno seguito altri problemi come, per esempio, carenza di ferro e osteoporosi. La celiachia si sviluppa in individui geneticamente predisposti, ma la componente genetica non è sufficiente per lo scatenarsi della malattia. Vi sono ancora molti punti oscuri nell’origine di questa malattia e se è vero che una buona percentuale di celiaci non sa di esserlo perché la diagnosi arriva tardi – magari dopo anni di disturbi –, ci sono anche persone portatrici di queste particolari caratteristiche genetiche che possono consumare liberamente grano e altri cereali contenenti prolammine senza avvertire i sintomi della celiachia. Ciò che è sicuro è che non esiste una cura per questa malattia. L’unica cosa che il celiaco può fare è evitare il contatto con il glutine, che non è presente solo nel grano ma anche in segale, orzo, farro, spelta, Kamut® e triticale.
ESTRAZIONE DEL GLUTINE Avete mai visto il glutine? Esiste una procedura standard di laboratorio per separarlo dall’amido e dalle altre proteine. La farina viene trattata con acqua salata e poi centrifugata, sfruttando il fatto che le albumine, simili a quelle contenute nell’uovo, sono solubili in acqua mentre le globuline sono solubili solo in una soluzione salina. In cucina non abbiamo gli strumenti di laboratorio, ma possiamo arrangiarci.
1 _ Preparate 100 g di acqua e scioglieteci dentro 4 g di sale da cucina: userete quest’acqua per impastare la farina. Pesate 50 g di farina in un recipiente basso.
2 _ Aggiungete l’acqua salata preparata in precedenza, un cucchiaino alla volta, mescolando con una forchetta. All’inizio l’impasto deve essere lavorato senza toccarlo direttamente, per evitare che il grasso presente sulla nostra pelle possa influenzare la formazione del glutine. Non è possibile dare indicazioni precise sull’acqua da aggiungere, perché
questo dipende dal tipo di farina che utilizzate. Iniziate con 20 g e poi procedete piano piano. Se vi rendete conto che l’impasto è troppo colloso e liquido aggiungete altra farina.
3 _ Dopo qualche minuto l’impasto ha preso una certa consistenza, quindi potete continuare a lavorarlo con le mani, impastando ancora per qualche minuto: a questo punto l’impasto non è più appiccicoso perché il glutine, che si sta formando, trattiene l’acqua. Lasciate riposare la pallina per 15 minuti, avendo cura di coprirla con della pellicola per alimenti, in modo da evitare che si secchi. Il glutine continuerà a svilupparsi, distendendosi e formando nuovi legami.
4 _ Dopo il riposo prendete la pallina e iniziate a lavorarla sotto un filo di acqua fredda corrente. L’amido comincerà ad andarsene via, insieme alle proteine solubili in acqua. Lavoratelo sino a quando la pallina non rilascia più amido. Quello che rimane è il nostro amico glutine.
5 _ Potete asciugarlo nel forno, a 120 °C per cinque minuti.
Il seitan Il glutine è la base del seitan e del suo parente stretto, il cosiddetto “muscolo di grano”. Sono prodotti proteici diretti tendenzialmente a vegetariani (che non mangiano carne e pesce) e vegani (che non mangiano neppure uova, latte e in genere i prodotti animali). Il glutine non è granché saporito, quindi per renderlo più appetibile si aggiungono solitamente salsa di soia o altri insaporitori. Essendo una sostanza proteica, in presenza di zuccheri può dare luogo alla reazione di Maillard, come la carne. Se avete fatto l’esperimento di separazione del glutine potete provare a marinarlo per 10 minuti in succo di limone, per fornirgli zuccheri riducenti necessari alla reazione di Maillard, e poi passarlo in padella con un po’ di olio. Dovreste poter vedere chiaramente i brunimenti della reazione di Maillard.
L’AMIDO È la componente principale della farina (64-74%) ed è presente nell’endosperma sotto forma di granuli. Potete pensarli come tanti piccoli sassolini, come quelli che trovate in riva al mare, a volte arrotondati a volte più spigolosi, impaccati densamente nel chicco e cementati insieme dalle proteine del glutine. L’amido si trova non solo nei chicchi dei frumenti ma anche in quelli di altri cereali, come il mais e il riso, in alcuni tuberi come le patate e in molti altri vegetali, dai fagioli alle castagne. Si trova in vendita anche puro e commercialmente si distingue a seconda dell’origine. L’amido di frumento è chiamato frumina, quello di mais maizena, mentre quello di patata prende il nome di fecola. L’amido di riso non ha un nome commerciale particolare. L’interno dei granuli è composto da due molecole: l’amilosio e l’amilopectina. Entrambe sono polisaccaridi formati da moltissime unità di glucosio legate assieme. L’amilosio è presente per il 10-30% mentre l’amilopectina per il 70-90%, a seconda della pianta da cui viene estratto l’amido. Le molecole di amilosio sono lunghe catene lineari con migliaia di unità di glucosio legate in fila indiana mentre l’amilopectina, più grande, ha una struttura ramificata simile a un corallo. In un granulo, l’amilopectina forma una serie di sfere concentriche con l’amilosio disperso tra le varie stratificazioni. L’importanza dell’amido in cucina, e soprattutto in pasticceria, risiede nel suo comportamento quando è scaldato in presenza di acqua. I granuli, messi in acqua fredda, rimangono sospesi, ma non appena la temperatura raggiunge i 60-75 °C, a seconda del tipo di amido, cominciano ad assorbire molta acqua rigonfiandosi. Questo processo si chiama gelatinizzazione. In questa fase i granuli, gonfi d’acqua, hanno difficoltà a muoversi e fanno aumentare la viscosità del liquido in cui sono sospesi. È quello che avviene per esempio quando addensiamo una cioccolata casalinga con l’amido o la farina,
addensiamo una cioccolata casalinga con l’amido o la farina, oppure quando prepariamo una salsa besciamella. La stessa cosa avviene all’interno di un impasto o una pastella per torte, anche se non lo possiamo vedere. Continuando a scaldare da alcuni granuli fuoriesce l’amilosio. Raffreddandosi, con le sue lunghe catene formerà un reticolo tridimensionale che intrappola l’acqua con la formazione di un gel, in modo analogo a quanto accade con le proteine dell’albume. Solo l’amilosio è in grado di formare un gel, mentre l’amilopectina addensa ma non gelifica. Il gel formato da amilosio è una delle componenti strutturali più importanti per molti tipi di torte umide ma anche per alcuni dolci al cucchiaio come i budini. Continuando ad aumentare la temperatura, la gelatinizzazione raggiunge il suo livello massimo, che può essere tra i 75 e i 95 °C a seconda del tipo di amido. A questo punto la cottura dovrebbe terminare. Procedendo oltre sempre più granuli implodono riducendo via via la viscosità e la capacità di formare un gel. È per questo motivo che l’amido può essere portato all’ebollizione solo per qualche minuto, come accade nella preparazione di una crema pasticciera, pena la perdita delle sue proprietà.
CONOSCI LA TUA FARINA Abbiamo imparato nei capitoli precedenti a distinguere i vari tipi di zuccheri, le uova di diversa produzione e le differenti tipologie di latte e panna. Anche per la regina degli ingredienti, la farina, dobbiamo padroneggiare bene le differenze tra le varie confezioni in commercio, per capire qual è più adatta alla ricetta che vogliamo preparare. Come vedremo le cose sono un poco più complicate che per gli ingredienti che abbiamo già visto, perché non tutte le informazioni che ci servono sono riportate sulla confezione. La prima distinzione da fare è rispetto al tipo di frumento utilizzato per produrre la farina. In pasticceria si usa quasi esclusivamente la farina di grano tenero e solo in particolari occasioni si usa, a volte miscelata, la farina di grano duro. Quest’ultima la trovate in commercio in varie tipologie chiamate semola, semola rimacinata e farina di grano duro. Si utilizzano però più spesso nella panificazione e soprattutto per produrre la nostra amata pasta secca. Ricordatevi che il Kamut®, una varietà del Triticum turanicum o grano Khosaran, altro non è che un parente genetico molto stretto del grano duro e quindi non potete utilizzarlo in pasticceria, se è prevista la farina di grano tenero, senza ulteriori modifiche alla ricetta. Tutte le farine di grano tenero in commercio contengono amido e le proteine del glutine provenienti dall’endosperma. Possono però anche contenere, in parte o totalmente, la crusca e il germe del chicco. Poiché la crusca è più ricca di minerali mentre l’endosperma, ricco di amido, ne contiene molti meno, la legge italiana ha deciso di classificare le farine in commercio in base al contenuto di minerali. O meglio, sono classificate in base alle ceneri, cioè a quello che rimane dopo aver bruciato la farina, visto che i minerali e i loro ossidi non bruciano. Più è basso il contenuto di ceneri, più la farina è stata prodotta con il solo endosperma, e più è bianca. La farina integrale avrà invece il massimo contenuto di ceneri, perché tutto il chicco è
invece il massimo contenuto di ceneri, perché tutto il chicco è stato utilizzato e sarà più scura. Nell’industria molitoria si parla di abburattamento, cioè della percentuale di farina estratta da un chicco. La “resa” insomma. L’analisi delle ceneri di una farina è quindi una misura dell’abburattamento ottenuto. La legge italiana classifica le farine di grano tenero nei tipi 00, 0, 1, 2 e integrale. TAB. 11
TIPO DI FARINA
UMIDITÀ CENERI max min
00
14,50%
0
14,50%
1
14,50%
2
14,50%
integrale
14,50%
–
–
–
– 1,30%
CENERI PROTEINE ABBURATTAMENTO max min 0,55%
9%
50%
0,65%
11%
72%
0,80%
12%
80%
0,95%
12%
85%
1,70%
12%
100%
Lo sapevate che La tipologia di farina – 00, 0, 1 e così via – non indica la granulometria come molti pensano, ma la quantità di crusca e germe presenti. La farina 00 è quella più utilizzata in pasticceria. Estratta solamente dall’endosperma permette di avere una struttura interna dei prodotti, come biscotti e torte, molto fine. Il glutine non ha impedimenti per formarsi, perché non sono presenti le proteine della crusca e le fibre. Passando dalla farina 00 alla farina integrale, la struttura interna dei prodotti diventa via via
farina integrale, la struttura interna dei prodotti diventa via via più grossolana e il glutine ha, a parità di altri ingredienti, sempre più difficoltà a formarsi. Sugli stessi scaffali dove sono esposti i pacchi di farina 00 si trovano anche pacchetti denominati “miscele per torte” o “preparati per torte”. Dal punto di vista commerciale non si possono chiamare farine perché hanno una percentuale di proteine inferiore al 9%, ma il loro utilizzo è analogo, perché per la preparazione di alcune torte spesso servirebbero farine con meno del 9% di proteine. Questi preparati, a cui a volte viene aggiunto il lievito chimico già nella confezione, sono una miscela di farina 00 e di amido, aggiunto in modo da ridurre la percentuale di proteine. L’angolo chimico: glutine e farina integrale Nonostante la farina integrale abbia un contenuto di proteine superiore alla farina 00, produce meno glutine per due motivi. Il primo è che gliadine e glutenine, le proteine che servono per dare il glutine, sono presenti solo nell’endosperma e non nel germe o nella crusca. Secondariamente, le proteine della crusca e le fibre presenti interferiscono con la produzione del glutine. Quindi, nei prodotti dove la formazione del glutine è molto importante, per esempio nel panettone, la sostituzione della farina 00 con quella integrale porterà inevitabilmente a un peggioramento qualitativo del prodotto.
I PARAMETRI DELLE FARINE La classificazione commerciale che abbiamo appena visto purtroppo non è per nulla sufficiente per capire quale farina è più opportuna per un pan di Spagna oppure per preparare dei bignè. Due farine 00 possono sviluppare una quantità di glutine completamente differente, ma come fare a distinguerle? Quanta acqua si deve aggiungere a una determinata quantità di farina? Verificare la qualità della farina e le sue proprietà nella fase di impasto, lievitazione e cottura non è una cosa semplice. A questo scopo nei molini viene ormai effettuata tutta una serie di misurazioni chimiche e fisiche utilizzando appositi strumenti per classificare al meglio le farine prodotte. Guardate per esempio questa scheda tecnica di una farina. Proteine min. 13% s.s. Alveografo Chopin: W da 270 a 300 P/L da 0,45 a 0,55 Farinografo Brabender: Assorbimento (A) da 55% a 57% Stabilità (CD) da 8 a 15 minuti Amilografo Brabender: Amilogramma da 600 a 1.000 (U.A.)
Che cosa sono tutti quei dati? Vediamo i più importanti.
IL FARINOGRAFO E L’IDRATAZIONE DELLA FARINA Risale agli anni
Trenta l’invenzione del farinografo di Brabender per registrare graficamente su carta, tramite un pennino mobile, la fase dell’impasto della farina con l’acqua. Il farinografo impasta meccanicamente la miscela di acqua e farina e misura la resistenza opposta dall’impasto in funzione del tempo. FIG. 13
FARINOGRAMMA
Il farinogramma ottenuto, come potete vedere nel grafico 13, serve per misurare la percentuale ottimale di acqua da aggiungere alla farina per avere la giusta consistenza, il tempo di sviluppo dell’impasto – una approssimazione del tempo minimo di lavorazione necessario per sviluppare al meglio il glutine –, la sua stabilità – quanto tempo di lavorazione l’impasto può sopportare prima di iniziare la fase di rammollimento – e l’“indice di caduta” – in quanto tempo l’impasto perde la sua consistenza. Farine di bassa qualità non reggono più di 3 minuti di lavorazione mentre farine di qualità eccellente possono reggere anche tempi di impasto superiori ai 10 minuti. La farina descritta in figura assorbe dal 55 al 57% di acqua e ha un tempo di stabilità tra gli 8 e i 15 minuti. Tempi di lavorazione
tempo di stabilità tra gli 8 e i 15 minuti. Tempi di lavorazione più lunghi hanno come risultato il rammollimento dell’impasto. Un professionista può leggere queste informazioni indispensabili sui sacchi di farina che acquista. Se invece comprate un pacco di farina al supermercato queste informazioni purtroppo sono del tutto assenti. L’ALVEOGRAFO E LA FORZA DELLA FARINA Un altro apparecchio,
l’alveografo di Chopin, inventato nel 1921 da Marcel Chopin, fornisce un indice che viene ormai comunemente utilizzato da panificatori e pasticcieri professionisti e, ultimamente, anche dagli amatori: W, spesso un po’ impropriamente chiamato “forza della farina”. Avete mai fatto le bolle coi chewing gum? L’alveografo funziona allo stesso modo: si mette un disco di pasta di peso e idratazione standard al centro e gli si insuffla aria da sotto per produrre una bolla, in modo da simulare l’effetto della lievitazione e misurare la capacità dell’impasto di trattenere il gas. Sotto l’effetto della pressione dell’aria insufflata la bolla si espande sino a rompersi. Il risultato di questa prova è un alveogramma, che, come vedete nel grafico 14, riporta un grafico della pressione (P) in funzione dell’estensione (L) della bolla di impasto. Dall’area sottesa alla curva si può calcolare l’energia totale spesa per rompere l’impasto. Questa energia viene indicata con W (che in fisica rappresenta una energia, e quindi è improprio, anche se ormai in uso, chiamarla “forza”) e rappresenta un indice globale di comportamento della farina. FIG. 14
ALVEOGRAMMA
Il massimo della curva identifica P, che rappresenta la tenacità del glutine, mentre L rappresenta l’estensibilità: più è elevata e più l’impasto è estensibile. Ai fini pratici questi due parametri vengono combinati, per calcolare l’indice P/L. Il valore di riferimento è di 0,5. Una farina per biscotti avrà un valore di W e di P/L bassi (per esempio W=100 e P/L=0,4) mentre una farina per prodotti lievitati avrà W e P/L alti (per esempio W=350 e P/L=0,6). Un valore di P/L troppo alto indica una farina troppo resistente e poco estendibile, di difficile lavorazione. Al contrario, un P/L troppo basso indica una farina poco resistente e troppo estendibile. Farine con W tra 90 e 160 sono dette “farine deboli”. Hanno un basso contenuto proteico, solitamente 9%, e contengono meno glutenine rispetto al contenuto di gliadine. Vengono utilizzate per produrre biscotti secchi o gallette. Alcune preparazioni prevedono percentuali di proteine addirittura attorno al 7%, ed è per questo che quelle ricette usano una miscela di farina e di amido.
Farine con W compreso tra 160 e 250 hanno una forza media. Sono usate per esempio per il pane pugliese o quello francese, per impasti diretti o lievitazioni brevi, per pizze e focacce. FIG. 15
FORZA DELLE FARINE
In generale, più un prodotto richiede lievitazioni lunghe più serve una farina con W elevato, in modo da trattenere meglio l’anidride carbonica prodotta nella fermentazione. Il glutine è in grado di assorbire acqua per una volta e mezza o due volte il suo peso, quindi più è forte la farina e più è alta la sua idratazione. Si passa da un’idratazione inferiore al 50% per le farine da biscotti sino a valori superiori al 70% per farine forti.
Con W tra 250 e 310 si ottengono pani come biove o baguette. Farine con un alto W vengono chiamate “farine di forza”, perché oppongono una grande resistenza alla deformazione del glutine. Hanno una percentuale di proteine superiori, e un rapporto glutenine/gliadine più grande. Valori di W tra 310 e 370 si usano per pani particolari o prodotti a lunga lievitazione come panettoni, brioche e croissant. Più è forte una farina e più è lunga la lievitazione, e ricordate che il volume finale del prodotto è correlato al contenuto proteico della farina. Esistono anche farine con valori di W superiori a 400, denominate Manitoba, perché originariamente prodotte in quella regione del Canada. Ora farine di forza sono prodotte anche in altre regioni, ma vengono comunque denominate Manitoba. Sono semplicemente farine di frumento tenero ad alto contenuto proteico e vengono spesso utilizzate in miscela con farine più deboli per aumentarne la forza. Purtroppo i valori di W di una farina, presenti sui sacchi per uso professionale e sui siti web dei molini, non sono quasi mai riportati nelle confezioni per uso casalingo, e ci si deve accontentare del contenuto proteico: grossolanamente, più proteine sono presenti più è forte la farina, a parità di tipo di farina (00, 0 ecc…). La farina integrale contiene più proteine, provenienti dal germe e dalla crusca, tuttavia non sono tutte proteine che producono il glutine. È per questo che usare la farina integrale è più complicato e, in alcuni casi, il risultato è tecnicamente più scadente rispetto a quello ottenuto usando farina 00 o 0. Nella tabella che segue sono riassunte le principali informazioni legate alla forza delle farine e al loro utilizzo. TAB. 12
FORZA DELLE FARINE E LORO UTILIZZO Fonte: corso di Tecnologia dei Cereali del Prof. Franco Antoniazzi, dell’Università di Parma W
P/L
90/130
0,4/0,5
9/10,5
biscotti
130/200
0,4/0,5
10/11
grissini, cracker
170/200
0,45
10,5/11,5
220/240 0,45/0,5 300/310
0,55
340/400 0,55/0,6
PROTEINE UTILIZZO
12/12,5 13 13,5/15
pane comune, ciabatte, pancarré, pizze, focacce, fette biscottate baguette, pane comune, maggiolini, ciabatte a impasto diretto e biga di 5/6 ore pane lavorato, pasticceria lievitata con biga di 15 ore e impasto diretto pane soffiato, pandoro, panettone, lievitati a lunga fermentazione, pasticceria lievitata con biga oltre le 15 ore, pane per hamburger
L’angolo chimico: la farina trattata con il cloro Negli Stati Uniti è uso comune trattare la farina con il gas cloro, nella misura di 0,3-1,5 g per kg di farina. In Italia questa pratica è vietata. Lo scopo del trattamento è di aumentare la capacità di assorbimento di acqua attraverso un’ossidazione del glutine e una parziale depolimerizzazione dell’amido. Contemporaneamente, il colore della farina diventa più chiaro per l’ossidazione dei carotenoidi presenti e il pH si riduce a circa 4,5-4,8. Poiché le farine americane hanno un assorbimento di acqua diverso da quelle italiane, questo comporta delle difficoltà se si seguono ricette americane senza alcun adattamento.
LA FARINA IN PASTICCERIA Pensate a un edificio: l’amido gelatinizzato e gelificato rappresenta i mattoni, mentre il glutine l’intelaiatura di cemento armato. Poi, certo, ci sono anche le proteine delle
uova che contribuiscono alla struttura, ma per alcuni prodotti il glutine, con le sue caratteristiche uniche, è insostituibile. Ecco perché fare prodotti senza glutine è spesso estremamente difficile. Come abbiamo visto nelle sezioni precedenti, per alcuni tipi di preparazioni, come il pane, la pizza e prodotti di pasticceria a lunga lievitazione, la produzione del glutine è cercata, mentre nella produzione di torte e biscotti la formazione di glutine è contrastata per evitare l’indurimento di un impasto che dovrebbe essere soffice e friabile. Ci potremmo chiedere se, visto che molte ricette di pasticceria si danno tanto da fare per impedire la formazione del glutine, non sarebbe meglio non averlo del tutto. Sarebbe facile: basterebbe sostituire ovunque la farina con dell’amido di frumento, completamente privo di glutine. Se lo facessimo scopriremmo che un poco di glutine serve eccome nel dare la struttura che vogliamo a una pasta frolla o ai frollini, per esempio. Quanto, esattamente, dipende dalla ricetta. Ecco perché la scelta della farina è cruciale per la buona riuscita di una ricetta. In alcuni casi può servire una farina che sviluppi un glutine medio, in altri casi si deve indebolire la struttura glutinica aggiungendo dell’amido, per esempio nei biscottini chiamati Margherite di Stresa. Non dimentichiamoci poi che, come abbiamo già detto, a sostenere l’intera struttura di un dolce ci sono anche le proteine delle uova, l’amido e, se in quantità elevate, anche lo zucchero cristallizzato. Non è facile quindi sapere a priori quale sarà, per una determinata ricetta, la quantità di glutine ottimale. Una frolla richiede la formazione di glutine quel tanto che basta. Poco ma necessario. In un pan di Spagna, invece, o in una torta degli angeli, sono le proteine dell’uovo a tenere insieme la torta e quindi la farina in quel caso agisce da materiale riempitivo per assorbire i liquidi. ELEMENTI CHE INFLUENZANO LA FORMAZIONE DEL GLUTINE Se il
glutine è così importante (in alcune ricette si deve formare in modo ottimale, in altre non si deve formare affatto, in altre
ancora si deve sviluppare solo parzialmente) è opportuno che il pasticciere conosca i parametri principali su cui può agire per modificare nel modo desiderato la quantità di glutine nella sua preparazione. La fase di impasto. In assenza di una fase di impasto adeguata il glutine ha difficoltà a formarsi. Ecco perché in alcune ricette, per evitare la formazione di troppo glutine, la fase di impasto è ridotta al minimo necessario. Poca acqua. Il glutine ha bisogno di acqua per formarsi. In carenza d’acqua non si sviluppa adeguatamente. In alcune ricette l’acqua è solo quella presente nelle uova e nel burro, e può essere troppo poca per formare il glutine. Troppa acqua. Negli impasti molto liquidi accade esattamente l’opposto: aggiungere troppi liquidi porta a una diluizione eccessiva di glutenine e gliadine che non possono formare il glutine non riuscendo a costruire una maglia fitta. L’ordine di mescolamento degli ingredienti. Negli impasti in cui i grassi devono esere incorporati alla farina prima dell’aggiunta delle uova o dei liquidi, come nella pasta frolla, i grassi impediscono la formazione di glutine perché ricoprono le proteine e quindi, essendo idrorepellenti, impediscono all’acqua di raggiungerle. Senza acqua non si riesce a formare un reticolo glutinino esteso a tutto l’impasto. Lo zucchero. Lo zucchero riduce la formazione di glutine entrando in competizione con le proteine per accaparrarsi l’acqua presente nell’impasto. Con la sua forte affinità per
l’acqua, la toglie alle proteine che quindi ne hanno a disposizione meno per formare i legami del glutine.
Lo sapevate che Il glutine si sviluppa nella direzione in cui viene impastata e ripiegata la farina. Per questo motivo è bene ruotare regolarmente l’impasto di 90° durante questa fase, in modo da sviluppare il glutine in tutte le direzioni. A meno che non si vogliano creare degli effetti particolari.
TEORIA GENERALE DELLE TORTE Un famoso detto dice che “È difficile definire esattamente la pornografia, ma quando la vedi la riconosci”. Per le torte è un po’ così: quando ne vediamo una, e soprattutto la assaggiamo, sappiamo che è una torta, ma darne una definizione precisa non è semplice, anche perché Paesi diversi considerano “torte” prodotti anche molto differenti. Senza pretendere quindi di dare una definizione precisa e universale, e sicuramente con eccezioni, diciamo che una torta è un prodotto contenente farina, zucchero e uova, con altri ingredienti opzionali come il burro o il latte, di sapore dolce, cotto in uno stampo e di consistenza morbida e/o friabile. L’impasto di una torta, a seconda della composizione, può essere bello sodo, oppure molto simile a un liquido viscoso, che ha bisogno di un contenitore per mantenere la forma. Per comodità chiamiamo pastella questo tipo di impasto. Nel mondo anglosassone si distinguono le cake, caratterizzate da una pastella abbastanza liquida prima della cottura, dalle pie, più simili alle nostre crostate con un impasto più solido a base di farina e un grasso. Se aprite un libro di pasticceria potrete trovare centinaia di ricette di torte diverse. A volte le differenze sono minime e riguardano soprattutto il sapore e l’uso di ingredienti opzionali: una torta di mele può differire molto poco da una torta di pere o di pesche. Altre volte però le differenze sono strutturali: un pan di Spagna è completamente diverso da una torta quattro quarti. È utile cercare di classificare le torte secondo qualche criterio che non sia banalmente il sapore e che renda conto del fatto che, a partire essenzialmente sempre da quattro ingredienti – farina, uova, burro e zucchero –, si possono ottenere torte diversissime tra loro. Esistono almeno due modi complementari per classificare tutte le torte, sia quelle esistenti sia quelle ancora da inventare. Il primo si basa sulla considerazione che l’ordine con
inventare. Il primo si basa sulla considerazione che l’ordine con cui si miscelano gli ingredienti è fondamentale per ottenere una certa consistenza. Montare uova e zucchero e poi unire il burro porta a risultati diversi dal montare prima burro e zucchero e poi aggiungere le uova. Secondo questa classificazione esistono due grosse categorie di torte: quelle a struttura spugnosa e quelle a struttura fine. Nel primo caso la struttura dipende da una schiuma formata dalle uova, intere oppure i soli albumi o i soli tuorli. In questa categoria ricadono per esempio il pan di Spagna, la genovese e la torta pane degli angeli. Sono torte con pochi grassi, spesso asciutte e che vengono lievitate quasi esclusivamente a partire dall’aria inglobata nella schiuma delle uova. In queste torte la struttura portante è data dalle proteine dell’uovo e dall’amido gelatinizzato. In alcuni casi tuorli e albumi sono montati separatamente e poi riuniti, per avere il massimo possibile di aria incorporata. Tutte queste torte prevedono come prima fase di montare le uova con lo zucchero e di aggiungere in seguito (eventualmente) il burro e la farina. L’importanza del mescolamento Il mescolamento degli ingredienti, in qualsiasi ordine essi siano richiesti dalla ricetta, è troppo spesso una fase sottovalutata nella preparazione di una torta, ma è invece un passo cruciale per tre motivi. Prima di tutto gli ingredienti devono essere ben dispersi e omogeneizzati. Se, per esempio, il lievito chimico non si è ben distribuito avrete una lievitazione disomogenea che porterà in alcune zone a un prodotto con alveoli troppo grossi, oppure senza alveoli. In secondo luogo, è necessario incorporare aria a sufficienza. Questo è essenziale non solo per le torte spugnose che non utilizzano il lievito chimico, ma anche per le altre, visto che l’anidride carbonica farà gonfiare solo le bolle d’aria già intrappolate in questa fase, come vedremo nel prossimo capitolo. Altrettanto importante è non prolungare troppo la fase di mescolamento, per evitare che le bolle intrappolate fuoriescano. Il terzo motivo per procedere a un mescolamento completo è la formazione di una emulsione stabile tra i grassi e l’acqua presenti, sfruttando soprattutto gli emulsionanti presenti nell’uovo.
Alla seconda categoria appartengono torte con una struttura più fine, con molti più grassi e, soprattutto, che intrappolano inizialmente l’aria non nelle uova ma nel burro. L’ordine con cui si mescolano gli ingredienti di base, spesso con l’aggiunta di liquidi, può essere molto diverso a seconda del tipo di torta
di liquidi, può essere molto diverso a seconda del tipo di torta che si vuole ottenere. Un procedimento classico molto importante prevede il mescolamento iniziale del burro e dello zucchero, a cui vengono poi aggiunti gli altri ingredienti. All’interno di questa classificazione primaria le torte si possono ulteriormente classificare in base ai rapporti in peso tra la farina, i grassi e gli zuccheri, distinguendo così torte con più grassi e zuccheri rispetto alla farina e torte invece in cui i rapporti sono invertiti. L’importanza del recipiente Un aspetto spesso sottovalutato nella preparazione delle torte spugnose è la grandezza del recipiente utilizzato per montare le uova. La ciotola deve essere non troppo ampia e proporzionale alla quantità di uova utilizzate. Se queste si spandono troppo non riuscirete a incorporare aria in modo efficiente.
PROCEDIMENTO DI BASE PER LE TORTE SPUGNOSE Tutte le torte
appartenenti a questa categoria si preparano sbattendo energicamente le uova insieme allo zucchero per incorporare l’aria che fungerà poi da agente lievitante. In questa fase, cruciale per la corretta riuscita della ricetta, le bollicine d’aria incorporata vengono stabilizzate dalle proteine dell’uovo, impedendo che sfuggano dalla superficie. La velocità con cui le fruste, o la planetaria, sbattono le uova non deve essere troppo elevata, altrimenti si formano bolle troppo grandi che poi si romperanno non producendo una schiuma stabile. Anche una velocità di sbattimento troppo bassa, però, impedisce la formazione di una schiuma stabile. Con l’esperienza riuscirete a trovare la velocità media più adatta a montare le vostre torte. La temperatura a cui si sbattono le uova è importante per ottenere una schiuma con il massimo volume possibile. È preferibile montare le uova a una temperatura compresa tra 25 e 40 °C. Una volta formata una quantità sufficiente di schiuma, che sarà diversa a seconda del rapporto tra tuorli e albumi presenti, si aggiunge delicatamente la farina, poco alla volta,
presenti, si aggiunge delicatamente la farina, poco alla volta, setacciandola possibilmente almeno due volte per aumentare l’aerazione. La farina non deve essere mescolata perché questo porterebbe a una rottura di molte delle bolle d’aria che abbiamo avuto la pazienza di incorporare. La tecnica corretta per inglobare la farina nelle uova è quella di utilizzare una spatola rivoltando, dal centro verso l’esterno e dal basso verso l’altro, la miscela. Non importa se rimangono delle strisce di colore più chiaro nella pastella, segno di una omogeneizzazione non perfetta, perché in fase di cottura spariranno. In alcune torte di questa categoria è prevista l’aggiunta di grassi che, come sappiamo, destabilizzano le bolle d’aria. Nelle torte che prevedono il burro questo viene sciolto e aggiunto, poco alla volta, alla fine della fase di battitura delle uova e dello zucchero. In questo modo gli emulsionanti dell’uovo aiutano a incorporare il grasso riducendo al minimo la perdita di volume. Nelle torte spugnose le uova, con le loro proteine, induriscono la struttura finale. Per minimizzare questo effetto si aggiunge zucchero in quantità simile alle uova: a seconda della ricetta, dal 30% in meno sino al 25% in più. La farina non deve superare in peso né le uova né lo zucchero presenti. Per esempio, la torta angel food cake prevede l’utilizzo dello stesso peso di albumi e zucchero, mentre la farina è un terzo delle uova. La pastella delle torte spugnose deve essere messa immediatamente nel forno già in temperatura, solitamente a 180-200 °C. Ogni ritardo può comportare la perdita di volume dovuta alla bolle d’aria che sfuggono dalla pastella. L’importanza del ripiegamento dell’impasto nelle torte spugnose Nelle torte spugnose è fondamentale, quando si aggiunge la farina, evitare di schiacciare o far sfuggire le bolle d’aria. Non si deve quindi mescolare ma si deve “ripiegare” su se stesso l’impasto in questo modo: si spolvera sul composto, setacciandola, un po’ della farina; si inserisce la spatola di taglio arrivando fino al fondo della ciotola; si solleva ruotando la spatola e ribaltando l’impasto in modo da inglobare così la farina. Contemporaneamente la ciotola viene ruotata di un quarto di giro e si prosegue con un altro affondo delicato di spatola, sino a quando la farina non è stata tutta incorporata.
PROCEDIMENTO DI BASE PER GLI IMPASTI A BASE DI BURRO E ZUCCHERO A differenza delle torte spugnose, in cui il primo
passo coinvolge sempre le uova e lo zucchero, l’altra classe di torte prevede metodi diversi. Quello forse più rappresentativo, e capace di fornire una struttura estremamente fine alla torta, inizia sbattendo insieme il burro e lo zucchero. I cristalli di zucchero aiutano a incorporare le bolle d’aria intrappolandole nel grasso. Spesso si consiglia di usare lo zucchero a velo invece di quello semolato perché più efficiente nell’incorporare aria. Burro e zucchero vanno lavorati a velocità media; una velocità troppo elevata scalderebbe il burro che non riuscirebbe più a intrappolare l’aria. Visivamente, a mano a mano che l’aria viene incorporata, osserviamo un cambiamento di colore dal giallo al bianco a causa dell’aria intrappolata, fino a ottenere una consistenza molto soffice. Dopo questa fase, che può durare anche 10 minuti, si aggiungono le uova, poco alla volta e mescolando dopo ogni aggiunta. Prima di aggiungere l’uovo successivo si deve aspettare di aver incorporato completamente il precedente. È importante che le uova non siano fredde, per evitare che il grasso si separi. A questo punto si aggiungono la farina e gli eventuali ingredienti secchi, come la farina di mandorle o il cacao. Il mescolamento deve essere breve per evitare la formazione di glutine, giusto il minimo necessario per distribuire la farina nella miscela. Da ultimo si aggiungono, lentamente, i liquidi: acqua, latte o altro mescolando brevemente solo per emulsionare. Spesso farina e liquidi si aggiungono alternativamente, divisi in terzi. Tra i vantaggi di questo procedimento vi è la buona quantità di aria incorporata nella fase iniziale, anche se non così elevata come nel caso delle torte spugnose, e il fatto che sia lo zucchero sia le particelle di farina sono ricoperte di grasso, che ritarda l’idratazione e impedisce fisicamente la formazione di
ritarda l’idratazione e impedisce fisicamente la formazione di glutine. La durata della fase di mescolamento è importante. Servono 8-10 minuti almeno per montare il burro con lo zucchero, a cui fa seguito un periodo di 5-6 minuti di incorporazione delle uova. Nella fase finale si aggiungono i liquidi e la farina, in altri 5 minuti.
GLI INGREDIENTI DI BASE DELLE TORTE Sembra incredibile che a partire dagli stessi ingredienti di base si possano creare prodotti estremamente diversi. Ogni ingrediente spesso contribuisce a più d’un aspetto delle qualità di una torta: la struttura, l’umidità, il sapore o la morbidezza. FARINA La farina fornisce la struttura, la consistenza e il
sapore ai prodotti da forno. In cottura l’amido gelatinizzato e gelificato in una torta solidifica e rafforza la struttura. Per la produzione di torte la farina deve contenere poche proteine, 9% o meno, per creare una quantità minima di glutine. La grana finale della torta dipende anche dal tipo di farina utilizzata. La 00 per torte è la più adatta per creare una struttura molto fine. Se si usa una farina 00 più forte, oppure una farina 0 o 1 la grana sarà meno fine. Questo può anche essere un effetto ricercato. ZUCCHERO Lo zucchero, oltre a fornire il sapore dolce, svolge
molteplici funzioni. In particolare aumenta la temperatura di gelatinizzazione degli amidi. Quindi serve un tempo maggiore in forno per solidificare la pastella e vi è più tempo per le bollicine di gas di espandersi e di far lievitare la torta prima che la massa diventi solida. Come risultato le torte con un contenuto superiore di zucchero avranno un volume maggiore. Lo zucchero ha un’ottima affinità per l’acqua e quindi mantiene umide le torte, ancora di più se si sostituisce lo zucchero bianco con quello bruno. Poiché lo zucchero compete con l’amido e con le proteine per accaparrarsi l’acqua disponibile, riduce la formazione di glutine rendendo le torte più tenere.
TAB. 13
GLI ERRORI PIÙ COMUNI NELLE TORTE
UOVA Le uova forniscono colore e sapore, ma soprattutto
contribuiscono ad aerare il prodotto intrappolando le bollicine d’aria nella fase di mescolamento. Le bolle d’aria vengono stabilizzate dalle proteine, sia del tuorlo che dell’albume. Le stesse proteine poi, raggiunta la temperatura di coagulazione, contribuiscono a legare il prodotto durante la cottura. Grazie alla lecitina del tuorlo le uova hanno un’ottima capacità emulsionante, utile ad amalgamare i grassi aggiunti, come il burro, con i liquidi. Da ultimo, contenendo acqua apportano umidità, anche se questa può rimanere legata alle proteine, nel prodotto finale, e produrre una torta secca al palato. LIQUIDI L’ingrediente liquido in una torta, che sia acqua, latte
o altro, svolge innumerevoli funzioni. La prima è ovviamente idratare l’amido della farina, altrimenti non potrebbe gelatinizzare con il calore. I liquidi servono poi per sciogliere gli ingredienti solidi come lo zucchero, il sale e il lievito chimico. Quest’ultimo in assenza di acqua non può rilasciare l’anidride carbonica necessaria per la lievitazione. I liquidi poi sono la fonte di vapore che contribuirà, con l’aria e la CO2, a dare volume alla torta. Se il liquido usato è il latte, questo apporta anche un sapore caratteristico, e il lattosio presente aiuta la reazione di Maillard della crosta della torta.
Un po’ di storia: le torte È difficile risalire all’origine delle torte. In alcuni geroglifici egizi si vedono degli stampi da mettere in forno, ma non sappiamo a cosa servissero. Sicuramente in epoca romana, in particolari feste, si aggiungeva il miele agli impasti per formare una sorta di pane dolce che potremmo considerare un antesignano delle torte moderne. Fu solo dal Medioevo però, con l’arrivo dello zucchero portato dai mercanti arabi, e soprattutto nei secoli successivi, con la sua produzione nelle piantagioni del Nuovo Mondo, con la produzione a partire dalla barbabietola e con l’invenzione del lievito chimico, che la produzione di torte e l’invenzione di nuove ricette prese piede.
BURRO E ALTRI GRASSI I grassi solidi (tradizionalmente burro,
che qualcuno sostituisce con la margarina) servono a rendere più tenera la torta, riducendo drasticamente la formazione di glutine, e a incorporare bollicine d’aria in quelle torte che prevedono una fase iniziale di montatura del burro con lo zucchero sino a raggiungere una consistenza spumosa. Studi effettuati con il microscopio mostrano che i cristalli di grasso assumono una particolare forma per stabilizzare le bolle d’aria intrappolata. Se ricordate, dal capitolo sul burro abbiamo imparato che i globuli di grasso contengono sia un olio liquido sia cristalli di grasso solidi disciolti. È questa struttura mista che permette ai cristalli presenti nel globulo di grasso, adagiato sulla superficie della bolla d’aria, di orientarsi in maniera favorevole. È quindi estremamente importante che il burro sia alla temperatura corretta per poter effettuare questo allineamento molecolare: a temperature troppo basse i cristalli non riescono a muoversi perché non c’è abbastanza olio liquido nel globulo. A temperature troppo elevate, invece, ci sono troppi pochi cristalli presenti per poter incorporare efficacemente l’aria. Per questo motivo le torte in cui al burro è stato sostituito un olio avranno un volume inferiore, oltre che mancare completamente del meraviglioso aroma del burro. I grassi, pur non apportando quantità significative di acqua (il burro ne possiede solo il 15%, gli oli alimentari non ne contengono), grazie al loro effetto lubrificante in bocca contrastano, in alcune torte, la sensazione di secchezza dovuta
contrastano, in alcune torte, la sensazione di secchezza dovuta alla mancanza di acqua. Soprattutto gli oli, cioè i grassi che sono liquidi a temperatura ambiente. L’angolo chimico: una torta nel forno Vediamo cosa succede dal punto di vista chimico quando cuociamo una torta. Il burro, se è presente, fonde completamente a 40 °C e quindi a questa temperatura le bollicine d’aria intrappolate vengono rilasciate passando nella fase acquosa. L’anidride carbonica generata dal lievito chimico, se è stato aggiunto, le allarga. La pastella comincia a scaldarsi, soprattutto sulle pareti e sul fondo, creando delle correnti convettive che la mettono in movimento. Tra i 60 e i 70 °C i granuli di amido assorbono una grande quantità di acqua, aumentando sia il volume che la viscosità della pastella. La temperatura esatta di gelatinizzazione dell’amido dipende dal contenuto di zucchero. A circa 80 °C le bolle d’aria si ingrossano anche per il vapore che si sviluppa. La torta si espande. Le proteine del glutine e quelle dell’uovo coagulano, l’amido gelatinizza e entrambi si oppongono all’espansione data dalla pressione che aumenta nelle bolle, ormai impossibilitate a sfuggire. L’acqua evapora dalla superficie della torta, raffreddandola e impedendogli di raggiungere le temperature settate sul forno, tipicamente attorno a 180 °C, ma raggiungendo comunque temperature sufficienti a innescare la reazione di Maillard per generare una crosticina gustosa e brunita. Con il raffreddamento la gelificazione dell’amido interno alla torta si completa. L’acqua parzialmente evaporata lascia una struttura porosa, supportata dalle proteine ormai completamente coagulate. Quando la torta è a temperatura ambiente è pronta.
RICETTA
Il pan di Spagna Perché questa ricetta? Per illustrare nel dettaglio la procedura di costruzione del prototipo delle torte spugnose, dove la struttura è sostenuta dalle proteine dell’uovo e dove la lievitazione è dovuta solamente all’aria inglobata.
Se ci pensate è incredibile: partendo sempre dagli stessi pochi ingredienti, in pasticceria si riescono a produrre migliaia di torte differenti. La differenza, oltre alle dosi, la fa il procedimento. È così possibile, con le stesse materie prime, ottenere prodotti completamente diversi cambiando l’ordine con cui queste vengono lavorate. Nelle torte ricche di burro si può montare questo ingrediente con lo zucchero e poi aggiungere le uova oppure si può fare il contrario, ottenendo due prodotti diversi. Una famiglia di torte importante è quella che parte da una base di uova, zucchero e farina. Nella pasticceria italiana il capostipite di queste torte è il pan di Spagna, che può essere poi utilizzato, farcito, imbibito o ricoperto, per preparare moltissime altre torte. L’ingrediente più importante per la riuscita di un buon pan di Spagna è l’uovo. La struttura di questa torta è sostenuta quasi interamente dalle proteine dell’uovo lasciando al glutine un ruolo del tutto secondario. Oltre a questa funzione strutturale l’uovo serve anche per aggiungere aria, che deve essere incorporata a sufficienza nella pastella per permettere una buona lievitazione. Il pan di Spagna, infatti, non ha bisogno di lievito chimico per aumentare di volume durante la cottura, ma sfrutta il fatto che le bollicine di aria incorporata nella preparazione aumentano di volume se riscaldate. Anche il vapor d’acqua sprigionato durante la cottura contribuisce alla
crescita di volume. Queste torte sono solitamente cotte in un forno a temperature molto alte, tra i 180 e i 200 °C. In questo modo, le bollicine di gas si gonfiano velocemente e la coagulazione delle proteine dell’uovo per l’alta temperatura forma una struttura stabile che le ingloba: a questo punto, la torta non collassa più. Il segreto di un pan di Spagna ben riuscito è la quantità d’aria che l’uovo montato riesce a intrappolare nell’impasto. Ogni pasticciere ha la sua ricetta, con le sue proporzioni di ingredienti. Alcuni aggiungono dei tuorli alle uova intere, altri aggiungono amido. Qui riportiamo una particolare ricetta del pan di Spagna, ma le considerazioni scientifiche valgono anche per altre varianti.
Ingredienti – 275 g di uova intere (circa 5) – 50 g di tuorli (circa 2) – 175 g di farina * – 100 g di amido – 175 g di zucchero
La procedura
1 _ Sciogliete lo zucchero nelle uova intere più i tuorli mescolando e scaldando leggermente, a bagnomaria, sino a 40 °C. Il calore ha il doppio scopo di velocizzare la dissoluzione dello zucchero, che deve essere completamente disciolto prima di aggiungere la farina, e di migliorare le capacità emulsionanti dell’uovo, e quindi aumentare la quantità di aria inglobata. Se volete potete aromatizzare con vaniglia o con scorza di limone.
2 _ Iniziate a montare, lontano dal fuoco, con una frusta elettrica o, ancora meglio, se la possedete, con una planetaria. Non abbiate fretta, perché ci vorranno anche 15 minuti o più per far sì che la miscela di uovo e zucchero triplichi il proprio volume. Una variante più laboriosa ma che porta a un prodotto un po’ più aerato prevede di montare tuorlo e albume separatamente con lo zucchero e di riunirli insieme prima dell’aggiunta della farina. Molte altre torte classiche, come la torta margherita, utilizzano questi procedimenti, eventualmente con delle piccole aggiunte di grassi.
3 _ Prima di aggiungere la farina e l’amido alle uova montate è opportuno setacciarli, con il duplice scopo di eliminare i grumi, che potrebbero rimanere nell’impasto senza idratarsi, e di inglobare aria che contribuirà alla successiva lievitazione.
4 _ Per una aerazione migliore potete setacciare la farina una seconda volta mentre la aggiungete, poco alla volta, alla pastella. Inglobate la farina nelle uova con la tecnica del ribaltamento dell’impasto con una spatola.
5 _ Trasferite la pastella nella tortiera e infornate immediatamente a 180 °C, per evitare che le bollicine di aria che avete cosÏ faticosamente intrappolato nell’impasto abbiano il tempo di sfuggire.
* Per favorire la sofficitĂ della torta, la farina deve avere un basso contenuto
proteico, quindi poco glutine, altrimenti la formazione del reticolo glutinino renderebbe la torta rigida. Ăˆ meglio quindi utilizzare una farina per torte. In questa ricetta riduciamo ulteriormente il glutine aggiungendo amido.
RICETTA
I pancake Perché questa ricetta? Per illustrare come il procedimento serva per ridurre al minimo la formazione del glutine.
Avete presente le frittelle che prepara Nonna Papera e che Ciccio si pappa a sazietà? In realtà non sono frittelle, e fanno parte della tipica colazione americana, innaffiate con lo sciroppo d’acero. Ingredienti per 8-12 pancake – 200 g di farina per dolci autolievitante – 50 g di zucchero – 1/2 cucchiaino di sale – 1 cucchiaio di succo di limone – 45 g di burro – 350 ml di latte – 2 uova
La procedura
1 _ La ricetta tipica americana prevede il buttermilk: quel liquido che rimane dopo aver preparato il burro a partire dalla panna. In Italia a volte lo si trova con il nome di latticello, ma è spesso un prodotto diverso, perché in USA viene fatto fermentare diventando simile a uno yogurt molto liquido. Non avendo il latticello io faccio cagliare un po’ il latte con un cucchiaio di succo di limone, lasciandolo a riposo per 10-20 minuti.
2 _ Separate i tuorli e montate gli albumi. Questo renderà i pancake più soffici. Unite gli albumi montati al latte.
3 _ Sciogliete il burro e, quando è intiepidito, aggiungetelo al tuorlo. Inizialmente solo un goccio, mentre lavorate di frusta per evitare di coagulare il tuorlo. A poco a poco aggiungetelo tutto.
4 _ Versate la miscela di tuorlo e burro nel latte.
5 _ Versate il liquido (latte+albume+burro+tuorlo) nella farina a cui avrete aggiunto un pizzico di sale, per esaltare i sapori, e lo zucchero. Siamo arrivati al punto cruciale: mescolate il minimo indispensabile, non più di 10 secondi. Non dovete cercare di eliminare tutti i grumi: spariranno poi. Se mescoliamo troppo comincerà a formarsi il glutine che cambierà la consistenza dei nostri pancake.
6 _ Lasciate riposare per almeno 30 minuti, per dar modo al lievito di cominciare ad agire. Potete anche preparare la miscela la sera e utilizzarla per la colazione della mattina successiva.
7 _ Ora prendete una crepiera o, se non l’avete, una bistecchiera liscia o una padella adatta per essere scaldata a fuoco vivo. È sconsigliabile scaldare a fuoco
vivo senza liquidi padelle antiaderenti in Teflon perché rischiano di perdere il polimero che le riveste. La temperatura è giusta quando, buttando qualche goccia di acqua, questa comincia a vagare in giro sfrigolando. Se si vaporizza istantaneamente la temperatura è troppo alta.
8 _ Versate un mestolino alla volta: non troppo, altrimenti non riuscirete a girare il pancake senza romperlo.
9 _ Dopo poche decine di secondi, quando la parte inferiore sarà brunita, girate il pancake.
10 _ Poche decine di secondi di cottura anche dall’altro lato e il pancake è pronto per essere innaffiato di sciroppo d’acero e mangiato. Se volete potete anche surgelarli.
V ARIA E ALTRI GAS SIN DALLE SCUOLE ELEMENTARI CI INSEGNANO CHE LA MATERIA SI PUÒ TROVARE IN TRE FASI (UNA VOLTA CHIAMATI STATI): SOLIDA, LIQUIDA O GASSOSA, MA NELLA LISTA DEGLI INGREDIENTI DELLE RICETTE NORMALMENTE TROVIAMO SOLO SOLIDI E LIQUIDI, DI GAS NEMMENO L’OMBRA. SOLO APPARENTEMENTE, PERÒ, PERCHÉ I GAS SONO ASSOLUTAMENTE FONDAMENTALI PER ALLEGGERIRE MOLTISSIMI PRODOTTI. PERÒ UN GAS NON SI PUÒ AGGIUNGERE A UN IMPASTO NELLO STESSO MODO IN CUI AGGIUNGIAMO LA FARINA O LE UOVA: ABBIAMO BISOGNO DI INTRAPPOLARLO, OPPURE DI GENERARLO DIRETTAMENTE DENTRO L’IMPASTO CON UN AGENTE LIEVITANTE.
I GAS NEGLI IMPASTI Non si sa esattamente chi per primo abbia scoperto il fenomeno della lievitazione di un impasto, ma è almeno da 4.000 anni che, in varie forme, la produzione di anidride carbonica viene utilizzata per far lievitare il pane nelle molteplici forme in cui si trova in giro per il mondo, insieme a innumerevoli altri prodotti. I lieviti sono microrganismi che prendono il nome dal verbo latino levare, che significa «sollevare». Producono alcol etilico e anidride carbonica come risultato del metabolismo del glucosio. L’anidride carbonica, un gas la cui formula chimica è CO2, ha proprio l’effetto di far gonfiare l’impasto, mentre l’alcol etilico lo rende importante (per alcuni molto più importante) per la produzione di bevande alcoliche. Per millenni il lievito è stato l’unico mezzo conosciuto e utilizzato per aggiungere gas a un impasto e renderlo più soffice. Da circa 200 anni in pasticceria si utilizzano sostanze chimiche aggiunte appositamente, e non organismi viventi, per produrre gas da introdurre in una preparazione. I principali gas sfruttati in pasticceria sono l’aria, il vapor d’acqua e l’anidride carbonica. Vedremo però che anche altri gas, come l’alcol etilico o l’ammoniaca, possono giocare un ruolo importante in alcune ricette per aiutare la lievitazione o dare una consistenza aerata alle preparazioni.
CLASSIFICAZIONE DEGLI AGENTI LIEVITANTI Si chiama agente lievitante qualsiasi elemento che, introducendo gas, sia in grado di far crescere il volume di un impasto durante la fase di lavorazione e/o in cottura. L’aria stessa può fungere da agente lievitante, per esempio nella preparazione del pan di Spagna che, tradizionalmente, non ha bisogno di lievito. Le bollicine d’aria inglobate nella miscela e trattenute dall’uovo si espandono all’aumentare della temperatura durante la cottura e formano così la caratteristica trama e la consistenza soffice e spugnosa. A temperature superiori a quelle di coagulazione delle proteine dell’uovo la struttura del pan di Spagna si irrigidisce e impedisce che, raffreddandosi, si sgonfi ritornando al volume di partenza. Altre volte può essere l’acqua ad agire da agente lievitante, trasformandosi parzialmente in vapore e creando quindi piccole bolle nell’impasto che si espandono per effetto delle alte temperature. Il più delle volte però è l’anidride carbonica a creare nell’impasto delle bolle che durante la cottura aumentano di volume. Nel caso di pane e pizze, o in generale di prodotti ad alto contenuto di glutine, la CO2 è quasi esclusivamente generata da microrganismi, come il lievito di birra o il lievito madre. Solamente in casi particolari, come nel caso del pane irlandese Irish Soda Bread, si usa il bicarbonato di sodio. La classificazione più diffusa degli agenti lievitanti li distingue in base al tipo di processo utilizzato per aggiungere il gas alla pastella o all’impasto: per reazione chimica, per decomposizione, per lievitazione biologica e così via. Una volta aggiunto il gas all’impasto, il modo con cui è stato aggiunto non ha più molta importanza. In altre parole, l’anidride carbonica è sempre la stessa, sia che sia stata aggiunta usando lievito chimico sia che sia stata generata dalla fermentazione di un
chimico sia che sia stata generata dalla fermentazione di un lievito. I lieviti biologici trovano applicazione soprattutto (ma non esclusivamente) nei prodotti ad alto contenuto di glutine, perché questo riesce a intrappolare bene l’anidride carbonica rilasciata lentamente dai lieviti mentre consumano il glucosio disponibile. Nei prodotti a basso contenuto di glutine, come torte e biscotti, l’anidride carbonica è invece tipicamente generata da un agente lievitante chimico. Tecnicamente anche acqua e aria si possono considerare agenti lievitanti “chimici”, poiché non provengono dalla fermentazione di batteri o lieviti e sono, ovviamente, sostanze chimiche. Esamineremo alcune ricette in cui aria e vapor d’acqua sono determinanti per la riuscita. Anzi, uno dei motivi più frequenti di fallimento di quelle ricette è proprio la quantità insufficiente di gas introdotta nell’impasto. TAB. 14
AGENTI LIEVITANTI CLASSIFICATI IN BASE AL MECCANISMO DI AZIONE TIPO DI LIEVITAZIONE
FORMULA
lievitazione biologica
lievito (di birra o madre) + glucosio
→ alcol + aromi + CO2
lievitazione meccanica
aria intrappolata + calore
→ espansione delle bolle
lievitazione chimica per decomposizione
bicarbonato di ammonio + calore bicarbonato di sodio + calore
ammoniaca + CO2 + H2O → carbonato di sodio + CO 2 → + H2O
lievitazione chimica per neutralizzazione
bicarbonato di sodio + acido
→ sale + CO2 + H2O
lievitazione fisica
liquido (acqua, alcol) + calore
→ vapore (di acqua o alcol)
RISULTATO
L’angolo chimico: un piccolo glossario bicarbonato di ammonio = NH4HCO3 bicarbonato di sodio = NaHCO3 carbonato di sodio = Na2CO3 ammoniaca = NH3 acqua = H2O anidride carbonica = CO2
Anche i gas, come gli altri ingredienti, vanno dosati opportunamente. Se la produzione di gas è eccessiva le bolle possono addirittura rompere l’impasto. Se togliamo dal forno il nostro prodotto prima che il calore abbia stabilizzato la struttura, le bolle di gas si sgonfieranno facendo collassare la nostra torta. Per alcuni prodotti con una struttura molto delicata, come i soufflé, anche la riduzione di temperatura dovuta all’apertura dello sportello del forno – seppur per pochi secondi – per controllare la cottura può essere sufficiente a far collassare tutto. Gli agenti lievitanti, però, non contribuiscono solo a far lievitare il prodotto: a seconda dei casi ne possono cambiare la consistenza interna e, attraverso cambiamenti del pH, anche il colore e il sapore. Cosa succede a una bolla di gas in un impasto Indipendentemente da come siete riusciti a incorporare una bolla di gas in un impasto, questa inizierà a espandersi generando una pressione sulle pareti non appena la scalderete, un po’ come quando si soffia dentro un palloncino di gomma per gonfiarlo. Attorno alla bolla ci sono solitamente proteine, amidi e zuccheri, insieme all’acqua legata e intrappolata dalle altre componenti. Quando l’impasto è ancora elastico le pareti della bolla si espandono aumentando di volume finché il calore non irrigidirà definitivamente la struttura. Il compito di trattenere i gas all’interno è svolto efficacemente dal glutine che, come una maglia, trattiene l’amido gelificato che a sua volta intrappola il gas. Nei prodotti poveri di glutine invece sono spesso le proteine dell’uovo, coagulando, ad agire da legante.
dell’uovo, coagulando, ad agire da legante.
ARIA (MERINGHE, SOUFFLÉ…) L’aria è un ingrediente
fondamentale in molti prodotti. Le meringhe non sarebbero meringhe senza l’aria che le rende leggere. Tuttavia questa gioca un ruolo fondamentale anche in molti altri prodotti dove, apparentemente, non è aggiunta esplicitamente mediante una schiuma. Pensate a quante ricette richiedono – quasi sempre senza spiegare il perché – di setacciare la farina prima di aggiungerla al resto degli ingredienti. Setacciare la farina, spesso più di una volta, contribuisce a separare i granuli di amido presenti e in definitiva ad aerare il prodotto. Oppure, pensate alle innumerevoli ricette di biscotti o torte dove, come primo passo, si monta lo zucchero con il burro: in questa fase, come abbiamo già visto, l’aria viene intrappolata nel burro. Si tratta di tante piccolissime bollicine che non fanno di certo lievitare l’impasto, ma che giocano un ruolo insostituibile: fungono da “centro di nucleazione”. I gas sviluppati durante la lievitazione o cottura, come anidride carbonica e vapor d’acqua, non riescono da soli a creare nuove bolle. Per creare una nuova bolla di gas da zero serve una pressione enorme. Avete presente lo sforzo che fate quando iniziate a gonfiare un palloncino? Solo dopo averlo parzialmente gonfiato si procede spediti senza fatica. La stessa cosa accade per le bolle: il vapor d’acqua o la CO2 che si sviluppano nell’impasto non riescono a generare una pressione sufficiente per creare nuove bolle. Invece, questi gas si indirizzano verso le bolle d’aria già esistenti e le gonfiano. Le piccole bolle d’aria agiscono così da nucleo per le bolle macroscopiche che gonfieranno l’impasto. Gli scienziati parlano di diffusione dei gas verso il centro di nucleazione. Quindi prestate la massima attenzione alle prime fasi di mescolamento o di impasto. IL VAPOR D’ACQUA (PASTA CHOUX, PASTA SFOGLIA…) L’acqua, a
livello del mare, bolle a 100 °C e si trasforma in vapore, che può contribuire a gonfiare un prodotto. Un grammo di acqua liquida si trasforma in un volume di 1,6 litri di gas. O, se preferite, trasformandosi in vapore l’acqua aumenta il suo volume di 1.600 volte. Tuttavia il vapore si forma anche a temperature inferiori a 100 °C, con il fenomeno dell’evaporazione. Vi siete mai soffermati a osservare la pentola con l’acqua per cuocere la pasta mentre si scalda? Potete vedere del vapore acqueo che lascia la superficie ben prima di raggiungere i 100 °C. Tuttavia, l’evaporazione è tanto più veloce quanto più si è vicini a 100 °C. Questo è il motivo per cui, quando la produzione di vapore è fondamentale, il forno va utilizzato a temperature piuttosto alte, spesso superiori a 180 °C. Questo fenomeno coinvolge quasi tutte le preparazioni di pasticceria da forno, ma in alcune, come la pasta choux o gli impasti che contengono molta acqua, è l’agente lievitante più importante. L’acqua è anche fondamentale nella lievitazione della pasta sfoglia, perché il burro contiene circa il 15% di acqua che, trasformandosi in vapore, solleva e separa i vari fogli di pasta creando così la caratteristica consistenza. In molte altre preparazioni l’acqua svolge un ruolo di supporto, ma non è determinante nell’aumento di volume. AMMONIACA (CRACKER, BISCOTTI SECCHI…) In alcuni prodotti
come agente lievitante si usa il bicarbonato di ammonio, chiamato comunemente, ma in maniera imprecisa, ammoniaca per dolci. Disciolto in acqua a temperatura ambiente è stabile. Innalzando la temperatura si innesca una reazione di decomposizione che inizia a circa 40 °C ed è completa a 60 °C. Il bicarbonato d’ammonio decomponendosi produce non solo anidride carbonica, ma anche acqua e ammoniaca gassosa e, a differenza del bicarbonato di sodio, non lascia alcun residuo. Tuttavia, poiché uno dei prodotti di decomposizione è l’ammoniaca, un gas estremamente solubile in acqua, se il prodotto finale contiene più del 3-4% di acqua una parte
dell’ammoniaca non riuscirà a sfuggire e si scioglierà nell’acqua presente, rimanendo nel prodotto finale e dando un retrogusto indesiderato. Questo è il motivo principale per cui il bicarbonato di ammonio si usa solo per prodotti secchi, piccoli, e a struttura porosa come i cracker e alcuni biscotti. Il bicarbonato di ammonio, decomponendosi completamente, non influenza il pH finale del prodotto, ma l’alcalinità dell’ammoniaca ancora disciolta in acqua porta, nella fase iniziale, a un aumento temporaneo del pH che favorisce la reazione di Maillard e rende quindi i prodotti più bruni. L’angolo chimico: il bicarbonato d’ammonio Il bicarbonato d’ammonio è un additivo alimentare che ha il codice E503. La sua reazione di decomposizione è NH4HCO3 + calore → NH3 + CO2 + H2O 10 g di bicarbonato di ammonio possono produrre 5,6 litri di gas. A 20 °C un litro di acqua con disciolti 8 g di bicarbonato di ammonio ha un pH di 7,8.
Lo sapevate che L’ammoniaca che compriamo al supermercato in bottiglia non è altro che ammoniaca gassosa disciolta in acqua. È importante che il bicarbonato di ammonio sia disperso in tutto l’impasto. Usate un setaccio o un mixer per distribuirlo bene negli altri ingredienti asciutti, altrimenti lo sviluppo di gas potrebbe non essere omogeneo. In alternativa potete sciogliere il bicarbonato di ammonio in poca acqua tiepida, a temperature inferiori a 40 °C, e aggiungerla all’impasto insieme al resto dei liquidi. Mi raccomando: ricordatevi di non respirare direttamente i vapori della decomposizione perché l’ammoniaca è tossica.
ANIDRIDE CARBONICA (MUFFIN, TORTE…) Il bicarbonato di sodio a
secco, a temperature superiori a 50 °C, si decompone spontaneamente producendo anidride carbonica. Tuttavia, la reazione è molto lenta a meno che non si innalzi la temperatura sopra i 200 °C. In presenza di acqua la produzione di CO2 inizia anche a temperatura ambiente, ed è velocissima se l’acqua viene portata all’ebollizione. Se nell’impasto non sono presenti altri acidi il residuo che rimane dalla reazione è il carbonato di sodio, Na2CO3, che è molto più alcalino del bicarbonato e provoca quindi un innalzamento del pH del prodotto finale anche a valori superiori a 11. Questo può portare a prodotti saponosi, per reazione con i grassi presenti, o troppo bruniti per una eccessiva reazione di Maillard. In molte ricette di origine anglosassone può capitare di trovare tra gli ingredienti la baking soda: altro non è che il bicarbonato di sodio. Può risultare però difficile tradurre completamente una ricetta americana perché, oltre all’abitudine, per noi italiani poco comune, di misurare gli ingredienti in base al volume e non in base al peso, alcune materie prime possono avere una acidità diversa da quella dei prodotti equivalenti che troviamo in Italia. Il latticello – buttermilk negli Stati Uniti –, per esempio, è ulteriormente fermentato e quindi diventa più acido di quello che possiamo trovare da noi. Anche la farina americana può essere più acida della nostra, a causa dei trattamenti con il cloro che può subire negli Stati Uniti. In Italia è uso comune l’utilizzo del lievito chimico. Altro non è che bicarbonato di sodio miscelato a una sostanza acida in modo tale che, a contatto con l’acqua, produca anidride carbonica. A seconda della sostanza acida aggiunta, il lievito può avere, come vedremo, proprietà e usi diversi. L’angolo chimico: il bicarbonato Il bicarbonato di sodio è un additivo alimentare che ha il codice E500. La sua reazione di decomposizione è 2NaHCO3 → Na2CO3 + CO2 + H2O A 20 °C un litro di acqua con disciolti 8 g di bicarbonato di sodio ha un pH di 9,0.
IL BICARBONATO DI SODIO E IL LIEVITO CHIMICO Il primo agente lievitante di tipo chimico è stato probabilmente la potassa, o meglio il carbonato di potassio, una delle componenti della cenere di legna, da cui veniva estratto. Nel Settecento alcune ricette prevedevano la sua aggiunta negli impasti per far lievitare il pane. Nell’Ottocento si cominciò ad aggiungere il bicarbonato, che veniva prodotto industrialmente, in alcuni impasti in cui era presente il latticello, o buttermilk: il residuo della produzione del burro lasciato ulteriormente fermentare. A contatto con il bicarbonato di sodio si produceva anidride carbonica secondo la reazione: bicarbonato di sodio + acido → sale + CO2 + H2O Questo accadeva anche con altri ingredienti “acidi”, come l’aceto, il succo di limone, il latte inacidito o la panna acida. Per la prima volta si aveva la possibilità, in cucina, di produrre anidride carbonica istantaneamente e nella quantità desiderata, semplicemente aggiungendo una sostanza chimica. Tuttavia è difficile prevedere in anticipo quanto bicarbonato è necessario per generare una lievitazione, perché l’acidità naturale degli ingredienti non è facilmente misurabile in una cucina, a meno di possedere un pH-metro o piaccametro. Per controllare al meglio la reazione di decomposizione del bicarbonato di sodio, nella prima metà dell’Ottocento il latticello è stato via via sostituito con un sale acido, il cremor di tartaro, più correttamente chiamato tartrato acido di potassio o
idrogeno tartrato di potassio, un sottoprodotto della produzione del vino. A differenza del latticello, il cremor di tartaro si poteva misurare esattamente in modo da neutralizzare il bicarbonato. Da qui all’idea di formulare una polvere contenente contemporaneamente bicarbonato di sodio e cremor di tartaro il passo fu breve. L’idea venne indipendentemente a varie persone, tra cui il chimico Alfred Bird nel 1843 in Gran Bretagna e Joseph e Cornelius Hoagland negli USA nel 1850. Quest’ultimo fondò la Royal Baking Powder Company. Da quel momento il termine baking powder – letteralmente «polvere per cotture al forno» – cominciò a essere utilizzato nelle ricette. TAB. 15
INGREDIENTI ACIDI CHE POSSONO REAGIRE CON IL BICARBONATO succo di limone aceto yogurt melassa e zucchero grezzo succhi di frutta latte fermentato miele cacao non trattato panna acida
Esperimento: decomposizione termica del bicarbonato Mettete a scaldare un po’ d’acqua. Quando è arrivata all’ebollizione spegnete il fuoco e buttate nel pentolino un cucchiaino da caffè di bicarbonato. Se osserverete una effervescenza immediata allora il bicarbonato è ancora utilizzabile. Se la polvere bianca raggiungerà il fondo senza decomporsi, allora
utilizzabile. Se la polvere bianca raggiungerà il fondo senza decomporsi, allora quello che avete nel barattolo non è più bicarbonato ma carbonato e potete gettarlo.
Il cremor di tartaro Il tartrato acido di potassio, o cremor di tartaro, è un sottoprodotto della produzione del vino. Reagisce molto velocemente con il bicarbonato e in presenza d’acqua rilascia il 70-80% dell’anidride carbonica nel giro di 2 minuti dall’impasto. Per questo motivo è ormai scarsamente utilizzato commercialmente in pasticceria ed è stato sostituito quasi completamente nelle formulazioni del lievito chimico commerciale da più di un secolo. Ha però il vantaggio di non lasciare alcun retrogusto, a differenza di altri sali acidi utilizzati per neutralizzare il bicarbonato. Se usato in una torta in leggero eccesso rispetto al bicarbonato impartisce un pH acido al prodotto rendendolo più chiaro.
Queste miscele preconfezionate, tuttavia, avevano un difetto: il cremor di tartaro in presenza di acqua reagisce rapidamente con il bicarbonato, esattamente come fanno il succo di limone o l’aceto. Ciò significa che nel giro di pochi minuti tutto il gas è stato sviluppato e comincia a sfuggire dall’impasto, prima che la cottura nel forno irrigidisca la struttura esterna del prodotto. Nei prodotti poveri di glutine solo la viscosità dell’impasto o della pastella trattiene per un po’ l’anidride carbonica prodotta, e più la pastella è liquida e più velocemente sfugge la CO2. Si cominciò allora a cercare un sale acido che potesse sostituire il tartrato acido di potassio. Nel 1864 fu brevettato l’uso del fosfato acido di calcio, (o monofosfato di calcio, con sigla MCP) in sostituzione del cremor di tartaro nel baking powder. Lo scienziato americano Eben Norton Horsford ebbe l’idea di aggiungere l’amido di mais alla miscela, in modo da assorbire l’umidità presente che avrebbe potuto far reagire le due componenti ancor prima di poterli utilizzare. Il monofosfato di calcio reagisce velocemente con il bicarbonato, ma comunque meno velocemente del cremor di tartaro.
La ricerca di nuovi acidi per fornire a pasticcieri, fornai e alla nascente industria alimentare un lievito chimico che sviluppasse anidride carbonica in maniera controllata e al momento giusto continuò a lungo. Nel 1885 venne introdotto per la prima volta il sodio alluminio solfato (SAS). Questo sale si scioglie molto poco in acqua a temperatura ambiente e comincia a sciogliersi, e quindi a reagire con il bicarbonato, solamente nel forno. Unito all’MCP ecco arrivare sul mercato il primo “lievito a doppia azione”: una prima parte dell’anidride carbonica si libera non appena si aggiunge acqua per formare l’impasto (è il bicarbonato che reagisce con l’MCP); tuttavia il resto del bicarbonato reagisce con il SAS liberando l’anidride carbonica residua solamente in fase di cottura, evitando quindi che parte della CO2 vada dispersa nella fase di impasto. La ricerca per trovare nuovi acidi da usare come agenti lievitanti continuò: nei primi anni del Novecento venne introdotto il pirofosfato di sodio (SAPP) mentre attorno al 1960 cominciò a essere utilizzato il sodio alluminio fosfato (SALP).
Lo sapevate che In alternativa al bicarbonato di sodio è possibile utilizzare il bicarbonato di potassio (E501), indicato per chi deve ridurre la quantità di sodio nella propria dieta. Tuttavia è poco diffuso per via del suo maggior costo.
Lo sapevate che Se pensate di avere un’allergia al lievito di tipo biologico (di birra o madre) potete senza alcun problema utilizzare il lievito chimico, totalmente privo delle molecole biologiche che vi potrebbero causare problemi. La prossima volta che siete in un supermercato date un’occhiata alle etichette delle varie marche di lieviti chimici
un’occhiata alle etichette delle varie marche di lieviti chimici istantanei per scoprire cosa contengono. Perché nelle ricette si trova sia bicarbonato che lievito chimico Quando si prepara un dolce si cerca di ottenere un prodotto a pH neutro o quasi, neutralizzando quindi tutti gli acidi presenti. Il lievito chimico che si trova in commercio è dosato per non alterare il pH della preparazione. Se quindi l’impasto è acido (perché, per esempio, avete aggiunto yogurt) per neutralizzare l’acidità in eccesso potete aggiungere bicarbonato. Se il bicarbonato non neutralizza completamente gli acidi il pH finale sarà acido, il prodotto avrà un colore più chiaro perché le reazioni di Maillard sono rallentate e, in alcuni casi, i sapori potranno essere esaltati. Se invece aggiungete troppo bicarbonato rispetto agli acidi presenti i colori saranno più scuri a causa della reazione di Maillard favorita dall’ambiente alcalino. Alcuni sapori come quello del cacao saranno intensificati, ma vi è il rischio di lasciare un retrogusto sgradevole. Perché a volte il prodotto si “sgonfia” una volta uscito dal forno? I motivi principali sono due: il primo è che diminuendo la temperatura il volume di un gas diminuisce. Se il prodotto durante la cottura è diventato rigido, come nelle meringhe, il volume del prodotto non ne risente, ma se il prodotto rimane morbido, come in un soufflé, allora l’abbassamento di temperatura coincide con la riduzione di volume. Se vi capita con una torta forse l’avete tenuta troppo poco in forno, oppure l’avete cotta a temperature troppo basse. Il secondo motivo risiede nella fuoriuscita prematura di vapor d’acqua dal prodotto durante la cottura stessa, solitamente causato dalla rottura della crosticina superficiale che si è formata nella prima fase di cottura. In questo caso potreste avere usato troppo lievito chimico o avere impostato una temperatura troppo elevata.
CONOSCI IL TUO LIEVITO CHIMICO Se volete provare a casa a cimentarvi nella produzione di lievito chimico vintage dovete prima conoscere qual è il valore neutralizzante (NV) dell’acido che volete utilizzare. Il valore neutralizzante rappresenta i g di bicarbonato necessari per neutralizzare – questo è il termine che i chimici usano per indicare le reazioni tra un acido e una sostanza alcalina – 100 grammi di acido. Se si parte da una determinata quantità di bicarbonato presente in una ricetta, che determina la quantità totale di CO2 emessa, e si vogliono calcolare i grammi di acido da aggiungere si dovrà calcolare: (g di bicarbonato) x 100 / NV. Qui a fianco trovate una tabella riassuntiva con vari agenti acidi utilizzati in lieviti chimici di uso sia casalingo sia industriale. La velocità con cui viene rilasciata l’anidride carbonica è un parametro importante per i professionisti, ma non è sotto il controllo del pasticciere casalingo. L’ho inserita in tabella per completezza. Se la CO2 è rilasciata troppo velocemente, la maggior parte di questa rischia di sfuggire durante la fase di mescolamento dell’impasto e il prodotto finale risulterà mal lievitato e molto denso. Se invece la reazione del bicarbonato è troppo lenta rispetto ai tempi di cottura, l’impasto si indurirà nella cottura perdendo elasticità, prima che l’anidride carbonica possa gonfiarlo a dovere. SAS, SALP e DCP non reagiscono a temperatura ambiente ma solo quando il prodotto è nel forno e ha raggiunto una certa temperatura. Questi sali sono aggiunti ad altri, come il MCP, che reagiscono immediatamente con il bicarbonato per formulare quelli che vengono chiamati “lieviti chimici a doppia azione”: il primo acido rilascia il gas durante il mescolamento, e questo causerà una grana fine del prodotto con tante piccole sacche di gas presenti; durante la cottura il secondo acido, innescato dal calore, allargherà quelle piccole sacche facendo aumentare ulteriormente di volume il prodotto sino a quando la
aumentare ulteriormente di volume il prodotto sino a quando la cottura non renderà solida e stabile la struttura. L’angolo chimico: l’alcol etilico L’anidride carbonica, CO2, è identica, sia che venga prodotta da un lievito biologico sia che derivi da un lievito chimico. Tuttavia, in una lievitazione biologica si produce anche alcol etilico – o etanolo – la cui temperatura di ebollizione è di 78 °C. L’alcol etilico evaporando può ulteriormente aumentare il volume dell’impasto. In più, durante il metabolismo dei lieviti vengono prodotte anche altre sostanze chimiche, in piccole quantità ma sufficienti per donare sapore ai vari prodotti, specialmente se le lievitazioni sono molto lunghe.
TAB. 16
AGENTI ACIDI UTILIZZATI NEI LIEVITI CHIMICI ACIDO
VELOCITÀ DI PRODUZIONE SIGLA NV ADDITIVO DI CO E NOTE 2
acido tartarico
116
E334
Molto veloce
acido citrico anidro
130
E330
Molto veloce. Non lascia retrogusti.
acido citrico monoidrato
93
cremor di tartaro: tartrato acido di potassio
45
E336
Veloce. Non lascia retrogusti.
fosfato monocalcico
MCP
80
E341
Veloce, usato nei lieviti a doppia azione. Sapore abbastanza neutro.
fosfato monocalcico anidro
AMCP
83
E341
Veloce, a partenza ritardata
E450
Lenta. A seconda della formulazione del prodotto la reazione col bicarbonato può essere ritardata da pochi minuti a un’ora
SAPP
72
SAPP
72
E450
pirofosfato di sodio
fosfato acido di sodio e alluminio
solfato di sodio e alluminio
fosfato dicalcico
fosfato acido di magnesio
glucono-deltalattone
SALP
SAS
DCP
DMP
GDL
100
100
33
40
45
minuti a un’ora o più. Gli ioni del sale neutro residuo possono impartire un retrogusto amaro al prodotto finale.
E554
Lenta, innescata dal calore. Insolubile in acqua a temperatura ambiente. È il sale acido sviluppato più di recente. Molto popolare perché non lascia retrogusti, ha un alto NV, costa poco e si può usare insieme a un sale ad azione rapida.
E521
Molto lenta, innescata dal calore a 50 °C. Insolubile in acqua a temperatura ambiente. Spesso usato insieme a MCP. Lascia un retrogusto amarognolo.
E341
Molto lenta, innescata dal calore. Tecnicamente non è un acido ma un sale alcalino. Tuttavia in cottura, a 55-60 °C si decompone in MCP, che reagisce velocemente, e in fosfato tricalcico (TCP) insolubile.
E343
Molto lenta, innescata dal calore a 40 °C. Non contiene sodio, a differenza di altri acidi che reagiscono a queste temperature.
E575
Lenta e continua. Disciolto in acqua forma acido gluconico che neutralizza il bicarbonato. Il rilascio lento di CO2 è simile a quello del lievito
biologico.
IL LIEVITO CHIMICO FAI DA TE Vediamo come produrre in casa del lievito chimico “fai da te”. Prima che ve lo chiediate rispondo alla domanda che può venire spontanea: “Perché devo prendermi la briga di fare a casa il lievito chimico quando posso comprare le bustine già pronte al supermercato?”. Se non vi basta la risposta “perché è divertente scoprire come funzionano le cose e provare a rifarle” ecco una risposta più “pratica”: “Certe persone dal palato particolarmente sensibile trovano che alcuni lieviti chimici commerciali lascino un retrogusto non molto apprezzabile. Questo è probabilmente dovuto, come abbiamo visto, alla presenza di sali acidi come il SAS, il SAPP, o altri, che reagendo con il bicarbonato lasciano delle sostanze dai sapori amarognoli”. A casa si può facilmente riprodurre il primo lievito chimico commerciale usando il cremor di tartaro, ingrediente facilmente reperibile nella sezione dolci di un supermercato ben fornito, oppure nei negozi specializzati. Nel caso non riusciate a trovarlo potete sempre richiederlo in farmacia. A differenza di molti sali acidi usati commercialmente, il cremor di tartaro non lascia alcun retrogusto. Ha però lo svantaggio di reagire molto velocemente nella fase di impasto, quindi è bene infornare velocemente i vostri biscotti o le vostre torte. Per sapere quanto cremor di tartaro e quanto bicarbonato mescolare consultate la tabella dei valori neutralizzanti di pag. 179. Scoprirete che servono 45 g di bicarbonato per neutralizzare 100 g di cremor di tartaro. Mi raccomando, pesate esattamente gli ingredienti. Se le proporzioni non sono corrette lascerete più bicarbonato o più sale acido, con effetti indesiderati sull’impasto, sul gusto e sul colore del prodotto. Ingredienti: 100 g di cremor di tartaro, 45 g di bicarbonato, 55 g di amido Mescolate per bene gli ingredienti in una bacinella perfettamente asciutta, aiutandovi con un setaccio o con un mixer da cucina per miscelare il più possibile la polvere. Riponetela in un contenitore ermeticamente chiuso perfettamente asciutto. Come potete notare nella ricetta ho aggiungo l’amido, un agente inerte spesso utilizzato nella formulazione dei lieviti chimici. La funzione primaria dell’amido è quella di tenere separati e ben dispersi, nella miscela in polvere, il bicarbonato e l’acido. L’amido di mais è spesso utilizzato commercialmente perché è molto diffuso e a buon mercato ma se avete in casa dell’amido di frumento (frumina) o di patata (fecola) potete usare quello. La seconda funzione dell’amido è quella di assorbire l’umidità dell’aria in modo che le due componenti non reagiscano prima di aggiungerle all’impasto. Forse vi starete chiedendo perché proprio 55 g di amido? Ovviamente potreste aggiungerne 40 g o 80 g e la quantità totale di anidride carbonica sviluppata rimarrebbe identica poiché dipende solo dal bicarbonato presente. Tuttavia l’amido, aggiunto anche ai lieviti chimici commerciali, serve anche per standardizzare le diverse formulazioni, in modo tale che un grammo di lievito chimico produca la stessa quantità di anidride carbonica
che un grammo di lievito chimico produca la stessa quantità di anidride carbonica anche se il sale acido presente non è il cremor di tartaro. In questo modo i lieviti chimici sono intercambiabili perché, almeno in teoria, un grammo produce sempre la stessa quantità di anidride carbonica.
RICETTA
La pita senza lievito all’acqua gassata Perché questa ricetta? Per mostrare l’importanza di incorporare nell’impasto delle bolle di gas che fungeranno in seguito da centro di nucleazione per gonfiare la pita.
La pita è un pane tradizionale del Medio Oriente e di alcuni Paesi del Mediterraneo. Viene normalmente preparato con farina, sale, acqua e lievito di birra. Noi prepareremo la pita senza utilizzare il lievito di birra. Questo per illustrare come l’aumento di volume del pane sia dovuto essenzialmente all’acqua liquida che si trasforma in vapore, gonfiando il pane. Perché allora normalmente si mette il lievito? Per due ragioni. La prima è che il lievito serve a intrappolare piccole bolle di anidride carbonica nel glutine dell’impasto; bolle che verranno gonfiate dal vapore. La seconda è che i lieviti durante la fermentazione producono tutta una serie di sostanze aromatiche che donano un buon sapore al pane (così come fanno con il vino, la birra e altri prodotti fermentati). Potrete così sentire il sapore molto blando di un pane prodotto senza lievito, se non l’avete mai sentito, e confrontarlo con il sapore ben più marcato di un pane che lo contiene. Ma a che serve il lievito se poi l’aumento di volume è dovuto al vapore d’acqua? Il fatto è che è più facile per il vapore raccogliersi nelle bollicine preesistenti e poi allargarle che non formarle da zero. Per illustrare il principio, e per la gioia di coloro che preferiscono non consumare prodotti con lieviti biologici, per dare un piccolo aiuto iniziale al nostro impasto
useremo l’acqua minerale gassata invece che acqua normale, anche se la maggior parte della CO2 si perderà nella fase di impasto. In fondo è sempre anidride carbonica! Ingredienti – 250 g circa di acqua gassata – 300 g circa di farina 00 per pane o pizza * – 6 g di sale
Prima di procedere mettete in freezer per una decina di minuti o più l’acqua gassata. Questo allo scopo di avere l’acqua liquida alla temperatura più bassa possibile, senza congelarla. La solubilità dell’anidride carbonica in acqua aumenta al diminuire della temperatura: raffreddandola ne disperderemo di meno nella fase di impasto. La procedura
1 _ Aggiungete l’acqua gassata ghiacciata alla farina e impastate. Aggiungete ancora farina se l’impasto è troppo appiccicoso, oppure acqua se risulta troppo duro. La durata della fase di impasto dipende dalla farina e dalla quantità di acqua, ma dovrebbe essere attorno ai 10 minuti.
2 _ Coprite la ciotola contenente l’impasto e lasciate riposare per 30 minuti. In questo periodo di riposo i legami del glutine continuano a formarsi. In più, gli enzimi naturalmente presenti nella farina cominciano a lavorare. Passati i 30 minuti dividete la pasta in 6 parti più o meno uguali. Con ognuno dei pezzetti fate una pallina, facendo ben attenzione a non formare pieghe o tagli sulla superficie.
3 _ Stendete le palline formando dei cerchi con uno spessore di circa 5-7 mm (stendeteli su carta da forno, in modo da poterli poi staccare con facilità). Più sottile è la pasta e più sottile sarà il pane finale. Se la pasta è troppo alta non si gonfierà bene nel forno. Coprite i dischi, facendo attenzione a non schiacciarli, con pellicola per alimenti e lasciate riposare ancora per 10 minuti. Attenzione a non fare tagli, buchi, crepe o altro, altrimenti in cottura il vapore potrebbe sfuggire.
4 _ Mentre lasciate riposare la pasta accendete il forno a 250 °C: mettete una teglia di alluminio nella parte bassa, accendete il grill in alto e aspettate che il termostato vi segnali di essere arrivato in temperatura. Quando il forno è pronto staccate delicatamente un cerchio di impasto e mettetelo sulla teglia di alluminio (attenzione: è rovente). Il calore dell’alluminio “sigillerà” la parte inferiore dell’impasto mentre il calore proveniente dal grill dovrebbe fare altrettanto con la parte superiore. Il calore molto elevato del forno nel giro di un paio di minuti comincia a trasformare l’acqua contenuta nell’impasto in vapore. Se tutto è andato bene dovreste vedere la vostra pita gonfiarsi. Il vapore d’acqua non può uscire dall’impasto, sigillato esternamente dal calore, e trova sfogo nelle microbolle di anidride carbonica dell’impasto. Queste bolle crescono e si uniscono tra loro. Ben presto ci sarà un’unica grande bolla.
5 _ Quando la pita comincia a mostrare esternamente qualche macchia più scura è ora di toglierla dal forno. Utilizzate un guanto protettivo, mi raccomando, e fate attenzione alle ustioni! Se tagliate la pita a metà potrete
vedere internamente la “tasca” formata dal vapor d’acqua. Vi conviene, appena uscite dal forno, chiudere le pite in un sacchetto di carta per mantenerle umide. Mangiatele comunque in giornata perché si seccano velocemente. Non lamentatevi se hanno poco sapore: non abbiamo messo né lievito né olio, ricordate? Questo voleva solo essere un esperimento per mostrare un esempio di lievitazione generata solamente dal vapore. Invece dell’acqua gassata potete provare a usare la birra. Questa contiene, ovviamente, anche i composti aromatici prodotti dal lievito e quindi il pane risulta un po’ più saporito. In più anche l’alcol della birra contribuisce a formare il vapore per gonfiare la pita. Gustate questo pane con l’hummus – una crema di ceci – o il babaganoush – una crema di melanzane –, ma anche con il lardo: con il calore della pita si fonde ed è la morte sua.
* Abbiamo bisogno di formare una maglia glutinica sufficientemente robusta da tenere intrappolato il vapore, quindi serve una farina 00 forte. Sceglietene una da pane o da pizza o, in mancanza di indicazioni sulla confezione, con una percentuale di proteine attorno al 12%. State attenti: le farine integrali, come abbiamo spiegato, hanno un contenuto proteico superiore, ma non sono le proteine adatte a produrre il glutine. La forza della farina influenza la quantità d’acqua che riesce ad assorbire. Per questo motivo non vi suggerisco dosi precise: dovete regolarvi voi in base alla farina che avete. Le mie quantità vi possono servire solamente come guida.
RICETTA
Biscottini di frolla montata Perché questa ricetta? Per mostrare la capacità del burro, grazie ai cristalli di zucchero, di inglobare aria nell’impasto, donando friabilità ai biscotti.
Sono le cinque del pomeriggio. Gradite un tè con dei biscottini? Solitamente sono leggeri, friabili, burrosi, con porosità molto adatte ad assorbire un liquido come il tè, e sciogliersi in bocca. Avete mai provato a leggere gli ingredienti di un biscottino da tè? Ogni pasticciere usa percentuali differenti dei soliti ingredienti: farina, zucchero, uova e burro, aromatizzati a volte con vaniglia, cacao o altro. Ma mai nessuno riporta l’ingrediente fondamentale per donare a questi biscottini quella friabilità e quella leggerezza che tanto li caratterizza: l’aria. Già, l’aria in pasticceria è un ingrediente con pari dignità degli altri, ma non compare mai in etichetta, e il suo ruolo non viene quasi mai messo in evidenza nelle ricette. Non riuscire a incorporare aria a sufficienza in un impasto che lo prevede ha quasi sempre come conseguenza il fallimento. A volte è facile riconoscere la fase in cui viene incorporata in un impasto: quando si montano gli albumi a neve, oppure i tuorli o ancora la panna. Nel caso dei biscottini da tè invece è più difficile riconoscere il momento in cui viene incorporata. Molte ricette iniziano con una fase in cui si “monta” il burro insieme allo zucchero. Il termine “montare” può sembrare inadatto, perché durante la lavorazione l’aumento di volume è inferiore rispetto a quando montiamo l’albume o la panna fresca. Il termine inglese utilizzato è creaming, perché lavorando di
fruste o con una planetaria il burro diventa cremoso e incorpora tutto lo zucchero. È però corretto usare il temine “montare”, perché in questa fase fondamentale stiamo anche incorporando bollicine d’aria che rimangono intrappolate nel burro. Non a caso, per i pasticcini da tè si parla di pasta frolla montata: gli ingredienti sono molto simili a quelli di una pasta frolla classica, ma l’ordine con cui vengono mescolati gli ingredienti è invertito ed è presente la fase iniziale di montatura del burro con lo zucchero. Questa fase è estremamente delicata ed è influenzata da due fattori: la temperatura di lavorazione del burro e la granulometria dello zucchero. Il burro, a volte sostituito dalla margarina in preparazioni industriali o in luoghi dove le alte temperature ambientali rendono la lavorazione del burro difficoltosa, deve essere sufficientemente plasmabile e malleabile da poter inglobare lo zucchero e l’aria durante la lavorazione, ma non deve sciogliersi o diventare troppo molle: l’aria non riuscirebbe a rimanere intrappolata. La temperatura ottimale per montare il burro è tra i 15 e i 18 °C. Quando vi preparate a fare i biscotti di frolla montata abbiate l’accortezza di tirare fuori dal frigorifero il burro almeno un’ora prima. Se non avete un termometro schiacciatelo con un dito: deve cedere ma non troppo. Ingredienti – 300 g di burro – 200 g di zucchero a velo – 100 g di uova – 50 g di tuorli – 420 g di farina 00 – 75 g di amido
La procedura
1 _ Montate il burro e lo zucchero a velo facendo attenzione a mantenere la temperatura tra i 15 e i 18 °C. Se
montassimo il burro da solo, ottenendo il cosiddetto burro pomata, non sarebbe sufficiente. I cristalli di zucchero giocano un ruolo fondamentale, con i loro microscopici spigoli vivi, nell’aiutare a incorporare aria e a mantenerla. Gli esperimenti mostrano come la granulometria più grande dello zucchero semolato sia meno efficace nell’incorporare aria, e quindi nel ridurre la densità dell’impasto, rispetto all’uso dello zucchero a velo, i cui cristalli hanno un rapporto superficie/volume più favorevole. Le bollicine serviranno, durante la cottura in forno, per fornire una via di fuga all’acqua dell’impasto che si trasforma in vapore, gonfiandole e alleggerendo il biscotto. Questa fase può durare anche 10 minuti. Il burro e lo zucchero devono avere una consistenza spumosa. Attenzione però a non montare troppo, altrimenti la temperatura sale, il burro diventa troppo morbido e l’aria sfugge.
2 _ Ora aggiungete le uova e i tuorli, uno alla volta, continuando a frullare e aggiungendo il successivo solo dopo aver incorporato il precedente. Dopo aver aggiunto tutte le uova la consistenza sarà simile a quella di una maionese.
3 _ Dopo aver setacciato insieme la farina e l’amido aggiungeteli all’impasto, incorporandoli delicatamente sempre usando la frusta. Usate pure l’amido che avete in casa: fecola, frumina o maizena. L’amido aggiunto alla farina serve per ridurre ulteriormente la forza della farina e indebolire ulteriormente il glutine.
4 _ Mettete l’impasto in una tasca da pasticciere e formate dei pasticcini della forma voluta – quelli a forma di S sono un grande classico – su una teglia rivestita di carta da forno. Mettete la teglia in frigorifero a raffreddare per almeno un’ora prima di infornarli nel forno già caldo a 180 °C. In questo modo il burro ricristallizzerà e i biscotti manterranno meglio la forma una volta messi in forno. Cuociono in 15-20 minuti.
RICETTA
Angel food cake Perché questa ricetta? Per illustrare come una meringa possa costituire la base strutturale di una torta, aggiungendo farina, così da ottenere un dolce completamente privo di grassi.
Molti affreschi rappresentano gli angeli lievemente seduti sulle nuvole, leggerissime e dalla struttura impalpabile. Non è un caso quindi che la torta più leggera che esista venga associata agli angeli. Appartiene alla categoria delle torte spugnose, quindi non usa agenti lievitanti oltre all’aria incorporata durante la lavorazione. In più è completamente priva di grassi, dato che utilizza solo l’albume montato: è la “torta cibo degli angeli” o Angel food cake, come viene chiamata negli Stati Uniti, Paese dove è stata inventata intorno al 1870. Possiamo considerarla una meringa a cui è stata aggiunta un po’ di farina. Andate a rivedere la ricetta della meringa francese a pag. 75 per le istruzioni su come montare bene l’albume con lo zucchero. Per questa torta abbiamo bisogno di una meringa molto stabile, quindi è meglio usare uova freschissime e sfruttare tutto l’aiuto che possiamo avere dal cremor di tartaro per acidificare la miscela. Si usa in piccole quantità (15 g/kg). Se proprio non lo avete potete sostituirlo con del succo di limone. Ingredienti – 8-10 albumi (per uno stampo) – zucchero: lo stesso peso degli albumi
– farina 00 per torte *: un terzo del peso dello zucchero
La procedura
1 _ Pesate gli albumi e metteteli in una bacinella ampia, seguendo le raccomandazioni per preparare le meringhe francesi. Gli albumi devono incorporare più aria possibile. A questo scopo non deve essere presente neppure la più piccola traccia di tuorlo: i grassi presenti ridurrebbero di molto il volume della schiuma prodotta. Ricordate che per incorporare più aria possibile sarebbe meglio montare gli albumi a temperatura ambiente o anche leggermente tiepidi, fino a 40 °C. Unite il cremor di tartaro e continuate a sbattere sino a quando gli albumi non prendono struttura e aumentano il loro volume di quattro volte circa.
2 _ Quando gli albumi cominciano a mostrare una certa struttura aggiungete, gradualmente e a filo continuando a sbattere, il 50-60% dello zucchero, possibilmente di granulometria extrafine. Sciogliendosi nell’acqua presente lo zucchero aumenta la viscosità della miscela e stabilizza le bolle d’aria che, intrappolate, non possono sfuggire facilmente. Lo zucchero ha la duplice funzione, in questa torta, di costruire la struttura portante e di impedire la formazione di glutine, ruolo che normalmente viene svolto soprattutto dai grassi, qui totalmente assenti. Se volete potete aggiungere il classico pizzico di sale insieme allo zucchero. Serve unicamente come insaporitore. Il sale destabilizza la schiuma, che però in questo caso viene cotta velocemente e non seccata come una meringa francese, e quindi non è necessariamente un problema.
3 _ Dovete smettere di montare quando la meringa, sollevando la frusta, forma dei bei picchi. Questi tuttavia non devono essere così rigidi come quando si preparano le meringhe francesi. E questo perché la struttura deve rimanere elastica ed espandersi ulteriormente per effetto del calore nel forno. Se lo desiderate potete aggiungere un po’ di estratto di vaniglia o di mandorla a questo punto.
4 _ È ora di aggiungere la farina e il resto dello zucchero. È importantissimo setacciare la farina insieme allo zucchero rimanente almeno due volte, prima di aggiungerla agli albumi. Questo serve per aerarla il più possibile, in modo tale da alleggerire la struttura finale. Setacciate un’ultima volta direttamente sugli albumi montati, poco alla volta, usando una spatola per incorporare delicatamente la farina con la tecnica del ripiegamento: immergete una spatola di gomma di taglio nel centro dell’impasto e, ruotando di un quarto di giro la ciotola, contemporaneamente “ripiegate” l’impasto sollevandolo da sotto e ribaltandolo. Possono servire anche una decina di manovre per incorporare bene tutta la farina e lo zucchero; non esagerate, però, con il mescolamento per non far collassare l’impasto.
5 _ Trasferite l’impasto in uno stampo. Usare la giusta tortiera è molto importante. Per questa torta si usa normalmente uno stampo alto a tubo, liscio internamente, senza coste, meglio se di colore scuro in modo che assorba più efficacemente il calore e lo trasferisca all’impasto velocemente. Non imburrate le pareti, come si è soliti fare per altre torte. Vogliamo che la torta aderisca alle pareti, in modo tale che non collassi durante
la cottura. In più, come sappiamo, i grassi sono deleteri per gli albumi montati. Sul fondo dello stampo, se non è sganciabile, potete mettere della carta da forno.
6 _ Infornate a 190 °C. Una volta preparato l’impasto è importante cuocere la torta velocemente, per non far sfuggire l’aria intrappolata. Durante la cottura il calore espande le bolle d’aria intrappolate. L’acqua presente, evaporando, le gonfia ulteriormente. È il momento in cui la torta comincia a crescere per la pressione interna. Nel frattempo l’amido della farina gelatinizza mentre le proteine presenti denaturano e coagulano, dando rigidità alla struttura. Perché tutto questo accada nei tempi corretti è necessario che la temperatura del forno sia ottimale: una temperatura troppo bassa non è in grado di gonfiare in modo sufficientemente veloce la torta, e la farebbe collassare. Se invece la temperatura è troppo alta la crosticina superiore si forma quando l’interno è ancora fluido. Il vapore presente non riesce a sfuggire e questo crea i proverbiali “bozzi” sulla superficie.
7 _ Dopo 35-40 minuti togliete la torta dal forno e fatela raffreddare capovolgendo lo stampo. In questo modo si evita che la gravità possa farla collassare sotto il proprio peso. Non preoccupatevi: non si staccherà poiché non abbiamo imburrato le pareti proprio per far aderire la torta. Il cremor di tartaro aggiunto all’albume ha acidificato l’impasto e questo sfavorisce la reazione di Maillard, quindi la doratura non sarà così intensa come per altre torte. Non avendo grassi questa torta non si mantiene bene: è una torta estiva leggera da gustare con una salsa alla frutta o addirittura delle fettine di frutta fresca tagliate su una fetta, e
addirittura delle fettine di frutta fresca tagliate su una fetta, e magari un po’ di salsa al cioccolato. Data la struttura un poco gommosa, dovuta alla totale assenza di grassi, è meglio tagliarla con un coltello seghettato, come quelli usati per il pane.
* Deve essere povera di proteine, perchÊ non vogliamo formare il glutine durante l’impasto. Usate una farina 00 per torte o una miscela per torte con l’8% di proteine o meno. Se avete in casa solo farina 00 con percentuali di proteine superiori potete aggiungere dell’amido per ottenere la percentuale desiderata.
RICETTA
Pasta choux Perché questa ricetta? Per mostrare la capacità del vapor d’acqua di fungere da agente lievitante.
La rivoluzione industriale è iniziata verso la fine del Settecento, quando scienziati e ingegneri capirono come imbrigliare e sfruttare la forza esercitata dal vapore sviluppato dall’acqua in ebollizione. Se fossero stati anche pasticcieri forse la rivoluzione industriale sarebbe iniziata prima. In cucina, infatti, il vapore era già stato imbrigliato due secoli prima da un pasticciere italiano della corte di Caterina de Medici, andata in Francia sposa del re Enrico II. Panterelli, questo il nome del pasticciere, ideò un impasto leggero e aerato che, in una forma molto simile e con il nome di pâte à choux (pasta choux), è ancora oggi la base per bignè e altre preparazioni. È un impasto diverso da ogni altra base di pasticceria sia per il suo grande contenuto di acqua e uova, sia perché viene cotto prima dell’utilizzo. Una volta in forno, lo strato esterno della pasta inizia a cuocere, rimanendo elastico per un po’, sia per la presenza di glutine che per le proteine dell’uovo. A mano a mano che il vapore si sviluppa internamente questo viene parzialmente trattenuto dal guscio esterno parzialmente coagulato che, essendo ancora elastico, inizia a gonfiarsi. Una volta cotta la pasta choux lascia, infatti, una cavità all’interno che può essere riempita con ingredienti molto diversi: è infatti versatile e utilizzata per ricette dolci e per preparazioni salate.
Lo sapevate che La pasta choux viene chiamata così perché nel 18° secolo un pasticciere francese di nome Avice, usando l’impasto di Panterelli, inventò dei dolci che chiamò choux, in quanto assomigliavano a piccoli cavoli. Da quel momento l’impasto cominciò a essere chiamato pâte à choux. Ingredienti – 160 g di farina per pane – 250 g di acqua – 100 g di burro – 4 uova medie – 3 g di sale – 5 g di zucchero (se li volete dolci)
La maggior parte delle pastelle o degli impasti sono pensati per intrappolare moltissime piccole bollicine d’aria o di un altro gas, come l’anidride carbonica prodotta dal lievito. L’impasto della pasta choux, che contiene solo acqua, farina, burro e uova, è pensato per produrre un’unica bolla gigante, intrappolando il più possibile il vapore. Per far questo la scelta della farina è cruciale: deve essere in grado di assorbire una grande quantità di liquido, e di produrre il glutine che intrappolerà il vapore. Per far questo sceglieremo della farina ad alto contenuto di proteine: quella adatta a fare il pane o la pizza. Se i bignè li userete per dolci potete aggiungere zucchero, in piccole quantità, all’impasto nella fase iniziale. Ma non troppo, altrimenti il prodotto si scurisce eccessivamente. La ricetta classica prevede tanti albumi quanti tuorli. Tuttavia potete sostituire uno o due uova intere con solo albume, a parità di peso, per avere dei gusci più leggeri, asciutti e friabili. Oppure aggiungere albumi extra. La ricetta classica utilizza solo acqua. I bignè ottenuti sono friabili ma meno ricchi di
solo acqua. I bignè ottenuti sono friabili ma meno ricchi di sapore. Se li vogliamo più morbidi e di gusto più marcato possiamo sostituire metà acqua con del latte. Poiché uova e glutine giocano un ruolo simile è possibile sopperire, fino a un certo punto, a farina poco proteica aumentando le uova, oppure, se la farina è troppo ricca di glutine, ridurre le uova e aumentare l’acqua per mantenere i liquidi bilanciati. Se il glutine è troppo forte la pasta non si gonfierà molto, mentre se il glutine è troppo poco si gonfierà troppo velocemente e si fratturerà il “palloncino” sotto la pressione del vapore prima che si solidifichi il guscio esterno. La procedura
1 _ Sciogliete in una pentola l’acqua, il burro, il sale e lo zucchero (se il bignè servirà per un dessert), portando a vigorosa ebollizione in modo da disperdere il grasso in tutta l’acqua. Iniziate con acqua e burro insieme. Se aspetterete di portare l’acqua a ebollizione prima di aggiungere il burro, mentre questo si scioglie un po’ d’acqua evaporerà, alterando le percentuali totali di acqua della ricetta. È importante portare a vigorosa ebollizione la miscela in modo tale da disperdere il grasso in tutta l’acqua. Altrimenti il grasso galleggerebbe e al momento di aggiungere la farina solo una parte verrebbe a contatto con il burro, che durante la lavorazione potrebbe essere espulso dall’impasto.
2 _ Quando la miscela bolle aggiungete, tutta in una volta, la farina che avrete setacciato almeno una volta per aerarla. Mescolate per circa un minuto con un cucchiaio di legno fino a quando non si formerà una pasta densa. È importante aggiungere la farina tutta in una volta, altrimenti quella aggiunta prima assorbirebbe molta più
acqua e burro di quella successiva, formando un impasto non omogeneo che cuocerebbe in modo non omogeneo.
3 _ Abbassate il fuoco e continuate a lavorare la pasta con il cucchiaio per qualche altro minuto. Se rimane acqua non assorbita dalla farina lasciatela evaporare. Lavoratela con una spatola o un cucchiaio di legno sino a quando non è più appiccicosa al tatto – ci vorranno dai 3 ai 5 minuti – e si stacca dalle pareti formando una palla. È importante non cuocere troppo perché, come per il roux nella preparazione della besciamella, più si cuoce e più la farina perde la capacità di assorbire liquidi. In questa fase la farina perderà un po’ il suo sapore, esattamente come quando si prepara una besciamella. A differenza di tutti gli altri impasti la pasta choux subisce una prima cottura prima dell’uso. In questa fase gli amidi contenuti nella farina gelatinizzano immobilizzando l’acqua, cosa che gli altri impasti fanno solamente una volta messi nel forno.
4 _ Ora potete trasferire la pasta nella ciotola di un mixer per continuare a lavorarla piano, lontano dal fuoco, in modo che si raffreddi. Altrimenti lasciatela nella pentola a raffreddare continuando a mescolare sino a quando la temperatura non sarà scesa sotto i 60 °C. Aspettate che l’impasto raggiunga una temperatura inferiore a quella di coagulazione delle proteine dell’uovo. Se aggiungessimo ora le uova le faremmo rapprendere immediatamente ottenendo una frittata.
5 _ In una ciotola sbattete leggermente le 4 uova incorporando un po’ d’aria. Molte ricette prescrivono di
aggiungere un uovo intero alla volta, lentamente, mescolando con il mixer o manualmente, controllando che sia stato completamente incorporato prima di aggiungerne un altro. Tuttavia è preferibile – e obbligatorio se avete deciso di aggiungere più albumi che tuorli – sbattere leggermente fin dall’inizio le uova in modo da amalgamare bene albumi e tuorli ed evitare di aggiungerli in modo disomogeneo. Incorporate lentamente nell’impasto, un po’ alla volta, la miscela di uova, continuando a mescolare; sbattere le uova incorpora aria nell’impasto. Come abbiamo visto queste piccole bolle d’aria sono importanti perché permettono al vapore che si sviluppa di trovare una via si sfogo iniziale, cominciando a gonfiare l’impasto. Tutti noi abbiamo provato come iniziare a gonfiare un palloncino sia molto più difficile che non aumentare il suo volume quando è già parzialmente gonfiato. È la stessa cosa con le bolle di un impasto.
6 _ Prima di aggiungere l’ultima porzione di uova controllate la consistenza della pasta sollevandone un po’ con il cucchiaio: se cade in blocchi separati aggiungete le uova. Se cade in un rivolo continuo la pasta è troppo liquida e avete aggiunto troppe uova, oppure queste non sono state assorbite bene perché avete usato una farina povera di proteine, oppure l’avete cotta troppo. La pasta ha raggiunto la consistenza giusta quando, sollevandola, cadendo forma una sorta di V. Questa è la consistenza per poterla estrudere dalla tasca da pasticciere senza che si rompa. Se vi torna comodo potete preparare la pasta choux in anticipo, ma non lasciatela troppo a riposare: al massimo un paio d’ore. Le uova svolgono un doppio ruolo qui: i tuorli emulsionano l’acqua arricchita con i grassi del burro; e in più insieme agli albumi forniscono le proteine che serviranno per rendere elastico l’impasto,
aiutando il glutine a intrappolare il vapore.
7 _ Mettete la pasta in una tasca da pasticciere e preparate una teglia di alluminio ricoperta di carta da forno. Fissate la carta alla teglia mettendo ai quattro angoli un po’ di pasta, a mo’ di colla, così da non correre il rischio di vedere i vostri bignè svolazzare in forno, specialmente se ventilato.
8 _ Usate una punta a stella per gli eclairs e una punta liscia da 1 cm per i bignè. Se dovete fare dei profiteroles depositate delle gocce di 2 cm di diametro, mentre per i bignè singoli da riempire fate dei cerchi di 4 cm di diametro.
9 _ Prima di mettere in forno, bagnate un dito in un po’ di acqua tiepida e schiacciate un poco le punte e le imperfezioni presenti. Se siete negati nell’uso della tasca da pasticciere potete usare un cucchiaio per depositare la pasta. Prima o poi imparerete a usare la tasca da pasticciere, non disperate. È meglio usare una teglia di alluminio perché conduce bene il calore, ma poiché le uova, con le loro proteine, si attaccano al metallo, è bene ricoprirla con carta da forno.
10 _ È tempo di infornare. Tra i pasticcieri vi sono due scuole di pensiero su come si dovrebbero cuocere i bignè. Alcuni iniziano con il forno caldissimo a 215-245 °C e lo riducono dopo 15 minuti a 190-215 °C. Altri iniziano a 175 °C e la aumentano non appena mettono la teglia nel forno. Entrambi vanno bene. Io seguirò la prima scuola di
pensiero. Scaldate il forno a 215 °C. Ricordate che, come sempre, quando infornate il forno casalingo deve già essere in temperatura da almeno 5-10 minuti. Se la vostra ventola causa una cottura non uniforme dei bignè spegnetela. Infornate e fate cuocere per circa 15 minuti. I tempi esatti dipendono dal vostro forno e dall’impasto che avete preparato. A volte sulle ricette si trovano dei tempi di cottura estremamente precisi (“cuocete per 22 minuti”): prendeteli sempre come una indicazione di massima, poiché le variabili in gioco sono molte e possono influenzare i tempi di cottura sensibilmente. Data l’alta temperatura del forno, l’acqua evapora velocemente. Contemporaneamente il glutine e le proteine dell’uovo all’esterno dell’impasto si coagulano, formando una sorta di pellicola che trattiene il vapore che contemporaneamente si sta sviluppando all’interno e che cerca di sfuggire. Poiché le proteine dell’uovo sono elastiche, fino a quando non si sono coagulate completamente, la pressione interna aumenta e gonfia l’impasto come un palloncino, lasciando una cavità all’interno.
11 _ I bignè sono cresciuti, ma non possiamo ancora toglierli dal forno, altrimenti rischiano di collassare. Portate il forno a 175 °C e continuate a cuocere per 10 minuti allo scopo di lasciarli asciugare. Ovviamente non potete bucare i bignè con il classico stuzzicadenti per controllare che siano cotti, altrimenti, se non lo sono, il vapore che abbiamo cercato faticosamente di intrappolare uscirebbe facendo sgonfiare il bignè. Per controllare che siano cotti potete toglierne uno dal forno, farlo raffreddare e verificare che non collassi: apritelo per controllare che sia cotto internamente e che abbia una bella cavità.
12 _ Se sono cotti, con un coltello praticate un taglio equatoriale sui bignè ancora caldi. Rimetteteli nel forno spento, ma ancora caldo, con la porta aperta per farli asciugare. Una volta raffreddati potete metterli in un sacchetto a zip per una settimana o in freezer per un mese. Il taglio viene effettuato per permettere al vapore residuo di uscire. Se non lo fate l’interno si rammollirà, poiché il guscio del bignè ormai è coagulato e non permette più al vapore di sfuggire.
13 _ Per preparazioni dolci un ripieno classico è la crema pasticciera o al cioccolato. Oppure la panna montata, ma solitamente in questo caso i bignè hanno la forma di un cigno. Se li usate per preparazioni salate potete riempirli con una salsa al formaggio calda, o dell’insalata russa, dei gamberetti in salsa rosa e così via.
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Tavola dei Contenuti (TOC) Frontespizio ISBN INTRODUZIONE I. ZUCCHERO E ZUCCHERI Conosciamo gli zuccheri Proprietà degli zuccheri ZUCCHERI Il glucosio Il fruttosio Il saccarosio Sia dalla canna che dalla barbabietola Le varie tipologie di saccarosio in commercio Il lattosio Il maltosio SCIROPPI Lo sciroppo di glucosio o di mais Lo zucchero invertito Il miele Lo sciroppo d’agave Lo sciroppo di malto Lo sciroppo d’acero I CRISTALLI DI ZUCCHERO LO ZUCCHERO INVERTITO Gelée al lampone Caramello e salsa al caramello Croccante alle mandorle II. LE UOVA Conosci le tue uova Come è fatto un uovo L’uovo in cucina L’ALBUME Le proteine dell’albume L’albume in pasticceria Montare l’albume I fattori che influenzano la montatura
La cottura dell’albume IL MITO DEL SALE PER MONTARE GLI ALBUMI IL TUORLO Il tuorlo in pasticceria I fattori che influenzano la coagulazione I prodotti della coagulazione TUORLI E ALBUMI INSIEME Le meringhe La meringa francese La meringa svizzera Pâte à bombe La crema inglese La crema pasticciera veloce Lo zabaione (o zabaglione) III. LATTE, PANNA E BURRO IL LATTE La composizione del latte La struttura fisica del latte Conosci il tuo latte La schiuma del latte LA PANNA Conosci la tua panna La produzione della panna Montare la panna I segreti per un’ottima panna montata IL BURRO La fermentazione La struttura Conservazione e degradazione Il burro chiarificato Conosci il tuo burro IN PASTICCERIA Latte e panna in pasticceria Il burro in pasticceria NUVOLE DI LATTE Il dulce de leche La panna montata Il mascarpone Il burro fatto in casa
IV. LA FARINA LA FARINA E LE SUE COMPONENTI Il glutine Estrazione del glutine L’amido Conosci la tua farina I parametri delle farine LA FARINA IN PASTICCERIA Teoria generale delle torte Gli ingredienti di base delle torte Il pan di Spagna I pancake V. ARIA E ALTRI GAS I gas negli impasti Classificazione degli agenti lievitanti Il bicarbonato di sodio e il lievito chimico Conosci il tuo lievito chimico IL LIEVITO CHIMICO FAI DA TE La pita senza lievito all’acqua gassata Biscottini di frolla montata Angel food cake Pasta choux BIBLIOGRAFIA E FONTI Tavola dei Contenuti (TOC)