La vita segreta del medioevo

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Prima edizione ebook: maggio 2013 Š 2013 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-5328-8

www.newtoncompton.com


Elena Percivaldi

La vita segreta del Medioevo Come si viveva davvero mille anni fa?

Newton Compton editori


Ai miei piccoli, Riccardo e Jacopo


La storia è un grande presente, e mai solamente un passato. Émile-Auguste Chartier, detto Alain (1868-1951)


Introduzione

Pochi periodi storici sono stati vittime, nel corso del tempo, di tanti luoghi comuni come il Medioevo. Sul suo conto se ne sono dette di tutti i colori: età oscura, secoli bui, millennio della superstizione e dell’oscurantismo, e via dicendo. Ma fu veramente così oppure si tratta di un colossale pregiudizio? Tutto incominciò tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento con l’Umanesimo, nuova corrente filosofica e letteraria che, come dice la parola stessa, intese per la prima volta dopo l’età classica riportare l’uomo al centro del cosmo restituendogli quella dignità che sembrava aver perso. Ovviamente, a finire sul banco degli imputati furono i secoli di predominio di un cattolicesimo che aveva teorizzato una società chiusa, rigida, divisa in tre “classi” (i famosi oratores, bellatores, laboratores) e informata da un sistema filosofico e religioso in cui tutto, anche l’incommensurabile, era definito e spiegabile ricorrendo comunque alla supremazia della fede sui dubbi della ragione. L’odio per il Medioevo come età barbara esplose poi con l’Illuminismo settecentesco: i philosophes, ridando dignità alla ragione svincolata dalla fede, bollarono come retrogradi e antiprogressisti i secoli precedenti inventandosi anche termini dispregiativi che in seguito sono rientrati nell’uso comune. Un esempio per tutti: la parola “gotico” indica l’arte prodotta nei secoli centrali del Medioevo, che fu accusata dai padri del Neoclassicismo e dell’arte utile alla ragione di essere brutta e deforme, barbara e irrazionale. Non a caso, il termine deriva dal popolo germanico dei goti, che saccheggiò Roma e causò il crollo dell’impero romano. Oggi, se pur si accetta ancora la definizione di Medioevo come “Età di Mezzo” e dunque di transizione tra il mondo antico e quello moderno, non si è più disposti ad accettarne il corollario dispregiativo e denigratorio che lo vuole un periodo di regressione della civiltà, dell’arte e del pensiero della storia d’Europa. La maggior parte degli studiosi, al contrario, considera oggi il Medioevo come la base della nascita dell’Europa moderna, un’Europa di popoli autonomi e politicamente definiti, ma al tempo stesso ben consci di appartenere a un’entità politico-culturale, religiosa e sociale più ampia, che aveva come denominatore comune lo stesso sistema di valori e gli stessi fondamenti religiosi. Basti dire che il termine stesso europeenses (“europei”) nacque nell’VIII secolo,


in pieno Alto Medioevo, per definire le truppe franche che alla guida di Carlo Martello sconfissero gli arabi nella celebre battaglia di Poitiers (732): un chiaro segno di un’identità che andava nascendo e configurandosi in contrapposizione a un’altra, considerata aliena e apportatrice di un mondo e di valori opposti. Questo libro vuole lasciare sullo sfondo, per una volta, i grandi fatti militari e gli scontri epocali tra impero e papato, le guerre e i grandi movimenti di popolo, i nomi e le date che hanno fatto la storia e che si trovano sui manuali. Fedele a una linea più “divulgativa”, ha l’ambizione di “portare” gli uomini e le donne del Medioevo alla portata di tutti noi, uomini del Duemila, mostrando gli aspetti meno noti ma sicuramente più interessanti della loro vita. Cosa mangiavano? Come si vestivano? Come si divertivano? In cosa credevano? Come facevano l’amore? Che rapporto avevano con la morte? Quali le loro paure e i loro terrori, al di là del fatidico e abusatissimo concetto del Millenarismo? È proprio vero che la loro religiosità era onnipresente e bigotta e rivestiva, a prescindere, ogni momento della giornata? Il periodo è lungo – mille anni, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente (476) alla scoperta dell’America (1492). Ma proprio per questo è stato tutt’altro che monolitico. Forse nessun periodo storico è stato anzi così vario, contraddittorio, ricco e affascinante – pur con i suoi momenti oscuri e oscurantisti – di questo. Il Medioevo è una fucina di suggestioni di ogni sorta, capaci di colpire l’immaginario e, magari, restare nella memoria collettiva. Come la celebre descrizione, opera del cronista Rodolfo il Glabro (l’autore peraltro della famosa espressione «Sembrava che il mondo si scuotesse, spogliandosi della sua vecchiaia e rivestendosi di un bianco mantello di chiese»), degli orrori scatenati dalla carestia del 1003: quando non ci furono più animali da mangiare, gli uomini, spinti dai morsi terribili della fame, si arrangiano con carogne e radici e arrivano al cannibalismo («I viandanti venivano aggrediti da gente più robusta di loro e i loro corpi, fatti a pezzi, erano cotti sul fuoco e divorati»), all’infanticidio e alla necrofagia, disseppellendo i morti e cibandosi delle loro carni. Oppure, il famoso episodio in cui Alboino, re dei longobardi, costrinse la moglie Rosmunda a bere in una coppa ricavata dal cranio del padre, che aveva appena sconfitto e ucciso. Ancora, la grande crociata scatenata dalla Chiesa nel 1306-7 contro fra Dolcino da Novara e i suoi seguaci, che – considerati eretici – furono uccisi sul rogo dopo indicibili torture. E poi, tutti i miti e le leggende sorte intorno ai templari e collegati con il Graal e la Sacra Sindone... Questo saggio si propone di restituire ai suoi protagonisti carne, ossa e sangue. Mostrando che i nostri antenati, pur così lontani nel tempo, non erano poi così diversi da noi.


Quanto l’interesse per l’epoca sia sentito lo dimostrano anche le tante sagre e rievocazioni storiche dedicate al Medioevo che fioriscono in tutto il Paese sempre più numerose e coinvolgono migliaia di figuranti, di gruppi storici e di spettatori. La storia, si dice, la fa spesso la gente comune. Aggiungiamo che la gente comune decide anche cosa è interessante e cosa no. Non sempre ha ragione, a volte si fa guidare dalle mode. Ma nel caso del Medioevo c’è qualcosa di più. C’è l’intuizione che esso rappresenti, nel bene e nel male, la fucina delle nostre identità e che sia lì che si debba andare per scoprire le vere ragioni di tanti fenomeni che ci riguardano, oggi, da vicino. Riportare in vita il Medioevo, con le sue storie segrete e nei suoi aspetti poco noti e più curiosi, e stabilire un filo di connessione con il passato remoto, è l’umile scopo di questo lavoro.


1 La donna, il bimbo, l’anziano

La vita media della donna era di circa trentasei anni. Si sposava prestissimo, tra i dodici e i quindici, partoriva molti figli (di cui buona parte morivano in tenera età) e solo il 39% arrivava ai quarant’anni (contro il 57% degli uomini). Angelo del focolare, in genere sottomessa agli uomini (padre, marito, fratello che fosse) e a Dio (dentro o fuori dal convento), aveva scarsa autonomia e subiva per giunta gli strali di una cultura diffusa che la indicava come sentina di ogni peccato, tentatrice e causa di perdizione1. Nel periodo in cui i regni romano-barbarici si assestano fino a diventare presenze stabili, le donne, però, giocano un ruolo di primissimo piano: sono loro, infatti, che convincono i mariti ancora pagani a convertirsi al cristianesimo. Sono, cioè, il veicolo della “normalizzazione” tramite la quale i barbari cessano di essere tali e diventano finalmente eredi, in tutto e per tutto, di quell’antica civiltà romana che li affascina, li strega e finisce lentamente – anche se non del tutto – per inglobarli. Due esempi per tutti: Clotilde, che nel 496 convertì il re dei franchi Clodoveo; Edelberga, che nel VII secolo fece lo stesso col re di Northumbria Edwin. Se altolocata, la donna del Mille o sposava un parigrado oppure finiva in convento; se di bassa estrazione sociale, passava la vita a generare figli e a lavorare. Ma in questo quadro apparentemente sconfortante emergono figure contraddittorie e apparentemente fuori dai canoni: Ildegarda di Bingen, Christine de Pizan, Giovanna d’Arco, Matilde di Canossa, Caterina da Siena... Tutto sommato, però, sono eccezioni a conferma della regola generale che vuole la femmina, nel Medioevo, essere prima di tutto moglie e madre. E a proposito di figli, a lungo si è sostenuto che l’Età di Mezzo non possedesse il concetto – che si vuole tutto moderno – dell’infanzia come età a sé con caratteristiche proprie. Ma il cliché, grazie a nuovi studi e a ritrovamenti archeologici, è stato largamente smontato.

Questione di «mundio»


I germani demandavano alle donne l’educazione e la cura dei figli. Esse inoltre assistevano i feriti e accudivano i loro uomini e alcune di loro erano profetesse e sacerdotesse. La loro mansione principale, però, era quella di occuparsi dell’economia domestica, della tessitura e della prole. La donna germanica, e longobarda in particolare, secondo un’ottica che sarebbe rimasta preponderante per tutto il Medioevo, era sottoposta al mundio, ossia alla protezione, di un uomo: fino al matrimonio a detenerlo era il padre, poi passava al marito. Non poteva mai, in nessun caso essere selpmundia, ossia padrona di se stessa. Qualora non avesse parenti maschi, il mundio su di lei apparteneva al re. Qualcosa di simile esisteva anche nella Roma repubblicana: la donna era sottomessa infatti all’autorità (manus) di un uomo e con le nozze la patria potestas passava dal padre allo sposo, che acquisiva sulla moglie un potere analogo a quello esercitato sui figli e sugli schiavi. Questo tipo di matrimonio, detto cum manu, fu progressivamente sostituito da quello libero (sine manu), fondato unicamente sul consenso degli sposi. L’età minima per sposarsi era di dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini. E mentre nel matrimonio cum manu solo l’uomo poteva ripudiare la donna, il principio del consenso rendeva legittimo il divorzio consensuale e quello su iniziativa di uno dei due coniugi, cosa che avveniva senza bisogno dell’intervento dell’autorità pubblica. Con l’avvento del cristianesimo, alla legislazione romana si sovrappose una visione etico-religiosa della vita matrimoniale derivata dalla nuova morale. Il matrimonio2 era considerato un male necessario per garantire la riproduzione e per tenere sotto controllo l’esuberanza sessuale (era, cioè, un remedium concupiscentiae): era unico, tra un uomo e una donna, e non poteva essere sciolto. Per quanto riguarda il principio del consenso, esso cadde nel dimenticatoio. Fu recuperato per la prima volta nell’866 (citato in un’epistola di papa Niccolò I), ma sarebbe tornato a essere materia condivisa solo nell’XI-XII secolo. Ma rieccoci alla donna. Nell’etica germanica, nessuno poteva attentare alla sua vita, né costringerla a fare ciò che non voleva o sottoporla a violenza, pena la perdita del mundio e il suo ritorno ai parenti con i propri beni. Il marito rappresentava la moglie in tribunale e ne amministrava i beni, anche se non poteva alienarli senza il suo consenso. Solo presso i visigoti le donne potevano disporre liberamente delle loro proprietà e, se non avevano figli, lasciarle a chi volevano. In tribunale potevano rappresentarsi da sole e testimoniare, e dopo i vent’anni occuparsi di persona del loro matrimonio. Ma si trattava di un’eccezione. Quando i barbari si stabilirono dentro i confini dell’impero dando vita a regni


autonomi, mantennero le loro tradizioni ma le integrarono sempre più vistosamente con quelle romane ancora in vigore presso i popoli conquistati. Il risultato di questa integrazione sarebbe rimasto alla base dei contratti sociali per molti secoli, almeno fino al Mille. Le leggi disciplinavano gli aspetti della vita quotidiana, economica e sociale e determinavano anche il ruolo rivestito dalle varie categorie, rimarcando le differenze tra i sessi. La donna era oggetto di molte disposizioni che la tutelavano ma, nel contempo, tendevano a sottolineare la subalternità nei confronti dell’uomo, che esercitava su di essa una potestà molto forte. A cominciare dalle nozze. Era loro richiesto un regime di vita casto e se commettevano adulterio erano sepolte vive. Nell’età più arcaica il matrimonio avveniva in tre modi: o per acquisto della sposa da parte del marito, o per rapimento, o per consenso. Per sposarsi, dapprima si stabiliva un vero e proprio contratto tra il futuro marito e il padre della sposa. L’accordo fissava l’ammontare del faderfio (la dote, versata dal padre) e della meta (il prezzo del mundio, pagato dal marito per riscattarlo). Metà della meta sarebbe restata alla donna in caso di vedovanza. A questo punto si stabiliva la data delle nozze. La mattina dopo la prima notte, la sposa riceveva il morgingab (“dono del mattino”) dal marito per essere compensata della verginità perduta. Le nozze con una serva erano consentite, ma solo se prima la si liberava. Se nelle classi inferiori il matrimonio era sottoposto a pochi vincoli, e in genere le unioni avvenivano rispettando la volontà dei futuri coniugi, per l’aristocrazia e i ceti di governo a prevalere erano gli interessi politici e dinastici. I matrimoni, cioè, erano combinati dalle famiglie per stringere alleanze e salvaguardare (o ampliare) i propri patrimoni fondiari. C’è però un caso che merita di essere citato perché abbastanza fuori dal comune: quello che vide protagonista Teodolinda, futura regina dei longobardi. Di origine bavarese, fu scelta dal sovrano longobardo Autari come sposa per stipulare un’alleanza con il padre di lei, Garibaldo, in funzione antifranca. Narra Paolo Diacono che Autari, desideroso di vedere la promessa sposa, si recò travestito da ambasciatore in Baviera e chiese di poterla ammirare per riferirne le virtù al suo re. Era così bella che chiese a Garibaldo il permesso di ricevere dalla sua mano una tazza di vino, ma nel ridargliela le sfiorò di nascosto col dito la mano e fissandola si passò la destra sul naso e sul volto. Arrossendo violentemente, Teodolinda corse dalla nutrice: lei le spiegò che se egli non fosse stato il suo futuro sposo, non avrebbe mai osato toccarla a quel modo. Di certo, giovane e bello com’era, era degno del trono e di una moglie come lei. Il 5 maggio 589, a Verona, nel campo di Sardi, il matrimonio fu celebrato con sfarzo. Ma dopo solo un anno, Autari morì avvelenato e a Teodolinda fu concesso, caso raro per l’epoca, di scegliere da sé il secondo consorte. Ancora Diacono sostiene che ciò le fu permesso perché


«piaceva molto» al suo popolo. Comunque sia, riuniti i suoi consiglieri, optò per Agilulfo, duca di Torino, potente guerriero turingio della stirpe di Anawas. «Era questi», narra Paolo Diacono, «un uomo forte e valoroso e sia di corpo che di animo adatto a governare il regno. Subito la regina gli mandò a dire di presentarsi a lei, ed ella stessa gli andò incontro nella cittadella di Lomello. Quando egli fu giunto, la regina, scambiata qualche parola, si fece servire del vino e, dopo aver bevuto per prima, offrì il resto da bere ad Agilulfo. Presa la coppa, egli baciò rispettosamente la mano alla regina ma lei, sorridendo mentre arrossiva, disse che non doveva baciarle la mano chi doveva baciarla sulla bocca. E così, innalzandolo al proprio bacio, gli annunciò le nozze e la dignità regia». La scelta fu molto felice. Al di là dei particolari romanzeschi risulta evidente che a salvare il regno dalle discordie interne e dai nemici, fornendo una rapida successione, fu il prestigio indiscusso della regina. Il suo comunque fu un caso piuttosto isolato e percepito come straordinario già allora. Per le altre donne, soprattutto se di rango, l’espressione di una propria volontà in merito era considerata un optional. Va rimarcato, però, che nelle leggi germaniche che a lungo costituirono la base dei patti sociali la donna non poteva essere maritata contro la sua volontà, altrimenti il patto era sciolto e il marito doveva pagare una multa di 900 solidi. Si trattava di divorzio? No. L’editto di Rotari non lo ammetteva ancora, e nemmeno il ripudio. Perché fosse lecito – dietro pagamento di una somma di denaro – si sarebbe dovuto attendere solo mezzo secolo, ossia le leggi di Grimoaldo. Ma anche in quel caso, a decretare la fine del rapporto poteva essere soltanto l’uomo.

Proprietà dell’uomo Fino ad allora, se il marito voleva liberarsi della moglie, non gli restava che ucciderla (la multa era alta, ben 1200 solidi) oppure accusarla di adulterio. Nel primo caso, la legge disciplinava meticolosamente anche il destino dei beni portati con sé dalla consorte all’atto delle nozze: Se un marito uccide la propria moglie senza che questa abbia colpe e non aveva meritato di essere messa a morte per legge [sic!], paghi una composizione di 1200 solidi metà ai parenti che l’hanno data in sposa e che ricevettero il corrispettivo del mundio e metà al re, cosicché sia costretto a farlo da un agente per conto del re e la suddetta pena sia composta. Se ha avuto un figlio dalla donna, i figli abbiano il morgingab e il faderfio della madre defunta; se non ha avuto un figlio da lei, i suoi beni tornino ai parenti che la diedero in sposa. Se non ci sono parenti, allora la composizione


e i beni suddetti vadano alla corte del re (cap. 200). Nel caso dell’accusa di adulterio, invece, seguiva la più classica delle ordalie – ossia il “giudizio di Dio” – che consisteva in una prova da superare da parte dell’accusatore. Se questi perdeva, doveva pagare alla donna il suo guidrigildo (ossia il suo valore pecuniario, stabilito per legge). Se viceversa vinceva, acquisiva il diritto di ucciderla oppure di mutilarla. Le pene erano inferiori se commesse ai danni di un’aldia (cioè di una semilibera), di una liberta o di una serva. Quest’ultima aveva un valore minimo: basti pensare che se si percuoteva una schiava incinta causandole un aborto, si pagavano solo tre soldi, mentre se si tagliava la coda a un cavallo se ne pagavano addirittura sei! La pena della morte e della mutilazione in caso di adulterio fu abolita da Liutprando nel 731: per il marito che cogliesse la moglie in flagrante era previsto il solo diritto di punirla o di venderla. Dietro questo cambiamento di rotta, forse, non è sbagliato cogliere l’eco di un brutto episodio che aveva visto vittime, nel 702, proprio la sorella di Liutprando, Aurona, il fratello Sigiprando e la madre Teodorada. La causa scatenante non era stata una vendetta per questioni di letto, ma un regolamento di conti politico. Il duca di Asti Ansprando, padre del futuro re, era stato sconfitto e costretto alla fuga dall’altro pretendente al trono Ariperto II. Quest’ultimo, una volta padrone del campo, si era vendicato brutalmente sulle due donne facendo loro tagliare le orecchie e il naso e deturpandole per sempre3. L’operato di Liutprando fu mosso senz’altro dall’influsso che esercitava su di lui la morale cattolica, ma è possibile che dietro la sua decisione ci sia anche un – non sappiamo quanto consapevole – ricordo autobiografico del terribile fatto di sangue. Presso altre popolazioni germaniche era previsto invece il ripudio o divorzio consensuale ed era molto diffusa la pratica del concubinato. Accanto alla moglie legittima, cioè, i sovrani (ma non solo loro) tenevano altre donne di rango inferiore con cui procreavano tranquillamente. Carlo Magno ebbe quattro concubine, Ugo di Spoleto tra le tante ne scelse tre come favorite e si prodigò per sistemare la numerosa prole che generò con loro. Per tutto il Medioevo i “bastardi” non solo ricoprirono importanti cariche di potere, ma addirittura legarono il loro nome a imprese memorabili. Così, ad esempio, la dinastia dei Pipinidi che scalzò quella merovingia nel regno dei franchi; così anche il celebre Guglielmo, figlio del duca di Normandia Roberto e della concubina Arlette4, che nel 1066 ad Hastings conquistò l’Inghilterra. Guglielmo discendeva da una lunga schiera di illegittimi: il primo duca di Normandia, Rollone, aveva generato da Poppa (non dalla moglie Gisella!) Guglielmo di Lunga Spada; il bisnonno di


Roberto era a sua volta padre di Riccardo I – nato dalla concubina Sprota – e nonno di Riccardo II, nato da Gonnor e non dalla nobile Emma. I nobili in genere si circondavano di concubine perché il matrimonio era concepito come una questione di politica familiare e non aveva nulla a che fare – salvo rari casi – con l’amore. Certo, poteva anche capitare che il rapporto si rivelasse un successo e che nella coppia sbocciasse un tenero e autentico sentimento. Ma la regola era l’indifferenza. I coniugi dormivano di solito in stanze separate e si univano solo (o quasi) per compiere il loro dovere e procreare in modo da garantire la continuazione della dinastia. E mentre gli uomini trovavano tranquillamente la soddisfazione dei loro piaceri altrove, le donne erano guardate a vista per evitare che si dessero ad amori fugaci. Un caso molto famoso da questo punto di vista, e dalle grandi implicazioni politico-culturali, fu quello di Eleonora d’Aquitania (1122-1204) anche perché diede molto scandalo. Nata a Bordeaux, crebbe nei fasti e nella raffinatezza di una corte dove le fu insegnato – caso raro per una donna! – a leggere e scrivere in latino, a suonare strumenti musicali, a far di conto, persino a cavalcare e andare a caccia. Forte di carattere, passionale e anticonformista, ebbe molti amanti – tra veri e presunti –, si sposò due volte, spinse i figli a ribellarsi al padre e si circondò di poeti e letterati che cantavano l’amor cortese anche in corde ben più prosaiche. Una donna, insomma, decisamente fuori dal comune in un’epoca in cui anche le regine, se non si dimostravano morigerate come le antiche matrone, rischiavano di finire i loro giorni tra le fredde celle di un convento. A otto anni si trovò erede, per la morte del fratello maggiore, di un territorio che si estendeva dalla contea di Poitou ai ducati d’Aquitania e Guascogna. E promessa sposa dal padre, in punto di morte, al futuro re di Francia Luigi VII. Il matrimonio fu celebrato il 25 luglio 1137. A Natale Eleonora e Luigi VII furono incoronati a Bourges: lei non aveva che quindici anni, lui solo due di più. L’unione fu infelice sin da subito: dopo otto anni di matrimonio senza figli nacque una bimba, Maria, e non il sospirato erede maschio. La frattura si consumò però in occasione della crociata che Bernardo di Chiaravalle predicava dopo la caduta di Edessa in mano agli infedeli: al raduno di Vézelay, nel 1147, Eleonora si presentò davanti alle truppe del marito e dell’imperatore Corrado III in groppa a un cavallo bianco e rivestita di una lucente armatura. Inopportuna fu ritenuta anche l’iniziativa, da lei promossa insieme a trecento nobildonne, di accompagnare l’esercito per assistere i feriti. Sorda a ogni critica, la regina si buttò nella missione trascinando con sé uno dei suoi trovatori favoriti, Jaufré Rudel, a farle da scorta. La spedizione fu un disastro e al termine il sinodo di Beaugency sancì, con l’assenso papale, l’annullamento del matrimonio tra i due per “consanguineità di quarto grado”,


visto che entrambi discendevano dallo stesso antenato, Roberto II. Oltre alla separazione in sé per sé, a dare ancora più scandalo fu, se possibile, il fatto che Eleonora il 18 maggio 1152, cioè appena un mese e mezzo dopo l’annullamento, impalmò nientemeno che Enrico il Plantageneto: di undici anni più giovane, era destinato al trono d’Inghilterra col nome di Enrico II, dove sarebbe salito con la nuova consorte il 19 dicembre di due anni dopo. E visto che Eleonora restava in pieno possesso delle sue terre, l’unione produsse l’eccezionalità di una corona inglese dotata sul suolo francese di più territori di quanti ne avesse lo stesso re di Francia. Enrico a sua volta non era uno stinco di santo. Nonostante gli otto figli che Eleonora gli diede, tradiva la moglie ogni volta che poteva ed ebbe numerosa prole illegittima. Dal matrimonio nacquero Guglielmo, Enrico il Giovane, Matilda, Riccardo, Goffredo, Eleonora, Giovanna e Giovanni. Ma il re a tutti questi preferì sempre un altro Goffredo, avuto da una prostituta proprio mentre la consorte gli partoriva il primogenito. Ebbe addirittura il coraggio di riconoscerlo e di farlo allevare nella corte di Westminster, dimostrando quel temperamento arrogante e irrispettoso verso Eleonora che, alla lunga, avrebbe decretato la fine del loro rapporto.

La corte d’amore Eleonora si era allontanata dal marito per lunghi periodi già varie volte. Durante uno di questi ne aveva approfittato per rinfocolare la sua antica passione per musica, poesia e letteratura. A Poitiers aveva dato vita a una corte che richiamava artisti e letterati da tutta la Francia e divenne celebre in tutta Europa. Questo scrigno di cultura ospitò non solo la definitiva residenza della regina e dei suoi figli Goffredo e Riccardo (il prediletto), ma anche rancori e congiure contro il sovrano inglese. Eleonora e la figlia Maria, anch’essa mecenate, si circondarono di poeti, musicisti, letterati e soprattutto di trovatori (o trovieri), poeti che cantavano in langue d’oc (occitano) l’amor cortese su dolci melodie, accompagnandosi con strumenti musicali a corda. Una passione che, probabilmente, aveva ereditato dal bisnonno Guglielmo (1071-1127), duca di Aquitania e Guascogna e conte di Poitiers, trovatore egli stesso: pare anzi che sia stato proprio lui il primo poeta a fare uso di una lingua volgare per comporre poemi di argomento profano, il che – come riconosciuto dallo stesso Dante, che conosceva il provenzale e apprezzava le canzoni d’amor cortese fino a poetare egli stesso obbedendo a quei canoni – lo rende il padre della poesia volgare europea.


Di cosa trattava esattamente l’amor cortese? Era, si può dire, un modo elegante per ottenere un po’ di soddisfazione nel campo senza perdere la faccia. Il fine amour, o amore raffinato, fu “inventato” in Francia nel XII secolo e stabilì una sorta di modello che si diffuse ampiamente, grazie alla letteratura, anche altrove. In breve, la dama (dal latino domina, padrona), che di regola era la sposa di un signore, era corteggiata da un giovane che faceva parte dell’entourage del marito. Egli, innamorato, tentava di conquistarla sottomettendosi a lei come un vassallo e le giurava eterna fedeltà. La dama poteva decidere se corrispondere o meno (e in che misura) al suo amore: se accettava diventava a sua volta prigioniera perché, in questo tipo di vincolo ricalcato sulla base di quello feudale, a un dono ricevuto doveva corrisponderne uno in cambio. Il gioco, perché di ciò si trattava, era apparentemente retto dalla donna. Apparentemente, appunto. Perché in realtà il sistema era congegnato per rimarcare, ancora una volta, il dominio dell’uomo sull’altro sesso. In un mondo in cui la reputazione femminile era legata in tutto e per tutto alla sua condotta sessuale, anche il piccolo sospetto di tradimento nei confronti del marito – che era suo signore – poteva costarle il ripudio e la rovina. Il piacere, insomma, «culminava nello stesso desiderio. È qui che l’amor cortese rivela la sua vera natura onirica. L’amor cortese concedeva alla donna un potere sicuro. Ma tratteneva questo potere confinato all’interno di un campo ben definito, quello dell’immaginario e del gioco»5. Di più. Il sistema era funzionale al mantenimento dell’ordine e, anzi, a rimarcare nettamente il ruolo preponderante dell’uomo di estrazione nobile all’interno della società feudale. In altre parole l’uomo di corte, trattando le donne con raffinatezza e conquistandole – ché sempre prede erano! – con versi e modi gentili anziché con la violenza, legittimava la sua appartenenza al mondo aristocratico e rimarcava la sua differenza con il villano, caratterizzato invece dalla rozzezza e dall’inciviltà. Anche in questo caso di apparente forza, dunque, le donne si rivelavano per l’ennesima volta un oggetto funzionale agli uomini per distinguere i loro ruoli all’interno di una società tipicamente, e inesorabilmente, maschile. Comunque sia, a Eleonora e alla sua raffinatezza dobbiamo un patrimonio culturale imponente elaborato da decine di poeti. Tra loro spicca la figura di Bernart de Ventadorn (1130-1200 ca.) che, innamorato come tutti della regina, dedicava a lei i suoi versi d’amore. La dama che fa soffrire ma che allo stesso tempo sembra concedere una speranza; l’amata che non presta attenzione o preferisce le lodi di altri, le malelingue, invidiose del joi d’amor e la donna, irraggiungibile, esaltata come l’essenza della perfezione e spesso celata dietro un appellativo fittizio, il senhal, sono tutti stilemi delle cansos (canzoni) dell’epoca,


ma nascondono quasi sicuramente anche elementi biografici. Altri poeti attivi alla corte di Eleonora furono Benoît de Sainte-Maure, che scrisse il celebre Roman de Troie (“Il romanzo di Troia”) – sulle epiche vicende della città antica e dei suoi eroi –, Robert Wace e Arnaut Guilhem de Marsan, autore di un “manuale del perfetto cavaliere”. Maria di Champagne, invece, predilesse il grande trovatore Chrétien de Troyes (1135-1183), autore – oltre che di opere perdute – di cinque romanzi ispirati a leggende bretoni: Erec et Enide, Cligès, Lancelot ou le chevalier de la charrette, Yvain ou le chevalier au lion, Le Roman de Perceval ou le conte du Graal. Capolavori che diedero un impulso decisivo alla diffusione del mito di Re Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e della ricerca del Graal in tutta Europa.


Lontan dal mondo Uno status speciale era quello delle vedove. Sin dalle leggi germaniche potevano (editto di Rotari, cap. 182) scegliersi un nuovo marito purché fosse libero. Se invece decidevano di entrare in convento, non potevano farlo prima di un anno e portavano con sé un terzo dei beni se avevano figli, la metà se non ne avevano. Il tutto restava al monastero. Considerate indifese, in epoca feudale erano tra le categorie che il cavaliere avrebbe dovuto impegnarsi a difendere. E in effetti, per lungo tempo entrare in convento rappresentò un modo per salvarsi dalle violenze e mettersi al sicuro. È vero che addirittura “barbari” come il re dei goti Totila nel 546, assediando Roma, proibirono ai loro di stuprare le donne, e che la legge dei burgundi considerava la violenza sessuale e il rapimento come crimini molto gravi. Ma nei tempi travagliati e sempre più insicuri caratterizzati da continue guerre e scorrerie, nemmeno il chiostro era garanzia assoluta di una vita tranquilla, e le cronache riportano sovente episodi non solo di saccheggi e distruzioni di monasteri (con relativi stupri ai danni delle suore), ma anche di rapimenti di singole sorelle altolocate da parte degli sgherri di qualche signorotto che intendeva sposarle a tutti i costi. Al punto da spingere i regnanti a legiferare in merito: il franco Clotario II, ad esempio, nel 614 stabilì la condanna a morte per chi rapiva una donna. Certo fondare un convento – e magari ritirarvisi! – oltre a rendere una nobildonna estremamente rispettabile e di venerabile memoria per l’eternità rappresentava anche l’occasione per l’intero casato di ottenere enorme prestigio sociale. Ansa, moglie dell’ultimo re dei longobardi Desiderio, ad esempio, fondò i monasteri di Leno e Sirmione, e quello importantissimo di San Salvatore e Santa Giulia a Brescia e non fu certo l’unica. Nell’Alto Medioevo sono noti casi di sacerdoti donne o diaconesse6. In Bretagna, nel 511, alcuni vescovi vennero a sapere che i sacerdoti locali giravano per le campagne amministrando i sacramenti e distribuendo l’eucaristia accompagnati da alcune conhospitae. Probabilmente si trattava di vedove che, dopo aver preso i voti, erano state consacrate e partecipavano alla celebrazione delle messe. Ciò dovette spaventare il clero cittadino perché, nel 533, il sinodo di Orléans tolse alle donne la possibilità di accedere agli uffici religiosi; il successivo Concilio di Auxerre andò oltre e dichiarò che le donne erano per natura impure e quindi dovevano indossare il velo e astenersi dal toccare qualsiasi oggetto consacrato. Tuttavia, la documentazione è ricca di diaconesse –


tale, ad esempio, era santa Radegonda – e donne con questo titolo sono presenti a Pavia, in Dalmazia, a Roma e altrove. Va aggiunto però che soprattutto in Francia la legislazione ecclesiastica era restrittiva contro le donne che frequentavano sacerdoti: imponeva, ad esempio, ai preti di astenersi dall’avere rapporti con loro, pena la perdita dell’incarico. Ma le disposizioni restavano largamente inattese, poiché non era affatto infrequente trovare concubine in casa di preti. Questi ospitavano, pare, anche prostitute e avevano da loro figli. Secondo Attone da Vercelli, alla fine del X secolo c’erano religiosi che per fare regali alle loro concubine – nominate addirittura eredi dei loro beni! – derubavano le chiese e tormentavano i poveri. Una condotta tutt’altro che da timorati di Dio.


Donne di penna Tornando alle donne, all’ombra del chiostro potevano accedere a ciò che in genere era precluso, almeno fino all’XI secolo e salvo rari casi, alle laiche: cioè alla cultura. Roswitha, badessa di Gandersheim (935-974 ca.), scrisse molto in latino, tra cui sette leggende drammatiche che vedono protagonisti santi, peccatori e demoni, sei commedie in versi ritmati – alla maniera delle antiche commedie latine, in particolare di Terenzio – e le Gesta Othonis, in cui narra la vita dell’imperatore Ottone I di Sassonia. Ildegarda di Bingen (1098-1179), santa e dottore della Chiesa, fu medico, botanico, musicista, artista, linguista, filosofa, poetessa e persino consigliera dell’imperatore Federico Barbarossa. Produsse innumerevoli opere che spaziano in ogni campo del sapere e inventò persino una nuova lingua. Herrada di Landsberg, badessa del monastero di Hohenburg in Alsazia (1125 ca.-1195), compose una vera e propria enciclopedia dello scibile, l’Hortus deliciarum, ricca di citazioni dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dagli scrittori medievali, ma anche di autori latini profani, ne musicò alcune parti e ne illustrò altre con preziose miniature. Purtroppo il manoscritto andò distrutto nel 1870 durante il rovinoso incendio della biblioteca di Strasburgo, che lo conservava. A metà tra vita laica e monacale può essere considerata invece Eloisa (morta nel 1164), nipote del canonico parigino Fulberto, che si distinse grazie alla sua dottrina al punto da attirarsi le lodi del grande abate di Cluny Pietro il Venerabile, che la definì ammirato «celebre per erudizione». Le sette arti liberali, quel trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) codificati dal filosofo latino Marziano Capella come sintesi di tutto il sapere, non avevano segreti per lei, così come il latino e, laddove era ormai quasi dimenticato da secoli, il greco e addirittura l’ebraico. Passò alla storia per il celebre carteggio che tenne, dopo la monacazione, col suo grande amore, il teologo Pietro Abelardo, suo precettore, che la sedusse e la mise incinta. Lui subì l’evirazione da parte dei parenti di lei per vendetta, Eloisa entrò in convento, i due sublimarono il loro affetto nell’amore per Dio. Ma quando il 16 maggio 1164, ventidue anni dopo la morte di Pietro, Eloisa lo raggiunse nel sepolcro, leggenda vuole che aperta la lastra, le braccia di lui si aprirono per avvolgere l’amata in un ultimo, eterno amplesso. Anche se si è discusso molto sull’autenticità dell’epistolario – per la mancanza di manoscritti anteriori alla fine del XIII secolo, ma anche per alcune incongruenze tra cui citazioni bibliche “aggiornate” in base a usi posteriori che suggerirebbero una stesura successiva


alla morte dei due amanti o almeno una rielaborazione tarda – prevale ormai l’idea che il documento sia vero e che rappresenti una fonte straordinaria non solo per la conoscenza della vicenda, ma anche per l’interpretazione del modo di pensare medievale. La cultura era comunque appannaggio – raro ma documentato – anche di molte laiche. Non si può, ad esempio, parlare dell’educazione dei bambini medievali senza menzionare un celebre trattato scritto nel IX secolo: il Liber manualis scritto di Dhuoda (800-843 ca.). Era una nobile, forse figlia del duca di Guascogna: sposò il marchese Bernardo di Settimania e gli diede due figli, Guglielmo e Bernardo, e proprio al primo dedicò il manuale – un’opera molto dotta e ricca di citazioni che dimostra la vastità della cultura dell’autrice – allo scopo di insegnargli i princìpi della morale cristiana e il rispetto per i ruoli stabiliti da Dio. Parigi alla fine del Duecento produceva maestre e dirigenti di scuola in gran numero. Nel 321 il duca Carlo di Calabria conferì addirittura la laurea in medicina a una certa Francesca, moglie di Matteo Romano: un’eccezione, certo, ma che dimostra – e lo si osserva nel capitolo dedicato alla sanità parlando di Trotula e delle “donne salernitane” – come il feeling tra le donne e la medicina fosse una costante anche nel Medioevo. Più tardi, Christine de Pizan (1362-1431, veneziana d’origine ma parigina d’adozione), impostò dopo la morte del marito e pur avendo figli una carriera da “scrittrice di professione” e addirittura di imprenditrice: gestiva infatti uno scriptorium che produceva esemplari di codici finemente miniati. Anche lei parla di amore nelle sue liriche, ma lo fa in un modo del tutto originale, al punto che la sua è stata interpretata come un’opera “femminista” ante litteram. Scrisse un poema su Giovanna d’Arco, versi, trattati ricchi di metafore in cui incoraggiava le donne a prendere coscienza di sé e soprattutto il Livre de la Cité des Dames, un’efficace riposta alla misoginia dilagante in molte opere contemporanee anche famose come il De claris mulieribus (“Sulle donne famose”) di Boccaccio o il Roman de la Rose. Qui presenta un utopistico luogo in cui si riconoscono e si esaltano le capacità e le peculiarità delle donne. Tra le altre cose, parla di uomini che prevaricano le donne solo in quanto maschi e non perché la natura li abbia creati più intelligenti di loro e si lamenta, non senza una certa ironia, di questa differenza non certo biologica ma culturale: «Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatto nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere».


Le sante anoressiche Nel Medioevo, però, non erano tutte anticonformiste come Christine. Lo abbiamo visto: la maggior parte delle donne viveva sottomessa all’uomo – padre o marito che fosse – e probabilmente non si sognava nemmeno di sovvertire quell’ordine “naturale” delle cose che era stato stabilito – lo si sentiva ripetere ovunque – direttamente da Dio. Un modo per le donne di affermare il proprio ruolo sociale fu allora l’utilizzo della religione. L’esperienza mistica, in particolare, fu concepita come un mezzo per ottenere credibilità e uscire dal cliché della donna peccatrice e maligna, e anzi per diventare un esempio di santità. Per farlo, però, era necessario rinunciare completamente al proprio corpo, alle pulsioni e ai desideri. Una via per ottenere ciò era l’anoressia. Com’è noto, privarsi del cibo in maniera pressoché totale innesca nel corpo femminile varie conseguenze, la più eclatante delle quali è l’amenorrea, ossia la mancanza di mestruazioni, dovuta tra le altre cose al calo di peso. Il corpo femminile, cioè, perde sia realmente che simbolicamente la sua capacità fisiologica primaria, ossia quella di procreare (attraverso il sesso e quindi il peccato). Così purificata, la donna può dunque accedere al divino senza la zavorra che la condanna per natura alla perdizione. Inoltre, lo stato particolare di privazione induce visioni e iperattività corroborando la forza di volontà: non stupisce dunque che molte di queste ragazze fossero anche note per la loro volontà di ferro e le loro tendenze mistiche. Oltre a digiunare, sovente fino alla morte, praticavano pesanti penitenze e si flagellavano. La “santa anoressia” – come è stata battezzata – è un fenomeno che riguarda nel Medioevo (e anche oltre...) centinaia di donne. Un celebre studio di Rudolph Bell7 ha rivelato come esaminando le biografie di donne italiane vissute tra il 1206 e il 1934, in 261 erano presenti evidenti sintomi di anoressia. Di queste, un centinaio furono proclamate sante. A guardare i dati, sembrerebbe che nella zona tra Umbria e Marche si sia verificata, nei secoli centrali del Medioevo, una vera e propria “epidemia”: nel XIII secolo Bell ha censito 36 casi; 26 nel XIV; altrettanti nel XV; delle 42 sante italiane vissute nel XIII secolo la cui biografia è stata esaminata da Bell, ben 17 praticavano il digiuno. Quasi tutte vissero ad Assisi e dintorni. Rifiutavano tutti i cibi tranne l’Eucarestia; se per caso inghiottivano qualcosa, si provocavano il vomito in modo da espellerlo per essere “degne” di


ricevere il corpo di Cristo, unico nutrimento per l’anima. Accentuando in questo modo il divario tra corpo e spirito. La più celebre è senz’altro Caterina da Siena (1347-1380)8. Figlia di un tintore, cresciuta in una famiglia numerosa (la madre ebbe ben venticinque gravidanze!), dopo la morte di una sorella – per le conseguenze del parto –viene destinata a sposarne il vedovo. Ma si rifiuta di farlo. Inizia anche il calvario dell’anoressia. A nulla valgono i tentativi, da parte del suo parroco, di convincerla a mangiare: sostiene di essere spinta da Dio a non farlo. Dopo mesi di liti, il padre acconsente a farle seguire la sua vocazione. Caterina si rinchiude nella sua piccola cella e inizia a flagellarsi, non si nutre e non dorme tra la rabbia e la disperazione della madre, che pur non potendo opporsi più di tanto conferma la sua incomprensione. Anche gli amici di famiglia, influenzati da Lapa, la ritengono matta o stregata alimentando i dubbi sulla sua identità. Caterina continua la sua battaglia per essere riconosciuta all’interno della famiglia. Anziché rinchiudersi in convento riesce a entrare, malgrado la sua giovane età, nell’Ordine delle Mantellate. È un ordine militante per cui può avere un suo ruolo nell’assistere i malati presso l’Ospedale di Santa Maria della Scala, pur restando in famiglia. Vi riesce attraverso uno “stratagemma” di “morte apparente” facendosi promettere l’ingresso nell’Ordine dei Priori Domenicani sul letto di morte. Il giorno dopo “guarisce” di colpo e si reca all’ospedale per assistere i bisognosi.

Il digiuno, Eucarestia a parte, continua: Per non dare scandalo prendeva talvolta un poco d’insalata e un po’ di legumi crudi e di frutta e li masticava, poi si voltava per sputarli. E se per caso ne inghiottiva anche un solo minuzzolo, lo stomaco non le dava requie finché non l’avesse rigettato: e quei vomiti le davano tanta pena che le facevano gonfiare tutto il volto. In tali casi si appartava con una delle amiche e si stuzzicava la gola con uno stelo di finocchio o con una piuma d’oca, fino a che non si fosse sbarazzata di quanto avesse inghiottito. E questo chiamava «fare giustizia». «Andiamo a fare giustizia di questa miserrima peccatrice», soleva dire. Oltre a Caterina, santa e dottore della Chiesa, sono da annoverare tra le “sante anoressiche” Chiara d’Assisi (1193-1253), Umiliana de’ Cerchi (12191246), Margherita d’Oingt (1240-1310), Angela da Foligno (1248-1309), Margherita da Cortona (1247-1297) e molte altre.


Spirito guerriero Se la vita delle sante anoressiche fu battagliera – e la battaglia era condotta in primis contro se stesse –, il Medioevo ha conosciuto anche donne in armi in un senso tutt’altro che metaforico. È cosa nota che, nel mondo celto-germanico, le donne a volte portassero le armi. Il caso più famoso è quello di Boudicca, regina della tribù celtica degli iceni, che nel 60 d.C. guidò i suoi in una memorabile rivolta contro i romani in Britannia non solo arringandoli grazie a potenti discorsi, ma combattendo in prima persona. Ecco come la descrive lo storico Cassio Dione9: Era una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Le chiome fulve le ricadevano in gran massa sui fianchi. Quanto all’abbigliamento, indossava invariabilmente una collana d’oro e una tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da uno spesso mantello fermato da una spilla. Mentre parlava, teneva stretta una lancia che contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardasse.Boudicca non fu la sola. Nella battaglia di Aquae Sextiae (Aix-enProvence), combattuta nel 102 a.C. tra i romani di Caio Mario e la popolazione germanica degli ambroni – alleati dei teutoni e dei cimbri, che erano anch’essi germani ma fortemente celtizzati nei costumi – le donne combatterono armate di spade e asce, strappando le armi dalle mani dei nemici e infierendo su di loro con ferite e mutilazioni10. L’anno dopo, ai Campi Raudii nei pressi di Vercelli, le donne dei cimbri furono protagoniste di atti di eccezionale coraggio: vestite di nero, ferme sui carri sterminarono mariti, fratelli e padri che tentavano di fuggire dal nemico e si diedero a loro volta la morte gettandosi sotto le ruote dei carri o gli zoccoli dei cavalli, dopo aver strangolato i propri figli11. Sempre durante le guerre cimbriche, secondo san Gerolamo, trecento donne teutoni prese prigioniere dai romani chiesero di essere destinate al servizio nei templi di Cerere e di Venere, ma al rifiuto uccisero i propri figli e poi si strangolarono a vicenda durante la notte12. Tante sarebbero anche le donne guerriere presenti nella storia germanica: sia Cesare che Tacito non nascondono il ruolo di estrema importanza che presso questi popoli rivestiva la figura femminile sia come combattente che come sprone in battaglia, visto che seguivano i propri mariti in guerra incitandoli dai


carri e prendendo le armi in mano se necessario. Ma se abbondanti sono le fonti antiche, molto meno lo sono i reperti archeologici: non esistono, insomma, vere e proprie tombe di “donne guerriere”, anche se un ritrovamento pone più problemi di quanti ne risolva. È di casa nostra: si tratta della tomba n. 53 rinvenuta nella necropoli di Oleggio (Novara), appartenente a una comunità locale di celti insubri qui stanziati tra il II secolo a.C. e la tarda età romana. Scavata negli anni Novanta del secolo scorso, è oggi conservata al Museo di Antichità di Torino. Il corredo contiene una panoplia di armi pressoché completa, costituita da una lunga spada in ferro a doppio taglio con fodero, lancia con punta a lama fogliata, umbone in ferro (lo scudo, in materiale deperibile, è andato ovviamente perduto) e coltellaccio13. Fin qui niente di strano: le armi appartenevano, con ogni probabilità, a un guerriero di rango molto elevato. Ma ciò che è eccezionale è il frammento di patera che emerge tra i resti di ceramiche bruciati sulla pira funebre insieme al defunto: esso reca infatti la scritta, in alfabeto insubre-leponzio e destrorsa, rikanas, ossia il femminile di rikos (rix), che non significa “sovrano” o “re” come lo intendiamo noi, ma – vista la particolare articolazione della società celtica in tanti gruppi sociali distinti – “capo della touta”, ovvero della tribù14. La donna qui sepolta – l’esame dei resti ossei ha confermato il sesso femminile della defunta – era dunque davvero il capo della sua gente e, come sembra suggerire il corredo, la guidava anche in battaglia? Non lo sapremo mai. La sua situazione è simile a quella di due donne che erano deposte nella tipica tomba vichinga a forma di nave riemersa a Oseberg, presso Tønsberg in Norvegia, nel 1904. La sepoltura, databile al IX secolo, possedeva un corredo presumibilmente molto ricco (purtroppo è stata depredata già in antico), con tracce di abiti in seta, e conteneva anche resti di animali (14 cavalli, un bue e 3 cani) sacrificati per l’occasione. Tombe di questo tipo erano riservate a capi o re, e di sesso maschile. Come mai vi siano state deposte due donne – le analisi hanno stabilito che una aveva un’età compresa fra i sessanta e i settant’anni, l’altra era sui venticinque/trenta – è cosa ancora ignota. C’è però chi reputa che questa sepoltura dimostri la necessità di rivedere le convinzioni comuni a proposito dei ruoli riservati ai sessi nella società vichinga15. Certo è che i germani, per quanto condividessero con i celti parte del substrato culturale, per quanto riguarda le donne in battaglia avevano una posizione molto più conservatrice. Rotari, ad esempio, condannava apertamente le donne che partecipassero a sedizioni o entrassero armate in una corte. Lo stesso vale per Liutprando: Ci è stato riferito che alcuni uomini perfidi e dotati di un’astuzia malvagia, non osando di per sé entrare a mano armata in un villaggio,


fecero radunare le loro donne, libere e serve, e le mandarono contro uomini che avevano una forza inferiore; quelle, presi gli uomini di quel luogo, inflissero loro con violenza ferite e altri mali, con maggior crudeltà di quanto facciano gli uomini. Poiché queste cose sono giunte a noi e quegli uomini più deboli hanno mosso un’accusa per quella violenza, abbiamo provveduto ad aggiungere a questo editto che se in futuro delle donne osano fare una cosa del genere, se restano ferite non possano chiedere risarcimento alcuno. L’autorità preposta prenda quelle donne e le faccia scotennare e frustare per i villaggi vicini; i mariti paghino i danni commessi. Per le donne che sovvertivano il loro ruolo, insomma, era prevista una punizione esemplare. Nonostante questo, il Medioevo pullula di eroine, resistenti, persino di guerriere. È appena il caso di ricordare l’esempio di Giovanna d’Arco (14121431), troppo noto per essere trattato anche in questa sede. Restando in Francia, prima di lei troviamo Geneviève, futura santa e patrona di Parigi, che nel 451 convinse gli abitanti della città – all’epoca si chiamava ancora Lutetia – a resistere all’assedio da parte degli unni di Attila. Lo fece osando pronunciare parole pesantissime come queste: «Che gli uomini fuggano, se vogliono e se non sono più capaci di battersi. Noi donne pregheremo Iddio così tanto che ascolterà le nostre suppliche». Fu ascoltata, l’assedio fu levato e Attila, deviando su Orléans, fu sconfitto ai Campi Catalaunici dal generale romano Ezio. Più tardi avrebbe salvato di nuovo i parigini, stravolti dalla carestia, risalendo la Senna alla ricerca di grano da panificare. Dopo la Pulzella d’Orléans troviamo Jeanne Fourquet – sulla cui figura storica molti ancora si interrogano –, che nel 1472 avrebbe respinto i borgognoni durante l’assedio di Beauvais condotto da Carlo il Temerario brandendo un’ascia, ragion per cui sarà detta Jeanne Hachette (“accetta”, appunto). Donne così si trovano non solo tra il popolo, ma anche nella high society. Sono feudatarie e tra i loro doveri c’è anche, in mancanza del marito, quello di reggere il potere con fermezza – pena la ribellione dei sottoposti – comandando, se necessario, persino gli eserciti. Lo fece Bianca di Castiglia (1188-1252), regina di Francia e madre di Luigi IX il Santo, la quale assediò vittoriosamente alcuni feudatari che avevano osato ribellarsi alla sua autorità approfittando della morte del re e della minorità dell’erede. Sempre in Francia un’altra reggente, Anna di Beaujeu, fu costretta a spedire un esercito contro i rivoltosi e li fece giustiziare. Polso di ferro anche per Matilde di Canossa (1046-1115), la “Grancontessa”, che oltre a governare città e castelli e fondare chiese e


monasteri, non esitò a comandare (“ferocissima contro i nemici”, la definisce il Petrarca) i suoi eserciti. Poste a cuscinetto tra domini imperiali e papali, le terre di Matilde attiravano gli appetiti dei due massimi poteri dell’Europa medievale, impegnati in un duro scontro che, dietro a un apparente formalismo, celava un’acre lotta per la supremazia. La guerra a colpi di deposizioni e scomuniche vide protagonista proprio Matilde che, grazie alle sue doti di mediatrice, ospitò nel suo castello di Canossa l’incontro decisivo tra i contendenti. L’imperatore si umiliò e chiese perdono al papa. E anche se la rappacificazione fu momentanea (la questione sarebbe stata risolta solo nel 1122, con un concordato che separò i due poteri), il dispiegarsi degli eventi mise in luce le qualità di Matilde, che dimostrò grande risolutezza. Amministrava la giustizia viaggiando nei suoi territori, incurante dei pericoli. Fronteggiò le ribellioni di Mantova, Ferrara, Modena, Bologna e Reggio contro il suo dominio feudale. Comandò il suo esercito contro i nemici. Lasciò un’impronta indelebile nelle sue terre costruendo fortezze, castelli e chiese. Le fonti la descrivono come il modello del principe laico ma cristiano, fedele alla Chiesa ma politicamente scaltro, mecenate nelle arti e riformatore in campo giuridico. Morì di gotta a sessantanove anni nel luglio del 1115, sul Po, a pochi chilometri dal prediletto monastero di San Benedetto, meritandosi le lodi del monaco Donizone, che la cantò con queste parole: Tutto quanto io posso di una donna sì grande cantare, lo sa la gente con me, è sempre meno di quant’ella meriterebbe: e sappiate che può essere solo ammirata. Ell’è luminosa quanto è fulgido l’astro di Diana: la fede l’illumina, la speranza l’avvolge in modo mirabile, ed abita in lei il dono maggiore, la carità.


Fuori dal coro Le donne potevano creare scompiglio nella società in tanti modi. Facendo le prostitute (e se ne parla nel capitolo dedicato alla sessualità). Ma anche, ad esempio, praticando la stregoneria (o presunta tale). Ma qui la legislazione ci sorprende: Rotari infatti considerava un «crimine nefando» tale accusa e obbligava il querelante a provarla pena la perdita del mundio o il pagamento di un’ingente multa. Al capitolo 197 del suo editto si legge infatti: Se qualcuno, detenendo il mundio su una fanciulla o una donna libera, la chiama strega, ossia masca, a meno che non sia il padre o il fratello come sopra, perda il suo mundio e lei abbia la facoltà, con i beni di sua proprietà, di tornare dai parenti o di commendarsi alla corte del re, che dovrà detenere il suo mundio. Se l’uomo nega di aver pronunciato tale accusa, gli sia lecito discolparsi e continuare a detenere il mundio come prima, se si discolpa.

L’accusa – con quella di prostituzione! – poteva essere mossa anche da parte di qualcuno che non ne deteneva il mundio. Il fatto era molto grave: se l’accusatore aveva parlato a cuor leggero e si pentiva, doveva giurare con dodici suoi sacramentali di aver mosso quella nefanda accusa spinto dall’ira, senza sapere ciò che diceva. Allora per queste vane parole di ingiuria, che non doveva pronunciare, paghi una composizione di 20 solidi e non venga più accusato indebitamente. Ma se insisteva sostenendo di poter provare le accuse? Si andava all’ordalia: «Se l’accusa viene provata, la donna sia condannata alla pena come si legge in questo editto; ma se chi ha mosso l’accusa non può provarla, sia obbligato a pagare il guidrigildo della donna secondo la sua nascita» (cap. 198). Più tardi sono noti e condannati (da Liutprando) casi di induzione alla prostituzione dovuti agli stessi mariti: Se qualcuno dice a sua moglie, dandole cattiva licenza: «Vai, giaci con quell’uomo», o dice a un uomo: «Vieni e congiungiti carnalmente con mia moglie», e tale azione malvagia viene compiuta, stabiliamo che la donna che ha commesso quest’azione e vi ha consentito sia messa a morte, mentre il marito paghi ai parenti di sua moglie una composizione come se fosse stata uccisa in un tumulto. Sempre il cattolicissimo e pruriginoso Liutprando interviene più volte su


questioni inerenti il sesso e la libertà (ovviamente illecita!) dei costumi. Multe sono previste per chi con malizia e arroganza osa pungere o picchiare una donna libera che se ne sta seduta per le sue necessità corporali o in qualche altro posto dove se ne stia nuda per una sua necessità (80 solidi) e per chi sottrae gli abiti a una dama mentre è intenta a fare il bagno, costringendola a mettere a nudo pubblicamente le sue vergogne: ci è stato riferito che un uomo perverso, mentre una donna si lavava nel fiume, le ha preso tutti gli abiti e lei è rimasta nuda e chi andava e veniva vedeva in modo peccaminoso la sua vergogna. Pertanto stabiliamo che chi ha commesso questa illecita impudenza paghi il suo guidrigildo, perché i parenti della donna potevano innescare una faida e provocare morti. Addirittura, ci sono donne che si sollazzano con giovincelli: È comparsa di questi tempi una perversa convinzione, assai vana, superstiziosa e avida, perché a noi e a tutti i nostri giudici pare un’unione illecita, e cioè che delle donne adulte, già in età matura, si uniscono con dei bambini piccoli sotto l’età legittima e dicono che sia il loro uomo, sebbene non sia in grado di congiungersi con loro. Pertanto provvediamo a stabilire che in futuro nessuna donna osi fare ciò prima che il ragazzo abbia compiuto il tredicesimo anno. Ma si trattava davvero di pedofilia o non, piuttosto, di una forma affettuosa di adozione? Che le donne amassero, secondo la visione misogina prevalente nel Medioevo (si veda sempre il capitolo sul sesso), darsi alla pazza gioia e fossero schiave della lussuria e del peccato è cosa fin troppo assodata. Né bastava, a spegnere i loro “bollenti spiriti”, incamminarsi verso il convento. Alcune giovani, ad esempio, accedevano al noviziato ma senza diventare monache. Essendo rimaste a metà strada tra la casa e il chiostro, se avevano rapporti con un uomo non potevano essere condannate perché non vincolate alla castità dall’aver preso i voti. Il buon Liutprando, però, non aveva dubbi: una volta entrate in convento non si poteva più uscire perché il noviziato, comunque, rappresentava un impegno con la Chiesa simile a quello che si contraeva con le nozze. A Benevento, poi, in pieno VIII secolo c’erano donne che non esitavano a darsi ai più perversi piaceri nascondendosi sotto il velo monastico ma senza entrare in convento. Cosa facevano di così terribile? Leggiamo ciò che prescrive il principe Arechi a proposito di queste donnette che, «morti i mariti, liberate dall’autorità maritale, godono sfrenatamente della libertà secondo il proprio


arbitrio»: esse, scrive, ricevono nel segreto della casa l’abito della santità, per non sopportare il vincolo delle nozze. Così, sotto il pretesto della religione, abbandonata ogni paura, conseguono senza freni tutto ciò che alletta il loro animo. E difatti inseguono i piaceri, ricercano i banchetti, tracannano bicchieri di vino, frequentano i bagni e, quanto più possono ottenere, tanto più fanno cattivo uso di quell’abito nella rilassatezza e nel lusso delle vesti. Dunque, quando compaiono in piazza si truccano il volto, si incipriano le mani, accendono il desiderio in modo da suscitare l’ardore in chi le vede; spesso desiderano anche osservare sfacciatamente uno di bell’aspetto ed essere osservate e, per dirla in breve, sciolgono i freni dell’animo verso ogni dissolutezza e desiderio. Pertanto, senza dubbio, una volta infiammate le esche di una vita lussuriosa, gli stimoli della carne le ardono a tal punto che sono soggetti di nascosto non a una sola, ma (cosa che è nefanda a dirsi) a molte prostituzioni. Naturalmente, se il ventre non si gonfia, non è facile a provarsi. Che fare, dunque, per contrastare «una simile peste abominevole»? Semplice: «Disponiamo che chiunque sia legato da parentela a una nubile o a una vedova che prende il velo e non entra in monastero paghi il suo guidrigildo al palazzo; il principe la faccia entrare in monastero con il guidrigildo e i suoi beni personali». Ed è esattamente ciò che accadde, nel X secolo, alla romana Marozia, che con sua madre Teodora, pur essendo analfabeta, esercitò usando la sua bellezza un potere enorme non solo sulla Città Eterna ma anche sull’intera Chiesa del tempo. Si sposò tre volte – con Alberico di Spoleto, Guido di Toscana e Ugo di Provenza –, fu concubina di un papa – Sergio III, suo cugino, dal quale ebbe un figlio che più tardi fece uccidere – e nel quadro delle lotte di fazione che insanguinavano Roma, fece imprigionare e forse eliminare un altro pontefice, Giovanni X. Marozia – che il vescovo Liutprando da Cremona definì senza mezzi termini «bella come una dea e focosa come una cagna» – riuscì a far eleggere sul soglio di Pietro addirittura suo figlio col nome di Giovanni XI. Tuttavia Alberico II, fratellastro del papa, si ribellò allo strapotere della madre facendola arrestare e rinchiudere in convento, dove morì intorno al 955.

L’infanzia negata? Quando non trasgredivano alle regole imposte dalla cultura dominante, le donne nel Medioevo erano – si è detto – mogli e madri. E la nascita e


l’allevamento dei figli costituiva uno dei loro compiti primari. Partorivano in camera, distese a letto e attorniate da altre donne tra cui levatrici il più delle volte di estrazione umile. Il battesimo del neonato avveniva, nei primi secoli del Medioevo, in occasione della Pentecoste o della Pasqua, ma col tempo si impose l’usanza di battezzarlo subito o al massimo nel giro di pochi giorni per paura che morisse in peccato originale, e quindi in odore di dannazione, e non potesse essere seppellito in terreno consacrato. L’allattamento proseguiva fino ai due anni circa e avveniva a cura della madre: solo le famiglie più benestanti potevano permettersi di ricorrere a una balia stipendiata. L’aspettativa di vita per un bambino, nel Medioevo come anche nell’età moderna, era abbastanza bassa. Le malattie erano tante e contagiose, le condizioni igieniche spesso precarie (si veda il capitolo sull’igiene e la farmacopea) e l’alimentazione il più delle volte troppo scarsa o inadeguata. Secondo una buona stima, si calcola che il 25% morisse entro l’anno di età, il 12,5% tra uno e quattro, e il 6% tra i cinque e i nove anni16. La maggior parte dei sopravvissuti, comunque, aveva di fronte una vita difficile in cui la gioventù durava pochissimo ed era, peraltro, una condizione poco o per nulla riconosciuta. I figli dei braccianti, dei contadini, degli artigiani iniziavano a lavorare prestissimo, appena potevano tenere in mano gli attrezzi, anche se per i lavori più pesanti si doveva naturalmente attendere che fossero in possesso delle caratteristiche fisiche idonee. Quelli dei ceti più elevati imparavano a combattere oppure finivano in convento. Le bambine erano educate sin dalla più tenera età a ricoprire il ruolo per loro stabilito nell’economia domestica: occupandosi dei fratellini, imparando a tessere e a svolgere le varie attività quotidiane. Si insegnava loro a essere prima di tutto mogli e madri. Le famiglie altolocate usavano, una volta combinate le nozze, mandare la futura sposa ancora bambina nella casa dei futuri suoceri in modo che si abituasse all’ambiente. Nei ceti inferiori era consuetudine invece mandarle a servizio da altre famiglie – anche se l’usanza riguardava entrambi i sessi – in modo che imparassero un mestiere, facessero esperienza e sgravassero la famiglia dagli oneri di mantenimento.

La piaga dell’abbandono Accadeva spesso, però, che la famiglia non potesse tenere il nuovo nato e se ne liberasse tramite la soppressione o l’abbandono. Perché? Per povertà, innanzitutto. Il problema che si presentava soprattutto per le bimbe era che, se


per i ceti umili erano meno resistenti dei maschi e non potevano svolgere lavori troppo pesanti, per quelli più abbienti dovevano essere dotate per andare in spose. Nobili e borghesi risolvevano il problema con la monacazione forzata, mentre i contadini ricorrevano all’abbandono oppure – ancora peggio – alla morte in culla: un’opzione che, per quanto a noi sembri giustamente raccapricciante, doveva all’epoca essere diffusa visto che la punizione prevista era abbastanza blanda, ossia il digiuno a pane e acqua per tre anni. Una penitenza, quindi, considerata accettabile pur di liberarsi di una bocca in più da sfamare. Ma i bimbi erano abbandonati anche per occultare le prove di un tradimento, di un rapporto illecito, di una violenza: insomma, per eliminare il frutto del peccato. In un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa, poi – ma non era così anche nei nostri masi chiusi fino a qualche decennio fa? –, i bambini nati con qualche imperfezione erano o nascosti oppure soppressi direttamente alla nascita. La superstizione era sempre in agguato. Deformità e malattie erano ritenute opera del demonio oppure la dimostrazione lampante di un concepimento avvenuto al di fuori dell’ambito lecito: durante il ciclo mestruale, nei momenti di penitenza, in un rapporto adulterino oppure praticando posizioni sessuali considerate – si veda il capitolo sulla sessualità – illecite e immorali. Non era nemmeno troppo infrequente la vendita dei bambini come schiavi, che però era punita anche con severità: in Spagna col rogo e in Sicilia col taglio del naso e a volte anche con la morte. All’inizio del X secolo una serie di decreti intervenne sull’argomento riprendendo parzialmente quanto già stabilito da Giustiniano nel Corpus iuris civilis. Furono stabilite pene più severe per l’infanticidio e per la morte accidentale del neonato o per soffocamento o per l’incuria da parte dei genitori. Si decise anche che i bambini abbandonati potevano essere allevati non più solo come liberi – questo prescriveva il Corpus – ma anche come schiavi da chi li avesse raccolti, mentre chi li aveva lasciati al loro destino non poteva riprenderli senza il loro consenso, a meno che non li riscattasse con una somma in denaro oppure rimpiazzandoli con un servo. Le misure, proposte dall’abate e cronista Reginone di Prüm (morto nel 915) nella raccolta di canoni De synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis, prevedevano anche un’esplicita esortazione rivolta alle madri affinché non sopprimessero gli infanti indesiderati, ma piuttosto li lasciassero davanti alle chiese. Ciò che premeva era soprattutto la salvezza delle loro anime: per questo i bambini erano immediatamente battezzati, e se venivano recuperati già morti il loro corpicino, nel dubbio, era seppellito in terreno sconsacrato. Tra i primi a decretare l’accoglienza e il mantenimento dei trovatelli da parte dello Stato fu Costantino, che stabilì anche che l’infanticidio fosse punito con la


pena capitale, mentre sempre nel IV secolo san Basilio, in Oriente, creò una sorta di città – la Basiliade appunto – dove si accoglievano malati, poveri bisognosi a vario titolo di assistenza, bambini abbandonati. C’erano brefotrofi e orfanotrofi: i primi ospitavano i neonati, i secondi infanti più grandi. In Occidente istituzioni di questo tipo si imposero più tardi. Forse il primo fu quello aperto a Milano dall’arciprete Dateo grazie a un lascito testamentario. Lo scrupolo era di tipo morale. Recita il documento, datato 22 febbraio 787: Le donne che hanno concepito in seguito a un adulterio, perché la faccenda non si sappia in giro, uccidono i propri figli appena nati e così li mandano all’inferno senza il lavacro battesimale. Questo avviene perché non trovano un luogo dove possano conservarli in vita, tenendo nascosta nel contempo l’impura colpa del loro adulterio; allora li gettano nelle cloache, nei letamai e nei fiumi. Pertanto io, Dateo, confermo attraverso queste disposizioni che sia istituito un brefotrofio per i bambini nella mia casa e voglio che questo brefotrofio sia posto giuridicamente sotto la potestà di Sant’Ambrogio, cioè del vescovo pro tempore17. Il buon prelato stabiliva inoltre che «si provveda a stipendiare regolarmente alcune nutrici che allattino i bambini e procurino loro la purificazione del battesimo. Finito il periodo dell’allattamento, i piccoli vi dimorino ininterrottamente per sette anni, ricevendovi adeguata educazione con tutti i mezzi necessari; lo stesso brefotrofio fornisca loro vitto, vestiti e calzari». Istituti di questo genere fiorirono lentamente un po’ ovunque, soprattutto seguendo il modello degli ospedali eretti in Francia nel XII secolo dai membri dell’Ordine di Santo Spirito – fondato da Guido di Montpellier – per accogliere orfani e trovatelli. Sempre a Milano, ad esempio, alla fine del Duecento l’Ospedale del Brolo ospitava ben 350 bambini, che venivano allattati da balie appositamente stipendiate dal comune, come informa meticolosamente il poeta meneghino Bonvesin della Riva (1240-1315 ca.) nel De magnalibus urbis Mediolani, in cui loda le molte eccellenze della sua città.


Trovatelli e oblati Ma va anche detto che purtroppo erano, tutto sommato, pochi i neonati e gli infanti che vi giungevano ancora vivi e che, una volta accettati, sopravvivevano tra le loro mura18: le condizioni igieniche erano scarse, la promiscuità tanta, le malattie diffusissime e l’alimentazione, spesso, inadeguata. Ma era sempre meglio che niente... La loro opera caritatevole fu riconosciuta da papa Innocenzo III, che decise a sua volta di creare a Roma un ospedale allo stesso scopo: il luogo scelto fu a ridosso del Tevere, dove nel 728 il re dei sassoni Ina aveva fatto costruire un edificio per ospitare i pellegrini della sua nazione venuti a pregare nella Città Eterna. L’idea era quella di mostrare una tangibile alternativa alle madri che si recavano sulle sponde del fiume per sbarazzarsi dei neonati che non potevano tenere. Per garantire l’anonimato, l’ospedale fu dotato di una rota (ruota) su imitazione di quelle in funzione a Marsiglia già dal 1188. Il meccanismo era semplice: sulla parete esterna un’apposita apertura permetteva di adagiare il neonato dentro una cassa di legno; azionando una leva, la “culla” ruotava su un asse verticale e veniva spostata all’interno dell’edificio col suo contenuto. Il suono di un campanello permetteva a chi stava di guardia di accorgersi del piccolo in arrivo e di provvedere immediatamente alla sua accoglienza. I trovatelli erano segnati, al momento dell’ingresso, su un registro: a Roma, dalla dicitura abbreviata «filius m[atris] ignotae», ossia “figlio di madre ignota”, sarebbe derivata la corrispondente – e un po’ volgare – espressione dialettale. Un altro importante ricovero per infanti era l’Ospedale degli Innocenti di Firenze, nato nel Quattrocento su progetto del grande architetto Filippo Brunelleschi per ampliare i precedenti (e ormai insufficienti) brefotrofi di Santa Maria a San Gallo e di Santa Maria della Scala, che accoglievano i “gettatelli”. Un modo sicuramente meno traumatico per salvare un bambino era quello dell’oblazione: si offriva, cioè, l’infante al monastero come “dono”. Egli riceveva un tetto, abiti, cibo e un’istruzione, il che apriva possibilità enormi anche a chi ne sarebbe stato, per estrazione sociale o per altri motivi, escluso: un caso famoso è quello di Beda, il futuro grande storico ed erudito dell’Anglia, che entrò a soli sette anni nel monastero dei Santi Pietro e Paolo a Wearmouth. In cambio però – come si impose col tempo – doveva prendere i voti: il Concilio di Toledo, nel 633, stabilì senza mezze parole che «sia la devozione dei genitori che la devozione personale possono fare un monaco; entrambe sono


vincolanti. Perciò rifiutiamo qualsiasi possibilità di tornare al mondo e ogni ripresa della vita secolare». La pena per chi rifiutava era la scomunica. La scelta dell’oblazione – per quanto fatta dai genitori per un bambino ancora inconsapevole – divenne dunque di fatto irreversibile, con buona pace di san Basilio e seguaci, che invece avevano ritenuto opportuno attendere il consenso degli interessati, espresso o negato una volta raggiunta l’età per farlo. Il fenomeno degli abbandoni, tuttavia, per quanto parzialmente arginato, non fu mai del tutto sconfitto. Ancora nel Trecento, Boccaccio – in una tiritera contro l’«esecrabil sesso femmineo» – lamentava la diffusione della triste abitudine: Quanti parti, malgrado loro venuti a bene, nelle braccia della fortuna si gittano! Riguardinsi gli spedali. Quanti ancora, prima che essi il materno latte abbino gustato, se n’uccidono! Quanti a’ boschi, quanti alle fiere se ne concedono e agli uccelli! Tanti e in sì fatte maniere ne periscono che, bene ogni cosa considerata, il minore peccato in loro è l’avere l’appetito della lussuria seguito19.

A mosca cieca... Svezzati rapidamente, mandati a lavorare presto, abituati a vivere in comunità numerose dove’erano insieme a tanti altri come loro, senza particolari attenzioni. Insomma, per i bambini del Medioevo di spazio per la spensieratezza, i giochi e gli svaghi dovette essercene tutto sommato ben poco. E, forse, è emblematico che nessuno o quasi si sia preoccupato di tramandare, mettendole per iscritto, le rime e le filastrocche che cantavano durante i loro giochi20. Parrebbe di poter concludere che il mondo dove vivevano fosse fatto di adulti per adulti, e che l’infanzia fosse vista come un accidente fastidioso da cui era opportuno liberarsi il più in fretta possibile. La stessa legislazione, oltretutto, considerava adulti (e quindi punibili per eventuali reati commessi) i ragazzi a quattordici anni, le ragazze a dodici, ossia quando entravano nella pubertà e potevano legittimamente sposarsi. Il che riduceva di molto il gap generazionale, visto che, se tutto andava secondo le regole, il primo figlio per una coppia arrivava quando ancora gli sposi erano adolescenti. Tutto questo, però, non significa che ai bambini non fosse per nulla riconosciuto uno status peculiare e appare ormai superata la visione, diffusa fino a qualche decennio fa, che voleva che nel Medioevo l’idea di infanzia non esistesse21. Ciò è evidente, ad esempio, dalla diffusione in tutti i ceti di giochi – più o meno semplici, più o meno ricchi – adatti ai più piccini. La maggior parte


di essi, essendo in materiale deperibile (legno, pezza, stoffa), sono andati perduti. Tuttavia i materiali ritrovati negli scavi archeologici permettono di asserire con certezza che, ad esempio, le bambole di terracotta erano note sin dai tempi dell’Antico Egitto. Nei primi secoli del Medioevo non era raro seppellire i bambini defunti con i loro corredi, gioielli e piccoli ninnoli: sono note, ad esempio, varie tombe longobarde in cui il morticino era deposto con le sue armi, mentre a Spilamberto (Modena) le tre sepolture di bimbe hanno restituito addirittura un ricco medaglione con cammeo, un corno potorio di vetro lavorato e un piccolo balsamario romano turchese che, probabilmente, era utilizzato come ninnolo. Ben testimoniate sono anche le armi giocattolo, che sembra conoscessero picchi di successo nei periodi travagliati dalle guerre: questa, per lo meno, l’ipotesi suggerita dal fatto che a Bergen, in Norvegia, il maggior numero di ritrovamenti di questo tipo – come il set di pugnali di legno riemersi a Bryggen, un quartiere della città, e oggi conservati nel locale museo – risale agli ultimi tre decenni del XII secolo, caratterizzato da forti conflitti22. Al Trecento risale invece il cavaliere di metallo emerso nei pressi del Tamigi, nei dintorni di Londra: era ricavato da uno stampo, quindi prodotto in serie. Nello stesso scavo sono stati trovati piatti, coppe, pentole in miniatura che con ogni probabilità erano adoperati dalle bambine per giocare alla piccola cuoca, proprio come oggi. Lo stesso a Esslingen, in Germania, insieme a un vero e proprio tesoro di giochi tardomedievali che comprendeva pupazzi di ceramica, cavallini e persino un sonaglio a forma di uccellino23. Altri ninnoli diffusi erano fischietti in terracotta, barchette di legno e trottole. Sono noti persino casi di altari in miniatura, destinati a familiarizzare evidentemente un futuro uomo di chiesa, con relativo corredo liturgico. Parecchie illustrazioni su codice mostrano infine gruppi di ragazzi intenti a giocare a mosca cieca, alle biglie, alla palla, mentre spingono un cerchio di legno con un legnetto o cavalcano un immaginario cavallo ricavato da un semplice bastone: insomma, gli stessi passatempi che impegnavano i nostri nonni.

Piccolo e indifeso? Qual era l’immagine del bambino nel Medioevo? Può sembrare strano, ma nella rappresentazione iconografica si distingueva ben poco dai grandi. Se esaminiamo miniature, affreschi e sculture – eccezion fatta per il Bambino in braccio alla Vergine –, gli infanti appaiono quasi sempre come degli adulti in


miniatura e ne condividono l’espressione rigida. Bisognerà attendere il tardo Medioevo e il Rinascimento perché i bimbi si riapproprino delle fattezze tipiche della loro età, adottando vestiti e atteggiamenti consoni al loro ruolo: il putto diventerà allora un’icona graziosa e leggiadra, di grande successo soprattutto negli ambienti di corte perché simbolo di un’innocenza assoluta, che affondava le sue radici più profonde nel mito. Ciò però non significa, come abbiamo già sottolineato, che l’infanzia non fosse percepita come un’età a sé e con proprie caratteristiche anche sul piano del vestiario e dell’abbigliamento. Durante la primissima infanzia, i neonati erano fasciati pressoché del tutto (viso escluso ovviamente) con bende di lino. Non appena iniziavano a gattonare ricevevano abiti simili a quelli indossati da tutto il resto della comunità, ma di taglia più piccola. Anche le scarpe avevano lo stesso aspetto di quelle per i grandi, fatte salve le dimensioni: per rendersene conto basta osservare, ad esempio, le molte (ben 2088!) suole ritrovate in ventisette siti archeologici scavati a Bergen, in Norvegia, che erano calzate da bambini fino ai dodici anni di età ed equivalevano, nella taglia odierna, ai numeri dal 14 al 3324. Dopo quest’età le differenze si annullavano: del resto era proprio la soglia dei dodici-quattordici anni a segnare l’ingresso – anche dal punto di vista giuridico, come si è accennato – nell’età adulta. Probabilmente non sapremo mai quale fosse la vera natura e l’intensità del rapporto tra genitori e figli in questi secoli ormai lontani. Appare superata la visione che voleva l’infanzia medievale paragonabile a un vero e proprio incubo, nel quale i bambini vivevano lasciati a se stessi, privi di attenzioni e di affetto: quasi che i genitori, in una più o meno conscia forma di autodifesa, rifiutassero di affezionarsi a loro per il timore di soffrire troppo vista la frequenza con cui morivano in tenera età. Leggiamo questa testimonianza del 1270 di una madre, una contadina ungherese, resa davanti agli inquisitori in occasione del processo di canonizzazione di Margherita d’Ungheria. Dormiva col figlio piccino per poterlo allattare più comodamente; al risveglio, lo trovò morto. Ecco la sua reazione: [...] e presi i suoi piedi fra le mie braccia e lo tirai dal letto e cominciai a piangere e a urlare a causa del bambino. Lo toccai, ma già non si muoveva più, giaceva come morto. Allora diventai molto triste e afflitta perché mio figlio era morto, così come l’altra mia figlia, e pregai la santa Margherita di far rivivere di nuovo mio figlio...25 Le madri, quando perdevano i figli, si disperavano eccome. Oggi come allora. Se è vero che in genere i bimbi erano percepiti come deboli e indifesi, la


letteratura ci tramanda esempi di infanti tutt’altro che remissivi e, anzi, piuttosto violenti. Egill Skalla-Grímsson, il protagonista dell’omonima saga islandese, a tre anni è grande il doppio rispetto ai suoi coetanei, ha una parlantina fuori dal comune e mette in difficoltà nei giochi non solo i suoi coetanei ma anche gli adolescenti. A sette anni, mentre gioca a palla accanto al fiume Hvítá, viene sconfitto dal dodicenne Grímr Heggsson e i due vengono alle mani. Egill ha la peggio e finisce a terra, deriso dai compagni. A questo punto, il suo amico e mentore Þórðr Granason gli dona un’ascia con la quale il ragazzino uccide Grímr per vendicarsi dell’offesa subita. Curiosamente, il comportamento non è stigmatizzato dai genitori, anzi la madre lo loda perché così facendo ha dimostrato a tutti di essere un vero vichingo. E il suo non è certo un caso isolato26.


La fine della vita E dopo le donne e i bambini, un rapido sguardo anche agli anziani, per rimarcare come, nel Medioevo, non vi fosse una chiara coscienza della loro situazione e delle loro esigenze. Le persone non più giovani, cioè, non erano percepite come una categoria “speciale”, perché di fatto continuavano a svolgere le loro attività – combattere, viaggiare, pregare, lavorare – finché avevano le forze per farlo. La vecchiaia vera e propria, quella che si manifesta dopo i settant’anni, era tutto sommato una condizione che pochi raggiungevano. Si invecchiava prima e si moriva prima per le malattie, il tenore di vita difficile, le carestie, le guerre. Chi arrivava a età venerande sopportava con cristiana rassegnazione gli acciacchi e si preparava più o meno serenamente alla morte. Conventi e monasteri accoglievano i più indigenti e malati nei loro ricoveri e li assistevano in attesa del fatidico passaggio alla vita eterna. Con tramonto del Medioevo e la nascita dell’Umanesimo, però, la percezione cambiò in maniera significativa. In un’età in cui bellezza fisica e vigore divennero – un po’ come oggi – dei totem ai quali, pur nella consapevolezza della loro estrema fugacità, molto doveva essere sacrificato, per la vecchiaia, manifestazione plastica di decadenza, fragilità e debolezza, non c’era più posto. Perché qualcuno si occupasse degli anziani con un’opera esclusiva e sistematica si sarebbe dovuto attendere il 1489, anno in cui sarebbe stata stampata la Gerontocomia del veronese Gabriele Zerbi. Ma il Rinascimento era già sbocciato.

1 G. Duby, Il cavaliere, la donna e il prete, Laterza, Bari-Roma 1982. 2 Ch. N.L. Brooker, Il matrimonio nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1992. 3 Paolo Diacono, Historia Gentis Langobardorum, VI, 22. 4 G. Duby, Il potere delle donne nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 105-133. 5 G. Duby, Il modello cortese, in Ch. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia delle donne. Il Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 312. 6 S. Fonay Wemple, Le donne tra la fine del V e la fine del X secolo, in Storia delle donne, cit., pp. 236239.


7 R.M. Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1987. 8 Mario Reda e Giuseppe Sacco, Anoressia e santità in santa Caterina da Siena, in «Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria», n. 26, Roma 1996, pp. 3-10. 9 Cassio Dione Cocceiano, Historia Romana, LXII, 2. 10 Plutarco, Vita di Mario, 19,7. 11 Ibidem, 27,2. 12 San Gerolamo, Epistulae, CXXIII, 8. Cfr. anche Valerio Massimo, Factorum et Dictorum Memorabilium, 6,1,3. 13 Le tombe e i loro corredi, in G. Spagnolo Garzoli (a cura di), Conubia gentium. La necropoli di Oleggio e la romanizzazione dei Veramocori, Omega Edizioni, Torino 1999, p. 112. 14 F.M. Gambari, Le iscrizioni vascolari della necropoli, in Conubia gentium, cit., pp. 388-389. 15 M. Moen, The Gendered Landscape: A Discussion on Gender, Status and Power in the Norwegian Viking Age Landscape, British Archaeological Reports Limited, 2011. 16 Per questi dati e altre informazioni, N. Orme, Medieval Children, New Haven & London, Yale UP 2001. 17 M.T. Fiorio, San Salvatore in xenodochio, in Le chiese di Milano, Electa, Milano 1985, p. 230. 18 J. Boswel, L’abbandono dei bambini, Rizzoli, Milano 1991. 19 A cura di P.G. Ricci, Classici Ricciardi-Einaudi, Einaudi, Torino 1977, pp. 31-32. 20 Alcune rime e filastrocche per bimbi sono state raccolte in N. Orme, Fleas, Flies, and Friars: Children’s Poetry from the Middle Ages, Cornell University Press, Ithaca, NY 2012, ma si tratta di documentazione databile dal Quattrocento in su. 21 Ph. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza 1981. 22 S. Samset Mygland, Behind fragments and shards: children in medieval Bergen, in «AmS-Skrifter» 23, Stavanger 2010, pp. 83-93. 23 J.A. Elders, Farmers, Friars, Millers, Tanners. A study of the development of a medieval suburb bases on recent excavations on the site of a Carmelite friary in the Obertorvorstadt, Esslingen am Neckar, Germany, tesi inedita di dottorato presso l’Università di Nottingham 1996, British Library; H. Schäfer, Das Karmeliterkloster in der Obertorvorstadt in Esslingen, in «Archäologische Ausgrabungen in BadenWürttemberg 1991, Stuttgart 1992; H. Schäfer, Befunde “Auf dem Kies”. Grabungen südlich des Karmeliterklosters in Esslingen, in «Archäologische Ausgrabungen in Baden-Württemberg» 1992, Stuttgart 1993. 24 S. Samset Mygland, op. cit. 25 Citato in C. Opitz, La vita quotidiana delle donne nel Tardo Medioevo, in Storia delle donne, cit., pp. 355-356, che fa anche altri esempi. 26 Si veda Á. Jakobsson, Troublesome children in the Sagas of Icelanders, in «Saga-Book», vol. XXVII, Viking Society for Northern Research, University College London 2003, pp. 5-24.


2 In camera da letto (e non solo)

Piacere: come oggi, anche nel Medioevo a questa parola si attribuiva un significato meramente carnale, legato strettamente al sesso. Una concezione parziale e limitativa, anche perchÊ oltre al godimento sessuale, esistevano le gioie procurate dagli altri sensi. Ricercati e apprezzati dai ricchi come dai poveri, i piaceri sensuali erano però condannati dalla Chiesa, che li riteneva un artificio escogitato dal demonio per allontanare gli uomini dalla salvezza e, viceversa, precipitarli nella dannazione.


I piaceri della vita Prendiamo il gusto. Il Medioevo conosceva e apprezzava il piacere di mangiare, anche se non tutti potevano permettersi lauti banchetti. Se nobili e sovrani potevano permettersi molte portate e piatti elaborati e belli da guardare per le loro forme e i colori insoliti, i più umili e i rustici attendevano generalmente le feste per godere di cibi e libagioni più abbondanti. La fame, del resto, era sempre in agguato: bastava una carestia, una siccità o viceversa un’inondazione per compromettere gli approvvigionamenti di intere regioni. Sembra di poter dire che gli uomini medievali, ogni qualvolta ci fosse disponibilità di cibo e bevande, non esitassero a ingozzarsi. Con buona pace degli eremiti e degli asceti, che si mortificavano nel digiuno, e dei frati, che predicavano – come il francescano Bertoldo di Ratisbona – la moderazione e stigmatizzavano (anche per motivi di salute) gli eccessi nel mangiare e nel bere. I banchetti erano visti dalla Chiesa con sospetto perché coinvolgevano, oltre al gusto, anche altri sensi: olfatto (per il profumo delle vivande), udito (sovente erano accompagnati da spettacoli musicali), vista (a tavola anche l’occhio esigeva la sua parte!). Non era raro, poi, che i banchetti, complice il bere smodato, terminassero tra i bagordi, anche sessuali, più sfrenati. Tra i piaceri della vita, oltre alla taverna (celebrata nei famosi Carmina Burana), un posto importante era occupato dalle attività fisiche: la caccia, soprattutto, ma anche i giochi all’aperto – come la palla, le giostre e i tornei –, i dadi e gli scacchi. Ma accanto al piacere del corpo esisteva quello dello spirito: il riconoscimento e la ricerca della bellezza, sia umana che naturale; e poi l’arte, la musica, la letteratura, il leggere e lo scrivere. La vita, dunque, per l’uomo medievale poteva nonostante tutto essere piacevole. In primis perché breve. «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non v’è certezza», scriveva Lorenzo de’ Medici. E non era il solo. Ma c’era anche chi, convinto che il poco tempo a disposizione dovesse essere utilizzato unicamente per cercare la salvezza, respingeva con decisione tutti i piaceri: il contemptus mundi, cioè il disprezzo del mondo, divenne una dottrina molto seguita soprattutto nei monasteri, e produsse trattati e poemi (celebre soprattutto quello composto alla fine del XII secolo da Lotario dei conti di Segni, futuro papa Innocenzo III) che elencavano le lusinghe terrene e i motivi per rifuggirle. La bellezza, la ricchezza, la giovinezza, gli onori, il potere: tutte chimere fallaci, destinate a svanire in


fretta, non senza prima aver trascinato l’uomo nella perdizione.

Amore o sesso? Un celeberrimo trattato del XII secolo, il De amore di Andrea Cappellano, vera e propria summa dell’erotismo insieme al Roman de la Rose di Jean de Meung (1270), dava dell’amore una lettura intellettuale. Secondo le sue teorie, l’amore nasceva dalla vista: l’occhio era lo “specchio del cuore”, e vedere e innamorarsi era tutt’uno. Dopo il “colpo di fulmine”, occorreva passare all’azione: prima dichiarandosi, poi conversando con la persona amata, infine ottenendo da essa il tanto agognato “premio d’amore”. Che di norma non era, però, l’atto sessuale, bensì una grande quantità di carezze e baci. Non che l’accoppiamento vero e proprio non potesse avvenire, naturalmente: anzi, i fabliaux, romanzi d’amore della Francia settentrionale, sono piuttosto espliciti. Ma il fin’amors, l’“amor cortese” teorizzato dagli autori provenzali, era soprattutto un gioco intellettuale riservato alle élite, ai nobili e ai cortigiani. I contadini erano ritenuti invece incapaci di provare il vero piacere: rozzi e incolti, seguivano in amore l’istinto, come gli animali. Fin qui la finzione letteraria. Ma com’era vissuto, l’amore, nella realtà? In modo molto più prosaico. I giovani facevano la corte alle fanciulle che piacevano di più, ma il matrimonio era spesso e volentieri un affare condotto dalle rispettive famiglie. A volte, allora, si passava al rapimento. Tradimenti e relazioni extraconiugali non erano infrequenti, come dimostra il numero – imponente – di figli illegittimi. Passando al sesso, demonizzato e condannato dalla Chiesa, che lo considerava una lusinga del diavolo, era comunque cercato e praticato. Non molto, in realtà, si sapeva dei meccanismi che regolavano il piacere fisico. La dissezione dei cadaveri a scopo conoscitivo fu praticata solo a partire dalla fine del Duecento: fino a quel momento, a far fede erano gli autori classici e qualche sporadico trattato medico, per la verità non troppo preciso. Sulla scorta delle teorie del greco Galeno (II secolo), più volte riprese e diffuse nel Medioevo, si riteneva che la donna dovesse provare piacere per concepire, perché il piacere permetteva al corpo femminile l’emissione di un “seme” simile a quello dell’uomo. Una concezione che fu in seguito respinta, e con enormi conseguenze: quando alla fine del XIII secolo Egidio Romano sostiene che la donna può essere fecondata anche senza che abbia raggiunto l’orgasmo si avvicina alla verità, ma scrive la parola fine sulla preoccupazione, per l’uomo, di provocare piacere alla compagna durante l’atto sessuale.


Per la Chiesa, naturalmente, la ricerca del piacere legata al sesso era un peccato da condannare senza appello. Come vedremo in dettaglio, il sesso, ammesso solo se finalizzato alla procreazione – e sempre nel legame coniugale –, era considerato peccato carnale. Se l’apostolo Paolo sosteneva che «è bene per l’uomo non toccare la donna: tuttavia per evitare la fornicazione, ogni uomo abbia la propria moglie, e ogni donna il proprio marito», san Bernardo ammoniva che «adultero è anche l’uomo che ama la moglie troppo appassionatamente». La continenza e la moderazione nei rapporti, dunque, erano sempre auspicati. Era vietato accoppiarsi durante le festività, la notte della domenica, durante la gravidanza e il periodo mestruale della donna: se lo si faceva, occorreva fare penitenza digiunando a pane e acqua per alcuni giorni. Solo dal Duecento il piacere legato al sesso iniziò un lento percorso verso una almeno parziale legittimazione. Condannati senza appello erano l’aborto e la contraccezione (espedienti conosciuti dalle donne e, in particolare, dalle levatrici), soprattutto per i ceti umili. Condannate anche le cosiddette “devianze”: omosessualità (sia maschile che femminile), rapporti carnali con gli animali, ma anche atti che, come il coito interrotto o le posizioni sessuali “anomale”, impedivano o mettevano a rischio la procreazione. Quanto all’autoerotismo, la posizione era ambivalente: se la Chiesa, sulla scorta dei testi biblici – che vietavano di disperdere il seme – generalmente lo condannava, un illustre teologo come Alberto Magno ammetteva, nell’adolescenza, che la masturbazione femminile potesse avere addirittura una funzione terapeutica. Comunque, se nell’alto Medioevo non era considerato un peccato grave, dal Duecento iniziò a essere ritenuto un vizio contro natura. Anche se l’autoerotismo femminile continuò a essere visto come meno grave rispetto a quello maschile.


Ma che peccato Dopo i bagordi, era tempo di pentirsi. Il senso del peccato, inculcato dalla Chiesa, ricordava all’uomo la fugacità del piacere e la necessità di rimediare con un’adeguata penitenza per sfuggire alla dannazione eterna. Del resto, legioni di commentatori di passi biblici, di teologi, di predicatori insistevano continuamente sul concetto di peccato originale. La storia biblica è nota: Eva, tentata dal serpente nell’Eden, spinge Adamo a cibarsi del frutto proibito (la mela) infrangendo così un preciso divieto di Dio. La colpa più grave, al di là dell’atto in sé, era l’aver voluto sfidare Dio e innalzarsi al suo stesso livello. Cacciati dal paradiso terrestre, Adamo ed Eva furono costretti a vagare sulla Terra, a lavorare per sopravvivere, ed Eva a partorire con dolore: giusta punizione per una colpa che non potrà mai essere redenta se non col battesimo e col pentimento, e che comunque non annulla le conseguenze del peccato originale. L’umanità, quindi, è condannata a soffrire. Ma non in eterno. Destinato a perire, fragile per natura e sottoposto a prove che mettono a repentaglio la sua stessa sopravvivenza, l’uomo viene inoltre tentato dal demonio a commettere ancora peccato, e a perpetuare la sua condanna fino alla fine dei tempi. I trabocchetti escogitati dal diavolo sono tanti, il rischio di cadere vittima delle sue lusinghe e preda dei vizi capitali è altissimo. Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia: come sfuggire alle tentazioni? Una via, praticata dai monaci, era quella della fuga dal mondo: ma anche qui il peccato era sempre in agguato e la lotta per sconfiggere il demonio sempre sovrumana. Oppure, si cercava una dura penitenza: dapprima da svolgersi pubblicamente, dal VI-VII secolo anche in forma privata, purché regolamentata nei minimi dettagli grazie ai Libri penitenziali. Confessarsi, poi, era d’obbligo: soprattutto a partire dal 1215, quando il Concilio laterano IV introdusse la prescrizione di farlo almeno una volta l’anno. Anche perché l’appuntamento con la morte poteva giungere inaspettato: meglio, allora, avere le carte in regola, fare testamento (inserendo un bel lascito alla Chiesa), o magari ritirarsi in convento. Ed evitare così il rischio di finire all’inferno: questo, infatti, il destino di chi pecca e non si pente.

Non desiderare il compagno di altri La Chiesa ha sempre e univocamente condannato il sesso al di fuori


sempre e univocamente condannato il sesso al di fuori del matrimonio. Ma questo “peccato”, antico come il mondo, continuava lo stesso a essere praticato. Cosa accadeva a chi veniva colto in flagrante? Dipende: se a fare la scappatella era un maschio, si poteva anche chiudere un occhio. Ma se a farlo era una femmina, la questione era decisamente problematica. In linea di massima, le donne erano rinchiuse in convento. Ma erano previste anche altre pene più o meno “spettacolari”, come la fustigazione pubblica, l’esposizione al pubblico ludibrio e la rasatura dei capelli fino al cranio. Il marito poteva poi decidere se ripudiare la moglie rinchiudendola in convento oppure riprenderla con sé. Le normative ecclesiastiche puntavano l’attenzione il più delle volte sulla donna come tentatrice e quindi le punizioni a lei riservate erano più pesanti. Tuttavia col tempo iniziò a farsi strada l’idea che, se la donna aveva peccato, anche l’uomo che aveva acconsentito al rapporto era altrettanto colpevole. Nella Francia meridionale, ad esempio, la fustigazione per adulterio era prevista per entrambi i fedifraghi. L’adulterio era comunque considerato un peccato “minore”, a meno che uno dei due non avesse commesso omicidio ai danni dello sposo (o della sposa) o dell’amante. In tal caso, se un uomo uccideva la moglie, veniva bandito e perdeva tutte le proprietà della consorte; non poteva più sposarsi se non dopo aver ottenuto una dispensa speciale. Ma era sempre stato così? Prima dell’imposizione del cristianesimo, i mariti avevano il diritto di


uccidere le mogli che li tradivano. Con la caduta dell’impero romano e la nascita dei regni romano-barbarici, a imporsi fu una visione nel complesso più “pragmatica”, nella quale in genere si privilegiava il risarcimento pecuniario alla pena capitale. Che però scattava nel caso l’accusa di adulterio fosse provata. Prendiamo le già più volte citate leggi longobarde, messe per iscritte (in latino) da re Rotari nel 643 e destinate al suo popolo, che viveva seguendo una normativa diversa dai sudditi italici, legati ancora al diritto romano: Se il promesso sposo dice della sua futura sposa che ella ha commesso adulterio dopo aver contratto gli sponsali con lei, sia lecito ai parenti discolparla con dodici loro sacramentali; e poi, dopo che è stata discolpata, il promesso sposo la prenda in moglie come era stato stabilito in precedenza nell’accordo. Ma se, dopo che è stata discolpata, trascura di prenderla in moglie, il promesso sposo sia condannato a pagare una meta del doppio del valore rispetto a quello che si era concordato il giorno in cui era stato firmato l’accordo. E se invece i parenti, come detto, non hanno potuto discolparla da quell’accusa, il promesso sposo si riprenda i beni che aveva dato e la colpevole subisca la pena dell’adulterio come è stabilito in questo editto (cap. 179). Pena che poteva essere anche capitale: «Se qualcuno accusa un altro di aver fornicato con sua moglie, sia lecito all’accusato di discolparsi o con un giuramento o mediante un campione; e se l’accusa viene provata, sia condannato a morte» (cap. 213). Questo, pare, era soprattutto il caso in cui l’adulterio veniva commesso in seno al matrimonio. Se l’accusa era rivolta invece a una fanciulla non maritata, la situazione che si creava era diversa. A complicare le cose, l’istituto del mundio, tipico del mondo germanico, che prevedeva la tutela del maschio sulla donna (e sulle altre categorie considerate non ancora emancipate come i minori finché non raggiungevano l’età per portare le armi). Prescrive ancora Rotari: Se qualcuno, detenendo il mundio su una fanciulla o una donna libera, a meno che non sia il padre o il fratello, muove contro di lei l’accusa di adulterio, perda il suo mundio e lei abbia la facoltà, con i beni di sua proprietà, di tornare dai parenti o di commendarsi alla corte del re, che dovrà detenere il suo mundio. Se l’uomo nega di aver pronunciato tale accusa, gli sia lecito discolparsi e, se può, continuare a detenere il mundio come prima (cap. 213). Cosa accadeva se la donna fornicava volontariamente? Dipende. Se era di condizione libera, i parenti abbiano facoltà di vendicarsi su di lei. Se per caso entrambe le parti decidono che colui che ha fornicato la prenda in moglie, egli paghi una composizione per la colpa, ossia per l’anagrift, di 20 solidi; se non si


accordano che egli la prenda in moglie, paghi una composizione di 100 solidi metà al re e metà a chi detiene il mundio su di lei. Se i parenti rifiutano o trascurano di vendicarsi su di lei, allora sia lecito al gastaldo del re o allo scudalscio consegnarla nelle mani del re e sentenziare nei suoi confronti ciò che al re piacerà (cap. 189). Se invece a farlo era una schiava di un longobardo, quest’ultimo era considerato “vittima” del seduttore, che avrebbe dovuto pagare «al suo padrone una composizione di 20 solidi; se lo fa con una serva di un romano, paghi una composizione di 12 solidi» (cap. 194). Il sesso fuori dal matrimonio, quindi, era considerato non tanto un “peccato” nel senso prescritto da Santa Romana Chiesa quanto un “affronto” all’onore del maschio, fosse egli marito o padrone (nel caso si trattasse di una schiava sedotta): come tale, quindi, era punito severamente con sanzioni di tipo economico. La donna subiva e basta. Anche nel caso di stupro. Chi lo commetteva tutt’al più perdeva il mundio sulla vittima, se lo deteneva; ma se riusciva a discolparsi dall’accusa, non andava incontro ad alcuna sanzione (cap. 195). Con l’avvento della società feudale, l’adulterio fu sempre più considerato come un “affare di famiglia”: la nobiltà, maggiore o minore che fosse – per non parlare dei sovrani – ci teneva ad assicurarsi una prole “certificata”. Ciononostante, i figli illegittimi (i cosiddetti “bastardi”) non solo erano molto frequenti, ma spesso assumevano ruoli di primaria importanza all’interno del casato, al punto che non furono pochi quelli che fecero della propria condizione addirittura un punto d’orgoglio, inserendo l’appellativo di “bastardo” tra quelli utilizzati per autoindicarsi in pubblico. Bastardi famosi e di successo, del resto, furono personaggi come Carlo Martello, vincitore di Poitiers nel 732 e primo consolidatore – pur maggiordomo di palazzo – del regno dei franchi, e Guglielmo il Conquistatore, che vincendo ad Hastings nel 1066 diede inizio alla conquista normanna dell’Inghilterra. Va inoltre sottolineato che esistevano corti, come quella famosissima – e già citata – di Eleonora di Aquitania, che teorizzavano – oltre naturalmente all’amor cortese e all’adorazione della “donna angelicata” da parte di trovatori e trovieri – anche l’amore “aperto” alle scappatelle extraconiugali, in linea con quanto contenuto nei fabliaux francesi, poemetti in versi composti dai goliardici clerici vagantes (“chierici vaganti”). Questi studenti che girovagavano per l’Europa in cerca di avventure, rimasti perlopiù anonimi, scrivevano con lo scopo di intrattenere gli ascoltatori. E – come nel Trecento faranno Boccaccio col


Decameron e Chaucer con I racconti di Canterbury, entrambi ricchi di episodi licenziosi – ci riuscivano perfettamente.

La negazione del piacere L’atteggiamento medievale nei confronti del sesso era piuttosto ambiguo. Se i teologi in genere lo condannavano, i medici lo consideravano un aspetto essenziale della vita nonché indispensabile per il mantenimento della salute: senza sesso, il corpo rischiava di accumulare un eccesso di umori (quella degli umori era la teoria predominante, si veda il capitolo sulla medicina) che poteva risultare dannoso per l’organismo. Sulla scorta dei testi classici, addirittura raccomandata poteva allora essere, in caso di impossibilità a praticarlo, la masturbazione. Non così, ovviamente, i teologi. La dispersione del seme era stigmatizzata con forza, e faceva testo la vicenda di Onan narrata nella Genesi (38:8-10): 8 Allora Giuda disse a Onan: “Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello”. 9 Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello. 10 Ciò che egli faceva non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui. L’unica dispersione del seme, per così dire, giustificata era quella che


avveniva involontariamente durante le polluzioni notturne: negli altri casi si trattava di vizio. Se sesso si doveva praticare, se non altro per adempiere al comandamento divino di moltiplicarsi, allora doveva essere senza piacere. Il meglio, in assoluto, era rimanere casti e puri. La verginità, sulla scorta dell’esempio di Maria che concepì senza peccato e rimase illibata anche dopo il parto, era considerata la dote più apprezzata soprattutto per le donne. Che però, anche se spose e madri, potevano sperare in una “riabilitazione” se trascorrevano l’ultima parte della vita in castità oppure – ancora meglio – se prendevano i voti. Il termine “riabilitazione” non è stato scelto a caso: la visione diffusa era che la donna, in quanto discendente di Eva, la prima peccatrice, fosse uno scrigno di vizi. Per comprenderne la portata misogina, basta leggere un famosissimo passo di Oddone, abate di Cluny (878 ca.-942), che recita testualmente: «Se gli uomini potessero vedere ciò che si cela sotto la pelle, la vista delle donne darebbe loro la nausea [...]. Come possono infatti desiderare di abbracciare un sacco di escrementi?». Il Medioevo, dunque, tendenzialmente vede la donna come tentatrice e foriera, per l’uomo, di perdizione. Per lei l’unica salvezza, o quasi, era data dalla castità, e se peccava poteva redimersi solo se accettava di vivere nella purezza dei costumi, magari terminando i suoi giorni in un convento. Le monacazioni erano fortemente incoraggiate dalla Chiesa e non solo per preoccupazioni di carattere spirituale, visto che all’ingresso nel chiostro i beni destinati dai parenti alla fanciulla per le nozze erano versati all’ente ecclesiatico come dote per il suo “matrimonio” mistico con Cristo. Entrando in convento la donna perdeva i caratteri demoniaci perché rinunciava al mondo e alle sue lusinghe per conquistare un tesoro molto più prezioso: la salvezza dell’anima. Inoltre, manteneva il fiore più prezioso agli occhi di Dio, la purezza, il che equivaleva per le vedove a riacquistare la verginità perduta. Verginità che veniva accertata – come testimonia ad esempio il De secretis mulierum (“I segreti delle donne”), attribuito erroneamente al teologo Alberto Magno (1206 ca.-1280) – in modi a volte empirici (ispezione delle urine, reazione a determinati cibi...) che oggi fanno decisamente sorridere.


Questione di posizioni La maggior parte dei teologi e dei predicatori aveva terrore del piacere in quanto foriero di perdizione, e quindi lo demonizzava. La Chiesa disciplinava il comportamento sessuale in maniera pressoché totalizzante, a cominciare dai periodi di astensione obbligatoria: le feste comandate, i momenti di penitenza come la Quaresima, i mesi in cui la donna era gravida o allattava, oppure quando aveva le mesturazioni, considerate impure sin dalla Bibbia. Regolamentate erano anche le posizioni dell’amore. Alberto Magno ne classificava cinque in ordine decrescente di liceità: missionario, fianco a fianco, seduti, in piedi, da dietro. L’unica naturale era la prima: le altre quattro erano moralmente discutibili ma, almeno nella sua visione, usarle non equivaleva a compiere un peccato mortale. Il giudizio generalizzato non era però così liberale. In pratica, nessuna al di fuori della classica posizione del missionario era consentita, e ciò perché si riteneva che questa fosse l’unica naturale e favorevole alla procreazione. Poiché a tale scopo e solo a quello – e non certo al godimento fine a se stesso, stigmatizzato come ogni forma di piacere corporale – era orientato il sesso, uscire dal seminato comportava necessariamente la ferma condanna da parte delle autorità ecclesiastiche. Demonizzate erano sia la posizione con la donna al di sopra dell’uomo, che oltretutto aveva la “pecca” di sovvertire i ruoli, sia la penetrazione a tergo, cioè da dietro, perché richiamava il coito tra bestie. Ovviamente, banditi erano anche il sesso anale e quello orale, in quanto entrambi non finalizzati alla procreazione. Queste ultime erano comuni anche tra omosessuali, e sull’omosessualità – più ancora che sulle trasgressioni etero, che comunque restavano nel campo di ciò che era ritenuto “naturale” – la posizione della Chiesa era di intransigenza assoluta. Sulla scorta di quanto affermato da san Paolo e sant’Agostino, papa Gregorio Magno (540 ca.-604) nel suo Commento morale a Giobbe27, ricordando l’episodio di Sodoma non esita ad affermare quanto fosse «giusto che i sodomiti, ardendo di desideri perversi originati dal fetore della carne, perissero a un tempo per mezzo del fuoco e dello zolfo, affinché dal giusto castigo si rendessero conto del male compiuto sotto la spinta di un desiderio perverso». Due tra le massime voci teologiche, Pier Damiani (1007-1072) e Tommaso d’Aquino (1225-1274), la bollavano come «atto contro natura», il primo sostenendo che «questo vizio non va affatto considerato come un vizio ordinario,


perché supera per gravità tutti gli altri vizi. Esso infatti, uccide il corpo, rovina l’anima, contamina la carne, estingue la luce dell’intelletto, caccia lo Spirito Santo dal tempio dell’anima»28; il secondo ribadendo come «nei peccati contro natura in cui viene violato l’ordine naturale, viene offeso Dio stesso in qualità di ordinatore della natura»29. E ancora, i due senesi santa Caterina30 (1347-1380) e san Bernardino (1380-1444) – si veda la sua Predica XXXIX – consideravano l’omosessualità il peccato più grave in assoluto dopo quello contro lo Spirito Santo. Molti allargavano il campo ben oltre il rapporto vero e proprio tra due individui dello stesso sesso, comprendendo altre pratiche come la masturbazione. In altre parole, qualsiasi atto che non fosse la naturale copula tra uomo e donna era considerato peccato mortale.

E non cadere in tentazione Quali erano le punizioni previste per gli amanti della trasgressione? Molte e non leggerissime. I già citati Libri penitenziali, pur distinguendo tra chierici e laici, elencavano nel dettaglio le penitenze a seconda dei peccati commessi. Inutile dire che quelli sessuali erano tra i più “tartassati”. Uno dei penitenziali più celebri è quello redatto, tra il 1008 e il 1012, da Burcardo vescovo di Worms, autore peraltro di un ponderoso Decreto che riuniva in sé tutta la legislazione canonica elaborata fino ai suoi tempi. Naturalmente, il cardine di tutto era la confessione: se non si confessava il peccato, non si riceveva alcuna punizione. Ma il peso sull’anima restava: ragion per cui ben pochi, considerando il terrore di essere colti da morte improvvisa – cosa tutt’altro che infrequente all’epoca – senza aver ricevuto l’assoluzione o l’estrema unzione, si


azzardavano a glissare sugli errori che avevano commesso. Cosa accadeva, dunque, a chi era caduto in tentazione? Andiamo con ordine. Burcardo considera l’incesto una colpa appena di poco inferiore all’omicidio, soprattutto se compiuto con la cognata, con la madre o con la sorella: la condanna è il celibato perpetuo e periodi di digiuno, ossia di astensione dai cibi che non siano pane e acqua, che variavano da tutta la vita a dieci anni. Gli altri tipi di incesto sono puniti di conseguenza, a seconda della gravità. Lo stesso vale per l’adulterio, condannato anche da altri penitenziali, così come tutte le “devianze” sessuali. Ecco qualche esempio: «Se uno ha commesso atti come l’omicidio o la sodomia, farà dieci anni di digiuno. Se un monaco ha fornicato solo una volta: tre anni di penitenza. Se l’ha fatto più frequentemente: sette anni di penitenza». «Per il peccato di masturbazione un anno di digiuno se il colpevole è ancora giovane». Interessante la prescrizione seguente: «Quando un chierico fornica con una donna senza metterla incinta e quando questo peccato è rimasto segreto, farà digiuno per tre anni se si tratta di un chierico degli ordini inferiori, per cinque se è un monaco o diacono, per sette se è prete, per dodici se è vescovo»: come dire, anche se il “fattaccio” era successo l’importante era che non si sapesse. Se l’adultero era un laico meno fortunato, ossia che aveva avuto un figlio dalla moglie di un altro, la penitenza prevista era «per tre anni, astenendosi dai cibi grassi e dall’uso del matrimonio, rendendo inoltre il prezzo del disonore al marito della moglie violata». E chi, pur essendo sposato, cedeva al “vizietto”? «Se un marito avrà fornicato in modo sodomitico faccia penitenza per sette anni, i primi tre nutrendosi di solo pane, acqua e sale, e legumi secchi; gli altri quattro si astenga dal vino e dalle carni. Così il suo peccato sarà perdonato e il confessore pregherà per lui e lo riammetterà alla comunione».


Frutti del peccato Colpe gravi erano considerate sia la contraccezione sia l’aborto. Partendo dal presupposto che – lo ricordiamo ancora una volta – il sesso all’infuori dalla procreazione era ritenuto peccaminoso, ogni pratica volta a impedire il concepimento era apertamente condannata dalla Chiesa e anche dalla morale pubblica. Ma nel privato, le più varie pratiche per evitare gravidanze indesiderate erano diffuse ampiamente lo stesso. I sistemi erano quelli già conosciuti sin dall’antichità, ossia il coito interrotto, ma anche il profilattico: si trattava di una rudimentale guaina ricavata dal budello o dagli intestini di animali, ed era più che altro indossata per evitare le malattie veneree. Quale tipo di protezione potesse offrire è tutt’altro che scontato da stabilire: veniva, infatti, riutilizzata più e più volte finché non si rompeva. Ma allora il guaio era già stato fatto. Per scongiurare il pericolo di restare incinte, le donne facevano anche largo uso di misture a base di miele, cui venivano aggiunti i più svariati ingredienti: inserite nella vagina, agivano – o almeno così si credeva – da spermicidi. Trotula, eccezionale esempio di donna medico vissuta a Salerno nell’XI secolo, nel suo trattato De passionibus mulierum ante in et post partum (“Sulle malattie delle donne prima e dopo il parto”) cita come anticoncezionale una pietra che chiama gagate. Queste pratiche erano considerate altamente peccaminose dalla Chiesa e quindi adeguatamente punite con digiuni. Lo stesso vale per l’aborto, sanzionato con astinenze che variavano dai trentasei ai dodici mesi, a seconda – ancora secondo Burcardo – che la vittima fosse un feto oppure un embrione «provvisto di anima». Una curiosità deriva dalla legislazione longobarda, che rimase in vigore ben oltre la caduta del regno nel 774: il capitolo 75 della già citata legge di Rotari prevede, per l’aborto causato involontariamente da terzi, che il colpevole rifonda per intero il valore stimato della donna se questa era libera, oltre alla metà di quello del bambino; se invece si trattava di una serva, la composizione pecuniaria prevista era di soli 3 solidi (cap. 333): appena tre volte tanto quello di una cavalla indotta all’aborto in seguito alle percosse.

Rettitudine e perversione Tornando al giudizio sul sesso, questa è la lista delle perversioni maschili


sesso, questa è la lista delle perversioni maschili secondo l’abate Oddone di Cluny: Hai posseduto tua moglie o altra donna more canino? Hai avuto rapporti sessuali durante le mestruazioni? Hai avuto rapporti con tua sorella o tua zia? Hai forse avuto rapporti omosessuali? Hai esercitato la sessualità con un maschio, mimando, come fanno alcuni, l’atto sessuale fra le sue cosce? Ti sei dato all’onanismo reciproco, fino all’appagamento sessuale? Hai forse ricercato la soddisfazione sessuale servendoti di una cavità lignea o altro? Hai avuto rapporti contro natura, unendoti a un maschio o addirittura con animali, quali cavalle, giovenche o asine? C’è un po’ di tutto: dalle posizioni peccaminose all’incesto, dall’omosessualità alla masturbazione, addirittura la dendrofilia e la zoofilia. E tutto viene ugualmente condannato. Stessa cosa vale per le donne: Ti sei forse comportata anche tu come alcune donne che si fanno oggetti e altri marchingegni a mo’ di membro virile? Li hai adattati alle tue o altrui intimità per provare piacere con altre donnacce o esserne da queste posseduta? Anche tu ti sei comportata come alcune donne che provano piacere da sole? Anche tu ti sei comportata come altre donne che, per soddisfare le loro pruriginose voglie, si uniscono fra loro per fare l’amore? Anche tu ti sei comportata come alcune donne che provano piacere sessuale ponendo il loro bambino sulle parti intime, quasi a mimare l’atto sessuale? Anche tu ti sei comportata come quelle donne che, stese sotto un animale, si servono di qualsiasi tecnica per avere con lo stesso un rapporto sessuale? È un documento molto interessante: al di là della scontata condanna di tutto ciò che usciva dal seminato, la reprimenda oddoniana fornisce nel contempo anche la documentazione circa le pratiche sessuali più diffuse (o supposte tali) all’epoca in cui scrive. Apprendiamo dunque che anche nel Medioevo continuavano a essere utilizzati falli posticci o oggetti simili, già conosciuti sin dall’antichità e diffusissimi nel mondo greco-romano (si legga ad esempio la


Lysistrata di Aristofane). C’è però una pratica, citata da Oddone, che supera tutte le altre per fantasia: Hai fatto quello che alcune donne hanno l’abitudine di fare, e cioè: prendono un pesce vivo e se lo introducono nel sesso fino a che esso non muoia, per poi cuocerlo e darlo da mangiare ai mariti? Hai bevuto del sangue o del seme di tuo marito, affinché lui ti ami di più? [...] Hai fatto quello che alcune donne hanno l’abitudine di fare, e cioè: si stendono bocconi a terra con le natiche scoperte e ordinano che si faccia il pane sui loro fianchi nudi; poi, cotto quel pane, lo danno da mangiare ai mariti, perché le amino di più? Soprattutto alle donne, ancora una volta, era attribuito il ruolo di implacabili seduttrici. Erano loro a fabbricare pozioni e afrodisiaci di ogni genere per attirare a sé gli amanti (o tener legati i mariti). Se la credulità popolare attribuiva loro una sicura efficacia magica, in realtà erano totalmente inutili allo scopo e potevano anzi risultare dannosi per la salute o tossici. Comunque sia, per la Chiesa le donne che adottavano o diffondevano tali pratiche andavano condannate senza appello. Da lì alle streghe, il passo sarebbe stato breve. Leggendo fra le righe, emerge infine quanto piuttosto diffusi fossero anche gli oggetti atti a procurare il piacere durante o in sostituzione del rapporto col partner. Anzi, pare che uno dei centri di maggiore produzione fosse l’Italia. Anche in questo caso, l’uso da parte delle donne di stimolatori o di veri e propri sostituti del membro virile era condannato dalla Chiesa, che prescriveva una penitenza “adeguata”: cinque anni a pane e acqua, da scontare durante le festività. Cosa fare allora se la tentazione si faceva pericolosa? Per Oddone era semplice resistere: bastava «schiacciarsi le parti inguinali con delle lamine di piombo, come facevano gli atleti antichi per evitare che le polluzioni notturne li privassero delle forze».


Puri a oltranza Oltre a quanto scrivevano i teologi e illustravano i predicatori – come il già citato Bernardino da Siena, da questo punto di vista uno dei più intransigenti in assoluto – c’erano anche sette che praticavano apertamente la castità e la continenza e condannavano qualsiasi aspetto della vita che avesse a che fare con la riproduzione, considerato il massimo peccato contro Dio. La più importante fu quella dei catari, o dei “boni christiani”, diffusasi a macchia d’olio nella seconda metà del XII secolo nel Sud della Francia e in Pianura Padana. Sullo sfondo stava la volontà di recupero di una rigida moralità dopo gli eccessi – simonia, scadimento dei costumi, ignoranza, concubinato – che avevano sconvolto il clero fino alla riforma gregoriana. La loro visione della vita era dualistica: da una parte il bene, dall’altra il male, col bene da identificarsi con lo spirito e il male con la carne. Per ottenere la perfezione, l’adepto doveva rinunciare dunque alla carne e distaccarsi dai piaceri terreni guadagnando così la perfetta conoscenza della verità. Banditi erano i contatti di natura sessuale e il consumo di qualsiasi cibo che avesse a che fare con la procreazione, cioè la carne, le uova, il formaggio, il latte. Banditi prima e sterminati poi, a inizio Duecento, con una vera e propria crociata – ma ne parleremo diffusamente nel capitolo dedicato alle eresie –, i catari erano però a ben guardare meno rigidi di quanto possa sembrare: in barba alla diffusa condanna dell’onanismo, non spregiavano del tutto quelle forme di erotismo che si concludevano con la dispersione del seme. L’importante, insomma, era che i rapporti non dessero frutti, e quindi non contribuissero all’ulteriore diffusione della specie.

Medioevo moralista? Leggendo quanto finora esposto, emerge il quadro di un Medioevo piuttosto bacchettone, moralista e nel complesso sessuofobo. Ma era davvero così? Premesso – e la precisazione è scontata ma necessaria – che non è possibile etichettare un periodo di mille anni come omogeneo nemmeno in queste cose, è evidente che l’approccio alla sessualità era molto più complesso. Basti pensare che Dante, nella Divina Commedia, pone com’è ovvio i lussuriosi impenitenti


(eterosessuali: i sodomiti sono più in basso!) all’inferno, ma nel secondo cerchio, subito dopo il limbo: ossia nel luogo di espiazione destinato al peccato capitale più lieve. In realtà, quello citato è un modello idealizzato diffuso più che altro dalla Chiesa e divenuto popolare soprattutto nell’Ottocento, figlio del Romanticismo prima e della moralità vittoriana poi. Le fonti più antiche sono molto più problematiche. Gildas, abate e storico scozzese vissuto nel VI secolo, nel suo De Excidio et conquestu Britanniae (“La conquista della Britannia”) descrive senza mezzi termini i cavalieri come sanguinari e violenti e attribuiva loro l’abitudine ai peggiori vizi, come l’adulterio, la fornicazione e addirittura la poligamia. La visione di Gildas risente naturalmente delle sue convinzioni morali e religiose. Ma a ben vedere, più che di immoralità si può parlare di sopravvivenza di una visione del mondo (e della sessualità) molto più antica e che affondava le sue radici nel paganesimo, prima cioè che facessero la loro comparsa i missionari cristiani. È proverbiale, ad esempio, come i costumi sessuali presso i celti non fossero particolarmente casti né morigerati. Lo stesso matrimonio era un contratto sociale e non avendo alcuna implicazione di carattere religioso poteva anche essere sciolto (o al contrario, rinnovato) senza problemi. In caso di morte del coniuge, sia la donna che l’uomo restavano in possesso della propria parte di dote, e potevano risposarsi. Il concubinaggio era ammesso e addirittura disciplinato da norme severe. Sembra però che le scappatelle extraconiugali da parte dei mariti (o le avventure amorose dei giovani maschi prima del matrimonio) avvenissero di preferenza con persone del loro stesso sesso. Lo storico greco Diodoro racconta con un certo imbarazzo quanto non solo gli amplessi omosessuali fossero diffusi e ricercati, ma anche come i celti si offendessero qualora le loro avances fossero respinte. La pratica dell’omosessualità maschile in società basate prevalentemente sulla guerra non deve comunque stupire, se si confronta con quanto avveniva nel mondo classico, soprattutto greco. Anche la nudità era tutt’altro che rara: è nota l’abitudine di certi guerrieri a combattere invasati e senza nulla o quasi addosso, ma anche le donne non erano da meno, se è vero che – si legge nel ciclo di leggende irlandesi riferite all’eroe Cú Chulainn – la regina dell’Ulster e le sue seicentodieci dame di corte si presentarono a lui nude dalla cintola in su e gli resero onore alzandosi la gonna e mostrandogli le pudenda.


Promiscui e felici Può sembrare strano e stupire, ma la promiscuità era in genere una condizione comune. Le case erano piccole, il riscaldamento non c’era: anche quando si andava a dormire, si tendeva a farlo insieme. Lo storico francese Jean Verdon ha raccolto una ricca casistica a proposito. I letti erano grandi. Quello del ricco mercante trecentesco Francesco Datini di Prato e di sua moglie Margherita era largo tre metri e mezzo: non sorprende dunque che potesse ospitare non soltanto marito e moglie, ma anche figli, amici, domestici e addirittura gli ospiti31. L’intimità, persino fra coniugi, era spesso un miraggio: solo alla fine del Medioevo diventerà una condizione ricercata. Nelle case dei ricchi, la stanza da letto si distingue così dalla sala da pranzo. Preziosa a questo proposito una testimonianza che riguarda le case popolari di Montaillou, in Francia, in cui la parte centrale è costituita dalla cucina, mentre le camere da letto erano attigue o al primo piano. Raymonde, figlia di Pierre Michel, descrive così la casa dove vive a Prades d’Aillon, un villaggio vicino. «C’erano, in un ambiente di casa nostra, due letti: uno nel quale dormivano mio padre e mia madre, l’altro destinato agli ospiti di passaggio». Questo ambiente è «attiguo alla cucina, con la quale comunicava con una porta. Io e i miei fratelli dormivamo in una camera che era a fianco alla cucina, che si trovava in mezzo».

Il giaciglio era isolato dal resto dell’ambiente da drappeggi e tessuti. Se in camera non c’era il fuoco, per scaldarsi si usavano le coperte, che per i più ricchi erano di pelliccia e molto ampie, come quella di Carlo V che misurava addirittura 8,36x4,64 m, per una superficie totale di 38,79 metri quadri. Anche perché in genere si dormiva nudi, soprattutto nei ceti inferiori. Col tempo, dormire nudi e insieme assume una connotazione sessuale, come svelano due aneddoti tratti da altrettanti romanzi cortesi. Nel primo, re Marco scopre Tristano e Isotta addormentati insieme; il sospetto del tradimento viene però allontanato nel momento in cui si accorge che la regina ha indosso la camicia e Tristano i calzoni. Nel secondo, Lancillotto – racconta Chrétien de Troyes nel roman scritto tra il 1171 e il 1181 – si trova a fronteggiare una situazione difficile: «Un letto è preparato nel mezzo della sala. Le lenzuola sono molto bianche, ampie e fini. Una coperta fatta di due stoffe di seta a fiori è stesa sul letto. E la damigella si corica, ma non si toglie la camicia». Lancillotto però vuole restare fedele alla


sua dama; allora «va anch’egli a coricarsi, ma senza togliersi la camicia come la sua compagna aveva fatto. Ha gran timore di toccarla». La fanciulla comprende e lo lascia stare, andando a coricarsi, nuda, in un’altra stanza. Evidentemente, la diffusione della camicia da notte, almeno nelle classi sociali elevate, ha dunque anche lo scopo di preservare nitore e castità. La nudità comunque doveva essere uno spettacolo tutt’altro che raro. Si andava, ad esempio, seminudi alle stufe o al bagno. E nudi, come detto, si dormiva abitualmente.


Donne di malaffare La prostituzione poi, com’è ovvio, esisteva anche nel Medioevo. In genere, essa era esercitata in quartieri o strade ben differenziate dal resto della città. L’isolamento e l’immediata riconoscibilità delle donne pubbliche era garantita anche dalle leggi suntuarie, che sin dall’età romana limitavano l’abbigliamento e gli ornamenti allo scopo di contenere il lusso: nel Duecento sono emanate dalle autorità cittadine con il duplice scopo di mantenere una certa austerità e, nel caso delle donne, di riconoscere facilmente le prostitute dalle signore “per bene”. Un distinguo che sarebbe diventato un vero e proprio marchio, visto che verso la fine del Medioevo, nel Quattrocento (ma sono documentati casi anche prima), alle prostitute era imposto di indossare un segno distintivo particolare, di solito un velo giallo. Il “mestiere” veniva esercitato anche nei tanti bagni, o stufe, che contrariamente a quanto si pensa erano diffusissimi e presenti in quasi tutte le città. Eredi dirette delle terme romane, le stufe avevano conosciuto grande popolarità dopo le invasioni dei barbari – che le avevano mutuate dal bagno a vapore amato dalle genti delle steppe, dalle quali importarono svariati usi e costumi – e in seguito ai contatti col mondo musulmano, che a sua volta li aveva “copiati” dai bizantini. A spingere le donne all’esercizio della professione più antica del mondo era spesso il bisogno: se una fanciulla non riusciva a trovare marito, vendere il proprio corpo costituiva un modo efficace (e sovente unico) per garantirsi i mezzi di sostentamento. La Chiesa ebbe un atteggiamento ambivalente nei confronti del “mestiere”. Se infatti il sesso era demonizzato, la sua presenza restava comunque – com’è ovvio – insopprimibile: la prostituzione poteva allora addirittura aiutare a tenerlo sotto controllo evitando il diffondersi incondizionato di pratiche “degenerate” come l’adulterio e l’omosessualità. Se non ci fosse la prostituzione, scriveva san Tommaso d’Aquino, la società intera sarebbe messa sottosopra dalla lussuria. Ma se le autorità ecclesiastiche tolleravano l’esercizio della prostituzione, quelle civili in certi casi addirittura lo favorivano speculandoci sopra: ad Avignone, ad esempio, esistevano bordelli pubblici creati per controllare il fenomeno, mentre nella libera città imperiale di Ulma, nel Baden-Württemberg, le strade venivano appositamente illuminate ogni volta che l’imperatore vi si recava per visitare le case di piacere.


Mode sconce Molti luoghi comuni, quindi, sembrano cadere a una più attenta rilettura delle fonti. Oltre al già citato atteggiamento “libertino” dei cavalieri altomedievali, come altro si può interpretare quanto afferma san Bonifacio (680-754) quando sostiene che in Britannia si preferisce la poligamia al matrimonio, con gli uomini che sprofondano nel vizio dell’adulterio e della fornicazione invece di prendersi una legittima sposa? Un manoscritto del già citato Roman de la Rose di Jean de Meung (BnF, fr. 25526) reca, al folio 163 verso, una miniatura che illustra due monache mentre raccolgono falli da un albero, e canzoni licenziose e sboccate (anche al limite del pornografico) erano diffuse e apprezzate tra il popolino ma non solo. Anche gli stessi teologi non erano tutti bacchettoni allo stesso modo. Come ha messo in luce ancora Verdon32, lo stesso Tommaso d’Aquino, la cui influenza su tutto il pensiero medievale (e non solo) è stata enorme, nel suo tentativo di armonizzare fede e ragione porta il giudizio sul piacere a conclusioni decisamente originali: siccome esso segue l’atto che lo ha generato, entrambi vanno giudicati con lo stesso parametro. E visto che i rapporti coniugali sono una cosa buona, anche il piacere a essi legato lo è. Anzi di più: Dio avrebbe aggiunto il piacere all’accoppiamento proprio per invitare l’uomo a compierlo e garantire così la sopravvivenza della specie! Sempre nel Duecento, il francescano inglese Richard Middleton arriva a difendere il piacere come fine in quanto esso non può essere malvagio in sé e per sé: se moderato dalla temperanza, diventa un fine accettabile per il matrimonio. Va detto però che le sue idee, proprio perché rivoluzionarie, «non ebbero alcuna eco per secoli». Bisognerà attendere il Quattrocento, e Martin Le Maistre, perché tornino a essere ascoltate. Che comunque la sessualità fosse nell’esperienza di tutti i giorni vissuta in maniera più naturale di quanto non risulterebbe dal quadro sopra delineato, parrebbe provato anche dalla stessa moda. Verso la fine del Medioevo, infatti, gli uomini amavano esaltare la loro virilità indossando piccole protesi di cuoio ripiene di stoffa in corrispondenza del fallo, che era reso ancora più evidente dall’abitudine di indossare calze aderenti e bluse strette ai fianchi. Un eloquente esempio, sebbene leggermente più tardo, è dato dal ritratto di Enrico VIII eseguito da Hans Holbein il giovane (1498-1543), che mostra il re in tutta la sua possanza mentre ne porta orgogliosamente uno. Diffuse erano anche speciali calzature


dalla forma a punta, che alludevano alla grandezza del pene: più lunga era, maggiormente dotato era l’uomo che la sfoggiava. Quanto poi alle celeberrime cinture di castità, simbolo popolare per eccellenza della sessuofobia medievale, occorre dire che la loro esistenza è assai controversa. La classica cintura di castità era di cuoio o di metallo e portava applicate, in maniera più o meno sofisticata, bande di metallo rivestite internamente di pelle a copertura dei genitali. Due piccole aperture in corrispondenza degli orifizi permettevano l’espletamento delle funzioni fisiologiche, mentre impedivano nella maniera più assoluta la penetrazione. È opinione comune che fossero state introdotte nel periodo delle crociate da parte dei cavalieri che si recavano in Terrasanta per combattere e pregare e che volevano assicurarsi la fedeltà delle mogli, evitando anche il rischio di ritrovarsi con prole illegittima. Ma la prima attestazione certa è solo del Quattrocento, per cui probabilmente si tratta di un’invenzione tarda rispetto ai cosiddetti “secoli bui”. Che quindi, di notte e sotto le lenzuola, erano assai più vivaci di quanto un cliché ormai vetusto e superato non voglia.

27 Gregorio Magno, Moralia in Iob, XIV, 23. 28 Liber Gomorrhanus, in Patrologia latina, vol. 145, coll. 159-190. 29 Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, II-II, q. 154, a. 12. 30 Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 124. 31 J. Verdon, Au lit: sans chemise sans pyjama, in «Historia», 656, 1 giugno 2001. 32 Id., Il piacere nel Medioevo, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 86.


3 L’abito fa il monaco Vestirsi nel Medioevo Esisteva, la moda, nel Medioevo? Se la intendiamo come un atto edonistico compulsivo, basato su criteri effimeri e mutevoli, almeno nei primi secoli certamente no. Gli abiti erano pochi, per lo più semplici e nemmeno troppo differenziati tra i sessi. Si tendeva a vestire sempre allo stesso modo, di solito a strati, con capi sovrapposti che potevano essere messi o tolti a seconda sia delle stagioni, sia delle esigenze sia della vita quotidiana. La moda, si può dire, nacque nel Duecento di pari passo con l’ascesa, in città, dei nuovi ceti “borghesi”: la maggiore disponibilità economica portò con sé un nuovo edonismo, la necessità di emergere e – perché no? – di farsi guardare e ammirare per quello che si era e si aveva. Il modello di riferimento era quello delle corti e della nobiltà, cui si tentava di assomigliare il più possibile ostentando sfarzi di stoffe, colori e sete preziose. Questo atteggiamento, insieme a molti eccessi nel trucco e negli ornamenti soprattutto da parte delle donne, spinse le autorità a promulgare, a partire dal Duecento, leggi di morigeratezza nel disperato (e spesso frustrato) tentativo di “blindare” la società mantenendo le differenze di ceto sociale, e si attirò gli strali dei moralisti e dei predicatori. Tutto questo,


però, non significa che l’Alto Medioevo non conoscesse il gusto per l’estetica o la cura del corpo. Il modo di portare capelli e barba, ad esempio, rivestiva una notevole importanza, così come per le donne erano decisivi cosmetici, ornamenti e gioielli. E mentre monaci ed eremiti sposavano Madonna Povertà rinunciando agli sfarzi e alle lusinghe del mondo, poeti e trovatori cantavano le bellezze della donna angelicata e di pari passo medici e trattatisti consigliavano metodi infallibili per conservare la carnagione chiara, infoltire i capelli, colorare le guance. Per tutto il Medioevo, comunque, l’abito – come si suol dire – faceva il monaco, ossia rispecchiava il ceto sociale di appartenenza e comunicava (anche grazie al colore dei panni) la professione di chi lo indossava. Così i chierici, i regnanti, i professionisti, i mercanti, i pellegrini, i borghesi, ma anche gli esclusi come gli ebrei, gli ammalati, i mendicanti, le prostitute... In ultimo, non si può non ricordare che era diffusa anche nel Medioevo l’abitudine, quando possibile, di travestirsi: un’usanza legata in genere al Carnevale (ma non solo) e che, in una società dove l’abito faceva il monaco, dava l’opportunità – una tantum – di “cambiare” ruolo. Di solito ci si limitava semplicemente a indossare gli abiti di sempre a rovescio, sovvertendo simbolicamente l’ordine, mentre è raro il caso in cui il


ricco si spogliava dei suoi preziosi panni per provare l’ebbrezza del contatto coi cenci dei poveri.

Sempre lo stesso vestito (o quasi) Ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio. L’abbigliamento di routine nei secoli dell’Alto Medioevo era caratterizzato dalla grande semplicità e strutturato in base al principio delle sovrapposizioni. Ci si vestiva, cioè, per strati, in tal modo garantendo la possibilità di difendersi dal freddo o dal caldo con la massima praticità. In genere si utilizzavano capi ereditati dal mondo antico, romano, bizantino o celto-germanico che fosse. Le tuniche, infatti, erano retaggio del mondo classico – più corte quelle romane, più lunghe le bizantine – mentre i calzoni (le bracae) erano di derivazione celtico-germanica ed erano state mutuate, forse, da vestimenti analoghi in uso presso le popolazioni delle steppe con cui, specie i germani, vennero a contatto. Questa, ad esempio, è la celeberrima descrizione dell’abbigliamento tipico dei longobardi secondo il loro maggiore storico, Paolo Diacono: Si scoprivano la fronte radendosi tutt’intorno fino alla nuca e i capelli erano divisi da una scriminatura in due bande che cadevano ai lati fino alla bocca. I loro vestiti erano piuttosto ampi, fatti per la più parte di lino, come sono soliti portarli gli anglosassoni, e ornati di balze più larghe e intessuti di vari colori. Portavano


inoltre calzari aperti fino alla punta del pollice e fermati da lacci di cuoio intrecciati. In seguito cominciarono a portare le uose, sulle quali, andando a cavallo, mettevano gambali rossastri di lana: usanza questa che avevano derivato dai romani [ossia dai bizantini, n.d.a.]. Oltre a essere un contemporaneo, aveva visto a Monza una serie di affreschi che la regina Teodolinda aveva fatto realizzare nel palazzo reale per ritrarre usi e costumi del suo popolo. Il ciclo, purtroppo, andò perduto già in antico ma la testimonianza di Diacono è confermata dall’iconografia che compare su monete, bassorilievi e anelli sigillo. Era tipico di popoli abituati a passare gran parte del tempo all’aperto, spesso in condizioni climatiche difficili, e quindi improntato alla comodità. Il capo “base” era la casacca di lino lunga fino al ginocchio, sormontata da un’altra casacca più corta con le maniche, la base e l’apertura lungo il collo decorate con passamanerie a motivi geometrici, spesso di colori vivaci e realizzate con la tessitura a tavolette. Tali bordure potevano essere, per personaggi particolarmente eminenti, anche in oro. Per proteggersi dal freddo, portavano gilet di pelle o pelliccia senza maniche, oppure ampi mantelli fermati da fibule. Le gambe erano coperte da brache di lino e fasce di tessuto avvolte intorno agli arti, oppure ghette in feltro o lana grezza, il tutto fermato da lacci di cuoio. Ai piedi gli arimanni (ossia i nobili) calzavano stivaletti di cuoio alti fino alle caviglie assicurati per mezzo di lacci e stringhe, mentre i meno abbienti si accontentavano di semplici zoccoli di legno o calzari bassi in cuoio, a volte aperti sul davanti lasciando scoperte le dita dei piedi. Appesa alla cintura, una bisaccia conteneva l’acciarino, la pietra focaia e funghi essiccati che fungevano da esca per accendere il fuoco. L’abbigliamento femminile aveva come base un’ampia tunica lunga alla caviglia, sormontata da una mantellina aperta sul davanti e fermata sul petto con l’ausilio di fibule di vari tipi e dimensioni: dalle classiche a S a quelle a disco, mutuate dall’uso bizantino e con vivaci decorazioni cloisonné, ossia smaltate. La vita era stretta da una cintura di cuoio alla quale erano appesi un pettine d’osso, un coltellino, le chiavi, una scarsella di cuoio che conteneva piccoli oggetti d’uso quotidiano e una o più fibule ad arco, veri e propri capolavori di oreficeria anche di grandi dimensioni. Gli ornamenti tipici, che variavano per foggia e lusso a seconda della ricchezza, erano orecchini, spilloni per capelli, bracciali e collane di pasta vitrea. La testa delle donne sposate era coperta da un velo di lino, mentre le nubili viaggiavano a capo scoperto e con i capelli lunghi: pare venissero ritualmente tagliati quando la giovane era data in sposa. Nel XII secolo iniziarono a comparire elementi decorativi a tinte vivaci –


maniche pendenti, calze a punta, strascichi – che allungavano la figura. Fino al Trecento si può dire che non vi fosse poi questa grande differenza tra abbigliamento maschile e femminile. Nella prima metà del secolo, però, si impose progressivamente in città e a corte la volontà di distinguere i due sessi in base alla forma degli abiti, che doveva seguire in maniera più verosimile quella del corpo: non più, quindi, sobrie tuniche rettangolari strette in vita da semplici cinture, ma casacche, farsetti, camicie sempre più aderenti e ammiccanti. Via libera, per le giovani e le donne della società medio-alta, a scollature strizzate in ampie gonne a pieghe che, strette appena sotto il seno da una fascia, esaltavano la morbida rotondità del ventre alludendo a un’onnipresente fertilità. Viceversa gli uomini esaltavano la prestanza fisica con farsetti aderenti sul petto e sulle spalle, corti alla cintola, e sotto indossavano brache attillate – quasi delle moderne calzamaglie – con coperture di cuoio a livello del pube, facendo maliziosamente intuire (magari aumentandoli ad arte con protesi di cuoio!) i “contorni” della loro virilità. Diffuse erano poi anche le calzature a punta, che alludevano alla grandezza del pene.


Il fascino del colore Trionfavano ormai sui vestiti non solo dei nobili ma anche della ricca borghesia stoffe preziose e coloratissime grazie all’abilità dei tintori, che andarono acquisendo col tempo sempre maggior perizia33. Ottenere colori brillanti e durevoli non era semplice e costava parecchio anche per via delle materie prime utilizzate. Il blu nelle sue vaste gamme, ad esempio, era ottenuto dal guado, una pianta di origine orientale (Isatis tintoria) la cui produzione fu estesa in Toscana, in Emilia e nell’area piemontese-lombarda. Le foglie, triturate in appositi mulini, erano poi essiccate e imballate. Prima di essere utilizzate – insieme ai fissanti in un bagno dove si immergevano i panni da tingere – dovevano subire una serie di trattamenti: più il colore che si desiderava era intenso, più il costo saliva. E lo stesso valeva per gli altri colori. Oltre a corrispondere a ideali di estetica e gusto, avevano una precisa funzione simbolica. Papa Innocenzo III al Concilio lateranense del 1215, per esempio, decretò nel canone 68 che ebrei e musulmani dovessero indossare vestiti o colori particolari in modo da renderli riconoscibili al resto della comunità «qualitate habitus» (per il tipo di abito). Agli ebrei fu imposto di portare ora un copricapo, ora un contrassegno giallo, considerato colore dell’infamia e del tradimento: il più delle volte si trattava di un cerchio, mentre la tristemente famosa stella di questo colore fece la sua comparsa per la prima volta a Verona nel 1433. Il giallo era in certi casi obbligatorio anche per le prostitute, che in questo modo – oltre che per la libertà di truccarsi e abbigliarsi a piacimento – erano distinte dal resto delle donne “rispettabili”. Altri contrassegni erano cuciti anche sulle vesti di certe categorie di malati considerate altamente contagiose come i lebbrosi, i quali peraltro vivevano segregati ai margini delle città. Per questo il giallo non era molto amato. I colori più diffusi erano il rosso, il verde e, dal Duecento in poi, il blu: quest’ultimo, fino ad allora visto come tinta eminentemente barbarica, dal XIII secolo in poi si impose di pari passo con il culto mariano (la Madonna aveva il manto azzurro) e divenne sinonimo di regalità e nobiltà in concorrenza col classico rosso scarlatto (termine che in origine significava semplicemente puro e si applicava a tutti i colori, ma poi si è imposto come sinonimo del rosso per antonomasia). Il nero invece – in genere associato al lutto – dal Duecento in poi si affermò sempre più come colore di prestigio e distintivo per alcune professioni come i giudici, i notai, gli uomini di legge. A Venezia era il colore


della nobiltà, dei medici e degli avvocati, ma anche dei paramenti delle feste. Quanto ai materiali, se il cuoio era sempre stato diffuso in tutti i ceti per calzature e accessori sin dall’Alto Medioevo perché pratico, facilmente reperibile e a buon mercato, le pelli – soprattutto quelle da rivestimento e da guarnizione come martora, zibellino, scoiattolo e vaio – erano riservate solo ai più facoltosi. Le classi più povere, per coprirsi, si arrangiavano con pelli più modeste ricavate da animali domestici o cacciagione come agnelli e capretti, conigli, faine, volpi e persino gatti. Il materiale più diffuso era la lana – protettivo d’inverno e isolante d’estate – seguito dal lino e da altre fibre naturali come il fustagno, ricavato dal cotone. Con la ripresa dei commerci e dei contatti con l’Oriente, però, per i benestanti divenne un “must” la seta: nel Tre e Quattrocento, le scarpe e le borse più “in” erano di questo materiale così come gli abiti. Tutto ciò, naturalmente, in barba ai disperati tentativi da parte delle autorità cittadine o dei sovrani, con leggi limitative sempre più inascoltate, di mantenere ben chiare le distinzioni sociali.

Primo, non esagerare Nel Duecento infatti fecero la prima comparsa le cosiddette “leggi suntuarie”, promulgate dalle autorità cittadine – spesso su spinta della Chiesa – per limitare gli eccessi più vistosi. Se a Reggio Emilia nel 1242 era fatto obbligo ai ricchi di avere almeno un abito a colori «pro honore et utilitate comunis Regii», ossia per garantire il prestigio del comune, gli statuti di Bologna proibivano invece di portare, sia in casa che fuori, orecchini di perle e pendenti, veri o falsi – una delle prime attestazioni d’esistenza della bigiotteria? – mentre quelli di Modena34 (1327) di indossare strascichi. Sempre a Bologna c’erano persino ufficiali incaricati di procedere ai controlli, che la domenica si fermavano davanti alle chiese per cogliere in flagrante donne e uomini che approfittavano della Messa per sfoggiare le mise più sontuose: Fermavano le persone, leggevano loro la lista delle proibizioni, tanto per rinfrescare le idee a chi ignorava o fingeva di ignorare le restrizioni, per poi chiedere se avevano qualcosa o qualcuno da denunciare. Una domenica di maggio dell’anno 1300 nei pressi della chiesa bolognese di San Francesco vennero escussi alcuni testi che, interrogati circa il rispetto delle norme suntuarie richiamate alla loro memoria con una lettura dei capitoli, dissero regolarmente tutti di non sapere niente: «Testis iuratus dicere veritatem [...] ante dictam ecclesiam examminatus super


dicta inquisitione sibi lecta, dixit se inde nichil scire». Di domenica in domenica da maggio a ottobre vennero reiterate le interrogazioni di decine di persone, sempre uomini, e tutti dissero di non sapere assolutamente niente. Sicuramente le trasgressioni c’erano, ma sembra di capire che non ci fosse un grande interesse a denunciarle. Forse le cose cambiarono un po’ quando si stabilì di destinare una quota della multa a chi denunciava35. Alle prescrizioni non sfuggivano nemmeno i morti: ancora a Bologna, ad esempio, nel 1376 si vietò di vestire i defunti di rosso scarlatto o comunque di abiti che valessero più di 30 soldi. Non tutte le leggi suntuarie, però, erano restrittive. Quelle milanesi, emanate in due riprese a cent’anni di distanza (1396 e 1498), erano invero piuttosto blande e il motivo va ricercato nel fatto che, una volta ottemperato l’obbligo di salvaguardare almeno sulla carta la moralità pubblica, le autorità meneghine non avevano alcuna intenzione di limitare un settore – quello della produzione e del commercio di abiti e accessori – che era tra i più vitali dell’economia cittadina36. Naturalmente, l’abbigliamento ricercato, lussuoso e “licenzioso” non lasciava indifferenti i moralisti e gli ecclesiastici, che lanciavano strali contro questa moda “indecente” dai loro pulpiti. Il celebre predicatore Bernardino da Siena, ad esempio, si scagliava contro le bizzarre forme delle acconciature quattrocentesche tuonando: «Le donne han più capi del diavolo, e chi lo ha a trippa, chi a frittella, chi a grappoli, chi l’avviluppa in su, chi lo ha in giù; chi ha il capo a civetta, chi a balla, chi a merli e torri»37. Ed è famosa l’invettiva lanciata da Dante, nel Purgatorio (canto XXIII, vv. 101-102), contro le «sfacciate donne fiorentine» che andavano «mostrando con le poppe il petto». Nelle campagne, invece, l’abbigliamento di chi lavorava nei campi o viveva di occupazioni manuali continuava a restare praticamente lo stesso, ossia completo di tunica corta e pantaloni sormontati da un grembiule tuttofare, di colore naturale o grigio: semplice non solo in quanto più economico ma anche perché, almeno in alcune zone d’Europa, così sancivano le leggi. Vale la pena comunque ricordare che la stragrande maggioranza dei dati in nostro possesso sull’abbigliamento medievale sono desunti dall’iconografia e da altra documentazione indiretta, come inventari, cronache, testamenti (il più delle volte risalenti oltretutto ai secoli più tardi): a causa della fragilità e della deperibilità dei materiali, i casi di vesti conservate più o meno parzialmente sono molto rari. È chiaro quindi che, almeno nel caso delle rappresentazioni pittoriche (ma anche delle miniature e delle sculture) occorre considerarle con cautela in quanto la loro funzione non era tanto quella di ritrarre dal vero, ma di veicolare


un concetto, un simbolo, un’idea. Un discorso a parte merita invece l’area scandinava, dove condizioni particolari hanno consentito la conservazione di un certo numero di abiti quasi intatti. A Herjolfsnes, in Groenlandia, scavi archeologici in un cimitero hanno riportato alla luce quindici vesti, diciassette cappucci, copricapi e calze databili tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento. Le vesti erano costituite da lunghe tuniche in lana, che si infilavano dalla testa (le più antiche) o grazie a un’apertura sul petto (le più recenti), mentre i cappucci erano a cono (struthätta) e presentavano uno scapolare a copertura delle spalle. Ritrovamenti fortunati e simili a questi sono emersi anche nelle torbiere danesi (a Kragelund e Moeslund), mentre la palude norvegese di Boskstens ha restituito un abito completo del Trecento composto da cappuccio, mantello, tunica, calze e scarpe38. Dati che non sono in contraddizione con quanto emerso e ricostruito per il resto del continente.


Se bella vuoi apparire Oltre all’abito, altri fattori concorrevano – come oggi – a determinare l’aspetto dell’uomo e della donna medievale. L’utilizzo dei cosmetici era ben conosciuto sin dalla più remota antichità e anzi era connesso – insieme ad altre pratiche come il tatuaggio, il “piercing”, la scarnificazione eccetera – alla sfera del sacro e della magia. Le popolazioni delle steppe, ad esempio, si tatuavano a scopo magico-religioso, mentre i celti usavano pettinare all’indietro i capelli e imbiancarli con la biacca per acquisire un aspetto irsuto in grado di atterrire i nemici. Le donne egiziane, ma anche le assire, le greche, le persiane e le romane utilizzavano regolarmente belletti e profumi per apparire più piacenti. L’uso, naturalmente, passò anche al Medioevo, sebbene mitigato dalla Chiesa che – basti leggere il De cultu feminarum di Tertulliano – non vedeva di buon occhio la pratica di truccarsi in quanto indice di vanità e foriera di lussuria e di peccato. Chi usava i cosmetici erano soprattutto le prostitute: le donne di impeccabili costumi invece dovevano apparire, per salvarsi l’anima, il più naturali possibile. Tanto più che unguenti e profumi provenivano il più delle volte dall’Oriente ed erano molto costosi. Ma questi dettami erano rispettati? Niente affatto. Intanto, almeno nelle corti e nelle città, si cercava di avvicinarsi il più possibile all’immagine della bellezza ideale divenuta popolare in seguito al dilagare dei poemi cortesi: la donna angelicata, con i capelli lunghissimi e biondi, il volto pallido come la porcellana, gli occhi grandi e chiari, le gote e le labbra vermiglie. Ecco come la donnamedico salernitana Trotula suggeriva di operare per rendere rosse le guance: Si prendano radici di brionia rossa e bianca, le si lavino, e tritino finemente e le si mettano a essiccare. Di poi le si riducano in polvere e si mescolino ad acqua di rose, e con un panno di cotone o di lino molto sottile, si unga il viso che acquisirà un certo rossore. Per la donna che mostra un colorito bianco naturale, le si dona un colorito rosaceo se le occorre rossore, così che con un tipo di pallore finto o mascherato il colorito rosso appaia come se fosse naturale. I capelli erano imbionditi con varie tecniche, tra cui una tintura ottenuta con la corteccia di sambuco, fiori di ginestra, zafferano e tuorlo d’uovo oppure con ceneri di api mischiate a olio e latte di capra. Tuttavia, e Trotula lo sapeva bene, soprattutto dalle sue parti le donne


avevano tendenzialmente un aspetto assai lontano da quello delle cortigiane normanne. Perché, allora, non valorizzarne i tratti più spiccatamente mediterranei? Ecco dunque gli ingredienti del loro fascino: Le donne di Salerno pongono una radice di vitalba nel miele e poi con questo miele si ungono il viso, che assume uno splendido colore rosato. Altre volte per truccarsi il viso e le labbra ricorrono a miele raffinato, a cui aggiungono vitalba, cetriolo e un po’ di acqua di rose. Fa’ bollire tutti questi ingredienti fino a consumarne la metà e con l’unguento ottenuto ungi le labbra durante la notte, lavandole poi al mattino con acqua calda. Questo rassoda la pelle delle labbra e la rende sottile e morbidissima, preservandola da qualsiasi screpolatura, se essa è già screpolata, la guarisce. Se poi una donna vorrà truccarsi le labbra, le strofini con corteccia di radici di noce, coprendosi i denti e le gengive con del cotone; poi lo intinga in un colore artificiale e con esso si unga le labbra e l’interno delle gengive. Il colore artificiale va preparato così: prendi quell’alga con cui i saraceni tingono le pelli di verde, falla bollire in un vaso d’argilla nuovo con del bianco d’uovo finché sarà ridotta a un terzo, poi colala e aggiungi prezzemolo tagliato a pezzetti, fa’ bollire di nuovo e lascia di nuovo raffreddare. Quando sarà il momento, aggiungi polvere di allume, mettilo in un’anfora d’oro o di vetro e conservalo per l’uso. Questo è dunque il modo in cui si truccano il viso le donne saracene: quando l’unguento si è asciugato, per schiarire il viso vi applicano qualcuna delle sostanze suddette, come l’unguento di cera e olio, o qualcos’altro, e ne risulta un bellissimo colore, misto di bianco e rosato. Il colore scuro dei capelli, infine, poteva essere reso più brillante grazie a un unguento a base di teste e code di lucertola verde bollite nell’olio.

Il trucco c’è e si vede Il trucco, comunque, non sempre aveva l’effetto sperato. Il rischio era di circolare con veri e propri mascheroni che alteravano le fattezze. I capelli erano portati raccolti in trecce, la cui lunghezza era talmente importante da spingere le più facoltose a ricorrere addirittura alle extension senza nemmeno troppo badare al fatto che le ciocche provenissero, a volte, dalla testa di persone appena morte39. Persino i veli da donna, che in teoria sarebbero dovuti servire a nascondere castamente il capo, in realtà erano utilizzati come ornamento per esaltare i lineamenti del volto e per sfoggiare colori e stoffe preziose. Tutto ciò


ovviamente scatenava l’ira dei predicatori, dei moralisti e di alcuni letterati come Dante, che rimpiangendo la morigeratezza della Firenze antica, apprezzava la pudica modestia della moglie di Bellincion Berti, che incedeva dietro lui «sanza ’l viso dipinto» (Paradiso, canto XV, 114). Il francescano Jacopone da Todi (1233-1306) scrisse addirittura un’intera Lauda (la VIII), intitolata De l’ornamento delle donne dannoso, paragonando le femmine che contraffanno il loro aspetto usando belletti e tinture addirittura al basilisco, la mitica creatura che si riteneva potesse uccidere col solo sguardo. Sotto accusa c’erano anche i tacchi, presenti nelle cosiddette “pianelle”, che di piano avevano solo il nome perché potevano essere alte fino a mezzo metro (!). Aumentando “sconsideratamente” la statura, venivano accusate dai predicatori – in primis il solito Bernardino da Siena – di alterare le proporzioni del corpo, mettere eccessivamente in mostra la donna che le indossava, sprecare tessuto per gli abiti (che dovevano essere notevolmente più lunghi) e infine causare pericolose cadute. C’era anche, però, chi negava ogni ostentazione di sfarzo e ricchezza e anzi faceva dell’aspetto trasandato e malvestito la cifra più autentica del proprio essere. Si trattava, ovviamente, di chi – come i monaci – aveva rinunciato alle lusinghe del mondo prendendo i voti (tra cui quello di povertà), oppure degli eremiti. L’abito monastico era costituito per tutti da un saio lungo alla caviglia, stretto in vita da una cintura di corda e corredato da mantello con cappuccio. A cambiare era solo il colore, che serviva a definire l’ordine di appartenenza: nero per i benedettini, bianco per i cistercensi, marrone naturale per i francescani, bianco e nero per i domenicani. Ben diverso, invece, l’abbigliamento dei membri del clero e degli alti prelati, che anzi nella ricchezza e nello sfarzo dell’abito esaltavano non già la loro persona ma... la gloria divina.

Questione di... pelo Ma adesso parliamo di capelli. Il modo di portarli variava in maniera consistente a seconda dei luoghi, ma anche nel tempo. Le genti germaniche, ad esempio, avevano il culto delle chiome lunghe e fluenti, e i ritrovamenti, perfettamente conservati, di individui sacrificati nelle torbiere mostrano capelli sorprendentemente folti e morbidi. Se per le donne erano sinonimo di bellezza e fertilità, per gli uomini erano indice di virilità, forza e soprattutto (lo conferma lo storico latino Tacito) libertà: i servi e gli schiavi, infatti, avevano i capelli corti. E anche nell’antica Irlanda la lunghezza dei capelli maschili era proporzionale al


loro valore guerriero. Il colore serviva a ribadire il concetto: se biondo, si trattava di un individuo nobile e rimandava direttamente alla regalità. Le chiome, essendo connesse allo status del guerriero, erano protette per legge al punto che tirare i capelli o la barba era considerato una profanazione: così al capitolo 383 dell’editto di Rotari leggiamo che se la “vittima” era un nobile, l’autore del gesto era condannato a pagare una multa di 6 solidi. L’antica legge dei franchi (Pactus Legis Salicae) prevedeva una multa di 45 solidi per chi rasava un fanciullo chiomato senza il consenso dei parenti; i burgundi punivano pesantemente il taglio dei capelli delle donne libere. Per i romani, viceversa, capelli e barba lunga erano segno di trasandatezza e di barbarie. Imperatori e senatori si rasavano spessissimo il viso e tenevano le chiome ben corte, e Giuliano l’Apostata, nel suo breve regno (361-363), scandalizzò i contemporanei non solo perché tentò di restaurare il paganesimo, ma anche perché portava con orgoglio la barba. Addirittura scrisse un’invettiva contro gli antiocheni, che si facevano beffe della sua trasandatezza. Ma la sua fu un’eccezione. Ai capelli (e alla barba) era legata un complessa simbologia. Per rendersene conto basta richiamare il caso, celeberrimo, dei re “chiomati” merovingi, che governarono il regno franco prima dell’avvento dei “maestri di palazzo” della dinastia dei Pipinidi (Carlo Martello e Pipino il Breve) che avrebbe portato al potere Carlo Magno. I re merovingi si autodefinivano reges criniti, “re capelluti”, facendo dipendere il loro stesso status di sovrani dal fatto di portare le chiome lunghe. Lo storico bizantino Agazia (532-582 ca.) sostiene che non venissero mai rasati sin dall’infanzia, e che viceversa ai loro sudditi era imposto di tenere le chiome corte a rimarcare la differenza. I capelli, insomma, avevano per i merovingi un valore sacro e possedevano proprietà di tipo magico. Ecco un episodio rivelatore in tal senso. Esso vede protagonista la regina Clotilde (morta nel 554), moglie di Clodoveo, il primo re franco che si era convertito al cristianesimo. Divenuta vedova, divise il regno tra i quattro figli Teodorico (nato da una concubina), Clodomiro, Childeberto I e Clotario I e si ritirò in monastero. Tuttavia esercitava una sorta di protettorato sui due nipoti nati da Clodomiro, al punto da scatenare la gelosia degli altri suoi stessi figli. Nel 524 Childeberto e Clotario li fecero catturare e poi misero la regina di fronte a un dilemma: risparmiare i nipoti acconsentendo al taglio dei loro capelli, oppure condannarli a morte. La scelta, pur sofferta, fu per la morte. Si salvò, come testimonia anche il cronista franco Gregorio di Tours, il terzo nipote, Clodoaldo (futuro santo) perché si auto-procurò la tonsura e si ritirò in convento. La storia merovingia pullula di esempi simili. Ma non solo quella. Nel 680 il re visigoto di Spagna Wamba svenne e fu quasi creduto morto. L’arcivescovo di Toledo Giuliano


dispose allora che gli fossero tagliati i capelli e che indossasse l’abito monastico in modo da morire in pace. Ma Wamba si svegliò. Purtroppo, in base ai dettami stabiliti nel 451 dal Concilio di Calcedonia – che aveva decretato l’impossibilità per chierici e monaci di accettare incarichi secolari –, non poteva più esercitare il potere e fu costretto ad abdicare a favore di un suo duca, Erwig.


Diamoci un taglio Il culto per i capelli dei sovrani terminò quando i merovingi, come detto, furono scalzati dai loro maestri di palazzo. I Pipinidi (il nome deriva dal loro progenitore, Pipino d’Herstal) si proclamavano discendenti di una santa, Gertrude, che era entrata nel monastero da lei fondato a Nivelles per sfuggire a un matrimonio combinato e alle lusinghe del mondo, ricevendo per giunta la tonsura dalla sua stessa madre. Uno di loro, Carlo Martello, mandò in segno di amicizia suo figlio Pipino alla corte del sovrano longobardo Liutprando perché quest’ultimo, tagliandogli i capelli, lo “adottasse”. I Pipinidi etichettarono i merovingi col poco lusinghiero soprannome di “re fannulloni” e rimarcarono apertamente la loro differenza per quanto concerne non solo le scelte politiche, ma anche quelle estetiche. Carlo Magno, non a caso, portava i capelli corti. Col progredire del tempo, complice anche l’azione della Chiesa, il sentimento continuò a cambiare e i capelli lunghi in ambito maschile vennero guardati progressivamente con sempre maggiore sospetto. Se qualcuno, come il vescovo Ernulfo di Rochester (1114-24), puntava il dito sull’igiene facendo notare che capelli (e barba) lunghi finivano nelle zuppe imbrattando tutto, per la maggioranza si trattava di una questione di ordine morale. Per Guglielmo di Malmesbury, ad esempio, erano indice di costumi discutibili e di omosessualità perché rendevano labile il confine tra i sessi. Nel 1094, l’arcivescovo Anselmo di Canterbury si rifiutò di benedire chi, tra gli uomini, portasse le chiome lunghe «come le femmine» e due anni dopo, a Rouen, addirittura un concilio stabilì che nessun uomo potesse farsi crescere i capelli, rendendo obbligatorio tagliarli «come un cristiano». Ci fu persino chi, come l’arcivescovo di Seez, in Normandia, non contento di rimproverare Enrico I e i suoi cortigiani per le chiome fluenti, imbracciò un paio di cesoie e si mise a tosarli di persona! Ciò valeva ancora di più per gli uomini di chiesa. Beda il Venerabile nell’VIII secolo sosteneva che più dell’abito fosse la tonsura – con la sua cerimonia, simbolo tangibile del distacco dal mondo – il segno distintivo tra chierici e laici. Su questo piano peraltro registriamo la nota polemica di cui si fece portavoce riguardo ai vari tipi di tonsura in uso nei monasteri insulari: auspicabile, secondo l’erudito britannico, era quella che si faceva risalire a san Pietro, ossia col cranio completamente rasato tranne un cerchio di capelli alla base a mo’ di corona, a imitazione appunto della corona di spine di Cristo. Di contro, c’era la tonsura diffusa nei monasteri irlandesi, che prevedeva la presenza di una striscia di


capelli all’altezza della fronte. La tonsura “pietrina” fu quella che si impose in tutti i monasteri occidentali, compresa la Spagna (Concilio di Toledo, 633) e poi la stessa Britannia (sinodo di Whitby, 664). Del resto, già il Concilio di Agade (506) aveva stabilito che l’arcidiacono dovesse tagliare i capelli ai chierici che li avessero fatti crescere troppo, e Colombano, il grande santo irlandese fondatore di monasteri, prescrisse severe penitenze per i monaci restii a rasarsi la barba. E nell’XI secolo papa Gregorio VII dispose che i chierici dovessero avere il volto rasato per distinguersi subito dai laici. L’obbligo, va detto, non fu certo osservato scrupolosamente da tutti. Eremiti, asceti e monaci rigoristi in genere portavano tendenzialmente la barba lunga. Ma anche i pellegrini: data la difficoltà a rasarsi in viaggio, sia i laici sia gli uomini di chiesa, quando affrontavano i lunghi viaggi verso le mete sante, diventavano loro malgrado “barboni”.


Buona barba non mente Nella società laica, la barba era considerata un segno distintivo di mascolinità e separava l’uomo dal fanciullo “imberbe”, appunto. I longobardi deriverebbero il loro nome addirittura dall’usanza di portarla lunga. Secondo la leggenda raccolta da Paolo Diacono e presente anche nella Origo gentis Langobardorum, in origine si chiamavano winnili (combattenti) e vivevano in Scandinavia. Essendo la popolazione aumentata al punto che le risorse non bastavano più a sostenerla, una parte fu costretta a migrare verso sud alla ricerca di nuove terre. I più gagliardi e forti elessero come capi due giovani fratelli guerrieri, Ibor e Aio, e lasciarono le fredde terre del Nord; con loro partì anche la madre Gambara, donna intelligente il cui consiglio era molto rispettato. Giunti in una regione chiamata Scoringa (forse l’odierna isola di Rugen, tra la Germania e la Svezia), i winnili si scontrarono con la tribù germanica dei vandali, i quali pretesero da loro un tributo per evitare la guerra. A questo punto Ibor e Aio, spinti dalla madre, optarono per la battaglia. I vandali nel frattempo si recarono dal dio Wotan (Odino) per chiedergli la vittoria: il dio rispose che l’avrebbe concessa a quelli che avrebbe visto per primi al sorgere del sole. Gambara, astutamente, pensò allora di risolvere la situazione ricorrendo a Frea, moglie di Wotan. La dea le consigliò di far sciogliere alle donne dei winnili i capelli e di aggiustarli intorno al viso in modo che sembrassero delle barbe; così acconciate, le donne avrebbero poi dovuto schierarsi accanto ai loro uomini nel luogo dove Wotan, al risveglio, era solito guardare, cioè verso oriente. La mattina Frea girò il letto dove dormiva il marito proprio verso oriente e lo svegliò. Vedendo i winnili, il dio esclamò: «Chi sono questi lungibarbi?». Allora Frea gli chiese di accordare la vittoria a coloro ai quali aveva appena dato il nome. E così fu: i winnili ottennero dunque, grazie all’astuzia femminile, la prima decisiva vittoria e, cosa più importante, un nuovo nome: d’ora innanzi si sarebbero chiamati longobardi. L’importanza della barba per questo popolo è provata del resto da una ricca documentazione iconografica, ma è anche rimarcata da numerosi episodi della loro storia, come quello di Caco e Tasone, duchi del Friuli tra il 610 e il 615-625 circa. Poiché il patrizio bizantino Gregorio aveva promesso a Tasone di adottarlo come figlio con il rito del taglio della barba, lui e il fratello lo raggiunsero a Oderzo. Ma Gregorio aveva preparato loro un’imboscata: chiuse le porte della città, i due furono assaliti e uccisi. Dopo di che il patrizio ordinò che gli portassero la testa di Tasone e gli tagliò come promesso la barba.


Rosso malpelo Se la situazione nei primi secoli del Medioevo, visto il prevalere dei “barbari”, è chiara, per il pieno Medioevo la documentazione sulla barba è carente. Sembra acclarato, ad esempio, che in Germania, nel X e XI secolo, gli imperatori della dinastia degli Ottonidi la portassero. Ma a quei tempi per un monarca occidentale avere la barba era tutto sommato piuttosto raro. A tenerla, ricordiamo, erano solitamente persone dalle qualità “particolari”, come i santi, i penitenti e gli eremiti, oppure i pellegrini e i militari – che certo non avevano gli agi per radersi –, o ancora individui sospetti o ai margini della società. I re invece da secoli preferivano seguire il modello degli antichi romani e sbarbarsi perfettamente, visto che il volto glabro era indice di distinzione e nobiltà. Non così l’imperatore Federico di Hohenstaufen (1122-1190). Aveva iniziato ad apprezzare la barba da giovane, partecipando alla terza crociata, un po’ in quanto soldato, un po’ a contatto con i pellegrini, un po’ vedendo i musulmani e i bizantini, per i quali invece era un tratto distintivo. Ed essendo, da buon tedesco, fulvo di capelli, la sua barba rossiccia sicuramente doveva dare nell’occhio. Poco dopo la sua incoronazione a re di Germania, nel 1152, Federico proibì per legge di tirare o strappare i capelli e i peli della barba, facendosi così restauratore delle antiche usanze dei suoi antenati. Anni dopo, i lombardi avrebbero preso di mira questa sua peculiarità coniando sprezzantemente per lui proprio il soprannome di Barbarossa, che richiamava alla memoria un altro celebre “barbarossa”: quel Lucio Domizio Enobarbo meglio conosciuto come Nerone, perché Enobarbo, in latino Aenobarbus, vuol dire “barba di rame”. Visto anche il comportamento verso i cristiani che leggenda gli attribuiva, Nerone si era meritato il paragone con l’Anticristo e da lì in poi il pelo rosso sarebbe divenuto sinonimo di crudeltà, tradimento e, persino, di vicinanza al demonio. Barba e capelli servivano anche a differenziare la provenienza etnica delle diverse genti. È noto già a Tacito l’uso da parte dei germani suebi di annodare le chiome in modo caratteristico (forse per “alzare” la statura o comunque per intimorire i nemici). Gli avari, popolo nomade di ceppo uralo-altaico imparentato con gli unni, portavano i capelli lunghi sulle spalle e intrecciati. Secondo il cronista Guglielmo di Malmesbury, autore dei Gesta Regum Anglorum (“Le imprese dei re angli”), nel XII secolo sassoni e normanni si distinguevano in base alla diversa maniera di portare i capelli e alla presenza o assenza di barba e baffi. Differenze provate dalle raffigurazioni di entrambi i


popoli presenti nell’arazzo di Bayeux e che rappresentano i primi con folti baffi, mentre i secondi sono glabri.


Brutti da far paura A volte a scopo estetico (e culturale) si procedeva a vere e proprie deformazioni permanenti del corpo. Leggiamo questo brano: Non c’è altra razza di uomini che li rassomigli. Pensano che la nobiltà sia proporzionale alla lunghezza del cranio. Allora praticano questa usanza: subito dopo la nascita, mentre le ossa del cranio sono ancora tenere, le modellano con le mani e le costringono ad assumere una forma oblunga applicando bendaggi e altri sistemi di costrizione. In questo modo, la forma sferica della calotta viene distrutta e la testa cresce in lunghezza. Si tratta della descrizione, scritta dal celebre medico Ippocrate (V-IV secolo a.C.), dei macrocephali. Erano una popolazione dell’Asia minore che applicava l’usanza di deformare i crani dei neonati allo scopo di creare individui in grado di distinguersi immediatamente, viste le caratteristiche morfologiche peculiari, dagli altri del gruppo. Le ragioni di questa usanza antichissima, diffusa sia in Asia che in Europa e che sopravvisse fino a tempi recenti in alcune parti dell’America settentrionale e meridionale, sono ancora parzialmente da indagare. Se infatti è noto che nell’America precolombiana l’usanza era riferita alla sfera rituale e religiosa, in Europa la questione pare essere decisamente più complicata. In tutti i casi la deformazione avveniva tramite complicati sistemi di bendaggio, a seconda delle culture con l’ausilio anche di tavolette di legno o di altri mezzi meccanici. In pratica, si agiva sulle ossa del cranio, che come è noto nei neonati sono tenere e non ancora saldate. Si applicavano i bendaggi in modo da far assumere al cranio la forma voluta e poi, con la crescita, si otteneva il risultato desiderato. Di certo, almeno stando agli scrittori antichi – soprattutto quelli cresciuti nel culto della bellezza classica –, questo costume era “barbaro” e deturpava la figura, contribuendo ad accrescere il senso di sgomento e di terrore che le genti del Mediterraneo provavano, appunto, per i barbari. Basti ricordare che Pericle, affetto da una leggera deformazione naturale del cranio che lo rendeva dolicocefalo, veniva preso in giro dai comici della sua epoca. Al contrario, presso i popoli barbari una testa conformata in tal modo appariva come il simbolo di alte facoltà intellettuali e, nello stesso tempo, la figura assumeva un contegno più marziale e un’aria di nobile fierezza.


Quando nel V secolo gli unni costituirono un regno nell’Europa centroorientale, incorporarono gruppi di popolazioni tributarie tra cui alani, gepidi, sciri, rugi, sarmati, slavi e goti. Ecco come li descrive un celebre contemporaneo, Sidonio Apollinare: «Orribili erano anche i volti dei loro neonati, la cui testa era un’informe massa rotonda. Gli occhi erano infossati, sotto la fronte, il naso schiacciato che quasi non sporgeva dal viso». Stesse immagini citate dallo storico dei goti Jordanes il quale sostiene che la testa degli unni fosse deformata («deformis ossa») e i loro occhi infossati al punto da essere simili a punti («puncta»). Gli unni praticavano quindi la deformazione del cranio. L’usanza fu trasmessa, con ogni probabilità per motivi di prestigio, alle popolazioni loro tributarie: burgundi, franchi, alamanni, ostrogoti, gepidi, longobardi. Ma se per queste genti le percentuali restano minoritarie (si tratta in genere di un 1-5% di crani deformati, il che lo rende un fenomeno elitario), la percentuale di crani deformati tra gli alano-sarmati (a base germanica, stanziati all’epoca in aree orientali) vissuti tra il II e il IV secolo risulta vicina all’80%. Tra i primi a notare la correlazione tra l’uso “europeo” e quello “asiatico” fu l’anatomista francese Paul Broca (fine Ottocento) e fu poi sviluppata da José Imbelloni (1925), le cui ricerche rappresentano un punto fermo. Secondo Imbelloni, individui con crani deformati vennero in Europa e nelle nostre regioni in due grandi ondate successive. La prima ebbe un’origine comune, cioè dall’ambiente scitico unitamente alle masse provenienti dalla frontiera uralica e georgiana; la seconda, traversata l’Asia iranica durante il Medioevo, venne in Europa lungo le grandi vie fluviali. La prima ondata, l’uralica, avrebbe portato una massa di individui col cranio deformato circolarmente tramite bendaggi, e cioè i famosi macrocephali di Ippocrate; la seconda, l’asiatica, avrebbe invece condotto degli individui portatori della cosiddetta “deformazione tabulare”, ossia ottenuta per mezzo di tavole di legno. Oltre alla testa, che diventava più alta e quindi più imponente, e alla statura che si elevava, erano i tratti somatici a cambiare sensibilmente, assimilandosi a quelli asiatici o, meglio ancora, mongolici. L’uso era riservato solo ad alcuni, non a tutti. E il fatto di avere il cranio deformato rappresentava uno status sociale diverso, come dimostra ad esempio il fatto che nella necropoli svizzera di Sezegnin tutti gli individui con tali caratteristiche sono sepolti nello stesso settore del cimitero. Non sappiamo se questi individui fossero sacerdoti o capi militari. Certo è che con la caduta dell’impero unno l’uso di deformare i crani scompare rapidamente: parrebbe di poter dire che la perdita del potere e del prestigio da parte degli unni decretasse anche il passaggio di moda di questo costume. Tuttavia crani deformati rinvenuti nella necropoli di Saint-Etienne, in Borgogna, luogo di sepoltura di un gruppo di burgundi del V-VI secolo, mostrano come essi


abbiano continuato anche in seguito ad applicare l’usanza ai propri bambini proprio con lo scopo di renderli “diversi” dagli altri e quindi riconoscibili. In Italia i casi finora noti si registrano nel piccolo cimitero goto di Collegno (Torino), di ceto elevato, dove la deformazione intenzionale del cranio è stata riscontrata non solo in un individuo adulto, ma anche in un bambino nato in Italia, e quindi doveva essere praticata ancora nella prima metà del VI secolo; poi a Frascaro (Alessandria), dove si ha la presenza di una necropoli ostrogota nei pressi di un abitato con resti di Grubenhaus (deposito, V-VII secolo), e infine in alcune tombe longobarde appartenenti alla necropoli di Fiesole (Firenze). E l’uso continua in epoca moderna, finendo per essere descritto da anatomisti e medici, nei secoli XVII e XIX, con toni di stupore se non di aperta condanna per le implicazioni igieniche. Dall’Ottocento in poi, sull’onda del Positivismo e del progresso delle conoscenze mediche, la pratica iniziò a essere stigmatizzata per ragioni igieniche e finì, inesorabilmente, per cadere nell’oblio.

33 L’abbigliamento tardo medievale con le sue implicazioni socio-economiche è stato studiato da M.G. Muzzarelli in Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Il Mulino, Bologna 1999. 34 Questi documenti sono stati editi a cura di M.G. Muzzarelli nella serie “Fonti”, vol. XLI delle Pubblicazioni degli archivi di Stato con il titolo La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia Romagna, ministero per i Beni e le Attività Culturali, direzione generale per gli archivi, Bologna, 2002. 35 M.G. Muzzarelli, Vestire a festa: gusti, usi e regole tra Medioevo e d Età moderna: http://www.issmceccodascoli.org/repository/image/TESTO%20Muzzarelli%202.pdf 36 R. Levi Pisetzky, Come vestivano i milanesi alla fine del Medioevo, in Storia di Milano V. La Signoria dei Visconti (1310-1392), Milano 1955, pp. 875-908. 37 Citato in S. Franzon, I gioielli da capo nelle raffigurazioni quattrocentesche della Vergine Maria, «OADI (Rivista dell’Osservatorio per le arti decorative in Italia)», n. 3, giugno 2011, online al link http://www.unipa.it/oadi/oadiriv/?page_id=791 38 Si veda l’Enciclopedia dell’Arte Medievale (Treccani, Roma 1991), s.v. Abbigliamento. 39 J. Snyder, From Content to Form: Court Clothing in Mid-Twelfth-Century Northern French Sculpture, Palgrave Macmillan, Basingstoke (UK) 2002, p. 101.


4 In viaggio

Per noi oggi è inconcepibile mettersi in viaggio senza avere a disposizione come minimo una cartina dettagliata dei luoghi che intendiamo visitare, e senza sapere con esattezza qual è la distanza da percorrere e cosa ci aspetta – quali comfort e quali servizi – durante l’itinerario e al nostro arrivo. I più tecnologici hanno il navigatore satellitare di ultima generazione, i più tradizionalisti l’atlante stradale, ma al buio non si muove più nessuno o quasi. Nel Medioevo non era così. Nessun atlante stradale attendibile, nessuna indicazione precisa delle distanze, nemmeno una bussola (fu introdotta, e lentamente, solo a partire dal XII secolo) per orientarsi in uno spazio spesso ostile e sconosciuto. La misura di un itinerario più che dalla lunghezza (in miglia, ovvero in mille doppi passi: dato tutt’altro che oggettivo!) era data dalle giornate che si impiegavano a percorrerlo. E le strade? Erano un percorso a ostacoli.


La Terra al centro Fedeli al pensiero degli antichi, i dotti medievali ritenevano che la Terra fosse al centro dell’universo, e che il Sole, la Luna e i vari pianeti (erano noti solo Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno: non era ancora l’epoca del cannocchiale) le ruotassero attorno. Tale concezione, fissata in Grecia da Aristotele e da Tolomeo, fu rielaborata in chiave cristiana nel Duecento da Tommaso d’Aquino, che attribuì a questo schema un valore teologico fondamentale. Secondo il frate domenicano la Terra, sferica, si trova al centro di un sistema di dieci cerchi concentrici (detti anche cieli) in perenne movimento. Ciascun cielo è sede di un pianeta tranne il più esterno, il Primo Mobile, che ruota più velocemente in quanto a stretto contatto con Dio e trasmette così il movimento a tutti gli altri per mezzo di schiere di angeli disposti in ordine gerarchico in ogni singolo cielo. Terra ed Empireo sono immobili, ma per motivi opposti: la prima, infatti, è imperfetta e dominata dal male, mentre il secondo, puro e perfetto, è la sede di Dio. A questo complesso sistema di pensiero attinse Dante per l’elaborazione, nella Divina Commedia, dell’aldilà e del “suo” paradiso, cui aggiunse, in armonia con la tradizione, un inferno posto sotto terra e un purgatorio posto agli antipodi di Gerusalemme: immaginandolo come un’isola a forma di montagna, il poeta fiorentino fu tra i primi a dare un volto fisico a un luogo che, in realtà, era stato introdotto da poco nell’elaborazione dottrinale della Chiesa. Un universo finito, dunque, tanto lontano dal nostro da non sembrare nemmeno lo stesso. E così granitico che passarono secoli – fino alle teorie eliocentriche di Niccolò Copernico (1473-1543) e alle lenti di Galileo (1564-1642) – prima che venisse scalfito. E la Terra, contrariamente a ciò che si pensa, era percepita come tonda secondo una tradizione di pensiero scientifico che risaliva agli antichi greci. Eratostene (conservatosi grazie alle citazioni contenute nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio), Strabone e Tolomeo (conosciuti grazie a Seneca) avevano calcolato la curvatura del meridiano terrestre e le loro teorie erano state riprese dai Padri della Chiesa e, nel primo Medioevo, da due grandi eruditi provenienti dall’Europa insulare: l’anglo Beda il Venerabile e l’irlandese Virgilio40, vescovo di Salisburgo. Per quest’ultimo, la questione da dibattere era soprattutto quella relativa agli “antipodi”, ossia gli abitanti dell’altro emisfero: esistono? Chi sono? Provengono dal nostro emisfero e si sono trasferiti laggiù in un’epoca


antichissima oppure sono nati direttamente in quel luogo? Nel primo caso: come possono essere passati attraverso l’equatore sopravvivendo agli infuocati raggi solari? Nel secondo: qual è il loro destino se non hanno conosciuto la Rivelazione e dunque la Salvezza? Questioni teologiche, certo. Che sollevano anche più di un sospetto di eresia. Ma che comunque su una cosa non lasciano spazio a dubbi: abitato agli antipodi o meno, il mondo è sferico. E le mappae mundi piatte che compaiono sui codici dei commentari di Macrobio e delle opere di Isidoro di Siviglia? Sono, come oggi, semplicemente dei tentativi di “planisferi” che mostrano a due dimensioni ciò che invece ne possiede tre. Il centro del mondo terreno, nella percezione comune, era Gerusalemme, la “città santa” per eccellenza. Una miniatura del XIII secolo conservata alla Biblioteca universitaria di Uppsala la rappresenta come un cerchio perfetto tagliato in due da una croce, i cui bracci indicano le strade principali. Una rappresentazione fortemente simbolica, dunque, e dal forte valore escatologico. Tutto il mondo conosciuto, del resto, era raffigurato in maniera simbolica. A cominciare dal numero dei continenti: tre, numero perfetto, corrispondenti all’Europa, all’Asia e all’Africa. Sulla carta erano disegnati o come tre cerchi concentrici divisi da un lembo di acqua, o come una lingua di terra ripartita in tre da una T (di nuovo la croce). E i confini? Erano alquanto labili. A Occidente, il mappamondo terminava con le “colonne d’Ercole” che, situate poco oltre lo stretto di Gibilterra, delimitavano le terre e i mari noti, e con essi le ambizioni conoscitive dell’uomo. A sud il mondo finiva con gli immensi deserti dell’Africa settentrionale, mentre a nord alcuni racconti molto diffusi (come la Navigatio Sancti Brendani) lasciavano intravedere oltre le nebbie dei mari settentrionali misteriose terre dove il sole non tramontava mai e, nel mezzo del mare concretum (la banchisa polare?) la mitica isola di Thule. Ma a destare il maggior fascino era, senza dubbio, l’Oriente.

La strada e i suoi pericoli Prima di seguire le orme di qualche viaggiatore medievale, conviene considerare brevemente la condizione delle strade. Cadute in disuso le vecchie arterie romane e dismessi i ponti e le altre infrastrutture costruite in epoca imperiale, restavano spesso solo sentieri malmessi e senza pavimentazione che, sotto la pioggia o alla prima


pavimentazione che, sotto la pioggia o alla prima nevicata, si trasformavano in rivoli di fango quando non in autentici pantani. Anche se non era così dappertutto. Ma se è vero che dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, le guerre e le invasioni barbariche, la condizione delle strade dovette subire un po’ ovunque una rapida decadenza, è altrettanto vero che il traffico non si era bloccato affatto. A partire dal Mille, con l’aumento degli insediamenti seguito all’incremento demografico, accanto agli antichi tracciati (o poco distanti da essi) furono costruite altre vie per collegare tra loro i nuovi villaggi e consentire un più agevole trasporto di merci e di derrate verso i centri di mercato. Lungo la strada i pericoli erano tanti. Oltre ai rischi dovuti alle cattive condizioni del percorso, non era raro incontrare qualche brigante ed essere rapinati se non addirittura uccisi. Per questo si tentava, per quanto possibile, di mantenersi su strade battute e frequentate, e di evitare i sentieri marginali e soprattutto i boschi, forieri di incontri indesiderati con animali feroci. Tassativo, non appena calava il sole, trovare un riparo: in un casolare, in una locanda, nella foresteria di un monastero, o alla peggio, su un albero. L’importante era non passare la notte all’addiaccio. Le condizioni igieniche e climatiche non erano certo delle migliori. E il rischio di contrarre malattie sempre in agguato. I tempi richiesti dagli spostamenti, poi, erano davvero lunghi. Mettersi in viaggio spesso significava lasciare il proprio paese d’origine per non tornarvi più: ragione per cui, prima di partire, non era rara la consuetudine di fare testamento. Fu infatti proprio il timore dei pericula in eundo et redeundo (“pericoli nell’andare e nel tornare”) a spingere, ad esempio, il trevigiano Bartolomeo di Pizolo da Montebelluna a dettare, il 28 febbraio 1350, il testamento prima di iniziare il viaggio per Roma: tra le sue ultime volontà, predisponeva una cifra per l’accoglienza di mendicanti, orfani e vedove. Più rapidi, ma non meno rischiosi, gli spostamenti via acqua. Innanzitutto


lungo i fiumi. Relativamente agevoli da percorrere e veloci nei periodi di piena, le vie fluviali erano utilizzate anche durante la stagione secca: le imbarcazioni, allora, erano trainate, grazie a un complesso sistema di funi, da cavalli e buoi, che procedevano lentamente lungo la riva. E la fatica era tanta che spesso a dar man forte agli animali erano gli stessi marinai. Nonostante tutto, comunque, barche e barconi solcavano regolarmente, ad esempio, le acque del Po e dei suoi affluenti che, collegati a partire dall’XI secolo alle altre vie d’acqua della Pianura Padana da un sempre più complesso sistema di canali, si imposero nel Medioevo come una delle vie di comunicazione principali e più battute (insieme al Brennero) dell’intero continente, collegando il Nord e il Centro Europa con il Mediterraneo. E poi, il mare. L’Atlantico era solcato in lungo e in largo dai drakkar dei vichinghi, che colonizzavano le isole dell’estremo Nord Europa e giungevano fino alle soglie del Nuovo Mondo, e prima ancora dai currach (barche di pelle) dei monaci irlandesi, che si lasciavano in balìa delle onde e venivano trascinati dai venti e dalle correnti nei luoghi più impervi e inospitali, dove fondavano nuovi monasteri. Il Mediterraneo invece, utilizzato sin dall’antichità per i traffici commerciali, tornò a occupare una posizione centrale con la progressiva ascesa delle repubbliche marinare e durante le crociate. Il viaggio via nave, comunque, era tutt’altro che sicuro, perché al rischio (invero alto) di fare naufragio si sommava la possibilità (anch’essa frequente) di un incontro poco piacevole con i pirati o con i saraceni. Nonostante i pericoli, comunque, per andare in Terrasanta conveniva salpare da Venezia: con la bella stagione, per arrivare alla meta bastavano una ventina di giorni di navigazione, poco più del doppio in inverno. Sempre meglio che attraversare le incerte strade dell’Europa dell’Est, dove, oltre a dover percorrere un’enorme distanza, si rischiava di incontrare i ferocissimi predoni slavi. Chi viaggiava nel Medioevo? Non solo i mercanti. Innanzitutto principi, sovrani e imperatori, che passavano gran parte del tempo a spostarsi tra le terre di loro dominio. Carlo Magno, ad esempio, sebbene avesse scelto Aquisgrana come capitale, non possedeva una corte stanziale e, quando non era occupato in guerra, si muoveva continuamente da una regione all’altra del suo vastissimo impero, che misurava oltre un milione di chilometri quadrati. E poi pontefici ed ecclesiastici, che si spostavano per partecipare a concili e sinodi in giro per l’Europa. Per costoro, naturalmente, il viaggio era meno disagevole, grazie all’uso di cavalli e carrozze (a dire il vero non particolarmente comode, e soggette a continui scossoni, guasti e ribaltamenti), e più veloce per i repentini cambi di cavalcature.


La maggior parte degli altri viaggiatori, fossero mercanti o semplici pellegrini, procedevano a piedi o tutt’al più a dorso di mulo, e molto più raramente a cavallo, anche perché l’utilizzo di animali obbligava a provvedere anche al loro sostentamento e aumentava a dismisura il già altissimo costo del viaggio. Tra i disagi maggiormente percepiti, infine, vi erano i numerosi controlli cui i viaggiatori erano continuamente sottoposti ai “posti di blocco” lungo le strade, i valichi e all’entrata delle città: e se non era piacevole, alle dogane, farsi rovistare tra i bagagli dalle guardie, altrettanto odioso era dover pagare i pedaggi ogni qualvolta si varcava un ponte o la porta di una città. Dovevano essere in molti a percepire anche una bettola isolata come un rifugio caldo e confortante: questo sentimento provò nel 1483 il domenicano tedesco Felix Faber quando, passate le Alpi per dirigersi in Terrasanta, dopo aver attraversato foreste, rischiato di precipitare in profonde gole montane e inciampato nelle sterpaglie dei sentieri, si imbatté in un piccolo e solitario ospizio tra Cortina e Dobbiaco: «Finalmente al sicuro nel bel mezzo di una valle arenosa e sterile dove, com’egli ci fa sapere, “molti erano morti nelle notti per il freddo e per la fame”»41.

Sulle orme dei pellegrini Tra i viaggiatori più assidui c’erano sicuramente i pellegrini che, rivestiti di rozze tuniche e mantelli e “armati” di bordone (un semplice bastone nodoso), si dirigevano da ogni angolo della cristianità verso le tombe dei santi e dei martiri, ma anche ai cosiddetti “luoghi sacri”. Mete preferite erano, naturalmente, la Terrasanta – dove si visitavano le basiliche del Santo Sepolcro e sul Calvario, di Betlemme e del Monte degli Ulivi – e Roma – dove si veneravano le tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Col tempo, però, sorsero un po’ dovunque, dal Mediterraneo al cuore del continente, chiese e cattedrali che attiravano frotte di devoti. Tra i


santuari più visitati c’erano Santiago de Compostela in Spagna, San Martino a Tours e la cattedrale di Colonia, sede dalla seconda metà del XII secolo delle spoglie dei Re Magi, prelevate dalla basilica milanese di Sant’Eustorgio per ordine dell’imperatore Federico Barbarossa terminato vittoriosamente l’assedio di Milano. A collegare tutte queste località tra loro così distanti vi erano strade non sempre facilmente praticabili, lunghissime, impervie e piene di pericoli. La più celebre, senza dubbio, è la via Francigena, che partendo dalla Francia, appunto, giungeva fino a Roma attraversando gli ardui passi appenninici. La strada era trafficatissima e molto servita: è stato calcolato che, sul solo tratto toscano, la media fosse di un ospedale ogni cinque chilometri. Spesso erano gli stessi pellegrini (detti romei, da Roma) a costruire strade e ponti, e con i loro spostamenti costituivano il tramite tra culture e popoli diversi. Oltre al Cammino di Santiago e alla via Francigena, c’erano altri itinerari che collegavano chiese e luoghi di culto distinti per particolari caratteristiche. Una “diramazione” della Francigena – la cosiddetta “via degli Abati”, finora storicamente però poco documentata – univa Pavia a Roma passando per il monastero di Bobbio, fondato in Val Trebbia nel 614 dall’abate irlandese Colombano su alcuni terreni donatigli dalla coppia reale longobarda Agilulfo e Teodolinda. Proprio Bobbio e il Piacentino in generale divennero meta obbligata per monaci e pellegrini provenienti dall’Irlanda: contando sull’ospizio attiguo alla chiesa di Santa Brigida a Piacenza – costruito già intorno all’862 – si recavano all’abbazia per pregare sulla tomba di san Colombano e poi proseguivano, passando per Pontremoli, alla volta della Città Eterna. Molto popolare era anche l’itinerario che collegava i principali santuari


dedicati all’arcangelo Michele, il cui culto si era molto diffuso nell’Alto Medioevo, grazie soprattutto alle popolazioni di origine germanica come i goti e i longobardi: partendo da Mont Saint-Michel, in Bassa Normandia (dove all’inizio dell’VIII secolo fu costruito il celeberrimo santuario ancora oggi meta di turisti da ogni parte del mondo), il percorso valicava le Alpi, raggiungeva la Sacra di San Michele in Val di Susa e poi, toccando spesso eremi, spelonche e chiese rupestri, giungeva fino al grande santuario sul Gargano. Considerata luogo di raduno e di passaggio per imbarcarsi verso la Terrasanta, Venezia viene solitamente ignorata come meta di pellegrinaggio. Ma la città, sia dentro che poco fuori (Marghera, Mestre, Caorle, Chioggia...), era dotata di molti ospedali per accogliere non solo chi si preparava ad andare verso Oriente, ma anche chi intendeva vedere le numerosissime reliquie custodite nelle sue chiese. Una testimonianza preziosa42 a questo proposito è quella di un certo Leonardo Frescobaldi, che nel suo resoconto di viaggio scritto nel 1394 racconta: Trovammo in Vinegia molti pellegrini Franceschi et Veneziani et fucci fatto grande onore [...]. Andammo a visitare la chiesa di Santa Lucia vergine, dove quivi ci fu mostro il suo sanctissimo corpo. Al monasterio di San Zaccharia padre di san Giovanni Batista in un altare bellissimo, ci fu mostro molte reliquie, et evvi il corpo di decto sancto Zaccheria et quello di san Giorgio et quello di san Theodoro martire. Nella chiesa di San Giorgio fuori Venegia vedemo il braccio suo, el corpo di san Pagolo, et la testa di sancta Felice. Nella chiesa di San Christofano vedemo el sanctissimo corpo, et simile un ginocchio, ch’è cosa di miracolo vederlo. Nella chiesa di Sancta Lena, madre di Costantino imperadore fuor di Venegia, vedemo il corpo suo intero et vedemovi un gran pezzo di legno della santa Croce et un dito della mano di Costantino. Nella chiesa di San Donato a Murano fuor di Venegia, vedemo nella chiesa un’archa grandissima di pietra drentovi centonovantaotto fanciulli, cioè innocenti tutti interi, cioè quelli che Herode fece uccidere per Christo et vedevasi loro tutti i colpi delle ferite, dicono solevano essere dugento, ma quando il re d’Ungheria fece pace coi Veneziani loro gliene donarno due di questi fanciulli. Tutto il Veneto, del resto, era al centro degli spostamenti dei pellegrini che giungevano, tramite la via Alemanna e la via Ongaresca, rispettivamente dall’area germanica e da quella slava. E chi proveniva da quelle nazioni a volte si fermava per organizzare la sistemazione per i propri connazionali. Così, ad esempio, a Treviso esistevano otto ospizi gestiti da tedeschi.


In fuga dal (proprio) mondo Per compiere un pellegrinaggio occorrevano mesi o forse anni di spostamenti a piedi o a dorso di mulo, in condizioni di sicurezza precarie e confidando sull’ospitalità di monasteri o di qualche privato particolarmente sensibile. Per fortuna, si poteva contare su qualche aiuto, come la Guida del pellegrino che, compilata nel XII secolo, forniva consigli preziosi a chi si accingeva a mettersi in cammino e soprattutto ribadiva il principio-guida della sacralità dell’ospite: «Povero o ricco deve essere da tutti ricevuto con carità e circondato di venerazione. Poiché chiunque lo avrà ricevuto e gli avrà diligentemente procurato ospitalità, avrà per ospite non solo san Giacomo, ma il Signore in persona, Lui che ha detto nel Vangelo “chi accoglie voi, accoglie me”». Chi erano i pellegrini? Uomini, certo, ma anche donne, anziani e bambini, sani e malati che si incamminavano per assolvere a un voto, per chiedere perdono, per espiare qualche peccato, per ottenere la guarigione, per cercare reliquie di santi, ma anche (cosa assai meno edificante!) per... sfuggire ai propri doveri. Addirittura vi era chi compiva il viaggio per conto di qualcun altro impossibilitato a farlo: fare il pellegrino, in questi casi, equivaleva a un vero e proprio “lavoro”, con tanto di retribuzione. Uno straordinario quanto precoce spaccato delle difficoltà e delle avventure che doveva comportare intraprendere un pellegrinaggio è costituito dal celeberrimo Itinerarium Egeriae (o Peregrinatio Aetheriae, da una variante del nome), resoconto del viaggio nei luoghi santi compiuto, al tramonto del IV secolo, da una donna di nome Egeria. Dell’opera, scoperta nel 1884 su un codice manoscritto ad Arezzo, resta purtroppo solo la parte centrale: il resto è andato perduto. L’eccezionalità del ritrovamento, più che per il racconto in sé, risiede


nella sua datazione e nel fatto che sia stato scritto da una donna, con buona probabilità originaria della costa atlantica della Spagna o della Gallia, dotata di discreta cultura e di cospicui mezzi economici. Il viaggio, infatti, dura ben quattro anni (la datazione generalmente accettata è il periodo tra il 381 e il 384), durante il quale l’autrice, imbevuta di autentico spirito cristiano, prende appunti – cui darà forma definitiva solo dopo il ritorno in patria – che si rivelano una fonte preziosa per conoscere edifici, istituzioni e aspetti della liturgia in quell’epoca. Un altro interessante resoconto, all’interno della sterminata letteratura sul tema, è il Libro d’Oltramare del francescano Niccolò da Poggibonsi, vissuto nel Trecento. Il testo narra l’avventuroso pellegrinaggio compiuto nel 1345-1350 da Venezia in Terrasanta ed è ricco di annotazioni preziose, tra cui la notizia che la casa di Maria a Nazaret – ancora esistente nel 1289 – era stata distrutta e ridotta a poco più che una grotta. Il viaggio, durato ben cinque anni, lo portò a visitare la Palestina, Damasco, l’Egitto, la penisola del Sinai, Cipro. Da qui tentò di tornare in patria, ma la navigazione, irta di difficoltà, durò oltre quattro mesi, durante i quali fu addirittura sequestrato dai pirati. Riuscito a fuggire, giunse a Venezia alla fine del 1349 e, dopo un soggiorno di qualche mese a Ferrara, poté rivedere la sua casa. Più tardo, ma non meno ricco di dettagli – soprattutto per quanto concerne gli aspetti gastronomici: descrive infatti le pietanze che gli furono servite durante il viaggio – il diario del milanese Pietro Casola (1427-1507) compiuto nel 1494 sempre in Terrasanta, a Gerusalemme. Di carattere più mistico, invece, il racconto del viaggio a Roma, Gerusalemme e Santiago de Compostela dell’inglese Margery Kempe (1373 ca.-post 1438), in cui la narrazione è intervallata dalle preghiere e dalle “conversazioni” che ebbe con Cristo per più di quarant’anni. Ma il pellegrinaggio non era una prerogativa solo cristiana: previsto come forma devozionale da quasi tutte le religioni, era un preciso dovere, ad esempio, di ogni musulmano, che doveva recarsi, almeno una volta nella vita, alla Mecca, la città santa dell’Islam.


Marco Polo e gli altri Tra i viaggiatori più celebri del Medioevo, un posto di primissimo piano è occupato da Marco Polo. Nato a Venezia nel 1254 da un’agiata famiglia di mercanti, Marco fu, insieme al padre Matteo e allo zio Niccolò, tra i primi occidentali a spingersi fino a lidi tanto lontani da rasentare l’inconcepibile, in terre che l’immaginario del tempo riteneva popolate da creature mostruose oppure considerava, al contrario, la sede del paradiso. L’Asia, nel XII secolo dominata dal mitico Gengis Khan, rappresentava per gli occidentali un vero e proprio mistero. Le popolazioni delle steppe – mongoli, peceneghi e tartari, soprattutto – erano viste, sull’onda del terrore seminato nei territori a ridosso dell’Europa dell’Est, come orde spietate e sanguinarie, non senza spiccati tratti demoniaci. Ma al terrore e al sospetto si affiancava la curiosità: che aspetto avevano, come vivevano, quali erano i loro segreti? Nella prima metà del Duecento, alcuni frati domenicani furono mandati da papa Innocenzo IV come legati dal Khan, ma con scarso successo, mentre il francescano Giovanni di Pian del Carpine lasciò anche un resoconto dettagliato del suo viaggio che ebbe notevole importanza. Ma a nessuno riuscì l’impresa portata a termine dai Polo e da Marco in particolare: diventare ambasciatori del Gran Khan. Matteo e Niccolò Polo organizzarono nel 1250 una lunga spedizione in Asia che si spinse fino al Catai. Partiti da Costantinopoli, i due fratelli veneziani dalla Crimea (dove possedevano un magazzino) raggiunsero l’Uzbekistan e da qui la corte del Gran Khan Khubilai, che consegnò loro una missiva da recapitare al papa. Tornati a Venezia nel 1270, ripartirono l’anno dopo con il quindicenne Marco. L’itinerario seguito stupisce ancora oggi: Cilicia, Armenia, Golfo Persico, Afghanistan, Pamir, deserto del Gobi e Turkestan, quest’ultimo raggiunto attraverso la Via della Seta, il cruciale snodo che portava i tessuti preziosi dall’Estremo Oriente alla Persia e poi in Occidente. Qui, nella sua residenza estiva di Clemenfu (Ciandu), il Gran Khan nominò Marco ambasciatore e lo autorizzò a viaggiare in lungo e in largo attraverso la Cina. A Marco il Khan affidò la delicata missione, portata a termine nonostante le difficoltà (dei seicento membri del seguito solo diciotto sopravvissero), di portare in sposa al re di Persia la principessa Cocacin. Dalla Persia i Polo tornarono finalmente in Europa passando dal Mar Nero e da Costantinopoli: quando sbarcarono a Venezia nel 1295, dopo ben diciassette anni di assenza, nessuno li riconobbe perché avevano ormai adottato i costumi


dei tartari. Ma la vita avventurosa di Marco non terminò nella Serenissima. Catturato dai genovesi durante una battaglia navale, nel 1298 conobbe in carcere un altro prigioniero illustre, il pisano Rustichello. Dal loro sodalizio nacque Il Milione, scritto dapprima in francese (il volgare preferito dai letterati): opera che, realizzata forse sulla base di alcuni quaderni di appunti di Marco, contiene il resoconto dettagliato dei suoi mitici viaggi. Sebbene incompiuto – forse per l’improvviso rilascio di Marco e il suo ritorno a Venezia –, il testo divenne ben presto un bestseller tradotto in numerose lingue e volgari. Nonostante nel tempo molti storici abbiano avanzato seri dubbi sull’attendibilità delle narrazioni presenti, Il Milione (il titolo deriva da Milion, un ramo della famiglia dei Polo) rappresenta un documento eccezionale non solo per quanto concerne le condizioni di vita delle popolazioni orientali sullo scorcio del Trecento, ma anche per ciò che riguarda la loro immagine presso gli occidentali cristiani. Marco Polo morì nel 1323 lasciando alla moglie e alle tre figlie non le straordinarie ricchezze (sete, avori, pietre preziose) attribuitegli dalla leggenda, ma tessuti e oggetti tipici per lo status di un mercante agiato della Venezia del Due-Trecento. Il caso dei Polo, comunque, non fu un unicum nel Medioevo. Grandi viaggiatori furono, ad esempio, i frati in missione, come il francescano Giovanni di Pian del Carpine, che nel 1245 fu inviato da papa Innocenzo IV come ambasciatore presso i tartari. Doveva portare al Gran Khan dell’impero mongolo Güyük Khan, nipote del grande Gengis Khan, due bolle pontificie e ne approfittò per descrivere con abbondanza di particolari, e per la prima volta (il viaggio dei Polo sarebbe avvenuto solo ventisette anni più tardi!) gli usi e i costumi dei mongoli. La sua opera, che si intitola Historia Mongalorum, permette di ricostruire con precisione l’itinerario che seguì da Cracovia a Kiev (passando per Breslavia, dove si unì a lui un altro frate, Benedetto Polacco), superando poi il fiume Volga e il mar Caspio, fino al lago di Aral; da qui si diresse verso il lago Balqaš, per giungere infine a Karakorum, dove incontrò il Khan. Grandi viaggiatori si registrano anche nel mondo arabo. Il più importante fu Ibn Battuta (1304-1368/69), che da Tangeri giunse a Pechino (dopo un primo tentativo fallito) passando per lo Yemen, il Kenya, la Siria, l’Afghanistan, toccando Delhi, Calcutta, le Maldive, lo Sri Lanka, la Malesia, Giava e Sumatra, al punto da meritarsi l’appellativo di “Marco Polo arabo”. Affascinante come le sue avventure è del resto anche il vero titolo della sua opera, nota come Rihla (“viaggio” in arabo) ma che in realtà suona Tuhfat al-nazar fi ghara’ib al-amsar wa ‘aja’ib al-asfar, “Un dono di gran pregio per chi vuol gettar lo sguardo su città inconsuete e peripli d’incanto”... Solo nel 1928 sono state infine pubblicate (in inglese) le straordinarie


imprese del monaco cinese (cristiano, aderente alla confessione nestoriana43) Rabban bar Sauma (1220-1294 ca.), che negli stessi anni dei Polo partì da Oriente per incontrare il papa e i sovrani occidentali per conto del Khan persiano Arghun e, attraversata l’Italia e la Francia, giunse sino a trattare con la delegazione del re d’Inghilterra per poi ritirarsi a Baghdad, dove visse i suoi ultimi anni. Fu da lui che papa Nicola IV ricevette la richiesta da parte dell’imperatore cinese Kublai Khan (1260-94) di avviare missioni cristiane in Estremo Oriente: a partire fu il francescano Giovanni da Montecorvino (12461328). La predicazione del frate ebbe successo: nel 1299 costruì la prima chiesa di Pechino (di cui divenne vescovo nel 1306), imparò il cinese per predicare e celebrare la liturgia e tradusse in quella lingua il Nuovo Testamento e i Salmi. Per la sua lunghissima ed eccezionale esperienza ai confini del mondo allora conosciuto, anch’egli è da annoverare di diritto tra i grandi viaggiatori del Medioevo.


Sistemazioni precarie Il Medioevo, dunque, fu senza dubbio un’età di viaggi. Pur, come si è visto, tra le difficoltà. Uno dei problemi più grossi per chi, mercante o chierico, ricco o umile, si metteva in viaggio era costituito dal procurarsi un alloggio. Un problema sconosciuto, fortuna loro, a sovrani, re e imperatori, che dall’età carolingia al Basso Medioevo decretarono per legge l’obbligo, per monasteri, abbazie e grandi feudatari, di ospitarli (qualora non fossero disponibili proprietà demaniali) con tutta la loro corte durante i numerosi spostamenti da un capo all’altro dei domini. Quest’obbligo, noto come “diritto di albergaria”, fu sostituito col tempo da una tassa annua o riconosciuto in cambio di esenzioni e privilegi. Per il resto, nei primi secoli del Medioevo, quando tutto sommato la mobilità era più contenuta, era molto diffusa l’ospitalità gratuita. Forte del principio, regolamentato dalle leggi dei regni romano-barbarici, che l’ospite era sacro e godeva della protezione del sovrano, chi bussava alla porta di una casa qualsiasi poteva aspettarsi di ricevere, oltre a un tetto sotto il quale dormire, anche cibo e acqua per sé e per il suo cavallo o mulo. Naturalmente, non in eterno: due, tre giorni al massimo (da qui, probabilmente, il famoso detto riguardo all’ospite che, dopo tre giorni, puzza). Dopo di che, o si rimetteva in viaggio, oppure si cercava un lavoro per mantenersi. Offrire alloggio a un viandante poteva risultare anche piuttosto oneroso: soprattutto nelle aree più isolate e scarsamente battute, però, ospitare un forestiero costituiva una piacevole ventata di novità, ed era l’occasione buona per sapere quello che succedeva in giro per il mondo, o anche nel villaggio poco distante. Che l’ospitalità fosse percepita come un dovere, del resto, non era certo una novità. Sin dai tempi più antichi, in quasi tutte le civiltà, erano presenti forme gratuite di foresteria, nella convinzione ad esempio, nel mondo greco-romano e in quello germanico, che gli dèi vagassero sulla Terra, assumendo le vesti di viandanti, ricompensando o punendo chi si fosse dimostrato generoso oppure avaro. Già nel I secolo lo storico latino Tacito, nella sua Germania – opera che descrive nei dettagli usi e costumi delle tribù dell’Europa centro-settentrionale fino ad allora poco note – sottolinea l’accoglienza come una delle doti più grandi e genuine dei germani: Nessun altro popolo ha più spiccati il senso conviviale e quello dell’ospitalità. È inammissibile per loro respingere qualcuno dalla propria casa. Tutti accolgono l’ospite alla propria tavola, imbandita secondo i propri


mezzi. Finita la disponibilità di cibo, chi aveva offerto l’ospitalità gli indica un’altra casa e ve lo accompagna; pur senza invito, entrano nella casa vicina, e non c’è differenza: vengono accolti con lo stesso riguardo. In fatto d’ospitalità nessuno fa distinzione tra persona conosciuta o sconosciuta. Quando l’ospite parte, è usanza concedergli ciò che chiede, e la franchezza nel chiedere è altrettanta. I doni sono per loro una gioia, né chi dona si sente in credito, né chi riceve in obbligo. Nel primissimo Medioevo, le raccolte di leggi barbariche (V-VII secolo) ribadiscono il dovere dell’ospitalità, che durava da due a tre giorni e comprendeva alloggio, posto per il fuoco, acqua, legna da ardere e biada per i cavalli. Il vitto era invece escluso e l’ospite doveva provvedere da sé acquistandolo altrove o, se era fortunato, presso il locale mercato. Nel diritto dei franchi era vietato accogliere alcune categorie di persone che si erano macchiate di delitti o reati considerati inaccettabili: profanatori di tombe, donne libere che avevano giaciuto con schiavi e ladri. Nel diritto longobardo, invece, chi ospitava un fuggiasco – soprattutto se si trattava di uno schiavo in fraida, “in fuga” appunto – era punito con una multa pari al valore dello schiavo stesso (editto di Rotari, leggi 275-276). Queste “disposizioni” restano in vigore, con qualche variante, per quasi tutto l’Alto Medioevo fino alle soglie del Mille anche se, nelle zone più periferiche di quello che era divenuto nel frattempo il Sacro Romano Impero, si tendeva a offrire ospitalità agli stranieri solo in caso di maltempo o d’inverno: per il resto, il forestiero era gentilmente invitato ad accamparsi all’aperto procurandosi il vitto. Oltre alle case private, ospitalità gratuita era concessa dalla Chiesa. Nei primi secoli dell’era cristiana, all’inizio in Oriente e poi in Occidente, l’obbligo di accogliere i viaggiatori era esercitata nei cosiddetti xenodochia (cioè ospizi), attigui ai monasteri ma da essi separati per evitare pericolose distrazioni: ma poiché l’obbligo di accoglienza caritatevole si estendeva, per monasteri e chiese, ai pellegrini e ai poveri, ben presto tali ospizi non furono più sufficienti. Gli xenodochia, col tempo, diventarono sempre meno foresterie e sempre più ospedali per l’assistenza di poveri, orfani e anziani. E si dovette aspettare l’XI secolo per vederli ripopolare di pellegrini e viandanti di ogni tipo. La rinnovata mobilità europea a partire dall’anno Mille segnò anche la nascita – o la rinascita – di locande e alberghi. Con l’aumento della popolazione e dei traffici commerciali, infatti, anche le richieste di alloggio aumentarono a dismisura, e l’ospitalità gratuita non era più sufficiente a soddisfare le richieste. Anche perché da tempo era stata introdotta l’abitudine di imporre all’ospite di


pagarsi almeno il vitto. Ma non sempre si trovava posto. In occasione delle fiere cittadine e dei mercati, le città erano così sovraffollate che i viandanti dovevano pernottare in alloggi di emergenza o all’aria aperta. In questi casi un buon alloggio era garantito solo se si aveva a disposizione una discreta quantità di denaro oppure dei beni da lasciare in pegno. Leggendo una predica – siamo nel 925 – del vescovo Attone di Vercelli che ammoniva i fedeli contro la pratica di fornire ospitalità solo a chi si presentava con preziosi doni, si intuisce che c’era chi se ne approfittava arrivando a sfruttare la situazione di bisogno per arricchirsi.


Alberghi militari A partire dall’XI secolo, con l’aprirsi del capitolo “crociate”, un nuovo fenomeno pervade l’Europa: quello degli ordini religioso-cavallereschi. I presupposti per la loro nascita furono gettati durante la riforma gregoriana, quando fu elaborato il concetto di una militia Christi, un esercito di Cristo, in grado di difendere anche con le armi i princìpi della cristianità. Fondati all’indomani della conquista di Gerusalemme (1099), i primi ordini erano in realtà composti da laici che vivevano in comune rispettando i voti di povertà, castità e obbedienza, ma giurando nel contempo di proteggere i pellegrini e di combattere gli infedeli. Non si trattava, dunque, di monaci in senso stretto: la Chiesa, anzi, si rifiutò a lungo di riconoscerli come “ordini religiosi” perché contraria all’idea che un monaco potesse impugnare le armi. Né di essi facevano parte solo cavalieri, perché la maggior parte dei membri era costituita da non nobili (i cosiddetti servientes, da cui il nostro “sergenti”). Il primo a essere fondato fu l’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni (che presero il nome dall’omonimo ospedale di Gerusalemme): creato laico nel 1099, divenne religioso solo nel 1154. Nato con mansioni di assistenza, partecipò attivamente a tutte le battaglie contro i musulmani. Il più importante fu quello dei templari, che aveva il quartier generale nell’area dell’antico tempio di Salomone (sorto nel 1118, ufficializzato nel 1163), mentre l’ultimo fu quello dei teutonici, nato durante la terza crociata (1143) a San Giovanni d’Acri e divenuto ufficiale nel 1199. Altri ordini militari sorsero in Spagna durante la Reconquista. La nascita e lo sviluppo degli ordini religioso-militari fu anche la risposta ai numerosi pericoli che aspettavano i pellegrini durante i viaggi. Essi li difendevano contro gli assalti dei predoni e contro gli infedeli, ma li assistevano anche in caso di epidemie, prima fra tutte la peste. Le crociate determinarono spostamenti di massa: centinaia e centinaia di persone che si muovevano sulle strade, raggiungevano i porti, brulicavano nelle città. La presenza degli ordini religioso-cavallereschi in Terrasanta fu dunque essenziale anche per garantire condizioni di ospitalità soddisfacenti: fino a quel momento, infatti, chi si recava nel Vicino Oriente poteva contare solo su ricoveri scadenti, con decine di persone ammassate sui soliti, sudici pagliericci di fieno. Grazie alla creazione, lungo le strade, nei porti e nelle città, di luoghi di assistenza (mansiones), chi si recava a combattere o a pregare nei luoghi santi poteva almeno contare su una migliore accoglienza, più spazio e condizioni igieniche decisamente migliori.


Bettole in comune Tornando ai luoghi ordinari dove alloggiare, se i mercanti, soprattutto in città snodo come Venezia, presero l’abitudine di sostare in appositi edifici metà alloggio e metà magazzini (i fondaci), pellegrini e viandanti si riversarono nelle locande che, cadute in disuso a seguito delle invasioni barbariche o trasformatesi in luoghi loschi frequentati da spiantati, conobbero un poderoso rilancio fino a diventare, nel Trecento, l’unico punto di riferimento per chi si metteva in viaggio. Queste locande non avevano nulla a che vedere coi nostri alberghi. In Europa occidentale e centrale, di solito, si trattava di edifici in pietra o legno con un unico focolare, e ospitavano sia uomini che animali. Il numero di letti oscillava in genere tra i tre e i venti, collocati in camerate nei piani superiori, mentre in quelli inferiori si trovavano le stalle, i depositi, le cucine e le sale da pranzo. Per gli ospiti più danarosi esisteva la possibilità di alloggiare in stanze private. Nelle locande più attrezzate i letti erano a baldacchino o su rotelle, con coperte e lenzuola, mentre in quelle più umili il pernottamento avveniva su un semplice pagliericcio. Di norma si mangiava tutti insieme, senza distinzione, e il cibo era alquanto frugale: vino e pane, a volte un po’ di companatico. Solo gli ospiti di riguardo potevano consumare pasti più abbondanti (con pesce e carne) in stanze appartate. Nelle zone più arretrate, come l’Europa dell’Est, o in Spagna – dove frotte di pellegrini accorrevano lungo la strada che portava a Santiago de Compostela – la situazione era decisamente peggiore: l’antico proverbio francese «L’amore è come una locanda spagnola: ognuno vi trova soltanto ciò che si porta di suo» è a questo proposito molto eloquente. Non tutte le locande erano uguali. Quelle cittadine erano in media migliori di quelle rurali. In Germania e in Francia, poi, si distinguevano in base alla tipologia degli avventori: signori a cavallo, carrettieri, forestieri a piedi. Esistevano locande per studenti, per lavoranti, per donne, per malati, e ovviamente i bordelli. In tutti, comunque, le condizioni igieniche erano lontanissime dalle nostre. L’acqua corrente non c’era, i viaggiatori erano tanti e dormivano negli stessi letti, ovunque regnava la promiscuità. E avvistare qualche pidocchio che correva sui pagliericci non doveva essere uno spettacolo poi così infrequente. Taverne e locande – le prime con una fama decisamente pessima – erano luoghi dove, oltre a soggiornare, si potevano acquistare merci come a un vero e


proprio mercato, il che spiega perché, col diffondersi dei commerci e l’ascesa del ceto mercantile nel Basso Medioevo, questa seconda “attività” fu osteggiata fino a scomparire quasi del tutto. Come si riconosceva una locanda? Sicuramente, almeno a partire dal Duecento, dall’insegna: in genere si trattava di una corona o di una botte con un cerchio metallico sospeso, che indicava la mescita di vino. A questa si accompagnava, in maniera sempre più frequente dal Basso Medioevo in poi, il nome: “Alla Corona”, “Al Cervo”, e così via. Per il resto, il loro aspetto non era facilmente distinguibile rispetto al resto delle abitazioni. Gli osti, contrariamente a quanto spingerebbe a pensare un cliché diffuso, non erano sempre di condizione umile. Vi era, nella categoria, anche un cospicuo numero di gente nota, ricca e rispettata. Il che, ovviamente, si rifletteva sulla “fama” della locanda. A Firenze, ad esempio, gli Statuti delle Arti contemplavano tre categorie di osti: i migliori offrivano vitto e alloggio al viaggiatore e alla cavalcatura; quelli medi ospitavano o solo gli uni, o solo gli altri; quelli infimi prevedevano o vitto o alloggio. Naturalmente, non erano tenuti ad accogliere tutti, anzi avevano il dovere di allontanare le persone sospette non solo per disposizioni di legge (l’obbligo specifico però sarebbe emerso solo nel XV secolo), ma anche perché sarebbero stati chiamati a rispondere di eventuali crimini o azioni disoneste da esse commesse. Prima di entrare nel locale, gli ospiti erano tenuti (con scarse eccezioni) ad abbandonare le armi: se non lo facevano, l’oste poteva rifiutarsi di servirli. Una volta ammessi, essi dovevano rispettare certe norme di comportamento, pena la denuncia alle autorità competenti. Il gioco era proibito almeno nei periodi delle festività, così come non erano ammesse gare di bevute e ubriacature, imprecazioni e bestemmie. Quanto poi queste regole fossero effettivamente seguite, è impossibile da stabilire.


Viaggi fantastici Il viaggio nel Medioevo, dunque, comportava una serie di prove fisiche non indifferenti. Riuscire a compierlo indenni era in un certo senso un’impresa, che non tutti riuscivano a portare a termine. Esisteva però anche un altro tipo di viaggio, quello “spirituale”, immaginario, alla scoperta di terre promesse, del paradiso, della Verità. L’uomo, quindi, poteva essere viator (“viandante”, letteralmente, “colui che va per la via”) lungo itinerari prestabiliti, oppure peregrinus (“pellegrino”), non solo nel senso che abbiamo incontrato poco fa bensì anche in senso spirituale e religioso. Il viaggio poteva essere metafora della vita, ma anche ricerca nel mondo delle idee e delle immagini mentali. Un caso tutto particolare è il resoconto fantastico relativo alla navigazione di san Brandano, un monaco realmente vissuto nel contesto storico dell’Irlanda del V-VI secolo, per la maggior parte ancora pagana e percorsa in lungo e in largo da missionari che predicavano il vangelo e costruivano monasteri. La trama dell’opera è semplice. Dopo aver presentato il protagonista, si narra del suo incontro con l’abate Barinto, il quale lo informa di un viaggio che ha compiuto con il suo discepolo Mernoc alla scoperta della misteriosa “Terra promessa dei santi”: un’isola dove il sole non tramonta mai e non esiste né fame né sete, e l’aria è colma di un profumo meraviglioso. Udito ciò, Brandano decide di salpare per cercarla. Scelti dunque quattordici monaci, dopo un digiuno preparatorio di quaranta giorni la comitiva salpa alla volta dell’isola di Sant’Enda. Ricevuta la benedizione, i frati preparano una barca di legno ricoperta di cuoio, il currach, e iniziano un viaggio denso di peripezie che li porterà, per sette anni, a visitare le stesse isole, ogni anno in occasione della medesima festività: l’isola delle pecore, l’isola-balena, l’isola degli uccelli e quella di Sant’Albeo, abitata da una comunità di frati dedita al silenzio. I frati sono rifocillati grazie all’intervento divino. Navigando, Brandano e i suoi si imbattono in mostri marini, solcano il mare denso per il ghiaccio, assistono a epici scontri tra fiere, sbarcano su un’isola abitata da tre comunità diverse la cui occupazione è cantare in perpetuo i salmi, ricevono in dono frutti enormi in grado di sfamarli con il loro succo. E ancora, si ritrovano in acque trasparenti popolate di pesci, si imbattono in una colonna di cristallo infinita che sorge dal mare e tocca il cielo e vengono aggrediti con proiettili ardenti scagliati da fabbri selvaggi. Giunti alle porte dell’inferno, incontrano Giuda legato su uno scoglio in mezzo al mare: non è la sua punizione


eterna ma solo un “sollievo” momentaneo concessogli dalla clemenza di Cristo, visto che di solito egli ribolle come una massa di piombo fuso all’interno della montagna infernale. La compagnia riparte e incontra, su un’altra isola, l’eremita Paolo, che sopravvive, rivestito solamente dei suoi capelli e dei peli, grazie all’acqua miracolosa di una sorgente. Rifocillati per l’ultima volta, i viaggiatori giungono alla meta. Qui un giovane predice al santo la morte ormai prossima e lo esorta a caricare la nave di frutti e gemme prima di ripartire alla volta di casa. Giunto in patria, e dopo aver narrato ciò che ha visto, Brandano rende l’anima a Dio. La figura di Brandano è una perfetta sintesi sia del peregrinus sia del viator: come il primo è straniero rispetto a dove si reca e ha bisogno di sostentamento, nel suo caso offertogli dalla Provvidenza; come il secondo sa di compiere un cammino che gli è indicato da Cristo e ha in Cristo la protezione che lo sorreggerà fino a raggiungere la meta. Il viaggio di Brandano, così come altri itinerari immaginari medievali (non da ultimo, la Divina commedia dantesca), offre numerosi livelli di interpretazione. La si può infatti intendere come quella di un monaco che si abbandona alla Provvidenza divina spinto dalla curiosità di vedere il paradiso. Oppure si può poi cogliere nella narrazione il semplice resoconto di un viaggio. Forse però la chiave migliore è leggere Brandano come un eroe temerario, in questo molto moderno, che sfidando le forze della natura giunge a lambire i misteri della conoscenza.

Il magico mondo del prete Gianni Un po’ più tardi, verso gli inizi del XII secolo iniziarono a circolare in Occidente varie leggende circa l’esistenza, oltre la Terrasanta e nelle Indie, di un potente re di nome Presbyter Johannes, cioè “prete Gianni”. Il primo a raccontarlo per iscritto fu, nel 1147, il cronista tedesco Ottone di Frisinga che, nella sua Chronica, cita «un certo Prete Gianni, che abita nell’estremo Oriente oltre la Persia e l’Armenia, re e sacerdote, cristiano come le sue genti, ma nestoriano». Un regno immenso,


il suo, situato ai confini dell’Asia, dove ancora nessuno, tra gli occidentali, era mai penetrato. La sua terra era leggendaria e popolata di ogni genere di animali e piante, di strani uomini con caratteristiche a metà tra il misterioso e l’orrido. Il prete Gianni era ricchissimo: il suo palazzo sterminato traboccava, secondo i racconti, di oro e pietre preziose. Ma era anche pio e generoso: non appena seppe della caduta della Terrasanta in mano agli infedeli, sarebbe addirittura partito per liberarla. Era talmente virtuoso che persino gli stessi sudditi si accoppiavano solo per generare e non esistevano né ladri né criminali. Verità o fantasia? Nella seconda metà del XII secolo l’imperatore di Bisanzio Manuele Comneno ricevette dal fantomatico re una presunta lettera, che poi girò in Occidente a Federico Barbarossa. Lo scritto ebbe un immenso successo per tutto il Medioevo, tanto che lo stesso Marco Polo, oltre un secolo dopo, si trovò a parlare del prete Gianni quasi come se lo avesse visto di persona. Il regno, in realtà, non è mai esistito. Si formò, col tempo, nell’immaginazione degli occidentali, che non essendosi mai spinti tanto in là traevano le loro informazioni dai racconti dei mercanti, a loro volta raccolti dai carovanieri che si muovevano lungo la Via della Seta. Racconti che si saldavano con quanto avevano scritto gli autori antichi, da Plinio a Solino, da Marziano Capella ai Padri della Chiesa. In essi comparivano anche strani esseri ai confini della realtà: gli sciapodi, uomini dotati di una sola gamba e un solo, enorme piede, che vivevano nell’Indie; i blemmi in Africa, senza testa e con la faccia sul petto; i panozi, dotati di smisurate orecchie... Sintetizzate dal grande enciclopedista Isidoro da Siviglia nel VI-VII secolo, tali cognizioni immaginarie fornirono – mostri a parte – la descrizione del paradiso terrestre, situato dalla tradizione appunto in Asia. E diedero agli uomini del Medioevo un luogo magico, quasi un modello cui aspirare, ma che come i sogni non avrebbe potuto mai essere raggiunto.

40 F. Garofalo, San Virgilio di Salisburgo, ovvero la Terra è rotonda, sul sito:http://ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com/2013/01/16/san-virgilio-di-salisburgo-ovvero-la-terra-erotonda. Un ringraziamento particolare all’autrice.


41 S. Bortolami, «Locus magne misericordie». Pellegrinaggio e ospitalità nel Veneto medioevale, in A. Rigon (a cura di), I percorsi della fede e l’esperienza della carità nel Veneto medievale, Poligrafo 2002, p. 81-132. 42 Ibidem. 43 Il nestorianesimo, elaborato dal patriarca di Costantinopoli Nestorio nel V secolo, sosteneva che in Gesù Cristo coesistessero due distinte persone, l’Uomo e il Dio, e che Maria era madre solo della persona umana. Il nestorianesimo rifiuta quindi il titolo di “madre di Dio” a Maria, che è solo “madre di Cristo”.


5 In cucina e a tavola

Al contrario di quanto si potrebbe pensare, i secoli del Medioevo in cui l’alimentazione fu qualitativamente migliore furono quelli iniziali. Carestie a parte, i grandi spazi incolti formatisi in seguito allo spopolamento causato dalle guerre e dalle invasioni erano infatti utilizzati ampiamente per l’allevamento: di bovini, ovini e caprini i pascoli e le aree più impervie, di suini le foreste e i boschi. La carne, quindi, era diffusa anche sulle tavole dei meno abbienti, soprattutto quella di maiale, il cui consumo massiccio fu importato nel mondo mediterraneo dai barbari. Gli ultimi secoli furono invece caratterizzati da una maggiore diversificazione alimentare: i ricchi mangiavano cacciagione e carni, i poveri legumi e cibi più frugali. Le spezie, usate non per camuffare i sapori ma per ostentare ricchezza, si imposero come status symbol. E se nei conventi si predicava (e si praticava con tutti i distinguo del caso) la morigeratezza, fuori dai chiostri i bagordi servivano – quando si poteva – anche a esorcizzare nel godimento il sempre incombente pericolo delle carestie.


Il fiero pasto Partiamo dall’inizio e prendiamo ad esempio i longobardi, che calarono in Italia nel 568 conquistando nel giro di pochi anni gran parte della penisola. I dati ricavati grazie all’analisi chimica dei resti ossei rinvenuti in due necropoli di Cividale del Friuli (Udine) dimostrano che la popolazione in quest’epoca mangiava molto e in modo variegato, anche se con qualche differenza dovuta al censo. Se le sepolture di Santo Stefano in Pertica sembrano attestare una prevalenza del consumo di carne rossa, quelle di San Mauro suggeriscono un utilizzo più corposo di cereali e verdure. Probabilmente si trattava di aree cimiteriali appartenenti a classi sociali distinte. Ma anche i resti rinvenuti nella necropoli dei meno abbienti contengono un elevato rapporto tra zinco e sodio, proprio di un consumo di carne comunque decisamente abbondante. Il prevalere dell’incolto rispetto agli ordinati campi coltivati consentiva del resto di praticare ampiamente l’allevamento, la pesca e la caccia, che in piena conformità con lo spirito delle genti germaniche – nomadi e dedite alla pastorizia – divenne anche nell’Italia altomedievale il principale mezzo di sostentamento. La base dell’alimentazione era costituita da selvaggina, pollame, ovini, cinghiali e maiali, questi ultimi allevati allo stato brado nei boschi e nutriti di ghiande, mentre i bovini erano utilizzati per i lavori nei campi e macellati solo in tarda età, quando ormai non rendevano più. L’importanza del maiale era decisiva, al punto che serviva come “unità di misura” per calcolare la grandezza dei boschi, determinata in base al numero di capi che poteva sostentare. Monasteri e signori stabilivano inoltre per i loro massari i canoni da pagare, oltre che in cereali, anche fissando un numero specifico di maiali (e altri animali) da consegnare ogni anno. A differenziare le diete non era tanto la qualità del cibo quanto, semmai, la quantità. Nella mentalità germanica, il guerriero – che era parte dell’aristocrazia – “doveva” mangiare molto perché solo così poteva essere valoroso, robusto e anche fisicamente imponente. Era un segno distintivo cibarsi soprattutto di grandi quantità di carne ed era intollerabile farne a meno, in quanto era indicatore della forza e della violenza che contraddistingueva chi aveva il compito di fare la guerra. Solo tenendo presente questo concetto si può comprendere appieno la gravità della punizione – descritta in un capitolare dell’811 e che prevedeva la proibizione di cibarsene – riservata a chi era renitente o si presentava in ritardo alla chiamata alle armi. Era, insomma, come


negare l’appartenenza al gruppo dominante. Un aneddoto citato da Massimo Montanari, storico dell’alimentazione nel Medioevo, aiuterà a chiarire il concetto: Quando Carlo Magno si accorge che un suo commensale ha bestialmente spolpato e sminuzzato una gran quantità di ossa, succhiandone il midollo e facendone un mucchio sotto la tavola, non esita a riconoscere che deve trattarsi di un “fortissimo soldato” e a identificarlo con Adelchi, figlio del re dei longobardi. «Mangiava come un leone che divori la preda», si dice di lui, e la malcelata ammirazione dei presenti è la miglior prova di quello che si intendeva allora per virilità. In fondo aveva ragione Aristofane: «I barbari ti credono uomo solo se sei capace di mangiare una montagna»44. Lo stesso Carlo era in effetti un grandissimo mangiatore. Stando al suo biografo Eginardo, nonostante la gotta, faceva come gli andava e ai medici che gli consigliavano (leggi: vietavano, ma era pur sempre un sovrano!) di evitare gli arrosti e prediligere i lessi, rispondeva come si può facilmente immaginare. Sulle tavole le stoviglie erano semplici: ciotole, tazze, cucchiai per lo più di legno, materiale poco costoso e facilmente trasportabile. La forchetta nell’Alto Medioevo non esisteva e si mangiava con le mani, tagliando il cibo e infilzandolo con il coltello. La ceramica compariva di solito sulle mense più ricche: olle, ciotole, brocche e vasi a sacchetto decorati con motivi geometrici a stampiglia oppure a traslucido. Accanto alle carni, soprattutto le classi meno abbienti consumavano ortaggi e legumi in abbondanza, il più delle volte sotto forma di zuppe. La loro varietà ci è nota attraverso il Capitulare de villis, la celebre legge emanata proprio da Carlo Magno nel 795 per riorganizzare le fattorie (villae appunto) del regno. Al capitolo 70 elenca tutte le coltivazioni indispensabili nelle ortaglie: Vogliamo che nell’orto sia coltivata ogni possibile pianta: il giglio, le rose, la trigonella, la balsarnita, la salvia, la ruta, l’abrotano, i cetrioli, i meloni, le zucche, il fagiolo, il cumino, il rosmarino, il careium, il cece, la scilla, il gladiolo, l’artemisia, l’anice, le coloquentidi, l’indivia, la visnaga, l’antrisco, la lattuga, la nigella, la rughetta, il nasturzio, la bardana, la pulicaria, lo snúmio, il prezzemolo, il sedano, il levistico, il ginepro, l’aneto, il finocchio, la cicoria, il dittamo, la senape, la satureja, il sisimbrio, la menta, il mentastro, il tanaceto, l’erba gattaia, l’eritrea, il papavero, la bieta, la vulvagine, l’altea, la malva, la carota, la pastinaca, il bietolone, gli amaranti, il cavolo-rapa, i cavoli, le cipolle, l’erba cipollina, i porri, il rafano, lo scalogno, l’aglio, la robbia, i cardi, le fave, i piselli, il coriandolo, il cerfoglio, l’euforbia, la selarcia. E l’ortolano faccia crescere sul tetto della sua abitazione la barba di Giove. Quanto agli alberi, vogliamo ci siano


frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi. Nomi di mela: gozmaringa, geroldinga, crevedella, spiranca, dolci, acri, tutte quelle di lunga durata e quelle da consumare subito e le primaticce. Tre o quattro tipi di pere a lunga durata, quelle dolci, quelle da cuocere, le tardive. Identificare alcune di queste “erbe” è quasi impossibile. Ma quello che importa è mostrare come nell’Alto Medioevo si avesse a disposizione varietà e quantità non solo per i ricchi, ma anche per il resto della popolazione. Il formaggio era prodotto con latte ovino e caprino, più salato e aromatico, ed era molto apprezzato il latte cagliato – antenato dello yogurt – che ad esempio i longobardi (ma non solo) avevano imparato a conoscere dalle genti delle steppe con cui erano stati in contatto durante il loro soggiorno nelle vaste pianure della Pannonia (all’incirca corrispondente all’odierna Ungheria). I condimenti più utilizzati, il lardo e lo strutto, garantivano un apporto calorico adeguato alla vita e al lavoro all’aperto, così come la frutta secca. Per insaporire (e conservare) i cibi si ricorreva alle spezie, mentre per dolcificare si usava il miele, perché lo zucchero di canna era difficile da reperire e molto costoso.

Le bevande degli dèi Si beveva soprattutto birra, che a differenza della nostra non era gasata e aveva un colore più scuro e una consistenza molto più corposa, mentre diffuso soprattutto tra i guerrieri era l’idromele, bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione del miele e dalla forte valenza rituale, sorbito durante cerimonie e banchetti nei caratteristici “corni potori”. Nelle saghe nordiche Odino, il capo delle divinità di Ásgarðr, è considerato il dio che ha portato l’idromele agli uomini. Ma l’Edda in prosa di Snorri Sturluson (1178-1241) racconta che prima ancora furono i due nani Fialarr e Galarr a produrlo: A lungo egli andò per il mondo per recare agli uomini saggezza, ed egli venne ospite da due nani, Fialarr e Galarr, e costoro lo invitarono a un colloquio privato e lo uccisero; fecero scorrere il suo sangue in due recipienti e in una caldaia, essa ha nome Odrerir e i recipienti si chiamano Son e Bodn. Mischiarono il sangue con del miele e ne venne quell’idromele che chi ne beve diviene poeta e uomo sapiente. I nani raccontarono agli Asi che


Kvasir era soffocato nella sua stessa sapienza, poiché non c’era nessuno tanto saggio da poter attingere al suo sapere. Poi Odino, fuggendo sotto forma di aquila, «lasciò cadere all’indietro un po’ di met [idromele, n.d.a.] e nessuno se ne avvide, e lo ebbe chiunque ne volle. Noi la chiamiamo “la parte del poetastro”. E Odino donò l’idromele agli Asi e a quegli uomini che sanno poetare. Per questo noi chiamiamo la poesia “preda” oppure “scoperta” di Odino e “sorso” di lui e suo “dono” e anche “bevanda degli Asi”». L’idromele, dunque, bevanda divina per eccellenza, divenne onnipresente sulle tavole e nei banchetti – la servono le valchirie ai guerrieri nel Valhalla (l’aldilà norreno dei morti in battaglia) – ed era consumata ritualmente in apposite sale (höll, appunto). Tale usanza è testimoniata sia dalla letteratura – il palazzo di Hrothgar nel Beowulf (poema epico sassone dell’VIII secolo) – sia dai ritrovamenti archeologici, come la longhouse (“casa lunga”) del IX secolo scoperta a Lejre, in Danimarca, lunga ben ventotto metri e mezzo. Le bevande si sorbivano da coppe o bicchieri di legno; il vetro – per calici e corni finemente decorati – era appannaggio solo dei ceti più in vista. Esisteva anche un’usanza che oggi definiremmo macabra, ma che in realtà andrebbe interpretata sotto tutt’altro punto di vista. È notissima la libagione imposta dal re longobardo Alboino alla moglie Rosmunda, costretta a bere usando come coppa il teschio del padre Cunimondo da lui stesso ucciso. La vicenda avvenne durante un banchetto a Verona ed ebbe conseguenze drammatiche: la donna trescò con il fratello Elmichi e il possente guerriero Peredeo facendo assassinare il marito, il 26 giugno 572. Ma il brindisi nel teschio in realtà pare non avesse alcun valore di dileggio: conservare il cranio del nemico ucciso e usarlo come coppa per bere era infatti un tributo alla sua forza e un tentativo di farla propria. Quello di Alboino, dunque, non fu un affronto ma un riconoscimento al valore di Cunimondo e, forse, addirittura un’offerta religiosa e di pace secondo un’usanza che aveva appreso in Pannonia dagli avari, ferocissima popolazione delle steppe. La bevanda “ordinaria” per i germani, che pure conoscevano e apprezzavano il vino per via dei contatti col mondo mediterraneo, era come detto per lo più la birra. Non si creda, però, che sia stata “inventata” da loro. In realtà le prime testimonianze del suo utilizzo ci portano all’antico Egitto e addirittura ai Sumeri. La birra, inoltre, era ben conosciuta anche da noi ben prima dell’arrivo dei germani. La più antica testimonianza di produzione oltralpina risale al IX secolo a.C.: si tratta di un’anfora rinvenuta vicino a Kulmbach nel Nord-est della Baviera. Ma già i celti golasecchiani (IX-IV secolo a.C.), stanziati tra il Ticino e le sponde dei laghi Maggiore e di Como, erano notevoli produttori di birra. In una


necropoli ritrovata nel 1995 a Pombia (Novara), una tomba miracolosamente intatta ha restituito oltre al classico corredo un bicchiere globulare, molto diffuso all’epoca, il cui fondo conservata un deposito rossastro simile a sabbia finissima. Si trattava dei resti liofilizzati di una bevanda fermentata a base di cereali, quasi certamente birra rossa, ricavata da orzo e altri cereali e – novità assoluta – infiorescenze di luppolo. I reperti sono databili alla metà del VI secolo a.C. Dal punto di vista meramente storico, invece, l’uso di questa pianta come ingrediente nella produzione è testimoniato per la prima volta nell’822 (compare negli scritti di un abate) e, soprattutto, dall’opera della dottissima badessa Ildegarda di Bingen, che nel 1067 lo cita espressamente scrivendo: «Se qualcuno intende fare della birra con l’avena, la prepari col luppolo». Se il processo fermentativo non aveva successo (a volte lo si innescava con un semplice sputo: la saliva contiene enzimi...), si provvedeva a inserire miele o frutta, ricchi di lieviti naturali: il sapore della birra antica era quindi molto diverso da quella a cui siamo abituati noi, anche perché era servita a temperatura ambiente. Non stupisce che i romani, grandi amanti (come i greci) del vino, la considerassero una bevanda barbara. Ma c’è da dire che anche il vino che bevevano loro non aveva assolutamente nulla a che vedere col nostro: era allungato con acqua o miele per abbassare la gradazione alcolica e aromatizzato con spezie. Il mondo mediterraneo restò a lungo abbastanza scettico e tutto sommato impermeabile all’uso della birra. Ancora nel 1256 il medico Aldobrandino da Siena, che visse a lungo in Francia e quindi la conosceva bene, ne parlava in questi toni: Comunque con qualsiasi cosa venga prodotta, sia con l’avena, sia con l’orzo o con il frumento, fa male alla testa e allo stomaco, causa una cattiva respirazione e rovina i denti, riempie lo stomaco con fumi dannosi, e chiunque la beva insieme al vino diventa ubriaco rapidamente; ma ha la proprietà di facilitare la minzione e rende la pelle bianca e liscia. La cultura del vino si affermò non senza resistenze. Un episodio del VI secolo è eloquente: Childeberto re dei franchi ordinò a un monaco di andarsene da un terreno che aveva occupato senza averne diritto, e lui in risposta gli offrì, come segno di pace, un boccale di vino ricavato dalle uve che aveva piantato. Il re rifiutò quel “succo volgare” e se ne andò. Dopo un po’ il cavallo si bloccò come per incanto e il re capì di aver commesso un’ingiuria. Quindi tornò indietro e bevve il vino. Al di là della metafora edificante, è evidente che nei secoli dell’Alto Medioevo gli usi dei germani cozzassero ancora poderosamente contro quelli delle genti “latine”, e il “conflitto” sarebbe proseguito a lungo. La vita


dell’irlandese Colombano, scritta dal suo discepolo Giona di Bobbio dopo la morte del santo, lo ritrae in alcuni episodi “conditi” di birra. Mentre si trovava tra i germani pagani in Svevia cercando (con fatica) di convertirli, venne a sapere che intendevano fare un sacrificio secondo le loro usanze. Davanti a loro era dunque pronto un grande calderone ripieno di cervogia, ossia di birra. Colombano vi soffiò allora dentro e, come per incanto, il recipiente si frantumò lasciando uscire insieme al liquido anche il demonio, che evidentemente intendeva impadronirsi delle anime dei partecipanti al rito proprio attraverso la bevanda. Ma il rapporto tra il santo irlandese e la birra non fu sempre così conflittuale. Del resto a Luxeuil e in genere in tutti i cenobi d’Irlanda, mancando del tutto il vino, era quella la bevanda che si beveva: e infatti un episodio ricorda che a Colombano fu chiesto, visto che mancava, di provvedere alla sua “moltiplicazione” insieme a quella del pane, miracolo che ricorda quello evangelico del pane e dei pesci.

Il trionfo (?) di Bacco Con la progressiva diffusione del cristianesimo, anche nel Nord Europa e nelle zone di influenza germanica alcune abitudini cambiarono. Spinto anche da motivi di carattere liturgico e simbolico-religioso, si fece più diffuso il vino (e di conseguenza la viticoltura si spinse addentro le aree settentrionali fin dove le condizioni climatiche lo consentivano) e il pane, abbastanza trascurato in economie che si basavano molto sulla caccia, la raccolta e l’allevamento e poco sulla cerealicoltura. Sulle tavole fece sempre più spesso la sua comparsa dunque anche il pane, in prevalenza nero, di segale, mentre quello bianco potevano permetterselo solo i più abbienti. E di pari passo, si diffuse anche un altro modello culturale in riferimento al cibo: quello del monaco e dell’asceta, che contenevano (o addirittura rifiutavano) il nutrimento e in particolare la carne come mezzo per mortificare il corpo e raggiungere l’agognata ricompensa celeste. Questo, naturalmente, in linea teorica: non mancano esempi di prelati e altri uomini di chiesa, soprattutto appartenenti all’aristocrazia, che mantenevano il comportamento tipico delle loro casate. Ma in genere il digiuno o un’alimentazione basata sui vegetali, meglio se crudi, era raccomandato agli ecclesiastici perché equivaleva a rinunciare ai piaceri del mondo. Si credeva, in particolare, che mangiare (e bere) smodatamente favorisse il calore del corpo e quindi l’impulso sessuale. Qualche citazione chiarisce meglio il concetto, diffuso


in tutto il Medioevo: dai Padri della Chiesa («Sono nocivi tutti i cibi che ne [del corpo] aumentano l’eccitazione, e che aiuta meglio la salute ingerire sempre alimenti freddi»: san Gerolamo, 347-420) ai teologi («I genitali sono incitati all’accoppiamento con tanto maggior ardore quanto più lo stomaco è riempito dall’abbondanza di cibi e dall’ingurgito di bevande»: san Pier Damiani, 10071072) passando per i diktat addirittura del papa («Dalla gola nasce la lussuria»: Gregorio Magno, 540 ca.-604). Logico dunque che in primis le Regole monastiche insistessero sulla continenza per rendere più facile per i frati... l’astinenza. Poiché il consumo di carne richiamava la triade “maledetta” corpo-piacerepeccato, il divieto era in genere perentorio: come altro interpretare la maggior parte delle Regole monastiche più rigorose, come quella del citato san Colombano? In altri casi (la Regula Magistri, cap. LII, sec. V-VI), la si consentiva anche se «abstinere vero melius», cioè astenersene era meglio. Ma non sempre gli ecclesiastici riuscivano nel loro intento. Certo, abbiamo testimonianze (letterarie, ma comunque significative) di ascetismi estremi come quello dell’eremita Paolo, che si trova nella Navigazione di san Brandano: il santo – si ricorderà – ha vissuto su un’isola deserta, tra le caverne, per novant’anni, come specifica egli stesso «trenta nutrendomi di pesce e sessanta dell’acqua della sorgente». Campando in questo modo almeno cento cinquant’anni. Il vescovo di Langres si mortificava mangiando pane d’orzo, considerato il peggiore di tutti e, per non dar mostra delle sue virtù, lo faceva di nascosto. Sappiamo dalle Vite dei Padri del deserto che sopravvivevano cibandosi di locuste e di ciò che cresceva spontaneamente, cioè quasi nulla a parte erbe e radici amare. Alcune di esse non erano commestibili e creavano crisi di vomito a volte letali (e, aggiungiamo noi, possono anche spiegare in modo forse più razionale le visioni di lotta col demonio che Antonio abate, in primis, ebbe più e più volte). Quando il santo era ormai allo stremo perché per timore di avvelenarsi non toccava più cibo, di solito appariva un deus ex machina: un animale – di solito una capra – giungeva sul posto e separava le erbe buone da quelle grame permettendo di alimentarsi senza rischi. Una dieta del genere potrebbe sembrare poverissima. Ma molti anacoreti pare superassero il secolo di vita: primo fra tutti il già citato Antonio abate, che morì a centosei anni. Di certo l’aspetto di questi uomini doveva incutere venerazione (e forse anche timore) perché erano magri fino al limite della sussistenza.


Il cibo e la penitenza Ma era così ovunque? Assolutamente no. A partire dal Mille, il problema è che spesso chi diventava monaco apparteneva all’aristocrazia e la sua mentalità era la stessa di quella dei ricchi del tempo, che identificavano il consumo di carne con un concetto di forza e di potere. Rinunciarvi significava quindi doppiamente rinunciare al mondo: sia quello “fisico”, sia quello “culturale” cui si era sempre appartenuti. E se qualcuno, monaco ma anche laico, in certi momenti dell’anno, sgarrava? A determinare la punizione adatta c’erano i Libri penitenziali, che contenevano dei veri e propri “tariffari” per emendare i peccati più diversi. Leggiamo uno dei più importanti, quello compilato tra il 1008 e il 1012 da Burcardo, vescovo di Worms e insigne giurista, a proposito della punizione per chi trasgrediva il digiuno prescritto: Hai rotto il digiuno quaresimale prima dei vespri, a meno che non fossi ammalato? Tre giorni di penitenza a pane e acqua per ogni giorno che non hai digiunato. [...] Hai disprezzato i giorni di digiuno stabiliti dalla Chiesa, non osservandoli come fanno altri cristiani? Venti giorni di penitenza a pane e acqua. Hai rotto il digiuno delle Quattro Tempora o non lo hai osservato come gli altri cristiani? Quaranta giorni a pane e acqua. Hai infranto il digiuno delle Litanie Maggiori, delle Rogazioni, delle vigilie dei santi? Venti giorni di penitenza a pane e acqua. E così via, di casistica in casistica. Per chi si lasciava andare a golosità e ubriachezza? Le punizioni erano severe: Hai forse avuto l’abitudine di bere o mangiare più del dovuto? Se l’hai fatto, dieci giorni di penitenza a pane e acqua [...]. Ti sei forse ubriacato fino a vomitare? Quindici giorni di penitenza a pane e acqua. Ti sei ubriacato per scommessa, per vantarti cioè d’esser capace di battere chiunque nel bere, trascinando con la tua sciocca presunzione altri nell’ubriachezza? Se lo hai fatto, trenta giorni di penitenza a pane e acqua. Se poi a causa dell’ubriacatura si vomitava il Corpo e il Sangue di Cristo, la penitenza saliva a quaranta giorni. Tale era «l’ossessione del cibo, l’importanza data al mangiare e, per contrappeso, la sofferenza (e i meriti) delle mortificazioni alimentari». L’astinenza da certe pietanze era inoltre stabilita per tutti anche in vari


periodi dell’anno, come ad esempio la Quaresima, anche se in caso di carestia qualche tolleranza in più era ammessa: gli Annales Laureshamenses narrano, ad esempio, che nel 793 a causa della «fames validissima» molti non poterono astenersi dal consumo di carne nemmeno durante il periodo dell’anno tradizionalmente dedicato alla continenza e al digiuno. La carne era inoltre concessa a chi aveva problemi di salute e quindi, a causa della debolezza, non avrebbe potuto sopportare privazioni alimentari.

Le ghiottoneria dei conventi Tornando ora ai monaci: se non carne (ma ne siamo sicuri? Lo vedremo fra poco), cosa mangiavano? Per saperlo, leggiamo innanzitutto la Regola di san Benedetto, che ai capitoli XXXIX e XL disciplina rispettivamente la quantità del cibo e delle bevande: Riteniamo che per la refezione quotidiana, tanto a sesta che a nona, siano sufficienti per tutte le mense due pietanze cotte, in considerazione delle infermità dei vari monaci, sicché chi non potesse mangiarne una, si rifocilli con l’altra. Dunque due pietanze cotte siano sufficienti a tutti i fratelli e se ci fosse modo di avere frutta o legumi freschi, si aggiunga una terza pietanza. I pasti dei monaci avvenivano a due ore precise, il pranzo alla sesta (mezzogiorno) e la cena alla nona (le 15:00). Entrambi comunque dovevano essere consumati in perfetto silenzio, alla luce, perciò in inverno subivano delle variazioni d’orario. In cosa consistevano le «pietanze cotte»? A pranzo una era di legumi (in genere fave o piselli), l’altra di verdure (cavoli, insalata, porri, prezzemolo ecc.), cui si aggiungevano la domenica, il martedì, il giovedì e il sabato cinque uova e a volte formaggio cotto. Il lunedì e il venerdì al posto di questa «pietanza» veniva servito del formaggio crudo, molle o duro, oltre a quattro uova. La domenica e il giovedì, se disponibile, era presente il pesce. La


carne di quadrupedi non era mai consentita eccetto che agli ammalati molto deboli. A cena si stava decisamente più leggeri: frutta e cereali, una sorta di “merenda rinforzata”. Una classica ricetta cucinata a Cluny, uno dei monasteri più grandi e importanti dell’intero Occidente, intorno all’anno Mille, ci svela il particolare rituale cui venivano sottoposte le vivande prima e durante la preparazione. Per prima cosa gli addetti alla cucina di lavavano le mani e pregavano per tre volte (il numero è evidentemente simbolico). Poi prendevano le fave, le lavavano per tre volte e poi le bollivano. Quelle che rimanevano a galla o si attaccavano al fondo del tegame erano eliminate. Appena i baccelli cominciavano ad aprirsi, le fave venivano tolte e passate per tre volte in acqua fredda. Infine, terminavano la bollitura in un altro recipiente insieme ad abbondante lardo. Le fave erano infine servite prive del lardo – che andava a insaporire le altre pietanze –, salate e condite con altro grasso, dando vita a un piatto sicuramente molto energetico, adatto al fabbisogno nutrizionale dell’epoca (tenendo anche conto dell’assenza di riscaldamento). Le uova erano cucinate fritte o al pepe ed erano, come si è visto, tante. Ad accompagnare il tutto, una libbra di pane, sulla cui quantità effettiva si è a lungo discusso: pare comunque non si trattasse dell’unità di misura romana, equivalente a circa 350 grammi, ma a quasi un chilo, perché a questo corrispondeva il peso di bronzo che, secondo un’antica tradizione, era conservato a Montecassino sin dai tempi dello stesso san Benedetto. Una cucina così monotona non poteva alla lunga non mettere a dura prova anche lo spirito. Non è ipotesi così errata, allora, pensare che proprio nei conventi, e proprio per alleviare tale monotonia, i frati addetti alla cucina si ingegnassero a sperimentare preparazioni “particolari” – sempre nei limiti del consentito, ovviamente! – creando ricette che poi sarebbero state alla base della gastronomia europea. Nel 1066 nell’abbazia di Westminster, ad esempio, il priore riuscì a convincere i suoi confratelli a rinunciare alla carne grazie all’abilità dei suoi cucinieri, che servirono appetitosissimi paté a base di... pesce. Evidentemente, anche tra le fredde mura dei conventi, quando serviva, la necessità aguzzava l’ingegno. Quanto alle bevande, il vino era consentito ma in quantità più che moderata: nonostante la Regola insista sul fatto che «il vino non è assolutamente per i monaci», ammette che «ai nostri tempi non è possibile convincerli». Concessa quindi un’emina al giorno, ossia circa mezzo litro, non di più, servita in un contenitore che ne conteneva il doppio (quindi per soddisfare la sete di due monaci). A Cluny si mantenne l’abitudine di bere “in coppia” fino al XII secolo, quando venne introdotto il bicchiere “a testa”. Ovviamente non bisognava esagerare sia nel mangiare sia nel bere perché «niente è così contrario a ogni


cristiano quanto la gozzoviglia, come dice nostro Signore: “State attenti che la gozzoviglia non aggravi il vostro cuore”». Da evitare assolutamente l’ubriachezza, anticamera del peccato: infatti «il vino fa traviare anche i saggi». Peccato però, come ricordano i noti versi dei Carmina Burana tratti dal brano In taberna – citiamo l’intera quartina –, che i membri del clero l’osteria la frequentassero eccome: «Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus, bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla...» (“Beve quello e beve quella, beve il soldato, beve il prete, beve lui, beve lei, beve il servo con l’ancella”), ed essendo oltretutto frequentata da entrambi i sessi, era facilissimo cadere anche in altri tipi di tentazione... E come non ricordare, sempre dai Carmina Burana, il famoso abbas Cucaniensis (l’abate del Paese di Cuccagna) che svolge i suoi concili «cum bibulis», cioè coi beoni, tirando tardi fino all’alba? Carmi scherzosi, certo, dovuti al clima goliardico studentesco che fiorì intorno all’ambiente universitario dei “chierici vaganti” tra XI e XIII secolo. Ma che sicuramente satirizzavano qualcosa che forniva vera materia per i loro lazzi. Che chierici e prelati fossero tentati dalla buona tavola, del resto, appare un po’ in tutta la novellistica tardomedievale e anche nell’aneddotica. Basti ricordare papa Martino IV, al secolo Simon de Brion (1210-1285), posto addirittura da Dante nella sesta cornice del purgatorio, tra le anime dei golosi, a causa della sua famosa passione per le anguille alla Vernaccia45... Prima si è citato il divieto relativo alla “carne di quadrupede”: ossia quella di bovini, suini ed equini, in massima parte. Il che, evidentemente, lasciava ampio spazio alla fantasia per quanto concerneva, ad esempio, la carne di volatili e soprattutto (e qui i bestiari medievali soccorrevano a piene mani) di altri animali come il castoro, che era ammesso sulla tavola perché assimilato al pesce. Come mai? Perché la sua coda... restava sempre nell’acqua. L’importante era che le carni consumate non fossero “rosse”, colore che richiamava la violenza ma anche il tabù – che proveniva dal mondo ebraico ma che circolava anche nell’Occidente cristiano – del sangue. «Le norme del XIII secolo vietano rigorosamente ai cristiani di acquistare in macellerie ebraiche la carne non consumata dagli stessi ebrei, e che i cristiani considerano insieme come carne contaminata di sacrilegio e sanguinolenta, e fatta di scarti», scrive Jacques Le Goff. Andavano bene quindi le cosiddette “carni bianche”: la capra, la pecora, l’agnello, i polli (il tacchino no: arrivò ovviamente dopo la scoperta dell’America).

Mangiare poco o mangiare tanto?


Mangiare poco o mangiare tanto? Ma era vero che i monaci mangiavano “poco”? Non si direbbe, almeno stando a recenti calcoli. Nei monasteri più ricchi le razioni quotidiane raramente scendevano sotto le 5-6000 calorie. Ad Aquisgrana (siamo nell’anno 816) i canonici mangiavano, secondo quanto stabilito, così tanto rispetto a quanto era considerato “normale” che il sinodo lateranense del maggio del 1059 definì le razioni «adatte alla ghiottoneria dei ciclopi più che alla temperanza cristiana». I periodi di digiuno, ossia in cui si mangiava un solo pasto al giorno, erano parecchi: non solo i classici quaranta giorni della Quaresima ma anche i cinque mesi che intercorrevano fra le Idi di settembre (13 settembre) e la Quaresima stessa, e i mercoledì e i venerdì fra la Pentecoste e le Idi di settembre. Alla fine, facendo quattro conti, i monaci avevano diritto a due pasti al giorno solo da Pasqua a Pentecoste e durante le festività di Natale, l’ottavo giorno dopo Natale, l’Epifania, la domenica di Pasqua, l’Ascensione e l’Assunzione. I pasti si prendevano collettivamente e – è proprio il caso di dirlo – in religioso silenzio. Era concesso parlare solo al monaco che, mentre gli altri mangiavano, leggeva ad alta voce brani dalle Scritture. Se occorreva qualcosa, la si chiedeva a gesti. Le Regole, dunque, predicavano la morigeratezza, ma non è facile stabilire quanto venissero applicate in realtà e quindi quanto, in effetti, si consumasse nei conventi. I divieti relativi alla carne erano “aggirati” sostituendola con il pesce e coi volatili. Ma conosciamo bene le continue tentazioni cui i monaci erano sottoposti. Un episodio accaduto al già citato Pier Damiani, vescovo e cardinale nonché teologo tra i più importanti dell’XI secolo, è abbastanza emblematico. Poiché mancava il pesce, i suoi confratelli gli consigliarono di mangiare carne. Lui cercò di resistere per vari giorni, finché nell’eremo giunse un carico di pesci inviati dal conte di Imola e dalla città di Faenza. Allora Pier raccontò ai suoi l’aneddoto di un monaco che, invitato a cena da un conte, visto che mancava il pesce si gettò su un succulento pezzo di maiale e lo mangiò, convincendosi che non fosse carne. Naturalmente, arrivò subito dopo sulla mensa un grande luccio. Al monaco, che se lo mangiava con gli occhi, il conte quasi a prenderlo in giro gli disse: «Tu che hai mangiato carne come un laico, perché adesso guardi al pesce come un monaco?».

La sacralità del cibo Si è detto, a proposito dell’approccio tipicamente “barbarico” alla carne, del


legame tra abbondanza di cibo di origine animale e forza fisica del guerriero (in genere, orso o lupo). Non si può, però, trascurare anche un altro valore di questo tipo di alimento: quello sacrale. Se certo il cibo (e alcune pietanze in particolare, come il pane e il vino) rivestiva un ruolo particolare presso i cristiani perché ricordava l’Ultima Cena e il sacrificio di Gesù sulla croce, presso i germani, e prima ancora i celti e in genere tra i pagani, si perpetuava ben altro tipo di olocausto: quello del bestiame alle proprie divinità. La carne ottenuta dagli animali immolati era consumata in un banchetto rituale che era parte essenziale del culto. Si tratta di un aspetto poco noto, che quando compare nelle fonti dell’epoca lo fa con un certo imbarazzo, visto che si trattava quasi sempre di fonti o cronache prodotte da ecclesiastici e quindi che lo stigmatizzavano con forza. Eloquente, ad esempio, è un episodio che appartiene alla cultura longobarda citato nei Dialoghi di papa Gregorio Magno: i longobardi avrebbero costretto una quarantina di contadini («rustici», evidentemente italici, ossia sudditi conquistati) a mangiare carni che avevano immolato agli dèi pagani. Questi ultimi, evidentemente cristiani, non vollero farlo e pagarono con la vita il loro rifiuto. Altrettanto interessante, ma anche parecchio scabroso, è invece il “pasto rituale” che il cronista Giraldo Cambrense narra scandalizzato nella sua Topographia Hibernica, una descrizione dell’Irlanda fatta a seguito di un viaggio. Il racconto è filtrato attraverso gli occhi di un dotto ecclesiastico formatosi nella raffinata corte parigina del XII secolo ed è pertanto colmo di giudizi negativi e stereotipi su un’Irlanda barbara, selvatica e ricolma di peccatori che vivevano in condizioni bestiali: cosa che sappiamo non essere affatto vera. Se infatti la predicazione dei monaci aveva, fin dal V secolo, portato il vangelo sull’isola e riorganizzato intorno a monasteri e abbazie – che si imponevano come centri culturali e di potere – una società altrimenti dispersa “a maglie larghe” sul territorio vasto e difficile da controllare, è certo che sopravvivessero ancora (e sarebbero sopravvissuti per molti secoli) culti di chiara matrice pagana. Leggiamo il passo: Ci sono comportamenti che, se lo svolgimento della trattazione non lo esigesse, il pudore persuaderebbe a tacere. E tuttavia il rigore storico non sa risparmiare né la verità né la verecondia. Nel Cenél Conaill, all’estremo settentrione dell’Ulster, c’è una popolazione che conserva l’usanza di creare i re con un rituale particolarmente barbarico e abominevole. Tutta la popolazione della regione viene riunita in un unico luogo e in mezzo all’assemblea è condotta una giumenta bianca. Allora colui che deve essere elevato al rango non di principe ma di animale, non di re ma di fuorilegge, ha, di fronte a tutti, [con essa] un rapporto bestiale, così mostrando di essere lui


stesso una bestia. Subito dopo, la giumenta viene uccisa e tagliata a pezzi, viene fatta cuocere nell’acqua e con quell’acqua si prepara per lui un bagno. L’uomo vi si immerge e, circondato dalla sua gente, anch’egli mangia insieme agli altri le carni della giumenta che vengono loro offerte. Non con una coppa né con la mano ma solo con la bocca beve sorbendo il brodo in cui si è lavato. Quando tutto questo è terminato, la sua autorità di re e sovrano, ritualmente ma non rettamente, è consacrata.

Medioevo “speziato” Avvicinandosi all’anno Mille la nuova crescita demografica e la conseguente fame di terre coltivabili ridusse notevolmente la superficie degli incolti, i cui diritti di utilizzo, un tempo comuni, a partire dall’XI secolo iniziarono a essere progressivamente riservati ai grandi proprietari e ai signori. La conseguenza fu che i ceti più umili (soprattutto i contadini), praticamente impossibilitati a praticare l’allevamento, dovettero accontentarsi di una dieta a base di cereali e ortaggi (e in caso di carestia, erano catastrofi), mentre i secondi, praticando la caccia, continuarono a cibarsi di carne, che passò quindi da nutrimento alla portata (potenziale) di tutti a status symbol. Fu quindi nei secoli centrali del Medioevo che poveri e ricchi presero a essere tali davvero anche a tavola. E la dicotomia apparve sempre più evidente man mano che lo sviluppo delle città erodeva terreno alla campagna. Nel panorama che caratterizzò i secoli XII e XIII, l’economia europea avrebbe visto da un lato la città (e i ricchi) che mangiavano tanto, dall’altra i contadini che si arrangiavano con ciò che restava. Un indicatore importante è quello relativo all’uso delle spezie. Erano molto presenti sulle tavole dei più abbienti, ma è del tutto infondata l’opinione, ancora largamente diffusa, che servissero per coprire il gusto delle carni andate a male, oppure viceversa per permetterne una migliore conservazione. Gli unici (o quasi) a potersi permettere le costosissime spezie erano infatti i ricchi, e i ricchi consumavano carne “di giornata”, cacciata o acquistata nei mercati. Piuttosto, usare spezie in abbondanza equivaleva a ostentare le proprie ricchezze, tanto più che, oltre a essere costose (addirittura quaranta volte il prezzo pagato dai mercanti all’origine!), si riteneva provenissero da lontani “paradisi” non meglio definiti. Si pagava in spezie, si usavano le spezie per condire i cibi (secondo i manuali di medicina del tempo miglioravano la digestione perché, sprigionando calore nello stomaco, favorivano una “seconda cottura” dei cibi), si adoperavano per curare le malattie ed erano considerate potenti afrodisiaci (ma di questo


parleremo nel capitolo dedicato alla farmacopea). La loro rarità venne compromessa con la scoperta di nuove rotte di navigazione e, soprattutto, con la scoperta dell’America, ma questa è un’altra storia. Intanto, quali erano le più diffuse? Oltre al sale, che serviva per conservare i cibi e veniva utilizzato addirittura come moneta di scambio, senza dubbio la cannella. Costosissima, era un “ingrediente” per doni scambiati tra sovrani e, benché se ne conoscessero le virtù curative contro la tosse e il mal di gola, era utilizzata prevalentemente nelle cucine di corte per confezionare esclusive pietanze dolci o salate, come la salsa “camellina” inventata dal grande cuoco di corte Guillaume Tirel (1310-1395) detto Taillevent (“Tagliavento”) o come le «verte souce» citata nel ricettario di re Riccardo II d’Inghilterra (XIV secolo). Molto popolare era anche la mandorla. Era componente fondamentale del cosiddetto “biancomangiare”, che non mancava mai sulle tavole-bene in quanto simbolo di raffinatezza: si trattava di una minestra di riso cotta con latte di mandorle, zucchero e spezie. Già apprezzata dai romani come rimedio all’ubriachezza, la mandorla era amata da Carlo Magno come cibo nutriente, completo e stimolante. E in effetti aveva ragione: sul piano nutrizionale contiene il doppio delle proteine della carne di manzo. Per questo era utilizzata abbondantemente nei monasteri, dove la carne non era ammessa, per ricavarne un latte fortemente energetico. I monaci coglievano anche l’aspetto meramente simbolico del frutto: se per i “profani” la forma richiamava quella dell’organo femminile pronto ad aprirsi nell’atto di generare la vita – e quindi era usata come ingrediente (anche oggi!) per i piccoli confetti regalati durante nozze e battesimi –, per gli uomini di chiesa rappresentava la vita e quindi Cristo. E infatti, nelle architetture e negli affreschi, ma anche nelle miniature che essi stessi illustravano negli scriptoria, la mandorla era chiamata vesica piscis (“vescica di pesce”) ed era la forma ogivale ricavata da due cerchi con lo stesso raggio, intersecantisi in modo tale che il centro di ogni cerchio si trovasse sulla circonferenza dell’altro. Il simbolo dell’intersezione dei due mondi, materiale e spirituale, con Gesù a mediare tra essi: nulla di peccaminoso, dunque, anzi. Ma gli ignari monaci non sapevano (gli arabi invece sì!) che la mandorla intesa come frutto aveva anche... nascosti poteri afrodisiaci. Di quanto le spezie concorressero alla produzione di stimolanti e filtri d’amore si leggerà nel capitolo dedicato alla farmacopea. Qui basterà dire che nel gruppo degli afrodisiaci “popolari” rientrava anche una spezia comunissima come la senape, ben conosciuta – e documentata – sin dai tempi di Roma. I chiodi di garofano invece erano sinonimo di ricchezza. Ignorati dal mondo classico, si diffusero in Occidente dal IV secolo ed erano talmente costosi che una sola manciata valeva mezzo bue o un montone. Non per nulla Dante


stigmatizza, nel XXIX canto dell’Inferno (vv. 127-129), il comportamento scialacquatore di un ricco senese del Duecento, tale Niccolò de’ Salimbeni, che acquistò quantità colossali di chiodi di garofano per aromatizzare le carni dei suoi lauti banchetti: e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoperse nell’orto dove tal seme s’appicca. Tanto che un commentatore dantesco, Benvenuto da Imola, sostiene che il giovane fece addirittura arrostire la carne non su legno ma su una brace di chiodi di garofano, mandando inutilmente in fumo una cifra astronomica: «Ista», chiosa infatti, «fuit expensa maxima vanissima». Il pepe, comunque, era sempre sovrano: ne esisteva uno particolare – chiamato appunto “pepe dei monaci” – che serviva a sbollire gli ardori che tormentavano i chierici nelle celle dei conventi. Nelle corti, invece, si abusava delle spezie per ostentare ricchezza e certo gli stomaci dei commensali dovevano essere veramente forti per riuscire a digerire – tanto per fare un esempio – un brodo in cui «erano stati decotti ventisei grammi di chiodi di garofano, tre noci moscate, pepe, zenzero, cannella e zafferano».


Il galateo a tavola L’educazione a tavola rimase, almeno fino al Duecento, quasi un optional. Si è ricordata addirittura l’ammirazione che un sovrano come Carlo Magno provò nei confronti dell’ignoto forestiero che si gettava bramosamente sul cibo quasi a sbranarlo, considerando ciò una virtù e non un segno di scarso rispetto per i commensali. In genere si mangiava con le mani, al più aiutandosi con un coltello e del pane. Per questo il cibo era servito già porzionato. Tra una portata e l’altra, però, ci si lavava le mani in appositi “acquamanili” che, a corte, erano riempiti di acqua profumata con essenze o petali di rosa. L’uso della forchetta non si diffuse in Europa fino all’età moderna, ovvero all’inizio del XIV secolo, e soltanto in Italia. Non che prima non fosse presente: la troviamo infatti ritratta in alcuni manoscritti dell’XI secolo tra cui il De Universo di Rabano Mauro e in una miniatura del Sacramentario di Warmondo raffigurante le nozze di Cana. Era però considerata un utensile da cucina e non un modo per prendere il cibo e portarlo alla bocca. L’abitudine più diffusa restò quella di mangiare con le mani perché ciò era ritenuto un modo – in un’epoca del resto molto “fisica” come il Medioevo – per apprezzarlo meglio. Non che ci si avventasse su di esso con incontrollata ingordigia: occorreva prenderlo tra il pollice, l’indice e il medio, altrimenti si era disprezzati alla stregua delle bestie. Non era però così dappertutto. Questo aneddoto lo chiarisce bene. Quando, e siamo alla fine dell’XI secolo, la principessa bizantina Teodora Anna, figlia dell’imperatore Michele VII Ducas, futura moglie del doge di Venezia Domenico Selvo, giunse nella Serenissima per conoscere il suo sposo, pretese non solo di lavarsi con acqua di rugiada aromatizzata di fiori, ma che i suoi cibi fossero tagliati dai suoi servitori eunuchi e di servirsi di una forchetta d’oro per mangiare. I commensali rimasero sconcertati e Pier Damiani – che oltretutto predicava apertamente la sporcizia come segno di umiltà e virtù del buon cristiano! – stigmatizzò in modo virulento il suo comportamento parlando di superbia e quando la poveretta morì, ancor giovanissima, a causa di una tremenda forma di cancrena, il vescovo di Ostia scrisse soddisfatto che il suo corpo, «nonostante la sua eccessiva schizzinosità, si decompose completamente». Cioè come tutti gli altri. La forchetta comunque si diffuse sulle tavole dapprima dei più abbienti, poi anche in altri ceti sociali lentamente e inesorabilmente via via che venivano introdotte nuove pietanze che richiedevano un aiuto concreto per essere gustate.


Ad esempio, la pasta lunga. Fallito il tentativo di arrotolarla attorno a un bastoncino di legno, ci si arrese alla forchetta – «strumento del demonio» per i moralisti più intransigenti – tanto che, ad esempio, nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1400) appare sulla tavola di un certo Giovanni che si trovò a dividere la mensa con un grande ghiottone di nome Noddo d’Andrea: poiché il primo, usandola, mangiava lentamente rispetto al secondo che invece ingurgitava i maccheroni ancora bollenti, anche il mangione dovette risolversi a decelerare visto che nel frattempo il commensale si era messo a gettare la pasta al cane per evitare che Noddo si mangiasse anche la sua parte (Novella CXXXIV).

Essere a dieta o stare a dieta? Quanto consumavano, in effetti, i nostri avi? È stata tentata da alcuni studiosi inglesi una stima del fabbisogno calorico di un contadino medio attivo nell’Europa medievale. Soltanto per dormire e camminare, in un’epoca in cui si andava quasi sempre a piedi, un adulto consumava circa 1800 calorie al giorno. A ciò si aggiungeva il dispendio energetico dovuto al lavoro quotidiano, che poteva arrivare alle dodici ore. Ecco un’ipotesi di consumo di calorie da parte di un adulto (la cifra è calcolata su otto ore): Donna (30 anni, 165 cm, 55 kg) Dormire: 392 kcal Camminare (velocità 5 km/h): 1437 kcal Attività di giardinaggio: 1960 kcal Stare in piedi o svolgere lavoro di moderata intensità: 1742 kcal Trasportare l’acqua: 1960 kcal Tagliare la legna: 5552 kcal (in 6 ore) Prendersi cura degli animali: 2613 kcal Uomo (30 anni, altezza 165 cm, 55 kg) Dormire: 392 kcal Camminare (velocità 5 km/h): 1437 kcal Lavori da carpentiere: 3266 kcal Fare il fieno: 3484 kcal Badare agli animali: 2613 kcal Zappare: 3701 kcal Tagliare la legna: 7403 kcal Da ciò si desume che un uomo giovane e attivo avesse un fabbisogno calorico estremamente alto se paragonato ai nostri: dalle 5 alle 6000 calorie. La


donna, che aveva oltre al lavoro nei campi e in fattoria (più leggero, ma non è detto) anche il compito di accudire (magari allattare) i figli, più o meno lo stesso. Non stupisce, quindi, che la dieta fosse molto ricca di legumi, uova, grassi. Ecco tre diete tipo. Dieta 1 3 uova, 750 g di pulmentum (la solita pietanza a base di legumi), 1 litro e ½ di birra, 240 g di formaggio. Totale: 3515 kcal Dieta 2 500g di fagioli conditi col lardo, 750g di pane, 1 litro e ½ di birra, 1 kg di verdura. Totale: 4358 kcal Dieta 3 240 g carne di maiale, 750 g di pane, 1 litro e ½ di birra, 500 g di verdura. Totale: 4081 kcal Di certo sono supposizioni. Ma in mancanza (diciamo penuria) di documentazione diretta, a svelarci i segreti dell’alimentazione sono gli scheletri che si ritrovano nelle sepolture e i resti di pasti o di macellazione negli abitati, scavati dagli archeologi. Sul sito del castrum (“castello”) di Tremona, vicino a Mendrisio (in Canton Ticino), ad esempio, l’ultima campagna di scavi ha rimesso in luce più di 7000 frammenti ossei, in buono stato di conservazione grazie al terreno calcareo. Le ossa appartengono per lo più a mammiferi domestici: buoi, maiali, pecore e capre; in misura minore, resti di equini e di cani e un omero di gatto. Per quanto concerne la selvaggina, sono presenti resti di cervo (ossa e corna), capriolo e lepre, mentre rari sono i roditori; tra i volatili si hanno galli, colombe, tordi, corvi e passeri, rari (solo dieci) i frammenti di pesce (ciprinidi). Molti frammenti presentano tracce di macellazione e l’incisione presente su una mandibola di cane suggerirebbe addirittura un “uso alimentare” di questo animale.

Altro indice era l’usura dei denti. Facciamo un esempio. Nella necropoli del X-XIII secolo di San Lorenzo di Aversa (Caserta), i resti dei denti degli inumati hanno mostrato una bassissima frequenza di carie dentale, dato eccezionale anche rispetto ad altre popolazioni abruzzesi contemporanee: ciò suggerisce una certa arcaicità del regime alimentare. La dieta era dunque grossolana, povera di zuccheri semplici e ricca di fibre, composta di bocconi lunghi e laboriosi da masticare, i quali producevano una efficace detersione dentale (anticariogena), ma causavano contemporaneamente una forte usura dei denti. E infatti circa il 23% dei campioni di denti risulta colpito da usura grave soprattutto su molari e premolari, il che dimostra che la popolazione si cibava di alimenti piuttosto abrasivi. Non va dimenticato, ad esempio, che le farine erano macinate a pietra e spesso restavano, all’interno e se non adeguatamente setacciate, granuli e altri elementi che, masticati, alla lunga lesionavano la dentatura.

Tra terribili carestie... Se comunque alla dieta non pensavano i medici (si ricordi il caso di Carlo


Magno, che faceva sempre di testa sua), a volte a far tirare la cinghia erano le periodiche carestie che affamavano l’Europa, di solito a seguito di guerre e devastazioni. Ma non solo. Le pagine più suggestive e terribili a tal proposito sono quelle dedicate dal monaco Rodolfo il Glabro (980-1047) nel libro IV delle sue Historiae alla carestia che investì parte dell’Europa nel 1033. Segno annunciatore fu, secondo il nostro, la morte l’anno precedente di molti «vessilliferi della nostra Santa Religione»: papa Benedetto VIII, il re dei franchi Roberto II, il vescovo di Chartres e il suo amato Guglielmo da Volpiano. L’anno iniziò con un tempo così inclemente che era impossibile seminare. Piove per tre anni. Il flagello era partito in Oriente e si era poi diffuso in quasi tutto il continente fino alla lontana Anglia (ossia l’Inghilterra), infuriando soprattutto in Italia e nelle Gallie. L’inflazione era alle stelle a causa dell’estrema scarsità di cibo. Quando non ci sono più animali da mangiare – racconta inorridito il Glabro –, gli uomini, spinti dai morsi terribili della fame, si arrangiano con le carogne o con radici immonde. Fino al più indicibile degli orrori, il cannibalismo: «I viandanti venivano aggrediti da gente più robusta di loro e i loro corpi, fatti a pezzi, erano cotti sul fuoco e divorati». Non si esita nemmeno a ricorrere all’infanticidio o alla necrofagia, disseppellendo i morti e cibandosi delle loro carni. Il periodare di Rodolfo rende perfettamente il clima di orrore, di dolore e di follia irrazionale che sembrava essersi impossessata del genere umano, ridotto a un informe massa di esseri brancolanti nel fango. Gli uomini cadevano come mosche, i cadaveri giacevano dappertutto attirando i lupi e altre bestie, finché mani pietose non si decidevano a dar loro sepoltura, a mucchi di decine, in una fossa comune all’incrocio o ai lati della strada. Di quest’atrocità Rodolfo, testimone della mentalità dei monaci del tempo, riesce a darsi una sola spiegazione: la collera divina. Ed è sconcertato: neppure nei flagelli gli uomini si rivolgono, col cuore contrito e umiliati per i peccati commessi, a invocare l’aiuto di Dio. Erano crollate tutte le certezze, si temeva persino «che la successione delle stagioni e l’ordine degli elementi, che da sempre avevano regolato lo scorrere dei secoli precedenti, fossero caduti nel caos perpetuo segnando così la fine del genere umano». L’incubo durò tre anni. Poi le piogge cessarono, le campagne rinverdirono e donarono un abbondante raccolto. Tutti, memori dei recenti lutti, si comportavano da buoni cristiani. Ma lo sguardo di Rodolfo, sempre pessimista ma proprio perché in fondo ottimo conoscitore dell’animo umano, svela impietoso che «gli uomini si dimenticano presto dei benefici elargiti da Dio e, attirati come già furono in origine dal male, come il cane dal suo vomito e la


scrofa infangata dal fango in cui si rivolta, essi violarono più volte gli impegni solenni che si erano assunti di fronte a Dio». Un altro castigo era, comunque e sempre, alle porte.

...e mangiare fino a scoppiare Di banchetti pantagruelici abbiamo ampio resoconto nelle fonti. Prendiamone uno a caso. Il testimone è Salimbene de Adam, religioso e cronista di Parma (1221-1288), la descrizione riguarda la visita che re Luigi IX fece al convento dei frati minori di Sens: pane bianchissimo e ciliegie come antipasto; poi fave fresche cotte nel latte, pesci e gamberi, pasticci di anguilla; riso al latte di mandorle con polvere di cannella; ancora anguille stavolta abbrustolite e accompagnate da una salsa; e infine un profluvio di torte e frutta. Da notare che il pasto viene definito “di magro”, e quindi non sontuoso. Figuriamoci i grandi banchetti... Ascoltiamo adesso da Giovanni de Mussis quel che accadeva a Piacenza nel 1388, vero paese di cuccagna: Nel cibo tutti fanno meraviglie, soprattutto nei banchetti di nozze, che per lo più seguono questo ordine: vini bianchi e rossi per cominciare, ma prima di tutto confetti di zucchero. Come prima portata danno un cappone o due e un gran pezzo di carne per ciascun tagliere [uno serviva per due persone, n.d.a.], cotto con mandorle e zucchero e altre buone spezie. Poi si danno carni arrostite in gran quantità, ossia capponi, polli, fagiani, pernici, lepri, cinghiali, caprioli o altro, a seconda della stagione dell’anno. Poi danno torte e giuncate con confetti di zucchero sopra. Poi frutta. Infine, dopo aver lavato le mani, prima che si levino le tavole si dà da bere e un confetto di zucchero, e poi ancora da bere. Al posto delle torte e delle giuncate, alcuni danno all’inizio del pranzo delle torte fatte con uova, formaggio e latte, con sopra una buona quantità di zucchero. Per cena si danno, all’inverno, gelatine di carni selvatiche, di


cappone, di gallina o vitello, o gelatine di pesci; poi arrosto di cappone e di vitello; poi frutta. Lavate le mani, prima che si tolgano le mense danno da bere e confetti di zucchero, e poi ancora da bere. D’estate invece si dà, sempre per cena, gelatina di gallina e cappone, di vitello, capretto, maiale; o gelatina di pesci. Poi arrosto di pollo, capretto, vitello; o di papero, di anatra, o di altre carni, secondo la disponibilità del momento. [...] Il secondo giorno dopo le nozze si danno lasagne di pasta col formaggio e lo zafferano, lo zibibbo e le spezie. Poi arrosto di vitello e frutta. Per cena, ciascuno se ne torna a casa sua: la festa è finita. E meno male, verrebbe da dire!

I catari, puri e digiuni Di contro, c’era anche chi il cibo lo aveva ma lo rifiutava a priori (almeno certe tipologie) per motivi religiosi. Tra questi vanno annoverati senz’altro i boni christiani, “buoni cristiani”, come si autodefinivano: una delle sette ereticali più “pericolose” per la Chiesa, al punto che la stessa non esitò, nel 1208, a bandire contro di loro una vera e propria crociata che si risolse in un bagno di sangue e ridusse all’osso un’intera regione della Francia, la Linguadoca. Perché tanto accanimento? I catari – erano conosciuti anche così, da chataros, “puro” – moderati senz’altro non furono. Ne vedremo in dettaglio le vicende più avanti. Qui basti ricordare che cercavano la purezza a ogni costo e una nuova spiritualità, lontana dalle sirene mondane e lontana dagli apparati di potere, con cui essi non volevano avere nulla a che fare. Il loro modello di società, infatti, era completamente diverso da quello esistente nell’Europa del XII secolo anche se, a dire il vero, di tale società anche essi erano figli. La loro concezione della vita era dualistica: da una parte il bene, dall’altra il male. Il bene era identificato con lo spirito, il male con la carne. Di conseguenza, intendevano vivere secondo la purezza originaria, rinunciando alla carne e distaccandosi dai piaceri terreni per guadagnare la perfetta conoscenza della verità. La loro organizzazione era strutturata secondo un modello gerarchico: sul gradino più alto stavano i “perfetti”, coloro i quali avevano raggiunto la conoscenza. Nei gradini inferiori si trovavano gli altri adepti, che venivano progressivamente “iniziati” alla stessa conoscenza e tramite una rigida ascesi


venivano aiutati a liberarsi dei piaceri terreni e a raggiungere la perfezione dello spirito. Per ottenerla dovevano rinunciare a qualsiasi contatto di natura sessuale e a qualsiasi cibo che avesse in qualunque modo a che fare con la procreazione, cioè la carne, le uova, il formaggio, il latte. Nulla che potesse riportarli a un contatto col mondo terreno e quindi con il peccato. La loro epopea, com’è noto, finì nel sangue: dopo la distruzione di Albi in Provenza (la loro città principale) i catari o perirono o furono arrestati, o si rifugiarono nella Pianura Padana. E qui diedero nuovo impulso ai loro “fratelli” cisalpini per cui verso la metà del Duecento li troviamo a Concorezzo, nei pressi di Milano, a Desenzano, a Mantova, a Vicenza, a Verona e continuarono a essere perseguitati fino all’estinzione. Al di là degli aspetti meramente teologici, quello che qui preme sottolineare è un’esperienza rigorista molto forte che volle, in questo caso col rifiuto del cibo e di ogni compromesso, ritrovare uno spirito di purezza che pareva andare perduto. Decisamente ai limiti del patologico è invece la privazione del cibo cui si sottoponevano molte mistiche medievali, le cui sofferenze toccanti sono stati di recente analizzate come manifestazioni di una malattia che si credeva frutto della società contemporanea ma che, evidentemente, mieteva le sue vittime già in passato: l’anoressia. L’antecedente era “nobile”: Gesù stesso prima di iniziare la sua missione trascorse quaranta giorni di digiuno nel deserto. L’assenza e il rifiuto del cibo erano vissuti come il tentativo – estremo – di autodissolversi in Cristo. Per la santa anoressica non mangiare significa affermare la propria volontà, negare la propria corporeità per poter conseguire l’unica meta davvero importante, quella spirituale, ribellandosi a un sistema oppressivo che relegava spesso la donna a mero oggetto di tentazione. Ma abbiamo già parlato di queste sante alla fine del primo capitolo.

44 M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 31-32. 45 Dante, Divina Commedia, Purgatorio, canto XXIV, vv. 22-24: «ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia».


6 Artisti e intellettuali, scrittura e invenzioni

Il Medioevo è stato tutto fuorché un periodo culturalmente depresso. Ne sono prova le tante invenzioni che, in mille anni, hanno visto la luce. Gli occhiali, l’orologio, la carta, i bottoni, le cifre “arabe”, le note musicali: alcune di queste sono un’“invenzione” nel vero senso del termine; altre, un’introduzione o un adattamento di tecniche già conosciute ma altrove, fuori dall’Occidente europeo. L’Età di Mezzo è anche quella in cui l’artista ritrova, pian piano, la sua dignità di creatore di opere di valore universale. Dallo sfondo brulicante di santi e diavoli delle cattedrali romaniche, emerge lentamente dall’ombra la figura dell’artefice, che assume per la prima volta un nome e firma la propria opera. Così come, dopo un lungo monopolio ecclesiastico, nasce quella dell’intellettuale laico di professione, legato all’università e protagonista del rinnovato dibattito culturale che vivacizzava i centri cittadini. Un mondo, quello medievale, in cui la cultura viaggiava di bocca in bocca ma anche – anzi soprattutto – sui libri: copiati nei monasteri da infaticabili scribi che vergavano lentamente ogni singola lettera a lume di candela, hanno trasmesso il sapere del mondo antico e a loro contemporaneo. Consegnandoci, in molti casi, autentici capolavori dell’arte abbelliti da miniature preziose.


Non artista ma artefice «Rienhardus fecit pius hoc opus abba / per manus artificis Liebhardi Passaviensis»: il pio abate Reinardo ha fatto quest’opera per mano dell’artefice Liebardo di Passau. È un’iscrizione del 1333 murata nel monastero austriaco di Baumgartenberg ed è eloquentissima su quella che doveva essere nel Medioevo, ed era ancora in pieno Trecento, la concezione dell’artista: un mero esecutore materiale. Un artefice, appunto. La testimonianza fa il paio con quella, di qualche secolo precedente, dell’abate Sugerio di Saint-Denis (1080-1151), che non ha timore di apparire vanaglorioso o megalomane quando cita, in alcuni passi dei suoi scritti, i lavori che fece realizzare o che seguì – addirittura – come ideatore. Totalmente assente, qui come altrove, qualsiasi accenno all’atto creativo, a quel tocco “divino” che rende chi produce l’opera d’arte una sorta di vate che imita, col suo gesto, l’artefice per antonomasia, Dio. Un gesto che lo mette in condizione di partecipare della sua essenza e della sua gloria. Certo, per i teologi la perfezione del lavoro dell’artefice è sì la metafora di Dio, l’artefice del mondo. Ma per tutti gli altri, l’artista – pittore, architetto, scultore che dir si voglia – è un artigiano che possiede una tecnica, ossia una particolare perizia in quello che è, alla fine, un “semplice” lavoro manuale. Sua, dunque, è la mera realizzazione del “manufatto”. La concezione intellettuale, la soprintendenza dei lavori e anche, in ultima analisi, il merito dell’opera sono invece attribuiti al committente. All’artefice Liebardo di Passau, l’abate Reinardo concede almeno l’onore di una citazione. Ma siamo nel Trecento e le cose, per quanto lentamente, stavano cambiando anche nel freddo cuore dell’Europa. In Italia, invece, già da tempo sono all’opera un fior fiore di artisti di cui conosciamo non solo il nome ma anche – dettaglio più, dettaglio meno – la biografia: Cimabue, Duccio di Buoninsegna, Pietro Lorenzetti... Il più grande è Giotto di Bondone (1267 ca.-1337), precursore di quel Rinascimento che di lì a poco avrebbe invece, con una vera e propria rivoluzione culturale, portato l’artista al centro della scena col ruolo di grande protagonista. Prima di allora, la maggior parte degli artisti rimane anonima: in alcuni casi, laddove si riesce a individuare tratti stilistici comuni, una mano o una scuola, i capolavori sono attribuiti dai moderni a particolari “Maestri”. Abbiamo allora il Maestro di Badia a Isola, il Maestro di San Martino, quello di Tolentino, quello del Bigallo... Ma le loro vicende umane sono avvolte dalle nebbie della Storia.


Molto più conosciuti sono invece i due grandi provenienti dall’area comasca che operarono in area emiliana tra la fine dell’XI e la fine del XII secolo, Wiligelmo e Benedetto Antelami. Il primo è considerato forse il più intenso tra i maestri della scultura romanica: i rilievi che scolpì verso il 1099 nel duomo di Modena pullulano di figure vive, dotate di personalità e movimento, riprodotte con realismo e grande cura nei particolari. L’Antelami, di poco posteriore (nacque in Val d’Intelvi, sopra al Lario, intorno al 1150 e morì verso il 1230) lavorò invece a Parma dove lasciò lo splendido Ciclo dei mesi presente nel battistero e la Deposizione nel duomo. Se per Wiligelmo esistono questioni aperte sulla cronologia e la lapide che lo ricorda sulla cattedrale – «Quanto tra gli scultori / tu sia degno di onore è chiaro ora, o Wiligelmo per le tue opere» – è posteriore, per Benedetto la faccenda è più semplice: le due opere sono datate (rispettivamente 1196 e 1178) e firmate. Entrambi, comunque, possedevano un concetto già “moderno” di artista: erano consapevoli, cioè, del ruolo che rivestivano e del proprio valore. Pur avvalendosi del prezioso apporto della loro bottega, riversavano nei lavori un contributo intellettuale e creativo di cui si sentivano orgogliosi: la firma in calce dimostra che intendevano eternare il loro nome e la loro fama ai posteri.

I “maestri” di Como L’esperienza di Benedetto e Wiligelmo rompe secoli di anonimato in cui, soprattutto per quanto concerne gli edifici religiosi, il prodotto era il risultato dell’opera collettiva di un cantiere in cui lavoravano architetti, stuccatori, pittori, scultori, artigiani dotati di una perizia tecnica ragguardevole. In mezzo a queste maestranze si distinse un gruppo di artisti itineranti, che per generazioni circolarono attraverso l’Europa costruendo chiese e cattedrali: i Magistri Comacini. La prima attestazione della loro esistenza compare nell’editto di Rotari (643), ai capitoli 144-145, mentre nelle leggi di Liutprando del 713 è contenuto il tariffario delle loro prestazioni. Il nome è misterioso: potrebbe derivare da Comum, Como, luogo da cui provenivano o dove erano maggiormente attivi, ma c’è anche chi, come Ugo Monneret de Villard e i suoi seguaci, ha proposto un’etimologia legata agli strumenti di lavoro – argani e impalcature soprattutto – che utilizzavano. I Magistri Comacini sarebbero cioè i maestri che lavoravano con le “macchine”, cum macinis, o machinis appunto. La questione non è ancora risolta ed è, tutto sommato, di poco conto rispetto alla quantità e alla qualità delle opere che queste corporazioni hanno creato non solo


in Italia, ma anche in Francia, in Germania, su su fino alla penisola scandinava. Le loro creazioni sono alla base dell’arte romanica, che tra X e XII secolo propose un’efficace sintesi tra quella classica e la sensibilità barbarica. Le decorazioni a motivi vegetali che si possono ammirare sui capitelli, negli archi e sui portali delle chiese romaniche hanno molto in comune anche con l’arte celtica. Basti pensare alle somiglianze esistenti tra le mostruose sculture di pietra chiamate Sheela na Gig – diffuse in Irlanda e Inghilterra – e le divinità scolpite su innumerevoli stele rinvenute in Gallia. C’è poi un’affinità tra i teschi un tempo esposti all’entrata dei santuari celtici (come quello delle Bouches-duRhone, in Francia) e le teste cesellate sulla decorazione, ad esempio, del portale della piccola cattedrale di Clonfert (XI secolo), in Irlanda. Del resto, mozzare le teste ai nemici uccisi in battaglia era per i celti un’usanza rituale, e l’esposizione dei teschi sulla porta dei santuari o in corrispondenza di luoghi sacri o di passaggio era ritenuta apotropaica. In epoca romanica, si usava murare teste scolpite in pietra sulle facciate di palazzi importanti, sui ponti, persino sulle pareti delle chiese. A Milano l’intitolazione della non più esistente chiesa di San Giovanni alle Quattro Facce suggerisce suggestivamente la presenza nelle vicinanze, in un passato ormai remoto e non più documentabile, di uno di questi santuari. Ovviamente, l’usanza delle “teste mozze” era diffusa anche tra i germani e motivi stilizzati di questo tipo si trovano, in tempi diversi, anche sulle decorazioni di metallo delle lunghe navi, i drakkar, dei vichinghi, e sulle spade e sui vasi degli sciti e dei sarmati. Niente di strano: erano tutte popolazioni indoeuropee provenienti da una matrice culturale comune. I cordoli dei plutei delle chiese, le lastre di marmo dei sarcofagi e le bordure di pietra che qua e là affiorano in qualche edificio sacro rimaneggiato più tardi sono parenti stretti delle decorazioni che compaiono su specchi di bronzo, fibule, impugnature di spada, persino nelle miniature dei codici irlandesi. I portali delle chiese romaniche contengono, da questo punto di vista, la sintesi dell’intero repertorio iconografico medievale, con i suoi santi e profeti, il Cristo e la Vergine, i beati e i dannati, mostri e demoni, il tetramorfo coi quattro evangelisti rappresentati simbolicamente, sulla scorta dell’Apocalisse, da altrettanti “viventi”: Matteo dall’uomo alato, Marco dal leone, Luca dal bue – o toro –, Giovanni dall’aquila. Un esempio: il magnifico portale della chiesa abbaziale di Sainte-Foy, a Conques, in Francia, edificata alla metà dell’XI secolo, reca sul timpano una spettacolare e vivacissima rappresentazione del Giudizio Universale, col Cristo in Maestà circondato da ben 124 personaggi disposti su tre ordini. In quello inferiore, che rappresenta l’inferno, sono scolpiti mostruosi demoni che brulicano tra le anime dei dannati tormentandoli nelle maniere più diverse e appendendoli a testa in giù mediante alcune carrucole. Tutto lo spazio è


sovraccarico di immagini, a colmare l’orrore del vuoto tipico della mentalità medievale. E nei cordoni dell’archivolto, maliziosamente, spunta persino una figuretta grottesca che sembra giocare a nascondino con chi guarda.


Un mondo di invenzioni La vivacità dell’Età di Mezzo è testimoniata anche dal gran numero di invenzioni46 che videro la luce proprio in questi secoli. La carta (di cui si dirà fra poco), gli occhiali, le cifre arabe, l’orologio meccanico, le note musicali sono tutte innovazioni (o introduzioni da fuori, in un mondo che ancora non le conosceva) che contribuirono a rendere meno faticosa o più appagante la vita quotidiana di molte persone risolvendo anche parecchi problemi di carattere squisitamente pratico. Come si faceva, senza un metodo preciso, a scandire il tempo? E come si poteva compiere operazioni matematiche complesse avendo a disposizione un sistema di numerazione macchinoso come quello romano? E che dire, poi, di quei dotti che, raggiunta una certa età, non si rassegnavano al passare degli anni ma volevano continuare a leggere, studiare e interrogarsi sulle glorie e sulle miserie umane come quando erano ancora giovani e dotati di una vista d’aquila? Partiamo da qui. Siamo nel 1305. Il domenicano Giordano da Pisa, durante un’appassionata omelia, racconta che «non è ancora venti anni che si trovò l’arte di fare gli occhiali, che fanno vedere bene, ch’è una de le migliori arti e de le più necessarie che ’l mondo abbia, e è così poco che ssi trovò: arte novella, che mmai non fu. E disse il lettore: io vidi colui che prima la trovò e fece, e favellaigli». Chi li aveva inventati? Non si sa e, probabilmente, non si saprà mai. Un altro domenicano, Alessandro della Spina, morto nel 1313, sapeva fabbricarli e insegnare agli altri a farlo, ma non fu lui a dar corpo all’idea che una lente trattata potesse ingrandire una scritta, annullando il calo naturale della vista: a Venezia la lente era già in uso almeno dalla fine del secolo precedente. Lo dimostrerebbe una legge del 2 aprile 1300 che vietava ai fabbricanti di lenti di vetro di far credere che fossero di cristallo. Comunque sia andata, da allora l’invenzione, che permette di ingrandire lo scritto e consente la lettura anche a chi ha difetti di vista notevoli, diventa popolarissima: paia di occhiali rigorosamente senza stanghette, che si posavano semplicemente sul naso, compaiono in moltissimi affreschi, miniature e ritratti e si impongono come oggetto indispensabile nel corredo di ogni dotto e studioso che si rispetti. Altra “nuova entrata” fu quella dei numeri in cifre cosiddette arabe. Una specie di rivoluzione in un mondo – quello europeo – da sempre abituato a far di conto secondo l’uso dei romani, che computavano con l’uso dell’abaco. Il


sistema era macchinoso e non consentiva di svolgere ai più operazioni complesse: per calcoli diversi dalle semplici addizioni o sottrazioni era necessario pertanto rivolgersi a matematici di professione. In India, invece, era presente un sistema di numerazione che attribuiva alle cifre un valore in base alla posizione: unità, decine, centinaia, migliaia e così via. Nove cifre – quelle che conosciamo anche noi oggi – diverse l’una dall’altra più lo zero a indicare il nulla. Va detto che tale sistema non era da noi del tutto ignoto: i contatti tra Oriente e Occidente, anche nell’Alto Medioevo, erano sempre stati copiosi e non era raro che mercanti e intellettuali si recassero fuori dall’Europa per commerciare o per motivi di studio. Il grande dotto Gerberto d’Aurillac (9501003), futuro papa Silvestro II, studiò in Spagna e a Fès, in Marocco, dove venne in contatto con la cultura araba all’epoca fiorente in questi centri e conobbe le cifre “arabe”, che adottò per promuovere lo studio delle discipline scientifiche, di cui era appassionato cultore. In effetti, il primo manoscritto occidentale noto che contiene le cifre “arabe” fu copiato nel 976 nel convento di Albelda, nel Nord della Spagna, da un monaco di nome Vigila (ragion per cui il manoscritto è noto come Codex Vigilanus). Manca, però, lo zero, proprio come in altri codici che dall’XI secolo in poi cominciano a diffondersi in Europa. Questo sistema di numerazione, però, per quanto conosciuto era utilizzato esclusivamente nei monasteri. Perché esso conquistasse anche la “società civile” si sarebbe dovuto attendere il pisano Leonardo Fibonacci (1170-1240). Leonardo era un mercante e ad Algeri, dove si trovava per ragioni commerciali, si era imbattuto in questo metodo di calcolo e lo aveva trovato comodo e funzionale, quindi decise di “importarlo”. Il suo Liber abbaci, in cui spiegava il significato delle nove cifre “indiane” e introduceva soprattutto il segno dello zero, fu pubblicato una prima volta nel 1202 e poi, in versione riveduta e corretta, nel 1228. All’inizio l’innovazione fu giudicata con sospetto e persino vietata in alcune città (come Firenze) per la provenienza “infedele” e perché si riteneva generasse confusione. Ma alla lunga avrebbe soppiantato l’antico computo romano perché molto più semplice e intuitivo. Il nome dello zero, zephirus, deriva dall’arabo sifr (che traduceva a sua volta il sanscrito śūnya, “vuoto”) e compare per la prima volta nel De Aritmetica Opusculum di Filippo Calandri, stampato a Firenze nel 1491. Le note musicali furono fissate sulla pergamena dal dotto monaco Guido d’Arezzo nell’XI secolo. Quanto al computo del tempo, nel mondo antico e medievale, fino alla fine del Duecento, avveniva secondo le antiche ore “romane”: prima, terza, sesta, nona, ciascuna a intervalli di tre e, naturalmente, con un’approssimazione notevole dovuta al fatto che si seguiva il corso del sole. Anche la lunghezza variava in base alle stagioni. La Chiesa aggiunse il matutino, le lodi, il vespro e compieta, utilizzando le ore per preghiere specifiche che


scandivano la giornata. A partire dal X-XI secolo, le campane iniziarono, coi loro rintocchi, a segnare il passare del tempo: udendosi da lontano, sono particolarmente preziose per chi si trova intento al lavoro nei campi e, impegnato nelle fatiche agresti, altrimenti perde la cognizione del tempo. Quella che suona compieta è ricordata anche da Dante in versi altamente suggestivi: il pellegrino lontano dalla patria «ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more», e si commuove (Purgatorio, canto VIII, vv. 5-6). Con buona probabilità si trattava della campana di uno dei tanti conventi che popolavano le città medievali, ma potrebbe anche essere quella del comune, che indicava il coprifuoco oltre il quale non era più consentito circolare per strada. Questo aspetto “romantico” e, tutto sommato, soggettivo e variabile del tempo andò perdendosi con la fine del Duecento, quando fece la sua comparsa l’orologio meccanico che suddivideva la giornata in ore tutte uguali. Tra i primi orologi di cui si abbia notizia in Italia c’è quello che iniziò a operare nel 1351 a Orvieto: il cosiddetto “Maurizio” – probabile corruzione di «ariologium de muriccio» –, installato sulla torre della cattedrale possedeva un automa di bronzo – chiamato Maurizio, appunto – che batteva le ore. Già Dante, però, nel Paradiso (canto X, vv. 139-148), dimostra di conoscere il meccanismo degli orologi meccanici, paragonando il moto circolare delle anime beate a quello delle ruote azionate, nel marchingegno, da una serie di pesi. L’introduzione dell’orologio non fu solo un’innovazione tecnica, ma portò con sé una nuova concezione del tempo: svincolato dalla preghiera, non più appartenente unicamente a Dio, anzi laico a tutti gli effetti. Altre invenzioni medievali, di cui si è accennato nel capitolo sull’abbigliamento, sono i bottoni – che compaiono intorno al Duecento rivoluzionando la moda –, le maniche staccabili dagli abiti e intercambiabili – che permettevano, nei ceti più abbienti, di variare il look spesso senza cambiare l’intero vestito –, le calze aderenti suolate. A tavola fece la sua comparsa, intorno all’XI secolo (la prima attestazione iconografica è su un codice dell’editto di Rotari trascritto in quest’epoca) la forchetta. Osteggiata dalle autorità ecclesiastiche in quanto strumento diabolico, faticò a imporsi finché non divenne praticamente indispensabile per portare alla bocca un altro cibo inventato nel XII secolo, la pasta asciutta. I vetri si diffusero dal Trecento in poi (e solo nelle case dei ricchi o nei palazzi pubblici), mentre prima le finestre erano chiuse da semplici imposte di legno o da tela cerata. Ma tra le innovazioni che furono introdotte in questi secoli, la più rivoluzionaria – se non altro per l’impatto culturale che avrebbe avuto a seguito dell’introduzione della stampa – fu la carta.


La dotta ignoranza Carta significa scrittura. E quindi, prima di tutto, è lecito chiedersi chi scriveva nel Medioevo. In effetti, lo facevano in pochi. Nel crollo generalizzato di enti e istituzioni seguita alla fine dell’età antica, anche l’alfabetizzazione – nell’impero diffusa grazie a un capillare sistema di scuole – si era ridotta a prerogativa di un ristretto numero di persone. Bruciate o disperse le biblioteche e scomparse le scuole laiche, il monopolio dell’istruzione era gestito dalle istituzioni ecclesiastiche, non sempre peraltro irreprensibili per qualità morali e culturali. Nell’Alto Medioevo a scrivere erano quindi quasi esclusivamente i chierici, che si formavano nei monasteri e utilizzavano un latino che, farcito di prestiti dalle lingue germaniche, poco o nulla aveva ormai a che fare con quello classico di un Cicerone. Tra i laici poteva vantare una modesta istruzione qualche sporadico notaio. Mentre i sovrani, salvo qualche rara eccezione, erano scarsamente acculturati. Può sembrare strano, ma molti sapevano leggere ma non scrivere: che le due cose si implicassero a vicenda è un concetto assolutamente moderno come la lettura “a mente”, visto che di solito i testi venivano declamati o, al massimo, sussurrati a bassa voce. Le biblioteche dei conventi medievali, lungi dall’essere silenziose, erano pervase dal brusio di chi leggeva, come un perpetuo salmodiare. C’era chi faceva della sua “ignoranza” un punto di forza. Come Carlo Magno. Secondo il suo biografo Eginardo, nonostante sapesse a malapena scrivere, era amante delle lettere e delle arti e conosceva bene non solo il latino (e il francone, sua lingua madre), ma persino qualche parola di greco. L’apprese grazie alla vicinanza di un circolo di dotti, da lui stesso radunati nell’Accademia (Schola) palatina di Aquisgrana: tra loro nomi di spicco come Alcuino di York – che fu a lungo suo maestro –, lo storico longobardo Paolo Diacono, Teodulfo d’Orléans e Paolino, poeta e patriarca di Aquileia. Curioso per natura, Carlo sollecitò a corte, accanto alla pratica delle “classiche” arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica), lo studio delle arti del quadrivio: musica, matematica, geometria e astronomia, di cui fu grande appassionato. Sforzi che dovettero fare i conti con la mancanza di libri e l’inadeguatezza del sistema scolastico sopravvissuto alla fine dell’evo antico. A questo quadro di decadimento generale, Carlo pose rimedio insistendo sulla formazione degli ecclesiastici (esemplare il trattato De institutione clericorum di Rabano Mauro) e sulla ricostituzione delle biblioteche, creando presso molti monasteri attrezzati


scriptoria in grado di copiare e tramandare i testi antichi. Fu elaborata anche una nuova scrittura, la “minuscola carolina”, così semplice e leggibile da imporsi come modello, durante il Rinascimento, per l’invenzione dei caratteri a stampa. Un vero e proprio paradosso, se si considera che la mano dell’imperatore, impugnando il calamo, era talmente titubante da dover essere guidata, per vergare la sua stessa firma (un monogramma con le lettere incastonate a mo’ di croce), da un normografo.


Santi e cultori Fino al Mille circa, si diceva, il monopolio della cultura e della scrittura fu esercitato dai monaci e dai chierici. Ci furono naturalmente anche molte eccezioni, persino donne – lo si è visto trattando la condizione femminile – come Dhuoda che in pieno IX secolo scrisse un trattato per il figlio. Ma non c’erano intellettuali laici di professione, almeno come li intendiamo alla moderna: per incontrarli bisogna attendere, come vedremo fra poco, il XII secolo e la nascita delle università. Fino ad allora la cultura viaggiava nei monasteri sulla base di quanto prescritto dalla Regola di san Benedetto, improntata sull’equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva. L’idea di fondo, riassunta nella nota massima «ora et labora», “prega e lavora”, era che il monaco per essere santo dovesse recitare le orazioni ma anche compiere fatiche manuali. Dunque coltivava i campi, piantava le erbe, cucinava, allevava le bestie e svolgeva – anche con l’aiuto di personale esterno – una moltitudine di lavori. Però doveva anche contribuire al progresso spirituale e culturale della comunità. Non solo con la preghiera e la meditazione, ma con lo studio e la copiatura di testi sacri e opere classiche da effettuarsi negli efficienti scriptoria, i locali riservati alla scrittura dei volumi. Oltre ai benedettini, si distinsero in quest’operazione i monaci irlandesi, che viaggiavano sempre accompagnati dai libri. I loro preferiti erano i trattati di grammatica: poiché la lingua delle Sacre Scritture era il latino, una lingua per gli irlandesi straniera, visto che non avevano mai conosciuto la dominazione romana, saperla perfettamente era fondamentale per impadronirsi del Verbo divino ed esercitare la missione di evangelizzazione che costituiva la loro cifra. L’insegnamento della grammatica e della retorica ebbe un ruolo di primissimo piano nei monasteri irlandesi medievali: codici con opere di grammatici latini provenienti dagli scriptoria insulari sono ancor oggi conservati in tutti i monasteri fondati o visitati da questi religiosi instancabili, e molti di essi, contenenti parole (le glosse) in antico gaelico, si sono rivelati estremamente preziosi per comprendere l’evoluzione delle lingue celtiche. Nei monasteri irlandesi o di fondazione irlandese non solo si copiavano (e quindi si salvavano dalla distruzione e dall’oblio) molte opere di scrittori del passato classico, sia latino che greco, ma si producevano trattati, cronache e poesie. Opere che si sono rivelate fondamentali per la cultura dei secoli a venire facendo meritare all’Irlanda il soprannome di “isola dei santi e dei dotti”. Se gli scritti di san Patrizio (come l’Epistula ad milites Corotici, i soldati pagani di un


principe scozzese cristiano, e soprattutto le sue Confessiones), di Gilda (De excidio et conquestu Britanniae, De paenitentia, Oratio pro itineris et navigationis prosperitate) e di san Colombano ebbero un’importanza e un influsso davvero imponente su tutta la tradizione letteraria e monastica successiva, l’Antifonario di Bangor (databile alla fine del VII secolo e riscoperto nel Settecento dall’erudito Ludovico Antonio Muratori) rappresenta una delle prime e più belle raccolte organiche di preghiere e canti liturgici accompagnati da musica (non una sola nota, però, è stata salvata). E se il Liber Hymnorum è un’importante testimonianza del rapporto tra lingue celtiche e latino, gli Hisperica famina, databili al VI secolo, sono una raccolta di scritti dal senso a dir poco enigmatico. Giuntici in più di una redazione per un totale di circa seicento versi, contengono la descrizione di una scena o di un oggetto, di volta in volta il mare, il fuoco, il vento: repertorio di termini astrusi, quest’opera misteriosa si collega al genere dei carmi figurati e a quel gusto per gli enigmi e i giochi di parole così tipico, anche ai giorni nostri, del mondo irlandese. Dagli scriptoria irlandesi uscirono anche alcune delle creazioni artistiche più belle del Medioevo, come il Libro di Kells, o Grande Evangeliario di San Columba, realizzato intorno all’800 e oggi al Trinity College di Dublino. La traduzione latina dei vangeli e le sue chiose sono accompagnati da spettacolari immagini curate nei minimi particolari secondo lo stile tipicamente “insulare”, che fonde il gusto per la decorazione geometrica e fitomorfa di sensibilità ancora pagana con la rappresentazione della figura umana all’occidentale in un tripudio di colore e d’oro. Oltre a confezionare codici di elevatissimo valore artistico, l’operosità dei monaci permise la conservazione e la trasmissione ai posteri di un patrimonio culturale inestimabile. La scrittura, esaltazione dello spirito, poteva però – strano a dirsi – anche uccidere. Tutti ricordano come il romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa, ambientato in un monastero medievale, ruoti attorno a un libro che avvelena chi lo consulta: basta inumidire il dito con la saliva per aiutarsi a girare le pagine di pergamena e l’inchiostro con cui il testo è vergato scatena i suoi micidiali effetti. Finzione letteraria, certo. Ma non lontana dalla realtà. Una recentissima ricerca della Syddansk Universitet (università della Danimarca meridionale), pubblicata sul «Journal of Archaeological Science» ha dimostrato come molti dei monaci sepolti nei chiostri dell’abbazia cistercense di Øm (in Danimarca appunto) sarebbero deceduti a causa dell’esposizione alle elevate quantità di mercurio contenuto in uno degli inchiostri che utilizzavano per scrivere e decorare i codici miniati, il rosso. In pratica, per tenere appuntito il pennello ogni tanto lo leccavano, assumendo così attraverso la saliva il solfuro di mercurio contenuto nel cinabro: nel trasferire sulla pagina il bel rosso acceso donato dal minerale,


non potevano sospettare di stare firmando, lentamente, la propria condanna a morte.


In coda la richiesta I poveri scribi di Øm, dunque, erano monaci, come la maggior parte di chi allora faceva questo mestiere. Per incontrarne di laici si sarebbe dovuto attendere la nascita dell’intellettuale “di professione”, che prestava la propria opera a pagamento. Anche i copisti venivano remunerati. Difficile dire quanto guadagnassero. Laici o ecclesiastici che fossero, basta leggere la sottoscrizione – ossia la firma apposta alla fine del testo da parte di chi aveva eseguito la trascrizione – di un certo Gregorius, vergata sulla copia della Postilla in Ecclesiastem del XIV secolo conservata nella Biblioteca antoniana di Padova (è il codice 358), per comprendere come le loro richieste fossero tutto sommato “terra terra”: «Scriptoris munus», si legge, «sit bos bonus aut equus unus», “sia il compenso dello scrittore un buon bove o un cavallo”. La sottoscrizione del codice, terminato il lavoro di copiatura, era un modo per eternare non solo il testo dell’opera in questione ma anche la fatica di chi lo aveva trascritto. A volta in maniera anche bizzarra. In un altro volume sempre dell’Antoniana, il manoscritto 365, del 1447, il copista, Franciscus de Vincentia, frate eremitano, nasconde il suo nome, esprimendolo nella forma crittografata Erbnckscxs: alcune delle lettere, per l’esattezza la consonante iniziale e tutte le vocali, sono state sostituite dalla lettera che le precede nella sequenza dell’alfabeto. [...] In margine aggiungiamo che il copista, che ci racconta di essere studente a Padova, chiude spesso le sue sottoscrizioni, oltre che con minimi racconti di vita quotidiana, anche con giochi di parole47. Un lavoro, quello del copista, di grande responsabilità e fatica, come ben sanno i filologi che confrontano le varie versioni dello stesso testo allo scopo di trarne l’edizione il più vicino possibile a quella uscita dal calamo dell’autore. Chi trascriveva un testo traendolo dall’esemplare che aveva davanti sul banco doveva fare i conti con grafie diverse, difficoltà di lettura e interpretazione di passi pasticciati, interpolati o poco chiari, e poteva incorrere a sua volta in salti di riga, fraintendimenti dovuti a una scarsa (o assente) conoscenza dell’opera da copiare, sostituzione di una parola più difficile che non capiva – magari per la non perfetta padronanza del latino – con una più semplice. E così via. Ma per quanto a volte sommarie, poco accurate e infarcite di errori, le trascrizioni dei copisti ci hanno trasmesso un patrimonio immenso che altrimenti sarebbe, in


buona parte, perduto.


Appunti a margine Affaticato dalla scrittura a lume di candela, in inverno al freddo e in estate al caldo, ogni tanto anche lo scriba più diligente si prendeva una pausa. E la riempiva... scarabocchiando. Tra le note a margine più famose ce n’è una che rappresenta, secondo la maggior parte degli studiosi, il primo esempio di lingua volgare italiana. Si tratta del celebre “Indovinello veronese”: «Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba, et negro semen seminaba» (“Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava”). Poche righe, ritrovate dal grande paleografo Luigi Schiapparelli nel 1924 in uno spazio vuoto di un codice pergamenaceo spagnolo dell’VIII secolo giunto a Verona non molto tempo dopo, e oggi conservato nella Biblioteca capitolare. I margini dei codici per tutto il Medioevo e oltre pullulano letteralmente di scritte: da quelle semplici vergate per testare se le penne d’oca erano abbastanza appuntite (probatio pennae o calami) ai disegni più o meno grotteschi tracciati per riempire i vuoti, fino a vere e proprie illustrazioni colorate che assumono il valore di opere d’arte a sé stanti. Il repertorio è vastissimo. Nel trecentesco Salterio di Gorleston (conservato alla British Library di Londra) troviamo uomini che si divertono a fare smorfie e boccacce; ci sono poi animali che si sfidano alle più varie tenzoni, come il duello musicale tra un coniglio e un uccello che appare nello Speculum historiale (1294-1297) della Bibliothèque municipale di Boulogne-sur-Mer (Francia), bestie meravigliose e terribili, momenti di vita quotidiana. Persino scene di sesso esplicito: in un manoscritto trecentesco contenente il Roman de la Rose (MS Fr. 25526, Biblioteca nazionale di Francia) è rappresentato un rapporto sessuale tra un uomo e una suora, mentre sulla stessa pagina un’altra è intenta a raccogliere... falli da un albero. Queste illustrazioni spinte furono molto probabilmente realizzate dalla nobile Jeanne de Montbaston, rappresentata altrove nel manoscritto nell’atto di disegnare mentre il marito Richart scrive (più castamente) il testo. Le note a margine in molti casi sono esemplificative di parti del contenuto: potevano servire, ad esempio, a chiarire le fasi di preparazione di una ricetta oppure a illustrare un passaggio particolarmente significativo. In molti altri, però, appaiono completamente scollegate da quanto è scritto nella stessa pagina e dunque rivestono un significato diverso. Certo, colmano l’horror vacui (“terrore del vuoto”) tipico della mentalità medievale. Ma questa spiegazione, da sola, non basta per comprenderle appieno, ammesso che ciò sia possibile. Le


figure grottesche, i simboli, gli animali fantastici e le scenette che compongono sembrano incarnare ciò che in altro modo non si poteva, o non si osava, rappresentare: paure, desideri, rivalse, morbosità, insofferenze, ironie. Parrebbe di poter dire che lo scriba, una volta compiuto il suo dovere di diligente trascrittore di testi o in una pausa dal suo lavoro, si sentisse libero di far scorrere il calamo sui margini della pergamena dando corpo a tutto ciò che la fantasia gli suggerisse. Foss’anche un mondo alla rovescia, come ben si vede in una splendida miniatura presente in un codice cinquecentesco (il Cod.mus. I, del 1511-1512), conservato alla Württembergische Landesbibliothek di Stoccarda: un gruppo di conigli viene rappresentato mentre arrostisce un uomo infilzato su uno spiedo, dando vita e colore a una vendetta “di specie” in piena regola.


Rivoluzione su carta I manoscritti medievali erano scritti su pergamena. La carta era conosciuta in Oriente già nel II secolo a.C. ma si diffuse solo intorno al Mille. Furono gli arabi a “portarne” la tecnica di fabbricazione verso ovest: nell’VIII secolo in Africa, intorno all’XI in Spagna e in Sicilia. Non a caso, il primo documento su carta che si è conservato è un mandato della contessa normanna Adelasia, prima moglie di re Ruggero I, scritto nel 1109 in greco e arabo (oggi si trova all’Archivio di Stato di Palermo). Come si fabbricava la carta? Si prendevano stracci di stoffa e fibre di piante, li si metteva in una vasca di pietra e li si riduceva in frantumi con l’aiuto di magli in metallo, azionati dall’energia dell’acqua. All’impasto veniva aggiunta acqua. La poltiglia così ottenuta era poi riposta su un telaio a maglie fitte e messa ad asciugare: ed ecco il foglio di carta. Se si inseriva nel telaio un filo metallico con un disegno particolare, si otteneva un vero e proprio “marchio” in filigrana che ne garantiva provenienza e qualità: in questo campo, a distinguersi fu il territorio di Fabriano (Ancona) meritandosi una fama che dura ancora oggi. Col tempo si capì che la resa del foglio poteva migliorare ulteriormente se lo si spennellava di colla: così reso impermeabile, non assorbiva l’inchiostro e si evitavano le macchie. Da lì al definitivo trionfo sancito con l’invenzione della stampa – il primo libro stampato con la tecnica dei caratteri mobili fu la Bibbia: il 23 febbraio 1455, in Germania, da Johann Gutenberg – il passo sarebbe stato breve. Si trattava quindi di una preparazione lunga e laboriosa, che comportava un grande impiego di energia. Ma il progresso, rispetto alle tecniche di fabbricazione cinesi – con le fasi di lavorazione svolte interamente a mano! – era comunque notevole. Ciò permise, a partire dal XII secolo, di produrre molto più materiale scrittorio e molto più in fretta rispetto alla tradizionale pergamena. Che veniva invece ricavata, come si sa, dalla pelle di ovino o di vitello. Il nome deriva dalla città di Pergamo (Asia minore) dove, racconta l’erudito latino Plinio il Vecchio, era utilizzata già nel II secolo a.C. Produrre la pergamena era molto costoso. Il procedimento da adottare è descritto in alcune “ricette”, la più antica delle quali è conservata in un manoscritto dell’VIII secolo (MS 490) della Biblioteca capitolare di Lucca. Occorreva scuoiare l’animale, immergere la pelle in una soluzione di calce e acqua, raschiare via il pelo e mondarla da eventuali residui di carne, stenderla e farla essiccare su un telaio a tensione in modo da ottenerne l’appiattimento. Infine si lisciava la superficie con la pietra pomice in


modo da renderla uniforme e pronta per ricevere l’inchiostro. Il papiro, invece, si produceva molto più in fretta perché si utilizzava fibra vegetale resa poltiglia e inquadrata su un telaio con un procedimento molto simile a quello per la carta. Per questo il mondo antico preferì l’uso del papiro alla pergamena e tale supporto rimase diffuso finché fu possibile averlo in abbondanza. La pianta da cui si ricavava la fibra, il papiro appunto, è infatti una canna palustre che cresce nell’area mediterranea. Con le invasioni barbariche e l’allentamento dei traffici nel Mediterraneo, la disponibilità di papiro in Occidente andò esaurendosi e dunque si ricorse sempre di più alla pergamena. Che divenne, di fatto, il veicolo su cui viaggiò tutta la cultura morale e materiale del Medioevo: dai testi sacri ai loro commenti, dalle opere classiche ai trattati d teologia, dalle poesie profane ai manuali di medicina e di cucina, dalle leggi imperiali alle bolle papali, dai documenti notarili agli atti prodotti dalle cancellerie comunali. Naturalmente, come già detto, la pergamena costava molto e andava impiegata con estrema parsimonia. Per prendere appunti si utilizzavano allora le tavolette di cera, incise con uno stilo, come già facevano gli antichi, oppure gli “scarti” di lavorazione della pergamena stessa, spesso cuciti insieme a formare improvvisati rotoli: molte “minute” – le brutte copie degli atti, appuntate in linguaggio estremamente abbreviato prima della stesura definitiva in “bella” dell’originale – dei notai, ad esempio, si sono conservate su questo tipo di supporto.


Scrivere e riscrivere E per i libri? Si adoperava la tecnica del riciclo: quando, cioè, per vari motivi un testo non interessava più, lo si raschiava via dalla pergamena e si procedeva a riutilizzare la superficie per copiarne un nuovo. Ciò che era scritto sotto, apparentemente andava perduto. Ma per fortuna non è così. Questi tipi di manoscritti, detti palinsesti (il termine deriva dal greco pálin psestòs, “raschiato di nuovo”), hanno in realtà conservato tracce dell’inchiostro di cui erano stati impregnati per la prima volta e, tramite sofisticate tecniche, possono essere decifrati. Nell’Ottocento si utilizzavano tinture di bile e idrosolfuro di ammonio, che però alla lunga corrodevano la pergamena distruggendola: ad andare perduti erano così entrambi i testi, l’antico e il recente. Oggi si usano i raggi ultravioletti e le immagini digitali, metodi non invasivi. Sono così riapparsi libri che si credevano perduti per sempre, come le epistole del retore Marco Cornelio Frontone (100-170 ca.), scovate nel 1815 dal grande erudito e cardinale bergamasco Angelo Mai in un codice riscritto conservato nella Biblioteca ambrosiana di Milano (quattro anni dopo ne trovò altre pagine in Vaticano): i monaci dell’abbazia di Bobbio avevano considerato queste lettere (e relative risposte) poco interessanti rispetto agli atti del primo Concilio di Calcedonia, quindi non avevano esitato a eliminarle per far posto al nuovo testo. Le epistole, seppur stilisticamente deludenti rispetto alla grande fama di retore detenuta da Frontone, si sono invece rivelate per noi moderni un documento prezioso per ricostruire alcuni aspetti della politica e della vita degli imperatori Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero. Altri importanti palinsesti rinvenuti dal cardinal Mai sono il De re publica di Cicerone (che si celava in Vaticano sotto un’edizione del VII secolo dei Commenti ai Salmi di sant’Agostino) e i Vaticana Fragmenta, con brani di opere dei giuristi Paolo, Papiniano, Ulpiano e passi di costituzioni imperiali di Diocleziano. Conservati sotto opere successive sono rispuntati inoltre, i testi di alcune commedie di Plauto (in un codice della Biblioteca ambrosiana del IV o V secolo, riscritto con brani della Bibbia nel IX), alcune opere del grande matematico siracusano Archimede (copiate nel X secolo e cancellate nel XIII per far posto a un normale testo liturgico), le Institutiones di Gaio (soppiantate dalle Epistole di san Gerolamo). A sparire non erano solo i testi non più attuali, ma anche quelli considerati eretici. Spesso venivano bruciati. Ma in genere, considerando l’alto costo della pergamena, si preferiva cancellarli e riutilizzare il supporto. Così accadde anche


per la Bibbia “ariana” – e quindi eretica – tradotta in lingua gota e traslitterata con un alfabeto ad hoc nel IV secolo a opera dell’ambiente legato al vescovo Ulfilas (o Wulfila, 311-382). I documenti principali del goto a noi pervenuti sono questi: la traduzione della Bibbia greca dei Settanta commissionata da Ulfilas – di cui ci restano circa tre quarti del Nuovo Testamento e qualche frammento dell’Antico Testamento –, il Codex Argenteus (vangeli), il Codex Ambrosianus D (tre fogli contenenti i testi del profeta Neemia), il Codex Taurinensis (passaggi sparsi del Nuovo e dell’Antico Testamento), note a margine di argomento evangelico (Gotica Veronensia, MS LI della Biblioteca capitolare di Verona) e gli otto frammenti di un commento al vangelo di Giovanni (Skeireins, che in goto vuol dire “spiegazione”), oltre a due documenti notarili con firme in goto e altre testimonianze epigrafiche. A parte la Bibbia, il resto è di solito conosciuto col termine collettivo di Gotica Minora. Finito il loro regno in Italia, la lingua fu utilizzata per la liturgia dai longobardi – pure loro ariani – finché non aderirono definitivamente (fine VII secolo) al cattolicesimo. I codici goti, a questo punto, furono erasi in quanto ritenuti eretici e scomparvero dalla storia fino alla riscoperta, come palinsesti, in epoca moderna.

«Universitas»: una cultura laica Se fino al Mille, come si diceva, saper leggere e scrivere era appannaggio quasi esclusivamente del clero, con la rinascita delle città e la conseguente ascesa di nuove professioni, queste capacità divennero indispensabili anche per i laici, soprattutto per i mercanti. L’istruzione “tradizionale”, praticata nelle scuole organizzate presso i monasteri o nelle sedi vescovili urbane, si rivelò presto insufficiente. Lì infatti si apprendevano solo i rudimenti della grammatica e della retorica e si impartiva una sommaria formazione teologica: sapere fine a se stesso, dunque, lontano da qualsiasi applicazione pratica e di solito qualitativamente piuttosto basso. Ai nuovi ceti, invece, occorreva saper


piuttosto basso. Ai nuovi ceti, invece, occorreva saper fare di conto, avere un’infarinatura di norme giuridiche e conoscere le lingue straniere per intrattenere rapporti commerciali con luoghi lontani. Per venire incontro alle esigenze dei mercanti iniziarono a diffondersi, dapprima su iniziativa privata e poi con il patrocinio dei comuni, alcune scuole laiche che, accanto ai rudimenti di latino, insegnavano tutte le nozioni ormai divenute indispensabili alla professione. Anche in questi casi la qualità era generalmente piuttosto bassa, con metodi non troppo diversi da quelli in uso presso le scuole religiose: l’unica innovazione era rappresentata dall’introduzione, dagli inizi del Duecento, dell’abaco e della numerazione araba. Niente a che vedere, ovviamente, con le scuole cattedrali che si svilupparono nella Francia del Nord. Sorte intorno a prestigiose sedi vescovili come Chartres, Reims, Parigi e Laon, esse erano le uniche a garantire una formazione superiore e grazie alla presenza di illustri maestri – qualche nome: Gerberto d’Aurillac, Abelardo, Roscellino e Fulberto – si contendevano gli studenti da ogni parte d’Europa. Con l’affermazione dei comuni e dei ceti cittadini, anche in Italia iniziò a farsi sentire l’esigenza di un’istruzione superiore più ricca e accurata. Nelle grandi città, già a partire dalla fine del X secolo, docenti e studenti delle più diverse provenienze avevano iniziato ad associarsi dapprima in base alla nazionalità (dando vita alle nationes) e poi in corporazioni più complesse, dette


Universitates magistrorum et scholarium. Nacquero così le prime università e col termine si indicava una vera e propria corporazione con tanto di statuto. Come in un’associazione di mestiere, professori e studenti insieme si autogestivano organizzando i corsi e stabilendo il calendario degli esami, differenziando nettamente il proprio status di intellettuali laici dai loro corrispettivi ecclesiastici e riuscendo quindi a strappare ai chierici il monopolio della cultura. Impossibile concepire un’università senza libri. Ma erano davvero pochi coloro che potevano disporre del denaro (e del tempo!) necessario per procurarseli in un’epoca in cui esistevano solo sotto forma di manoscritti. L’avvento delle università e la conseguente domanda di testi portò dunque a un superamento del tradizionale metodo di produzione dei codici, legato agli scriptoria monastici, e alla nascita di un nuovo mestiere: quello del copista di professione. Il meccanismo era semplice. Una commissione di professori, dopo aver scelto il libro di testo da commentare durante le lezioni, ne approntava una versione base (chiamata exemplar) il più possibile priva di errori. Tale exemplar veniva poi suddiviso in fascicoli, detti peciae, ciascuno di quali era in seguito affidato a un diverso copista: si creava così una sorta di “catena di montaggio” nella quale più persone lavoravano contemporaneamente alla copia dello stesso volume, che dunque veniva prodotto molto più celermente. Ad aumentare la velocità di realizzazione concorreva anche l’utilizzo di una grafia, in seguito chiamata con disprezzo “gotica”, più rapida rispetto alla minuscola carolina ma anche meno leggibile. A pagare i copisti erano i cosiddetti stationarii, in pratica gli antenati dei moderni editori, i quali dopo aver acquistato sia gli exemplares che la carta per realizzarne le copie, provvedevano alla vendita del “prodotto finito” sul mercato: fu così che nacque, nel XII secolo, la nuova industria libraria.

Intellettuali di professione Ma come era organizzato materialmente lo studio? Le università assumevano liberamente i docenti e organizzavano l’attività didattica in un ciclo introduttivo alle arti liberali seguito dagli insegnamenti superiori di diritto (civile e canonico), medicina o teologia. La durata degli studi era variabile: se il ciclo delle arti del trivio e del


quadrivio durava circa sei anni, le seguenti “specializzazioni” potevano oscillare dai sei agli otto anni. Di solito si accedeva all’università verso i tredici anni. Terminato il ciclo introduttivo, si otteneva il titolo di baccelliere e, dopo un ulteriore biennio, quello di licentiatus: l’esame finale, che prevedeva una discussione su temi stabiliti dalla commissione dei docenti, dava diritto al titolo di magister (“maestro”) o doctor (“dottore”) e alla licenza di poter insegnare a propria volta. La lunghezza degli studi e il loro costo esorbitante – malgrado le associazioni garantissero alloggi e aule sia per studenti che per i professori – facevano sì che ben pochi riuscissero a terminare l’intero ciclo. Particolarmente gravoso era il problema dei libri di testo, la cui acquisizione rappresentava per i più un grosso ostacolo: esso fu parzialmente risolto grazie alla copiatura per fascicolazione (le già citate peciae) e alla progressiva diffusione della carta (che, proveniente dal mondo arabo dove era già in uso da molto tempo, iniziò a essere prodotta anche in Europa). Certo, i libri con pagine di carta erano meno pregiati e più fragili di quelli realizzati in pergamena, ma erano anche meno costosi. Tra l’XI e il XIII secolo, dunque, il continente si popolò di università. Il più antico ateneo sorse nel 1088 a Bologna, che anche grazie alla presenza degli studenti divenne una delle città più popolate e ricche d’Europa, coi suoi 50.000 abitanti che vivevano in 10.000 case. Allo Studium bolognese, specializzato negli studi giuridici si formarono – oltre all’intero ceto dei giuristi che operarono nei comuni dell’Italia centro-settentrionale – personalità come Irnerio e i “quattro dottori” (Bulgaro, Ugo, Martino e Iacopo) che elaborarono per l’imperatore Federico Barbarossa nel 1158, in vista della Dieta di Roncaglia, il supporto teorico per rivendicare la sua supremazia sulle città lombarde. Alla Sorbona di Parigi, rinomata per l’insegnamento della teologia, insegnarono i più celebri filosofi del Medioevo – come Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Importantissime furono anche la facoltà di medicina di Salerno, che conobbe straordinario prestigio durante il regno di Federico II, e poi ancora Padova, Napoli, Montpellier, Cambridge e Oxford. Ma mentre l’Europa centrale e


settentrionale guardava all’eredità lasciata dalla tradizione romana, le università di Salamanca (Spagna) e Coimbra (Portogallo) facevano da ponte tra il mondo europeo e quello arabo, diffondendo quel sapere che, gelosamente custodito nelle corti d’Andalusia, nel continente cristiano era ormai quasi dimenticato. Il gran numero di studenti presenti in città forniva non poche opportunità di lavoro: era necessario alloggiarli, dar loro cibo e vettovaglie e anche distrazioni e divertimenti. Va da sé che tutto questo sovraffollamento non portava solo benefici. Schiamazzi e bravate creavano scompiglio, ubriacature e risse erano all’ordine del giorno così come il frequentare bordelli, con tutti gli annessi e connessi del caso. Giacomo da Vitry (1170-1240), predicatore e docente egli stesso, ricorda come le zuffe tra studenti fossero motivate non solo da divergenze d’interpretazione sulle materie su cui erano chiamati a riflettere, ma anche da questioni di nazionalità e dai relativi cliché. Se gli inglesi erano ubriaconi, i francesi erano effeminati, i tedeschi feroci, i normanni spacconi, i borgognoni stupidi, i bretoni volubili, i lombardi avari, i romani sediziosi, i siciliani tirannici, i fiamminghi megalomani. Non stupisce che, complice qualche bevuta di troppo, «dopo simili insulti dalle parole si passava spesso ai fatti». Tra i gruppi più “vivaci” c’erano i goliardi, o clerici vagantes, che percorrevano l’Europa seguendo i professori di grido ed erano dediti al bere, al mangiare e alle donne. La loro situazione era del tutto particolare e per questo difficilmente governabile: poiché erano chierici, infatti, erano soggetti all’autorità ecclesiastica e non a quella civile. Erano spiriti liberi, diremmo noi, e anche anarchici visto che contestavano apertamente, nei comportamenti e nelle opere, certi valori della società dominante. A questi spesso anonimi intellettuali sono stati attribuiti poemetti, versi licenziosi e osceni, canti di taverna, ma anche esaltazioni dell’amore in tutte le sue declinazioni, sacre e profane, in latino e in volgare: la più celebre raccolta è quella nota come Carmina Burana, conservata in un manoscritto duecentesco (il Codex Latinus Monacensis o Codex Buranus) proveniente dal convento di Benediktbeuern in Baviera, ma compilata con buona probabilità nel monastero di Novacella, vicino a Bressanone.


Divi in cattedra Sull’altro fronte, i professori assunsero sempre maggior prestigio fino a diventare motivo di vanto e gratitudine per le città che ne ospitavano i corsi. A Bologna Matteo Gandoni (morto nel 1330) fu sepolto con tutti gli onori nel chiostro di San Domenico. La sua lastra tombale – esposta con molte altre nel Museo civico medievale – lo ritrae mentre fa lezione in cattedra a un gruppo di studenti seduti ciascuno nel suo banco. La scena è animata da vivido realismo. Più che ascoltare, i giovani paiono intenti a svolgere un “compito in classe”. Mentre quelli dei primi banchi sono impegnati a scrivere, quelli delle ultime file – esattamente come nelle scuole di oggi – sembrano invece distratti: uno si volta verso il compagno (forse per chiedergli un suggerimento?) che sembra non sentirlo, sprofondato com’è in un atteggiamento pensoso e anche un po’ preoccupato. In fondo, un altro personaggio entra portando con sé un volume: è il bidello, che nelle università medievali aveva il compito non solo di tenere in ordine le aule, ma anche di assistere i docenti durante le lezioni, reggendo i pesanti codici usati come libri di testo e, magari, leggendoli ad alta voce alla classe, visto che conosceva il latino. Nella lastra sepolcrale di Bonifacio Galluzzi (1346), invece, il professore troneggia in mezzo a due gruppi di studenti intenti a leggere: l’autore del bassorilievo, Bettino da Bologna, li ritrae con il volto praticamente attaccato ai libri, gli occhi strizzati e un’espressione affaticata, forse perché in classe c’era troppa poca luce. A proposito di docenti, va detto che il Medioevo conobbe anche dei fenomeni di vero e proprio “divismo”. Nel XII secolo, ad esempio, Pietro di Berengario, detto Abelardo, era il più brillante intellettuale sulla piazza. Nato in un oscuro villaggio della Bretagna vicino a Nantes, primogenito del feudatario locale, aveva studiato nelle migliori scuole di Francia e con i più importanti maestri, da Roscellino a Guglielmo di Champeaux, entrando con loro nel dibattito che all’epoca infiammava le cattedre, ossia la disputa degli universali: puri nomi oppure dotati di essenza trascendente? Nominalisti contro realisti, Abelardo criticava entrambi adottando una posizione mediana: gli universali non sono cose materiali ma solo concetti prodotti dalla mente e poi comunicati attraverso un nome, senza realtà propria. Con la sua logica schiacciante e le formidabili capacità dialettiche sbaragliava la concorrenza, otteneva la cattedra a Parigi e il trionfo assoluto. Ed elaborava un’audace difesa della ragione e della scienza rispetto alla fede, posizione che gli attirò gli strali dei mistici come


Bernardo di Chiaravalle. Nel suo trattato Sic et non teorizzava che solo la ricerca razionale può condurre alla Verità, svincolando quindi la scienza dalle Sacre Scritture, e che spettasse alla logica stabilire se un discorso è vero o falso. Nel De unitate et trinitate divina (“Sull’unità e la trinità divina”) invece spiegava la Trinità in base ad analogie razionali che richiamavano la filosofia greca, ragion per cui fu condannato e costretto a bruciare il trattato con le sue stesse mani. Altro suo cavallo di battaglia era la cosiddetta “morale dell’intenzione”: non è l’azione a essere buona o malvagia in sé, ma l’intenzione con cui la si compie. Posizioni limite le sue, ma che lo annoverano tra i padri della filosofa moderna. Attirati dal suo carisma, studenti accorrevano ad ascoltarne le lezioni da tutta Europa e tra i suoi discepoli ci sarebbero stati teologi, cardinali, eresiarchi e persino futuri papi. «Io credevo – scriverà più tardi egli stesso – di essere rimasto l’unico filosofo al mondo». All’apice della gloria conobbe Eloisa, nipote di un canonico – un certo Fulberto – che aveva deciso, controcorrente in un’epoca che voleva le donne nella più completa ignoranza, di darle un’educazione di prim’ordine. Pietro ne divenne il precettore e l’amante, ebbe da lei un figlio e, nello scandalo più totale, fu evirato per vendetta dai familiari di lei e dai loro sgherri e finì i suoi giorni, come l’amata, in un convento. A causa del prestigio crescente, ottenuto anche grazie ai professori di grido, le università suscitarono gli appetiti delle autorità sia laiche che ecclesiastiche, che fecero a gara per elargir loro benefici e privilegi. Un’attenzione non certo disinteressata, perché nascondeva la volontà di controllare il luogo di formazione delle future classi dirigenti. L’influenza ora del papa ora dell’imperatore si fece sentire soprattutto a partire dal Trecento, quando addirittura furono gli stessi sovrani a fondare nuovi istituti, pretendendo però in cambio di esercitare una maggior presa sui docenti. Ridotti al rango di stipendiati scelti dal sovrano non in base alle loro capacità ma per la loro fedeltà, contribuirono alla decadenza culturale delle università e furono alla lunga sostituiti, in prestigio, dagli intellettuali che operavano nelle splendide e aperte corti umanistiche e rinascimentali.


Cambio di prospettiva In effetti, la nuova idea che prese il largo in Italia tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento era rivoluzionaria: rimettere al centro del mondo l’uomo, come già era avvenuto nell’antichità classica, tornando a conferire a esso un ruolo da protagonista rispetto a Dio, che aveva prevalso fino a quel momento. Con l’avvento dell’Umanesimo e col suo coronamento, il Rinascimento, iniziò quel grande processo di trasformazione culturale che avrebbe portato l’Europa (e non solo) fuori dal Medioevo, verso un’epoca nuova. L’Umanesimo, naturalmente, non nasce dal nulla ma è figlio del clima culturale, economico e sociale che si respirava nelle città italiane, positivo ma anche problematico e foriero di nuove tensioni. La fine dell’universalismo di impero e papato, rimasti, malgrado le difficoltà, i cardini del sistema di pensiero per tutta l’Età di Mezzo, e la nascita di nuovi Stati in un’Europa sempre più pluralista, avevano infatti messo a dura prova quei valori, apparentemente immobili, nei quali fino a quel momento gli uomini del Medioevo si erano identificati. Insieme alla società, più vivace grazie all’ascesa dei ceti artigiani e mercantili, erano mutati anche i suoi orizzonti, le sue prospettive e le sua aspettative. Stava cambiando il senso del tempo, ora percepito in maniera più razionale, e anche il senso dello spazio, ormai dilatatosi all’inverosimile grazie ai massicci traffici commerciali e alle nuove scoperte geografiche. Spazio e tempo, insomma, erano ora misurati non più mediante la mera osservazione empirica, ma con sempre maggior precisione. Il primo fu oggetto, nell’arte, della razionalizzazione prospettica; il secondo fu contingentato dall’invenzione degli orologi. Orizzonti ormai allargati, dunque, che provocarono il superamento dell’antica visione cosmologica legata al pensiero aristotelico-tolemaico, che aveva finora concepito un universo finito nello spazio e governato secondo precisi rapporti tra le sfere celesti e il divino. Grazie a intellettuali come Niccolò Cusano e, in seguito, Niccolò Copernico, andò facendosi strada il concetto di un universo dilatato in cui la Terra non occupava più il posto centrale del Creato, ma rappresentava di esso solo uno dei tanti elementi possibili.

L’Umanesimo sconfigge le tenebre Questa nuova


sensibilità trovò la sua massima espressione nella letteratura e nelle arti con l’Umanesimo. Il termine nasce dall’espressione ciceroniana humanae litterae, che indica la letteratura che ha come oggetto l’uomo e la sua realizzazione intellettuale e morale: l’Umanesimo, e più ancora il Rinascimento, furono fenomeni legati non solo e non più agli ambienti ecclesiastici ma anche alla vita cittadina e ai ceti borghesi e nobiliari che ne erano espressione. Non tutta l’Italia fu interessata allo stesso modo dal fenomeno: se esso conobbe il suo apice in Toscana, nello Stato pontificio, in Lombardia e in Veneto, fu assai meno pregnante nel Mezzogiorno e nelle isole. Ricchezza, bellezza, mondanità, intelligenza e fama erano i nuovi valori che la società tardomedievale, attiva nei traffici commerciali e nei viaggi, contrapponeva all’immobilismo e all’“oscurantismo” del passato. A tal proposito, il luogo comune – elaborato dalla storiografia ottocentesca – ha recepito Umanesimo e Rinascimento come una novità che si contrapponeva in maniera netta e decisa al Medioevo: la luce che squarcia, finalmente, il velo delle tenebre e della superstizione. Uno dei “padri” di questa tesi fu Jacob Burckhardt (1818-1897), che interpretò il Rinascimento come età della “presa di coscienza” individuale – della “rinascita” appunto – che dissipa la patina di fede, ignoranza e illusioni che aveva


caratterizzato l’Età di Mezzo. Non così netto, invece, il giudizio di Johann Huizinga (1872-1945), che riconobbe anzi la difficoltà nello stabilire un preciso spartiacque tra i due periodi storici, sottolineando come i punti di contatto fossero molti. C’è chi, come Eugenio Garin (1909-2004), ha voluto vedere nell’Umanesimo un periodo ricco di spunti filosofici e non un mero fatto letterario e filologico basato sulla riscoperta dei classici. Alla crisi della Scolastica e della logica di stampo aristotelico corrispondeva dunque un rinnovato interesse per le discipline di carattere storico e scientifico. Ma la speculazione, lungi dall’essere atea, non si contrapponeva certo alla religiosità “oscurantista” del Medioevo: anche quando rimarcava la libertà dell’uomo, restava nell’ambito dell’esaltazione del Creato e della potenza divina. Il Rinascimento è stato letto anche come il periodo in cui, per la prima volta, si creano rapporti di produzione capitalistici e si assiste a lotte rivoluzionarie del popolo. Siamo dunque alla fine del Medioevo? Non per tutti. Secondo lo storico francese Jacques Le Goff, che ha elaborato il concetto di “lungo Medioevo”, suggestioni e idee proprie dell’Età di Mezzo continuano a far sentire la propria influenza fino al Cinquecento e oltre.

La nuova espressione dell’uomo Qual era il bagaglio culturale degli umanisti e perché si contrapponeva al passato? Innanzitutto, ne facevano parte i classici, sia latini che greci. Non che prima gli autori antichi non


fossero conosciuti e amati: anzi, come abbiamo visto molti di essi erano copiati diligentemente all’ombra dei chiostri. Ma nel Medioevo il loro studio era stato coltivato, appunto, nei monasteri, con gli inevitabili eccessi del caso: al di là del genuino apprezzamento letterario, qui infatti ci si preoccupava di “salvare” gli autori pagani adattandoli al pensiero cristiano senza esitare, laddove si rendesse necessario, a trasformarli in “precursori” della Rivelazione tramite una lettura allegorica del contenuto. L’esempio forse più noto è quello di Virgilio. Poeta pagano, morto nel 19 a.C. e quindi prima dell’avvento di Cristo, fu però ammirato per le sue opere e il suo stile e dunque sottoposto a una vera e propria forzatura interpretativa. Nel quarto componimento (egloga) che faceva parte delle sue Bucoliche aveva cantato – riferendosi all’età di Augusto, in cui viveva – un clima di rinnovamento generale, una nuova età dell’oro aperta dalla nascita di un puer (fanciullo) da una virgo (vergine): leggendo questi versi in chiave allegorica, i dotti medievali videro in essi l’annunciazione profetica della venuta di Cristo. Questa sua fama di “profeta” spiega anche perché Dante lo scelga come guida nei primi due regni dell’oltretomba, l’inferno e il purgatorio. Essendo però pagano, per quanto giusto e magnanimo, Virgilio non può varcare la soglia dell’Eden e dunque resta escluso dalla visione di Dio.


A partire dal Trecento, il nuovo approccio filologico portò a leggere i classici per quelli che erano, ossia dei testi antichi, eliminando le “incrostazioni” che ne avevano travisato fino a quel momento i contenuti. Studiosi come Poggio Bracciolini, Petrarca, Boccaccio, Lorenzo Valla percorsero dunque in lungo e in largo le biblioteche (soprattutto monastiche) di tutta Europa alla ricerca di manoscritti da copiare, confrontare e studiare, riportando in molti casi alla luce opere e autori ormai dimenticati da secoli. Al ritorno di voce dei latini si affiancò la riscoperta, nel testo originale, del greco, favorito dall’esodo di massa degli intellettuali bizantini da Costantinopoli caduta (1453) in mano turca. Il centro pulsante di questa febbrile attività furono le corti signorili, dove i principi – a Urbino come a Milano, a Roma come a Venezia, a Mantova come a Ferrara – facevano a gara per circondarsi di artisti, poeti, filosofi e promuovevano circoli culturali raffinatissimi. Per la prima volta la cultura “alta” si separa da quella popolare – che resta ancorata a schemi prettamente medievali – e rimane appannaggio di una ristrettissima élite. Una separazione che, sul piano religioso, era iniziata già da tempo con il dualismo, sempre più evidente, tra espressioni dotte – dall’arte sacra alla teologia – e popolari, che si manifestavano in forme di devozione marcatamente folkloristiche. La culla più splendida di questa stagione fu la Firenze di Lorenzo de’ Medici (1449-1492), politico accorto ma anche poeta e intellettuale di alto profilo, amante delle arti e della letteratura ed emblema del signore-mecenate del Rinascimento. Alla sua corte trovarono posto dotti, artisti e letterati; l’Accademia platonica, fondata dal padre Cosimo nella villa di Careggi, riuniva filosofi e intellettuali come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Angelo Poliziano e Cristoforo Landino che, sul modello dell’antica Accademia platonica di Atene, studiavano, discutevano e dialogavano sui temi più disparati. Così illuminata, Firenze diede al mondo una quantità tale di capolavori da costruire un mito che sarebbe sopravvissuto intatto nei secoli.

Ritratto dell’artista come individuo Si è parlato a inizio capitolo della concezione dell’artista nel Medioevo e del suo essere ritenuto, più che un creativo animato dal “sacro furore”, un abile artigiano. Con l’età umanistica invece per la prima volta acquisì una propria consapevolezza e una sua identità. Dal Duecento soprattutto, e col Trecento in particolare, gli


Duecento soprattutto, e col Trecento in particolare, gli artisti, pur appartenendo come in passato a una corporazione, iniziarono a emergere dall’ombra assumendo una propria identità individuale. Oggetto dell’artista dell’Umanesimo e del Rinascimento era la ricerca dell’esaltazione di Dio tramite l’uomo e non per mezzo della sua negazione: uno scopo raggiunto attraverso l’imitazione non delle forme e dei risultati raggiunti dalla classicità, alla quale peraltro appassionatamente si richiamava, ma dei processi adottati per raggiungerli. Fu così che poterono emergere personalità multiformi come, ad esempio, Sandro Botticelli, Leonardo, Raffaello e Michelangelo: geni “multidisciplinari” che seppero esprimere il loro essere artisti non limitatamente alle arti figurative, ma cimentandosi nei più diversi ambiti, dalla ricerca scientifica alla filosofia, dalla musica alla letteratura. Va comunque sottolineato che la politica culturale dei grandi signori-mecenati fu esercitata anche per attirare e mantenere intorno a sé il consenso: ciò provocò, alla lunga, la perdita dell’autonomia intellettuale degli artisti e dei letterati, costretti in molti casi a trasformarsi in cortigiani e lacchè del padrone di turno. Ma qua, ormai, siamo decisamente fuori dal Medioevo.

46 C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza, Roma-Bari, 2001. 47 N. Giovè Marchioli, Le sottoscrizioni dei copisti. Problemi e informazioni, seminario per il dottorato di ricerca in Scienze del testo e del libro manoscritto (Università degli Studi di Cassino, 30 marzo 2004), reperibile on line all’indirizzo: http://www.let.unicas.it/dida/links/didattica/palma/testi/giove1.htm


7 Paure, terrori, tabù

Morti irrequieti, demoni, strane apparizioni, fantasmi. È vasto il repertorio dei terrori che invadono la scena dove vive l’uomo medievale e, come i cavalieri dell’Apocalisse, la devastano. Alle paure e alle superstizioni legate all’aldilà – e che riguardano, in ultima analisi, il mistero della morte e il destino che a ciascuno è riservato dopo il trapasso – si aggiungono i timori legati alla contingenza terrena: carestie, calamità naturali, epidemie. Se il grande protagonista (e il grande imputato) è il diavolo, egli non è però il solo a essere ritenuto responsabile dei mali che affliggono il mondo: gli fanno compagnia maghi, stregoni, fattucchiere, streghe, ma anche gli spiriti di coloro che, morti senza redenzione, sono condannati a vagare sulla Terra in attesa che qualcuno, pietosamente, li aiuti a ritrovare la pace eterna pregando per loro. A corollario, una vasta schiera di esseri ereditati dal mondo pagano (fate, gnomi, folletti ecc.) che pervadono con la loro corposa presenza l’immaginario popolare. Per non tacere dei numerosi tabù di cui la società medievale è vittima e che coinvolgono anche gli aspetti apparentemente meno problematici della vita, come l’esercizio delle professioni. La dimensione soprannaturale e trascendente, che coinvolgeva anche la sfera del sacro, era una presenza imprescindibile (e tangibile) per l’uomo medievale. Con essa doveva fare i conti in ogni azione quotidiana. La morte era una presenza assidua vissuta – ci si passi il termine – in maniera quasi viscerale: si moriva in casa, i morti erano seppelliti in città, nelle chiese, a ridosso dei quartieri dove la vita pulsava ogni minuto. E se i sermoni degli ecclesiastici invitavano a riflettere sulla labilità dell’esistenza concentrando l’attenzione sul destino che attendeva l’uomo nell’aldilà, qui e ora, hic et nunc, tale precarietà era esorcizzata – a volte con tratti persino giocosi – nelle credenze e nel folklore.

Volto emaciato, barba caprina Uno dei testi base di tutte le elucubrazioni medievali sul soprannaturale è il


cosiddetto Canon Episcopi. La sua origine non è del tutto chiara: esso è compreso nel De synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis, composto nel 906 dal monaco tedesco Reginone di Prüm, ma per tutto il Medioevo lo si credette elaborato durate il Concilio di Ancira del 314, particolarmente attento alle problematiche inerenti la stregoneria. Il vero protagonista, nel testo, è però il demonio. La stregoneria, si dice infatti, altro non è se non una forma di culto nei confronti di Satana, il quale grazie alla sua straordinaria capacità di creare illusioni, fa credere possibili anche assurdità come il volo delle streghe (le quali, sia detto per inciso, se non sono in grado di volare materialmente, possono però farlo con lo spirito). Non è certo questa la sede per affrontare un tema vastissimo e complesso come quello del diavolo, sul quale peraltro la bibliografia è immensa: basterà spendere qualche parola sulla percezione che se ne aveva nel Medioevo48. Un testimone di eccezione è Rodolfo il Glabro (985-1047), oscuro monaco nato in Borgogna un ventennio prima dello scoccare del Mille e autore di una delle cronache più interessanti e ricche di particolari di un’età che viveva grandi travagli come anche epocali cambiamenti. I cinque libri delle sue Historiae (tradotte sempre in modo improprio ma suggestivamente come “Storie dell’anno Mille”) pullulano di demoni che si azzuffano con gli uomini, li tentano e li trascinano all’inferno; di malfattori impiccati che, pentiti, restano penzoloni come morti per tre giorni e poi resuscitano, riprendendo sciaguratamente la vita di prima. Persino di spiriti maligni che compiono miracoli, come quello che smaschera il mercante di false reliquie facendo fuggire nottetempo come «fantasmi», dalla cassetta in cui erano state poste le ossa, alcune «nere figure di etiopi». Il diavolo esiste eccome, ma non è una creatura eccentrica: obbedisce alla logica costruita da Dio e ha una sua funzione. Lui lo sa bene perché lo ha


visto. Sentiamo la sua testimonianza. Dunque proprio a me, non molto tempo fa, Dio ha voluto che un fatto simile capitasse più volte. Al tempo in cui vivevo nel monastero del beato martire Leodegario, che chiamano Champeaux, una notte, prima dell’ufficio di mattutino, comparve davanti a me ai piedi del mio letto una specie di nano orribile a vedersi. Egli era, per quanto posso giudicare, di statura mediocre, con un collo gracile, un volto emaciato, occhi nerissimi, la fronte rugosa e raggrinzita, il naso schiacciato, la bocca prominente, le labbra tumide, il mento stretto e fuggente, una barba caprina, le orecchie pelose e aguzze, i capelli irti e scomposti, denti di cane, il cranio appuntito, il petto gonfio, il dorso gibboso, le natiche frementi, vesti sordide, accaldato per lo sforzo, tutto il corpo chino in avanti. Egli afferrò l’estremità del materasso su cui riposavo, scuotendo terribilmente tutto il letto, e disse infine: «Tu non resterai più a lungo in questo posto». Io, spaventato, risvegliatomi di soprassalto lo vedo come l’ho appena descritto. Lui intanto, digrignando i denti, continuava a ripetere: «Non resterai più a lungo qui». Subito saltai dal letto, corsi all’oratorio e mi prostrai davanti all’altare del santissimo padre Benedetto, invaso dal terrore. Ci rimasi a lungo e cercai di ricordare febbrilmente tutti gli errori e i peccati gravi che in gioventù avevo commesso per indocilità o negligenza, tanto più che le penitenze, accettate per amore o per timore di Dio, si riducevano quasi a nulla. E così, confuso e angustiato dalla mia miseria, non riuscivo a dire niente di meglio che queste semplici parole: «O Signore Gesù, che sei venuto per salvare i peccatori, nella tua grande misericordia abbi pietà di me».

La seconda volta, Rodolfo si imbatte nel diavolo nel monastero di San Benigno, a Digione. Adesso gli appare nel dormitorio. «L’aurora – racconta – cominciava a spuntare quando uscì correndo dal locale delle latrine gridando: “Dov’è il mio baccelliere? Dov’è il mio baccelliere?”. L’indomani, verso la stessa ora, un giovane fratello di nome Teoderico, fuggì dal convento, lasciò l’abito e condusse per qualche tempo la vita del secolo». Più avanti si sarebbe pentito tornando al monastero. In ultimo, eccolo nel monastero di Moutiers: Una notte, mentre suonava il mattutino, stanco per non so quale lavoro, non mi ero alzato come avrei dovuto al primo suono della campana; alcuni erano rimasti con me, prigionieri di questa cattiva abitudine, mentre gli altri correvano in chiesa. Gli ultimi erano appena usciti, quando lo stesso demonio si mise a salire sbuffando la scala e, con le mani dietro la schiena, appoggiato al muro, ripeteva due o tre volte: «Sono io, sono io, che sto con quelli che rimangono». A quella voce, alzando la testa, riconobbi colui che avevo già visto due volte. Tre giorni più tardi, uno dei confratelli particolarmente pigri, fu istigato dal demonio a lasciare il convento per sei giorni dandosi a vita secolare sfrenata. Ma il settimo rientrò all’ovile. La conclusione di Rodolfo è inevitabile: «È certo, come attesta san Gregorio, che se queste apparizioni sono di danno agli uni, aiutano gli altri a emendarsi». E chiede (anche al lettore?) una preghiera per la salvezza della sua anima. Il monaco borgognone, naturalmente, non è l’unico ad aver beneficiato – se


così si può dire – di questa esperienza. Prima di lui, molti santi erano stati duramente messi alla prova dal principe delle tenebre. Sant’Antonio abate ne subì le tentazioni nel deserto, san Martino veniva sistematicamente disturbato dal demonio mentre pregava. A volte Satana gli appariva brandendo un corno di toro insanguinato, altre volte addirittura assumendo l’aspetto di Cristo. Ma non riusciva a uccellare il santo ed era costretto a fuggire in una nuvola di gas mefitici. Gregorio Magno racconta nei suoi Dialogi molti episodi in cui il diavolo prende possesso delle sue vittime e viene scacciato soltanto grazie all’intervento di un uomo pio. Tramite questi exempla, gli autori intendevano fornire a chi ascoltava o leggeva chiari insegnamenti morali: diffidare dal peccato e non abbassare mai la guardia perché è molto facile, per il demonio, impadronirsi dell’uomo e condurlo alla perdizione. Basta approfittare della sua intrinseca debolezza. Se il diavolo dei monaci è dunque un essere mostruoso sempre in agguato che ha il solo scopo di condurre l’uomo ai tormenti eterni, quello che si ritrova nel folklore ha caratteri molto più leggeri e buffi. Forse perché, a livello popolare, si cercava di esorcizzarne il terrore. Va detto che l’immagine diffusa del demonio era dettata dal sovrapporsi, sui passi biblici, di vari elementi di chiara matrice pagana che provenivano, in genere, dall’area nordica (celti e germani) e slava. Nei lunghi secoli in cui si consumò l’incontro-scontro tra cristianesimo e culti pagani, egli assume (forse meglio, fagocita) tutta una serie di caratteristiche che erano proprie delle tante divinità fino a quel momento venerate: le corna di Cernunnos, dio della fertilità e degli inferi; la prorompente sessualità di Pan dalle forme caprine; le sinistre prerogative di Wotan, signore della guerra e della distruzione. Accanto a lui sopravvivono i ricordi di una folta schiera di entità magiche come i draghi, i folletti, gli gnomi, le fate, i giganti, i mostri, i fantasmi. Ma a terrorizzare era soprattutto l’esercito dei morti.


La masnada di Hellequin Questa schiera, la “masnada di Hellequin”, viene descritta per la prima volta in maniera compiuta – anche se la questione affonda le radici in un’epoca ben più antica – dal monaco anglo-francese Orderico Vitale (1075-1142). Attraversa i villaggi devastando tutto quel che trova. Orderico racconta quello che vide il prete normanno Walchelin la notte del primo gennaio 1091 mentre ritornava da una visita a un malato della sua parrocchia49. Da lontano, ode il fragore di un grosso esercito e pensa sia quello del terribile Roberto di Bellême, uomo crudele e sanguinario. Si nasconde per evitare il peggio, ma gli appare un gigante, armato di randello, che gli ordina di guardare attentamente quello che sta per accadere. Quello che vede ha dell’incredibile: Il primo gruppo era il più composito. Era un’immensa truppa di fanti, con bestie da soma cariche di vesti e di utensili diversi, come briganti che camminano oppressi sotto il peso del bottino. Affrettavano il passo gemendo e fra loro il prete riconobbe dei vicini recentemente deceduti. Seguiva una schiera di sterratori [turma vespillionum], alla quale si unì il gigante; essi portavano a due a due una cinquantina di barelle cariche di nani, che avevano la testa smisuratamente grossa o a forma di vaso [dolium]. Due etiopi – demoni neri – portavano un tronco d’albero sul quale era legato e torturato uno sventurato che urlava per il dolore; un demone terrificante, seduto sul tronco, lo feriva ai reni e alla schiena colpendolo con i suoi speroni incandescenti. Subito dopo, una torma di donne a cavallo, «sedute all’amazzone su selle dotate di chiodi ardenti; incessantemente il vento le sollevava all’altezza di un cubito per lasciarle poi ricadere dolorosamente sulle loro selle; i seni erano trapassati da chiodi arroventati che le facevano urlare e confessare i loro peccati. Poi giunge un gruppo di preti e monaci, guidati da vescovi e abati, che portano ognuno la propria croce e supplicano Walchelin di pregare per loro. Ancora, un esercito di cavalieri (exercitus militum) nero e vomitante fuoco, armato come se andasse alla guerra... Walchelin si rende conto che si tratta della “masnada di Hellequin” (familia Herlechini) di cui tanto aveva sentito parlare ma senza mai crederci. Volendo raccogliere prove del tremendo spettacolo, decide di catturare uno dei cavalli della processione, ma invano. A questo punto accade l’indicibile: quattro cavalieri lo accusano di aver cercato di rubare. Uno di essi, dopo essersi presentato, chiede a Walchelin di portare un messaggio alla


moglie e di intimare al figlio di restituire un mulino che egli aveva preso a usura, ma il prete si rifiuta perché teme di non essere creduto e anzi di essere preso per matto. Il morto enumerò dunque i “segni” che finirono col convincere il prete, il quale ascoltò il messaggio che doveva trasmettere. Ma Walchelin tornò in sé: non voleva fare da messaggero per un criminale. Preso da furore l’altro lo afferrò alla gola con una mano ardente che vi avrebbe lasciato un marchio indelebile, il signum dell’autenticità dell’apparizione. Lasciò la presa quando il prete invocò la Madre di Dio, anche perché un nuovo cavaliere si era interposto, levando la sua spada e accusando gli altri quattro di voler uccidere suo fratello. Il nuovo arrivato rivelò la propria identità: si trattava del fratello di Walchelin, Roberto, figlio di Rodolfo il Biondo.

Dopo aver spiegato al fratello le malefatte che lo avevano condotto nella masnada, Rodolfo torna dai suoi terribili compagni raccomandandosi a Walchelin perché preghi per lui permettendo la sua liberazione e si comporti rettamente, pentendosi dei suoi peccati, visto che sarebbe morto di lì a poco. Il racconto ha scopo edificatorio: tutti costoro, divisi nei tre ordini di cui si compone la società (oratores, bellatores, laboratores), marciano verso la dannazione eterna. Per evitarla, l’unico modo è la conversione e la preghiera. Il mito della masnada di Hellequin – più tardi “neutralizzato” nella maschera di Arlecchino – e della sua variante principale, la “Caccia selvaggia”, raccoglie senza dubbio tradizioni orali molto più antiche. Dietro questa magnifica e terribile immagine non è difficile scorgere retaggi di culti e credenze di stampo marcatamente pagano, in particolare di tipo celto-germanico. Lo stesso nome di Hellequin (noto anche nelle forme “Herlequin” o “Helething”) parrebbe di origine germanica a partire dal riferimento all’esercito (in tedesco Heer) e all’assemblea dei guerrieri liberi (Thing). La sua figura, inoltre, è assimilabile a quella del dio Wotan-Odino, che era il condottiero in capo della famigerata caccia selvaggia.


La morte inquieta Tutto il Medioevo, a dire il vero, pullula di fantasmi e apparizioni. Ne sono piene le cronache, ma anche le vite dei santi, soprattutto nei primi secoli. Perché se ne parla? Non certo per il gusto, puro e semplice, di narrare un episodio dai toni horror. Lo scopo è sempre funzionale: di solito si vuole, tramite episodi fantastici e meravigliosi, dare insegnamenti di tipo morale. Ma – nel caso compaiano nelle vite dei santi – anche mostrarne a tutti le virtù e i miracoli. Per comprendere appieno il fenomeno, occorre tener presente come l’uomo medievale si accostava al mistero della morte e quale fosse ritenuto il destino delle anime nell’aldilà. Nei primi secoli la concezione era, si può dire, dualistica: chi aveva ben meritato andava in paradiso, chi aveva peccato all’inferno. Il purgatorio non esisteva: la sua “invenzione” – ne parliamo nel capitolo dedicato alla morte – risale al Duecento per permettere un’equa collocazione anche per chi, non così santo da essere ammesso al cospetto di Dio, non era abbastanza malvagio da meritare la dannazione eterna. Fino ad allora, l’anima non abbastanza “retta” o “malvagia” sostava semplicemente in prossimità del luogo del decesso in attesa che i vivi la liberassero grazie alla preghiera. Anche per questo, nei primi decenni dell’XI secolo a Cluny si andò elaborando una nuova prassi per il culto dei morti che prevedeva, tra le altre cose, l’istituzione di una giornata – il 2 novembre – interamente dedicata a loro. Per esortare i vivi a compiere il loro “dovere”, le anime non esitavano a mostrarsi. Ma come era possibile? La questione è complessa. Secondo uno dei più importanti Padri della Chiesa, sant’Agostino, se i morti appaiono – e lo fanno solo con lo spirito, non col corpo – è solo per volontà divina. Lo scopo – lo scrive nel De cura pro mortuis gerenda (“Sulla cura dovuta ai morti”) – è chiedere ai vivi, di solito ai parenti, di pregare per loro e spalancare così le porte del cielo. Ma se il trapassato si manifesta anche con il corpo, allora è opera del demonio. Va sottolineato che l’esistenza del fantasma è legata strettamente allo svolgimento del “rito di passaggio” della morte: esso, cioè, si manifesta nei casi in cui il rito si è compiuto in maniera non conforme, anomala, incompleta o problematica. Ritornano coloro che sono morti in modo subitaneo, improvviso o violento, chi non ha avuto cristiana sepoltura, i suicidi, le donne decedute di parto, i neonati che non hanno ricevuto il battesimo. E quando lo fanno, tormentano i vivi finché essi non intervengono per far loro ottenere la pace eterna. Quando qualcuno moriva in circostanze sospette, la comunità prendeva le


dovute precauzioni affinché non potesse ritornare. Il cadavere veniva allora sepolto (si veda il capitolo sulla morte) con i piedi amputati oppure trafitto da un palo acuminato, quasi lo si volesse inchiodare per sempre alla terra. Tutto ciò, però, a volte non era sufficiente. Ed ecco allora l’intervento, quanto mai necessario, di un uomo di chiesa, meglio ancora se in odore di santità. È il caso del fantasma di un malvivente che compare a san Germano, vescovo di Auxerre (siamo in pieno V secolo), mentre sosta per riposarsi in una casa diroccata insieme ad alcuni chierici. Gli abitanti del luogo dicono chiaramente che la dimora è infestata. Ma il sant’uomo non si fa impressionare e decide di pernottarvi lo stesso. All’improvviso, un orribile spettro si manifesta alla comitiva. Ma quando il vescovo, invocando il nome di Cristo, lo interroga per sapere chi sia e come mai si trovi in quello stato, il fantasma racconta umilmente di aver commesso, in vita, numerosi delitti e di giacere insepolto insieme a un compagno in una sorta di discarica: chiede quindi l’intercessione di Germano perché lui e il compare possano trovare finalmente la pace eterna. Sfidando la notte, il vescovo e i suoi si recano, accompagnati dal fantasma, sul luogo dove giacciono le spoglie. L’indomani, aiutati da alcuni abitanti del luogo, le ossa vengono trovate e pietosamente seppellite: grazie alla preghiera del santo vescovo, non avrebbero tormentato più nessuno.


Fantasmi assassini Non sempre, però, a risolvere la situazione è un chierico. Saxo Grammaticus (1150-1220 ca.), autore delle Gesta Danorum, narra ad esempio che un guerriero di nome Asmund aveva promesso all’amico Aswid, morto prematuramente, di portargli nella tomba alcune provviste. Tuttavia quest’ultimo ritorna in vita a ogni calar del sole e, dopo aver mangiato il cane e il cavallo di Asmund, aggredisce anche il sodale staccandogli un orecchio. Per neutralizzarlo, l’eroe è costretto a decapitarlo e a inchiodarlo a terra con un paletto. Addirittura un imperatore, Ludovico il Germanico, riceve in sogno la visita del padre Ludovico il Pio, che lo scongiura di strapparlo ai tormenti dell’aldilà. Terrorizzato, consegna alla parola scritta quanto avvenuto e ordina che il racconto sia fatto recapitare a tutti i monasteri del regno affinché i monaci preghino per la salvezza dell’illustre defunto. La memoria dei morti durava poco, il tempo strettamente necessario per consentire loro, tramite messe e preghiere appunto, di abbreviare la condizione di purganti e di abbandonare, definitivamente, ogni contatto col mondo dei vivi. Nel XIII secolo Gervaso di Tilbury e Geraldo Cambrense distinguono i miracula dai mirabilia: entrambi suscitano stupore, ma mentre i primi comportano una sospensione dell’ordine naturale per volontà di Dio (resurrezione di morti, guarigioni miracolose ecc.), i secondi sono dovuti a una causa non immediatamente percepibile. Tuttavia ci sono anche morti che tornano per vendicarsi di torti subiti. Un caso emblematico è quello, narrato dallo stesso Gervasio, in cui il defunto addirittura uccide la sua vedova. L’errore della povera donna era stato quello di risposarsi dopo aver giurato al marito, Guglielmo di Mostiers, che non lo avrebbe mai fatto. Egli torna dunque armato di un mortaio da cucina, la avvicina e la colpisce mortalmente alla testa. Benché nessuno tranne lei potesse vedere lo spirito, tutti scorgono chiaramente l’utensile mentre viene sollevato da una mano invisibile per poi abbattersi con forza sul cranio della malcapitata. Ad apparire sono anche chierici, priori e abati. Spesso lo fanno in sogno. Così nel Duecento il priore del monastero di Saint-Médard di Soissons si manifesta a un frate, Uberto, per dirgli che dopo la sua morte la Vergine è intervenuta per redimere i suoi numerosi peccati. Come da prassi, poco dopo Uberto lo raggiungerà nel sepolcro. Ancora vivo è invece l’abate Guglielmo da Volpiano quando una notte compare a Rodolfo il Glabro per esortarlo a


continuare il libro di cronache che stava componendo ma che aveva inopinatamente accantonato: «Me lo vidi accanto, con il suo volto mite, e accarezzandomi il capo con la mano mi diceva: “Ti prego, non dimenticarmi, se non fingevi di amarmi. Desidero piuttosto che tu debba portare a termine l’opera che avevi promesso”». Morirà di lì a poco.


Prodigi malauguranti Ci sono poi processioni di monaci biancovestiti che appaiono ai confratelli per rassicurarli sul loro destino, come nella Vita di Bernardo di Tiron. Ce ne sono altri che cantano i salmi. Quando si manifestano, è sempre per annunciare l’imminente morte di qualcuno: o il diretto destinatario della visione, oppure una o più persone a lui vicine. Tutti costoro vengono così “preavvertiti” circa il loro imminente trapasso, in modo che possano avere il tempo sufficiente per redimersi. Se questo vale per gli umili monaci, la musica cambia quando si tratta di principi e regnanti. Le morti illustri sono annunciate per tempo da una moltitudine di prodigi e di eventi nefasti. Eginardo, biografo di Carlo Magno, elenca una serie di presagi (prodigia) che si manifestarono tre anni prima del decesso dell’imperatore: eclissi di sole e luna, macchie solari, crollo di un portico, l’incendio del ponte di Magonza, scosse nel palazzo imperiale, persino la scomparsa della parola princeps (“capo”) da un’iscrizione. Durante il regno di re Roberto II, compare in cielo una strana cometa che resta visibile per ben tre mesi: subito dopo, la chiesa di San Michele Arcangelo, santuario venerato in tutto il mondo, viene distrutta da un incendio. Nella più volte citata opera di Gregorio di Tours, in cui emerge una società fondata sul principio della vittoria del più forte, la storia appare come un susseguirsi di complotti, guerre, uccisioni, devastazioni condite dall’apparizione di prodigi: Una notte, era il terzo giorno dopo le Idi di Novembre [il 18, n.d.a.], mentre stavo celebrando le veglie del beato Martino mi apparve un grande prodigio; infatti nel centro della luna si vide brillare una stella fulgente e, sopra e sotto la luna, altre stelle apparvero vicine. In più, apparve tutt’intorno a quella l’alone che spesso annuncia la pioggia. Tuttavia non so cosa tutto ciò volesse dire (Libro V, 23). Come già Rodolfo il Glabro, Gregorio non è insensibile al fatto strano e miracoloso. Ma a differenza del primo non si sbilancia, Sono i contadini a ricordare che fenomeni simili di solito annunciano sventure. E infatti, non molto dopo ecco nubifragi, inondazioni, ecatombi di bestiame, incendi, grandine, persino un terremoto a Bordeaux: «Tutta la popolazione fu atterrita dalla paura della morte tanto da credere che, se non si fosse salvata con la fuga, sarebbe sprofondata insieme alla città» (Libro V, 33). A seguire, un’epidemia falcidia la


popolazione e si porta via anche alcuni membri della famiglia regnante.


Restare senza pane Uno dei terrori più diffusi riguardava in effetti eventi contingenti quali carestie, inondazioni e terremoti. Calamità naturali che l’uomo sapeva di non poter né prevedere né controllare. Si trattava di eventi nemmeno troppo rari, vista anche la fragilità del sistema produttivo e la quasi totale assenza – almeno nei primi secoli del Medioevo – di pianificazione ambientale. Alle pagine di Gregorio di Tours è consegnata la memoria della grande magra che flagellò le Gallie alla fine del VI secolo. La popolazione, inerme di fronte alla mancanza di viveri, si ingegnò allora ricavando il pane – l’alimento per eccellenza – da quel poco che riusciva a trovare: semi di uva, nocciole, persino le radici delle felci, che polverizzate servivano a rimpolpare la scarsissima farina rimasta nei granai. Addirittura – la testimonianza è degli Annali di Saint Bertin – si finiva per mischiarvi la terra. La carestia, quando si verificava, toccava tutti – o quasi – allo stesso modo. E non c’era maniera di scamparvi. Un esempio eloquente è ciò che accadde tra il 1315 e il 1317, quando complici le piogge incessanti e le temperature insolitamente rigide i raccolti non maturarono o marcirono nei campi gettando nel panico intere regioni d’Europa. I prezzi lievitarono a dismisura, fino al 300%, e tutti, salvo i più ricchi, dovettero arrangiarsi ricavando cibo dalle radici e dai pochi frutti spontanei dei boschi. Ma alla lunga anche i più facoltosi si trovarono in difficoltà. Persino i sovrani – il re d’Inghilterra Edoardo II in primis – si videro costretti a fare i conti con la penuria di risorse. La disperazione era tale che non si esitava a ricorrere a gesti estremi: dopo che tutti gli animali da lavoro e da tiro furono macellati, ci si gettò sulle carogne. Non mancarono nemmeno i casi di cannibalismo. Nessuno si sentiva più sicuro e si scrutava il cielo con terrore, come in attesa di una maledizione definitiva. Per tentare di comprendere lo stato d’animo dei tempi, il testimone migliore è ancora una volta Rodolfo il Glabro, che scrisse pagine terribili sulla già citata carestia del 1033 provocata da tre anni di piogge torrenziali. Sentiamo ancora la sua voce: «Dopo aver mangiato – scrive – le bestie selvatiche e gli uccelli, gli uomini si misero, sotto la sferza di una fame divorante, a raccogliere, per mangiarle, ogni sorta di carogne e di cose orribili a dirsi. Certi, per sfuggire alla morte, ricorsero alle radici delle foreste e alle erbe. Una fame rabbiosa spinse gli uomini a cibarsi di carne umana». I viaggiatori dovevano stare attenti alle


imboscate. Molte persone che si trasferivano da un luogo all’altro per fuggire la carestia e lungo il cammino avevano trovato ospitalità, furono sgozzate durante la notte e servirono di cibo a coloro che le avevano accolte. Molti, mostrando un frutto o un uovo a qualche bambino, lo attiravano in luoghi appartati per massacrarlo e divorarlo. In molti posti i corpi dei defunti furono strappati alla terra e anche essi servirono a placare la fame. Questa rabbia delirante arrivò a tali eccessi che le bestie rimaste sole erano più sicure degli uomini di poter sfuggire alle mani dei rapitori.

E ancora: [Nella regione di Mâcon] molti traevano dal suolo una terra bianca simile ad argilla e la mescolavano con quel tanto di farina o di crusca che avevano e con questo miscuglio facevano pani grazie ai quali contavano di non morir di fame; pratica che peraltro dava soltanto una speranza di salvezza e un sollievo illusorio. Non si vedevano che visi pallidi ed emaciati; molti avevano la pelle tesa da gonfiori; le voci stesse erano diventate esili, simili al fioco grido di uccelli morenti...50

Si susseguono le preghiere, le penitenze, le invocazioni a Dio. Dopo tre anni, per fortuna l’incubo finisce. Ma l’uomo, che per sua natura – secondo Rodolfo – è intrinsecamente attratto dal male, se anche stavolta l’aveva scampata, per certo avrebbe attirato su di sé nuovi guai e nuove tribolazioni. Cos’era tutto questo, in fondo, se non la giusta punizione riservata dal Signore agli uomini che deviavano dalla retta via, dediti alle passioni come le più irrazionali e immonde delle bestie? Perennemente in bilico tra santità e dannazione, esposto alle lusinghe dei sensi e alle tentazioni del demonio, l’individuo attendeva dunque impotente il compiersi del suo ineluttabile destino. A spingerlo verso la fine non c’erano solo le seduzioni carnali. In agguato c’erano anche le deviazioni – più subdole e sottili e dunque ancor più pericolose – alla giusta dottrina. Stavolta il fascino era quello – altrettanto irresistibile ma ancora più pericoloso perché oltre al corpo condannava l’anima – dell’eresia. Come difendersi da tutto questo? Sin dall’antichità si ricorreva a sommari mezzi di protezione, come le invocazioni agli dèi, la deposizione di amuleti presso le fonti, i crocicchi e gli alberi, le “legature”. L’uso continua anche nel Medioevo ed è prontamente condannato dalla Chiesa: le invocazioni e gli amuleti richiamano i demoni, così come agenti del demonio sono gli stregoni coinvolti in queste superstizioni. Le legature di osso e di erbe sono definite dal Concilio di Tours (813) come «lacci del diavolo». Ma c’è un modo per rendere “lecite” queste pratiche: compierle in nome di Dio, invocando i santi e impartendo le “segnature” col segno della croce. Ora, è più che comprensibile che queste pratiche fossero molto diffuse nell’Alto Medioevo, quando il


cristianesimo ancora non si era compiutamente diffuso ovunque e anche laddove aveva attecchito, soprattutto se in zone periferiche, si era in molti casi sovrapposto in maniera sincretistica ai culti pagani preesistenti. Ma ancora san Tommaso d’Aquino, in pieno Duecento, scrive senza mezzi termini: «Ai cristiani è vietato dedicarsi a “osservazioni” o incantesimi raccogliendo erbe chiamate medicinali, eccetto che sotto la salvaguardia del Simbolo divino [ossia, il Credo, detto anche Symbolum, n.d.a.] e del Pater Noster»51.

Dàgli all’untore Credenze e superstizioni, comunque, sono dure a morire e nonostante le condanne sopravvivono lo stesso un po’ ovunque. Per tutto il Medioevo si ha notizia di culti praticati presso fonti ritenute sacre e nei boschi: nel capitolo relativo alle feste e al folklore ce ne occupiamo diffusamente. Ma c’era anche chi accusava persone innocenti di mettere a repentaglio l’incolumità pubblica. In genere ciò riguardava determinate categorie – come gli ebrei – tradizionalmente viste con sospetto. Si può dire, quasi, che fossero “guardate a vista”: non appena si verificava qualche inconveniente di larga portata, ne erano ritenute responsabili. Così avvenne in occasione delle ondate di epidemie che periodicamente devastavano l’Europa. A migliaia furono massacrati e i luoghi in cui vivevano distrutti. Chi era sospettato di essere un untore pagava sempre con la vita. A volte, però, si accusavano anche i singoli. Agobardo, arcivescovo di Lione nella prima metà del IX secolo, autore peraltro di vari libelli antigiudaici, scrive ad esempio una predica intitolata Contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis (“Sulla folle opinione popolare circa la grandine e il tuono”). Ai suoi tempi si credeva nella capacità di alcuni di provocare, a piacimento, tempeste e grandinate allo scopo di distruggere i raccolti o, addirittura, di uccidere persone e animali. Per evitare che ciò accadesse, quando tuonava si pronunciava uno scongiuro («Aura levatitia est»). E il bello (o il brutto) è che a credere a queste «assurdità» non erano solo i contadini, ma «quasi tutti gli uomini». I tempestarii tormentavano questa zona di Francia insieme ad altri mascalzoni, i venefici (avvelenatori), che invece appestavano gli animali causandone la morte. Loro è la colpa della terribile mortalitas boum (“moria di buoi”) che nell’810 infuriò nell’impero carolingio. I colpevoli, secondo Agobardo, hanno una provenienza ben precisa: il regno di Grimoaldo IV di Benevento, acerrimo nemico di Carlo


Magno. Costoro spargono una polverina infetta nei campi e nelle sorgenti: pascolando e abbeverandosi, le bestie si contaminano e muoiono. La punizione per i (presunti) colpevoli è il linciaggio. La credenza nei magici poteri dei tempestarii e dei venefici continua nei secoli successivi: Bernardino da Siena nel Quattrocento interverrà ancora sullo stesso argomento. Dopo di che, l’accusa di provocare tempeste diventerà solo una tra le tante che compongono il curriculum della perfetta strega. Ma di lei parleremo fra poco.

Tra mille tabù Non mancavano nemmeno i tabù, che erano numerosi. Tra questi, c’era il suicidio. Su di esso pesava il giudizio morale su Giuda, che si era tolto la vita dopo aver tradito Cristo. Già sant’Agostino, nel De civitate Dei (“La città di Dio”), sosteneva che uccidersi violasse il quinto comandamento («Non uccidere»), il quale era rivolto non solo agli altri ma anche a se stessi52. Per Tommaso d’Aquino (1224-1274) non solo era incompatibile con la legge dell’autoconservazione, ma violava la pace sociale perché «ciascun uomo appartiene essenzialmente alla comunità» come la parte al tutto. Inoltre, poiché la vita è un dono di Dio l’uomo non può disporne a piacimento. Il momento del trapasso dipende solo dall’Onnipotente: chi si suicida dunque si ribella alla natura e all’ordine del creato e, in ultima analisi, al Creatore stesso. Come già avevano stabilito anche molti concili ecclesiastici (Arles nel 452, Orléans nel 553, Braga nel 563 e Auxerre del 578; quello di Toledo del 693 punisce con la scomunica anche il solo tentativo), esso è dunque da condannare senza riserve53. La causa era a volte attribuita all’accidia, ossia alla noia e all’indolenza (noi oggi diremmo “il male di vivere”...). Pian piano, a causa dell’influenza del pensiero cristiano sul sistema giuridico occidentale, da colpa etico-morale diventa anche reato: Non potendo punire il suicida, ci si accaniva sul suo cadavere con tutta una serie di gesti che spesso avevano soprattutto un significato apotropaico, in quanto il suicida, come tutti i morti di morte violenta, era considerato un pericoloso fantasma: a volte lo si bruciava; a volte lo si chiudeva in una botte e lo si gettava in un fiume, per “sciacquar” via il pericolo da lui rappresentato; a volte si cercava di renderlo inoffensivo impalandolo o decapitandolo. I cadaveri dei suicidi non venivano fatti uscire dalla porta principale di casa, bensì da un buco nel muro, dalla finestra, dal tetto. Li si conduceva al cimitero per strade secondarie. Non si


poteva farli entrare dalla porta principale del cimitero: dovevano essere fatti passare capovolti sopra il muro di cinta. Nella bara venivano sepolti col volto all’ingiù. Dato che la chiesa proibiva di seppellirli in terra consacrata, essi venivano sotterrati anche ai crocicchi (con un palo conficcato nel corpo) o ai confini della città, o si sceglieva un luogo deserto e discosto. Se li si accettava nei cimiteri, li si metteva in un angolo vicino al muro o sotto la grondaia. La tomba del suicida non doveva essere curata54. Tuttavia – anche se si tratta di un’eccezione – qualche volta anch’egli poteva essere redento se a intercedere per lui è un sant’uomo come l’abate Ugo di Cluny. Siamo a cavallo tra XI e XII secolo. Un monaco di nome Stefano si è da poco impiccato nel bosco e uno dei suoi confratelli dice di aver appreso da una voce soprannaturale che il suo spirito non ha pace a causa del suo folle gesto. Ugo prega intensamente per giorni. Infine, il “messaggero celeste” si manifesta di nuovo per comunicare che l’anima del povero Stefano è stata finalmente accolta in paradiso55. Due secoli dopo Dante collocherà inesorabilmente i suicidi all’Inferno (canto XIII), riservando loro una sorte terribile anche dopo il giorno del Giudizio: avendo infranto la sacra e inscindibile unione tra spirito e corpo, alla fine dei tempi saranno condannati ad appendere le loro misere spoglie al cespuglio che, nella «mesta selva», era germogliato dalla loro stessa anima.

Il mercante? Un onesto ladro I tabù riguardavano anche, più terra terra, l’ambito lavorativo. C’era tutta una lunga serie di mestieri guardati con sospetto, evitati o addirittura proibiti ad alcune categorie di persone come, ad esempio, i chierici, perché si riteneva allontanassero dai servizi divini. Altri sono ammessi ma solo se non hanno fini di lucro. Altri ancora – i cosiddetti opera servilia – non possono essere svolti la domenica. L’elenco di queste “professioni da evitare” varia nei particolari da epoca


a epoca, ma in generale si può dire che la riprovazione riguardasse tre tipi di tabù: del sangue, della sporcizia e del denaro. Della prima categoria facevano parte macellai, beccai ma anche medici, chirurghi, barbieri e speziali – questi ultimi, com’è noto, praticavano i salassi –, boia e persino soldati. Al secondo tipo di tabù, quello della sporcizia, afferivano conciatori, tessitori, tintori, cuochi, lavandai, lavapiatti. Col denaro, invece, avevano a che fare in maniera diretta i mercanti, i cambiavalute, i doganieri, i notai e gli usurai. A questi vanno aggiunti i mestieri considerati, a vario titolo, “pericolosi per l’anima” in quanto a diretto contatto con i vizi: locandieri, tenutari di bagni pubblici, giullari, osti, prostitute. Guardati con sospetto erano anche le tessitrici di professione – che esercitavano un’attività tradizionalmente “domestica” ma al di fuori dell’ambito familiare – e i mugnai (considerati alla pari dei ladri perché tagliavano le farine con altre di minor pregio e falsificavano pesi e misure). Forse la più grande vittima del pregiudizio, però, è stato il mercante. La sua nomea di ladro e truffatore era dovuta al fatto che guadagnava senza produrre (apparentemente) nulla. Accusato di speculare sul tempo, di viaggiare troppo ed essere apolide, si sarebbe riscattato solo negli ultimi secoli dell’Età di Mezzo. I presupposti di questo discorso sono semplici. L’età classica, come ben noto, era caratterizzata dalla dicotomia otium-negotium: l’otium è l’attività intellettuale, ideale per la realizzazione dell’uomo nella pienezza del suo spirito, mente il negotium – ossia, letteralmente, la negazione dell’otium – è considerato vile. L’uomo ideale, insomma, per il romano non lavora ma vive di rendita e si


occupa del bene della res publica, mentre il servus, lo schiavo, si abbrutisce tra gli affari commerciali. Solo il lavoro agricolo, in quanto essenziale alla sussistenza della società, è considerato decoroso. Cincinnato, per citare un personaggio esemplare, nel VI secolo a.C., dopo aver compiuto i suoi doveri nei confronti della res publica, torna ad arare il suo campo fuori dall’agone politico per poi essere richiamato, a settantacinque anni suonati, a ricoprire nuovamente la carica di dictator quando si profilano all’orizzonte nuovi pericoli. Con l’imporsi del cristianesimo, il lavoro tout court viene rivalutato in virtù di una concezione più problematica e maggiormente connessa all’etica: il lavoro, cioè, occupa il corpo e la mente e tiene lontana la pigrizia che infiacchisce lo spirito. Le Regole monastiche, in primis quella benedettina che unisce la preghiera al lavoro – la massima è ora et labora – esaltano la fatica come occupazione necessaria e come mezzo per glorificare Dio. La prospettiva antica, dunque, viene nelle sue linee generali completamente ribaltata. Ed è qui che nasce il celebre adagio «l’ozio è il padre dei vizi». La nuova sensibilità, però, non spazza via del tutto quella precedente, bensì si innesta su di essa dando vita a una concezione “ibrida” per la quale non tutti i lavori sono uguali: alcuni sono rispettabili, altri no. Ve ne sono, addirittura, di pericolosi per l’anima. Ed eccoci dunque al mercante. Il mondo antico, pur non condannandolo espressamente, lo ha sempre guardato con sospetto per vari motivi. Secondo la visione più diffusa il lavoro, per essere considerato tale, doveva produrre la trasformazione di un bene in un altro per mezzo della fatica – il labor, appunto. Ora, poiché le energie che il mercante spendeva come intermediario tra produttore e consumatore non comportavano alcuna trasformazione visibile, egli era considerato un imbroglione, un truffatore e anche un falsario: rivendeva, cioè, un bene a un prezzo più alto del suo reale valore senza aggiungervi apparente fatica e il suo compenso, in quanto non derivato dal sudore, non era giustificato. A ciò si aggiunge che per fare il suo mestiere il mercante viaggiava spesso ed era, tendenzialmente, apolide e assimilabile allo straniero, a sua volta visto con sospetto in quanto “diverso”. Poiché inoltre accadeva spesso che a esercitare commerci specifici fossero particolari etnie, interi popoli noti come per le loro attività commerciali – i siri, gli ebrei, i fenici... – venivano etichettati nel luogo comune come avidi, ingannatori e usurai. Gli stessi pregiudizi riguardano, nel mondo antico, anche l’artigiano. Egli svolge un lavoro di tipo manuale, occupazione solitamente riservata agli schiavi, e in più, essendo il suo un mestiere subordinato ai voleri del committente, si pone in rapporto a esso come un vero e proprio servo. A ciò si aggiunge che il lavoro artigianale era spesso esercitato in luoghi malsani e poteva causare


infortuni e deformazioni: chi vi era dedito, insomma, rischiava di essere privato dell’armonia fisica, uno dei princìpi cardine della cultura classica. Infine, e di nuovo, l’artigiano vendeva i suoi prodotti e quindi era equiparabile al mercante, del quale finì per condividere la sorte. Per essere sdoganato dovette attendere il cristianesimo: non era forse, il Cristo stesso, figlio – almeno sulla carta – di un falegname? Quanto poi al rapporto di subordinazione al “padrone” di turno che gli si rimproverava, non aveva forse Dio stesso stabilito le gerarchie del creato? Eseguendo la volontà del committente, l’artigiano non faceva altro che seguire, come ogni creatura, l’ordine e il volere del Sommo. Come il contadino trasforma la terra in prodotti commestibili per l’uomo, l’artigiano produce oggetti che servono per lavorare e migliorare la qualità della vita. Inoltre, per svolgere la sua opera necessita di notevole perizia: il fabbro, ad esempio, conosce i metalli, produce gli arnesi ed è capace di usarli, tramanda i suoi segreti di generazione in generazione. Non è un semplice esecutore: a suo modo è un artefice e anche un artista. Uno dei princìpi cardine della mentalità medievale era che il tempo fosse di Dio, non dell’uomo. Ragion per cui chi vi specula usandolo per guadagnare, non solo i mercanti ma soprattutto l’usuraio, è stigmatizzato senza appello. Sovente la condanna si estendeva anche al debitore, perché si legava al creditore in un rapporto umiliante e disumano che lo costringeva a vivere nella menzogna. Se nel mondo antico l’insolvente diventava lo schiavo del creditore, nel Medioevo finiva in prigione. Ovviamente, il cliché relativo al mercante non fu sempre e soltanto del tutto negativo. La sua utilità era data dal fatto che garantiva gli approvvigionamenti, tanto più indispensabili in tempo di guerra e di carestia. Se poi investiva i suoi guadagni in attività oneste – ossia in proprietà terriere – o li dava in elemosine o, ancor meglio, si ritirava per vivere dei proventi della terra, allora il suo riscatto sociale poteva dirsi completo. Da questo punto di vista, l’esperienza e la figura di san Francesco d’Assisi (1182-1226) sono emblematiche: figlio di un ricco mercante di stoffe, rinuncia alla carriera e agli agi che gli sarebbero derivati spogliandosi di tutto, persino degli abiti, per vivere in povertà e predicare il vangelo. Nel IV-V secolo, alle soglie del Medioevo il mercante, soprattutto in provincia, era un uomo libero, ricco e dedito alla vita civile e politica all’interno dei consigli cittadini. A Milano, capitale dell’impero e luogo da sempre florido per i commerci, faceva parte di un ceto detentore di privilegi e proprietà terriere. Gran parte della sua fortuna era dovuta al ruolo – indispensabile nel quadro delle continue guerre che sconvolgono il tardo impero – di fornitore dell’esercito imperiale. Ma con le prime invasioni barbariche il momento d’oro del mercante


sembra terminare: egli è tenuto a vendere le derrate all’esercito a un prezzo calmierato, ma i coltivatori e i produttori in tempo di crisi aumentano i prezzi, riducendone i margini di guadagno. I negotiatores, sempre più in difficoltà, vanno in perdita e finiscono quasi per scomparire. Torneranno prepotentemente alla ribalta con la ripresa dei traffici seguita alla rinascita delle città e alle crociate. Allora il mercante, arricchitosi a dismisura, si organizzerà in corporazioni e arti e farà parte dell’élite economica, sociale e politica delle città, cercando il riscatto nelle buone opere (elemosina, fondazione di ospedali e monasteri) e nel mecenatismo. E arriverà, addirittura, a conquistare il potere. Per questa rivalutazione del lavoro, risulta decisiva l’azione della filosofia scolastica, che distingue tra mestiere illecito per sua natura e mestiere illecito per occasione. Così la lista dei lavori sospetti o osteggiati si assottiglia progressivamente e, anche per quelli dichiarati illeciti tout court, si trova ugualmente qualche giustificazione: la nuova situazione economica presente soprattutto nelle città – dove i commerci dopo il Mille avevano ripreso vigore – e la copiosa diffusione della moneta comportano, ad esempio, che si chiuda più di un occhio su chi si occupa di operazioni finanziarie. Nel 1434 Cosimo il Vecchio, appartenente ai Medici, diventa signore di Firenze grazie al sostegno del popolo minuto. Apparteneva a una ricca famiglia di mercanti e banchieri. Il nipote Lorenzo (1449-92), uomo sensibile al bello e d’intelletto fino, come abbiamo visto si era circondato di un cenacolo di letterati e di artisti che annoverava i più celebri e geniali tra quelli in circolazione ai suoi tempi. Firenze, la città che sarebbe passata alla storia come la culla del Rinascimento per antonomasia, era figlia – nel bene e nel male – di mercanti.

I poteri dell’alchimia La razionalità e lo studio intellettuale furono i caratteri dominanti dell’autunno del Medioevo e della stagione umanistica. Ma c’è un’altra faccia della medaglia, quella della magia e della superstizione che, lungi dall’essere sconfitte dalle “luci della ragione”, continuarono a restare appannaggio soprattutto delle classi incolte e, come tali, furono anche duramente represse. Certo, vi fu anche una forma di “magia” colta, l’alchimia, non scevra da suggestioni filosofiche anche profonde. Ma a finire nel mirino dell’Inquisizione furono le streghe, espressione dei ceti più umili e marginalizzati. Partiamo dall’alchimia. La parola deriva dall’arabo al-kimiya, che sta a indicare la “pietra filosofale”, cioè la sostanza in grado di trasformare i metalli


vili in oro. Essa fece la sua comparsa nell’Occidente medievale a partire dal XII secolo quando, grazie a traduttori come Giovanni Ispano, Ugo di Santalla, Roberto di Chester, Ermanno di Carinzia e Gherardo da Cremona, iniziarono a circolare una serie di testi arabi che trattavano l’argomento. Il primo a essere messo in circolazione fu, sembra, il Liber de compositione alchemiae di Morieno (1144). Poi vennero l’Almagesto di Tolomeo, il Canone di medicina di Avicenna, il De quinque essentiis di al-Kindi, il Liber de aluminibus et salibus di Razi, il Liber divinitatis de septuaginta di Giabir ibn Hayann, il più importante degli alchimisti arabi. Le nozioni che questi volumi contenevano non erano del tutto sconosciute alla tradizione europea: già in precedenza, infatti, alcune teorie erano diventate patrimonio comune grazie agli scambi culturali dovuti alla presenza araba in Spagna e in Sicilia. L’alchimia divenne però un caposaldo alla corte dell’imperatore Federico II grazie al dotto Michele Scoto, mentre con l’Umanesimo e il Rinascimento furono riscoperte le opere della tradizione grecoegizia custodite a Costantinopoli. A studiare e a tramandare questa sapienza si applicarono, dal Duecento, anche i teologi, soprattutto i domenicani (tra cui spiccano Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Ruggero Bacone), che usarono come fonte i primi tre libri dei Meteorologica di Aristotele integrandoli con la lettura delle traduzioni, ora disponibili, dei trattati arabi. L’alchimia medievale si applicò anche in altri ambiti di ricerca, dai rimedi per ogni male all’elisir di lunga vita. E nonostante la non scientificità dei suoi presupposti, sarebbe risultata importante per il successivo sviluppo, nel Settecento, della chimica.


Donne e streghe Ben diverso il fenomeno che portò, tra la metà del XV e la metà del XVIII secolo, migliaia di persone, soprattutto donne, a essere processate per il crimine di stregoneria e a finire condannate a morte sul rogo. Chi erano le streghe e perché tanto accanimento contro di loro? La stregoneria e la magia, occorre precisarlo, non furono una prerogativa del Medioevo e dell’età moderna. Al contrario, credenze e pratiche al confine tra superstizione e religione hanno da sempre caratterizzato tutte le culture, in ogni periodo storico e latitudine. In Europa erano presenti sin dall’antichità. Ciò che rese “speciale” la stregoneria nel tardo Medioevo fu che, accanto alla “tradizionale” pratica della magia nera – considerata in grado di nuocere a uomini e animali –, si affermò la credenza che i suoi adepti fossero in relazione diretta col diavolo, e quindi accusati di eresia e apostasia. Il terrore per le streghe si diffuse a macchia d’olio a partire dalla seconda metà del Trecento con la grande crisi seguita alla Peste Nera. Soprattutto nelle campagne, ma anche nelle città, le streghe (in latino erano dette strigae o lamiae) furono accusate in molti casi di scatenare le tempeste, di provocare la moria di uomini e animali, di distruggere i raccolti, e utilizzate come capri espiatori delle frequenti carestie o epidemie che imperversarono in quegli anni. Le streghe (salvo nei casi di accusa di eresia o stregoneria politica, attribuita agli uomini) erano per la stragrande maggioranza donne, e i motivi erano vari: da sempre viste con sospetto, considerate simbolo di sensualità e lussuria, erano ritenute moralmente più deboli degli uomini e dunque maggiormente soggette alle tentazioni. A renderle tali contribuiva il fatto che, nella società tradizionale, le donne erano di solito depositarie di “segreti” medici in grado di guarire dalle malattie e sapevano far nascere i bambini. Nell’occhio del ciclone erano soprattutto le anziane e le vedove o nubili: in genere si trattava di gente povera e ignorante, la cui colpevolezza veniva “provata” grazie alla confessione ottenuta spesso tramite tortura. Il delitto più frequente di cui erano accusate era la partecipazione al “sabba”, cioè a una periodica riunione durante la quale sacrificavano e mangiavano bambini, celebravano la parodia dei riti cristiani, si impegnavano in danze oscene e avevano rapporti sessuali col diavolo e con i suoi servi, i demoni incubi e succubi. Per giungere al sabba, che di solito si teneva in luoghi molto lontani, si spostavano volando. I processi intentati ai danni delle streghe coinvolsero tutta l’Europa (e poi anche l’America) ma non


ovunque con la stessa intensitĂ .


Le ragioni di una caccia La grande “caccia alle streghe” fu resa possibile dall’introduzione, nel sistema giuridico, di alcune riforme: all’ordalia, tradizionale metodo per stabilire la colpevolezza dell’imputato, fu infatti sostituita dal processo inquisitorio, accompagnato dall’uso della tortura (già esistente in epoca barbarica ma allora mai applicata a uomini liberi) e dall’affidamento dell’accusato ai tribunali civili grazie all’estensione, anche in ambito laico, del reato di stregoneria. La situazione peggiorò nel clima di sospetti e tensioni causato dalla Riforma, che se da un lato teorizzò una maggior presenza del diavolo nella società e la necessità di combatterlo, dall’altro sferrò un poderoso attacco alla superstizione, al paganesimo e alla magia al quale si adeguò anche la Controriforma. La base “teorica” delle persecuzioni fu fornita da un gran numero di trattati – che andarono a sostituire il già citato Canon Episcopi – compilati da importanti inquisitori come il Malleus Maleficarum (1486) di Heinrich Kraemer (detto “Institor”) e Jacob Sprenger, autorizzati a operare in Germania da papa Innocenzo VIII con la bolla Summis desiderantes, o la Demonolatreiae di Nicolas Rémy (1595), o ancora i Disquisitionum magicarum libri sex di Martin Antonio del Rio, trattato diffusissimo nel Seicento. Il fenomeno della caccia alle streghe, che causò la morte di migliaia di persone in gran parte innocenti, è stato interpretato dagli studiosi moderni non tanto (o non solo) come un’ossessione di matrice religiosa, ma soprattutto come il tentativo da parte delle autorità di reprimere il dissenso e contenere gli episodi di ribellione all’ordine costituito, che nel tardo Medioevo e nell’età moderna si manifestarono, acuiti dalla crisi, sotto forma di rivolte e, nelle campagne, di jacqueries. Ma questa è un’altra storia.

48 Per uno studio esaustivo si può ricorrere a J. Burton Russel, Il diavolo nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1987. 49 J.-C. Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 129-130. 50 Libro IV, cap. 10-12. 51 Secunda secundae, 96, 4. citato in J.-C. Schmitt, Medioevo superstizioso, cit., p. 46.


52 Agostino d’Ippona, De civitate Dei, I, 21 e ss. 53 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 5. 54 R. Garaventa, Breve storia del suicidio, www.apss.tn.it/public/Allegati/DOC_632603_0.doc 55 Citato in A. Murray, Suicide in the Middle Ages, in «Synergy. Psychiatric writing worth reading», vol. 18, n. 5, Autunno/Inverno 2012, p. 5.


8 Curarsi nel Medioevo

Ammalarsi nel Medioevo non era un’eventualità rara. E quando accadeva, purtroppo, il più delle volte erano guai. I medici avevano in genere scarsa conoscenza di terapie e malanni e anzi ignoravano come funzionava, nei dettagli, il corpo umano. La dissezione dei cadaveri a scopo di studio non era ancora praticata e la teoria più diffusa era quella elaborata dai medici greci Ippocrate (VIV secolo a.C.) e Galeno (129-216), secondo la quale l’organismo umano è governato da quattro umori diversi (sangue, bile gialla, bile nera, flegma) che, a seconda delle rispettive interazioni o disequilibri (discrasie), determinerebbero la sanità o la malattia. Nulla si conosceva (né si sospettava) a proposito del contagio e quando le epidemie si propagavano, venivano solitamente invocate cause generiche quali miasmi e soffi pestiferi provenienti dall’interno della Terra o da località esotiche, quasi sempre poste nell’immaginifico Oriente. Oppure l’intervento divino per punire i peccati dell’uomo. In realtà, la colpa era il più delle volte della dieta malsana e delle condizioni igieniche precarie in cui la maggioranza della popolazione viveva. Ci si lavava (e cambiava) poco, l’acqua corrente non c’era e quella di fonte o di fiume era usata con molta parsimonia, le fognature (eredi della civiltà antica) erano cadute in disuso o inesistenti, uomini e animali vivevano in assoluta promiscuità ed escrementi e deiezioni venivano il più delle volte gettati direttamente in acqua (la stessa che si usava per bere) e in strada. Le cure erano empiriche e laddove non riusciva la scienza si ricorreva a pratiche magiche, penitenze o preghiere. I malati gravi erano segregati nei lazzaretti, ai margini della società, dalla quale erano di fatto espulsi. A parte questo accorgimento, la profilassi era del tutto sconosciuta. Non stupisce dunque che nel Medioevo la vita media fosse bassa, la mortalità infantile altissima e le epidemie un pericolo sempre incombente. Che in certi casi si trasformava in una vera e propria catastrofe.

Bizantini, arabi e germani Il grande problema, se così si può dire, della scienza medica medievale fu che, a


si può dire, della scienza medica medievale fu che, a differenza di quanto teorizzato e praticato nella cultura greco-romana, per influsso del cristianesimo si considerava la malattia più che altro una punizione inviata da Dio per espiare i peccati, e dunque da fronteggiare con rassegnazione. Il retaggio di conoscenze ereditato dal paganesimo era guardato con sospetto e la cura del corpo era messa in secondo piano rispetto a quella dell’anima. A ciò si aggiungeva che ricorrere ai medici era un lusso che la maggior parte non si poteva permettere perché erano pochi e costosi. Più che curarsi, allora, si ricorreva a rimedi di fortuna e alla preghiera. Il che non significa che le conoscenze del passato fossero del tutto dimenticate. Molti tra i più celebri medici dei primi secoli del Medioevo erano di cultura bizantina, eredi diretti della tradizione greca. Paolo di Egina (625-690), ad esempio, rappresentò a lungo un cardine nel ramo, perché riassunse in sette volumi l’immensa opera (in ben settanta libri!) di Oribasio di Pergamo (325403), attivo durante il regno di Giuliano l’Apostata, che aveva trattato praticamente tutto lo scibile in materia. Ezio di Amida (502-575), invece, introdusse l’oppio in terapia e, nel suo Tetrabiblion, trattò le più diverse discipline: dall’oftalmologia alla cosmesi alla ginecologia, descrivendo tra le altre cose le proprietà dei veleni. Il quasi contemporaneo Alessandro di Tralles (523-605), invece, si occupò di diabete, ma propose come rimedio contro i dolori articolari il cosiddetto “zafferano matto” (Colchicum autumnale), che però aveva effetti velenosi anche letali. Altri importanti trattatisti in ambito medico furono Teofilo di Protospatharios (VIII-IX secolo) e Melzio il Monaco (IX secolo), che cercarono di combinare la teologia cristiana con le teorie derivanti da Galeno, Teofane Nonnos (X secolo) e poi in seguito Michele Psello (1018-1081 ca.), Niceforo Blemmida (1197-1269 ca.) e Giovanni Zacharia Aktuarios (1275 ca.-1328). Oltre a quella bizantina, l’altra grande scuola medica medievale era quella araba. Tra le figure di spicco Al-Kindi (813-873) scrisse un trattato sul dosaggio


delle medicine, Abū Bakr Mohammad Ibn Zakariya detto al-Razī (845 ca.-925) fu il primo a occuparsi di vaiolo, Ali Ibn al-Abbas al-Majusi (929-994) noto come Haly Abbas ne compendiò l’immensa opera rendendola accessibile a tutti, mentre Ibn Sina (980-1038), conosciuto come Avicenna, descrisse perfettamente la meningite. La conoscenza delle teorie mediche arabe si diffuse in Europa all’epoca delle crociate e, soprattutto, grazie all’opera di traduzione compiuta da uomini come lo straordinario erudito di origine cartaginese Costantino l’Africano (1020 ca.-1087) o Gerardo da Cremona (1114-1187). Il primo, monaco a Montecassino, tradusse in latino molti testi arabi d’argomento medico mettendo a frutto le competenze linguistiche e scientifiche acquisite durante i numerosi viaggi di studio (Babilonia, Persia, Etiopia, Egitto, forse India) e poi a Salerno, toccando praticamente tutti i campi dello scibile in materia (persino un trattato sull’urina, uno sulla ginecologia e uno sul coito, cosa decisamente insolita per un religioso!). Il secondo fu attivo nella multiculturale corte di Toledo e tradusse in latino dall’arabo una settantina di opere scientifiche. Anche l’Occidente, comunque, aveva i suoi medici e, col tempo, creò anche i suoi “centri specialistici”. Primo fra tutti quello della celebre Scuola salernitana. Ma prima di parlarne, occorre fare un passo indietro e vedere rapidamente come si rapportavano alla medicina le popolazioni barbariche e in particolare i longobardi56, perché la scuola che nacque e si sviluppò a Salerno, pur sintetizzando i più diversi apporti della scienza dell’epoca, era legata strettamente, appunto, a questo ambiente. Come tutti i germani, anche i longobardi legavano le malattie e la medicina al mondo della magia, perciò ricercavano – cosa comune anche ai celti – la cura negli alberi che ritenevano sacri, ossia la quercia, il tiglio e il frassino, le cui essenze assumevano una valenza psicosomatica. Erano note, inoltre, le virtù di alcune piante (o funghi) in grado di produrre effetti allucinogeni o di estasi. Presso i popoli nordici alcune società di guerrieri, i berserkr e gli ùlfhednar, indossavano pelli di orso e lupo e utilizzavano l’Amanita muscaria per ottenere uno stato di furiosa eccitazione57. Si conoscevano inoltre i veleni estratti dalla vipera e da piante come lo stramonio e la belladonna, e i rispettivi rimedi, soprattutto genziana ed eupatoria. Durante l’ultima fase delle migrazioni e poi in Italia, i longobardi vennero a contatto con le più avanzate e già citate conoscenze mediche proprie del mondo greco-romano, e con le idee teorizzate dai medici bizantini di cui si è parlato poc’anzi (Aezio, o Ezio, di Amida, Alessandro di Tralles, Paolo di Egina), le cui opere sintetizzavano e integravano quelle dei classici Ippocrate, Celso e Celso Aureliano.


I longobardi non erano i soli a preoccuparsi della salute. Anche altri popoli germanici conoscevano l’importanza della medicina e la praticavano: il re goto Teodorico (m. 526), ad esempio, nel 500 emanò un editto in cui sosteneva che «tra le arti più utili e che contribuiscono a sostenere l’indigenza della umana fragilità, nessuna può essere anteposta, né esser considerata pari, alla medicina». Il suo medico, Antimo, scrisse un trattato interamente dedicato alla nutrizione. I visigoti, invece, furono tra i primi a determinare un “tariffario” per le più importanti operazioni e per l’insegnamento della medicina. Non va poi trascurato il particolare ruolo rivestito, in queste società, dalle donne, che sin dall’età arcaica erano abituate a esercitare l’arte medica utilizzando conoscenze più che altro dovute alla pratica: sapevano pulire e medicare le ferite, seguire un parto o procurare un aborto, trovare rimedi per febbri e altri malanni più o meno gravi. Lo stesso storico latino Tacito, del resto, già nel I secolo osservava che i germani erano soliti portare «le ferite alle loro madri e mogli, che non temono di esaminare e trattare le piaghe». Lo storico longobardo Paolo Diacono cita il trattamento di malattie della pelle e degli occhi con oli e unguenti, la pratica di flebotomie e l’applicazione di protesi su arti amputati. Abbastanza diffusa era poi, contrariamente a quanto sarebbe avvenuto in seguito, l’usanza di fare il bagno e di curare l’igiene intima (sempre Paolo racconta un episodio in cui il diacono Tommaso viene ammesso al cospetto del duca Alachis solo previo giuramento di avere indosso femoralia, ossia mutande, fresche di bucato e che fosse pulito anche ciò che contenevano), così come conosciuti e apprezzati erano i benefici arrecati dalle acque termali. Le piante (e le essenze) più utilizzate erano il ribes rosso, la quercia e l’aglio, quest’ultimo come vermifugo e contro le febbri. I longobardi amavano il cavolo perché dava forza e vigore; tra le erbe e le essenze prediligevano l’artemisia, digestiva e vermifuga, il ginepro contro le coliche, la malva per le proprietà disinfiammanti e la menta per le patologie del cavo orale. All’età longobarda andrebbero fatti risalire anche i primi tentativi di isolare gli affetti da patologie come la lebbra e la peste in modo da evitare il dilagare del contagio: una prassi che sarebbe stata adottata ovunque e perfezionata nei secoli a venire. Da segnalare come alcuni rimedi abbiano attecchito nella sapienza popolare in maniera duratura e profonda: quello, ad esempio, di trattare l’otite con un composto a base di olio d’oliva in cui erano state messe a macerare formiche rosse (la macerazione rilascia acido formico, che disinfetta e ha proprietà analgesiche), teorizzata da san Benedetto Crispo, è stato utilizzato nelle zone rurali del Nord-est fino agli inizi del Novecento.


La Scuola salernitana e le “donne medico” I longobardi non diedero vita a una vera e propria “scuola medica”. Sicuramente, però, molta parte delle loro conoscenze entrò a far parte del bagaglio culturale dei medici che operarono nella Scuola salernitana. Essa, di fatto, si profila come la prima “università di medicina” attiva a livello europeo. Fu fondata secondo una popolare leggenda da tre medici – il latino Salernus, l’ebreo Helinus e l’arabo Abdela – che, riparatisi durante un temporale sotto l’acquedotto dell’Arce, vi incontrarono un pellegrino greco ferito e lo curarono, decidendo così di mettere le loro competenze al servizio della collettività. L’aneddoto spiega bene i presupposti su cui si basavano gli insegnamenti della scuola, derivati dal dialogo e dall’integrazione di tre culture diverse: la grecolatina, l’ebraica e l’araba. Il principio comune era la classica teoria degli umori. I documenti restituiscono nomi di medici sicuramente “cresciuti” in ambito culturale longobardo come Benedetto Crispo (m. 725), santo e arcivescovo di Milano, autore del trattato In medicina libellum. E salernitani – ma di stirpe longobarda sono Garioponto Salernitano (1000 ca.-1050) – autore del celebre motto «Si causas ignoras, quomodo curas?» (“Se ignori le cause, come puoi trovare una cura?”) e soprattutto Alfano, vescovo di Salerno (1010-1080). In questa scuola, in cui insegnarono medici importanti come lo stesso Alfano, Costantino l’Africano, Pietro da Eboli, Giovanni Afflacio, Nicolò Salernitano, fu prodotto, nel XII secolo, il celebre Regimen Sanitatis Salernitanum (“Regola sanitaria salernitana”), un trattato contenente, sotto forma di versi, le principali norme igieniche nonché preziose indicazioni terapeutiche sulle erbe e consigli sul loro utilizzo. Un caso clamoroso e parzialmente controverso – più che altro per l’attribuzione delle opere che circolavano sotto suo nome, anche se qualcuno ne nega addirittura l’esistenza storica – è quello della donna medico – e qui il retaggio longobardo è abbastanza evidente – Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo alla corte dell’ultimo principe longobardo di Salerno, Gisulfo II, e legata, appunto, alla scuola. Della sua vita non si sa molto: di famiglia nobile, sposò il collega Giovanni Plateario ed ebbero due figli, che seguirono a loro volta la professione dei genitori. Trotula diede vita, insieme ad altre donne medico come lei, a una sorta di “circolo” – le mulieres salernitanae, donne salernitane. A lei sono attribuite alcune discusse opere: il De passionibus mulierum ante in et post partum (“Sulle malattie delle donne prima e dopo il parto”), il De ornatu mulierum (“Sulla cosmesi delle donne”) e la Pratica secundum Trocta (“La pratica medica secondo Trotula”). Se il De passionibus rappresenta il primo trattato di ostetricia e ginecologia scritto da una donna per le donne, il De ornatu


raccoglie tutti i consigli per farsi belle. L’aspetto estetico, comunque, non è il solo che interessa Trotula. Fedele alla lezione greca che vedeva nella cosmesi anche un utile ausilio alla salute, la donna medico salernitana non spiega solo come truccarsi, minimizzare le rughe e depilarsi, ma anche come curare le malattie della pelle, che erano tante e molto diffuse. Nel Medioevo non si aveva una chiara distinzione in base alla patologia: acne, psoriasi ed eczemi vari erano rubricati tutti col generico nome di scabia (“scabbia”) e attribuiti alla presenza di vermi sottocutanei. Per sconfiggerli occorreva prima di tutto procedere a uno scrub a base di briciole di pane; poi si poteva trattare, ad esempio, il cuoio capelluto con una soluzione a base di aceto, oppure la pelle del viso strofinandovi della cipolla. Rimedi che in molti casi erano efficaci a causa delle proprietà degli oli essenziali presenti nei composti, riconosciuti anche dalla medicina moderna. Un altro caso celebre di donna-medico è Ildegarda di Bingen (1098-1179), che in realtà fu un genio multiforme. Si cimentò infatti nella musica, nella grammatica (inventò addirittura una lingua segreta), nella filosofia, nella teologia e scrisse poemi, drammi e opere letterarie. Per quanto riguarda la medicina, introdusse il concetto di viriditas (letteralmente “verdità”), ossia di energia vitale che metteva l’uomo in comunione con la natura e il cui controllo risultava decisivo per curarsi e stare bene. Le sue teorie improntarono vari trattati che illustrano le erbe e le pietre spiegandone i poteri terapeutici, ma che descrivono anche i rimedi ponendoli per la prima volta in relazione all’individuo e riconoscendo che l’efficacia varia in base al sesso, all’età, alla costituzione fisica e alle condizioni di salute del paziente. Sebbene sostenesse che ciò che scriveva fosse il risultato di visioni (probabilmente invece soffriva di emicrania), una cosa è certa: anticipò i tempi in molte discipline – come la cristalloterapia (che sfrutta le virtù delle pietre) e la musicoterapia – la cui validità terapeutica è stata oggi recuperata.


Una scienza sommaria Su cosa si basavano le conoscenze dei medici altomedievali? Su ben poco, in effetti. Non si praticava la dissezione dei cadaveri (la fede nella resurrezione dei corpi la impediva), ragion per cui le conoscenze anatomiche erano piuttosto sommarie. Tutt’al più, come testimonia il Post Mundi Fabricam di Ruggiero da Frugardo58 – anch’egli riconducibile alla Scuola salernitana – si sezionavano i maiali, il che non era esattamente la stessa cosa. La diagnosi veniva condotta dopo un’osservazione generale del paziente e l’esame dei suoi umori, soprattutto delle feci e dell’urina, che i medici annusavano o addirittura assaggiavano per stabilire cosa ci fosse che non andava. Poiché non si aveva alcuna idea dell’esistenza di germi e batteri, non di procedeva alla sterilizzazione dei ferri chirurgici, con le conseguenze che si possono ben immaginare. A leggere alcuni resoconti contemporanei, parrebbe di poter dire che la medicina occidentale fosse decaduta moltissimo rispetto anche solo all’età classica, e che quella di scuola araba – che invece aveva continuato la ricerca iniziata dai greci ereditandone metodi e teorie – fosse molto più avanzata. Durante le crociate, il signore di Moinestre, nel Libano, scrisse allo zio dello scrittore Usama ibn Munquid chiedendogli di mandargli un medico per curare alcuni malati: il prescelto fu il medico arabo, ma di fede cristiana Thabit. Dopo dieci giorni, Thabit torna a casa. Aveva curato un cavaliere con un ascesso a una gamba e una donna afflitta da consunzione: al primo aveva fatto un impiastro, quindi l’ascesso si era aperto migliorando sensibilmente; alla seconda aveva prescritto una dieta. Ma racconta un aneddoto agghiacciante. Giunge a corte un medico franco (il che significava, per gli arabi, genericamente europeo) che lo accusa di non saper fare il suo mestiere. Rivolto al cavaliere, gli domandò: «Cosa preferisci, vivere con una gamba sola o morire con due gambe?», e avendo quello risposto che preferiva vivere con una sola gamba, ordinò: «Conducetemi un cavaliere gagliardo, e un’ascia tagliente». Vennero cavaliere e ascia stando io lì presente. Colui adagiò la gamba su un ceppo di legno, e disse al cavaliere: «Dàgli giù un gran colpo di ascia che la tronchi netto!», e quegli, sotto i miei occhi, la colpì d’un primo colpo, e, non essendosi troncata, d’un secondo colpo; il midollo della gamba schizzò via, e il paziente morì all’istante. Esaminata quindi la donna, disse: «Costei ha un demonio nel capo, che si è innamorato di lei. Tagliatele i capelli!». Glieli tagliarono e quella tornò a mangiare dei loro cibi, aglio e senape, onde la consunzione le aumentò. «Il diavolo è entrato nella sua testa», sentenziò colui, e preso il rasoio le aprì la testa a croce, asportandone il cervello sino a fare apparire l’osso del capo, che colui strofinò col sale [...]; e la donna all’istante morì. A questo punto io domandai:


«Avete più bisogno di me?». Risposero di no, e io me ne venni via, dopo aver imparato della loro medicina quel che prima ignoravo.

A quanto pare, la superstizione più che la scienza regnava sovrana. Si credeva, ad esempio, che una radice di piantaggine portata al collo mettesse al riparo dalle febbri, mentre messa sotto al cuscino desse strani poteri di preveggenza... Pianta magica per eccellenza, era utilizzata – come consigliava anche Ildegarda di Bingen, per annullare gli effetti dei filtri d’amore, mentre Trotula, conoscendone i poteri astringenti, la prescriveva addirittura per ridurre le dimensioni della cavità vaginale e far sembrare vergine anche chi ormai non lo era più. Basta dare una rapida occhiata all’Historia plantarum (“Storia delle piante”) – derivata dagli scritti di Teofrasto (IV-III secolo a.C.) e illustrata e commentata nel Duecento da Stapelio del Giovanni Bodeo – per farsi un’idea dei rimedi che andavano per la maggiore: «Se qualcuno ha deglutito una spina, lo sterco di gatto pestato e impiastricciato sulla bocca la estrae immediatamente». Durante le epidemie – come vedremo meglio in seguito – si utilizzavano i chiodi di garofano: la convinzione era che il loro profumo penetrante purificasse l’aria impedendo il contagio. Un’approfondita ricerca curata dall’Accademia italiana di Gastronomia storica ha poi evidenziato come le spezie nel Medioevo fossero considerate “afrodisiache”, quindi ritenute corroboranti o invoglianti l’attività sessuale. Per la maggior parte erano note sin dall’età antica soprattutto in Oriente, dove erano coltivate in abbondanza, e anche nel mondo greco-romano. Ovviamente gli afrodisiaci (e i filtri d’amore che venivano con essi preparati) erano severamente condannati dalla Chiesa in quanto rimedi “magici”. Inutile dire che, però, erano ampiamente utilizzati lo stesso non solo dagli innamorati per conquistare (o riconquistare) la dolce metà, ma anche da chi soffriva d’impotenza. Nei primi secoli per confezionare i filtri si usavano radici, semi, tartufi e tuberi vari, ma con la ripresa dei traffici commerciali verso Oriente, a cavallo del Mille, a imporsi furono soprattutto le spezie. Si usava il pistacchio, la cannella (usata anche contro la tosse e il mal di gola), la senape (che i romani usavano contro il mal di denti e il mal di gola e per curare gli avvelenamenti da funghi o da morsi di serpenti) e la mandorla. Quest’ultima in particolare, data la sua natura energetica, era usata spesso nei monasteri al posto della carne, che era per lo più vietata in quanto si credeva stimolasse l’appetito erotico: quindi i monaci credevano ingenuamente di tacitare Venere privandosi della carne e invece inconsapevolmente... la risvegliavano. Un manuale molto popolare tra i membri della classe colta nel TreQuattrocento, il cosiddetto Tacuinum sanitatis, raccoglieva una serie di informazioni sulle virtù delle piante e delle spezie e consigli su come utilizzarle


per stare bene. La versione latina, tradotta con ogni probabilità intorno al 1260 in Sicilia, e più precisamente alla corte di re Manfredi (il figlio dell’imperatore Federico II, lo “Stupor mundi”), si basava sul testo composto a Baghdad dal medico Ibn Butlân (noto anche col nome di Ububchasym de Baldach) intorno alla metà dell’XI secolo. In realtà si trattava di più libri – ragion per cui ci si riferisce a loro anche al plurale, Tacuina – ma la base per tutti era la stessa. Queste le regole per mantenersi sani e vigorosi: bere e mangiare correttamente, stare in un ambiente acconcio e respirare aria buona, distribuire bene il tempo del sonno e della veglia, alternare il movimento al riposo, tenere sotto controllo gli umori e i sentimenti. Dall’armonia tra questi aspetti del vivere si riteneva dipendesse infatti la salute: quando qualcuno di essi prevaleva, l’equilibrio si alterava decretando la malattia. Queste “pillole” di saggezza erano riccamente illustrate da raffinate miniature a colori che raffiguravano, in efficaci scenette, uomini e donne intente a coltivare, raccogliere e preparare frutta e ortaggi, a varie occupazioni artigianali (dalla mietitura alla vendemmia, dalla mungitura alla macellazione, dalla bottega alla caccia...) oppure in preda ai vari affetti. Non mancano le vignette “piccanti”, con tanto di sposi a letto intenti ad amoreggiare, o fortemente realistiche, come quella – impagabile! – relativa ai postumi di una sbronza: mentre il pover’uomo rigetta, una donna, forse la moglie, gli tiene la fronte con un’aria tra il rassegnato e il perplesso; leggermente discosta, una signora attempata osserva grifagna la scena alzando le braccia al cielo. Compaiono poi animali ed erbe officinali, ma anche piante dalla discussa fama come la mandragola, che si riteneva afrodisiaca ed era usata come componente di pozioni “magiche”. Una miniatura della versione del Tacuinum conservata a Vienna e risalente al 1390 circa59 mostra il momento della raccolta della radice, rappresentata con fattezze d’uomo (in una fase della crescita ha, in effetti, un aspetto vagamente antropomorfo). Si credeva che quando veniva estratta, la mandragola emettesse un urlo in grado di uccidere: ecco perché la radice è legata tramite una corda a un cane – che ha il compito di tirarla fuori dalla terra – mentre l’uomo che osserva la scena si copre le orecchie con le mani. Più amene e di spirito “cortese” le immagini che mostrano aristocratici intenti a ritemprare lo spirito conversando amabilmente oppure godendo le bellezze della musica e della danza. Al di là di tutto, comunque, lo stato della medicina, per quanto sicuramente inadeguato, non vagava completamente nel buio. Le operazioni ad esempio avvenivano certo con anestesie a dir poco sommarie. Uno dei metodi consisteva nell’assumere una mistura di «lattuga, cistifellea da un cinghiale castrato,


brionia, oppio, giusquiamo, succo di cicuta [che di per sé poteva essere mortale]». Ma col tempo fortunatamente la ricerca progredì e verso la fine del XII secolo, come testimonia ancora Ruggiero da Frugardo, si utilizzava la cosiddetta “spongia soporifera”: si trattava di una spugna imbevuta di acqua calda e di una miscela di oppio, mandragola, belladonna e giusquiamo che veniva poi messa sotto il naso del paziente che, respirandone i fumi, si addormentava. Alcune tecniche in uso che egli stesso tramanda sono, in effetti, sorprendenti: si suturavano i vasi sanguigni con fili di seta, si trapanava con successo il cranio e si curava il gozzo mediante l’applicazione di spugne e alghe contenenti iodio.

Medici, guaritori, santoni A questo punto vale la pena di chiedersi chi erano i medici e chi poteva esercitare la professione. La risposta è un po’ tutti. Il settore non era regolamentato come oggi e chi aveva studiato in centri prestigiosi e riconosciuti – primo fra tutti Salerno – si trovava a concorrere sul campo con un variegato gruppo di guaritori, santoni, ciarlatani le cui conoscenze mediche erano dettate più che altro dall’esperienza, dalla cultura orale e, soprattutto, dalla superstizione. Non era raro imbattersi in personaggi che pretendevano di guarire un paziente leggendo il suo quadro astrale, oppure propinando erbe o intrugli di ogni tipo che, alla meglio, risultavano inefficaci, ma se andava male potevano causare addirittura la morte per avvelenamento o intossicazione. Le donne avevano, soprattutto nelle culture “marginali”, nelle campagne e nelle valli, lo stesso ruolo che rivestivano presso le popolazioni “barbariche” e spesso detenevano l’esclusiva in campo medico. Si occupavano, ovviamente, in modo


medico. Si occupavano, ovviamente, in modo particolare di problematiche inerenti la ginecologia, trattate con l’ausilio di erbe. Non solo i problemi mestruali, ma anche l’induzione della gravidanza, l’aborto – che veniva procurato, ad esempio, con pozioni a base di prezzemolo – e il parto. Questa propensione, guardata con sospetto dalla Chiesa, fu anche uno dei motivi per cui furono tacciate di stregoneria e perseguitate. Nei monasteri, invece, la medicina era esercitata da un monaco specialista, che curava i confratelli con unguenti, tisane e medicamenti confezionati nell’erboristeria del cenobio. Alcuni monaci o abati si cimentarono essi stessi nella stesura di trattati medici, come ad esempio, in ambito germanico, Rabano Mauro (776-856) a Fulda e il suo allievo Walfrido Strabone (m. 849) a Reichenau. Le abbazie avevano un settore aperto anche ai forestieri. Questi hospitalia – da hospes, “ospite”, donde il nostro “ospedali”, appunto – erano destinati ad accogliere i viandanti e i bisognosi, e tra essi spesso e volentieri anche i malati. Ospedali furono costruiti anche, durante le crociate, dagli ordini monastici guerrieri (primi fra tutti i Cavalieri di San Giovanni o “ospitalieri”, appunto, dall’omonimo edificio che edificarono a Gerusalemme) per ospitare i pellegrini che si recavano in Terrasanta. I monaci-medici avevano in dotazione anche ferri chirurgici, come dimostra il kit ritrovato fra le rovine del cenobio cistercense di Øm, in Danimarca. Non è affatto vero, quindi, che la Chiesa proibisse ai membri del clero di praticare la medicina e la chirurgia. Ciò che si puniva era l’avidità di chi, soprattutto fra i monaci, esercitava la professione a scopo di lucro. Per rendersene conto basta leggere il rispettivo canone approvato nei Concili di Clermont (1130) e di Reims (1131) e poi accolto anche nel Concilio ecumenico lateranense II nel 113960. In seguito, a Montpellier (1162) e a Tours (1163), si vietò ai monaci di uscire dal convento – lo scopo era evitare le lusinghe del mondo e le tentazioni del demonio – per praticare la medicina: se chi lo faceva non tornava entro due mesi al chiostro, era da considerarsi scomunicato. Esercitare la chirurgia fu vietato dal quarto Concilio ecumenico lateranense nel 1215, ma il divieto non era rivolto a tutti i chierici, bensì solo a quelli


maggiori, ossia sacerdoti, diaconi e suddiaconi. E il motivo non fu l’ostilità tout court nei confronti di questa branca della scienza, ma il timore che costoro potessero, a qualsiasi livello, macchiarsi di un delitto nel caso in cui l’operazione non andasse a buon fine. E infatti, il divieto di operare si trova insieme a quello di sottoscrivere o pronunciare una sentenza di morte, eseguire una pena capitale o assistervi, comandare a qualsiasi titolo uomini che spargono sangue. La maggior parte dei medici, tuttavia, era laico – i più celebri, si è detto, erano quelli della Scuola salernitana – anche se per i primi “albi” veri e propri si dovette aspettare Federico II, che nel 1224 stabilì che nessuno osasse praticare l’arte medica se non dopo essere stato accettato nel novero dei maestri di Salerno. A metà del Trecento, lo Statuto fiorentino dell’arte dei medici e degli speziali imponeva che «Niuno medico nuovo, o fisico o cerusico, possa, debba o presuma esercitare l’arte della medicina o medicare in fisica o in cerusica nella città di Firenze, il quale non sarà contentato, se prima non sarà examinato pè consoli medici». Prima di allora, però, la questione era abbastanza confusa. In genere si distingueva tra chi curava le malattie “interne” – i medici, appunto – e chi si occupava delle lesioni visibili – tagli, fratture, ferite, problemi dentari ecc. – ovvero i cerusici (i chirurghi). Questi ultimi si occupavano anche di lavori più “prosaici”, come radere la barba e tagliare i capelli, e praticavano uno dei rimedi più diffusi e discussi dell’antichità, il salasso61. In base alla sempreverde teoria degli umori, infatti, si credeva che il sangue – umore dominante – in caso di malattia fosse in eccesso e dunque si dovesse ridurne la quantità per riequilibrare il corpo. Secondo Galeno asportare sangue dalla mano destra serviva a curare il mal di fegato, mentre toglierlo dalla mano sinistra risolveva i problemi alla milza. Più grave era la malattia, più sangue si doveva prelevare. In genere si procedeva finché il paziente non sveniva. Per farsi un’idea della sua diffusione, basti dire che l’erudito Beda il Venerabile (672 ca.-735) considerava il salasso l’inizio della salute e la panacea di tutti i mali perché «rischiara la mente, acuisce la memoria, purga la vescica, toglie gli umori malsani dal cervello, riscalda il midollo, migliora l’udito, secca le lacrime, purifica lo stomaco, facilita la digestione, dispone al sonno e allunga la vita». Il già citato Regimen Sanitatis Salernitanum dedica ben dodici dei suoi centonove aforismi a questo rimedio. Dopo che il Concilio di Tours (1163) ebbe proibito agli ecclesiastici di salassare, la professione fu esercitata esclusivamente da queste ibride figure di barbierichirurghi. Per praticare i salassi, si ricorreva a ventose (che creavano tumefazioni poi incise), al taglio delle vene e alle sanguisughe. Non si sapeva, ovviamente, il danno che si faceva e il più delle volte il malato si debilitava a tal punto da morire più per i salassi che per la patologia da cui era affetto.


Non meno empiriche erano le cure per altri malanni, in alcuni casi persino spettacolari. I calcoli della vescica, ad esempio, erano rimossi seguendo il metodo teorizzato dal latino Celso nel suo De Medicina (VII, 26): Secondo lui e secondo Rogerius (Chirurgia, III, 41-43), dopo che il paziente ha digiunato parecchi giorni, il calcolo scende nel tratto urinario. Nel procedimento tradizionale, comunque, il medico inseriva un dito nell’ano, per manovrare il calcolo nella discesa nella vescica, mentre premeva dall’esterno per coadiuvare e controllare il movimento62. Ed ecco la tecnica per “riassorbire” una gobba, o dislocazione spinale secondo Apollonio (IX secolo), autore di una traduzione del Perì Arthron (“Sulle articolazioni”) di Ippocrate: I casi ove la curvatura sia bassa nella spina vertebrale sono trattati al meglio con la testa all’ingiù. Imbottire la scala. Porvi sopra il paziente, sul retro, usando bende soffici ma forti, stringere le sue caviglie alla scala, legando assieme le gambe, sopra e sotto le ginocchia, e legarlo lassamente ai fianchi e al torace, stringere le braccia e le mani, stese lungo il corpo, ma non alla scala. Allora sollevare la scala contro una alta torre o una casa. Il terreno deve essere solido e gli assistenti ben esercitati, cosicché lascino cadere lentamente la scala e in posizione verticale. L’illustrazione che si trova in un manoscritto bizantino del XII secolo oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze (MS 74.7, folio 200) mostra il povero paziente appeso alla scala mentre questa viene calata a terra in modo da scuotere le vertebre. Sembra di poter dire che il mal di denti fosse un compagno abituale (e malgradito) per la maggior parte degli uomini e delle donne nel Medioevo. E in effetti, tutti i trattatisti forniscono abbondanti consigli su come evitarlo e curarlo. Ildegarda di Bingen, ad esempio, propone il seguente rimedio: Chi ha male ai denti, a causa del sangue putrido o dello spurgo del cervello, si procuri assenzio e verbena in ugual misura e li cuocia con un buon vino bianco in una pentola nuova. Coli, poi, quel vino cotto attraverso un panno e lo beva, aggiungendovi un poco di zucchero [...] Infatti, se si beve il vino combinato con le suddette erbe, si purificano le venuzze che si estendono dalla membrana del cervello sino alle gengive dei denti63. Ma prima ancora, il salernitano Flos Medicinae consigliava di ricorrere a suffumigi a base di semi di porro e giusquiamo (Hyoscyamus niger), pianta dai


potenti effetti sedativi ma potenzialmente molto tossica64. Il giusquiamo viene citato come terapia anche, nel Duecento, da Guglielmo da Saliceto (1210-1277) ma insieme all’oppio, mentre l’Historia Plantarum forniva questa a dir poco vivace descrizione degli effetti della cura: «Il giusquiamo è utile contro il dolore dei denti: si pongono i semi sui carboni, il paziente recepisce il fumo attraverso la bocca e tiene poi la bocca sull’acqua; appaiono quindi i vermi che nuotano». I dolori erano causati da vari fattori. Intanto, i denti, soprattutto nelle classi meno agiate, si consumavano presto e non è raro trovare scheletri con molari erosi fino al midollo. Di ciò era responsabile, oltre all’uso “improprio” come “strumento” di lavoro per molti mestieri, anche la dieta: tra i maggiori imputati c’erano, ad esempio, i cereali macinati in maniera grezza con mole a pietra, che lasciavano residui abrasivi. Una recente campagna di scavo condotta dall’istituto di Paleopatologia dell’Università di Pisa nell’abbazia di San Pietro di Pozzeveri ad Altopascio (Lucca) ha rivelato come gli scheletri di età medievale portassero i segni di molte malattie tra cui artrite, artrosi e poliomelite. Ma erano ben presenti anche le patologie dentali, soprattutto carie, dovute secondo il professor Clark Spencer Larsen del dipartimento di Antropologia dell’Ohio State University al consumo di carboidrati – grano, avena e altri cereali – aumentato intorno al Mille. Fino a che punto i medici dell’epoca fossero consapevoli delle cause del mal di denti è tutto da dimostrare. Matteo Plateario (1130-1160), ad esempio, nelle Glossae sostiene che i dolori siano da imputare alla presenza di vermi nei denti. Prima ancora, nel VII secolo, Paolo d’Egina aveva individuato come causa il tartaro. Mentre il persiano Avicenna nel Canone classifica ben quindici tipi di dolore dentario. Gli arabi, del resto, si cimentavano con successo nell’otturazione delle carie utilizzando mastice e allume ed esportarono le tecniche anche in Occidente. Mastice e piretro erano consigliati per questa operazione ancora ai primi del Quattrocento da Michele Savonarola (13841462), mentre a partire dalla metà del secolo inizia a imporsi anche l’uso dell’oro, soprattutto in foglia, come spiegato anche nella Chirurgia Pratica di Giovanni D’Arcoli detto Arcolanus (1390-1460). Ovviamente, si trattava di una possibilità riservata ai ricchi. L’esperto di storia dell’odontostomatologia Paolo De Luca ha studiato un curioso caso di otturazione dentale: Durante gli scavi effettuati nel 1966, presso il cimitero dell’abbazia di Aebelholt nel Sjaelland settentrionale vicino a Copenaghen (Danimarca), il dottor Vilhem MollerChristensen fece una scoperta fuori dal comune. Nell’esaminare la tomba di un uomo del XV secolo, riportò alla luce lo scheletro di un guerriero dell’apparente età di quarantacinque anni che mostrava una profonda lesione, causata da arma da taglio (spada), nella regione frontale e temporale sinistra, e anche lesioni


traumatiche nelle ossa della regione pelvica. Dei denti mascellari e mandibolari, undici erano stati seriamente colpiti dalla carie. Ma il fatto più straordinario era testimoniato, oltre agli esiti di un esteso ascesso apicale con perforazione buccale, dalla presenza in un’ampia cavità cariosa della corona del canino inferiore di destra di un grano di rosario65. Secondo lo studioso, il grano, evidentemente per motivi religiosi e magici, era stato fissato con della cera per bloccare la fuoriuscita di pus dal dente, accelerando così lo sviluppo dell’ascesso apicale e del dolore che avrebbe, forse, portato il guerriero alla morte. L’igiene della bocca, senza detergenti specifici, era peraltro difficile da ottenere. Dato che non erano stati ancora inventati gli spazzolini, i denti si pulivano con uno strofinaccio oppure con composti a base di salvia e altre erbe aromatiche. Per eliminare i residui di cibo incastrati negli spazi si utilizzava uno stecchino. Per renderli bianchi – come voleva il cliché estetico più in voga – chi poteva utilizzava polveri abrasive, a volte a base di marmo sbriciolato (con i risultati, sullo smalto, che ben si possono immaginare). Matteo Plateario nel XII secolo consigliava di sfregarli con un panno di lino umido intinto in una mistura ottenuta da ossi di seppia tritati. E c’era chi li sciacquava addirittura con l’urina...

Uno strano concetto di pulizia A proposito di igiene, in generale si può dire che il concetto, nel Medioevo (ma basta tornare solo a una cinquantina di anni fa), era piuttosto diverso dal nostro. Non c’era l’acqua corrente nelle case e anche l’acqua calda era un lusso che pochi potevano permettersi. Inoltre, l’idea che andava per la maggiore era che bagnarsi comportasse il rischio di contrarre malattie perché apriva i pori e quindi spalancava – letteralmente! – le porte al contagio. Inoltre si pensava che il corpo a contatto con l’acqua si debilitasse e quindi dopo aver fatto il bagno era necessario coprirsi e riposarsi adeguatamente,


era necessario coprirsi e riposarsi adeguatamente, evitando di prendere freddo. Più che immergersi, si tendeva allora a “lavarsi a secco” strofinandosi con un panno. Tutto ciò, però, non significa che in assoluto nel Medioevo non ci si lavasse. Intanto, il bagno aveva un forte richiamo simbolico e religioso perché associato – a partire dal battesimo – con l’abluzione dal peccato. Anche medici ed eruditi – come nel Duecento il francescano Bartolomeo Anglico, autore dell’enciclopedico De proprietatibus rerum (“Le proprietà delle cose”), in dotta compagnia con Vincenzo di Beauvais, Arnaldo di Villanova, Aldobrandino da Siena e Michele Savonarola – insistevano molto sul carattere salutistico del bagno, che serviva a ritemprare il corpo dalle fatiche e a garantire (o ripristinare) il fatidico equilibrio tra gli umori. In particolare, poiché si riteneva che donne, infanti e anziani avessero un temperamento freddo, il bagno caldo era consigliato per riequilibrare la temperatura, mentre viceversa immergersi nell’acqua tiepida (ma non fredda) era ritenuto un efficace rimedio contro la febbre. Bagni pubblici – eredi delle terme romane, ma anche degli hammam islamici (che avevano scopo rituale) e dei bagni di vapore nordici – erano diffusi in tutte le maggiori città d’Europa. Carlo Magno nell’VIII secolo ne fece costruire ad Aquisgrana alcuni capaci di ospitare oltre cento persone. A partire dal Mille la loro esistenza è documentata in Germania (Ulma, Spira, Worms) nelle Fiandre, in Catalogna (Barcellona, Lerida) e a Parigi (che alla fine del Duecento ne aveva ben venticinque). In Italia, dove ancora esistevano resti di terme antiche (Lucca, Viterbo, Acqui ecc.) si provvedette a rimetterle in funzione. I bagni erano frequentati non solo per le abluzioni, ma anche per socializzare. A volte, per la promiscuità e per la nudità ricorrente, erano considerati luoghi equivoci. E in effetti, queste stufe erano utilizzate anche come luogo di adescamento ed esercizio della prostituzione. Per questo la Chiesa – soprattutto su influenza delle correnti ascetiche – in genere condannava la frequentazione delle terme anche in quanto legate al mondo pagano che essa combatteva strenuamente. Se da un lato il bagno rimandava al battesimo, rito principe per la purificazione dal Male, dall’altro infatti poteva – vista l’ineludibile connessione alla nudità – rappresentare un incentivo alla tentazione e al peccato. I teologi più rigoristi tendevano a limitare le abluzioni all’essenzialità e consentivano il bagno vero e proprio solo in sue occasioni, Natale e Pasqua, mentre san Pier Damiani (1007-1072), nel suo De perfecta monachi informatione elogia la sporcizia come


elemento caratterizzante e anzi obbligatorio del monaco “perfetto”. Ma al di là di queste posizioni estreme, lavarsi era a dire il vero incoraggiato almeno parzialmente anche nei monasteri: san Cesario di Arles (VI secolo), ad esempio, lo prescriveva apertamente alle monache e san Gerolamo esortava a non confondere la santità con la sporcizia. Abbazie e monasteri, sia maschili che femminili, prevedevano sempre la presenza di balnea (separati dalle latrine), dislocati solitamente non lontano dall’infermeria, visto che il loro uso era associato soprattutto a pratiche di carattere terapeutico. Responsabile della loro manutenzione era il monaco erborista. A Cluny, l’abbazia più maestosa d’Europa, ce n’erano ben dodici. Tornando ai bagni pubblici, il loro scopo primario era e restava quello dell’igiene personale. Ci si recava lì anche per ragioni di comodo. Dato che non c’era l’acqua corrente, per riempire le vasche (ma spesso si trattava di semplici botti di legno!) occorreva fare vari viaggi da casa alla fontana più vicina. Poi bisognava scaldare l’acqua e per farlo era necessaria una grande quantità di legna, decisamente costosa. Meglio allora ricorrere, una volta ogni tanto, alle stufe: per la pulizia quotidiana ci si poteva limitare a sciacquarsi le mani e il viso in un bacile, mentre il resto del corpo era deterso con un panno umido. Non così, ovviamente, i ricchi, che potevano contare sul denaro e sulla forza lavoro servile per beneficiare di un bagno come si deve, che poteva diventare anche un vero e proprio rito. Secondo lo storico della medicina Arturo Castiglioni: Era buona norma che nel caso che il padrone volesse fare un bagno, venissero esposti dei panni attorno al tetto, ognuno cosparso di fiori ed erbe verdi profumate e che ci fossero cinque o sei spugne per sedervisi o sdraiarvisi sopra. Il bagno durava un certo tempo e doveva chiudersi la porta. Doveva esserci un bacile pieno di erbe fresche riscaldate e si lavava il corpo con spugne morbide, e poi veniva sciacquato con acqua fresca, tiepida e profumata di rose. Quindi andava a letto, dopo aver indossato le calze ed essere stato asciugato con panni puliti66. Gli stessi poemi cavallereschi sono ricchi di episodi che mostrano come la nobiltà avesse il culto della pulizia: quando giungeva uno straniero a corte, il dovere di ospitalità imponeva di preparargli un bagno caldo. Prima dei banchetti, inoltre, ci si lavava sempre (anche per motivi rituali) le mani: una scena del celebre arazzo di Bayeux, che illustra la conquista della Britannia da parte dei Normanni, mostra un vescovo a tavola con altri personaggi di alto rango mentre benedice le portate e di fronte a loro, un servo si avvicina reggendo un catino e un asciugamano di stoffa. Visto che non c’erano le forchette e il cibo si portava


alla bocca con il cucchiaio e con le mani aiutandosi con un pezzo di pane, tra una portata e l’altra era necessario sciacquarsi. Ecco perché nel corredo dei ricchi non potevano mancare bacili di bronzo o d’argento, a volte finemente decorati. I più raffinati, dal Duecento in poi, facevano portare agli ospiti acqua profumata con petali di rose. Quella dell’acqua aromatizzata con petali di fiori o erbe officinali era una pratica comune e a buon mercato per detergere e profumare il corpo ed era diffusa anche presso la ricca borghesia. Il Ménagier de Paris, sorta di manuale di cucina scritto da un ricco borghese parigino nel 1393 per la moglie, offre non solo ricette per i piatti da portare in tavola, ma anche consigli su come preparare questa “appetitosa” acqua aromatica: «Mettete a bollire della salvia, poi scolate l’acqua e fate raffreddare fino a quando è tiepida. Mettetevi, come sopra, camomilla o maggiorana, oppure del rosmarino, e cuocete con scorza di arance. Vanno bene anche foglie di lauro».


Il mistero del sapone E in effetti, il sapone era noto ma tutto sommato non troppo diffuso perché molto costoso. Sulla sua origine c’è un piccolo “giallo”. Il termine, infatti, sembra derivare dal celtico saipo, ma pare sia stato usato per la prima volta in Oriente, dove si concentrava la maggior parte della produzione. Lo storico latino Plinio il Vecchio (23-79) nella sua Naturalis Historia67 attribuisce infatti ai galli l’invenzione di una sostanza chiamata sapo (sapone, appunto), ricavata dal miscuglio di ceneri di faggio e grasso di capra. Ma a dire il vero, più che di un vero e proprio sapone si trattava di una specie di tintura che aveva la capacità di rendere rossastri i capelli. Gli arabi, invece, utilizzavano per detergersi un miscuglio ricavato da grassi vegetali come l’olio di oliva, saponificato grazie alla soda caustica e aromatizzato con profumi e balsami: ne conosciamo le “ricette” per la fabbricazione grazie all’opera del medico, alchimista e filosofo Abū Bakr Mohammad Ibn Zakariya detto al-Razī (845 ca.-925). Nel IX secolo, quando conquistarono la Sicilia e la Spagna, gli arabi lo introdussero in Occidente ma il suo primo, grande successo commerciale si ebbe con le crociate: da allora la produzione iniziò a diffondersi anche in Europa e a specializzarsi furono la Spagna, la Francia (il celeberrimo sapone di Marsiglia) e l’Italia. Ciò non stupisce affatto: rispetto alle preparazioni autoctone, caratterizzate dal terribile e penetrante odore del grasso di ovino (montone o capra che fosse), il sapone “orientale” era colorato, profumato e aveva una consistenza molto più piacevole. A differenza di oggi, nel Medioevo raramente fare il bagno era un momento privato. In vasca – come mostra efficacemente una vivace scena degli affreschi di Memmo di Filippuccio (inizio XIV secolo) conservati sulle pareti del Palazzo comunale di San Gimignano (Siena) – si entrava raramente da soli, molto più spesso in due (marito e moglie) o anche di più. Nei ceti inferiori si faceva in genere il bagno completo, a casa, una o due volte l’anno. In quell’occasione per primo si lavava il capofamiglia, poi tutti gli altri componenti. Per i neonati, cui si riservava una cura particolare, era presente una tinozza più piccola che se per i poveri era di legno, per i ricchi e i sovrani era d’oro e d’argento. I medici prescrivevano di lavarli spesso e raccomandavano di tenere la vaschetta accanto al fuoco e di avvolgerli subito in asciugamani ampi perché non prendessero freddo. Non era raro tuttavia, soprattutto nelle campagne e nelle zone più depresse, che anche i neonati subissero la stessa sorte degli adulti, con gravi


conseguenze per la loro stessa incolumità. La scarsa igiene, insomma, favoriva le malattie e aumentava ulteriormente la già drammatica presenza della mortalità infantile.

Cambiarsi è fatica Anche i capelli erano, in genere, lavati poco e si preferiva spalmarli di unguenti. L’importante era che non cadessero. Contro questo inconveniente, Ildegarda di Bingen scriveva quanto segue: Quando i capelli cominciano a cadere in un uomo ancora adolescente, questi prenda grasso di orso e un poco di cenere ottenuta dal grano o dalla paglia di grano invernengo, mescoli il tutto e con questo si cosparga, poi, tutta la testa specialmente i punti in cui cominciano a cadere i capelli. Eviti, inoltre, per un certo tempo di lavare via questo unguento dalla testa. E i capelli che non gli saranno ancora caduti verranno umettati e rafforzati da questo unguento, e per lungo tempo non cadranno. Ripeta spesso questa operazione, ed eviti di lavarsi la testa. Infatti, il calore del grasso di orso fa crescere, per sua natura, moltissimi capelli, e la cenere ottenuta dal grano o dalla paglia di grano invernengo, impedisce che cadano subito. Ed essendosi ristabiliti, come detto innanzi, i capelli di quell’uomo, saranno stati rafforzati tanto stabilmente, che non cadranno. Evidentemente, in queste condizioni i pidocchi dovevano essere una presenza pressoché costante sulle teste di tutti, e i pettini che facevano parte dei corredi – a cominciare da quelli d’osso, decorati, di età altomedievale – più che a tenere in ordine le chiome servivano a raccogliere e rimuovere i fastidiosi parassiti. Anche gli abiti si cambiavano in genere poco. Chi aveva un ampio guardaroba – i ricchi – poteva farlo più spesso, ma la maggioranza della gente aveva un solo abito, al massimo due, fatto di lino, canapa o cotone, e con questo campava tutta la vita lavandolo ogni tanto – e solo con la bella stagione – al fiume o alla fontana. Le mutande (dal latino mutandae, ossia capi che vanno cambiati) pur essendo note anche in passato (abbiamo citato i femoralia longobardi) iniziarono a diffondersi solo intorno al Duecento, e si trattava di indumenti maschili. Stante questa situazione, era logico che il sottofondo generale della città e della campagna medievali (ma anche moderne, fino all’Ottocento e in certi casi oltre) fosse un odore per noi oggi inconcepibile. Anche perché accanto a un’umanità tendenzialmente poco amante della pulizia


vivevano in assoluta promiscuitĂ animali e bestie di ogni genere. Compresi i parassiti: uomini e donne, anziani e bambini di tutti i ceti sociali trascorrevano la vita coperti di pidocchi e simili, che sopportavano con cristiana rassegnazione spulciandosi a vicenda in un atto che finiva per avere anche discrete implicazioni sociali (si chiacchierava, le madri si prendevano cura dei piccoli, le mogli dei mariti...). Per eliminarli si ricorreva a metodi empirici come raschiature, unguenti, impiastri a base di erbe, oli e altre sostanze “repellentiâ€?. Il rischio di malattie ed epidemie era altissimo, ma i medici dell’epoca non lo sospettavano neppure lontanamente. Erano infatti convinti che i parassiti si generassero spontaneamente dalla putrefazione del sudore della pelle e non immaginavano che il contagio di malattie come, ad esempio, la peste dipendesse anche e soprattutto dal morso o dal contatto con le pulci. La profilassi era dunque inesistente, con conseguenze a dir poco nefaste.


Santi e re taumaturghi E infatti nel Medioevo proliferavano le malattie. Come si è detto, mancavano rimedi efficaci, quindi spesso e volentieri si ricorreva alla protezione dei santi. Un caso popolarissimo è quello del già pluricitato sant’Antonio abate, eremita vissuto nel III-IV secolo e morto alla veneranda età (pare) di centosei anni. Sulla sua tomba, subito oggetto di venerazione da parte dei fedeli, furono edificati una chiesa e un monastero. Il sepolcro fu scoperto nel VI secolo. Allora i resti furono traslati dapprima ad Alessandria d’Egitto e poi a Costantinopoli. A portare le reliquie per la prima volta in Francia fu un cavaliere, Jocelin de Chateau Neuf, che tornava da un pellegrinaggio in Terrasanta. Le consegnò a La Motte St Didier attuale Saint-Antoine-l’Abbaye, vicino a Vienne dove, intorno al 1095, a seguito di un ex voto, sorse l’Ordine (dapprima confraternita) degli antoniani – e poi il relativo ospedale –, fondato dal nobile Gaston, grato al santo per avergli guarito il figlio dall’herpes zoster, una malattia causata dal virus della varicella infantile che comportava eruzioni cutanee fastidiose. Se degenerava, potevano verificarsi complicazioni quali la perdita della vista e dell’udito. Quello di sant’Antonio è solo uno tra i più celebri casi di santi invocati contro le malattie. L’elenco ne comprende decine, che proteggevano – in una sorta di “legge del contrappasso” – la parte del corpo in cui avevano subìto il martirio oppure esaltavano una prerogativa che li aveva caratterizzati in vita: santa Lucia per la cecità, san Patrizio contro la rabbia... Nel Quattrocento, in Germania, si sviluppò addirittura un culto speciale dedicato ai quattordici santi “ausiliatori”: sant’Agazio contro le malattie agli occhi, santa Barbara contro la febbre e la morte improvvisa, san Biagio contro il mal di gola, santa Caterina d’Alessandria contro le malattie della lingua, san Ciriaco di Roma contro le “ossessioni diaboliche”, san Cristoforo contro la peste, san Dionigi contro il mal di testa, Sant’Egidio contro la pazzia, sant’Erasmo contro i dolori addominali, sant’Eustachio, contro i pericoli del fuoco, san Giorgio contro le infezioni della pelle, santa Margherita di Antiochia contro i problemi relativi al parto, san Pantaleone contro la consunzione, san Vito contro l’idrofobia, la letargia e l’epilessia. La nomea di guarire da certe patologie era presente anche nei sovrani. Celebre il caso dei cosiddetti “re taumaturghi”, cui si attribuiva la capacità di curare la scrofolosi, o “mal reale”, in termine scientifico adenite tubercolare. Si trattava di una infezione che provocava rigonfiamenti al collo e alle articolazioni


che si riempivano di pus. Anche se in sé e per sé non era – salvo rari casi – mortale, questa malattia condannava chi ne soffriva a vivere ai margini della società, evitato da tutti a causa del terribile odore emanato dalle piaghe. Il fenomeno è stato studiato dal grande storico Marc Bloch in un celebre saggio68. Secondo le fonti dell’epoca, prima fra tutte l’abate Gilberto di Nogent-sousCoucy, ai re di Francia bastava invece un solo tocco per donare una guarigione miracolosa. Ecco la sua testimonianza: Che dico? Non abbiamo visto il nostro signore, il Re Luigi, far uso di un prodigio consuetudinario? Ho veduto con i miei occhi dei malati sofferenti di scrofole nel collo o in altre parti del corpo accorrere in gran folla per farsi toccare da lui – al quale tocco aggiungeva un segno di croce. Io ero là, vicinissimo a lui, e lo difendevo persino contro la loro importunità. Il re mostrava verso di essi la sua generosità innata; avvicinandoli con la mano serena, faceva umilmente su di essi il segno della croce. Anche suo padre Filippo aveva esercitato con ardore questo stesso potere miracoloso e glorioso; non so quali errori, da lui commessi, glielo fecero perdere. I sovrani dotati di questo straordinario potere, però, non erano solo Luigi VI (che regnò dal 1108 al 1137) e suo padre Filippo I (1060-1108), ma anche Roberto I il Pio (996-1031) e Filippo IV il Bello (1285-1314), nel regno d’Inghilterra, Edoardo il Confessore (1042-1066), Enrico II (1154-1189), Edoardo I (1272-1307), Edoardo II (1307-1327) ed Edoardo III (1327-1377). Il solo Edoardo I nella sua vita ne avrebbe guariti oltre diecimila. A loro ricorrevano ammalati di ogni età e censo, che venivano “toccati” con un preciso cerimoniale: dapprima la mano destra del re riceveva la sacra unzione; poi il sovrano procedeva a toccare la piaga infetta facendo il segno della croce. Egli, dunque, guariva non grazie alle sue capacità ma in nome e per conto – e grazie all’intercessione – di Dio.


Epidemie funeste Il problema, però, era che le malattie nonostante tutto si diffondevano lo stesso. E spesso in maniera funesta. C’era l’ergotismo, intossicazione causata dagli alcaloidi presenti in un fungo (Claviceps purpurea) parassita di alcune graminacee, comunemente noto come “segale cornuta”. Si manifestava con nausea, vomito, diarrea, difficoltà di respiro, disturbi visivi, debolezza e convulsioni. Seguivano formicolio alle estremità, forti dolori, spasmi e contrazioni muscolari culminanti in convulsioni e coma. In alternativa, l’ingrossamento e l’infiammazione delle estremità portava alla cancrena e alla loro perdita. Ecco come il cronista Sigiberto di Genbloux descrive la virulenta epidemia che nel 1089 infestò la Francia: A molti le carni cadevano a brani, come li bruciasse un fuoco sacro che divorava loro le viscere; le membra, a poco a poco rose dal male, diventavano nere come carbone. Morivano rapidamente tra atroci sofferenze oppure continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte; molti altri si contorcevano in convulsioni. Il vaiolo, invece, riempiva il corpo di pustole e poteva causare cecità e deformazioni degli arti, fino a portare alla morte. Praticamente ignoto in Europa nell’antichità, era invece conosciuto in Africa e in Oriente: tra i primi a dedicargli una trattazione specifica fu infatti, nel IX secolo, il medico persiano alRazī. Probabilmente fu importato in Occidente dagli arabi tra il VII e l’VIII, secolo ma rimase tutto sommato una malattia abbastanza rara fino all’epoca delle crociate, quando l’aumento della popolazione e la grande mobilità di uomini e cose dovuta alla ripresa dei commerci ne favorirono la diffusione. A essere colpiti erano soprattutto i bambini che nel 30% dei casi non riuscivano a sopravvivere. Chi contraeva la malattia e guariva, però, ne portava i segni deturpanti per tutta la vita. Il tifo, caratterizzato da febbre alta e poi, a seconda del tipo, da esantemi, dolori diffusi, nausea e vomito, si diffondeva durante le guerre, veicolato dalle truppe, e diventava micidiale a causa della promiscuità e delle generalizzate cattive condizioni igieniche. Il colera – che si faceva derivare da un’alterazione dell’umore bilico che creava collera, donde il nome – era poco diffuso in Europa ma comunque


presente a causa della scarsa igiene delle acque. L’infezione colpiva il tratto intestinale causando vomito, diarrea e disidratazione. Infine, la lebbra (o morbo di Hansen): colpiva la pelle e i nervi delle mani e dei piedi, gli occhi e le mucose nasali, i reni e i testicoli, causando deformità degli arti e cecità. Pur essendo conosciuta sin dall’epoca più remota, la sua massima diffusione in Europa si registrò nel Duecento. Una delle menzioni più antiche, per quanto riguarda il Medioevo, risale ancora una volta all’editto di Rotari nel 643. Al capitolo 176, intitolato Del lebbroso, si dice testualmente: Se qualcuno si ammala di lebbra e la veridicità della cosa è appurata dal giudice o dal popolo e viene espulso dalla città e dalla sua casa, in modo che abiti da solo, non abbia licenza di alienare o donare legalmente i suoi beni a nessuno. Perché dal giorno stesso in cui è stato espulso dalla sua casa è considerato come morto. Tuttavia finché vive sia mantenuto grazie a ciò che ricava dai beni che ha lasciato. Per isolare i malati, che venivano allontanati dalle città e obbligati a portare un campanello e una veste speciale per segnalare la loro presenza, si costruirono appositi edifici, i lebbrosari. Si trovavano praticamente in ogni centro di medie e grandi dimensioni e servivano ad accogliere – anzi, a segregare – tutti coloro (non solo i lebbrosi propriamente detti) che presentavano malattie della pelle. Qui vivevano di elemosine e circondati dal sospetto e venivano obbligati a ingurgitare pozioni assurde come una specie di brodo di biscia nera catturata sulle pietraie69. Ai lebbrosi era proibito intrattenere qualsiasi rapporto con i sani, dovevano abbandonare la famiglia (se il coniuge non voleva divorziare, anche per lui o per lei scattava la “morte al mondo”) ed erano tacciati di nefandezze di ogni sorta. La malattia era vista come la “giusta” punizione da parte di Dio per questi “deviati”. La conseguenza fu che finirono per essere equiparati ad altre categorie di esclusi della società come gli omosessuali e gli ebrei. Queste misure però non impedirono al morbo di mietere anche vittime illustri, come il giovane Baldovino IV di Fiandra, re di Gerusalemme e valoroso combattente durante le crociate, che morì devastato dalla lebbra a soli ventiquattro anni. In cima alla lista dei flagelli c’era però la peste. L’ultima, terribile pandemia si era verificata tra il 541 e il 542, ai tempi dell’imperatore Giustiniano, e aveva decimato la popolazione soprattutto nelle zone orientali e a Costantinopoli. Da allora, grandi epidemie non si erano più verificate e quando le fonti medievali parlano di pestis lo fanno in maniera generica per indicare malattie diverse. Nel 1347, però, la peste si riaffacciò alle porte dell’Europa con una virulenza tale da


travolgerla in maniera selvaggia. Manifestatosi negli anni Venti del Trecento in estremo Oriente, il bacillo dilagò attraverso le steppe russe per giungere in Crimea. Qui il khan tartaro Ganī Bek occupato nell’assedio di Caffa (odierna Fedosia) ordinò di lanciare dentro le mura cittadine i cadaveri dei morti infetti. Da Caffa, all’epoca colonia genovese, la peste passò così a Costantinopoli, portata dalle navi liguri, e giunse in Europa attraverso i porti di Messina e di Marsiglia. Da qui dilagò senza ostacoli in tutto il continente, raggiungendo nel giro di tre anni la Scandinavia. Si trattava di peste polmonare (praticamente letale nella quasi totalità dei casi) ma anche bubbonica (meno virulenta). Il contagio avveniva attraverso le pulci dei topi o il morso degli stessi, ma nel caso di quella polmonare anche per via aerea, ad esempio tramite tosse o starnuti. Tutto questo, però, i medici dell’epoca non lo sapevano: erano convinti che il contagio avvenisse sì per via aerea, ma respirando i miasmi e i fetori infetti dell’aria. La totale ignoranza sulle vere cause del morbo portò a un autentico disastro: si calcola che la Grande Peste Nera – come fu chiamata con vivo realismo – uccise in soli quattro anni da un terzo a un quarto della popolazione europea, con intere zone che furono letteralmente spopolate.


Pregare per credere Ignoranza, si diceva. Se in genere gli uomini di Chiesa erano portati a considerare la peste una punizione divina, anche i laici tendevano ad affidarsi alla preghiera per scongiurare il contagio. La scienza dell’epoca si dimostrava del tutto impotente e persino i professori brancolavano nel buio. Una relazione compilata da alcuni luminari di medicina dell’Università di Parigi dà la colpa della peste a qualche ignoto e imperscrutabile evento celeste: Una congiunzione astrale, insieme ad altre congiunzioni ed eclissi, è causa reale della gravemente mortifera corruzione dell’aria che ci circonda, fonte di mortalità e di carestia [...]. Noi crediamo che la presente epidemia o peste provenga direttamente dall’aria corrotta nella sua sostanza, e non soltanto dall’alterazione delle sue qualità. Questo fatto va compreso in questo modo: poiché l’aria è, in effetti, per sua natura pura e chiara, essa non viene a putrefazione e non si corrompe a meno che non vi si mescolino vapori maligni, in seguito a una qualsiasi causa. Molti vapori corrotti, al tempo delle dette congiunzioni e per loro virtù proprie, si innalzavano dalla terra e dal mare e si spandevano nell’aria stessa; molti di quei vapori, sotto l’influenza del soffio frequente di venti meridionali caldi e umidi e violenti, a causa di vapori umidi e strani che quei venti si trascinavano dietro, hanno corrotto l’aria nella sua stessa sostanza. Per conseguenza quest’aria, così corrotta, penetrando necessariamente nei polmoni, attirata dalla respirazione, corrompe la sostanza aeriforme che si trova in essa stessa e, a causa dell’umidità, fa andare in putrefazione tutto ciò che le sta vicino. Ecco da dove derivano le febbri, sorte dalla natura, che corrompono il principio della vita [...]. Non possiamo nascondere che, quando l’epidemia procede dalla volontà divina, non ci resta altro consiglio da dare che quello di affidarsi umilmente a questa volontà, pur senza abbandonare le prescrizioni del medico70. La relazione del resto fa proprie teorie ampiamente condivise nel mondo scientifico dell’epoca, come quella del «soffio pestifero» elaborata da Gentile da Foligno (morto durante la peste del 1348) nel Consilium de peste: una congiunzione planetaria sfavorevole dei pianeti avrebbe risucchiato dalla Terra una certa quantità d’aria che poi sarebbe tornata sotto forma, appunto, di «soffio pestifero». Persino i medici non sapevano più a che santo votarsi e si affidavano alla


preghiera. Così un cerusico di Padova nel suo Regime contro la peste aggiunge persino un’invocazione in base al sempiterno principio “mors tua, vita mea”: «O tu vera guida, tu che determini ogni cosa di questo mondo! Possa, tu che vivi in eterno, risparmiare gli abitanti di Padova e come loro padre fai sì che nessuna epidemia abbia a colpirli. Raggiungano esse piuttosto Venezia e le terre dei saraceni». Se questo era il parere degli “scienziati” dell’epoca, figuriamoci cosa dovevano pensare i chierici. E infatti Giovanni da Parma (1348-1377), canonico della cattedrale San Vigilio di Trento, raggiunta dalla peste il 2 giugno 1348, se la prende col gentil sesso: «La peste era irresistibilmente attratta dalla bellezza di giovani ragazze [...]; più giovani erano più in fretta morivano [...]; si trattava di donne molto belle, cosa che a Trento non era affatto un’eccezione». Il panico non risparmiava nessuno, nemmeno i preti, che si rifiutavano di adempiere alla cura delle anime: «Molti – è sempre Giovanni a parlare – si confessavano quando erano ancora in salute. Giorno e notte rimanevano esposti sugli altari l’ostia consacrata e l’olio degli infermi. Nessun sacerdote voleva portare il sacramento ad eccezione di quelli che miravano a una qualche ricompensa. E quasi tutti i frati mendicanti e i sacerdoti di Trento sono morti». Se i preti fuggivano, lo facevano anche i medici, tanto che non se ne trovavano se non pagandoli a peso d’oro. Per evitare di ammalarsi a loro volta, visitavano i pazienti con una specie di maschera a forma di becco – il cui uso sarà perfezionato nel Seicento da Charles de Lorme, medico di corte di Luigi XIII – al cui interno erano posizionate spezie, aromi e panni imbevuti di aceto. Come già ricordato, era opinione comune infatti che il contagio si propagasse attraverso i miasmi: questa specie di “barriera” avrebbe bloccato, così si pensava, l’aria infetta impedendole di raggiungere il corpo. Così come suffumigi con erbe e sostanze aromatiche erano praticati nelle case dei nobili (e nel palazzo avignonese di papa Clemente VI).

L’aria (mefitica) della città Di miasmi, del resto, l’aria medievale era piena. «Riconosci la lascivia del tuo ventre, o lettore, nel sentire con le tue nari il puzzo dello sterco. Respingi perciò nella bocca l’avidità del ventre, / sia sobria la tua vita nel momento dovuto»71. Versi eloquenti, quelli di Alcuino di York, uno dei


grandi intellettuali al servizio di Carlo Magno, che dipingevano con forte realismo un classico momento della vita quotidiana invitando, però, ad approfittarne per fare riflessioni ben più alte. I bisogni corporali, nel Medioevo, si facevano, ove possibile, nelle latrine ereditate dal mondo antico, che seppure malandate in alcuni casi ancora sopravvivevano. Le dimore dei ricchi (e i castelli) erano dotate di speciali stanzini con comoda, che consisteva in un sedile di pietra bucato e coperto da un asse di legno sotto il quale era posto un catino. Raramente erano collegati a un sistema di smaltimento. Il più delle volte sbucavano direttamente su un vicolo che fungeva da latrina, e lo si vede bene nella novella del Decameron (la quinta della seconda giornata) che narra le peripezie del giovane mercante Andreuccio da Perugia, che vi cade a seguito di un tranello escogitato da una prostituta per derubarlo. I vasi colmi erano raccolti e svuotati dai servi. Anche nei ceti medio-bassi la pratica più diffusa era quella di fare i propri bisogni in casa propria utilizzando pitali, secchi o altri recipienti che, di norma, dato che il sistema fognario si era deteriorato ed era caduto in disuso, venivano svuotati sulla strada. Si può solo immaginare quale tanfo dovesse sprigionarsi per le strade, invase da liquami di ogni sorta! Ancora nel Settecento, il poeta lombardo Giuseppe Parini, nella sua celebre ode La salubrità dell’aria, lamentava72 il terribile fetore – percepito come pericoloso per la salute oltre che spiacevole – sprigionato dalle deiezioni versate per strada dai vasi da notte dei poveri. Alla puzza si aggiungeva, comunque, l’ancora più grave problema dello smaltimento dei rifiuti: in genere le immondizie, gli scarti di concia delle pelli e di lavorazione artigianali, le parti non utilizzate degli animali macellati e tutte le deiezioni (umane e non) finivano nei corsi d’acqua, che poi erano gli stessi dai quali si attingeva per bere e per


lavarsi. Un’esemplare ricerca condotta dal grande storico Carlo Maria Cipolla ha mostrato come nella Toscana di inizio Seicento furono emanate varie ordinanze per tenere pulite le borgate da ogni «bruttura», permettendo una sorta di “censimento” della sporcizia che invadeva le città ma anche le campagne: letamai, allevamenti promiscui di cavalli, bovini, maiali e pecore, fognature inadeguate, mancanza di pozzi neri, scarti marcescenti provenienti dalle macellerie, nonché la solita abitudine a vuotare i vasi da notte con le deiezioni direttamente in strada...73 Insomma, dal punto di vista igienico si trattava di una vera e propria emergenza che favoriva, all’occorrenza, le epidemie. Sicuramente per questo alcune zone, tra cui l’Italia settentrionale, si dotarono a partire dal 1348 – ossia dopo la grande peste che devastò l’Europa uccidendo almeno un terzo della popolazione – di efficaci strutture per la prevenzione sanitaria e igiene pubblica. Lo scopo principale era difendersi dalla peste, anche se occasionalmente era necessario affrontare anche altre emergenze come il vaiolo o il tifo. Comunque sia, le Magistrature di Sanità74 riuscirono ad arginare almeno parzialmente i fenomeni epidemici e a contenerne, per qualche secolo, i danni. Nel Cinquecento, però, una serie di guerre e le devastazioni da esse causate riproposero una nuova emergenza e riaprirono le porte al flagello, che avrebbe imperversato devastante, a più riprese, per oltre un secolo.

56 F. Fornasaro, La medicina dei Longobardi, Gorizia, Leg, 2008. 57 C. Sighinolfi, I guerrieri-lupo nell’Europa arcaica. Aspetti della funzione guerriera e metamorfosi rituali presso gli indoeuropei, Rimini, Il Cerchio, 2004. 58 Ruggiero di Frugardo, Post mundi fabricam. Manuale di Chirurgia, a cura di Giuseppe Lauriello, Gaia Editrice, Angri (Salerno) 2011. 59 È il Codex Vindobonensis series Nova 2644 conservato alla Biblioteca nazionale austriaca di Vienna. 60 I canoni sono pubblicati in G.D. Mansi (a cura di), Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze e Venezia 1758-98, voll. 21-22. 61 A. Castiglioni, Origini del salasso. Il salasso nel Medioevo, «Rivista CIBA», anno VIII, n. 47, giugno 1954, pp. 1542-1558. 62 Citato in Mondi Medievali, www.mondimedievali.net/medicina/altomedioevo18.htm 63 Hildegard von Bingen, Cause e cure delle infermità (De causis, signis atque curis aegritudinum), a cura di P. Calef, Sellerio, Palermo 1997, pp. 253-254. 64 Al capitolo LXXXX. Cfr. Medicina Medievale, a cura di Luigi Firpo, Unione Tipografico-Editrice


Torinese, Torino 1972, p. 118. 65 http://www.simo-santapollonia.it/Rivista/Vol.3.n2/DeLuca.pdf 66 A. Castiglioni, Storia della medicina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1936, p. 50 e G. Vigarello, Lo sporco e il pulito. L’igiene e il corpo dal Medioevo a oggi, Marsilio, Venezia 1996. 67 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXVIII, 47. 68 Marc Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1973. 69 V. De Angelis, Le streghe, Piemme, Casale Monferrato 2002, p. 257. 70 Citato in G. Guénin e J. Novillac, Lectures historiques, Alcan, 1926. 71 Alcuino, Carmi dalla corte e dal convento, a cura di C. Carena, Le Lettere, Firenze 1995, carme In latrinio. 72 «Quivi i lari plebei da le spregiate crete d’umor fracidi e rei versan fonti indiscrete onde il vapor s’aggira / e col fiato s’inspira» (vv. 97-102). 73 C.M. Cipolla, Miasmi e umori, Il Mulino, Bologna 1989. 74 C.M. Cipolla, Public Health and the Medical Profession in the Renaissance, Cambridge 1973, cap. 1.


9 La morte nel Medioevo

La morte nel Medioevo faceva paura? Certo. Ma non quanto si potrebbe credere. Con lei si aveva una grande dimestichezza: condizioni di vita precarie, malattie, mortalità infantile, guerre e battaglie erano tutti fenomeni frequenti che falcidiavano, soprattutto nei primi secoli dell’Età di Mezzo, in maniera oggi quasi incomprensibile la popolazione. Al punto che un grande storico, Vito Fumagalli, ha definito l’Europa altomedievale «un mondo di morti»: i vivi erano pochi mentre, col tempo, i cimiteri «acquistavano un’importanza che noi forse non riusciremo mai a immaginare». La morte era considerata un evento naturale, e l’uomo era sempre pronto a morire. Ma ciò non gli impediva di interrogarsi sul senso della vita, che sembrava sempre meno preziosa. Più che la morte in sé, si temeva il proprio destino nell’aldilà, nel quale si credeva fermamente. Errata, quindi, l’immagine di un Medioevo buio e tenebroso, terrorizzato da spettri e fantasmi. E inorriditi dai cadaveri.


Il rapporto con i morti Se nell’antichità (Roma insegna) i corpi erano sepolti fuori dai contesti urbani, lungo le strade, con il trionfo del cristianesimo, si iniziò a collocarli nei pressi o dentro le basiliche e le chiese, ad sanctos, cioè vicino alle reliquie dei santi, onde poter beneficiare del loro potere salvifico. Il contatto, anche fisico, con i trapassati – di solito si moriva in casa – era abituale, quasi normale. I cimiteri – il termine deriva dal greco e significa propriamente “dormitorio” – erano visti come luoghi dove i morti giacciono in riposo in attesa del Giudizio. E non avevano niente di spaventoso. Semmai, visto il loro numero esorbitante, erano percepiti come una presenza costante, che ora consigliava, ora ammoniva, ora castigava i vivi. Il mondo dei morti e quello dei vivi, quindi, non erano separati ma contigui, e i “passaggi” dall’uno all’altro erano probabili e addirittura frequenti, almeno a prestar fede alle cronache, piene di racconti di morti che tornano in vita per raccontare a chi è rimasto le delizie del paradiso o, viceversa, le sofferenze dell’inferno. Col passare del tempo, però, la mentalità cambiò. Se diminuì – grazie all’invenzione, come si vedrà, del purgatorio – il terrore per il proprio destino nell’aldilà, fu la morte, in sé e per sé, che cominciò a far paura a una società più benestante e fortemente attaccata ai beni terreni: nel camposanto di Pisa gli affreschi di Buffalmacco mostrano in tutto il suo repellente realismo il cadavere roso dai topi e lo scheletro, del ricco come del povero, mentre le chiese dell’Europa centrale e dell’arco alpino si rivestono di “danze macabre”. È la “grande livella” che colpisce tutti indistintamente a spaventare, anche perché giunge spesso senza farsi annunciare. Trionfando durante la Grande Peste che tra il 1347 e il 1351 travolse l’Europa, la morte riuscì addirittura a cambiare la sensibilità dell’uomo nei confronti della propria esistenza.

Il “rito” della morte Naturalmente, oggi come allora la dipartita di una persona all’interno di una comunità provocava tutta una serie di comportamenti, rituali e simbolici, che caratterizzavano il fenomeno collettivo del lutto. A cominciare dal suo aspetto


più esteriore, ossia l’assunzione di un colore preciso per le vesti, in particolar modo il nero. Prima di trattare questo aspetto, conviene soffermarsi sul momento del trapasso, cruciale anche perché soggetto – visto che la morte sovente avveniva in casa dopo un’agonia più o meno lunga – molte volte alla partecipazione di molte persone. A farla da padrone sono allora, nell’immaginario medievale, le lotte tra angeli e demoni a contendersi l’anima del defunto sul letto di morte, che possono portare anche a vere e proprie allucinazioni. Ricchissime le testimonianze, dai Dialogi di Gregorio Magno (540 ca.-604) all’Historia Anglorum di Beda il Venerabile (672 ca.-735), dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228/30-1298) fino alla Commedia di Dante (1265-1321). In genere, il topos viene sviluppato in questo modo: l’anima del defunto, momentaneamente rapita fuori dal corpo, viene trasportata in cielo oppure all’inferno, dove vede rispettivamente la gloria o il tormento eterno. Angeli e diavoli ne afferrano gli arti, lo strattonano qua e là finché la memoria degli atti compiuti in Terra non ne determina il destino finale. Intermediaria di questa lotta, a volte, compare la Vergine, invocata ad esempio, nella potente immaginazione di Dante, da Buonconte di Montefeltro, ferito a morte durante la battaglia di Campaldino (1289) e il cui corpo non fu mai ritrovato. Buonconte, ormai prossimo alla fine, prega la Madonna pentendosi dei suoi peccati. Spirando, piega le braccia sul petto a mo’ di croce. Un angelo può così raccoglierne l’anima per portala in salvo, incurante delle proteste del diavolo, il quale, per vendicarsi, scatena una tempesta che gli permette di accaparrarsi almeno il corpo: sciolta nel tumulto la croce dal petto, scompare per sempre fra i flutti del torrente Archiano. Oltre alla Vergine, altri santi sono chiamati a presiedere alla “buona morte”, in primis san Michele Arcangelo e san Cristoforo. Il primo, difensore per eccellenza della fede contro Satana e i suoi angeli ribelli, trae le sue caratteristiche dal libro biblico dell’Apocalisse e come tale è rappresentato con due grandi ali, rivestito da un’ampia corazza e armato di spada o lancia, con le quali trafigge il drago che rappresenta il diavolo. Egli infatti è il princeps militiae caelestis, ossia il comandante che guidò l’esercito celeste contro gli angeli ribelli e li sconfisse, precipitandoli a terra. Santo guerriero per eccellenza, ha tra le sue prerogative anche la psicostasìa, ossia la facoltà di soppesare le anime in vista del Giudizio Universale e di accompagnarle (psicopompo) nell’aldilà. Il secondo, di cui si sa poco o nulla – forse fu martire in Licia nel III secolo – è invocato come protettore contro la morte istantanea: la sua funzione deriverebbe dall’iconografia, che lo vuole rappresentato in atto di attraversare un fiume con Gesù Bambino sulle spalle. In tal caso, aiuterebbe a superare gli ostacoli, con la morte vista come un viaggio. È stata però azzardata la suggestiva


ipotesi, visto che nella Chiesa greco-ortodossa san Cristoforo ha una testa di cane, che si tratti di una fusione con la figura di Anubi, dio egiziano dei morti e dell’aldilà. Tornando al nero come colore del lutto, a diffonderne l’uso furono i greci e i romani, conferendogli in ciò anche una precisa semantica: il re dei morti, in Euripide, è vestito di melas, che letteralmente significa “sudicio, mesto, lugubre”, stesso concetto che ritroviamo nel latino niger (“che evoca disgrazia”) e ater (“triste, velenoso, mortale”, con forte connotazione onomatopeica). La legge romana prescriveva per chi era in lutto l’astensione dai banchetti, dagli ornamenti, dalla porpora e dalle vesti bianche75 e possediamo ampie descrizioni, tra cui quella del banchetto funebre di Domiziano tramandata da Cassio Dione76, dell’utilizzo del nero non solo per le vesti dei partecipanti, ma anche per le suppellettili. E il Medioevo? Nei secoli più antichi, se crediamo a una testimonianza di Isidoro da Siviglia, le donne in lutto, oltre a lacerarsi le guance, vestivano i morti di rosso a richiamare il sangue, che si riteneva fosse la sede dell’anima. Il colore nero sembra essersi generalizzato soltanto nel tardo Medioevo poiché il canonista Guillaume Durand (Guglielmo Durante, 1237-1296), nel suo Rationale lo prescriveva obbligatoriamente, anche se un’antica tradizione fondata su Cipriano (De immortalitate, 20) consigliava il bianco, opponendosi al nero in nome della fede nell’immortalità e nella resurrezione77.

Nonostante esistano testimonianze dell’utilizzo anche di altri colori – soprattutto l’oro per i defunti di rango –, la liturgia cattolica ribadisce il nero come unico colore ammesso durante il lutto, nel riconoscimento dei propri peccati e per rispetto ai defunti, mentre i sacerdoti devono indossare il viola. Ed è curioso notare che a dettare tali norme fu papa Innocenzo III (1160-1216), autore di un celebre trattato, il De contemptu mundi (“Sul disprezzo del mondo”)78 in cui, tra le altre cose, scrisse frasi come questa: [L’uomo] commette azioni vane per cui trascura ciò che è serio, utile e necessario. Diventerà nutrimento del fuoco che sempre arde e brucerà senza mai estinguersi; alimento del verme che sempre rode e divora senza mai fine; ammasso di putredine che sempre puzza e che orrendamente è sozza (cap. 10). Per quanto tempo si rispettava il lutto? In genere dai dieci mesi a un anno, periodo oltre il quale di riteneva che il defunto fosse passato definitivamente nell’aldilà. In tutti questi mesi, e anche più avanti, era diffuso (già dall’età antica) il costume di portare sulla tomba fiori colorati, soprattutto rossi o


purpurei, con la convinzione che fossero graditi al morto o, addirittura, potessero confortarlo e vivificarlo nell’altro mondo. Non era, questa, l’unica “attenzione” a lui dedicata. Prima del seppellimento, secondo una ricca e nota prassi che risaliva al mondo classico, era d’uso piangerlo a lungo e con gesti – come la già ricordata pratica di lacerarsi le guance e i capelli – anche estremi. Proprio per evitare gli eccessi, la Chiesa intervenne più volte invitando alla moderazione nel lutto: se è vero che Cristo aveva pianto prima di recarsi sul sepolcro di Lazzaro per resuscitarlo (Giovanni, 11:33), lo è altrettanto che proprio Cristo aveva risposto a un uomo che intendeva seguirlo solo dopo aver seppellito il padre, di lasciare che «i morti seppelliscano i loro morti», invitandolo cioè a non indugiare nel compianto funebre. L’esigenza, naturale e umana, di manifestare il dolore per la perdita veniva quindi “imbrigliata” da teologi e predicatori, i quali insistevano sulla necessità della moderazione. Anche gli aneddoti diffusi a mo’ di exempla per questo scopo non si contano. Le troppe lacrime, sembrano voler dire, disturbano i morti e li distolgono dal loro eterno riposo. Addirittura, inzuppano loro le vesti e dunque creano fastidio: così la leggenda relativa al monaco benedettino Vicelino (morto nel 1154), che apparve in sogno a una pia donna chiedendole di avvisare il suo amico Heppo, che continuava a piangerlo incessantemente, che lui stava bene ma a causa delle sue lacrime la sua tunica candida come la neve era tutta bagnata... Fa eccezione la Madonna sotto la croce, il cui pianto anzi diventa esemplare. La sua immagine dolente e desolata si diffonde nella cultura popolare grazie anche alla sequenza latina dello Stabat Mater, composta dal grande poeta francescano Jacopone da Todi (1230 ca.-1306): la madre di Cristo viene rappresentata impietrita e piangente a fianco della croce sulla quale il Figlio sta patendo il supplizio («Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa / dum pendebat Filius»). Le sue lacrime sono quelle di ogni donna che ha perduto il figlio e quindi è facile commuoversi e anche per la Chiesa giustificare. Non tutti però: da Ambrogio (340 ca.-397) ai teologi bizantini, molti rimarcano che Maria non è una madre come tutte le altre, è conscia del mistero di salvezza che si compie attraverso la morte del Cristo e pertanto non può reagire, come le comuni mortali, alla sua privazione. Ma si tratta di dispute intellettuali. Il popolo del Basso Medioevo restò sempre affezionato all’immagine di Maria piangente e sofferente, e tale amò vederla rappresentata: quale maggior consolazione per chi, soprattutto nei bui anni delle epidemie, subiva la perdita di qualcuno praticamente quasi ogni giorno? È un vizio generale quello di associare le manifestazioni di lutto più “vistose” con i Paesi mediterranei, che portano indelebilmente impressi i segni della tradizione greca e latina delle lamentazioni funebri, dei lacrimatoi, delle prefiche


(spesso prezzolate). Il pianto, invece, si ode fragoroso anche nell’Europa settentrionale come dimostrano ampiamente le saghe e i poemi germanici e norreni. Tuttavia viene generalmente condannato. Perché? Anche in questo caso, innanzitutto perché le lacrime inzuppano gli abiti dei morti e ne turbano la pace. Ma poi, che senso ha piangere un guerriero se la sua sorte è quella, gloriosa, del Valhalla? In questa sterminata sala in cui si aprono 540 porte, coi muri fatti di lance e il tetto di scudi d’oro, si entra solo se scelti dagli dèi. Scortati dalle valchirie, dopo aver varcato i cancelli sotto lo sguardo vigile di un lupo e di un’aquila, il guerriero attraversa il fiume Thund e poi prende dimora nell’edificio. La sua sorte è felice perché è quella dell’eletto: assisterà infatti Odino nel Ragnarök, lo scontro finale contro i Giganti, e nell’attesa combatterà con i suoi sodali nelle vaste pianure di Ásgarðr. Le sue ferite si rimargineranno, le membra staccate si ricomporranno e ogni sera banchetterà con carne di cinghiale bevendo birra distribuita dalle valchirie in preziose coppe, oppure il sacro idromele che sgorga dalle poppe della capra Heidrunn. Cosa desiderare di più? Dalla tomba 50 della necropoli longobarda di San Mauro a Cividale del Friuli (Udine) abbiamo la prova della pratica di offerte e banchetti funebri: due recipienti coperti – un’olla in ceramica e una brocca in bronzo fuso – contenevano con ogni probabilità bevande, mentre il rinvenimento di un omero di maiale, forse ritenuto “cibo per l’immortalità” (ricordiamo il valore sacrale che la carne di suino, maiale e cinghiale, rivestiva presso i germani) dimostrano che è stato offerto al morto del cibo dal valore rituale. A ciò si aggiunge che nel riempimento della stessa sepoltura sono state trovate ossa di vari animali combusti e numerosi frammenti di stoviglie in ceramica, forse spezzati ritualmente: sono i resti del banchetto funebre, realizzato proprio in prossimità del sepolcro stesso. Non si tratta di un unicum: gusci d’uovo e ossa di pollo, agnello, bovino e maiale si ritrovano spesso nelle necropoli ungheresi (nella Pannonia i longobardi si fermarono a lungo) e in Italia si ritrovano nelle prime fasi d’uso di varie necropoli con marcate caratteristiche tradizionali germaniche, come quelle di Leno Campo Marchione, Romans d’Isonzo e Nocera Umbra (fino ai primi decenni del VII secolo). Le miniature contenute nel Sacramentarium di Varmondo, vescovo di Ivrea (930-1011), che risale all’anno 1002, ci aprono anche un’interessante finestra sulla gestualità relativa alla morte. Delle sessantadue scene preziosamente dipinte nello scriptorium della cattedrale, una decina riguardano il rituale della dipartita e dei funerali di un laico. Ecco la descrizione riportata da Alfonso Di Nola79: Nella prima figura un uomo e una donna, accanto al malato, con gesto


di dolore si tengono la guancia. Nella seconda miniatura una donna probabilmente si batte il petto, presso il moribondo disteso a terra. Nella terza figura appare una donna scarmigliata e trattenuta da un uomo che sembra impedirle di gettarsi sul morto dalla cui bocca esce l’anima in forma di bambino. Un’altra donna solleva le mani coperte da un velo. Nella quinta immagine, una donna si strappa i capelli mentre il defunto è posto sul cataletto e ricoperto con una stoffa decorata. Nella sesta, nel corso del corteo funebre, una donna solleva le braccia al cielo. Nella settima immagine, la moglie si getta sulla barella sulla quale è deposto il defunto nel coro della chiesa. L’ottava miniatura rappresenta il corteo dalla chiesa al cimitero e nel corso di esso la donna si batte il petto. Nella decima miniatura è rappresentato il seppellimento nella fossa e al centro dell’immagine si presenta la donna scarmigliata che tenta di gettarsi sul corpo ed è trattenuta da un’altra. Era così ovunque? Difficile dirlo. Ma tali scene non sono così diverse dai cortei funebri di lamentatrici egizie o dalle scene di compianto greche: dimostrazione evidente che la manifestazione anche clamorosa del cordoglio, nonostante i divieti, non conosce soluzione di continuità attraverso i secoli.


Sotto terra A proposito di sepolture, come avvenivano nel Medioevo? Occorre precisare subito che non sempre e ovunque le usanze erano le stesse. Le genti germaniche, ad esempio, erano solite seppellire i propri morti (uomini e donne, ma anche bambini) con – laddove le condizioni sociali lo consentivano – un corredo più o meno ricco. Armi, monili, oggetti apotropaici, ma anche suppellettili di uso quotidiano, in conformità con la credenza che il defunto continuasse a vivere come prima. Tale usanza si riscontra con particolare rilievo, ad esempio, presso i goti e i longobardi (questi ultimi, a volte e solo a partire dalla seconda metà del VII secolo, accompagnati da iscrizioni). Teodorico, re degli ostrogoti dal 474 e re d’Italia dal 493 al 526, volendo promuovere in Italia una politica di uguaglianza tra i suoi (pagani o ariani) e gli italici (cattolici) in campo religioso, ordinò di abbandonare l’antico uso funebre per seguire il modello della popolazione autoctona, che non prevedeva la presenza di corredo funebre. Ma la sua ordinanza («iussione decernimus») fu largamente disattesa, come dimostrano molte sepolture scavate anche di recente. A Collegno (Torino), doppia necropoli gota e longobarda, tra le otto tombe gote databili tra la fine del V secolo e il 560 circa appartenenti a una famiglia aristocratica si conserva addirittura una sepoltura monumentale, allestita per il capo del gruppo, un uomo di oltre cinquant’anni, deposto senza armi e con due cinture chiuse da fibbie in bronzo dorato e in ferro. Era sicuramente un guerriero, come mostra la “sindrome del cavaliere”, dovuta a un costante e intenso addestramento equestre, esercitato dalla nobiltà gota come abilità specifica del proprio rango sociale. Intorno alla tomba del “capo” sono disposte due sepolture maschili, due infantili e tre femminili, di cui due con ricchi gioielli e vesti decorate con broccato d’oro. Lo stesso vale per il sito di Frascaro (Alessandria), ventisette sepolture e una parte di abitato della fine del V-prima metà del VI secolo. Il cimitero, forse recintato da una palizzata, presentava sepolture realizzate scavando un tronco di legno a mo’ di bara: usanza molto diffusa in ambito germanico e presente anche a Goito (Mantova) in un nucleo di trentotto sepolture di fine IV secolo. I corpi sono deposti con il loro corredo di fibule, fibbie di cintura e vasellame. Questi esempi da soli bastano per farsi un’idea. Con l’arrivo dei longobardi (568), altra popolazione dedita massicciamente alla guerra, oltre alla panoplia completa di armi, i guerrieri si portavano nell’aldilà il proprio cavallo, spesso ritualmente decapitato, e a volte anche un


cane. Le donne, invece, erano deposte con i loro gioielli e altri oggetti d’uso e ornamenti (pettini in osso, chiavi, orecchini, spilloni per capelli ecc.) che avevano usato in vita. Le pareti delle tombe, scavate in terra, erano ricoperte di lastre di pietra, che a volte servivano anche come copertura (ad esempio, ad Arsago Seprio, Varese). Il defunto poteva essere deposto in un semplice sudario oppure in una bara di legno, di cui si conservano solo le parti metalliche (angolari e chiodi); sugli abiti dei più abbienti – o su un panno adagiato sul volto – venivano cucite croci in lamina d’oro semplici o con ricche decorazioni. Il già citato ampio sepolcreto di Collegno (Torino), già frequentato come detto dai goti, ha restituito 175 tombe longobarde molto interessanti per varie ragioni, prima fra tutte la presenza, nella prima fase d’uso (570-630 ca.), di undici “camere lignee”, ossia ampie fosse rivestite di legno con pali angolari, già utilizzate negli stanziamenti in Pannonia (attuale Ungheria) prima del loro arrivo in Italia. Queste “case della morte” compaiono anche a Campo Marchione, nei pressi di Leno (Brescia): sono presenti in ben quindici delle 249 tombe finora scavate, soprattutto nella prima fase (ultimo trentennio del VI-inizio VII secolo). Questa e altre usanze tipiche germaniche – sacrificio del cavallo, corredi di armi e monili con decorazioni tipiche ecc. – si ritrovano un po’ ovunque nell’Italia centro-settentrionale: a Cividale del Friuli (San Mauro), Romans d’Isonzo, Povegliano, Trezzo sull’Adda (San Martino), Goito, Testona, Collegno, Sant’Albano Stura, Spilamberto, Nocera Umbra. Una tradizione citata da Paolo Diacono (720-799) nella sua Historia Langobardorum, inoltre, era quella di erigere, in ricordo di chi era morto lontano, pertiche sormontate da colombe di legno orientate in direzione del luogo dove appunto era scomparso: usanza forse mutuata dalle genti delle steppe e presente anche presso i goti, ma ben presto dimenticata, visto che ne resta traccia solo nel nome dell’ormai distrutta chiesa di Santa Maria ad perticas di Pavia e nell’area a nord-ovest di Cividale. Con il progressivo passaggio dei longobardi dal paganesimo all’arianesimo e infine con la definitiva (nel VII secolo) conversione al cattolicesimo, anche il costume sepolcrale cambia e le famiglie più abbienti tendono a farsi seppellire in chiesa. Ma non rinunciano al corredo. Un esempio emblematico è quello della chiesa di San Lorenzo a Gozzano (Novara), che ha evidenziato sepolture di personaggi di rilievo, risalenti al VII secolo e appartenenti al ceto dominante, con resti di armi, cinture multiple per la sospensione delle stesse con guarnizioni in ferro ageminato in argento e ottone finemente decorate. Da ricordare che la stessa regina dei longobardi Teodolinda si fece seppellire a Monza, nella chiesa di San Giovanni Battista da lei stessa fondata, con una ricca dotazione di oggetti preziosi, tra cui – secondo la tradizione – la famosa chioccia con sette pulcini in argento, un


capolavoro dell’oreficeria dell’epoca. Abbastanza diffusa era anche l’usanza, di derivazione classica, di seppellire il defunto con una o più monete: il cosiddetto “obolo di Caronte”, che serviva a pagarsi il viaggio nell’aldilà, è attestato ad esempio a Privernum (in provincia di Latina) in una camera funeraria esterna alla cattedrale ma a diretto contatto dell’abside: Il defunto, la cui testa era adiacente al muro dell’abside, aveva sul petto, forse originariamente contenute in un sacchetto, sei preziose frazioni di siliqua d’argento della seconda metà del VI secolo d.C. La posizione della tomba e il ricco corredo monetale qualificano il defunto, uomo o donna che sia stato, come un personaggio di particolare eminenza sociale e certamente cristiano. Altre tombe ritrovate all’interno della chiesa e intorno a essa, databili tra il VI e il XII secolo, avevano come corredo una moneta di bronzo, solitamente coeva all’inumazione80. Gli stessi goti (ma anche i longobardi) in Italia deponevano accanto alla salma monete preziose dopo averle trasformate in gioielli: usanza così diffusa che provocò disposizioni di divieto, come quelle emesse da Teodorico tra il 507 e il 511, per evitare che il metallo prezioso uscisse dalla circolazione economica. La pratica continua per tutto il Medioevo e ben oltre, dimostrando che né la cristianizzazione né il definitivo affermarsi della nuova religione riuscirono a cancellare del tutto alcune usanze funerarie pagane, così radicate da essere praticate sino ai nostri giorni. Un’altra tipologia di sepoltura presente nell’Alto Medioevo è, passando in ambito settentrionale e soprattutto in Scandinavia, la cosiddetta “nave di pietra”, che riproduceva un’imbarcazione interrata in cui il morto (sempre di rango) era sepolto, generalmente dopo essere stato cremato. Ma esistono casi di monumenti senza sepoltura, il che ha fatto ipotizzare che fossero solo dei monumenti che richiamavano l’usanza, tipica dei popoli nordici, di deporre il capo defunto su una imbarcazione di legno carica di offerte e schiavi sacrificali, che poi veniva incendiata e spinta al largo. Comunque sia, le più antiche testimonianze archeologiche di questo tipo risalgono all’età del bronzo scandinava (1000-500 a.C. ca.). La maggior parte sono però ascrivibili all’epoca vichinga (790-1066 d.C.). Alcune potevano essere anche enormi, come quelle svedesi di Åle, lunga ben 67 metri e larga 19, e Askeberga, 55 metri di lunghezza dettata da ventiquattro massi monolitici di 25 tonnellate ciascuno, o ancora la nave di Jelling, in Danimarca, che misura addirittura 354 metri. Ma in genere erano di dimensioni molto più contenute. In esse riposavano di solito i guerrieri ritenuti più importanti, che essendo grandi


navigatori erano sovente anche esploratori di nuove terre: così, ad esempio, la tomba di Tjelvar (750 a.C.), che secondo la leggenda conteneva le spoglie del mitico scopritore del Gotland, Þjálfi (Tjelvar). A volte erano sepolcri di re, come la doppia nave che sorge sulla collina di Anund, 100 metri per 25, il cui nome deriva appunto da quello dell’omonimo e forse leggendario sovrano svedese del VII secolo. Perché proprio la nave? Semplice: i vichinghi, grande popolo di navigatori – si ritiene che siano arrivati primi fra tutti a scoprire il Nuovo Mondo ai tempi di Erik il Rosso (940-1010 ca.) – utilizzavano la nave per muoversi ma anche come mezzo di razzia, guerra e conquista, e la nave era parte integrante della loro identità.


Sepolti in chiesa Col trionfo del cristianesimo, si assiste a un fenomeno tipico: il ritorno dei morti, finora relegati al di fuori dei centri urbani, in città. E la sostituzione del rito pagano dell’incinerazione con quello dell’inumazione, unica garanzia per la risurrezione del corpo. Nonostante una voce importante come quella di Agostino (354-430), nel suo De cura gerenda pro mortuis, sostenga che il destino del corpo non sia dirimente per il futuro dell’anima, già dai primissimi momenti in cui il cristianesimo si diffonde si fa strada la pietas nei confronti dei defunti, con la conseguente necessità di offrire una sepoltura. Si seguiva comunque quanto prescritto dalla legislazione romana, molto chiara in proposito: la decima legge delle Dodici Tavole vietava di bruciare e seppellire i cadaveri all’interno del pomerium – il confine sacro della città, tracciato al momento della fondazione con un preciso rituale – per salvaguardare la purezza (sanctitas) delle abitazioni81 ed evitare impure contaminazioni, ragion per cui i morti venivano sepolti fuori dalle mura, in genere lungo le vie che conducevano lontano dall’abitato. Cimiteri pagani e cristiani nei primi tempi coesistono: col tempo, si separano mantenendo comunque fede alle prescrizioni, che restano in vigore per tutta l’età tardoantica. Ma col IV secolo le cose cominciano, lentamente, a cambiare. Iniziano le prime “trasgressioni”, come ci rivela il Codice teodosiano (381 d.C.), che sente il bisogno di ribadire ancora con forza il divieto di seppellire entro le mura. A rompere gli indugi è Costantino (274-337), che si fa seppellire in un ricco mausoleo, l’Apostoleion – ovvero la chiesa dei Santi Apostoli – nella nuova capitale da lui fondata e che da lui prende il nome. Il tabù del contatto vivi-morti è così violato: da allora l’uso di farsi inumare nelle basiliche, meglio se accanto alle spoglie di un santo o di un martire (ad sanctos o ad martyros), diventa comune per le classi agiate anche se ufficialmente vietato, come dimostrano le disposizioni emesse dai concili di Braga (563), Magonza (813), Tribur (895) e Nantes (900). L’unica eccezione, ma con permesso dell’autorità ecclesiastica, era per i prelati. Le chiese, «ormai diventate cimiteri» (Teodulfo d’Orléans, 750-821), pullulano di morti. Non solo nell’abside – luogo preferito perché vi si conservavano le reliquie dei santi – ma anche sub grunda, sotto le grondaie: l’acqua piovana, ritenuta benefica, avrebbe garantito con maggior efficacia la salvezza. La maggior parte dei defunti vengono seppelliti nei terreni adiacenti la


basilica, che diventano cimiteri veri e propri ma che sono frequentati non solo per piangere i propri defunti, bensì anche per svolgere attività di ogni genere, più o meno lecite. Persino la prostituzione. Leggiamo in merito la prova eloquente che ci fornisce il Concilio di Rouen (1231), dove si proibisce «sotto pena di scomunica, di ballare al cimitero o in chiesa», e una disposizione del 1405 che vieta «di danzare al cimitero, di giocarvi a un qualunque gioco; divieto ai mimi, ai giocolieri, ai burattinai, ai musicanti, ai ciarlatani, di esercitarvi i loro ambigui mestieri».


La morte degli innocenti Nel Medioevo non esisteva un’anagrafe dei defunti. Tutt’al più, ma solo presso monasteri e abbazie, c’erano registri che annotavano i nomi e la data di morte di persone che avevano compiuto particolari benemerenze verso la Chiesa e che si erano dunque meritati le preghiere della comunità. Tali elenchi, detto obituaria (da obitus, “morto”) – il più antico appartiene all’abbazia di SaintGermain-des-Prés (IX secolo) – sono assai lontani dai più tardi registri parrocchiali, che si diffondono massicciamente – sebbene esistano esempi precoci a Gemona (1379), Siena (1381), Firenze (1428) e Bologna (1459) – solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563) e che contengono gli avvenimenti correlati alla vita religiosa della parrocchia: battesimi, cresime, matrimoni e funerali. Difficile quindi stabilire con precisione l’andamento demografico, se non aiutandosi con documenti indiretti come le cronache – che narrano, ad esempio, i crolli in seguito a epidemie o ad altre catastrofi – e con lo studio dei reperti ossei rinvenuti nelle tombe, preziosi scrigni di informazioni relative alle condizioni di vita in determinati contesti. È certo però che il Medioevo sia stata un’epoca di altissima mortalità infantile. Recenti studi hanno calcolato che circa il 45% della popolazione non arrivava alla soglia dei vent’anni. Ma il decesso entro i primi tre anni di vita – per malattia, denutrizione, debolezza o altri fattori – era percentualmente ancora più alto. Così come altissima era, in assenza di adeguate cure mediche, la probabilità che il neonato – e anche la madre – morisse durante il parto oppure nei giorni immediatamente successivi. Cosa accadeva a questo esercito di piccoli morticini? Uno dei dilemmi più sentiti (e strazianti) era quello della sorte delle anime degli infanti morti prima di aver ricevuto il battesimo, quindi o prima di nascere o subito dopo. La teologia lasciava poco spazio all’interpretazione: il loro destino è la dannazione. Secondo sant’Agostino (354-430) «le Sacre Scritture e la stessa tradizione testimoniale della Chiesa attestano che esse [le anime, n.d.a.] vengono dannate se siano uscite dal corpo in tale condizione [senza battesimo, n.d.a.]». Il motivo? Pur non avendo avuto modo di fare nulla né di bene né di male, «contrassero il contagio dell’antica morte secondo il vincolo che casualmente avevano con Adamo all’atto della loro venuta al mondo. Non possono perciò essere liberati dal supplizio della morte eterna, che trasferisce da uno solo la giusta condanna su tutti, se non rinascono per grazia in Cristo»: sono dunque condannati, per quanto a «pene mitissime».


Ancora più perentorio Fulgenzio di Ruspe (468-533), per cui è indubitabile che «non solo gli uomini già forniti di ragione, ma anche i bambini che cominciano ad aver vita nell’utero delle madri, o che siano già nati, che abbandonano questo mondo senza aver ricevuto il battesimo, dovranno essere puniti con il supplizio del fuoco eterno». Di eguale tenore la posizione di Gregorio Magno (540 ca.-604), santo e papa, convinto della loro condanna ai tormenti perpetui. A queste posizioni rigoriste tentarono di mediare dapprima teologi del calibro di Pietro Abelardo (1079-1142) e Pier Lombardo (1100-1160), i quali sostennero che l’unica pena a loro riservata fosse quella di soffrire la mancanza della Luce Eterna, ossia della visione di Dio; e poi nel Duecento san Tommaso d’Aquino e i suoi seguaci, affermando l’assenza, per questi innocenti, del tormento del fuoco. Ma il Concilio di Lione del 1274 (e successivamente quello di Firenze del 1439) ribadirono con forza che le anime di chi muore in stato di peccato originale scendono all’inferno e subiscono gli usuali tormenti, per quanto più leggeri. Pian piano, però, e proprio per far fronte all’evidente imbarazzo che suscitava l’ingiustizia di una condanna perpetua di bambini assolutamente incolpevoli, fu introdotta l’idea dell’esistenza di un luogo chiamato “limbo” (dal latino limbus, “orlo”), dove essi dimoravano per l’eternità senza subire tormenti ma “solo” la privazione di Dio. I loro corpi, però, non potevano essere seppelliti in terra consacrata, quindi trovavano posto o nei campi, o al massimo sul sagrato davanti alla chiesa. È evidente che soprattutto per le madri una tale assenza, totale, di speranza circa la salvezza dei propri figli nati morti o deceduti prima di aver ricevuto il battesimo fosse insopportabile. I tentativi di “sviare” l’ineluttabile dannazione si ritrovano nelle credenze folkloriche diffuse in tutta l’Europa cristiana dal Medioevo fino all’età moderna (e in alcuni casi contemporanea). Si credeva, ad esempio, che seppellire i corpicini sub grunda, cioè come già ricordato sotto la grondaia della chiesa, li portasse alla salvezza in quanto venivano bagnati dall’acqua piovana, «inviata da un Padreterno più misericordioso» (A. Di Nola), che dunque li battezzava. Oppure si tentava di fare in modo che i cadaverini fossero comunque deposti, almeno con la testa, a contatto col suolo consacrato. Questi e altri stratagemmi erano severamente repressi dalla Chiesa, ma rimasero diffusi tra la plebe così a lungo che, ad esempio, nel 1778 il sinodo di Novara dovette vietare addirittura che gli infanti non battezzati fossero portati presso cappelle campestri o immagini di santi o reliquie «affinché non si permetta che per tale motivo usurpino benedizioni e, quasi tentando Dio, siano richiamati dalla morte alla vita». Richiamati dalla morte alla vita, quindi momentaneamente risorti allo scopo


di ottenere il battesimo e con esso la salvezza. Questo, peraltro, era lo scopo dei cosiddetti sanctuaire à répit (letteralmente, “santuari di tregua”) diffusi almeno a partire dal XIII secolo in molti luoghi dell’Europa centro-settentrionale, in particolare nelle Fiandre, in Piccardia, in Alsazia, Lorena, Borgogna, nella Savoia, in Provenza e altre province francesi, in Svizzera e Austria, nella Germania renana e da noi in Valle d’Aosta. Le madri, accompagnate da qualche parente, vi portavano i corpicini dei loro bimbi nelle ore seguenti il decesso. Dopo averli deposti sull’altare dedicato alla Vergine – l’unica in grado di intercedere per ottenere il miracolo –, pregavano con fervore in attesa della manifestazione di un segno – uno qualsiasi! – di vita almeno apparente: ritorno del colorito roseo al viso, emissione di un seppur flebile respiro, urinazione, emorragia nasale, pulsazione muscolare o movimento di qualche membro del corpo, lacrimazione e via dicendo. Non appena uno o più di questi segni si manifestava, il curato della chiesa procedeva a impartire immediatamente il battesimo al corpicino “risorto”; dopo di che, accertata la “seconda morte”, il morticino veniva inumato sul posto. Non si trattava di un’allucinazione collettiva: questo tipo di manifestazioni, nelle ore seguenti la morte, sono tutt’altro che rare. Calcolando che in media occorreva almeno un giorno se non di più, a seconda della distanza (anche 815!), per raggiungere il santuario, all’arrivo la piccola salma aveva sicuramente già iniziato a corrompersi. E i fenomeni or ora descritti sono perfettamente spiegabili dal punto di vista medico proprio tenendo presente la tempistica e le modalità in cui avviene la decomposizione. Certo, l’ignoranza delle questioni scientifiche (o anche la semplice disperazione?) faceva sì che tali segni fossero interpretati come il verificarsi di “miracoli” che permettevano, pietosamente, al bambino morto senza battesimo di ottenere l’agognato “lasciapassare” per la salvezza eterna. E tanto bastava a ridare fede e conforto alle madri. Inutile dire che, nonostante la collaborazione dei curati, la posizione ufficiale della Chiesa a proposito di queste «superstizioni» fu sempre fortemente ostile, come dimostra la loro aperta condanna nei due sinodi di Langres (1452 e 1479). Al di là di queste pratiche consolatorie, il folklore denuncia una folta messe di credenze che tendevano a considerare gli infanti morti senza battesimo come un pericolo per la società, da esorcizzare con riti anche cruenti. Nell’immaginario collettivo, erano in genere sospettati di incarnarsi in spiriti o folletti maligni che potevano aggredire a loro volta altri neonati ancora non battezzati o comunque manifestarsi ai vivi per tormentarli. Per evitarlo, di procedeva in alcuni casi a infierire sul corpicino con mutilazioni (decapitazione, taglio dei piedi ecc.) o altre forme di esorcismo. Il Penitenziale (1008-1012) del solito Burcardo di Worms, ad esempio, condanna la pratica diffusa


dell’impalamento del cadaverino, inflitta affinché non ritornasse a disturbare i vivi, con due anni di penitenza a pane e acqua. Nella necropoli, recentemente scavata (2006), di Baggiovara in provincia di Modena, databile tra il tardoantico e l’inizio del Medioevo (ovvero tra il VI e il VII secolo d.C.), sono emerse, da questo punto di vista, alcune tombe particolarmente interessanti. Tre di esse (tombe 7, 8 e 19) appartengono a bambini in età neonatale. I corpicini sono sistemati su una tegola e racchiusi da altre due tegole disposte a doppio spiovente (tomba “alla cappuccina”) oppure in una cassetta di mattoni, orientati con il capo a est e i piedi a ovest e senza corredo. Il cadaverino della tomba 8 è stato sepolto con alcuni rospi decapitati, evidentemente a scopo apotropaico.

«Revenants», ossia i “ritornanti” dalla morte Tali pratiche però non erano riservate solo ai bambini morti al di fuori dello “stato di grazia”, bensì erano applicate in tutti i cosiddetti casi di “malamorte”, quando cioè gli individui erano deceduti in una maniera che interrompeva il naturale corso del destino – morte improvvisa, per incidente, assassinati, giustiziati, suicidi, di parto nel caso delle donne – oppure in stato di scomunica, o ancora perché appartenevano ad altre fedi religiose, erano sospetti di stregoneria o deformi, oppure perché erano ritenuti in qualche modo “diversi”. In genere venivano sepolti in terreno non consacrato e anche per questo si aveva il terrore che tornassero a tormentare i vivi. Si rendeva dunque necessario procedere a una serie di azioni mirate a evitarlo. Il cadavere veniva legato con corde, stoffe, cinghie di cuoio (che non si sono conservati in quanto deperibili, ma hanno lasciato tracce permanenti sullo


scheletro e sulla sua posizione, ripiegata o contratta in modo innaturale), oppure sottoposto a mutilazione (amputazione degli arti, decapitazione), appesantito da pietre, o seppellito con oggetti dal forte valore apotropaico (chiodi, spine, paletti acuminati, amuleti vari). In Cornovaglia, ad esempio, il corpo del suicida veniva fissato al terreno trapassandolo con una lancia in modo che non potesse rialzarsi. E se malauguratamente si fosse levato lo stesso dalla tomba? Nessun pericolo: era sepolto infatti agli incroci in modo che si confondesse sulla via da seguire per tornare a infestare il villaggio. Dalla già citata necropoli di Baggiovara, che in tutto consta di diciassette sepolture, giungono gli echi di queste inquietanti pratiche. Gli inumati delle tombe 11 e 13 hanno subìto, rispettivamente, la mutilazione della parte inferiore della gamba sinistra il primo, del braccio destro, di entrambi i piedi e del cranio il secondo. Tali mutilazioni, secondo gli studi condotti dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, sarebbero avvenute post mortem, poco tempo dopo il decesso. La tipologia denuncia chiaramente la paura che il soggetto in questione potesse, in qualche modo, “ritornare”, evidentemente a creare scompiglio tra i vivi. Il terrore dei revenants, letteralmente “ritornanti”, era diffuso sin dalla più remota antichità82. La necropoli di Casalecchio di Reno (Bologna), scavata a più riprese e relativa a epoche diverse, lo ha abbondantemente dimostrato. La porzione documentata nel 1991-1992 appartiene alla tribù celtica dei boi (metà del IV secolo a.C.): su 97 tombe ben 37 presentano scheletri con nette tracce bruno-nerastre in determinati punti delle ossa, interpretate come legature con fasce di cuoio della larghezza di diversi centimetri, utilizzate per assicurarsi che i morti non potessero deambulare. Gli scavi condotti tra il 1989 e il 1992, relativi alla porzione di necropoli romana databile tra il II e il IV secolo d.C., hanno rilevato come nelle tombe a inumazione (il 76% su un totale di 238) fossero assenti le calzature, presenti invece nelle tombe a cremazione: si voleva evitare che i corpi potessero camminare, problema che evidentemente non si poneva nel caso dei defunti il cui corpo era stato ridotto in cenere. Altri scavi hanno rilevato la presenza, sempre a Casalecchio di Reno, di tombe, più tarde, con corpi mutilati degli arti e di altre parti del corpo. In particolare, la tomba 2 conteneva uno scheletro decapitato deposto in posizione fetale con un cane posto accanto al cranio, mentre nella tomba 3 il corpo dello sventurato ha subìto il taglio di entrambi i piedi: quello sinistro è stato poi ricollocato sulla spalla destra e quello destro vicino al femore, mentre il cranio è stato posto vicino alle tibie. Perché questa necessità di tagliare e “rimescolare” le varie parti del corpo? Anche in questo caso, per impedire ai defunti di ritornare a perseguitare i vivi.


Un altro scavo, stavolta a Bologna città, relativo al cantiere della nuova stazione TAV, ha restituito uno scheletro inumato a pancia in giù e un defunto con un grosso chiodo conficcato alla sommità del cranio (tomba 109). Stessa pratica, quest’ultima, riscontrata nella cattedrale di San Pietro a Bologna, dove durante i lavori di restauro sono stati trovati due crani risalenti, secondo le analisi al radiocarbonio, al XII secolo, che presentano un foro praticato con un chiodo. Perché? Forse si trattava del “colpo di grazia” inferto alle vittime di un’esecuzione, ma pare più probabile la presenza di un preciso rituale apotropaico. Il chiodo, come già ricordato, è da sempre visto come un oggetto magico: nell’antichità era associato alle Parche e segnalava l’ineluttabilità degli avvenimenti, in particolare la morte, e insieme ad altri oggetti appuntiti o affilati di metallo o di legno (paletti, coltelli, spade, spine ecc.) era utilizzato per scongiurare il pericolo del ritorno dei defunti. Si trafiggeva il morto oppure si deponeva l’oggetto direttamente sopra o accanto al corpo. Chiodare il cranio equivaleva quindi a “fissare” il cadavere (defixio) per sempre nel luogo di sepoltura, impedendogli di rialzarsi. Tali pratiche potevano avvenire anche dopo parecchio tempo che il soggetto era morto, soprattutto quando si verificavano catastrofi naturali o epidemie ed era necessario, nella mentalità dell’epoca, trovarne il colpevole. Allora si procedeva all’apertura del sepolcro di individui particolarmente sospetti e, nel caso il cadavere si fosse presentato incorrotto o con i tipici segni ricordati sopra a proposito dei bambini apparentemente risorti per ricevere il battesimo, era additato come responsabile delle disgrazie in quanto revenant e “non-morto”. Si provvedeva quindi a mutilare il cadavere, a decapitarlo e a trafiggerlo con pali acuminati in modo che non potesse più nuocere. Una testimonianza eloquente? Quella del cronista Saxo Grammaticus (1150-1220 ca.) il quale narra come, per liberarsi della peste causata per vendetta da un uomo ucciso durante un tumulto, gli abitanti «riesumarono il cadavere, lo decapitarono e gli trafissero il petto con un bastone acuminato; così la gente risolse il problema». Pratiche che ricordano quelle, celeberrime, di eliminazione dei cosiddetti “vampiri”, la cui esistenza nel folklore è ampiamente attestata sin dalla più remota antichità. Senza affrontare nel dettaglio la questione – del resto già abbondantemente studiata –, si può ricordare che i ritrovamenti di cadaveri manomessi secondo le ritualità tipiche inerenti il vampirismo sono numerosi in tutta Europa. L’ultimissimo in ordine di tempo, reso noto nel luglio 2011, è avvenuto in Bulgaria e riguarda due scheletri risalenti al Trecento ritrovati senza denti (rimossi evidentemente per precauzione) e con accanto la barra di ferro con cui erano stati colpiti più volte al petto fino a sfondarlo.


Il terrore della Nera Signora Paura della morte scongiurata, dunque? Niente affatto. Intanto, si credeva negli spettri. Nei primi secoli del Medioevo, era diffusa la superstizione che gli spiriti dei morti dimorassero presso boschi, foreste e brughiere, anzi più esattamente accanto alle rovine di chiese, sepolcri e città ormai estinte e inghiottite dalla vegetazione. Ma quando dal VII secolo i resti di pietra iniziarono ad essere utilizzati per fondare nuove chiese, palazzi e monasteri, ecco che gli spiriti, inesorabilmente, si trasferirono tra i vivi, coabitando con essi. Abbiamo citato più sopra il caso di alcune “apparizioni” di fantasmi con lo scopo di limitare la disperazione e le lacrime dei vivi, rimasti a piangerli. Ma non si contano – ne abbiamo parlato a proposito delle superstizioni – le processioni di spettri o di fuochi fatui che compaiono all’alba, lungo i crocicchi – ritenuti luoghi maledetti –, avvolti da un’inquietante aura che li rende enigmatici e spaventosi. Il già più volte citato Rodolfo il Glabro narra l’apparizione a Wulferio, monaco a Langres, di un corteo di uomini vestiti di bianco e coperti di stole color porpora che dichiarano di essere cristiani uccisi dai saraceni in difesa della fede. Sempre Rodolfo racconta di un’altra inquietante apparizione collettiva, ora di cavalieri, al prete Frotterio, il quale, preso da indicibile terrore, muore entro l’anno. Ditmaro di Merseburgo (975-


1018) nella sua Cronaca scritta tra il 1009 e il 1018 descrive l’avvistamento, nel cimitero, di piccole luci che brillano sui ceri e delle voci di uomini intenti a cantare il mattutino e le laudi. Quando i custodi del camposanto si avvicinano, tutto tace. La scena si ripete con varianti nei giorni successivi finché non viene ordinato un digiuno di tre giorni a pane e acqua. Questo e altri episodi narrati da Ditmaro mostrano che i morti passano per annunciare l’imminenza di un trapasso, che il tempo appartiene per metà ai morti e che questi sono pronti in ogni circostanza a conquistare i luoghi che i vivi hanno un tempo abbandonato – una città distrutta durante un’incursione militare o una chiesa abbandonata. I morti sono a casa loro tra le rovine e difendono lo spazio che si sono conquistati con un’energia selvaggia. È dunque necessario che i sacerdoti delimitino, con l’aspersione di acqua benedetta, gli spazi rispettivi dei vivi e dei morti. L’anno Mille segna l’invasione degli spiriti, ma anche gli sforzi raddoppiati per allontanarli83. Col passare del tempo, oltre al cimitero il luogo privilegiato per le manifestazioni soprannaturali sono i boschi. Se infatti nell’Alto Medioevo la foresta è un posto familiare, dove si caccia, si raccolgono frutti, si fa la legna e si pratica l’allevamento, con l’espansione delle città che iniziò a partire dal XII secolo e la conseguente deforestazione, divenne un luogo ostile, ricco di pericoli, popolato di animali feroci e di presenze inquietanti. Iniziarono a diffondersi leggende relative a strani incontri e a processioni di anime dannate e tormentate,


come quella che, secondo la Storia ecclesiastica di Orderico Vitale, apparve a un prete nel 1091, in un isolato bosco francese. Non a caso, Dante, uomo del Duecento, colloca i suicidi in una selva infernale, così come in una selva «oscura», «selvaggia», «aspra e forte», addirittura «amara» incomincia il suo viaggio immaginario nell’aldilà: ed è il coronamento di questa nuova visione del mondo. Racconti di processioni più o meno inquietanti di spiriti tormentati e infelici continuano fino alla fine del Medioevo (basti citare la novella di Nastagio degli Onesti nel Decameron di Boccaccio) e anche oltre. Saldandosi con una mutata – e assai più sconvolgente – concezione della morte.


Danza macabra Scheletri danzanti, cadaveri di uomini e donne in vita appartenuti ai ceti più diversi che girano in tondo a ricordare che la morte è uguale per tutti, e colpisce senza ritegno, è invece il tema della “danza macabra”, che si diffuse nell’Europa tardomedievale e fu sviluppato nella letteratura e nelle arti figurative. L’idea della Danse macabre sembra derivare da una poesia scritta nel 1376 da Jean de Lèvre a seguito della sua guarigione, due anni prima, dalla peste. I versi rappresentano la morte che, ballando, chiama a sé progressivamente il papa, l’imperatore, il re, il dotto, il chierico, il monaco e la monaca, senza distinzione alcuna. Di certo non poteva non aver influito, nell’elaborazione del tema, la terribile esperienza della Grande Peste Nera, ma l’origine della danza macabra viene fatta risalire a certe credenze popolari secondo le quali a mezzanotte i morti ballano nei cimiteri cercando di attirare i vivi nelle loro file. Tra i primi a occuparsi dello sviluppo letterario e della sua diffusione furono i francescani che, dalla metà del Trecento, per favorirne la comprensione alle masse utilizzarono nelle rappresentazioni i volgari. La diffusione del tema della danza macabra conobbe il suo apice nel XV secolo quando i “girotondi” di scheletri completati da scritte e dialoghi fecero la loro massiccia comparsa sulle mura dei cimiteri e delle chiese di tutta Europa, in particolare in Francia, in Germania e nel Nord Italia (celebre il ciclo di affreschi di Clusone, in provincia di Bergamo). Il tema della danza macabra potrebbe però anche derivare dai contatti culturali e commerciali con l’Oriente: nell’Asia centrale, in Cina e nelle Indie, in particolare nelle zone di religione buddista, le ridde di morti e i colloqui tra monaci e cadaveri erano diffusi già da secoli, e i francescani che lì si recarono in missione non fecero altro che “importarle” in Europa, dove attecchirono grazie al clima fertile provocato dai recenti lutti e dal contemporaneo diffondersi, nel culto, dei temi della Passione e della Via Crucis e, nella predicazione, dell’Apocalisse, dell’inferno e del purgatorio.

L’arte del ben morire


Tra la fine del XIV e la prima metà del XV secolo l’Europa subisce in effetti una serie di catastrofi dall’impatto devastante. È un’epoca di conflitti (la Guerra dei Cent’anni, tra Francia e Inghilterra, non era rimasta confinata alle due sole nazioni in campo ma aveva avuto ripercussioni locali anche altrove) e di cambiamenti, ma anche di piaghe e malattie come la Grande Peste Nera che sconvolse il continente tra il 1347 e il 1353 uccidendo tra i venti e i venticinque milioni di persone, un terzo della popolazione dell’epoca. La vita sembrava precaria e fragilissima, appesa letteralmente a un filo, mentre la morte viceversa si presentava come una presenza quotidiana. Le luttuose circostanze cambiarono radicalmente la concezione dell’uomo e del suo destino: al centro dell’attenzione ora non vi era più il giudizio collettivo alla fine dei tempi, ma quello individuale subito dopo la morte. Conveniva dunque a ciascuno prepararsi alla fine nella migliore maniera possibile. Ecco spiegata la ragione del grande successo che arrise alle due versioni della cosiddetta Ars moriendi (“L’arte di morire”), composte in latino tra il 1415 e il 1450, che offrono tutta una serie di consigli per “ben morire” secondo i precetti cristiani e garantirsi la salvezza eterna. La versione più lunga – la prima a essere scritta – ha il titolo Tractatus (o Speculum) artis bene moriendi. La seconda, più corta, è accompagnata da undici incisioni che illustrano efficacemente il contenuto. Entrambe ebbero grandissima fortuna e furono tradotti in quasi tutte le lingue volgari d’Europa. L’autore, un anonimo frate domenicano – ma comunque, l’ambiente in cui nacque risente fortemente della predicazione dei domenicani, in specie tedeschi come Enrico Suso e Giovanni Nider, e dei francescani – articola il discorso in sei capitoli. Nel primo spiega come la morte abbia anche un lato positivo e ha la funzione di consolare il morente e convincerlo che non bisogna temere il trapasso. Il secondo elenca le cinque tentazioni a cui è sottoposto il morente – mancanza di fede, disperazione, impazienza, orgoglio spirituale e avarizia – e come fare per evitarle; il terzo contiene le sette domande da porre al morente mentre il potere di redenzione dato dall’amore di Cristo lo conforta; il quarto teorizza la necessità di imitare la vita di Cristo; il quinto è rivolto alla famiglia e agli amici e delinea i comportamenti corretti da tenere sul letto di morte; il sesto e ultimo contiene le preghiere da recitarsi per accompagnare il trapasso. E ricorda che decidere se resistere o soccombere alle tentazioni del diavolo (e il conseguente destino ultraterreno) dipende solo dall’uomo: un interessante prodromo alle idee di base della futura Riforma.


Inferno, purgatorio e paradiso Cosa aspettava l’uomo dopo la morte? Ogni cristiano lo sapeva bene: la vita eterna. Ciò che non sapeva, però, era dove l’avrebbe trascorsa. Non era semplice immaginare un luogo non più ancorato alla dimensione terrena: soprattutto, allo spazio e al tempo. Perciò i teologi elaborarono una struttura “fisica” anche per l’aldilà, immortalato poeticamente da Dante nella Divina Commedia e reso popolare dagli artisti negli affreschi delle chiese. L’inferno, collocato sottoterra, agli antipodi di Gerusalemme, era suddiviso in gironi dove i peccatori erano puniti per l’eternità tra i più atroci tormenti stabiliti secondo la legge del contrappasso: i golosi costretti a grufolare in paludi di fango come porci, i lussuriosi sbattuti da una parte all’altra da un forte vento, e così via. In attesa del giorno del Giudizio, quando la resurrezione dei corpi porterà a compimento anche la dannazione. Viceversa, alle anime pure era riservato il paradiso e la gioia eterna e incommensurabile di poter godere, anche se in misura diversa, della visione di Dio. O di qui o di là, dunque? Fino al Duecento. Poi, lentamente, iniziò a farsi strada l’idea di un “terzo luogo”, non previsto dalle Sacre Scritture, ma che permetteva di trovare una collocazione anche per chi, non così santo da andare direttamente in paradiso, non era abbastanza malvagio da meritare l’inferno. L’invenzione del purgatorio ebbe un immenso successo. Chiunque, in pratica, poteva sperare di evitare la dannazione eterna: bastava, ad esempio, pentirsi in punto di morte. La Chiesa stabiliva per ogni peccatore un certo


numero di “giornate” di purgazione, terminate le quali l’anima raggiungeva l’Eden e attendeva il Giudizio finale, e con esso, finalmente, la salvezza. Nato per rispondere alle esigenze spirituali sorte in conseguenza delle mutate condizioni economico-sociali dei secoli dopo il Mille, il purgatorio, ottenuta una sistemazione dottrinale grazie alla Scolastica, rivoluzionò profondamente il rapporto con la morte e con i morti, e accrebbe immensamente il potere della Chiesa. I vivi, infatti, potevano accorciare il tempo di attesa dei morti tramite preghiere e indulgenze, stabilite da appositi tariffari. Una pratica, tra le tante, che avrebbe suscitato, nel Cinquecento, le ire di Lutero.

«En transi» Tra gli aspetti più interessanti del mutamento di prospettive di fine Medioevo c’è una particolare forma di scultura funeraria, detta transi (da “transito”, nel senso di passaggio dalla vita alla morte), che si diffonde nei Paesi dell’Europa centro-settentrionale a partire dal Quattrocento. Se la tomba di Eleonora d’Aquitania, morta nel 1204 (e, come lei, di altri regnanti d’Europa) raffigura la celebre e splendida mecenate in un’immagine di serena bellezza – sembra essersi addormentata leggendo un libro di preghiere! –, certa della Grazia e della salvezza, i sepolcri di prelati e sovrani dopo la Grande Peste ritraggono i loro proprietari in tutto l’orrore e il disfacimento della morte. Il gusto per il particolare macabro è esaltato fino al parossismo. Il corpo si presenta inerme e impotente agli assalti inesorabili del tempo: corroso dai vermi e dalla decomposizione, si trasforma nel trionfo della futilità e della vanagloria, ricordando – è il classico tema del memento mori – che tutto è, biblicamente, vanitas vanitatum, “vanità delle vanità”, e destinato a sparire nel modo più sordido. Inutile cercare in vita il lusso e il piacere: la “livella” che non conosce differenze di status sociale porta tutti, ricchi e poveri, ugualmente nudi al Giudizio finale. Uno dei primi e più potenti esempi di tali sorprendenti raffigurazioni è la tomba del cardinale Jean de La Grange (morto nel 1402) ad Avignone: il corpo è rappresentato come un cadavere in putrefazione; al di sopra di esso, sette teste dei più alti gradi sociali dell’epoca sono raffigurate in diversi stadi di decomposizione, mentre un cartiglio ammonisce sul destino comune della morte. Sculture del genere sono presenti anche in Italia e si devono all’efficace scalpello di Andrea Bregno (1418-1503): sono i monumenti per i cardinali Alano in San Prassede, Ludovico d’Albert in Santa Maria in Aracoeli, a Roma, e


Giovanni Diego de Coca (morto nel 1477), eseguito in collaborazione con Melozzo da Forlì. Un interessante esempio è quello, indiretto, che si trova ai piedi della Trinità nell’omonima tela del Masaccio (1401-1428), dove è rappresentato un monumento funebre con uno scheletro giacente sul marmo contornato dalla scritta «Io fu’ già quel che voi sete, e quel ch’i’ son voi anco sarete». Ma abbiamo anche esempi più precoci, squisitamente gotici, usciti dalla mano di Giovanni di Cosma (attivo negli anni Novanta del XIII secolo a Roma): sono le tombe del cardinal Matteo d’Acquasparta in Santa Maria in Aracoeli, del vescovo Gonsalvi (1298) e del cardinal Gonsalvo (1299), entrambe collocate a Roma nella basilica di Santa Maria Maggiore. In questo tipo di sculture i defunti sono rappresentati in stato di decomposizione, contornati dai beni terreni che li avevano accompagnati in vita. Esistono anche sarcofagi “doppi”, disposti su due piani: il primo in alto rappresenta il defunto in maniera “tradizionale”, mentre in basso, a vista dell’astante, la versione en transi riporta alla drammatica realtà togliendo qualsiasi illusione. Dissoltasi la rasserenante ed eterea raffigurazione del defunto dormiente con le mani giunte in attesa della resurrezione e del suo (scontato) ingresso tra i Giusti, il Medioevo termina con un forte senso di precarietà e di solitudine dell’uomo di fronte alla morte. Nuove domande – sul destino, sulla fortuna, sulle libertà e i ruoli del singolo e sulle sue capacità di attingere alla salvezza – attendono risposte. Le daranno l’Umanesimo e il Rinascimento.

75 Paolo, Receptae sententiae, I, 21, 14. 76 Cassio Dione, Storia Romana, LXVII, 91 e ss. 77 A. Di Nola, La Nera Signora. Antropologia della morte e del lutto, Newton Compton editori, Roma 2006, p. 422. 78 Innocenzo III, De sacro altaris mysterio, I, 65. 79 A. Di Nola, op. cit., p. 487. 80 F. Ceci, La deposizione nella tomba. Continuità di un rito tra paganesimo e cristianesimo, in «Historia Antiqua» 13, 2005, pp. 407-416, p. 415. 81 «Hominem mortuum in Urbe ne sepelito neve urito» [Che nessun corpo sia sotterrato o bruciato all’interno della città]: Cicerone, De legibus, II, 23, 58. 82 M.G. Belcastro - J. Ortalli (a cura di), Sepolture anomale. Indagini archeologiche e antropologiche dall’epoca classica al Medioevo in Emilia Romagna. Giornata di Studi. «Quaderni di Archeologia dell’Emilia Romagna», 28 (2009). Si veda anche L. Cesari, Revenants e paura dei morti. Parte seconda. Il


“chiodo fisso” dei vampiri, in «Pagani e Cristiani», III, 2003, pp. 119-155. 83 J.-C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 52.


10 Feste e folklore nella giornata medievale

Qual era l’orizzonte temporale dell’uomo medievale? Ossia, come misurava il tempo? E, soprattutto, come lo impiegava quando non era impegnato nel lavoro? Secondo i nostri canoni, in maniera a dir poco approssimativa. Non esistevano i calendari come noi li concepiamo oggi, nĂŠ gli orologi da polso, nĂŠ tanto meno le radio sveglie. Ma ciò non sembrava turbare nessuno: lungi dal vivere ossessionati dal trascorrere dei minuti e pervasi dallo stress, contadini, cavalieri e prelati, uomini e donne, vecchi e giovani seguivano i ritmi dettati dalla natura, dal ciclo del sole e dal passaggio delle stagioni. Con tanto di riti e feste.


Le ore del giorno Non essendoci la luce elettrica, le attività – e quindi la giornata – terminavano con il calar delle tenebre. Le ore venivano calcolate dal tramonto: restava in vigore l’uso romano, che divideva il giorno in ore diurne (horae) e notturne (vigiliae), in gruppi di tre. La suddivisione era dunque vigilia prima (dalle 18 alle 21 circa), secunda (ore 21-24), tertia (ore 24-3) e quarta (ore 3-6), e poi hora tertia (ore 6-9), sexta (ore 9-12), nona (ore 12-15) e vespera (fino al calare del sole). E poiché non esistevano gli orologi (i primi, non esenti da errori, iniziarono a diffondersi dal Trecento), a scandire il passaggio del tempo nelle giornate medievali erano le campane, che dal VII secolo regolavano con le loro squille il lavoro e la vita nei campi. Ovviamente le ore iniziavano prima o dopo a seconda delle stagioni. Il punto di riferimento erano soprattutto quelle dei monasteri, che battevano le ore seguendo i ritmi dei monaci e delle loro preghiere. Le prime orazioni (il cosiddetto mattutinum) si svolgevano verso le tre di notte; all’alba era il momento delle laudi, poi si pregava all’hora tertia (verso le nove), sexta (mezzogiorno), nona (alle tre del pomeriggio), vesperum (alle 15:00) e infine a compieta (al tramonto), quando si recitava l’Ave Maria (e dal 1318 veniva anche suonata con le campane). Il passaggio dei minuti era visualizzato grazie alle meridiane, alle clessidre o alle candele: un sistema tutt’altro che matematico. Ma poco importava, dato che il tempo era ritenuto sacro e appartenente solo a Dio. Con lo sviluppo economico che si verificò a partire dall’XI-XII secolo e la progressiva ascesa sociale dei ceti mercantili, il lento e meditativo “tempo della Chiesa” iniziò a differenziarsi sempre più dal più frenetico “tempo del mercante”, e a entrare in conflitto con esso. Per il mercante, infatti, il tempo è denaro, ed è quindi oggetto di misura e viene razionalizzato: nella durata dei viaggi, nella repentinità degli scambi commerciali. E nel prestito di denaro. La Chiesa, comunque, non stette a guardare. Se dapprima condannò questa nuova filosofia del tempo (sostenendo che esso, dato che appartiene a Dio, non può essere oggetto di lucro), a poco a poco la legittimò, e legittimò anche l’usura. Innanzitutto riconoscendo che i mercanti svolgevano un lavoro indispensabile per la cristianità: consentire l’approvvigionamento delle risorse. E poi perché gli stessi mercanti riscattavano i loro peccati con congrue elemosine e lasciti testamentari. Anzi, fu per loro, come si è visto, che fu di fatto “inventato” il purgatorio.


Il calendario nel Medioevo Gli anni trascorrevano in maniera monotona ed era piuttosto difficile computarli in modo corretto da parte della gente comune, che non possedeva le nozioni proprie invece delle classi colte e soprattutto degli ecclesiastici. Se in epoca romana il punto di partenza era la fondazione dell’Urbe (fissata dall’erudito Varrone al 21 aprile del 753 a.C.), a partire dal VI secolo iniziò a diffondersi il sistema elaborato dal monaco Dionigi il Piccolo, che in base a una serie di calcoli stabilì la nascita di Cristo al 25 dicembre dell’anno 753 ab Urbe condita, cioè dalla fondazione di Roma. E sebbene il calcolo dell’inizio della nuova “era cristiana” sia stato riconosciuto in seguito come erroneo e in ritardo di quattro o cinque anni rispetto all’epoca dell’effettiva nascita di Gesù, si impose in tutto l’Occidente verso il X secolo ed è in uso tuttora. È appena il caso di ricordare che altre culture seguivano propri calendari, diversi da quello cristiano: gli arabi, ad esempio, contavano gli anni a partire dalla fuga di Maometto dalla Mecca (Egira), avvenuta il 16 luglio del 622, secondo un uso che fu introdotto a partire dal 640 d.C. Il calendario usato in Occidente nel Medioevo era il frutto della combinazione tra il calendario giuliano, introdotto nel I secolo a.C. da Giulio Cesare e diviso in dodici mesi, e quello ebraico, dal quale i cristiani mutuarono la divisione in settimane e l’importanza centrale della Pasqua, in ebraico Pesach, “passaggio”, oltre alla scelta di un giorno dedicato al riposo (per gli ebrei era shabbat, sabato, ma l’imperatore Costantino preferì la domenica, dies dominica, cioè “giorno del signore”). Il Capodanno era fissato a seconda degli “stili”, che variavano in base ai luoghi. Lo stile della Circoncisione di Gesù (che faceva partire l’anno il primo gennaio) era usato nella Roma imperiale; quello veneto (per il quale l’anno iniziava il primo marzo) fu in voga nella repubblica di Venezia fino al 1797; curiosi sono poi i due stili “dell’Incarnazione” (cioè il giorno della festa dell’Annunciazione di Maria), entrambi in uso fino al 1749: quello pisano e quello fiorentino, che iniziava il 25 marzo. Il più diffuso, forse, almeno nelle aree nordoccidentali della penisola (ad esempio in Lombardia) era quello Natività, che faceva cominciare l’anno il 25 dicembre. A ciò si aggiungeva infine lo stile bizantino, che iniziava il primo settembre, ed era usato nell’impero d’Oriente e in Russia. Tutto il calendario, comunque e ovunque, ruotava intorno


alla figura di Gesù Cristo e alla commemorazione degli eventi principali della sua vita terrena. Altre feste fondamentali, infatti, erano la Pentecoste (che ricordava la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e l’inizio della loro missione) e il Corpus Domini (introdotto a partire dal 1246). Ma accanto al Salvatore, il calendario ricordava anche i santi e i morti, oltre ad annoverare feste di carattere decisamente più profano. E sovente con molte ambiguità. Non ancora sopito, soprattutto nella campagne e nelle aree di più recente evangelizzazione, era infatti il ricordo delle antiche festività basate su ritmi agresti, che comunque nel Medioevo continuavano a dettare quanto avveniva nella vita quotidiana.

Il “rompicapo” precristiano Per capirci occorre fare un salto indietro all’età in cui il cristianesimo ancora non si era diffuso e quindi il paganesimo era l’“universo culturale” di riferimento. Soprattutto quello celtico, che era rimasto latente anche dopo la conquista romana, la quale si era limitata a “inglobare” le antiche divinità e gli antichi riti – molti dei quali invero si somigliavano – assimilandoli ai propri. L’approccio dei celti nei confronti del trascorrere del tempo era diverso dal nostro e si basava sul ritmo degli astri, tipico di una civiltà agreste. Sappiamo dai frammenti di una tavola di bronzo scoperti a Coligny, in Francia, nel 1897, che il calendario era stabilito in base al moto del Sole e della Luna, con un carattere ciclico che rifletteva il ritmo della natura. L’anno aveva 355 o 385 giorni: di solito era di dodici mesi, ma ogni trenta se ne intercalava un altro di trenta giorni come correzione rispetto all’anno solare.


all’anno solare. Il mese iniziava con il plenilunio e il giorno dal tramonto. Le feste corrispondevano ai solstizi e agli equinozi ed erano momenti di ritrovo collettivo allietati da fuochi dal valore apotropaico. I giorni in cui cadevano erano poco significativi per l’agricoltura, ma importantissimi per la pastorizia. Soprattutto Beltaine e Samonios (che coincideva con l’inizio dell’anno) erano decisive per gli allevatori: la prima spalancava le porte all’estate ed era il momento propizio per portare le mandrie al pascolo; la seconda decretava l’inizio del lungo e freddo inverno e indicava che era tempo di rinchiuderle al riparo (e al sicuro) nei recinti. La connessione profonda con la pastorizia e l’allevamento ha fatto pensare a un’origine molto antica di queste feste, che risalirebbero dunque a quando i celti erano solo pastori e non avevano ancora iniziato a praticare con metodo la coltivazione dei campi. Ma si tratta solo di supposizioni. Certo è che queste festività rappresentavano l’occasione migliore per incontrarsi, commerciare, celebrare fidanzamenti e matrimoni, stipulare alleanze tra tribù, organizzare assemblee e fiere. Beltaine e Samonios, in particolare, sembra avessero uno spiccato carattere politico e giudiziario: in tali momenti, infatti, si sancivano patti e si radunavano i tribunali. A Beltaine si contraevano anche i matrimoni. Data la loro solennità di festa “pubblica”, prevedevano grandi banchetti, danze e giochi. Ma il grande protagonista era il fuoco, elemento purificatore per eccellenza, chiamato in causa per tenere lontano il male, le malattie e le sventure, sciagure che minacciavano l’intera collettività. Lugnasad, invece, cadeva all’incirca a mezza estate, ed era il momento del grande raduno tribale e dei commerci; a Imbolc, ogni inizio febbraio, si benedicevano le pecore e si cercava protezione contro le epidemie. La data di inizio di ogni mese e anno, così come il giorno esatto in cui si celebravano le feste, non era fissa, come avviene ad esempio per il nostro Capodanno, Natale o Ferragosto. Poiché il calendario celtico si basava sulle fasi lunari, ogni “cominciamento” doveva cadere, per motivi rituali e come predicato dalle tradizioni, in corrispondenza del primo quarto. Tutte le feste dell’anno, inoltre, erano dedicate (tranne Samonios) a una divinità ben precisa del pantheon, e la data era stabilita ogni volta dalla levata eliaca di una ben precisa stella (cioè il primo giorno della sua visibilità a occhio nudo all’alba, in corrispondenza del sorgere del Sole), dai druidi prevista ovviamente con largo anticipo. A Samonios la stella attesa era la rossa Antares, l’astro più luminoso della costellazione dello Scorpione. Imbolc era annunciata dalla levata eliaca di Capella, appartenente alla costellazione dell’Auriga: durante la festa si celebrava la dea Birgit, divinità che, tra le altre cose, aveva il compito di proteggere le


messi, per i druidi richiamate in maniera evidente dal colore giallo della stella. Beltaine, invece, era connessa alla visibilità di Aldebaran, stella rossa della costellazione del Toro: una caratteristica, questa, che spiegava bene la sua connessione col dio Belenos e con i riti legati al fuoco. Lugnasad infine era celebrata il giorno del primo sorgere di Sirio, la stella in assoluto più luminosa, appartenente alla costellazione del Cane Maggiore, poco lontana da Orione. Il suo colore bianco rifletteva le caratteristiche del dio Lug, il più importante del pantheon celtico, che infatti era definito come il “Luminoso” o il “Brillante”. La levata eliaca di Antares e Aldebaran serviva ai celti anche per delimitare le stagioni, che erano solo due, inverno ed estate: dato, questo, che ben si accorda con il ciclo climatico (e quindi agricolo) proprio delle latitudini centro e nordeuropee, quelle appunto da loro abitate.

Dialogo o violenza? Con l’avvento del cristianesimo si pose il problema di come rapportarsi con tali feste, espressione di una religiosità schietta e sincera, certo, ma non “ortodossa” almeno per la Chiesa. Che fare dunque? Due erano le strade: o estirparle con la violenza imponendo il nuovo credo (e fu ciò che tentarono vari missionari, con risultati spesso nefasti), oppure conviverci adattandole ai nuovi valori e mutandone solo il significato più appariscente. Il che se da un lato ne comportò, certo, lo snaturamento, dall’altro ne consentì alla lunga la salvezza. Vediamo un esempio concreto, quello dei cosiddetti “santi anauniesi”, martirizzati il 29 maggio 397. Sisinnio, Martirio e Alessandro, tre chierici originari della Cappadocia, erano stati inviati su richiesta del vescovo di Trento, Vigilio, dal vescovo Ambrogio di Milano a evangelizzare la regione dell’Anaunia (l’odierna Val di Non, in Trentino). Qui avevano iniziato a predicare alle popolazioni locali, retiche, dedite al culto di Saturno, dio della fecondità e delle messi. E proprio durante la tradizionale festa dei Saturnalia – che in Anaunia si celebrava a maggio e non a dicembre – avvenne il “fattaccio”. Seguiamo la “cronaca” tramandataci da san Giovanni Crisostomo (con l’avvertenza che non fu testimone oculare dei fatti e che la sua era una visione apertamente di parte). I sacerdoti pagani si preparavano a sacrificare, come al solito, un animale alla divinità onde garantirsi il raccolto propizio. La bestia era donata da una famiglia estratta a sorte e quell’anno il caso volle che i prescelti fossero già stati convertiti alla fede cristiana, il capofamiglia essendo «un conterraneo convertito di recente». Questi si rifiutò di farlo e tra i pagani


iniziarono i malumori. I tre predicatori, intervenuti a far da pacieri, tra la notte e il mattino della festa furono trucidati: Sisinnio a colpi di scure e di buccina, una tromba (da guerra o rituale? Non lo sapremo mai. Forse si trattava di un carnyx, tromba da guerra celtica); Martirio trafitto da pali acuminati; Alessandro fu legato per i piedi a un cavallo insieme ai corpi dei suoi due compagni (a Sisinnio venne anche appeso al collo un campanaccio), e dopo essere stati trascinati tutti e tre per le vie del villaggio, furono arsi sul rogo eretto davanti alla statua di Saturno. C’è da dire che almeno i tre predicatori, a quanto pare, avevano approcciato la popolazione pacificamente. Ma non sempre era questo l’atteggiamento degli evangelizzatori. Prendiamo san Vigilio, il già citato vescovo di Trento, che trovò il martirio in Val Rendena. La vicenda è nota grazie alla Passio sancti Vigili, testo anonimo del VI-VIII secolo. Leggiamola: Quando arrivò al luogo dove era eretto l’idolo, con fede fervente offrì a Cristo il sacrificio di salvezza allo scopo di cercare forza per la lotta. Come il soldato forte e preparato si dispone alla guerra, così il vescovo si accingeva alla battaglia, pronto a ricercare il premio predisposto dal Signore. E, alzando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio, e disse: «O Cristo, ti ringrazio perché ho trovato ciò che da te desideravo; ed ecco che io vedo con i miei occhi nella tua destra la ricompensa che mi hai preparato». Tutti quelli che stavano attorno sentivano che egli diceva queste cose con voce distinta, ma non vedevano nulla; e pronunciava queste parole versando lacrime abbondanti. Allora, nel nome del Signore Gesù Cristo, abbatté l’idolo, lo frantumò, lo gettò nel fiume chiamato Sarca; e, postosi sul suo piedistallo di pietra, si mise a predicare la parola del Signore. Alla notizia di quel fatto la torma minacciosa degli abitanti di quel luogo si fece contro a lui con spade e pietre. E il beatissimo presule, armato della fede in Cristo, vide queste persone come gente bisognosa di salvezza. Ma essi, con il cuore ribollente di collera diabolica, scagliarono sul suo capo santo una pioggia di pietre. Di esempi come questi pullula l’aneddotica altomedievale in tutta Europa, soprattutto nei luoghi “borderline” – valli, campagne, zone lontane dalle città, periferie del vecchio impero – dove i riti agresti erano profondamente radicati e difficili da estirpare. E anche molto tempo dopo l’epoca dei primi “missionari”. Nel VII secolo, ad esempio, Bonifacio o Winfrid, già monaco a Exeter in Britannia, fu inviato a evangelizzare le genti germaniche oltre il Reno, ancora pagane. Tra le regioni di Hessen e Turingia, fondò l’abbazia di Fulda, destinata a diventare il centro propulsore delle missioni. Nel 754 fu assalito, insieme ad altri compagni, da un gruppo di frisoni – una popolazione germanica ancora


fortemente pagana – e ucciso con un colpo di spada alla testa. C’è da sottolineare, però, come si accennava prima, che la violenza non era propria solo dei pagani. Un episodio celeberrimo, riferito nella Vita di Barbato, vescovo di Benevento vissuto nel VII secolo, narra di come egli si recasse in un luogo detto “Voto” dove sorgeva un grosso noce attorno al quale i guerrieri, da tempo, eseguivano alcuni riti di iniziazione, e lo tagliasse a colpi di scure con le sue stesse mani, ricoprendo di terra il tronco in modo che non potesse mai più essere ritrovato. Ma almeno in quel caso, il vescovo agì col beneplacito del duca Romualdo, dopo aver ottenuto la conversione dei longobardi ancora pagani a seguito della loro vittoria (da lui promessa) contro i bizantini. Ben diverso l’atteggiamento di Carlo Magno, che quando nel 772 intraprese la campagna per sottomettere i sassoni, anch’essi ancora pagani, pare distrusse con le sue mani la grande quercia Irminsul (in antico sassone, “grande pilastro”), che rappresentava il legame tra cielo e terra, tra mondo materiale e spirituale, dopo di che diede ordine di trucidare tutti i sassoni che non si fossero sottomessi. Leggenda vuole che la quercia in questione si trovasse nel sito di Externsteine, un antichissimo complesso megalitico situato nella regione Renania Settentrionale-Vestfalia, in quella foresta di Teutoburgo che vide i romani sconfitti rovinosamente dai germani nel 9 d.C. L’ultimo pezzo della mitica Irminsul si troverebbe oggi nella cattedrale di Hildesheim, all’interno di un candelabro, a segnare una sconfitta tanto ineluttabile quanto simbolica.

Un nuovo sincretismo religioso Al di là degli episodi violenti, comunque, i predicatori in genere attuarono una soluzione di compromesso imparando da quel sincretismo che già fu tipico della cultura romana: inglobare, semmai mutando di significato riti, feste e divinità (anche se il substrato rimase, in verità, molto ben visibile e a lungo). Tornando alle feste, il primo di novembre diventò la festa di Ognissanti e il giorno successivo fu dedicato alla celebrazione dei defunti, mantenendo così il panorama dei significati della


ricorrenza di Samonios. Introdotta per prima nei monasteri benedettini da Odilone, abate di Cluny dal 994 al 1049, la “festa dei morti” fu adottata ufficialmente dalla liturgia romana solo nel Trecento. Samonios, che in Irlanda era chiamata Samhain, passò poi negli Stati Uniti con i migranti che, soprattutto nell’Ottocento, dall’isola verde si trasferirono in America per sfuggire alla povertà e alle carestie. Lì ha assunto il nome di Halloween per poi “tornare” anche nella vecchia Europa riconquistandola con il suo rutilante volto commerciale. Nulla, o quasi, dello spirito originario è rimasto, e l’opinione comune la considera una festa di mera importazione. In realtà, però, nelle campagne del Centro-nord Italia fino a pochi decenni fa era vivo l’uso di intagliare le zucche a mo’ di teschio e inserirvi una candela (in dialetto si chiamavano lümere), così come l’uso di festeggiare i morti – soprattutto nelle valli – con lauti banchetti. Imbolc, che cadeva a inizio febbraio, annunciava l’arrivo imminente della primavera e comportava la benedizione delle mandrie. In particolare, il centro dell’attenzione era costituito dalle pecore, che iniziavano il periodo dell’allattamento. Gli animali erano fatti passare in mezzo al fuoco dei falò e cosparsi di acqua lustrale proveniente da fonti sacre e magiche. Tali cerimonie avvenivano nel nome della dea Birgit, la “donna saggia” per eccellenza, patrona del fuoco e capace di guarire uomini e animali da qualsiasi malattia. Il culto di Birgit (o Brigh, o ancora Birghid, a seconda dei Paesi) era diffuso soprattutto in Irlanda. Ora, nel calendario cristiano, il primo febbraio si festeggiava una santa vissuta proprio in Irlanda (secondo la tradizione, fondatrice nel 500 dell’abbazia


di Kildare) e che si chiamava (un caso?) Brigida. La sovrapposizione delle due figure quasi omonime, nell’isola, si verificò – soprattutto a livello popolare – in maniera inesorabile, tanto che nel VI secolo esse erano diventate indistinguibili l’una dall’altra. Un monaco di nome Cogitosus, autore della prima biografia della santa, la presenta infatti come una fata, dotata di miracolose capacità di intervento sulle forze della natura, proprio come la Birgit pagana. Imbarazzata da questa identificazione giudicata pericolosa, la Chiesa decise allora di trasformare Imbolc nella ricorrenza della Candelora slittandola di un giorno, al 2 febbraio. Questa festa, celebrata in Oriente già nel IV secolo ma istituita ufficialmente solo nel 492 da papa Gelasio I e diffusa in Occidente a partire dal VII secolo, celebrava la purificazione della Vergine al Tempio, che secondo quanto prescritto dalla legge mosaica era avvenuta quaranta giorni dopo la nascita di Gesù. Prima del rito, il sacerdote aveva il compito di benedire le candele, simbolo della luce portata da Cristo sulla Terra, da cui il nome “Candelora”. Gli antichi testi irlandesi parlano di Birgit attribuendole anche la funzione di patrona della poesia e del sapere, quasi una sorta di Minerva celtica. Il suo nome è etimologicamente riconducibile alla parola Briganti, che significa “l’Esaltata”, e che fu poi latinizzata in Brigantia, la dea protettrice dell’omonima tribù celtica dei brigantes. Questo termine (o la radice o alcune varianti) ricorrono nella toponomastica di tutta l’Europa occidentale, lasciando intendere così che il suo culto fosse diffuso e radicato su tutto il bacino di incidenza della cultura celtica. Forse anche in Brianza? Dopo Imbolc, tra fine aprile e inizio maggio si celebrava Beltaine e con essa l’inizio della metà luminosa dell’anno. Divinità incontrastata era Bel, noto anche come Belenos, anch’egli – come Lug – legato alla luce ma con forti connotazioni apotropaiche e gioiose. Caratteristici della festa erano infatti gli abbondanti banchetti e le smisurate libagioni intorno al fuoco, che sopravvivono ancora oggi nelle celebrazioni del “Calendimaggio” e negli alberi della cuccagna, intorno ai quali i giovani si esibivano in difficili esercizi di acrobazia o si arrampicavano alla ricerca, sulla sommità, di un premio. L’albero della cuccagna, il palo retto al centro di una piazza, aveva un significato fallico evidente: del resto per i celti Beltaine era una ricorrenza legata alla fecondità e il nome stesso del dio Belenos in dialetto ligure sta a indicare ancora oggi, popolarmente, il membro virile. Quale occasione migliore di Beltaine, quindi, per contrarre i matrimoni? A differenza di quanto avviene ai giorni nostri, i celti preferivano sposarsi “a scadenza”: le nozze, cioè, duravano un anno, ed erano eventualmente rinnovabili se i due sposi si fossero trovati in armonia. Altrimenti, amici come prima. Un’usanza molto “sportiva”, diremmo noi, che però non era nota solo ai celti ma


anche ai romani: una delle forme di matrimonio prevedeva infatti che la donna dovesse convivere con un uomo per un anno, ininterrottamente. Qualora si fosse allontanata per tre notti consecutive, il patto di nozze avrebbe perso ogni valore giuridico. Infine, Lugnasad, che cadeva a metà estate ed era dedicata, come tradisce il nome stesso, al dio Lug, la maggiore divinità dei celti, legata alla luce. In quest’occasione si organizzava il grande raduno annuale delle tribù, ottima occasione per giudicare le controversie (un compito riservato ai druidi), ma anche, per i giovani, di sfidarsi in interminabili gare di abilità e forza a cavallo. Il culto di Lug (identificato da Cesare con il Mercurio romano, essendo protettore del commercio, delle arti e delle invenzioni) era diffuso soprattutto in Gallia, ma santuari e statue a lui dedicati e altre testimonianze (che sopravvivono nella toponomastica) sono state rinvenute un po’ ovunque in tutta l’area di occupazione celtica. E alla ritualità dei fuochi accesi in questo periodo sono riconducibili i nostri analoghi falò di Ferragosto.

Figure a metà strada Tra le feste più popolari in Lombardia (soprattutto in Brianza) c’era la Giubiana, celebrata l’ultimo giovedì di gennaio. In quella ricorrenza – il nome sembra derivare da gioebia, “giovedì”, il giorno delle streghe –, al tramonto, le famiglie si radunavano davanti al falò per bruciare un fantoccio di paglia e stracci chiamato, a seconda delle zone, Gibiana o Giubiana. Si trattava di una figura benefica e propiziatoria, ma portando in Brianza il cristianesimo, i predicatori la osteggiarono trasformandola da pacifica e simpatica vecchietta in una strega simbolo dei mali: distruggendola col fuoco, il contadino avrebbe scongiurato il rischio di epidemie alle bestie o cattivi raccolti e la comunità intera, protetta dagli influssi negativi, avrebbe goduto di salute e prosperità tutto l’anno. Questa ritualità richiama alla memoria i già citati fuochi accesi poco dopo a Imbolc, i primi di febbraio. A volte si bruciavano fantocci. La Gibiana, al pari di altre sagre simili diffuse in tante zone d’Italia e d’Europa (la “Segavecchia” a Forlimpopoli, ad esempio), parrebbe allora di origine celtica. Frutto del sincretismo sono del resto anche gli attributi di vari santi molto popolari, che accanto all’aureola conservano caratteristiche derivanti da culti ancestrali. Oltre alla già citata Birghid-Brigida, due su tutti: sant’Antonio abate – in Lombardia chiamato popolarmente sant’Antoni del purscell – e san Martino. Nel primo è conservata traccia – rivista in chiave cristiana – della figura


sacerdotale del druido e del dio della luce e del fuoco Lug: Antonio, infatti, è invocato contro le malattie infettive e in particolare contro l’herpes zoster (il “fuoco di sant’Antonio”, appunto) e in occasione della sua festa, il 17 gennaio, si svolgono ancora oggi riti di purificazione degli animali. Inoltre, il maialino che lo accompagna, secondo la tradizione cristiana simbolo del demonio domato, nelle prime raffigurazioni era invece un cinghiale, il che rimanda alla mitologia celtica in cui questo animale rappresentava il furore guerriero e, a volte, anche la sapienza. In Martino si nasconde invece una divinità solare che fungeva da garante del rinnovamento della natura dopo la “morte” invernale: non è un caso se proprio la sua festa, che cade l’11 novembre, fu scelta come termine di scadenza per il pagamento dei canoni in natura dei contratti d’affitto. Citiamo anche il leggendario San Korneli (o Cornély) venerato a Carnac, in Bretagna, che possiede gli attributi di Cernunnos, il dio-cervo di cui si parlerà tra poco a proposito di alcune feste ancora presenti nel pieno Medioevo. Certe consuetudini e usanze, anzi, erano così radicate da spingere monaci e predicatori a trasferirne i significati dal paganesimo al cristianesimo, modificandone lo spirito originario e dando ad esse un volto completamente nuovo. Le antiche ricorrenze celtiche di Samain, Beltaine, Lugnasad e Imbolc furono come detto trasformate in Ognissanti, Calendimaggio, Ferragosto e Candelora. Ma alcuni rituali, duri a scomparire, sono sopravvissuti fino ai nostri giorni.

L’età della vita Un problema a parte è la “coscienza di sé” che l’uomo medievale poteva avere. Nascita, vita, morte: per lui, come per noi, tre erano le tappe fondamentali dell’esistenza, mediamente molto più breve della nostra anche perché altissima era la mortalità infantile. Come detto, si calcola che circa un terzo dei nuovi nati morisse entro i primi cinque anni di vita, e il 10% addirittura entro i primi mesi... La maggiore esposizione agli sbalzi termici e agli agenti atmosferici, la minore qualità della vita, la fatica fisica e la frequenza delle malattie rendevano molto raro, specie presso i ceti più umili, il raggiungimento della vecchiaia. In media si moriva intorno ai quarant’anni, ragion per cui tutte le fasi della vita – soprattutto il passaggio dall’infanzia all’età adulta, il matrimonio e la procreazione – erano accelerate al massimo. Di solito ci si sposava presto, attorno ai vent’anni (le donne raggiunta la pubertà), si procreava in fretta e di frequente (il tasso di nascite per ciascuna coppia era piuttosto alto) e si lavorava


fino alla morte, che sopravveniva, di solito, intorno ai quaranta-cinquant’anni. Almeno negli strati minori della società. Andava un po’ meglio nelle città rispetto alle campagne, e tra i ceti più ricchi. Ma vale la pena ricordare che non tutti ricordavano (o sapevano) la loro data di nascita, che del resto non era considerata fondamentale. Molto più importante, infatti, era la data di morte, che coincideva, secondo lo spirito cristiano, con il vero dies natalis, cioè la “data di nascita” alla vita eterna. Quando nel 1300 Dante, che era nato nel 1265, compie il suo immaginario viaggio nell’aldilà sostiene di essere «nel mezzo del cammin di nostra vita»: poiché aveva trentacinque anni, se ne deduce che la sua aspettativa di vita era di settant’anni. Ma in realtà si trattava di un mero topos letterario, ricalcato sulle fonti bibliche, tanto è vero che morì nel 1321, a soli cinquantasei anni. Più fortunati di lui furono, per restare tra i letterati, Francesco Petrarca (nato nel 1304, morì nel 1374 a settant’anni) e Giovanni Boccaccio (1313-1375, dunque sessantaduenne), e tra gli imperatori Federico Barbarossa (nato intorno al 1121, morì nel 1190 a sessantanove anni) e soprattutto Carlo Magno (morto nell’814 a settantadue anni). Un autentico vegliardo può essere considerato, ad esempio, Pier del Morrone, ovvero papa Celestino V, che morì nel 1296 a ottantuno anni: insieme a Odilone, abate di Cluny, morto nel 1049 a ottantasette anni, e a papa Celestino III, morto a novantadue, costituisce, per i tempi, quasi un record. Molto peggio, di solito, andava per le donne: sfiancate dalle continue gravidanze (peculiare il caso già ricordato di Lapa, madre di Caterina da Siena, che mise al mondo ben venticinque figli), spesso morivano di parto e di rado vivevano oltre i cinquant’anni. Per questo era più alta l’aspettativa di vita per le monache: la badessa Ildegarda di Bingen, ad esempio, visse ben ottantuno anni, e la sua longevità non fu un caso isolato. Se la vita era breve, dunque, conveniva godersela. E per farlo c’erano vari modi.

Carnevale, Quaresima, Natale... tra sacro e profano Per le classi popolari, il lavoro non dava tregua e la parola “vacanza” come la intendiamo noi non esisteva. Ma c’erano le feste comandate, che non potevano non essere celebrate degnamente. A Natale «si decora la casa e si indossano abiti nuovi. In campagna si uccide il maiale [ma a volte ciò avveniva a novembre,


n.d.a.]. E si gioca, soprattutto a dadi, distrazione condannata dai predicatori. Per tradizione si assiste alla Messa di mezzanotte, più esattamente a tutte le messe della notte di Natale. Il pasto svolge un ruolo importante» (Jean Verdon). Il 28 dicembre, festa degli Innocenti, si celebrò a lungo nello stesso modo. Esistono documenti, relativi alla chiesa di Saint-Pierre di Lilla, che sostengono che i chierici in questo periodo partecipassero a feste “particolari” in cui veniva eletto un “vescovo dei folli” e si dessero a banchetti e a grandi libagioni. Il primo gennaio, che come abbiamo visto non era per tutti il primo giorno dell’anno, si festeggiava con rituali chiaramente pagani: oltre ai soliti banchetti, anche travestimenti (da vitello, da cervo: lo sappiamo da un sermone cattivissimo di sant’Eligio), scambi di doni, tavole imbandite fino a tardi e ubriacature. Pratiche, ovviamente, condannatissime perché, come scrive in un sermone san Cesario, chi si abbandona in quel giorno a simili dissolutezze, anche se è stato casto durante tutto l’anno diventa impuro. I concili si diedero da fare per sopprimere queste usanze condannandole violentemente: quello di Auxerre (573-603) proibisce di travestirsi da cervo e di fare regali “diabolici”; quello di Roma del 743 è sulla stessa lunghezza d’onda e in più biasima le feste di Bacco del 25 dicembre (Brumalia), ancora di moda, vietandole e sostituendo a tutte un bel digiuno. È quanto mai evidente lo sforzo, già citato per le festività pagane di origine celtica, di sostituire le manifestazioni che restavano del paganesimo con celebrazioni cristiane. Non è difficile vedere dietro la maschera del cervo il richiamo al citato dio celtico Cernunnos, lo spirito divinizzato degli animali maschi cornuti, un dio della natura associato alla riproduzione e alla fertilità. Comunque sia, ancora alla fine del Medioevo il primo di gennaio ci si travestiva e ci si dava alla pazza gioia. E per l’Epifania, almeno in Francia, era molto amata la “questua dell’aguilaneuf” (che deriva dall’augurio «Au gui l’an neuf!», “al vischio l’anno nuovo”, che i bimbi poveri ripetevano ai ricchi cui chiedevano, a Capodanno, l’elemosina). Durante l’Epifania, ricordando la visita dei Re Magi al Bambin Gesù, si preparava una sontuosa torta nella quale era inserita una fava: chi la trovava era il re della festa. Inoltre si giocava alla soule (il termine deriva dal celtico seaul, “sole”), cioè con una palla fatta di vescica di maiale o bue riempita di paglia, che aveva spiccati caratteri legati alla fecondità. Tra le feste “ortodosse” popolari più diffuse e amate vi era senza dubbio il Carnevale. Il termine sembrerebbe derivare dal latino carnem levare, cioè “abolire la carne”, e in origine indicava l’ultimo banchetto in cui erano consentite pietanze a base di carne prima della Quaresima. Un suo antecedente è stato rinvenuto, anche in questo caso, nei Saturnalia romani, feste dedicate al dio Saturno che alternavano sacrifici dal valore beneaugurale a banchetti – giochi,


libagioni e scambi di doni. Tali festeggiamenti il più delle volte sfociavano in eccessi, pericolosi se si considera che era consentito tutto, compreso lo scambio dei ruoli, ottenuto indossando gli abiti altrui – che riprendevano, ma in ambito popolare, le già citate “feste dei folli”. Con l’avvento del cristianesimo il Carnevale continuò a essere celebrato, ma perse il suo contenuto magico e rituale, finendo per essere mal tollerato dal clero, che vedeva nei bagordi del popolo un elemento potenziale, oltre che di lascivia e immoralità, di sovversione dell’ordine precostituito. In effetti il Carnevale, con la sua carica irriverente, si contrapponeva alle forme religiose ufficiali e si caratterizzava come il momento del riso e della follia, dello scherzo, della materialità e dell’abbondanza. Era anche l’occasione per dissacrare le autorità ed emanciparsi, almeno temporaneamente, dal potere dominante: ecco perché il Carnevale era tanto amato dal popolo. Protetti da una maschera, anche i più umili potevano quindi dimenticare per un momento la loro condizione e diventare “altri”. Col tempo, anche le autorità ecclesiastiche presero ad accettare questa festività intravedendo in essa il canale di sfogo all’esuberanza e alla vitalità popolare, capace di neutralizzare le tensioni sociali e le energie potenzialmente sovversive. Ma a tanta liberalità occorreva, per contrasto, porre freno quanto prima. E allora ecco la Quaresima, che arrivava subito dopo, e che per quaranta giorni imponeva preghiera, penitenza e mortificazione in preparazione alla Pasqua. Il digiuno quaresimale (cioè l’astinenza dalle carni e dal vino, e la riduzione dell’alimentazione a un solo pasto quotidiano) fu teorizzato già nei primi secoli del cristianesimo, ma la sua osservanza fu, come del resto accadde per altre pratiche, oggetto di revisione più volte nel corso del Medioevo. Nel XIII secolo, ad esempio, l’arcivescovo di Braga, in Portogallo, fece ricorso a papa Innocenzo III per ottenere una speciale dispensa a causa d’una carestia che rendeva difficili gli approvvigionamenti di grano. Un altro esempio è dato dalle richieste del re di Boemia Venceslao che, colpito da un’infermità, si rivolse nel 1297 a Bonifacio VIII per ottenere il permesso di mangiare carne. Speciali deroghe potevano essere chieste in caso di difficoltà a reperire – ad esempio in caso di guerra – alimenti “alternativi”: come accadde al re di Francia Giovanni che, durante la Guerra dei Cent’anni, ricorse a papa Clemente VI per ottenere per sé e per il suo esercito l’uso della carne. Ma non tutti erano così fortunati. Ecco che quindi per tutto il Medioevo e anche oltre il Carnevale continuò a essere assai più popolare e a stimolare la fantasia, tanto che molte usanze a esso connesse sono giunte quasi intatte fino ai giorni nostri. Si è già detto parlando del calendario precristiano – e in particolare celtico – di feste di maggio un tempo legate a Bel o Belenos, dio della luce, ma con forti


connotazioni apotropaiche e gioiose. Si è detto che caratteristici della festa erano abbondanti banchetti e libagioni intorno al fuoco, che sopravvivono ancora oggi nelle celebrazioni del “Calendimaggio”, gli alberi della cuccagna, il tutto per salutare l’arrivo della primavera con riti che propiziavano la fertilità. Non a caso era in voga, fino almeno al Quattrocento, la “piantata di maggio”, che consisteva in un gioco – dall’evidente sottofondo erotico – in cui i ragazzi chiedevano alle giovinette il permesso di portar loro dei rami di un albero. Con le inevitabili dispute, perché non tutti gli alberi avevano lo stesso significato: se il sambuco era oltraggioso, il nocciolo indicava dubbia virtù. Per i maschietti era dunque d’uopo conoscere il linguaggio delle piante, oltre che dei fiori, se non volevano incorrere in pessime figure. Proseguendo nell’anno canonico, si passava alle feste estive, la più importante delle quali era la Pentecoste, in cui si compivano pellegrinaggi e si recitavano i misteri della Passione dei Santi; al Corpus Domini ci si cingeva il capo di rose. Ma il vero protagonista era il fuoco, come già nei rituali precristiani, che tornava dirompente il 24 giugno (San Giovanni Battista), il 29 giugno (Santi Pietro e Paolo), il 15 agosto (Ascensione della Vergine). Accanto a queste feste religiose, i contadini celebrano la mietitura e la vendemmia e le altre attività agresti accompagnandole a danze, banchetti e giochi. Del resto si sa che fin dalla più remota antichità l’uomo ha sentito l’esigenza di rappresentare, mediante il linguaggio gestuale e la danza, non solo la propria dimensione ludica ma anche quella religiosa. Qua va cercata l’origine, propiziatoria, di una forma di rappresentazione molto popolare nel Medioevo (soprattutto dal Duecento in poi) ma di cui abbiamo testimonianze anche anteriori: la sacra rappresentazione. In sintesi, veniva letto “teatralmente” da due o più “lettori” – di solito in piazza, o sul sagrato della chiesa – un testo religioso generalmente legato alla Pasqua (ad esempio la Passione di Gesù Cristo). E infatti una delle prime testimonianze di questo tipo di teatro medievale sacro risale al 970, quando il vescovo di Winchester assiste e descrive una sacra rappresentazione vista a Limoges in Francia: la mattina di Pasqua un monaco, che interpreta la parte dell’angelo, va a sedersi presso il Sepolcro, dove viene raggiunto da altri tre monaci che impersonano le tre Marie e che si aggirano come cercando qualcosa. Il monaco-angelo canta: «Quem quaeritis?» (“Chi cercate?”). L’azione prosegue con l’annuncio della Resurrezione e termina con il canto corale del Te Deum. Si trattava di un modo molto semplice ed efficace per immedesimare ai Misteri sacri anche chi non capiva il latino – ed era la maggioranza della popolazione. Dal Duecento in poi, soprattutto in Italia e grazie alla spinta francescana, le sacre rappresentazioni iniziarono a svolgersi in volgare e divennero una forma di intrattenimento e di socializzazione


importante. Con l’arrivo della stagione fredda, a parte le celebrazioni dei patroni e altre festività locali le ricorrenze più importanti sono Ognissanti e i Defunti, la festa di San Martino (quando si pagano le decime) e a seconda dei luoghi, le feste di Santa Lucia e di San Nicola. Vediamo la prima un po’ più da vicino. La festa di Santa Lucia cade il 13 dicembre ed è molto popolare soprattutto nei Paesi nordici – dove le bambine indossano corone di candele accese in segno di festa –, ma anche nella Mitteleuropa, ad esempio in Tirolo e in Boemia, dove porta i doni ai bambini come San Nicola (celebrato invece il 6 dicembre). In Italia, invece, è popolarissima nel bergamasco e nei territori oltre l’Adda, dove il 13 dicembre viene vissuto dai più piccoli come il vero “giorno di Natale” perché ci si scambiano i regali. “Biograficamente” Lucia era una giovane donna vissuta a Siracusa tra la fine del III secolo e l’inizio del IV. Figlia di pagani, aveva aderito al cristianesimo e, rifiutandosi di sposare un pagano, fu condannata dapprima alla prostituzione forzata e poi al rogo. Cosparsa di pece e di olio sulle vesti e sul corpo, Lucia fu data alle fiamme, ma come per miracolo uscì illesa. Allora fu finita con una pugnalata al collo. Sul suo conto fiorirono varie leggende. Una su tutte, quella secondo la quale durante il martirio le sarebbero stati strappati gli occhi. In realtà Lucia non dovette mai subire questo tormento, che invece le è stato attribuito per l’etimologia che collega il suo nome con il latino lux, “luce”, e fu dunque a torto venerata come protettrice della vista, diventando la santa patrona di tanti disgraziati che facevano mestieri in cui gli occhi correvano seri pericoli: i lapicidi e i marmisti del duomo di Milano, ad esempio, che le dedicarono un altare nella chiesa di Santa Maria Annunciata in Campo Santo. E un illustre devoto alla santa fu anche Dante: secondo alcuni suoi biografi, infatti, il poeta in gioventù sarebbe stato colpito da una strana malattia agli occhi e avrebbe ottenuto da lei la grazia. E infatti nei versi della Commedia, Lucia compare due volte per aiutare il poeta ed è simbolo della Grazia illuminante. Ma la complessità della devozione legata alla figura di Lucia non si esaurisce nella venerazione di cui la fecero oggetto i cristiani. A ben guardare “sotto il velame”, infatti, pare di scorgere una traccia netta di antichi culti di derivazione pagana. Nelle religioni precristiane, come detto, grande era l’importanza riservata al culto della luce (e, in qualità di generatore di luce, al sole e al fuoco). E la festa di Santa Lucia infatti è celebrata come “festa della luce”. I motivi sono da ricercarsi innanzitutto – come abbiamo detto poc’anzi – nella connessione etimologica del nome della santa con la parola “luce”. Ma non va dimenticato nemmeno un altro aspetto fondamentale della questione: e cioè il momento dell’anno in cui questa festa cade. Il giorno di Santa Lucia è ricordato dalla tradizione popolare e dai proverbi come il più corto


dell’anno, passato il quale la luce torna a trionfare sulle tenebre invernali e le giornate si allungano. Sarebbe, insomma, il solstizio d’inverno, che però si celebra il 21 dicembre. Perché questa discrepanza? La risposta è molto semplice. In occasione della riforma del calendario operata da papa Gregorio XIII nel 1582 per mettere fine ad alcuni problemi sorti per errori di calcolo, quell’anno furono soppressi dieci giorni: il giorno più corto passò a essere il 21 dicembre, solstizio invernale, e tale rimase da allora. Ma l’antico proverbio può essere ritenuto ancora valido perché il sole il 13 dicembre tramonta effettivamente qualche minuto prima del 21.


Giochi e divertimenti Durante le feste, come abbiamo visto, era molto diffusa in tutti i ceti e in tutte le età la pratica del gioco. E gli intrattenimenti erano davvero tanti, per cui ne passeremo in rassegna solo alcuni dei più importanti. Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; con l’altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente; el non s’arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, più non fa pressa; e così da la calca si difende.

Con il solito realismo Dante, nel VI canto del Purgatorio, trovandosi in mezzo a una moltitudine di anime che lo implorano di pregar per loro una volta tornato sulla Terra, descrive per similitudine la calca che si crea intorno al vincitore del gioco della zara, mentre il perdente, discosto, continua a lanciare i dadi cercando il modo di vincere. Chissà quante volte, nella sua Firenze o in esilio, il poeta si sarà trovato davanti a una scena simile. Del resto, la zara (dall’arabo zahr, “dado”) era molto diffusa un po’ ovunque, come testimonia anche un passo di un giurista bolognese, Odofredo Demari, che contiene una descrizione pressoché identica. Si giocava in due con tre dadi, che venivano buttati su un tavolo. Il lanciatore gridava «zara!», chiamando con questa parola i punti dal 6 in giù e dal 15 in su, cioè i meno probabili, mentre il giocatore chiamava un numero tra il 7 e il 14. La vittoria arrideva a chi dei due avesse indovinato. La zara, importata in Europa grazie ai contatti commerciali col mondo arabo, divenne talmente popolare da originare, in composizione con l’articolo (az-zahr), i vocaboli che – ad esempio in italiano (azzardo), in francese (hasard) e in spagnolo (azar) – indicano ancora oggi il gioco con puntata di denaro. Ma non si trattava dell’unico passatempo a disposizione. Le carte fecero la loro comparsa in Europa alla fine del Trecento, ed ebbero così tanto successo che i re di Francia pensarono bene di introdurre una tassa sulla loro fabbricazione. Quelle conservatesi sono quelle appartenute ai nobili e a volte per realizzarle venivano chiamati veri e propri artisti. Una loro variante, più diffusa invece fra il popolo, erano i tarocchi, utilizzati per la divinazione. Il loro successo è dovuto al realismo e alla vivacità dei personaggi rappresentati:


oltre alle immancabili teste coronate, anche folli, impiccati e papesse, ma anche misteri e avvenimenti, come la morte, con cui tutti prima o poi avrebbero dovuto fare i conti. Il gioco era popolare ovunque e in tutti ceti, non solo presso gli umili. Il re spagnolo Alfonso X il Saggio, oltre che essere un fine conoscitore della musica, della poesia e delle tradizioni della sua terra, non disdegnava infatti dilettarsi nel gioco, e anzi dedicò a esso addirittura un trattato. E la Chiesa? Era molto sospettosa. Il gioco era considerato un mezzo utilizzato dal diavolo per condurre gli uomini alla perdizione: il predicatore Bernardino da Siena, nel 1425, condannava senza appello non solo i dadi, ma anche le carte. Purtroppo per lui, i dadi erano una vera e propria mania: il poeta comico Cecco Angiolieri (12601312) amava ripetere che le tre cose che gli erano più gradite erano la donna, la taverna e, appunto, il dado. E carte e dadi erano legati, di norma, alla taverna, luogo associato all’ubriachezza, alla rissa, alla bestemmia e alla promiscuità. Tutte cose che la Chiesa condannava ovviamente senza appello. Decisamente maggiore appeal – anche perché “sport da tavolo” di nobili e sovrani – esercitava il gioco degli scacchi, non solo non osteggiato dalla Chiesa, ma addirittura (almeno se dobbiamo prestare fede a quanto racconta Sacchetti in una sua novella) praticato dagli stessi sacerdoti. A volte, anzi, gli scacchi erano pure oggetto di dispute filosofiche e utilizzati come metafora della società, come nel Ludus scaccorum del domenicano Jacopo de Cessolis. Il tempo ha conservato molte scacchiere e i relativi pezzi, tutti realizzati con materiali preziosi come l’avorio. In avorio, infatti, erano gli scacchi orientali: dalle originarie Indie, essi penetrarono in Occidente grazie ai mercanti e in breve conquistarono l’Europa. Con alcune modifiche: se re, cavallo e pedoni rimasero intatti, l’elefante (ualfil in arabo) si trasformò in uomo (“alfiere” in Italia, “folle” in Francia, “vescovo” in Inghilterra), il cammello (rukh) divenne la torre (rochus), il visir (fers) divenne la regina (fiers, “la vergine”). E tali sono rimasti fino ai giorni nostri. Tra i più celebri (e problematici) non si possono non citare gli scacchi dell’isola scozzese di Lewis, un set completo di pezzi splendidamente scolpiti in zanna di tricheco e dente di balena. A trovarli fu, a suo dire, un mercante scozzese nel 1831: stavano sepolti due metri sotto la sabbia. Si trattava di ben quattro scacchiere e 93 pedine alte circa 10,2 centimetri e recavano tracce di pittura bianca e rossa: i pezzi avevano tratti decisamente “nordici” tanto che gli studiosi interpellati per analizzarli li assegnarono subito all’arte scandinava del XII secolo, azzardando l’ipotesi di artisti islandesi (l’Islanda è molto frequentata da trichechi) che studiarono in Norvegia la tecnica d’intaglio. Questo splendido e unico set, però, nasconde un enigma: secondo alcuni, infatti, non si trattava di


scacchi ma di pezzi per il Hnefatafl (“la tavola del re vichingo”), un gioco scandinavo di guerra, simile agli scacchi ma giocato su spazi più grandi, il che spiega anche il gran numero di pezzi. La verità, forse, non la sapremo mai, ma si può ammirarne da vicino il fascino al British Museum di Londra (solo undici fanno invece parte delle collezioni del Royal Museum of Scotland). Di tutt’altro tenore, ma anch’esso diffusissimo in tutto il Medioevo, era il gioco dell’albero della cuccagna, legato alle festività della fertilità e dell’abbondanza. Si trattava di un grosso palo eretto al centro di una piazza, ricoperto con grasso o materiale untuoso per renderne più difficile la scalata: in cima, gli ardimentosi avrebbero trovato generi alimentari succulenti. La sua origine, anche in questo caso, affonda le radici in un passato remoto: pare che la pratica si sia originata in area celtica, durante i culti arborei che si tenevano nel mese di maggio. L’albero – detto anche “di Maggio” o “di Primavera” –, posto al centro della piazza e ricoperto di ogni ben di Dio, rappresentava l’abbondanza (non sfugga anche l’elemento “fallico”!) e veniva decorato – ad esempio in ambito germanico: e pare che a introdurlo in tutta Europa e in Italia in particolare siano stati i franchi – con focacce (Kuchen) rese sacre agli dèi. E forse è proprio da questo termine, Kuchen, che deriva il suo nome.

Prove di forza... nordiche Una prospettiva interessante può essere quella relativa ai giochi e ai passatempi dei vichinghi. Uno dei più popolari – le cui tracce si trovano nella saga di Egill Skallagrimsson – era il knattleikr, ossia un gioco con la palla in cui almeno quattro uomini lanciavano la sfera per poi ricorrerla, a volte con l’uso di una mazza. Pare che il fair play non fosse contemplato, come insegna questo (emblematico?) episodio: «Egill, che aveva all’incirca dodici anni, stava giocando con l’undicenne Grimr, che pare fosse più forte. A un certo punto Egill perse la pazienza e colpì l’avversario con la mazza. Fu subito placcato e gettato a terra. L’umiliazione fu tale


che, dopo essere corso a lamentarsi dal suo amico Þorðr Granason, prese un’ascia e la piantò nella testa del povero Grimr». In realtà pare che non tutti i giochi vichinghi terminassero nel sangue. I più gettonati comunque restavano le prove di forza e di virilità. La Laxdœla saga, ad esempio, parla di una gara di nuoto sul fiume Nid in Norvegia. Fin qui niente di strano, ma i due contendenti dovevano combattersi mentre nuotavano cercando di mantenere l’avversario sott’acqua il più possibile. Ecco la gustosa narrazione, con tanto di sorpresa finale: Kjartan [uno dei competitori, n.d.a.] a un certo punto si tuffò nel fiume e nuotò fino a raggiungere l’altro uomo, che era assai più forte di lui. Lo spinse sott’acqua e gli tenne la testa per un bel po’ prima di lasciare che riemergesse. L’altro era appena spuntato che subito afferrò Kjartan e lo immerse tenendolo finché l’altro stava quasi per affogare. Allora entrambi uscirono ma nessuno dei due si rivolse la parola. Al terzo tentativo entrambi finirono sott’acqua e ci stettero per un bel po’. A un certo punto Kjartan si rese conto che l’esito della gara stava diventando sempre più incerto e che non si era mai trovato così in difficoltà in vita sua. Allora entrambi tornarono a riva. Più tardi fu rivelato che il suo avversario era nientemeno che Olafr Tryggvason, il re di Norvegia in persona, noto per essere un campione in varie discipline tra cui la “passeggiata sui remi”, che consisteva nel camminare sui


remi in movimento mentre altri uomini remavano nell’acqua. Popolarissime erano poi le prove di lotta e quelle di sollevamento (e lancio) di massi. Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, lo sci e il pattinaggio sono raramente menzionati nelle saghe, anche se, in effetti, alcuni ritrovamenti archeologici – ad esempio, pattini ricavati da tendini e ossa – suggeriscono che fossero “sport” praticati. A meno che non si vogliano interpretare come semplici mezzi di locomozione per spostarsi in lande il più delle volte ghiacciate e innevate. Dell’Hnefatafl, la tavola del re simile agli scacchi, si è già parlato. Ma certo i lunghi inverni nordici dovevano essere allietati per forza anche da altri passatempi. Uno di quelli maggiormente attestati erano le gare di bevuta, con conseguenti risse o – quando andava bene – dormite collettive. Vale la pena sottolineare che, psicologicamente, per l’uomo nordico i giochi non erano mai fine a se stessi. Nella società vichinga, mal confortata da condizioni di vita oggettivamente difficili a causa del clima e della scarsa propensione per il lusso e per di più improntata decisamente alla guerra, l’uomo “ideale” approfittava dei giochi per temprarsi e rendersi forte. Insomma: si allenava per la battaglia, e già che c’era imparava trucchi che gli sarebbero serviti nei momenti di bisogno. Un atteggiamento che si acquisiva sin dalla tenera età: i giocattoli dei bambini vichinghi – lo dimostrano i ritrovamenti archeologici – erano sempre “a tema”: cavalli di legno in miniatura, navi, spade ecc. Non era raro che per giocare prendessero a prestito anche ciò che trovavano a portata di mano abbandonato dagli adulti, come armi vere e proprie, spesso – possiamo supporre – con esiti nefasti. Così almeno si può interpretare l’episodio che accadde nel XII secolo a un nobiluomo che, mentre camminava dando le spalle a un gruppo di ragazzi, scambiò il sibilo di un’ascia da lancio con quello di una palla di neve... Con le conseguenze che possiamo immaginare.


Giochi per bambini A proposito dei giochi per bambini (e per bambine), le notizie sono in genere scarse, a parte qualche ritrovamento archeologico sporadico di statuette, uccellini di terracotta, bambole in avorio. C’è da dire che l’infanzia non era, come per noi, un’età particolarmente tranquilla e protetta. In una società dove le condizioni di vita erano tutto sommato sempre abbastanza precarie e la vita media bassa, si tendeva a crescere in fretta. E le famiglie numerose, con più figli, non potevano certo permettersi di “coccolare” i loro pargoli come siamo abituati a fare noi. Si è appena detto che i maschi erano educati, soprattutto nelle società guerriere, a combattere sin da giovani. I loro passatempi erano la caccia agli insetti, la scalata sugli alberi, la lotta, la palla, la guerra... E le femmine? Come futuri “angeli del focolare”, imparavano presto le attività domestiche che avrebbero sorretto la famiglia: ognuno doveva fare la sua parte e giocare era una perdita di tempo. Cucire, cucinare, tessere con il metodo delle tavolette... Ma le classiche bambole non furono del tutto dimenticate. Ne sono rimaste poche, soprattutto resti nelle tombe delle giovani più nobili. Erano costruite in materiale spartano: legno, osso (ragion per cui si sono dissolte col tempo), raramente metallo, spesso argilla, e poi rivestite di panni o stracci. Conosciamo piccole bambole per neonati che, riempite di sassolini, avevano la funzione dei nostri sonaglini. Ma circa la mancanza (o perlomeno scarsità) di bambole per bambine, è stata avanzata un’inquietante ipotesi: la condanna della Chiesa, che si applicava a questi come in genere a tutti i giochi anche per adulti. Le bambole, per la loro forma antropomorfica che ricordava la donna, simbolo del peccato, erano malviste in quanto incarnazione di vanità e seduzione. Di più: per i più oltranzisti poteva essere addirittura un feticcio che ricollegava alla “magia nera”. E il cerchio si chiude – ma ne parleremo altrove – sul fatto che la donna tentatrice e peccaminosa era sovente – lo sappiamo almeno dal VII secolo – associata alla stregoneria. Solo alla fine del Medioevo la bambola viene sdoganata e anzi il suo uso viene incoraggiato come “premonizione” del futuro che aspetterà la bimba stessa nelle classi sociali superiori: bambole riccamente vestite pronte al ruolo di moglie e di madre, o viceversa simulacri vestiti da suora per chi era destinata al chiostro. La prima fabbrica di bambole nota è attiva a Norimberga alla fine del Quattrocento: molte delle sue creazioni sono visitabili nell’attiguo museo. Mentre una panoramica più estesa e complessa, e anche scenograficamente ben


costruita, è quella che si può ammirare al Museo del Giocattolo di Angera (Varese), che comprende reperti rarissimi, alcuni dei quali sembrano saltati direttamente fuori dal celebre quadro Giochi di bambini di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1560 e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. Dalle bambole al pallone (ricavato da una vescica di maiale o di pecora riempita d’acqua), dalle maschere al giocare alla Messa, dal classico “mosca cieca” alle bolle di sapone, dal “cerchio” alle penitenze, ai trampoli, alle biglie: il grande pittore fiammingo ha raffigurato certosinamente, come in una miniatura medievale, la più vasta gamma di giochi allora in voga presso i bambini del popolo. Molti dei quali sono gli stessi che tenevano occupati i nostri pargoli fino a pochi decenni fa.


11 In chiesa

Dopo l’Editto di tolleranza del 313, che concedeva ai cristiani la libertà di culto, la nuova religione poté diffondersi senza più ostacoli. In meno di un secolo, anzi, il cristianesimo passò da culto illecito e perseguitato a religione ufficiale dell’impero – con l’editto di Teodosio del 380. Le comunità divennero via via più numerose e, grazie a donazioni e lasciti, più ricche. Fu necessario dar loro una struttura gerarchica che consentisse di organizzare i fedeli, presiedere al culto, amministrare le proprietà e garantire l’ortodossia religiosa combattendo le devianze (ossia le eresie). La Chiesa divenne così col tempo, accanto all’impero, l’altra istituzione cardine del Medioevo. In chiesa (intesa come edificio) si andava per pregare ma anche per fare tutt’altro: mercanteggiare, discutere di affari, persino... flirtare (se non di peggio). Se il monastero era il luogo dove si fuggiva il mondo alla ricerca della perfezione interiore, in realtà poteva ospitare tra le sue mura eccessi di ogni tipo. La maggior parte dei monaci, è vero, seguiva Regole rigorose, a cominciare dalla benedettina e da quelle da essa derivate. Ma comunque fosse, entrare in un ordine o farsi chierico dava diritto a rendite e prebende e poteva rivelarsi un modo per gestire – a livelli diversi – il potere. Accanto a uomini di grande levatura morale e culturale, il Medioevo conobbe anche preti e monaci dediti a piaceri terreni – concubinato in primis –, avidi e rapaci, ignoranti e violenti. Non è raro il caso di membri del clero con mogli e figli, pizzicati a comprare e vendere cariche e ad arricchirsi ai danni delle stesse comunità di cui erano, fino a prova contraria, i pastori delle anime. Un atteggiamento che creò malcontento e reazioni che sfociarono in movimenti di riforma e anche di eresia. Luoghi splendidi di cultura, dove si trasmetteva pazientemente copiato il sapere antico, ma anche centri di potere, i monasteri si fecero in alcuni casi – quello eclatante di Cluny ad esempio – promotori essi stessi di rinnovamento spirituale. E mentre il Duecento conosceva la straordinaria e rivoluzionaria esperienza dei frati predicatori francescani e domenicani, il papato, dopo il momento più basso toccato tre secoli prima durante la sua “età ferrea”, avrebbe affrontato la crisi avignonese preceduta da un pontefice – Celestino V – che rinunciava clamorosamente (ma ce ne furono


altri prima e dopo di lui) al suo mandato.


Dal vescovo al papa Cessate le persecuzioni che ne avevano funestato i primi difficili secoli di vita, le comunità cristiane, appoggiate dallo stesso impero, avevano subito sentito il bisogno di strutturarsi con una gerarchia ecclesiastica in grado non solo di coordinare i fedeli, ma anche di amministrare i cospicui beni ottenuti tramite donazioni e lasciti testamentari. Accanto ai predicatori e a coloro che celebravano la liturgia (i presbiteroi, “gli anziani”, da cui il termine “preti”), ecco allora alcune figure (i diaconoi, “diaconi”) che in pratica esercitavano il ruolo di tesorieri. Il vero cardine della Chiesa – ecclesia, “l’assemblea dei fedeli” – era però il vescovo (dal greco episcopos), predicatore e guida spirituale alla diocesi che comprendeva i fedeli abitanti nel territorio facente capo alla chiesa cittadina (come stabilito nel 343 dal Concilio di Sardica). Questo l’identikit del vescovo dei primi secoli dell’era cristiana: colto, eloquente, carismatico, dotato di ottime capacità di amministrazione e grande rigore etico. Dal punto di vista sociale, apparteneva all’aristocrazia senatoria da poco convertita al nuovo credo, ossia alla stessa élite che aveva sempre espresso i funzionari-chiave dell’impero in campo sia amministrativo, sia culturale, sia politico. E in più era profondamente legato al territorio di cui era stato scelto come guida. Così mentre il vecchio impero lentamente franava consunto dalle crisi interne e poi travolto dalle invasioni barbariche, vescovi come Felice e Abbondio a Como, Zeno a Verona, Nicola a Bari, Petronio a Bologna, Ambrogio a Milano divennero il punto di riferimento della vita non solo spirituale, ma anche civile. Anzi, il simbolo stesso della città, in cui la comunità si identificava e sotto la cui protezione si raccoglieva. Come dimostra anche il fatto che sono protagonisti di miracoli e leggende: sconfiggono il diavolo, proteggono la popolazione, guariscono i malati. A coordinare l’attività dei vescovi furono scelti, dapprima in Oriente e poi anche in Occidente, i metropoliti. Loro compito era quello di presiedere all’elezione dei vescovi e di convocare periodicamente i sinodi, ovvero le assemblee del clero. Tra le sedi metropolitiche principali vi furono Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria d’Egitto, Antiochia, Roma, Milano, Aquileia. Alcune di queste, vista la loro importanza, furono elevate al rango di patriarcato. Ma a partire dal IV secolo, Roma, forte del suo prestigio, incominciò a reclamare il suo primato come guida della cristianità. A suo favore giocavano vari elementi: l’essere stata la capitale storica e universale dell’impero romano,


sul cui ordinamento amministrativo si basavano le nascenti strutture del cristianesimo. Ma, soprattutto, l’aver ospitato come primo vescovo nientemeno che l’apostolo Pietro, al quale, secondo il vangelo di Matteo, Cristo stesso diede il compito di fondare la sua Chiesa. Il primo animatore di tali rivendicazioni fu il vescovo di Roma Damaso (305384): dopo aver ottenuto dall’imperatore Graziano il potere giurisdizionale sui suoi omologhi d’Occidente, nel 381 ricevette da Teodosio il primato morale anche sull’Oriente. La sua eredità fu raccolta da Leone Magno (390 ca.-461) e, soprattutto, da Gelasio (400-496). Fu proprio questo prelato di origine nordafricana – era nato, probabilmente, nella Cabilia, in Algeria – a distinguere, utilizzando come titolo quello di papa (ossia “padre”), il potere temporale da quello spirituale, precisandone nel contempo la reciproca autonomia e la comune derivazione dalla volontà divina. E per questo può essere considerato, a tutti gli effetti, l’“inventore” del papato. Che cercò oltretutto di consolidare dando la caccia agli eretici e ai pagani e pubblicando, dopo aver ripreso l’opera già iniziata da Damaso, il Canone delle Scritture separando i testi autentici da quelli interpolati o apocrifi. La distinzione tra i due poteri, tuttavia, non implicava la loro separazione: così come chi governava era soggetto al prelato in materia spirituale, quest’ultimo lo era al primo per quanto concerneva l’aspetto temporale. «Se nell’ordine delle cose pubbliche – scrive infatti in una nota lettera all’imperatore – i vescovi riconoscono la potestà che ti è stata data da Dio, e obbediscono alle tue leggi senza voler andare contro le tue decisioni nelle cose del mondo; con quale affetto devi tu obbedire a coloro che sono incaricati di dispensare i sacri misteri?». Nonostante ciò, però, mentre in Oriente gli imperatori continuavano la loro politica mischiando i ruoli all’insegna del cosiddetto “cesaropapismo”, in Occidente l’autorità del papato finì per soppiantare di fatto quella, lontana, dell’impero, e i pontefici si posero come contraltare pressoché unico ai barbari, difendendo Roma dalle invasioni e gettando le basi per la costruzione di un vero e proprio dominio temporale che avrebbe avuto la sua prima legittimazione in età longobarda.

I monaci, fuori e dentro il mondo Mentre il cristianesimo in Occidente muoveva i primi passi e tentava di crearsi una struttura, in Oriente, a partire


dal III secolo, nasceva un’esperienza religiosa nuova: il monachesimo. Era la risposta a un bisogno spirituale profondo, quello di seguire i dettami evangelici distaccandosi dal mondo alla ricerca della perfezione. Nel giro di pochi decenni, un gran numero di eremiti popolò i luoghi più impervi della Siria, le desolate lande anatoliche, le aree desertiche dell’Egitto: uomini che conducevano una vita solitaria e piena di privazioni, meditando e mortificando i sensi. Seguire il loro esempio non era certo facile perché le loro scelte erano estreme. Simeone (390-459) visse oltre trent’anni in cima a una colonna (e quindi fu soprannominato “lo Stilita”). A tredici anni smise di fare il pastore per entrare in un monastero. Dopo un lungo e doloroso noviziato, durante il quale più volte rischiò di morire a causa della severità delle pratiche ascetiche cui si sottoponeva, fissò la sua dimora su un monte distante una trentina di miglia da Antiochia: qui salì su una colonna dapprima alta tre metri e poi innalzata a quindici, dove trascorse trenta estati e altrettanti inverni. L’abitudine e l’esercizio gli consentirono di perseverare in tale pericolosa situazione senza paura o senso di vertigine e di sperimentare le diverse posizioni di preghiera. Egli talvolta pregava in posizione eretta con le braccia aperte a forma di croce, anche se la sua pratica più frequente era quella di piegare il suo scheletro macilento dalla fronte ai piedi. Uno spettatore curioso, dopo avere contato 1244 ripetizioni di queste “flessioni”, desistette dal contarle. Il progredire di un’ulcera alla coscia potrebbe aver accorciato, ma non troppo disturbato, questa sua esistenza celestiale; e il paziente eremita morì senza esser sceso dalla colonna84.

Il celeberrimo Antonio abate (250 ca.-356), di cui conosciamo bene la vita


grazie alla biografia scritta dal discepolo Atanasio, nacque a Coma, sulla riva sinistra del Nilo, intorno all’anno 250. Nonostante fosse di famiglia agiata, preferiva alle feste e ai banchetti il lavoro e la meditazione. Alla morte dei genitori distribuì tutte le sue sostanze ai poveri e si ritirò in solitudine a lavorare e a pregare, dapprima nei dintorni della sua città natale e poi nel deserto. Viveva in un’antica tomba scavata nella roccia, senza alcun comfort e nutrendosi del pane che gli veniva portato due volte l’anno. Proverbiale è la lotta che condusse contro le tentazioni del demonio, che gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se avesse seguito la vita mondana. A volte il diavolo si manifestava sotto forma di bestia feroce – soprattutto di porco – per spaventarlo, ma Antonio rispondeva con digiuni e penitenze riuscendo sempre a evitare di soccombere. La sua fama di anacoreta si diffuse così tanto che fu costretto a cambiare varie volte dimora per sfuggire alla ressa di quanti accorrevano a lui per chiedere consiglio e per vederlo. Quelli di Antonio e Simeone sono solo alcuni casi eclatanti di rigorismo, ma non furono certo gli unici. Non tutti, però, riuscivano a seguirne l’esempio: preferivano condividere penitenze e preghiere con gli altri, sostenendosi a vicenda. Queste comunità cenobitiche – dal greco, significa “vita in comune” – si diffusero dapprima in Oriente e poi, grazie anche a una prima “Regola” redatta dall’egiziano Pacomio, anche in Occidente. Il segreto del successo risiedeva nel fatto che, rispetto al monachesimo orientale, la forma cenobitica non prevedeva l’isolamento totale dal mondo, ma anzi perseguiva la realizzazione degli ideali cristiani nel mondo stesso tramite l’evangelizzazione. La figura cardine di questa esperienza fu san Benedetto da Norcia (480 ca.-547). Prendendo spunto da alcune esperienze precedenti (di cui rimane traccia, ad esempio, in una raccolta di norme comportamentali nota come Regula magistri), compilò per la comunità da lui fondata a Subiaco e Montecassino un insieme di prescrizioni che sarebbe stato alla base del monachesimo medievale: la Regola di san Benedetto. Le norme stabilite per i monaci erano semplici. Il concetto di fondo era il mantenimento dell’equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva, che riassunse nella formula «ora et labora». I confratelli, vincolati all’obbligo di residenza nel monastero in cui entravano, dovevano obbedire al loro superiore (l’abate) e contribuire fattivamente al progresso spirituale e culturale della comunità, ottenuto con la preghiera e la meditazione, ma anche con lo studio e la copiatura di testi sacri e opere classiche. Accanto all’attività intellettuale, il monaco aveva anche il dovere di contribuire al sostentamento suo e dei confratelli coltivando la terra e svolgendo piccole attività artigianali. Con la loro operosità, i monasteri benedettini – sorretti da importanti donazioni da parte dei ceti illustri – divennero assai più che semplici centri religiosi. Grazie all’aiuto dei coloni che


si rifugiavano in quelle che, nel quadro generale di decadenza tra tardoantico e primi secoli del Medioevo, erano vere e proprie “oasi” di pace e stabilità, le abbazie si fecero promotrici di vaste opere di bonifica e rimessa in uso dell’incolto e tra il VI e l’VIII secolo riuscirono ad avviare una prima ripresa dell’economia europea duramente provata dalle razzie e dalle invasioni.

L’Irlanda, un’isola di santi Un’esperienza ancora diversa fu quella del monachesimo in Irlanda85. Quando Palladio e Patrizio iniziarono a predicare, nel V secolo, l’isola era priva di città: la sua ossatura era costituita da un insieme di genti e tribù (in irlandese, tuatha) sparse a macchia di leopardo. Ogni tuath aveva un capo, chiamato in irlandese ri, e si spostava di continuo. La popolazione ammontava a circa mezzo milione di individui suddivisi in centocinquanta tribù. Ovvio che aggregarsi fosse l’unico modo per assicurarsi la sopravvivenza. Uscire dalla tribù era pericoloso non solo sul piano dell’incolumità personale: chi la abbandonava era assimilabile a uno straniero (in irlandese, ambue) e perdeva tutti i diritti sociali, trascorrendo la vita in condizioni di emarginazione. Non a caso l’esilio oltremare e la condanna a vagare erano le massime pene comminate per i delitti contro la società. Il monaco irlandese, invece, lasciava la tribù deliberatamente per Cristo (assumendo, cioè, la Peregrinatio pro Christo). Ricercava di proposito l’isolamento e viveva in condizioni di inferiorità. Colto inizialmente con sospetto, il suo atteggiamento col progredire della cristianizzazione fu invece


oggetto di ammirazione: la scelta del monaco, cioè, fu vista come assimilabile a quella del martirio (il cosiddetto “martirio verde”), intrapreso volontariamente e privo di ogni carattere violento, basato anzi sulla contestazione delle ingiurie dei potenti e sull’annuncio della Parola tramite la profezia. Rappresentante in Terra di Dio e dei santi, assunse anche un ruolo di vertice nella società, dal carisma quasi pari a quello di un sovrano o di un vescovo. Anzi di più: se infatti il vescovo era a capo della chiesa locale e viveva a contatto con il “secolo”, l’abate guidava un gruppo di monaci che conducevano vita ascetica, ossia più “spirituale”. Per il loro prestigio, i centri monastici si associano in confederazioni e si legano alle dinastie locali, da cui ricevono beni fondiari in cambio dell’inserimento, a capo della comunità stessa, di un membro di famiglia. Le confederazioni monastiche diventarono così addirittura il prolungamento effettivo dell’autorità laica, e al contrario di quanto avveniva sul continente, erano i vescovi a trovarsi nell’inedita situazione di dipendenti degli abati. Questa e altre peculiarità portarono i monaci irlandesi a polemizzare spesso e volentieri con la Chiesa di Roma e con gli ordini benedettini del continente. Anche sul piano liturgico e comportamentale, del resto, i monaci irlandesi godevano di larga autonomia rispetto ai loro “colleghi”. Come detto, i vescovi insulari esercitavano un’autorità inferiore rispetto agli abati, che erano i veri capi delle comunità religiose. Diverso era poi il tipo di tonsura praticato dai monaci: mentre quella “classica” consisteva nel radere la corona al centro della testa, in Irlanda e altrove si radeva la fronte da un orecchio all’altro. C’erano poi questioni strettamente dottrinali, come il rifiuto del limbo per i bambini morti senza battesimo, posizione dettata forse dal fatto che in Irlanda si celebrava il battesimo solo quattro volte l’anno invece che otto giorni dopo la nascita. Si privilegiava la confessione privata dei peccati rispetto a quella pubblica (coram populo). Infine si celebravano le festività dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione di Maria, che la Chiesa cattolica avrebbe proclamato dogmi rispettivamente solo nel 1854 e nel 1950. Ma il problema più sentito era quello relativo al calcolo della Pasqua. I primi cristiani calcolavano la data seguendo la tradizione ebraica, che la poneva il giorno 14 del mese di Nisan: in tale giorno, secondo i vangeli, Cristo era stato crocifisso. Ma dato che il giorno della settimana dell’evento era la domenica, presto si impose l’uso di celebrare la Pasqua appunto la domenica. Durante il primo Concilio di Nicea (325) la data della Pasqua fu stabilita vietando espressamente che coincidesse con la Pasqua ebraica in opposizione al giudaismo, poiché secondo l’imperatore Costantino86 essi l’avevano disonorata


con la crocifissione di Cristo. In seguito furono pubblicati altri calcoli, ma gli irlandesi continuarono a celebrare la Pasqua sempre il 14 Nisan, ignorando tutto quanto. Dalla scozzese abbazia di Iona, “roccaforte” di questa posizione tradizionalista, sulle spalle di monaci come san Colombano (525-615), la Pasqua “celtica” si diffuse anche sul continente nelle abbazie di loro fondazione. Sia in Irlanda che in queste “énclave celtiche”, secondo il dotto Beda il Venerabile, la Pasqua “romana” era fortemente osteggiata. La questione si sarebbe risolta in favore delle tradizioni continentali solo nel 664, dopo un burrascoso sinodo nel monastero di Streonshalh (Streanoeshalch, la più tarda Whitby). Ma l’uso romano non fu accettato ovunque subito: se infatti in Irlanda del Nord esso fu stabilito col Concilio di Birr (697), in Scozia, dove l’influenza dell’abbazia di Iona si faceva sentire ancora, fu adottato solo nel 716 e in Galles addirittura nel 768. Un’altra caratteristica originale dei monasteri irlandesi era che le comunità potevano essere costituite da uomini, da donne e persino da fanciulli. Dopo una prima fase in cui il modello prevalente era quello dell’entusiasmo ascetico e rigorista, il monachesimo irlandese si orientò sempre di più in direzione missionaria. Terminate le invasioni e le scorrerie barbariche, che avevano obbligato nei primi decenni del VI secolo clan e comunità a rifugiarsi in Scozia oppure oltremanica, in Bretagna, verso il 500 molti cenobi furono ricostruiti, altri furono fondati ex novo e diventarono a loro volta centri propulsori di una nuova evangelizzazione. Killeay sulle isole di Aran, Clonard, Clonmacnoise, Bangor, Glendalough, Skelling Michael, Iona, Lindisfarne, Kildare (dove fu impiantata una comunità femminile) sono databili a questi decenni, così come la vita di Enda (o Enna), Brandano, Finnian, Ciaran, Congall, Columba, Aidan e Brigida, loro creatori e profondi ispiratori anche del modello di vita che vi fu adottato. Tra VIII e IX secolo le zone periferiche dell’Irlanda si rivestirono dunque di eremi, spesso fondati in luoghi impervi in ottemperanza al dovere, imposto al monaco, di recarsi in esilio in altri paesi per evangelizzarli, di rinunciare alla propria “patria” e di compiere un pellegrinaggio in avvicinamento a Dio. Così come per gli eremiti orientali il ritiro spirituale doveva avvenire tra le rupi aride e desertiche della Tebaide, per gli irlandesi il disert erano le verdi praterie e l’oceano. I monaci si imbarcavano su canoe strette e lunghe, costruite con il legno e rivestite di pelli bovine: il già varie volte citato currach era leggero e non poteva navigare controvento, tuttavia era abbastanza resistente per arrivare lontano sfruttando le correnti del mare. Entro la fine dell’VIII secolo, sparuti gruppi di monaci irlandesi riuscirono a raggiungere l’Islanda e a colonizzarla, fondando vari monasteri celtici: comunità che rimasero al loro posto per secoli,


sopravvivendo alle difficili condizioni ambientali, e furono cacciate solo dalla furia dei vichinghi. Tali comunitĂ non erano mai molto numerose: in un clima dove le piogge e i forti venti erano all’ordine del giorno, i monasteri erano costituiti da agglomerati di piccole celle spesso costruite a secco, circondate da un piccolo orto. Un esempio è costituito dal monastero di Skellig Michael, che ospitava su un’isola sperduta una dozzina di chierici in una costruzione simile a un alveare in cima a un monte, raggiungibile solo tramite una ripida scalinata: simbolo quanto mai eloquente di una ricerca quasi ossessiva di fuggire il mondo.


La dura vita del monaco Come vivevano i monaci nel Medioevo? La loro vita era in verità piuttosto monotona ed era scandita dalle preghiere alternate al lavoro. Le ore dell’ufficio divino erano sette: lodi, prima, terza, sesta, nona, vespro e compieta. Ma non erano fisse: la giornata tipo, infatti, seguiva il corso del sole e quindi era più lunga d’estate e più breve d’inverno. Tutte le attività manuali erano concentrate durante le ore di luce, quindi dall’alba al tramonto, mentre ci si svegliava di notte solo per pregare. Poiché d’estate al lavoro si dedicavano circa sei ore e d’inverno, luce permettendo, solo due, nei mesi più freddi si occupava il tempo lasciato libero dalla preghiera alla lettura e alla meditazione. Dunque d’estate la giornata iniziava verso le 2:00 del mattino con le prime preghiere (d’inverno un po’ prima) e terminava verso le 20:00, quando calavano le tenebre. D’inverno, invece all’imbrunire – verso le 17:00 – i monaci erano già a letto. Il cuore pulsante della vita monastica era il capitolo, ossia l’assemblea dei monaci. Dopo le preghiere – a cominciare da quelle dedicate ai santi celebrati ogni giorno – si procedeva alla lettura e al commento di passi della Regola o di altri testi che governavano la vita dell’abbazia. Durante la riunione capitolare l’abate provvedeva ad assegnare ai confratelli i compiti da eseguire in giornata. In seguito, ogni monaco doveva confessare le proprie eventuali mancanze e ricevere le relative penitenze, che di solito consistevano in digiuni, umiliazioni o pene corporali. Nei casi più gravi si poteva ricorrere addirittura alla detenzione: gli Statuti di Cîteaux del 1230, ad esempio, menzionano espressamente l’utilizzo di prigioni a questo scopo. Nel corso del capitolo si rendevano note anche tutte le comunicazioni ufficiali relative alla vita del monastero: nuovi ingressi, nomine, incarichi. Al termine, dopo la commemorazione dei fratelli defunti, si recitavano i salmi, il De profundis e le preghiere finali. I monaci erano così congedati e iniziavano le attività di giornata. I pasti si prendevano in comune e una sola volta al giorno, tra le 11 e le 13 a seconda della stagione (solo in estate era prevista anche la cena). Dopo essersi lavati le mani alla fontana, i monaci entravano in refettorio e prendevano posto in tavola. Terminata la preghiera e la benedizione delle vivande, si poteva iniziare a mangiare. In rigoroso silenzio: era consentito esprimersi soltanto a gesti – esistono addirittura manoscritti che contengono una specie di “dizionario” dei segni per “tradurre” il corrispettivo termine latino – e l’unica


voce che risuonava in sala era quella del monaco che leggeva passi della Bibbia. Cibi e bevande erano serviti per due, quindi ognuno doveva dividere le pietanze con un compagno. I monaci dovevano astenersi dalla carne e, in generale, dai cibi più sostanziosi, che «stimolano i desideri sessuali» (san Tommaso). La dieta-tipo era basata, dunque, sui legumi, sulle verdure e sul pane, mentre nei lunghi periodi di digiuno – ma ne parliamo abbondantemente nel capitolo dedicato all’alimentazione – ci si limitava a mangiare pane e acqua. Per quanto riguarda invece le bevande, il vino era consentito in modiche quantità, mentre nel Nord Europa era diffuso – anche per ragioni climatiche – il consumo della birra. Al termine del pasto, la comunità si recava in chiesa a ringraziare Dio per il cibo ricevuto. Il regime dietetico del monaco era, dunque, piuttosto rigido. Il digiuno veniva interrotto in caso di indisposizione oppure quando la comunità era soggetta a lavori particolarmente pesanti, ad esempio durante il periodo in cui si aravano i campi o mietevano le messi. Il consumo delle carni era di regola consentito solo ai monaci malati, e comunque in modica quantità. Ma questi dettami, così ascetici nello scritto di san Benedetto, col tempo subirono modifiche diventando via via più permissivi. A suon di dispense papali, in pratica le eccezioni al digiuno divennero la regola, al punto che nel 1335 si rese necessaria una bolla – la Fulgens sicut stella, emanata da Benedetto XII – per richiamare i monasteri all’ordine. I monaci dormivano tutti insieme nello stesso dormitorio e vestiti. Poiché non era consentito, almeno nel rigore delle origini, alcun riscaldamento, anche il riposo doveva metterne a dura prova la resistenza, soprattutto nei climi più freddi. Anche l’igiene era sommaria. Il bagno vero e proprio era riservato ai soli monaci ammalati; per gli altri, ci si limitava al lavaggio delle mani (prima dei pasti) e dei piedi (a scopo liturgico). Uno statuto nel 1189 sancì che quanti fossero usciti dal monastero per cercare “bagni caldi” non avrebbero dovuto essere riammessi. Nel 1202 l’abate di San Giusto, in Toscana, venne deposto per aver pranzato in compagnia di secolari e – come afferma laconicamente il testo – «per essersi permesso di prendere un bagno, toltosi l’abito, fuori dell’abbazia». Nel 1212 un monaco di Hautecombe venne chiamato a presentarsi e a dare spiegazioni per aver mangiato carne e per aver preso un bagno. Nel 1225 l’abate dell’abbazia ungherese di Pilis venne accusato del crimine seguente: essere entrato in un bagno pubblico di Sabato Santo, dove si era anche rasato. In questo campo, il primo indizio di rilassamento appare nel Capitolo del 1437, che stabilì che: «I bagni non devono essere permessi alle persone sane più spesso di una volta al mese»87.

La vita del monaco, dunque, era piuttosto dura. Quando un monaco stava per morire, i confratelli si radunavano in preghiera per assistere all’estrema unzione.


Dopo aver esalato l’ultimo respiro, in pace, il defunto era deposto su una lastra di pietra. Prima di riposare per sempre nella tomba – i monaci nel cimitero, in nuda terra, gli abati nel chiostro o in chiesa –, veniva spogliato e lavato con acqua tiepida. Ormai esanime, non poteva più celare i suoi segreti e il suo corpo si presentava inerme allo sguardo indiscreto di tutti. A volte i confratelli si limitavano a scrutarlo per riscontrare i segni della malattia oppure delle mortificazioni che si era imposto. Ma a volte si assisteva a clamorose sorprese. Secondo quanto riportato da Cesario di Heisterbach nel Dialogus Miraculorum, in questa occasione i monaci di Schönau scoprirono che “fra Giuseppe”, morto da novizio, era una ragazza. Il nome della giovane risultò essere quello di Ildegonda, figlia di un devoto cittadino di Neuss am Rheim: questi l’aveva condotta in pellegrinaggio in Terrasanta dove era poi morto, lasciandola sola e in mezzo a ogni difficoltà, in terra straniera. Dopo privazioni incredibili e miracolose avventure, Ildegonda riuscì a far ritorno in Germania, dove l’abate di Schönau – credendo che fosse un giovane ragazzo – la ammise al noviziato. La sua morte era avvenuta nel 1188, e quando Cesario ne raccontava la storia una trentina d’anni dopo, stava già diventando quella famosa “santa Ildegonda” che sarebbe stata poi venerata nei secoli successivi del Medioevo.

Corrotti, ignoranti e guerrieri Naturalmente, non sempre il clero – a tutti i livelli, nei monasteri come nel secolo – si dimostrava irreprensibile. In età carolingia e post-carolingia lo scadimento divenne sensibile, anche e soprattutto per la sua contiguità con la classe dirigente. Con la progressiva crescita del potere delle aristocrazie, diventò ad esempio prassi comune per i signori fondare monasteri e chiese private e imporvi alla guida persone appartenenti al proprio entourage: in tal modo non solo guadagnavano essi stessi prestigio, ma esercitavano una forte influenza sulle istituzioni ecclesiastiche.


Vescovi e abati, reclutati tra gli aristocratici, erano di fatto parte delle clientele nobiliari e si ritrovavano a capo di centri di potere anche molto influenti. Alcuni vescovi addirittura portavano le armi. Anzi in quanto feudatari erano tenuti a prestare giuramento di fedeltà al sovrano e a comandare l’esercito in battaglia. Non si può non citare il celebre Turpino, l’arcivescovo di Reims che secondo l’epica delle chanson de geste – ma le fonti storiche non lo citano – fu al fianco di Carlo Magno a Roncisvalle (778). Ma il fenomeno esplose in particolare durante le crociate. In una miniatura del manoscritto Yates Thompson 12 (folio 29, British Library), databile alla metà del XIII secolo, che rappresenta un episodio della prima crociata, si vede chiaramente sulla sinistra un vescovo a cavallo, rivestito di cotta di maglia, che indossa la mitra sopra l’elmo mentre partecipa a una mischia. Probabilmente si tratta di Ademaro di Monteil, legato pontificio ed eroe della battaglia di Dorylaeum (1097) alla testa dell’avanguardia cristiana, qui rappresentato mentre regge la Lancia Sacra (quella con cui Longino avrebbe trafitto il costato di Cristo mentre agonizzava sulla croce): va però detto che sull’autenticità della reliquia, ritrovata poco prima dal monaco Pietro Bartolomeo, il vescovo mantenne sempre un atteggiamento alquanto scettico. Altri celebri prelati in armi furono Pietro da Roches (morto nel giugno 1238), vescovo di Winchester, che nel 1217 combattè a Lincoln per il re d’Inghilterra contro il sovrano di Francia; Guglielmo degli Ubertini, morto l’11 giugno 1289 durante la battaglia di Campaldino (la stessa cui partecipò, sul fronte opposto, Dante Alighieri); il grande Cristiano arcivescovo di Magonza, uomo di fiducia di Federico Barbarossa, che dopo aver combattuto al fianco dell’imperatore in innumerevoli battaglie durante le campagne d’Italia, morì il 25 agosto 1183, forse per l’acqua avvelenata o forse di malaria, mentre difendeva Tuscolo assediata dai romani. Non tutti, però, si resero protagonisti di imprese valorose come queste. In genere, molto più in piccolo, a prevalere era la tentazione di anteporre alla missione spirituale il semplice tornaconto personale: più che un’autentica e profonda vocazione, sulla scelta di “carriera” di molti aspiranti chierici pesava in effetti la possibilità di accedere facilmente a ruoli prestigiosi e a ricche prebende. In questi casi violare il voto di castità con concubine o donne di malaffare, comprare e vendere cariche ecclesiastiche erano pratiche all’ordine del giorno. Soprattutto nelle campagne, dove nonostante l’evangelizzazione permanevano ampi rimasugli di paganesimo, i chierici risultavano il più delle volte violenti, rapaci, ignoranti e superstiziosi. Per inciso, non ci sono pervenuti i testi delle omelie che questi preti recitavano davanti ai fedeli, ma c’è da supporre che fossero ormai declamate in un linguaggio molto simile al volgare. A questi


decenni, infatti, risale la più antica testimonianza del suo utilizzo “ufficiale” in un atto pubblico, il Giuramento di Strasburgo. Si tratta di un patto che Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico strinsero il 14 febbraio 842 per sorreggersi a vicenda contro il loro fratello e imperatore Lotario. Il cronista Nitardo, cui si deve la narrazione dell’episodio (conservata in un solo manoscritto!), riporta il testo che i due sovrani pronunciarono davanti alle truppe: Carlo, che parlava la lingua antenata del francese, si espresse in antico tedesco per farsi capire dall’esercito del fratello, e Ludovico fece l’opposto. Entrambi, poi, giurarono nella propria lingua88.

L’età ferrea del papato Proprio nel caos istituzionale che travolse l’impero, e in particolare l’Italia, all’indomani della deposizione di Carlo il Grosso (887), iniziò anche il durissimo scontro tra fazioni per il controllo e la gestione della corona. In Italia la lotta scoppiò tra Berengario del Friuli e Guido II di Spoleto che si contendevano senza esclusione di colpi il regno d’Italia. Il papato, che in epoca carolingia era riuscito a mantenere il prestigio e a confermare sia l’aspirazione all’universalismo sia il primato di Roma come “capitale” della cristianità, intervenne fattivamente nel confuso quadro italico sostenendo ora l’uno, ora l’altro candidato. E non esitò a entrare in prima persona nella gestione degli affari temporali, fornendo, in ultima analisi, il destro a quanti andavano chiedendo a gran voce – Cluny in testa – una riforma profonda della Chiesa e delle sue istituzioni. L’“età ferrea del papato”, così come fu definito il periodo tra il IX e l’XI secolo, vide punte di imbarbarimento difficili da concepire. A farla da padrona era soprattutto l’aristocrazia romana, che suddivisa in varie fazioni violentemente ostili l’una all’altra, trattava il soglio di Pietro come una sua dépendance. Tresche, assassinii, incesti erano all’ordine del giorno, complici pontefici dalla scarsissima levatura e dall’infimo profilo morale. Protagonista assoluta di questa inqualificabile stagione fu la bella e spregiudicata Marozia (892-955). Incolta ma ambiziosissima, seppe utilizzare il suo aspetto per una vera e propria scalata al potere e per vent’anni tenne in mano le redini della Santa Sede disponendo dei papi a suo piacimento, sfruttandone la corruzione e le intemperanze sessuali. A quindici anni divenne la concubina di suo cugino, papa Sergio III, ed ebbe da lui (o dal marito Alberico, con cui nel frattempo si era sposata) un figlio, Giovanni. Dopo essersi sbarazzata di Sergio col veleno, e


dopo la morte di Alberico a Orte, sposò il marchese Guido di Toscana e iniziò a trescare per eliminare il suo principale oppositore, il nuovo papa Giovanni X. Nel dicembre 927 Marozia assaltò il Laterano e, a maggio dell’anno successivo, arrestò il pontefice rinchiudendolo in Castel Sant’Angelo (dove sarebbe morto, forse avvelenato o soffocato per suo ordine, pochi mesi dopo). A questo punto la nobildonna, signora assoluta di Roma, fece eleggere sul soglio pontificio due papi di suo gradimento – gli inetti Leone VI e Stefano VII – e, nel 931, addirittura il figlio che aveva avuto (forse) da Sergio, il ventenne Giovanni XI. Morto anche Guido, Marozia, assetata di potere, ne sposò il fratello Ugo di Provenza (che fu re d’Italia dal 926 al 947) imponendogli, per evitare l’incesto, di dichiarare che era figlio illegittimo. I megalomani piani della donna furono interrotti da Alberico II, il suo figlio minore, che fece arrestare Marozia e imprigionare il fratellastro Giovanni XI in Laterano. La “signora di Roma”, definita poco elegantemente dal contemporaneo vescovo Liutprando da Cremona «bella come una dea e focosa come una cagna», morì in convento nel 955. Lasciando la Santa Sede ridotta, moralmente parlando, a un cumulo di macerie fumanti. La “pornocrazia” di Marozia (e della madre Teodora, che pur nell’ombra resse fino alla morte i fili di tutte le operazioni) fu probabilmente il momento in cui il papato toccò il fondo. Ma pochi decenni prima, l’orlo del baratro era già stato raggiunto da papa Stefano VI o VII (la discrepanza di numerazione è dovuta al fatto che papa Stefano II morì nel 752 prima di essere consacrato e la questione se va considerato pontefice o no è oggetto di dibattito). Stefano (89697) sosteneva Lamberto di Spoleto. Arrivò al punto di far esumare il cadavere del suo predecessore Formoso (891-96), che aveva parteggiato per la fazione di Berengario di Ivrea, e, con una macabra messinscena, lo fece processare in San Giovanni in Laterano. Rivestita dei paramenti sacri, la salma fu posta sul trono e dovette rispondere all’accusa di aver usurpato, da vescovo di Portus (Fiumicino), il titolo di pontefice, con esso incompatibile. Il surreale “Sinodo del cadavere” (Sinodus horrenda) terminò inevitabilmente con la condanna di Formoso e l’invalidazione dei suoi atti. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Alla povera salma furono strappati di dosso i paramenti sacri e mozzate le tre dita della mano destra, quelle usate per le benedizioni. Il cadavere fu poi trascinato per le vie di Roma e gettato nel Tevere. Dopo tre giorni, il corpo fu ritrovato da un monaco sulla sponda del fiume nei pressi di Ostia e pietosamente ricomposto. La folla romana, ribellatasi al terribile sacrilegio, entrò in Laterano, catturò Stefano e lo rinchiuse in Castel Sant’Angelo. Pochi mesi dopo sarebbe stato trovato morto, strangolato, in cella.


Ansia di rinnovamento In mezzo a tutti questi eccessi c’era anche chi si scandalizzava e cercava di richiamare all’ordine, riportando l’attenzione sulla necessità di una Chiesa che tornasse alla purezza delle origini. Il campione di questo spirito fu il monaco Benedetto d’Aniane (750-821), uomo di fiducia dell’imperatore Ludovico il Pio e grande estimatore dell’ormai “classica” Regola compilata dal suo celebre omonimo vissuto tre secoli prima. Egli fece un lavoro imponente: andò alla ricerca di tutte le Regole monastiche esistenti – ne trovò ben ventisette! – , le raccolse e poi le confrontò con quella di san Benedetto da Norcia, arrivando alla conclusione che fosse quella la migliore. E proprio grazie all’appoggio di Ludovico, riuscì a imporre il monachesimo benedettino in tutta Europa. Proprio seguendo i suoi dettami, alcuni monasteri chiesero al papa l’esenzione dall’obbedienza a vescovi non proprio irreprensibili; alla prevedibile reazione risposero addirittura unendosi in “leghe” o federazioni compattate intorno a una “casa madre”. Il centro propulsore di questo profondo sentimento di rinnovamento fu l’abbazia di Cluny. Alla sua base c’è la volontà di un “privato”: il duca di Aquitania e Alvernia Guglielmo dona una villa – ossia un vasto latifondo – di sua proprietà situata in Borgogna a Bernone, già abate di Beaume e Gigny, per fondarvi un monastero. Sulla data c’è discordanza: 2 settembre 909 o 11 settembre 910. Ma l’importanza dell’atto non cambia: Cluny – questo il nome del luogo – già in questo documento veniva posta direttamente sotto la giurisdizione del papa e così sottratta ad altri possibili controlli, sia laici che ecclesiastici, fu messa nelle condizioni di avere le “mani libere” su molte questioni importanti. Ad esempio, pur aderendo alla Regola benedettina, i monaci di Cluny e delle abbazie affiliate ne davano un’interpretazione leggermente diversa, basata su un maggior interesse per la preghiera, la liturgia e l’attività intellettuale a discapito del lavoro manuale. Anche le prescrizioni sull’abbigliamento, sulla qualità e sulla quantità del cibo erano meno rigide. Grazie a figure di grandi abati come Bernone, Oddone, Maiolo, Aimaro e Odilone, l’ordine cluniacense si impose, nel giro di due secoli, non solo in Francia ma anche in Italia (con monasteri affiliati a Pontida, Farfa, Subiaco, San Benedetto in Polirone), in Germania e nel resto d’Europa. L’ordine cluniacense, nato da sangue nobile, conservò sempre (fino alla decadenza, che iniziò alla fine del XII secolo) una visione aristocratica del monachesimo, come dimostra


l’aspirazione dei suoi membri a far parte delle élite non solo religiose, ma anche culturali del tempo: fu proprio Cluny, tanto per fare un esempio, ad aprire le sue scuole anche ai non-monaci. E fu grazie a Cluny e alla monumentalità delle sue chiese abbaziali che potè nascere e diffondersi l’architettura romanica e successivamente gotica. Purtroppo il complesso è andato quasi del tutto distrutto dopo la rivoluzione francese – nel 1793 fu anche saccheggiata e dispersa la straordinaria biblioteca –, ma conosciamo la sua evoluzione architettonica grazie agli scavi archeologici. La chiesa madre fu costruita ben tre volte e la ultima – Cluny III – venne edificata a partire dal 1088 con un progetto colossale, che la rese la più grande d’Europa fino alla costruzione di San Pietro: cinque navate, lunghezza totale 187 metri, coro monumentale con deambulatorio e cappelle radiali, un doppio transetto e addirittura sette torri. Al finanziamento concorsero anche molti sovrani europei tra cui Ferdinando I di Castiglia e di León, il suo successore Alfonso VI e il re d’Inghilterra Enrico I. Ma proprio mentre questo sfarzo conquistava (sollevando le aspre critiche del ben più morigerato Bernardo di Chiaravalle) l’Europa, nell’Italia centromeridionale gli anni a cavallo del Mille vedevano il ritorno in massa degli eremiti. Rossano, San Michele e Serperi (fondate da san Nilo tra il 970 e il 1005), Camaldoli (san Romualdo, nel 1012), Vallombrosa (san Giovanni Gualberto, 1039)... I tempi, insomma, stavano di nuovo cambiando. E mentre anche il clero secolare tentava, imitando i monaci, di adottare con le canoniche l’ideale comunitario, in città gruppi di laici davano vita a movimenti di massa che chiedevano a gran voce la moralizzazione della Chiesa. Una Chiesa che, grazie anche alla sensibilità di alcuni pontefici, seppe far proprio questo spirito di riforma avviando, nella seconda metà dell’XI secolo, un’epoca di grandi scontri con l’altra massima autorità, l’impero, anch’essa in cerca di riscatto. Sempre in questo contesto nacquero, soprattutto in Francia, altri ordini religiosi che però si contrapponevano allo sfarzo di Cluny e ribadivano il ruolo di guida spirituale e non temporale del clero, riproponendo l’ideale di austerità proprio del monachesimo delle origini. Il centro propulsore di questa nuova ondata di fondazioni – spinte dal carisma di san Bernardo, abate di Clairvaux (Chiaravalle) – fu Cîteaux, la cui Regola, denominata Charta Charitatis, fu approvata nel 1119. A differenza della Regola benedettina adottata da Cluny, quella cistercense rimetteva il lavoro manuale al centro dell’ideale di perfezione monastica: ogni abbazia, indipendente dalle altre, divenne quindi un centro agricolo ed economico di primaria importanza, con i monaci impegnati in prima persona in grandi opere di dissodamento, disboscamento e costruzione di canali irrigui. Accanto a Cîteaux, videro la luce altri due ordini improntati al rigorismo: a Grenoble i certosini (dalla comunità detta Grande Chartreuse), fondati nel


1084 da Brunone di Colonia e approvati nel 1133, e i premostratensi, nati a Prémontré nei pressi di Soissons, la cui Regola fu approvata dal papa nel 1126. L’ansia di rinnovamento spirituale che attraversò quest’epoca si espresse anche tramite canali giudicati meno “ortodossi” e saldò le sue aspettative con quelle di una società in pieno fermento. È l’epoca delle grandi eresie: catari, patarini, valdesi, umiliati. Ma di questo aspetto trattiamo nel prossimo capitolo. Il bisogno di “nuovo” si fece sentire anche per quanto concerne le istituzioni, ma con una risposta del tutto diversa. Lo sforzo del papato, dopo il duro contenzioso che l’aveva opposto all’impero durante la lotta per le investiture (ne parliamo nel capitolo sul feudalesimo), fu quello di rendersi ancora più saldo. Ciò fu ottenuto con una serie di abili mosse. In primis, il rafforzamento della sua struttura, ormai sempre più vicina a quella di una monarchia teocratica, mediante una corposa burocrazia costituita da zelanti delegati, cancellieri e amministratori fiscali. Poi, la razionalizzazione del diritto canonico grazie alla raccolta, compilata intorno al 1140 dal monaco bolognese Graziano, degli atti e delle norme emanati dai concili nel Decretum che porta il suo nome. La base economica derivante delle donazioni spontanee e delle elemosine fu inoltre consolidata e resa più ampia grazie all’elaborazione di un vero e proprio sistema fiscale fondato sulle decime. In realtà, la decima – ossia la tassazione di un decimo del reddito a favore della Chiesa – era già stata istituzionalizzata in età carolingia. Ma in questo periodo divenne oggetto di privilegi concessi dai sovrani e di contese tra gli stessi enti ecclesiastici. Nel 1106 l’arcivescovo di Taranto ottenne da Boemondo d’Antiochia la decima parte di tutte le rendite fiscali del capoluogo della diocesi, mentre il vescovato di Patti esercitò il diritto alla decima statale di Termini Imerese che il re normanno Ruggero I, nel 1094, aveva concesso al monastero di San Bartolomeo di Lipari (nel 1130 il vescovo dovette cedere la metà dell’importo di questa decima all’arcivescovo di Palermo). Durante il regno di Federico II, fra i 145 vescovati del Mezzogiorno, almeno centosette beneficiarono della decima statale, percepita generalmente nei centri diocesani e nei loro dintorni, ma spesso anche in tutte le località appartenenti a un determinato vescovato, mentre le cappelle di corte percepirono parte delle decime pagate in varie località di diverse diocesi89. Il problema del ruolo delle decime era però dibattuto anche in seno alla Chiesa stessa. Anche perché gli abusi non erano infrequenti, soprattutto nel caso di vescovi che le cedevano ai laici. Il III Concilio lateranense (1179) stabilì chiaramente che i laici legittimamente in possesso delle decime non potevano trasferirle ad altri laici. L’obbligo di versarle era per tutti. Erano esenti solo gli ordini religiosi per quanto concerneva le nuove terre da loro dissodate (e relativi prodotti). I


pontefici successivi distinsero la decima in personale, da pagarsi alla parrocchia in cui si viveva, e prediale, da versare a quella dove si trovava l’appezzamento coltivato. Gli attriti tra autorità laiche ed ecclesiastiche sulle competenze in materia furono “risolte” ribadendo l’obbligo delle decime anche per chi avesse ottenuto una concessione da parte del sovrano. Tutto ciò concorreva, insieme ai congrui proventi dei benefici ecclesiastici, ad aumentare la ricchezza della Chiesa, il che attirò non poche critiche. E provocò la ripresa di fermenti spirituali che sfociarono nella costituzione di nuovi ordini religiosi. Questi ultimi fiorirono talmente numerosi da costringere la Santa Sede a proibirne in due riprese – nel 1215 e nel 1274 – la costituzione senza approvazione. La loro parola d’ordine era, non senza venature polemiche, la povertà. Nelle aree fiamminghe, ma anche in Italia e in Francia, nacque il beghinaggio, movimento costituito da donne laiche che vivevano in comune sostentandosi col lavoro, pregando e aiutando poveri e malati. Ma i migliori interpreti di questa nuova spiritualità, che coniugava l’idea di purezza evangelica con l’aspirazione ad assistere i bisognosi, furono i cosiddetti “ordini mendicanti”.


Gli ordini mendicanti A differenza degli ordini monastici tradizionali, i mendicanti non prevedevano l’obbligo della stanzialità, e anzi erano molto mobili: tra le loro missioni principali vi era infatti l’evangelizzazione, cercata dai frati non solo in Europa, ma anche in Oriente, in India, persino in Cina. Il centro della loro attività furono comunque le città, dove era più facile da un lato ottenere, grazie all’elemosina, i mezzi per sopravvivere, e dall’altro predicare, confessare e istruire i fedeli. Gli ordini mendicanti videro la luce tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo grazie all’operato di Francesco d’Assisi e di Domenico di Guzman, fondatori rispettivamente dei frati minori (o francescani) e dei predicatori (o domenicani), e furono riconosciuti da papa Onorio III nel 1223 e nel 1216. Non ripercorriamo in questa sede le vicende dei sue santi, che sono notissime. Ci limitiamo a ricordare che il loro impegno principale era costituito dalla predicazione e dalle opere caritative, il che provocò loro non pochi guai con il clero cittadino. Ma al di là dell’ostilità delle istituzioni, la loro esperienza richiamò moltissimi proseliti al punto che, già nella prima metà del Duecento, francescani e domenicani erano ormai diffusi in tutta Europa. A distinguerli era anche un’agguerrita formazione culturale. Necessaria per predicare il vangelo e convertire gli eretici. Dopo la morte dei fondatori, gli ordini conobbero però qualche momento di crisi. I francescani, in particolare, si divisero tra coloro che intendevano radicalizzare la scelta della povertà (e che furono perciò detti “spirituali”) e chi, meno rigorista, consentiva invece l’uso di beni per mantenere operativa la struttura dell’ordine (i “conventuali”). Tra le due fazioni, la Chiesa, timorosa di degenerazioni che avrebbero potuto sfociare nell’eresia, scelse di appoggiare i secondi: avviati all’ostracismo, gli spirituali si avviarono verso l’eterodossia con la nascita del movimento dei “fraticelli”, condannato da papa Giovanni XXII (1316-1334) con la costituzione Gloriosam Ecclesiam e repressi con l’ausilio dell’Inquisizione.

Chiara da Rimini, la donna apostolo Tra i tanti santi e asceti, mendicanti e flagellanti, umiliati e mistici che


videro la luce in quegli anni, ricordiamo in particolare la poco nota vicenda di santa Chiara da Rimini90 perché – rarissimo caso in campo femminile – predicava in Centro Italia spostandosi a piedi e a dorso di mulo: insomma, una “donna apostolo”. La sua vita – che ci è nota grazie a una leggenda in volgare – segue un cliché noto. Nata verso il 1260 da Chiarello di Piero di Zacheo, “patrizio” e proprietario di beni in città e nel contado di Rimini, era imparentata con l’antica famiglia dei Rossi. Appartiene quindi alla Rimini-bene, è ricca, bella, amante della vita e dei suoi agi, e soprattutto dei piaceri carnali. Rimasta orfana di madre a sette anni – ma il padre si risposa tre anni dopo –, va in moglie giovanissima al figlio della matrigna. Resta vedova prestissimo, ma nel giro di pochi anni perde anche la madrina, il padre e il fratello, questi ultimi decapitati durante le lotte tra la fazione guelfa e quella ghibellina (cui apparteneva la famiglia di Chiara), che porteranno alla vittoria dei primi, capeggiati dai Malatesta. A questo punto Chiara si risposa di sua iniziativa – cosa secondo l’agiografo scandalosa per quei tempi –, ma mentre un giorno si trova nella chiesa di San Francesco, a Rimini, riceve un primo avvertimento: per salvarsi occorre pentirsi e pensare solo alla preghiera. Poco tempo dopo, il secondo


avvertimento e la conversione definitiva: Chiara continua a vivere col marito, ma in castità, finché egli muore intorno al 1280. Chiara si reca allora a Urbino, dal fratello sopravvissuto, e inizia una vita di mortificazione e penitenza. Non prenderà mai gli ordini religiosi, ma tutta la sua esistenza da quel momento sarà impregnata di ideali francescani. Da Rimini ad Assisi, Chiara viaggia, si flagella, si pente, piange, urla e si dispera. Fuori di sé, in estasi, si infligge castighi terribili, pubblicamente, quasi inscenasse di nuovo e nella sua carne la Passione di Cristo. Cerca di spingersi sempre oltre, ai confini della sopportazione umana. Naturalmente, trova delle seguaci. E predica. Altrettanto naturalmente, non ha vita facile. C’è chi la giudica un’eretica (assimilandola, ad esempio, ai temutissimi fraticelli), chi una pazza. Ma qualcun altro la venera e la rispetta. Quando muore, un 10 febbraio tra il 1324 e il 1329, i francescani in qualche modo si appropriano di lei, anche se non fu mai né terziaria né clarissa. La sua leggenda comunque circolava già verso il 1330, anche se il suo culto subì alti e bassi per lungo tempo. Bisognerà attendere il 1751 perché, grazie alla miracolosa guarigione di una suora venuta per caso a contatto con un lembo della veste di Chiara sporgente dal suo sepolcro, la misteriosa santa di Rimini tornasse a godere di un po’ di attenzione.


Quando il papa ricusa La Chiesa nel Medioevo, e il papato in particolare, ebbero vita vivace e travagliata. I fatti sono troppo noti per essere ripercorsi in questa sede. Basti citare le lotte tra Santa Sede e impero durante la lunga questione delle per le investiture, il Grande Scisma (scoppiato per cause dottrinali e liturgiche) che alla metà dell’XI secolo segnò la fine dell’unità tra la Chiesa occidentale e quella orientale, la cattività avignonese. Chi sedeva di volta in volta sul Soglio di Pietro dovette destreggiarsi tra complotti, tensioni diplomatiche, questioni dottrinali, ribellioni interne, guerre, affronti memorabili (come il celebre e controverso “schiaffo di Anagni”, perpetrato secondo la leggenda da Sciarra Colonna ai danni di Bonifacio VIII). E non sempre si dimostrò – o si sentì – all’altezza della situazione. Così Celestino V, al secolo Pier del Morrone, prese una decisione coraggiosa che, ai tempi, suscitò notevole scalpore: quella di rinunciare al pontificato. Scelse di farlo nel dicembre 1294, a soli quattro mesi dalla consacrazione, come una vera e propria liberazione, perché era stato eletto contro voglia, ma anche perché vittima, probabilmente, di un raggiro politico. Era un uomo schivo e amante della solitudine che preferiva pregare e meditare al rivestire cariche in prima persona. Quando, nel suo eremo sulla Maiella, aveva ricevuto la notizia di essere stato scelto come successore di Niccolò IV, aveva rifiutato d’impulso, per poi accettare per puro senso del dovere ma con estrema riluttanza. Non amava la vita mondana e non voleva apparire. Si sentiva, nel profondo, un asceta ben più adatto alla vita contemplativa che all’azione. Aveva anche fondato una congregazione monastica rigorista che, affiliata ai benedettini, era stata riconosciuta dal papa. Fosse stato per lui avrebbe passato la vita nell’anonimato. L’unica volta che si era messo in gioco era stata quando la sua congregazione aveva rischiato di essere sciolta: allora si era recato a piedi a Lione, dov’era riunito il concilio che doveva deliberare in merito riuscendo a convincere i partecipanti della bontà dei suoi propositi. Probabilmente, si rendeva conto di non essere all’altezza della situazione. La sua storia è quella di un contadino nato in una famiglia numerosa del Molise che aveva sin da giovane abbracciato il convento, ma la sua cultura era a dir poco sommaria e aveva grosse difficoltà persino ad esprimersi in latino corretto. Inoltre, quando fu scelto, era già in là con gli anni (aveva superato da un pezzo gli ottanta) e non se la sentiva di prendere sulle sue spalle un compito enorme come quello. A ciò si aggiunge che si trovò a gestire una situazione politica estremamente complicata:


la fine della contesa tra angioini e aragonesi sulla Sicilia, lo scontro tra fazioni che vedeva protagoniste le più importanti famiglie romane, nuove inquietudini spirituali che spingevano a una maggiore moralizzazione della Chiesa. Era vecchio, senza esperienza e con scarsissima cultura giuridica. Era un uomo degno sul piano morale, ma totalmente inadatto su quello politico e gestionale. Quindi finì facile preda di uomini molto più scaltri di lui, a cominciare dal potentissimo cardinale Benedetto Caetani, il quale alimentò il suo già scarso entusiasmo spingendolo ad abbandonare l’incarico. Benedetto era un finissimo giurista e forse c’è la sua mano dietro la bolla che Celestino avrebbe emanato poco prima di dimettersi (ma l’originale non ci è giunto, quindi la sua autenticità è ancora controversa), in cui si contempla la possibilità da parte del papa di lasciare l’incarico per gravi motivi. Il 13 dicembre 1294 Celestino convocò un concistoro in cui, «spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza», lasciava il pontificato «con l’intenzione di recuperare con la consolazione della vita di prima la tranquillità perduta». Nemmeno due settimane dopo, il Caetani era eletto col nome di Bonifacio VIII. I contemporanei rimasero sconcertati dal gesto inedito. Anche se non è affatto certo, ad esempio, che «l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto» riconosciuta da Dante nel terzo canto dell’Inferno sia effettivamente quella di Celestino. Il sommo poeta non lo nomina, e anche se altrove se la prende apertamente con tanti papi giudicati indegni (anche lo stesso Bonifacio VIII, cui è riservato un posto, non appena morirà, tra i simoniaci in compagnia con Niccolò III e Clemente V), il suo altissimo senso dell’etica difficilmente poteva portarlo a condannare un uomo della levatura spirituale di Pietro. Per molti, anzi, Petrarca in primis, Celestino fu un modello di virtù, onestà e fulgore morale. E fu santificato nel 1313. Celestino non fu, però, il primo papa a lasciare il soglio pontificio. Prima di lui aveva abdicato, per ragioni e con modi molto meno nobili, Benedetto IX (1012-1055): voleva sposarsi e vendette la carica in cambio di una quantità cospicua d’oro a un prete, che salì sul trono di Pietro col nome di Gregorio VI. Prima ancora, Silverio (480 ca.-537) era stato costretto a rinunciare perché accusato (falsamente) di aver promesso al re dei goti Vitige che gli avrebbe aperto le porte della città di Roma, che i barbari stavano assediando. È invece controversa l’abdicazione, per scoramento e disillusione, da parte di Giovanni XVIII (morto nel 1009): la notizia, infatti, compare solo nelle cronache di Ottone di Frisinga e nella Historia Pontificum Romanorum e non è verificabile altrimenti. Nel Quattrocento, venne infine il caso di Gregorio XII. Terminato il settantennio avignonese – in cui la Chiesa si era trasferita in Francia finendo di fatto sotto tutela del monarca transalpino, ma sono fatti troppo noti per


soffermarvisi in questa sede –, la curia era finalmente rientrata a Roma. Alla morte di papa Gregorio XI, che del ritorno era stato l’artefice, si temeva l’elezione di un papa francese che avrebbe riportato il papa oltralpe. Il conclave elesse un papa napoletano, Bartolomeo Prignano, che salì sul soglio di Pietro col nome di Urbano VI, ma un gruppo di cardinali francesi dapprima cercò di invalidare l’elezione e poi scelse un altro papa, Clemente VII. Si era consumato uno scisma, una divisione, tra due fazioni opposte – romana e avignonese – che ebbe conseguenze gravissime: non solo i fedeli erano imbarazzati perché non sapevano quale fosse il legittimo pontefice, ma gli stessi sovrani europei si schierarono con l’una o l’altra a seconda della convenienza politica e delle ripicche personali. Morti i primi due papi contrapposti, lo scisma continuò con l’elezione dei successori e nel 1406 a capo della fazione “romana” fu scelto il cardinale veneziano Angelo Correr, che prese il nome di Gregorio XII. A Pisa, nel 1406, un concilio tentò di risolvere la situazione dichiarando deposti sia Gregorio che il suo rivale, Benedetto XIII, eleggendo un altro pontefice (Alessandro V), ma entrambi impugnarono la decisione e scatenarono il caos: la cristianità si trovò ad avere, addirittura, ben tre papi! Finalmente il Concilio di Costanza, che durò tre anni, ricompose lo scisma eleggendo un papa sopra alle parti, Martino V. Gregorio si sottomise alla volontà dei vescovi e dei cardinali e si dimise dopo aver ricevuto, però, la promessa che i cardinali che aveva nominato sarebbero rimasti tutti al loro posto. Sarebbe morto due anni dopo nel completo anonimato.

84 E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, vol. 4, cap. XXXVII: Conversion Of The Barbarians To Christianity. Part II, 1781, trad. mia. 85 Per il paragrafo, E. Percivaldi (a cura di), La navigazione di San Brandano, Il Cerchio, Rimini 2008, pp. 20-35. 86 Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, III, 18 e Teodoreto di Cirro, Historia ecclesiastica I, 9. 87 Per le citazioni di questo paragrafo si veda l’interessante Storia dell’Ordine cistercense pubblicata sul sito dei cistercensi: http://www.cistercensi.info/storia/storia17.htm 88 Ecco il testo. Lotario: «Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun saluament, d’ist di in auant, in quant Deus sauir et podir me dunat, si saluarai eo cist meon fradre Karlo, et in adiudha et in cadhuna cosa si cum om per dreit son fradra saluar dist, in o quid il mi altresi fazet. Et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai qui meon uol cist meon fradre Karle in damno sit» (“Per l’amore di Dio e per il popolo cristiano e per la nostra comune salvezza, da qui in avanti, in quanto Dio mi concede sapere e potere, così aiuterò io questo mio fratello Carlo e in aiuto e in qualunque cosa, così come è giusto, per diritto, che si aiuti il proprio fratello, a patto ch’egli faccia altrettanto nei miei confronti, e con Lotario non prenderò mai


alcun accordo che, per mia volontà, rechi danno a questo mio fratello Carlo”.) Carlo: «In Godes minna ind in thes christianes folches ind unsēr bēdhero gehaltnissī, fon thesemo dage frammordes, sō fram sō mir Got gewizci indi mahd furgibit, sō haldih thesan mīnan bruodher, sōso man mit rehtu sīnan bruodher scal, in thiu thaz er mig sō sama duo, indi mit Ludheren in nohheiniu thing ne gegango, the mīnan willon imo ce scadhen werdhēn». (“Per l’amore di Dio e del popolo cristiano e per la salvezza di entrambi, da oggi in poi, in quanto Dio mi concede sapere e potere, così aiuterò io questo mio fratello, così come è giusto, per diritto, che si aiuti il proprio fratello, a patto ch’egli faccia altrettanto nei miei confronti, e con Lotario non prenderò mai alcun accordo che, per mia volontà, possa recargli danno”.) 89 Federico II. Enciclopedia fridericiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, s.v. Decima. 90 J. Dalarun, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Laterza, Roma-Bari 2000.


12 Contro la Chiesa L’eresia Il cristianesimo stava ancora iniziando il suo percorso di diffusione quando la sua ortodossia – letteralmente, “retta dottrina” – fu messa in discussione. Poco dopo la sua nascita, infatti, molte correnti fornirono del nuovo culto una versione un po’ diversa, rivedendo o respingendo alcuni dogmi che ritenevano inaccettabili o eccessivi. Le ragioni di questa discordanza vanno ricercate nella stessa origine del cristianesimo, che derivava dall’ebraismo e nel vivace e multiculturale mondo greco e orientale subiva il confronto e l’influenza di correnti di pensiero anche molto diverse le une dalle altre. Queste sette – che, per quanto diffuse, rappresentarono comunque una minoranza – furono dichiarate eretiche, ossia eterodosse, “contro l’opinione comune”. E il termine stesso “eresia”, che in origine significava semplicemente “scelta, partito”, col tempo divenne sinonimo di dottrina falsa e pericolosa, da estirpare dunque prima che potesse attecchire diventando una pericolosa devianza. Sono ancora lontani i roghi inquisitoriali che avrebbero caratterizzato i secoli più tardi del Medioevo, ma la tendenza a condannare ciò che minava l’unità dell’ecclesia (l’assemblea dei fedeli) era già spiccata.


Fratelli coltelli Già il Nuovo Testamento, in particolare negli scritti di Giovanni e di Paolo, denunciava poco dopo la morte di Cristo la presenza di tendenze “giudaizzanti” da parte di fedeli poco inclini ad abbandonare pratiche tradizionali come quelle legate ai sacrifici durante le feste comandate o come l’osservanza del riposo il sabato. Un certo Cerinto, per non citare che uno di questi dissidenti, era convinto ad esempio che Dio avesse creato il mondo non direttamente ma per mezzo di un angelo: questa e altre dottrine, che vedevano gli angeli protagonisti assoluti sulla scena della Creazione ma non solo, erano condannate in quanto foriere, potenzialmente, dell’adorazione di “demoni”. Si trattava, quasi sempre in questi casi, di dottrine “di nicchia”. Molto più diffuse, invece, erano lo gnosticismo, il marcionismo, il montanismo, l’arianesimo e il donatismo, molti dei quali di stampo decisamente teologico. Lo gnosticismo (da gnosi, “conoscenza”), diviso in varie sette, proclamava la detenzione da parte degli aderenti di una particolare forma di sapienza, superiore a quella dei “comuni mortali”. Partendo dal presupposto che il Dio dell’Antico Testamento non è il vero Dio ma soltanto un creatore e un legislatore, colui cioè che materialmente fece il mondo e diede a esso le Tavole della Legge, questa dottrina vede contrapposti in maniera dualistica e rigida la sostanza perfetta e increata del primo con la materia rappresentata dal creato. L’armonia è spezzata dal peccato originale; da quel momento in poi l’uomo si suddivide, a seconda della misura in cui partecipa del plèroma (ossia del “principio divino”) in varie categorie: gli gnostici – liberi e redenti –, gli psichici – redenti dalla venuta di Cristo – e gli ilici, la grande massa obnubilata dalla materia. E poiché la materia coincide col male e con la carne, è necessario lottare contro di essa tramite l’ascesi. Questo impianto teorico è molto simile a quello di un’altra dottrina molto popolare nella Persia del III secolo – e poi diffusasi ampiamente in tutto l’Oriente e nell’impero romano fino a contare fra i propri adepti nientemeno che il giovane e futuro sant’Agostino! –, il manicheismo. Il suo fondatore, Mani, sosteneva la divisione rigida del cosmo in due princìpi, il Bene e il Male. L’uomo, connaturato dalla materia, dalla carne e dal peccato, può liberarsi solo tramite rigide pratiche ascetiche. Anche il marcionismo, che prende il nome da Marcione, vissuto nel II secolo, pur contrapponendosi allo gnosticismo ne condivideva l’impianto dualistico e la necessità di un’etica rigorosa: la sua predicazione conobbe un grande successo


soprattutto in Oriente, al punto che la chiesa marcionita si separò da quella ortodossa suscitando le proteste di molti teologi come Tertulliano (155-230). E sempre l’Oriente, più precisamente in Asia minore, fu il crogiolo della predicazione “millenarista” del teologo e “profeta” Montano: convinto che la fine dei giorni fosse prossima, invitava all’ascesi e, cadendo in estasi, sosteneva di parlare per conto dello Spirito Santo. L’impianto ascetico era condiviso anche dalle dottrine diffuse dal britanno Pelasgio (354-427), il quale arrivò a sostenere che l’uomo, dotato di libero arbitrio, aveva piena responsabilità del proprio destino e che il peccato risiedeva nei singoli atti e pertanto non era ereditario ma poteva essere redento tramite opere buone. L’arianesimo, predicato da un prete di origine alessandrina di nome Ario, aveva invece elaborato una concezione tutta particolare della Trinità portando alle estreme conseguenze alcune riflessioni fatte dal grande teologo Origene (185-254). Secondo lui, essendo Dio un principio unico, indivisibile e non generato, non poteva essere uguale a nessun’altra delle persone della Trinità. Non potendo Cristo partecipare della sua stessa sostanza, ne risultava che non fosse in possesso di una natura divina, ma soltanto “finita”, proprio come gli uomini. Al contrario ad esempio di quanto predicava il docetismo (dal greco dokein, “sembrare”), che rifiutava il concetto che Gesù avesse avuto un “corpo”, l’arianesimo considerava il Messia dotato di un carisma di certo eccezionale, ma pur sempre uomo. Meno teologico e più “pratico” era invece il donatismo. I seguaci dell’oscuro predicatore Donato (270 ca.-?) avevano notato che, durante la grande persecuzione di Diocleziano, non solo vi era stato chi, tra le persone ordinarie, aveva ceduto e aveva sacrificato agli dèi pagani (i lapsi, letteralmente “caduti”), ma addirittura tra i vescovi qualcuno aveva dato ai magistrati romani i libri sacri, profanandoli. Costoro, insomma, avevano compiuto una traditio, cioè una consegna, di un oggetto sacro e quindi, bollati come traditores (traditori), non erano più ritenuti degni di amministrare i sacramenti. Di più. Questi ultimi non sarebbero comunque risultati validi. Una posizione oltranzista che negava il dogma dei sacramenti, efficaci di per sé, validi a prescindere dalla dignità di chi li amministrava. Pur duramente condannato, il donatismo si diffuse a macchia d’olio in Africa e fece proseliti soprattutto tra i ceti popolari e gli schiavi, che vedevano in esso un’occasione di riscatto o addirittura di rivolta sociale. Il che permette di intravedere sullo sfondo un altro motivo, oltre a quello dottrinale, per cui le eresie erano considerate un pericolo: potevano essere potenzialmente sovversive. Anche e soprattutto per lo Stato.


Il Concilio di Nicea Nei primi secoli della sua esistenza in effetti il cristianesimo dovette vedersela, oltre che con il settarismo interno, anche con il grande nemico esterno, l’impero, che a più riprese perseguitò – anche se più che altro per ragioni politiche – le prime comunità non ancora organizzate. Perché? Semplice. I cristiani venivano considerati una minaccia per l’impero in quanto si rifiutavano di sacrificare agli dèi della religione romana “ufficiale”, cosa che si riteneva assolutamente indispensabile per ottenere la protezione divina. Eventuali inadempienze pregiudicavano la loro benevolenza e rompevano la “pace degli dèi” (pax deorum), con conseguente esposizione a catastrofi, disordini e sventure senza fine. Tutto sommato, i romani avevano sempre ben tollerato i culti di altri popoli e anzi tendevano ad assimilarli con i propri: bastava che non fossero in contrasto con questo semplice dettame. Per questo anche i cristiani dovevano piegarsi al paganesimo, la religione di Stato, le cui pratiche di culto erano dettate dalla legge. Chi non adempieva ai culti prescritti turbava l’ordine pubblico, comprometteva il favore degli dèi e, in ultima analisi, metteva in discussione i fondamenti stessi dell’autorità imperiale. E questo perché ogni imperatore era anche pontifex maximus, “pontefice massimo”, e in quanto primo dei sacerdoti deteneva il potere e l’autorità su tutti gli aspetti della vita pubblica, anche quello religioso. Non sorprende dunque che i cristiani, per la loro attività inizialmente semiclandestina – per evitare di dare nell’occhio si riunivano in case private –, fossero accusati di praticare le peggiori nefandezze: persino gli intellettuali, come il filosofo platonico Celso o il retore Marco Cornelio Frontone (100-166), precettore di Marco Aurelio, li tacciavano apertamente di infanticidio e incesto. In particolare, era la celebrazione eucaristica a non essere compresa e quindi male interpretata: uno dei crimini che venivano rinfacciati più spesso, come denunciano gli apologeti Minucio Felice (m. 260) e il già citato Tertulliano, era il cannibalismo. A esso si accompagnavano le accuse di adorare una divinità crocefissa dalla testa d’asino, di riunirsi nelle catacombe avendo malsani contatti con i morti, di darsi a turpi accoppiamenti protetti dal favore delle tenebre. Alle arringhe dei fustigatori di turno, che non lesinavano nemmeno di attribuire loro la responsabilità di carestie ed epidemie, facevano seguito linciaggi e massacri spontanei da parte della popolazione (come a Lione, nel


177). Cosicché i martiri si contarono in breve a decine. Tanto più che spesso l’ordine di estirpare questi “empi idolatri” proveniva direttamente da Roma: così Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino il Trace, e soprattutto Decio, Valeriano e Diocleziano. Le persecuzioni terminarono nel 313 quando Costantino, insieme al suo collega Licinio, emanò a Milano il celebre Editto di tolleranza – in verità ripreso da un documento dettato due anni prima sul letto di morte dal suo predecessore Galerio – con cui riconobbe finalmente al cristianesimo, fino a quel momento fuorilegge, lo status di religione lecita, equiparandola alle altre professate nell’impero. Da allora in poi l’imperatore prese però a considerare la Chiesa un affare di Stato, al punto da correre il rischio di ridurla, in certi casi, a una sua mera propaggine. Sulla questione delle eresie, ad esempio, Costantino intervenne in prima persona sia contro i donatisti in Africa, sia contro gli ariani. Contro questi ultimi, nel 325, si fece promotore di un concilio ecumenico, da lui stesso convocato a Nicea, per dare una definizione del Divino, risolvere il problema della consustanzialità del Figlio col Padre, stabilire il calcolo della Pasqua e definire altre questioni di carattere dottrinale. Problematiche che sollevavano vespai di polemiche. Il clima con cui il 20 maggio iniziarono i lavori – ospitati, e non è un caso, nel palazzo imperiale – era dunque di grande tensione. Costantino aveva invitato tutti i 1800 vescovi della Chiesa cristiana (circa 1000 in Oriente e 800 in Occidente), ma a partecipare – e qui le fonti dell’epoca sono discordi – furono più o meno 300, la maggioranza dei quali provenivano dal Levante. Ad aprire il consiglio fu lo stesso Costantino, il quale si proclamò orgogliosamente “vescovo di quelli di fuori”, ossia – potremmo intendere – guida cristiana dei laici. Le dispute furono feroci. Lo stesso Ario e il suo seguace Eusebio di Nicomedia erano presenti a sostenere le loro idee, ma la maggioranza dei vescovi le considerò eretiche. Per farsi un’idea di quanto il clima fosse incandescente, basti pensare che a un certo punto il vescovo Nicola di Mira (più conosciuto come Nicola di Bari) prese lo stesso Ario a schiaffi. Il concilio terminò con la dichiarazione della consustanzialità del Padre e del Figlio e dunque la condanna delle tesi ariane. Il risultato fu l’elaborazione di un Simbolo (o Credo) che stabiliva una volta per tutte la natura della Trinità e delle sue tre Persone. Tale formula, ripresa e ritoccata nel 381 a Costantinopoli, è quella che si recita ancora oggi durante le celebrazioni liturgiche. Tuttavia, almeno per quanto riguarda l’arianesimo, non fu certo risolutivo: la dottrina di Ario fece presa sulle popolazioni germaniche. Nel 332 i goti, quando furono sconfitti e pacificati, si convertirono all’arianesimo ascoltando la predicazione del vescovo Ulfilas, il quale tradusse il Nuovo Testamento e parte dell’Antico


nella lingua gota, inventando allo scopo un alfabeto che ne traslitterasse i suoni, visto che fino ad allora, a parte le rune, i germani non utilizzavano altre forme di scrittura. Dai goti l’arianesimo fu trasmesso ad altre genti germaniche e si sarebbe diffuso insieme a loro durante l’età delle migrazioni, finendo per attecchire anche in buona parte dell’Italia, prima portatovi dai goti stessi, e in seguito dai longobardi.


Tregua armata Subito dopo la nascita del cristianesimo, quindi, e di pari passo con la sua diffusione, molte correnti fornirono della nuova religione una versione diversa. Combattute duramente dai teologi “ortodossi”, queste teorie conobbero grande successo sul medio periodo, ma non riuscirono a imporsi come verità alternative e finirono per esaurirsi – con l’eccezione appunto dell’arianesimo – nel giro di poche generazioni, per lo più con la morte dei loro fondatori e primi adepti. Sebbene ancora intorno al Mille, soprattutto nelle zone più periferiche dell’Europa ma anche nelle valli e nelle campagne, pratiche pagane continuassero tranquillamente a sopravvivere. Parecchie campagne militari si erano rese necessarie a Carlo Magno per sottomettere i sassoni nel Nord della Germania e stroncare la religione odinista da loro professata dalla notte dei tempi. Se l’abbattimento – come abbiamo visto – dell’albero sacro d’Irminsul, il “grande pilastro” che collegava il Cielo alla Terra, aveva segnato l’inizio della lunga e sanguinosissima guerra – conclusa con la conversione forzata dei capi tra cui il celebre Widukind –, l’utilizzo del suo legno per confezionare, più tardi, un grande candelabro (oggi nella cattedrale di Hildesheim) aveva simboleggiato in maniera plastica la fine – violenta – di un’epoca. Lo stesso era accaduto con gli avari dell’area pannonica, conquistati, convertiti e massacrati. Alla regressione del paganesimo era corrisposta la scomparsa quasi totale delle eresie, ormai confinate ai margini dell’area di influenza carolingia, al di fuori dei confini del Sacro Romano Impero. Intorno all’anno Mille, però, tornarono a farsi sentire voci di dissidenza sempre più insistenti. In generale, si può dire che fossero legate più che altro a interpretazioni più o meno letterali e originali delle Scritture. Alcune di esse risentivano della predicazione millenaristica che si diffuse – anche se in maniera nel complesso scarsa e sporadica – intorno all’anno Mille appunto, e che aveva come base propagandistica l’attesa fine del mondo, ritenuta assai prossima. Quanto tali teorie poco fossero comprese da parte della Chiesa è dimostrato dal fatto che chi le professava era definito, in maniera generica e senza distinzioni, “manicheo”. Con il XII secolo le eresie ripresero invece in maniera massiccia e vigorosa diffondendosi a macchia d’olio. La grande differenza rispetto a quelle del primo cristianesimo era che, mentre le antiche confutavano l’ortodossia sul piano dogmatico e dottrinale, le nuove si limitavano a criticare in maniera virulenta la


società corrotta del loro tempo e la mancanza di moralità della Chiesa. Ma un atteggiamento tanto duro era poi giustificato? Stando alle fonti, certamente sì. Il periodo storico in effetti era piuttosto travagliato. Da secoli ormai impero e papato, le due massime autorità del mondo cristiano, interagivano tra loro in modo sempre più stretto, occupandosi l’uno delle faccende spirituali (nominando vescovi e abati), e l’altro di quelle temporali (incoronando imperatori e intervenendo negli affari di Stato). Questa continua confusione di ruoli aveva favorito la proliferazione nel clero della corruzione e di vario malcostume, come la pratica della simonia (cioè la compravendita di cariche religiose), del nepotismo e del concubinato. La situazione nel X e XI secolo era ormai degenerata al punto tale che la tensione tra impero e papato su quale delle due autorità dovesse prevalere nella cosiddetta “lotta per le investiture” aveva in pratica spaccato in due la cristianità: da una parte i fautori del diritto imperiale a controllare il clero, dall’altra i sostenitori della derivazione del potere temporale dell’imperatore da Dio tramite il papa, che in qualità di suo vicario in Terra era superiore a qualunque potere secolare e doveva dunque detenere su di esso la primazia. Chiuso nel 1122 a Worms il contenzioso in sostanziale parità, il clero – soprattutto quello formato dai vescovi e dagli abati – aveva però continuato a impegnarsi in prima persona nel mondano, ricevendo cariche e beni temporali, ordendo trame politiche e mirando più alle prebende che alla cura delle anime. La conseguenza logica di tale approccio fu un ulteriore scadimento dei costumi, che suscitò da più parti l’esigenza di una seria riforma morale. Già nella seconda metà del Mille persino un pontefice, Gregorio VII, aveva provato a risanare la situazione, ma con risultati tutto sommato scarsi. Non stupisce dunque che nascessero direttamente nella società civile forti movimenti di rottura con la gerarchia ecclesiastica, la cui natura a tratti rivoluzionaria e sovversiva costrinse la stessa Chiesa, che pure inizialmente li aveva guardati con simpatia o perlomeno non li aveva osteggiati con la forza, a reagire usando la violenza. In quei decenni il continente – e soprattutto il Sud della Francia e il Nord dell’Italia – stava inoltre vivendo un momento di straordinaria espansione economica: riprendevano dopo secoli di relativa difficoltà i traffici commerciali, nascevano nuovi ceti sociali che proprio da questi traffici traevano ricchezza e sostentamento, stavano lentamente sorgendo i comuni, espressione di una società che conosceva per la prima volta una forte mobilità interna. Proprio da questi ceti si fece sentire sempre più forte la richiesta di una religiosità più vicina alla purezza originaria e meno legata alle gerarchie ecclesiastiche e al dogmatismo. Molte voci di protesta si alzarono, ad esempio, dalla Lombardia, che all’epoca comprendeva gran parte dell’Italia del Nord un tempo occupata dai


longobardi (da cui appunto traeva il nome). La regione formalmente apparteneva all’impero, ma il sovrano, che era anche re di Germania, era spesso assente perché impegnato oltralpe a mantenere saldo il suo potere, messo continuamente in discussione dai feudatari ribelli. Nella Pianura Padana, lentamente, le tante città di antica origine – che non avevano perso la loro importanza nemmeno dopo il tracollo del mondo antico e durante i secoli difficili del primo Medioevo – sfruttarono la sua assenza per erodere progressivamente alla corona molti dei poteri che essa, di diritto, avrebbe dovuto esercitare: battere moneta, costruire mura e strade, riscuotere le tasse. Le comunità avevano inoltre preso a scegliere i propri rappresentanti al governo. Con lo sviluppo dei traffici commerciali, dopo il Mille, grazie alla forte espansione demografica ed economica si era innescato il processo che avrebbe visto la nascita dei comuni. Tale processo ebbe particolare rilievo a Milano, la città più vitale e grande, che ne divenne in breve – nel bene e nel male – il centro gravitazionale. Anche perché la Chiesa milanese aveva sempre goduto, sin dai tempi di sant’Ambrogio (IV secolo) e proprio grazie alla grande personalità del vescovo, di relativa autonomia rispetto a Roma. Diverso il calendario, diverse le liturgie, diverso anche il rito nella celebrazione delle funzioni religiose. E appunto la lezione di Ambrogio, grande difensore dell’ortodossia e del primato dell’autorità morale e religiosa su quella civile, spinse i milanesi a reagire con forza quando lo spirito del clero rischiava di allontanarsi da quello originario, cadendo nel lassismo e perdendo il necessario rigore. Fu ciò che avvenne nel corso dell’XI secolo, quando Milano e la Lombardia videro accompagnarsi alla nascita e alla diffusione dei comuni vasti movimenti di protesta contro la corruzione del clero.

I patarini, straccioni (?) milanesi I patarini ad esempio chiedevano una riforma dei costumi che si richiamasse ai valori del cristianesimo primitivo: la povertà, l’umiltà e la semplicità contro la scarsa moralità e l’eccessiva interferenza del clero negli affari mondani. Forse il nome, come suggeriva nel Settecento l’erudito Ludovico Antonio Muratori, deriva dal milanese patei, “stracci”, a rimarcare


l’ostentato pauperismo dei suoi adepti. Ma secondo altri, come il cronista Arnolfo, cercando un’etimologia più colta ma forse proprio per questo meno verosimile, erano dei “patetici”, dal greco pathos, “agitazione”, quindi meri agitatori di popolo. Comunque sia, seppero catalizzare l’attenzione e l’adesione non solo del popolo minuto, ma anche di personaggi eminenti nel panorama cittadino, come il monaco Landolfo Cotta e suo fratello Erlembaldo (un nobile che era stato anche pellegrino in Terrasanta), un certo Nazario detto monetarius, cioè “zecchiere” e, più tardi, persino Anselmo da Baggio, il futuro papa Alessandro II. Animatore e simbolo-guida era però Arialdo da Carimate, monaco e soldato nato a Cuggiago (Como) intorno al 1010. Il loro nemico principale era l’arcivescovo Guido da Velate, salito sulla cattedra di Ambrogio nel 1045: pur non essendo molto autoritario, era però un uomo corrotto e si era creato un largo seguito all’interno della diocesi per la grande “libertà” (in tutti i sensi!) che lasciava ai religiosi. Non stupisce che durante il suo episcopato si fossero diffusi a macchia d’olio il concubinato (che contravveniva all’obbligo del celibato ecclesiastico e della castità) e la simonia. Guido, ostile a ogni tentativo di riforma, cercò di stroncare sul nascere le velleità dei patarini scomunicandoli immediatamente. Papa Niccolò II, che aveva bisogno di appoggi contro l’imperatore, intervenne invece al loro fianco mandando come legati a Milano il teologo Pier Damiani e il vescovo di Lucca Anselmo da Baggio, che li assolsero dalla scomunica e costrinsero Guido e il clero milanese a fare atto di rinuncia alla simonia e al concubinato. Era la dichiarazione di guerra. La svolta avvenne nel 1061 quando, morto Niccolò II, il potente cardinale Ildebrando di Soana fece eleggere Anselmo da Baggio, filopatarino, che divenne papa col nome di Alessandro II. Gli imperiali riconobbero invece come pontefice


legittimo il vescovo di Parma, Cadalo, col nome di Onorio II. Alessandro II, aiutato da Arialdo che lo aveva raggiunto a Roma, appoggiò subito i patarini milanesi scomunicando Guido da Velate. L’arcivescovo fu però così abile ad approfittare dell’assenza del capo dei patarini da riuscire a sollevare tumulti in città. La tattica di Guido era quella di far credere ai milanesi che l’opposizione alle riforme fosse necessaria per contrastare la volontà del papa di soffocare l’autonomia della chiesa ambrosiana. In realtà Guido e i preti suoi seguaci intendevano solo salvaguardare la propria posizione e continuare indisturbati a praticare simonia e concubinato. Il popolo, tuttavia, sulle prime abboccò e Arialdo fu costretto a fuggire durante i tumulti. Poco dopo fu riconosciuto a Legnano da un frate filoimperiale e portato in catene ad Angera, feudo di una nipote dello stesso Guido. Qui Arialdo fu torturato e ucciso in occasione della Pentecoste del 1066: dopo aver subìto il taglio delle orecchie, del naso, del labbro superiore, della lingua e delle mani, i suoi aguzzini lo accecarono e lo evirarono. Il suo cadavere fu gettato nel lago Maggiore, ripescato e infine seppellito sull’isola più grande. La terribile morte di Arialdo fece nascere sul suo conto molte leggende: considerato da alcuni un santo che aveva subìto il martirio, da altri un demonio giustiziato in nome del Signore, quando un anno dopo un pescatore scorse una luce sull’isola in prossimità del sepolcro, alcuni gridarono al miracolo, altri al sortilegio. Prevalse la seconda opinione: i miseri resti furono riesumati, fatti a pezzi e bruciati in modo da non poter più nuocere né creare turbamenti di coscienza. Ma i patarini lombardi, alla guida dei quali si era posto nel frattempo Erlembaldo, non si persero d’animo. Il nuovo capo, nominato da Alessandro II “difensore della Chiesa”, ricevette dal papa il vessillo di San Pietro e fu incaricato di continuare la lotta. Per prima cosa, si rese giustizia al martire. Con grande foga Erlembaldo convinse i milanesi a recuperare i resti di Arialdo e a riportarli in città: alla vista di quelle poche ossa smembrate e carbonizzate, aizzata da un bruciante sermone del capo patarino, la popolazione insorse e costrinse Guido a fuggire. Le condanne e le nomine che aveva ordinato furono annullate dal papa e l’ex arcivescovo fu costretto a sottomettersi. Rinunciò a Milano solo nel 1071, quando riuscì con l’appoggio del nuovo imperatore Enrico IV a far salire al soglio ambrosiano un suo seguace, Gotofredo da Castiglione. I patarini gli contrapposero Attone, subito riconosciuto dal papa che annullò così di fatto il diritto all’investitura ecclesiastica da parte dell’imperatore. Enrico, punto sul vivo nel cuore del problema (il diritto all’investitura) reagì subito, ed Erlembaldo fu assassinato insieme ad altri capi patarini. Il papa scomunicò Gotofredo, che fu cacciato a furor di popolo da Milano nel 1075. Nel frattempo, morto Alessandro II nel 1073, gli era succeduto proprio il


filopatarino Ildebrando di Soana col nome di Gregorio VII. Uomo dalla tempra inesauribile e convinto assertore della supremazia dell’autorità papale su quella imperiale, non aveva alcuna intenzione di ritirarsi dalla lotta contro Enrico IV. Per rendere chiare a tutti le sue intenzioni, canonizzò subito Arialdo ed Erlembaldo. Vista la mala parata, il giovane imperatore dichiarò il papa deposto e ricevette in cambio la scomunica; i rappresentanti delle due autorità massime della cristianità si rappacificarono per un attimo a Canossa, ma solo per ricominciare la lotta poco dopo e più duramente. Gregorio VII ed Enrico IV si scontrarono di nuovo e, almeno sul piano dell’immagine, a spuntarla fu sempre il papa. Mentre Enrico lo assediava a Roma, Gregorio fu costretto a chiedere aiuto al re normanno Roberto il Guiscardo, che sconfisse gli imperiali, saccheggiò la città e portò via il vecchio papa, che poco dopo morì di crepacuore. La “questione delle investiture” avrebbe avuto termine solo nel 1122 a Worms, grazie a un accordo tra Callisto II ed Enrico V nel quale si stabiliva che l’investitura temporale (tranne che nello Stato della Chiesa) spettava all’imperatore e quella spirituale al pontefice. Dopo la morte dei suoi capi carismatici e, soprattutto, di papa Gregorio VII (1085), il movimento dei patarini conobbe una lenta ma inesorabile decadenza. Furono fatti passare definitivamente per eretici e accusati di negare ogni valore ai sacramenti e di promuovere un cristianesimo interiorizzato al punto da non riconoscere le istituzioni ecclesiastiche. Non stupisce dunque la condanna da parte di papa Lucio III a Verona nel 1184 (con la decretale Ad abolendam) insieme a numerose altre sette eterodosse. Un timido ritorno dei patarini ci fu durante l’episcopato di Leone da Perego (1241-1257), un francescano già inquisitore sotto il terribile podestà Oldrado da Tresseno, ma la loro azione fu sconfitta. Un personaggio dalla fama trista e amante dei roghi, questo Oldrado: ricorda un’epigrafe ancora oggi visibile sul Palazzo della Ragione a Milano, che «Catharos ut debuit uxit» (“bruciò, come doveva, i catari”).

L’eresia che viene dall’Est A proposito di catari, prima di ascoltare ciò che predicavano occorre fare un passo indietro per recarsi nell’Est europeo, e più precisamente nell’area balcanica, dove in un’epoca imprecisata ma sicuramente prima del Mille fiorì una setta che aveva molto in comune con le teorie predicate secoli prima dai seguaci di Mani. La


predicate secoli prima dai seguaci di Mani. La coincidenza non era dovuta al caso: nel corso del tempo, vari imperatori bizantini avevano trasferito nei territori che oggi appartengono alla Bulgaria e alla Macedonia gruppi di popolazioni prima stanziate in Asia minore, e molto probabilmente insieme alle persone qui trovarono terreno fertile anche le loro idee. L’ideologo di queste genti era un certo Bogomil, forse un prete, il quale sosteneva che Dio aveva avuto due figli, Michele e Satanael (che per gli ebrei era un angelo che riferiva a Yahweh i peccati degli uomini). Quest’ultimo era il primogenito, ma si ribellò plasmando gli esseri umani dalla materia: così facendo li condannò a essere schiavi della materia stessa, e quindi del Male, fino alla redenzione operata dal fratello, incarnatosi in Cristo per sconfiggerlo. Una volta compiuta la missione, Satanael fu deprivato della parte finale del nome, il suffiso “-el”, che indicava la vicinanza a Dio, e precipitato negli inferi. A causa della loro visione del mondo improntata a un rigido dualismo, i bogomili praticavano l’ascesi, rifiutavano il sacramento dell’eucarestia e distruggevano le immagini sacre, considerando una profanazione il voler rappresentare Dio. Si diventava fedeli con un semplice cerimoniale di iniziazione: all’aspirante adepto era dapprima posto sulla testa il vangelo di Giovanni; dopo un periodo di ritiro spirituale, egli riceveva infine nuovamente il vangelo e con esso il battesimo, infuso non tramite l’acqua – considerata satanica – ma con l’invocazione dello Spirito Santo. Da quel momento egli doveva dedicarsi all’ascetismo e rinunciare a ogni contatto con la carne (in senso letterale e lato, ovvero non poteva cibarsene né avere rapporti sessuali).


I bogomili non avevano una Chiesa strutturata, anzi non riconoscevano alcuna legittimità all’organizzazione ecclesiastica “ortodossa”. Ai teologi del tempo, ma soprattutto ai sovrani, non dovette sfuggire la loro carica eversiva, se è vero che agli inizi del XII secolo l’imperatore bizantino Alessio I Comneno catturò e fece giustiziare Basilio, il loro capo carismatico. Ma pur decapitata, la setta proliferò nei Balcani dove, complici la ripresa dei traffici commerciali e gli incontri-scontri tra Oriente e Occidente durante le crociate, tornò a esercitare la sua influenza “passando” ad altri la propria visione del mondo. Primi fra tutti ai catari.


La purezza dei catari Boni christiani, “buoni cristiani”, si definivano appunto i catari, membri di una delle sette più importanti e numericamente presenti del Medioevo europeo e italiano. Su di loro la storia ha gettato un alone di mistero e ancora oggi le loro vicende affascinano al punto da ispirare saghe e romanzi. Anche perché tra tutti gli “eretici” furono quelli perseguitati con maggiore acrimonia, al punto che contro di loro la Chiesa arrivò a scatenare una vera e propria crociata, che si concluse in un bagno di sangue. Perché tanto accanimento? Certamente si trattava di un’eresia molto radicata e dai toni tutt’altro che moderati. Ma la loro “colpa” maggiore fu l’eccessivo zelo nella ricerca della purezza e di una nuova spiritualità, lontana dalle sirene mondane e dagli apparati di potere, con cui essi non volevano avere nulla a che fare. Il loro modello di società, infatti, era completamente diverso da quello – di cui si parlava più sopra – diffuso nell’Europa nel XII secolo anche se, a dire il vero, di tale società anche essi erano figli. Tanto più che il problema della moralità, nonostante i vari interventi papali, non era ancora risolto. Ecco allora comparire i catari: una nuova setta che faceva proprio del pauperismo e del rigore morale le proprie parole d’ordine. Come le altre, ma con una differenza: si poneva non dentro il sistema vigente, ma fuori di esso. E senza possibilità di contatto alcuno. Come i bogomili e i manichei, i catari credevano che il mondo fosse retto secondo un principio dualistico: da una parte il Bene, dall’altra il Male. Il Bene era identificato con lo spirito, il Male con la carne. Di conseguenza, intendevano vivere secondo la purezza originaria, rinunciando alla carne e distaccandosi dai piaceri terreni per guadagnare la perfetta conoscenza della Verità. Il nome con il quale sono noti, secondo i più, deriverebbe dal greco cataros, cioè “puri”, ma essi si autodefinirono sempre boni christiani. I detrattori, invece, proponevano un’etimologia più prosaica: da catus (“gatto”), convinti che adorassero il diavolo sotto le sembianze di un gatto. La loro organizzazione era strutturata secondo un modello gerarchico: sul gradino più alto stavano i “perfetti”, ossia coloro i quali avevano raggiunto la conoscenza. Negli strati inferiori si trovavano gli altri adepti, che venivano progressivamente “iniziati” alla stessa conoscenza e tramite una rigida ascesi aiutati a liberarsi dei piaceri terreni e a raggiungere la perfezione dello spirito. Per ottenerla dovevano rinunciare a qualsiasi contatto di natura sessuale e a qualsiasi cibo che avesse in qualunque modo a che fare con la


procreazione, cioè la carne, le uova, il formaggio, il latte. Nulla che potesse rapportarli al mondo terreno e quindi sporcarli con il peccato. Nel loro isolazionismo i catari diedero vita a una vera e propria Chiesa alternativa a quella cattolica romana, con i suoi vescovi e la sua organizzazione territoriale. Ma a differenza della chiesa “tradizionale”, quelle catare non possedevano beni e quindi non avevano alcun peso politico. Intorno ai boni homines si muoveva una società in fermento, che si riconosceva nel loro messaggio e, pur non facendo parte della setta, si limitava a solidarizzare con essa eleggendola a punto di riferimento. È il caso della Linguadoca, una terra florida di commerci dove erano simpatizzanti catari quasi tutti i membri dell’aristocrazia e la maggior parte della società che contava, e che possedeva terre e ricchezze che facevano gola a molti, primo fra tutti al re di Francia. Fu così che contro gli eretici di Albi (la loro “capitale”) si mosse un intero esercito baronale che, col sostegno del papa, a partire dal 1208 mise a ferro e fuoco l’intera regione rendendola nel giro di pochi decenni un cumulo di macerie fumanti. Il bilancio fu un autentico massacro.


Una crociata fratricida Nel 1184, si ricorderà, il papa Lucio III con la già nominata decretale Ad abolendam aveva messo fuori legge numerose sette, tra le quali anche i catari, e annunciato la scomunica per i laici che si fossero rifiutati di reprimere gli eretici. Tuttavia le gerarchie ecclesiastiche, in primis papa Innocenzo III (1160-1216), all’inizio usarono con loro i guanti di velluto, limitandosi a spedire sul territorio una serie di predicatori allo scopo di convincerli a convertirsi. Uomini spesso agguerriti. Oltre al plenipotenziario Pietro di Castelnuovo (Pierre de Castelnau, morto nel 1208), cistercense, c’era anche un certo Domenico di Guzmán (11701221): dotato di eloquente oratoria, grande conoscenza dottrinale e ottime abilità dialettiche, si accorse quasi subito che dietro il successo dei catari c’era, soprattutto, uno stile di vita irreprensibile. E l’esperienza gli sarebbe stata preziosa per fondare, dieci anni più tardi, l’Ordine dei Frati Predicatori. Ma la misura adottata dal pontefice non bastò, perché i catari si dimostravano più riottosi e arroccati sulla difensiva del previsto. Del resto, egli stesso riconosceva sconcertato come la diffusione del catarismo dipendesse principalmente dalle colpe di un clero che, chiamato a dare l’esempio, si dimostrava invece tragicamente immorale e reprensibile: In tutta questa regione [la Linguadoca, n.d.a.] i prelati sono lo zimbello dei laici, ma alla radice di tutti i mali sta il vescovo di Narbona. Quest’uomo non conosce altro Dio che il denaro e ha una borsa al posto del cuore. Nei suoi dieci anni di ufficio non ha mai visitato la sua diocesi [...]. Qui si possono incontrare monaci regolari e canonici che hanno gettato il saio alle ortiche, hanno preso moglie o un amante e vivono di usura. Come pretendere di imporre l’autorità di una Chiesa moralmente allo sbando su un gruppo di ribelli che innalzavano l’integrità dei costumi sul proprio vessillo più alto? Una possibile soluzione al problema arrivò dall’abate di Cîteaux, Arnaud Amaury, che suggerì a Innocenzo di muoversi politicamente con i signori locali allo scopo di ottenere l’espulsione degli eretici dai territori di loro competenza. Ma anche in questo caso, l’idea si rivelò un fallimento perché molti degli stessi signori guardavano di buon occhio il catarismo, quando non lo proteggevano se non, addirittura, vi aderivano. Il conte Raimondo VI di Tolosa (1156-1222) in


particolare, che era il più in vista di tutti, era poeta e mecenate e si circondava di trovatori che, oltre a cantare liberamente l’amor cortese, veicolavano idee “pericolose” come la liceità dell’adulterio, il mito della donna angelicata, il culto della bellezza fine a se stessa. Pietro di Castelnuovo capì che ottenendo la sottomissione di Raimondo avrebbe facilmente estirpato la “mala pianta”. Si mosse dunque in modo scaltro. Ottenendo l’appoggio dei suoi vassalli, mise il conte davanti al fatto compiuto e alla necessità di compiere l’ardua scelta: o chinare il capo e cacciare gli eretici, o proteggerli sfidando apertamente la Chiesa. Raimondo optò per la seconda e fu colpito subito dalla scomunica, che liberava i suoi vassalli dal vincolo di obbedienza nei suoi confronti. Alla minaccia, ormai concreta, di un intervento armato ai suoi danni da parte dei feudatari ribelli, promise di sottomettersi. Ma proprio mentre la situazione pareva avviata verso un ritorno alla normalità, Pietro di Castelnuovo veniva misteriosamente assassinato. Amaury, che non attendeva altro, fece ricadere la colpa su Raimondo. Fu allora che il papa passò alle vie di fatto. Il pretesto per la guerra era stato trovato. Mancava solo l’appoggio da parte del re di Francia Filippo Augusto, che finora lo aveva negato perché occupato in guerra contro il sovrano inglese Giovanni Senzaterra. Il pontefice promise allora a chi avesse partecipato all’offensiva contro gli eretici le stesse indulgenze previste per i crociati che andavano in Terrasanta. Alla chiamata alle armi risposero con entusiasmo molti signori feudali e prelati, ansiosi di mettere le mani sulle terre e sui beni di una delle zone più ricche d’Europa. A capo delle operazioni fu messo l’Amaury, che nei primi mesi del 1209 raccolse sotto il suo comando decine di migliaia di soldati pronti a invadere la contea ribelle. Raimondo di Tolosa, ben conscio del fatto che le forze in campo fossero impari, chinò il capo e promise il suo appoggio contro i catari in cambio del ritiro della scomunica. Ma la macchina da guerra che si era messa in moto era potentissima e pronta a travolgere senza pietà i ribelli. A nulla valse l’estremo tentativo di Raimondo Ruggero di Trencavel, visconte di Béziers e Carcassonne, di risolvere la questione trattando con i crociati. L’assalto a Béziers iniziò il 21 luglio 1209. Dopo aver ordinato invano la consegna degli eretici trincerati in città – solo poche centinaia –, l’esercito riuscì a violare le mura. Quello che seguì fu un massacro a dir poco incredibile. I catari che si erano rifugiati in una chiesa furono tutti trucidati senza pietà e poco importa se nel numero persero la vita anche molti cattolici: come racconta il cronista cistercense Cesario di Heisterbach, a decretare la “soluzione finale” fu nientemeno che l’inossidabile Amaury il quale, non riuscendo a distinguere gli uni dagli altri ordinò: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi». Le vittime furono circa ventimila. Altrettanti, se non di più, furono massacrati a Marmande nel 1219. Tra loro


anche donne, bambini e anziani. Secondo gli eloquenti versi della Canso de la crosada [i soldati] corsero nella città, agitando spade affilate, e fu allora che cominciarono il massacro e lo spaventoso macello. Uomini e donne, baroni, dame, bimbi in fasce vennero tutti spogliati e depredati e passati a fil di spada. Il terreno era coperto di sangue, cervella, frammenti di carne, tronchi senza arti, braccia e gambe mozzate, corpi squartati o sfondati, fegati e cuori tagliati a pezzi o spiaccicati. Era come se fossero piovuti dal cielo. Il sangue scorreva dappertutto per le strade, nei campi, sulla riva del fiume. Poi fu la volta di Carcassonne: qui gli abitanti non furono trucidati ma cacciati col pubblico ludibrio, visto che non poterono portarsi via nemmeno i vestiti che indossavano. Le stragi proseguirono numerose, coi crociati che parevano un’orda assetata di sangue. Tra i protagonisti si distinse un notabile locale, Simone di Montfort (1165-1218), che era stato nominato capitano dell’esercito dal legato pontificio. Dal punto di vista della Chiesa, fu una scelta azzeccata perché essendo del posto conosceva bene i luoghi e sapeva come muoversi al meglio. Di avere pelo sullo stomaco, del resto, lo aveva dimostrato durante la quarta spedizione in Terrasanta – quella che di era conclusa nel 1204 con l’orribile saccheggio di Costantinopoli – e, soprattutto, a Béziers, quando aveva partecipato alle uccisioni distinguendosi per ferocia e brutalità. Da qual momento in poi Montfort avrebbe fatto anche di meglio, incaricando la soldataglia di cavare gli occhi e tagliare il naso a tutti i prigionieri che per sventura fossero caduti nelle sue mani nel corso delle operazioni militari. Più le azioni erano sanguinarie più riscuotevano il plauso non solo dei prelati ma anche del pontefice, che in una missiva si complimentò formalmente col Montfort per la risolutezza con cui aveva perseguitato questi «nemici pestilenziali». Dopo Carcassonne cedettero Albi, Castelnaudary, Castres, Fanjeaux, Limoux, Lombers, Montréal, Cabaret, Bram, Minerve. In quest’ultima città i ribelli furono costretti a convertirsi, mentre quelli che perseverarono finirono bruciati vivi sul rogo. Il conte Raimondo, nel frattempo, era sparito dalla scena, ma a riportacelo ci pensarono il Montfort e l’Amaury i quali si ricordarono del giuramento che anni prima egli, obtorto collo, aveva stipulato e ne pretesero l’adempimento. Ma il nobiluomo, stavolta, si rifiutò di consegnare alle autorità gli eretici per cui fu nuovamente scomunicato, mentre alle truppe crociate si impartiva l’ordine di marciare su Tolosa. Ormai la situazione stava precipitando. Il ricorso che egli fece al papa – che pure produsse come risultato l’ordine ai legati di porre fine


alla crociata, nonostante la condanna dei catari come eretici venisse ribadita dal Concilio lateranense convocato nel 1215 –, fu ignorato e il conflitto che seguì si concluse con la fine dell’indipendenza della contea di Tolosa, che passò alla corona francese. Ma non era ancora finita. Postosi a capo di un gruppo di rivoltosi, nel 1217 Raimondo rioccupò Tolosa e le speranze da parte dei crociati di riconquistarla si esaurirono insieme alla vita di Simon de Monfort, ucciso da un proiettile scagliatogli contro da un mangano manovrato – pare – da un gruppo di donne. I catari parvero allora scuotersi e riprendere in mano la situazione. Ma la morte di Raimondo (1222), e soprattutto quella del re di Francia (1223) segnarono la svolta definitiva. Il nuovo sovrano, Luigi VIII, al contrario del padre aveva tutte le intenzioni di partecipare da protagonista alla crociata e lo fece, riconquistando il controllo di molte roccaforti tra cui Avignone, Béziers e Carcassonne. La morte, però, lo colse all’improvviso. I suoi progetti furono allora portati a termine dal figlio, Luigi IX il Santo, che assediò e rase al suolo Tolosa. Deprivato del suo caposaldo, il conte Raimondo VII – succeduto al padre nel 1222 – fu costretto a riconoscersi vassallo del re di Francia. A nulla valsero altre ribellioni, che si conclusero nel sangue. La sorte dei catari era ormai segnata, anche perché nel frattempo proprio per reprimerli era stato istituito dal papa il Tribunale dell’Inquisizione, fortificato da uno Studium (università di teologia) con sede proprio nella turbolenta Tolosa. Con la defezione di alcuni capi carismatici, che ottennero il perdono del re, e con l’assedio e la conquista di Montségur (16 marzo 1244) e di Queribus (1255) la vicenda dei catari francesi conobbe tragicamente nel fuoco la parola fine.


I catari lombardi Durante questo lungo e sanguinoso conflitto, alcuni catari albigesi si rifugiarono nella Pianura Padana dando nuovo impulso ai loro “confratelli” che già si erano stanziati nell’area cisalpina. In Italia, verso la metà del Duecento, la chiesa catara più importante era quella lombarda di Concorezzo, che aveva il suo centro nell’omonima cittadina brianzola e contava qualche migliaio di adepti. Altre chiese erano presenti a Desenzano, a Mantova, a Vicenza, a Verona. La carica sovversiva del movimento si coglie da una semplice considerazione: a capo delle chiese di Lombardia, in qualità di “vescovo”, c’era un certo Marco, un uomo di umilissime origini. Come dire che non occorreva essere nobile o ricco per ricoprire una carica importante, bastava averne le capacità. Una situazione ai limiti della rivoluzione sociale. Ecco allora un ulteriore motivo che spinse le autorità ecclesiastiche a voler cancellare una presenza che alla lunga poteva risultare scomoda: non tanto la dottrina catara in sé, quanto lo spirito rivoluzionario che poteva rappresentare. I roghi si accesero in Piemonte, a Piacenza, persino nell’arena di Verona. La repressione, tuttavia, non fu senza reazione. Se a Orvieto i catari ammazzarono di botte il podestà Pietro Parenzo, amico del papa, una “leggenda” forse creata ad arte tramanda che nel 1252 poco lontano da Giussano – nei pressi di Monza – un frate domenicano inquisitore, Pietro da Verona (che pure sembra fosse di famiglia catara), fu ucciso dagli eretici mentre si apprestava a svolgere le sue funzioni. La figura di Pietro, subito santificato dal papa, fu adottata dalla Chiesa come modello di “redenzione” da proporre ai catari che si fossero pentiti, puntando quindi al recupero degli eretici nell’alveo cattolico. E lo stratagemma, pare, funzionò, se è vero che molti ex catari – come il piacentino Raniero Sacconi, che ha lasciato sui boni christiani molte informazioni preziose – si convertirono e divennero frati domenicani. Molti, comunque, preferirono morire sul rogo, considerando questa pur terribile prova come il miglior coronamento di una vita d’ascesi. I catari alla fine soccombettero. Anche questa, come tutte le altre sette ereticali, non ebbe successo duraturo, anche se ancora oggi in molte località del Piemonte, della Lombardia e del Veneto affiorano qua e là remote testimonianze e memorie di una presenza che fu tutt’altro che superficiale e trascurabile. Il fallimento dei boni christiani tuttavia ci fu, e fu definitivo con la fine del secolo XIII. Ma più che allo sterminio di massa, esso fu dovuto all’isolamento al quale


gli stessi catari si richiamavano come caratteristica della loro filosofia di vita. Un isolazionismo che li condannò a non attecchire in massa nella società , a non penetrare nelle istituzioni e nella vita politica ed economica, e che dunque alla lunga fu la vera causa della loro fine.


Sulle orme di Valdesio Un’altra setta che si diffuse tra Italia e Francia nello stesso periodo fu quella valdese. Il suo fondatore era Valdesio, dalla storiografia a lungo e a torto chiamato Pietro Valdo. Originario di Lione, nel Sud della Francia, faceva parte di quella che oggi, a volte impropriamente, si chiama “borghesia”: un cittadino, cioè, che aveva esercitato una professione e che era diventato ricco. Le fonti contemporanee a lui vicine, primo fra tutti il Liber antiheresis di Durando d’Osca, uno dei suoi primi discepoli, ci tramandano che a un certo punto della sua vita – verso il 1172 – decise di abbandonare tutti i suoi averi, donandoli ai poveri e alle chiese del luogo. Povero come lo era stato Cristo. Nel far questo Valdesio non era il primo né l’ultimo: la sua esperienza, tanto per citare un caso famoso, si sarebbe ripetuta clamorosamente all’inizio del secolo successivo nella persona di Francesco d’Assisi che, figlio di un ricco mercante, a ventiquattro anni d’età abbandonò tutti i suoi averi per sposare Madonna Povertà. E tanti altri prima di lui avevano scelto di cambiare vita e ritirarsi dalle lusinghe del mondo. Ciò che differenziava Valdesio era la scelta di predicare. Contro gli eretici, in primo luogo, e in particolare contro i catari. La lotta contro questi ultimi era la stessa intrapresa dalla Chiesa. Allora perché papa Lucio III incluse nella lista degli eretici da perseguitare anche i pauperes de Lugdunum, i “poveri di Lione”? Il motivo è semplice: Valdesio e i suoi seguaci, iniziando a predicare senza l’autorizzazione della curia, avevano “usurpato” una funzione che spettava solo alla Chiesa. Loro lo facevano in buona fede: volevano estirpare a loro volta la “mala pianta” dell’eresia e sostenevano che gli uomini di Chiesa che avrebbero dovuto svolgere questo compito non avevano né le capacità né la volontà di farlo.Valdesio e i suoi dunque iniziarono a percorrere in lungo e in largo il Sud della Francia per predicare il vangelo. Allo scopo di renderlo più accessibile ai molti che non conoscevano il latino, avevano fatto tradurre un certo numero di testi tratti dalle Sacre Scritture in volgare. Era lo stesso fermento che secoli dopo avrebbe portato altrove alla Riforma luterana. Il fatto che Valdesio e i suoi discepoli non si sentissero assolutamente fuori dall’ortodossia è dimostrato dall’insistenza con cui essi cercarono l’approvazione del papa al loro operato. Nel 1179 si recarono infatti a Roma per partecipare al Concilio lateranense, ma il loro incontro con Alessandro III fallì perché il pontefice, pur riconoscendo loro la bontà delle intenzioni, non concesse il permesso di predicare. Nulla di fatto anche l’anno seguente: la Chiesa non sapeva né come gestire predicatori che non


erano sacerdoti (e dunque erano laici), né come comportarsi in merito alla presenza delle donne nella setta. La decisione fu presa nel 1184: Lucio III scomunicava i valdesi insieme ai catari, ai patarini e ad altri eretici. La scomunica e l’inizio delle persecuzioni non fermarono tuttavia Valdesio e i suoi seguaci, che anzi continuarono a far proseliti nel Sud della Francia, in Germania e nel Nord Italia. Qui tuttavia il loro rapporto con le realtà circostanti non fu così conflittuale come oltralpe. E ciò gettò le basi per la separazione del Pauperes Lombardi da quelli de Lugduno, secessione che si attuò in maniera dolorosa nel 1205, quando Valdesio era ancora vivo. Pare addirittura che i valdesi stipulassero una sorta di tacito “patto di non belligeranza” con i catari e che anzi dividessero i loro insediamenti con altri gruppi di eretici. Riuscirono anche a entrare in contatto con le ormai forti istituzioni comunali, e il successo fu tale che a Milano ottennero una Schola per riunirsi e predicare pubblicamente il vangelo. Valdesio morì intorno al 1206 senza aver risolto i suoi problemi con la Chiesa di Roma e intuendo il pericolo della spaccatura all’interno dei suoi seguaci. Negli anni successivi, una parte dei valdesi riuscì a farsi riconoscere da papa Innocenzo III (nel 1208) un mandato per esercitare la missione apostolica, gettando le premesse per la nascita di un vero e proprio ordine religioso che si sarebbe chiamato dei “pauperes cattolici”. Successivamente si allinearono a questa nuova posizione di “riconoscimento” della gerarchia ecclesiastica e dunque rientrarono nell’ortodossia molti altri gruppi presenti in Lombardia: nacquero così i “pauperes riconciliati”. Tutti mantenevano il loro diritto alla predicazione, ma a condizione che fosse derivante da un’investitura ufficiale da parte del papa. Ma non tutti i valdesi rientrarono nell’alveo di Santa Romana Chiesa. Restavano fuori ancora i gruppi fedeli all’idea delle origini, una parte francesi (ultramontani), un’altra lombardi (ytalici). Essi si ritrovarono a Bergamo nel 1218 per cercare di organizzarsi e di ritrovare l’unità, ma l’assemblea ebbe come unico risultato l’apertura di una disputa sul destino ultraterreno di Valdesio: era in paradiso (come sostenevano gli ultramontani) oppure in attesa di espiare le proprie colpe (come erano certi gli ytalici)? La risposta non l’avremo mai, ma di certo dopo la riunione bergamasca la figura del fondatore si ridimensionò a tal punto da essere quasi dimenticata. Nasceva invece, come sostiene lo studioso piemontese Grado Giovanni Merlo, il mito della discendenza dei valdesi dai primi apostoli: un mito variamente interpretato, ma sempre alimentato a giustificare e legittimare coloro che, oramai nella clandestinità, ritenevano di predicare la verace fede cristiana. Valdesio sarà invece presente nella memoria storica di inquisitori e polemisti cattolico-romani in qualità di autore della più tignosa eresia. Di qui passerà nella storiografia


protestante nella veste di uno tra i “testimoni della verità” repressa nell’oscura età di dominio papale, anche se nel piccolo mondo riformato dalle valli alpine italiane e francesi il suo ruolo di iniziatore dei valdesi sarà spesso contestato a favore del persistente mito delle origini apostoliche: un mito assai più fascinoso e fondante.

Gli umiliati e le industrie ante litteram Del tutto diversa fu invece la storia degli umiliati, che cercavano una spiritualità più austera ma connotata da forti preoccupazioni di carattere sociale. La loro esperienza ebbe origine tra Milano e Como e i primi di loro erano esponenti dell’aristocrazia cittadina. Ecco come l’anonimo cronista di Laon li descrive: Nelle città di Lombardia vi furono allora [1179] alcuni cittadini i quali, continuando a rimanere nelle case con le loro famiglie, avevano scelto un modo particolare di vivere religiosamente, si astenevano da menzogne, giuramenti, liti [giudiziarie], contenti di una veste semplice, impegnandosi nella difesa della fede cattolica [...]. Essi si autodefinirono umiliati sulla base del fatto che, non vestendo indumenti tinti, si accontentavano di una veste semplice. In sintesi, possiamo dire che gli umiliati si suddividevano in tre gruppi: il primo era costituito dai chierici, che praticavano il celibato e vivevano in una casa comune come se fossero in monastero; col tempo si strutturarono in un vero e proprio ordine religioso la cui Regola fu approvata, nel 1201, da papa Innocenzo III. Accanto ai chierici vi erano i laici, sia uomini che donne, organizzati in gruppi che vivevano vita comunitaria ma senza prendere i voti: potevano sposarsi e vivevano in comune alcuni momenti della giornata come i


pasti. Infine, i laici che praticavano una forma limitata di povertà volontaria. Tutti e tre davano ai poveri le eccedenze al loro normale fabbisogno. La loro attività principale era la lavorazione della lana, caduta in disuso dai tempi delle invasioni e ridotta da secoli alla sola fabbricazione di panni grezzi e senza pretese. Proprio per cercare tessuti di qualità migliore, col rifiorire dei commerci i mercanti lombardi si erano diretti nel Nord Europa: la lana grezza così importata era poi sottoposta a lavorazione soprattutto nelle campagne, dove forniva il sostentamento dei ceti più umili. Che però erano sfruttati: non artigiani ma semplici operai, i lavoratori avevano paghe basse e non potevano legarsi in corporazioni, restando quindi alla mercè dei mercanti della lana. Probabilmente in loro aiuto giunsero dunque nel Milanese gli umiliati, che unendo alla vita contemplativa quella attiva diedero impulso a manifatture tessili che in breve divennero talmente redditizie da rifornire di lana non solo la città e il contado, ma anche altre piazze e persino Venezia, imponendosi come una vera e propria industria ante litteram. La loro domus (“casa”) più importante si trovava presso l’abbazia di Viboldone, poco fuori Milano, ed era stata edificata nel 1176 nell’arco di tempo che trascorse tra la morte dell’arcivescovo Galdino (18 aprile) e la battaglia di Legnano (29 maggio). La loro presenza si estendeva a tutto il Nord Italia (nel 1216 si contavano solo in Lombardia almeno centocinquanta comunità regolari e un considerevole numero di laici viventi con le proprie famiglie), e in particolare in Brianza. Gli umiliati dell’area monzese producevano, secondo il cronista Bonicontro Morigia, panni adatti a ogni mercato. A Monza, elenca un catalogo, nel 1298 esistevano ben undici case che, accumulando ingenti guadagni, prestavano persino denaro a comuni e capitoli del duomo, costruivano non solo chiese e domus proprie, ma anche ospedali. È però proprio da escludere, o almeno così pare, l’appartenenza di Gerardo dei Tintori (1134-1207), il santo fondatore dell’ospedale omonimo, all’ordine degli umiliati, e questo nonostante il cognome sembri rifarsi a una professione, esercitata dalla famiglia, connessa alla lavorazione della lana.


Una boema a Milano Alcune case umiliate brianzole balzarono agli onori delle cronache nel 1300 quando si aprì il processo contro una donna di nome Guglielma detta “la Boema” (dalla regione di provenienza), rea di essersi autoproclamata l’incarnazione dello Spirito Santo. Gli aspetti più “rivoluzionari” della sua teoretica riguardavano però il ruolo della donna. Se la Chiesa aveva sempre demonizzato il corpo femminile, individuando in esso la sentina di tutti i mali e la causa della perdizione (si veda il capitolo sulla sessualità), Guglielma e i suoi seguaci – anche uomini! – collocavano i due sessi su un piano di assoluta parità, sovvertendo il tradizionale ruolo subalterno finora riservato all’universo femminile e restituendo alla donna piena dignità. La Boema inoltre sosteneva di essere venuta a portare la salvezza a quanti erano fuori dalla Chiesa, in primis gli ebrei. Già in vita fu venerata come una santa e alla sua morte, intorno al 1280, il suo sepolcro presso l’abbazia di Chiaravalle divenne meta di corposi pellegrinaggi. Ma all’inizio del Trecento gli inquisitori, tesi a riaffermare l’autorità della Chiesa nei confronti dell’aristocrazia milanese che ne promuoveva il culto, la dichiararono eretica. La sue ossa, dissotterrate, furono allora gettate sul rogo. Tra le fiamme perì poco dopo anche Manfreda da Pirovano, che di Guglielma aveva raccolto l’eredità spirituale e aveva addirittura osato celebrare messa con ostie consacrate. Degli atti del processo, condotto dall’inquisitore Guglielmo da Coccolato, si sono conservati, fortunosamente scampati alla distruzione dell’archivio, quattro Quaderni delle imbreviature vergati dal notaio milanese Beltramo Savagno. Cosicché la sua vicenda, anche ai giorni nostri, continua ad affascinare.

Anno 1300: un rogo a Parma E sempre nel 1300, mentre a Roma si celebrava il primo Giubileo della storia della Chiesa, indetto da papa Bonifacio VIII per decretare il trionfo universale della Chiesa cattolica romana, a Parma si accendeva un altro rogo. La vittima che si accingeva a salirvi era Gherardo


Segarelli, capo della setta degli apostolici, condannato come eretico al supplizio insieme ai suoi seguaci. Era il 18 luglio. Originario dei dintorni di Parma e di modeste origini, anch’egli come molti altri uomini del suo tempo aveva notato il progressivo decadimento dei costumi della Chiesa. In quegli anni il papato stava vivendo un momento di crisi, scosso com’era tra le lotte delle famiglie cardinalizie per ottenere il soglio pontificio. Come anticipato nel capitolo precedente, sullo scorcio del secolo XIV il mite e spirituale Celestino V, anziano monaco strappato alla quiete del convento e costretto a gettarsi nella tenzone della curia romana, aveva rinunciato alla carica dopo pochi mesi di pontificato per tornarsene in convento e lasciare ad altri le brighe del potere. Dietro la sua decisione, girava voce che ci fosse la mano intrigante di Benedetto Caetani, il quale, invece, di diventare papa aveva tutte le intenzioni e per convincere il povero Celestino a desistere dall’incarico pareva avesse fatto persino ricorso a sogni indotti e messe in scena. Comunque fosse la verità, l’ambizioso cardinale ebbe partita vinta e nel 1294 salì sulla cattedra di Pietro col nome di Bonifacio VIII, iniziando subito dopo una politica di forza per ribadire il ruolo centrale del pontefice anche negli affari temporali (e fiscali) degli altri Stati, primo fra tutti la Francia di Filippo il Bello. In questo clima tutt’altro che mistico non c’è quindi da meravigliarsi se qualcuno, ancora una volta, si ponesse degli interrogativi circa la moralità delle gerarchie ecclesiastiche e tentasse di proporre un modello di spiritualità più incisivo e verace.Gherardo Segarelli e i suoi seguaci, comunque, più che alle dispute di carattere teologico badavano – potremmo dire – “al sodo”, e, lasciando da parte il papa, non riuscivano comunque a non criticare il clero a loro più vicino, soprattutto nelle sedi vescovili, per i comportamenti non proprio irreprensibili: si trattava infatti la maggior parte delle volte di uomini reclutati senza vocazione che, presi i voti per convenienza e non per scelta, badavano più a gestire il potere temporale che alla cura delle anime dei fedeli. A questi eccessi, dunque, il Segarelli volle contrapporre un’esperienza di fede più intima e spirituale. Il modello scelto era vicino nel tempo e nello spazio: quel san Francesco che predicava agli umili e cantava le lodi della povertà perché l’uomo, povero sulla terra, sarebbe stato destinato da Dio nell’aldilà alle ricchezze che non svaniscono. Gherardo dunque si rifaceva agli apostoli (la setta si sarebbe chiamata, di lì a poco, degli “apostolici”), che imitava sia nell’aspetto, sia nelle azioni e, soprattutto, proprio in quell’ideale di povertà e di impegno missionario


che aveva lo scopo di diffondere ai semplici come lui una fede più genuina. Aveva iniziato a predicare intorno al 1260, ma non molto tempo dopo il vistoso successo che andava conseguendo presso gli strati più bassi della società gli attirò le ire della gerarchia ecclesiastica. Com’era possibile, sostenevano i dotti uomini di Chiesa, che un personaggio come il Segarelli, di umili condizioni, incolto e anche un tantino rustico, potesse girare indisturbato predicando la morigeratezza dei costumi, la lotta alle tentazioni della carne e la necessità di fare penitenza per ottenere il perdono di Dio e la salvezza? Tra i detrattori vi era Salimbene de Adam, il più importante cronista dell’epoca, anch’egli parmense, frate colto e aristocratico. La sua critica nei confronti dell’operato degli apostolici fu quanto mai serrata. «Stolti», «ignobili», «porcari», «ingannatori», «ladroni», «idioti», «bestiali»: ecco alcuni dei “gentili” epiteti che il frate rivolgeva dalle righe della sua Cronica a questi suoi concittadini, poveri e ignoranti, ma talmente ribaldi da volersi innalzare al livello nientemeno che dei santissimi apostoli. Ancora più dure le accuse, le classiche invettive scagliate da sempre contro tutti i “nemici della Chiesa”: riunioni occulte, predicazioni contro la curia, attentato alla vera fede. Di più, l’ossessivo richiamo degli apostolici alla povertà li avrebbe resi stolti e la loro inconsistenza culturale incapaci di distinguere il bene dal male, inducendoli al peccato. Come quella volta che, intendendo imitare il Cristo povero e nudo, essi si radunarono in una casa e, denudatisi, gettarono i loro indumenti al centro di una stanza. Gli abiti furono restituiti poi alla rinfusa, allo scopo di sottolineare il distacco dalla proprietà di cose terrene. Ma secondo il frate ciò che avvenne fu male: la restituzione degli indumenti, infatti, fu operata da una donna, lo strumento del demonio per eccellenza, che induce l’uomo in tentazione e nel peccato. Eretici, dunque, o più santi dei santi? Da un punto di vista strettamente canonico, Salimbene nel criticarli aveva ragione. Il Concilio di Lione, indetto dalla Chiesa nel 1274, aveva cercato di fermare il proliferare incontrollato di ordini religiosi di tipo pauperistico e spirituale. Inoltre esso aveva proibito la nascita di nuove religiones e imposto agli ordini sorti dopo il 1215 lo smantellamento e il trasferimento dei membri in altri ordini già approvati. Gherardo e i suoi seguaci, però, avevano rifiutato di conformarsi alle norme: dunque furono dichiarati eretici. Ma dal punto di vista etico, sicuramente gli apostolici avevano tutte le buone intenzioni. E a quanto ci è dato di sapere, sicuramente non commisero delitti né violarono le leggi. La loro unica colpa fu di essersi dimostrati per scelta forse un po’ troppo virtuosi di quanto lo fossero in realtà quelli che avrebbero dovuto esserlo per imposizione dovuta al loro rango ecclesiastico. Così, se nel 1269 persino il vescovo di Parma, Obizzo Sanvitali, aveva


agevolato l’azione degli apostolici concedendo l’indulgenza a chi li avesse beneficiati, nel 1294 lo stesso prelato mandò al rogo quattro adepti della setta con l’accusa di eresia. Non se la sentì, tuttavia, di condannare al supplizio Gherardo, con cui aveva parlato in passato e per il quale, in fondo in fondo, probabilmente nutriva una certa stima. Per lui la pena fu il carcere a vita. Ma a “fare giustizia” – se così si può dire – ci pensò sei anni dopo, non appena Obizzo lasciò Parma per Ravenna, il frate domenicano Matfredo: il 18 luglio 1300 nella città emiliana si accendeva il rogo. Su di esso saliva e trovava la morte Gherardo e con lui si dissolveva la sua setta. Ma i fermenti che l’avevano originata non sarebbero stati dileguati dal fuoco “purificatore”: lo avrebbe dimostrato di lì a poco la vicenda di fra Dolcino.

«Penitenziagite!» Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedrai lo sole in breve, s’egli non vuol qui tosto seguitarmi, sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non saria lieve.

Con queste parole nel canto XXVIII dell’Inferno Maometto, incontrando Dante nella nona bolgia dell’ottavo cerchio, laddove sono puniti i seminatori di discordie, invita il poeta ad ammonire al suo ritorno nel mondo dei vivi l’eretico frate Dolcino di preparare una scorta di viveri sufficiente per resistere all’assedio dei suoi nemici. Due terzine della Commedia molto famose e che – composte pochissimo tempo dopo il 1307, anno in cui il frate perì sul rogo – testimoniano quanto viva fosse l’eco e l’impressione di un fatto che aveva sconvolto gli animi e le coscienze di molti. Chi era dunque Dolcino? Il suo nome, per secoli relegato in prevalenza (ma non solo) agli ambiti eruditi e accademici, è diventato celebre anche per i non “addetti ai lavori” grazie al notissimo romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa. Nella misteriosa abbazia del Nord Italia dove nel 1327 il francescano Guglielmo da Baskerville e il suo allievo, il novizio Adso da Melk, sono chiamati a indagare su una serie di strani delitti, si scopre che il cellario Remigio da Varagine e il monaco Salvatore erano stati seguaci di un tale Dolcino. Processati, vengono condannati al rogo dall’inquisitore domenicano Bernardo Gui. Proprio come era accaduto vent’anni prima al loro “maestro”. Il loro motto era «Penitenziagite», corruzione volgare dal latino «Poenitentiam agite», ovvero


“fate penitenza”: una pratica che Dolcino aveva mutuato dal sopra citato Segarelli, fondatore della setta degli apostolici. I precetti morali erano semplici ed efficaci: critica alla corruzione morale del clero, ricerca della povertà e recupero dell’autentico spirito evangelico che aveva contraddistinto appunto gli apostoli, cioè la “Chiesa delle origini”. Morto Segarelli sul rogo a Parma, come si è accennato gli apostolici conobbero un momento di sbando e per la gran parte desistettero dalla lotta, tornando nell’alveo dell’ortodossia e alla vita di tutti i giorni. Ma non fu così per tutti. Le fonti nel Medioevo e gli storici ancora oggi disputano sui natali di Dolcino: Trontano in Val d’Ossola, Romagnano Sesia, forse la città di Novara. O addirittura Tortino, nei pressi di Parma. L’ipotesi più probabile, comunque, è che fosse piemontese: forse nacque a Prato Sesia, non lontano da Romagnano, in provincia di Novara. Comunque nella valle del fiume Sesia. La scarsità e sovente poca attendibilità delle notizie a lui coeve contribuiscono ad alimentare la confusione sulle sue origini: secondo alcuni fu un membro della famiglia dei conti Tornelli di Novara, per altri invece era figlio illegittimo di un prete. Il cronista Benvenuto da Imola, nel suo commento alla Commedia di Dante, ne traccia la biografia e lo descrive come un personaggio fuori dal comune: di volto sempre lieto, era apprezzato da tutti grazie alla sua straordinaria eloquenza. Da bambino arrivò a Vercelli per essere istruito; il prete Augusto, che lo ebbe in custodia, lo mandò a studiare alla chiesa di Sant’Agnese, dove il maestro Syon insegnava latino. Ma vi rimase poco tempo: secondo quanto racconta Benvenuto, rubò dei soldi in casa del suo ospite. Quando fu scoperto, fuggì da Vercelli. Fu allora che, dirigendosi verso il cuore della pianura, venne a contatto con la predicazione di Gherardo Segarelli, attivo in Emilia ma anche in Lombardia, e divenne suo seguace. A quanto pare la sua parlantina sciolta e la conoscenza del latino e delle Scritture, che aveva appreso alla scuola di Vercelli, lo resero popolare tra gli apostolici. Così alla morte del Segarelli, fu proprio Dolcino a proseguirne l’opera in tutta l’Italia settentrionale, specie in Lombardia, in Emilia e in Trentino. Di quello che disse e fece nei sette anni che precedettero la sua cattura abbiamo testimonianza pressoché diretta: le sue lettere, che contengono la “summa” della sua predicazione, furono infatti raccolte e commentate proprio dall’inquisitore che lo perseguitò fino alla morte, quel Bernardo Gui autore di vari trattati contro gli eretici tra cui il De secta illorum qui se dicunt esse Apostolorum e la Pratica inquisitionis hereticae pravitatis. A quanto pare, le eccezionali capacità di Dolcino non tardarono a fare la differenza. Il suo carisma e le sue parole di fuoco catturavano moltitudini di persone, non solo tra i ceti umili ma anche tra i più istruiti. E attiravano le donne. Dolcino, stando alle descrizioni che abbiamo, era un uomo affascinante: robusto


e imponente, la voce squillante, di alta statura, occhi grigi dallo sguardo penetrante, barba e lunghi capelli rossicci. È naturale che gli siano state attribuite numerose amanti. Gli atti dei processi ci tramandano i nomi delle donne che in qualche modo ebbero a che fare con lui: Cara di Modena, le sorelle Monda de Ripa e Rivana e una loro serva, Brida. Ma la donna della sua vita fu, fino alla fine, una soltanto: Margherita da Trento. La conobbe nel 1302, mentre si trovava nelle valli a predicare. Lo colpì subito per la sua incredibile avvenenza, che le fece meritare il soprannome di “la Bella”: carnagione bianca, capelli neri e folti, occhi azzurri, membra ben tornite. Per alcuni, «la donna più bella del mondo». A differenza di Dolcino, Margherita era ricca e proveniva da una famiglia di notai. L’unione fu animata a quanto pare da una straordinaria passione. Forse egli fu talmente preso da lei da dimenticare il suo ruolo di riformatore religioso e quei precetti di moralità che aveva predicato con tanta convinzione. Fatto sta che la gente iniziò a mormorare che fosse concubino e immorale. Gli oppositori montarono le accuse: i dolciniani – dicevano – fanno banchetti in cui servono carni di fanciulli e ne bevono il sangue, sono pedofili, praticano orge notturne, si dedicano alla stregoneria e agli incantesimi. Il solito ritornello. Ma bastò a far perdere la pazienza a Dolcino, che nel 1303 lasciò il Trentino. Aveva già la Chiesa alle calcagna, Bernardo Gui in particolare lo incalzava attraverso la Lombardia. Si fermò allora prima a Brescia, poi a Bergamo, Como, Milano. Si rifugiò nelle montagne e nelle valli, ma fu costretto a scappare ancora. Tornò infine nella sua terra natale, la Val Sesia. Mentre era braccato dagli uomini dell’Inquisizione, qualcuno pensò di utilizzare la situazione a suo vantaggio per appianare le velleità autonomistiche delle turbolenti comunità valsesiane, contese dai comuni di Vercelli e Novara e schiacciate dal tallone dei conti di Biandrate. Una notizia non confermata attribuisce ai vercellesi il tentativo di tirare dalla loro Dolcino offrendogli il comando dell’esercito comunale. Egli rifiutò sdegnato. A quel punto contro di lui si scatenò una sorta di crociata: i vescovi cattolici, gli aristocratici e i comuni di Vercelli e Novara. Con la benedizione di papa Clemente V. Alle armi si rispose con le armi. Al massacro di duemila cattolici avvenuto a Romagnano fece seguito la cattura e l’uccisione di molti eretici. I dolciniani – tra i seguaci c’erano, oltre a Margherita, Longino Cattaneo da Bergamo, Federico da Novara, Valdrico da Brescia, Alberto Carentino – si rifugiarono in alta Val Sesia, a Campertogno, poi in Valle Atrogna, a Vasnera, poi all’entrata della Valle di Rassa, alla Parete Calva. Qui si arroccarono per compiere scorrerie nei paesi. Vennero anche allo scontro militare, nei pressi di Camporosso. Ma la protagonista assoluta fu sempre e comunque la fame. Dolcino rimase alla Parete


Calva fino al 1306, proseguendo le operazioni di guerriglia tra saccheggi, stragi e devastazioni. Il rigore dell’inverno, a 1400 metri di quota, la sporcizia, la fame e le malattie continuavano a mietere vittime. Così Dolcino decise di rifugiarsi nel Biellese. Qui rimase per un altro anno, alternando la fuga tra le caverne a brevi e movimentati soggiorni nelle località delle valli, prima fra tutte Trivero. Anche quell’anno l’inverno fu tremendo. Sui monti, con le scarse vettovaglie, quella volta fu impossibile resistere. Il 23 marzo 1307 iniziò la battaglia finale. L’esercito della coalizione, comandato da Giacomo e Pietro di Quaregna e Tommaso Avogadro di Casanova, dopo tre giorni di lotta all’ultimo sangue, fiaccò la disperata resistenza degli eretici, già provati dalle malattie e dalla fame. Alla fine sul campo rimasero quattrocento morti e centoquaranta dolciniani: tra loro c’erano anche Dolcino, Longino e Margherita. Erano ancora vivi. Il processo fu condotto senza alcuna pietà da parte degli inquisitori: i prigionieri erano già carne bruciata prima ancora di accedere alla sala delle torture, dove furono costretti a confessare i loro delitti. Margherita fu la prima a subire il supplizio. Malgrado per la sua bellezza molti nobili la chiedessero in moglie pur di salvarla dalla morte, perseverò fino in fondo e – dicono le fonti – affrontò i tormenti con grande dignità: fu legata a un palo e bruciata sul greto del fiume Cervo, forse a Biella, forse a Vercelli. Sicuramente a Vercelli fu invece giustiziato Dolcino, lungo il greto del fiume Sesia. Era il primo giugno 1307. Colui che era stato il capo carismatico della setta fu torturato in maniera barbara: gli strapparono il naso, i testicoli e il membro virile con tenaglie infuocate. Secondo le fonti contemporanee, egli non gridò né si lamentò fino alla fine, limitandosi a emettere un flebile mugolio mentre lo scarnificavano fino all’osso. I carnefici continuarono a infierire su di lui fino a quando giunsero sul luogo del supplizio. Lo scopo era quello di mostrare a tutti cosa si rischiava a mettersi contro la Chiesa, a voler sovvertire l’ordine. Finalmente, il suo corpo fu bruciato. Lo stesso destino fu riservato al fedele Longino da Bergamo, la cui vita fu stroncata sul grosso macigno che sostiene il ponte della Maddalena sulla strada che da Biella porta a Folegno. Da subito sul conto dei rivoltosi fiorirono numerose le leggende. Alcune, addirittura, hanno sfidato i secoli e sono giunte fino ai nostri giorni, di bocca in bocca, seguendo la tradizione popolare. Gli anziani di Campertogno tramandano ancora oggi come i dolciniani, durante la loro durissima permanenza alla Parete Calva, a causa della mancanza di risorse si fossero forse nutriti di carne umana. Sempre sulla Parete Calva si narra di voci e apparizioni, di oggetti ritrovati e ricondotti a quei terribili mesi d’inizio Trecento. Ossa, lapidi incise, catene di ferro e armi, povere cose forse appartenute agli assediati. Forse è la verità o forse


è solo suggestione. O voglia di creare un’aura di mito per risvegliare la curiosità intorno a una zona altrimenti poco conosciuta, sfruttando un nome tornato popolare dopo il romanzo di Eco e, soprattutto, dopo il successo del film omonimo diretto da Jean-Jacques Annaud. Qualcuno comunque giura che ancora oggi, nelle notti stellate, si può vedere in quei luoghi la bella e fiera Margherita cavalcare su un destriero nero con i capelli sciolti al vento.


La beghina teologa Un’altra Margherita, ma originaria delle Fiandre, veniva negli stessi anni processata per eresia e, dopo la condanna, finiva i suoi giorni sul rogo. La sua colpa? Aver composto un libello, intitolato Miroir des simples âmes (“Lo specchio delle anime semplici”), in cui scandiva le tappe di avvicinamento dell’anima a Dio. La sua speculazione, dalla fortissima implicazione mistica, identificava Dio-Amore con un ente definito “Lontano-vicino”. Giunta alla contemplazione dopo un percorso di ascesi, l’anima si imbatte nel Lontanovicino che si manifesta in un lampo: la visione produce la morte dello Spirito e l’annichilazione dell’Anima. Priva di ogni desiderio e di volontà propria, l’anima si annulla dunque in Dio. Ma se apparentemente essa sembra aver raggiunto uno stato di pura passività, in realtà resta a operare, unicamente e ininterrottamente, l’intelletto. Coltissima, Margherita – della cui vita poco è noto a parte ciò che è citato negli atti del suo processo – aveva tradotto parzialmente le Sacre Scritture in volgare e conosceva a menadito le opere di teologi e mistici quali Bernardo di Chiaravalle, Riccardo e Ugo di San Vittore, Dionigi l’Areopagita. Sullo sfondo della sua teologia si intravede l’esperienza di alcune associazioni di uomini e donne che, pur senza aver preso formalmente i voti, vivevano in comune praticando la castità e affidandosi, nella preghiera e nella meditazione, alla lettura delle Sacre Scritture in senso letterale. Gli adepti di queste associazioni, diffuse principalmente nelle Fiandre e nel Nord Europa, erano chiamati “beghine” e “begardi”, termini dispregiativi che facevano intuire se non l’aperta condanna, almeno il sospetto da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Il Miroir fu condannato al rogo a Valenciennes e a Margherita fu imposto di non divulgare mai più la sua opera. Ma lei continuò imperterrita a farlo, riscrivendo il testo daccapo e facendolo circolare clandestinamente. Ben presto divenne un punto di riferimento per tutti coloro – ed erano tanti – che si richiamavano al movimento del Libero Spirito, a sua volta dichiarato ufficialmente eretico da papa Clemente V nel 1311 con la bolla Dilectus Domini. La setta, di impianto millenaristico, era nata nel XII secolo ma aveva conosciuto un momento di grande espansione nel delicato momento in cui il papato, “ostaggio” della corona francese ad Avignone, era particolarmente debole e aveva attecchito anche in Centro Italia, dove era stato denunciato dal francescano Ubertino da Casale, a sua volta in odor di eresia per le sue posizioni


intransigenti. I Fratelli del Libero Spirito si richiamavano in parte alla predicazione di un frate (e abate) calabrese, Gioacchino da Fiore (1130-1202) che aveva elaborato, tra le altre, la teoria delle tre Età della Storia terrena: al tempo caratterizzato dall’opera del Padre (Antico Testamento) era seguita l’epoca del Figlio, che sarebbe durata secondo i suoi calcoli fino al 1260. Poi, secondo il frate «di spirito profetico dotato» come lo definisce Dante collocandolo in paradiso, sarebbe giunta la nova aetas (“età nuova”) dello Spirito Santo, caratterizzata dalla purezza e dalla grazia e dalla fine della corruzione della Chiesa. Inutile dirlo: anche queste teorie, per quanto addirittura alcuni pontefici come Innocenzo III si fossero espressi in loro difesa, furono fortemente sospettate di eresia. Tornando a Margherita Porete, a nulla valse il tentativo di far riconoscere l’ortodossia della sua speculazione, che pure fu “certificata” da tre teologi tra cui, probabilmente, il celebre Giovanni Duns Scoto. Altri ventuno – tra i quali molti già impegnati nei processi ai templari – furono scomodati dal grande inquisitore di Francia per dimostrare che ciò che Margherita sosteneva si poneva fuori dall’ortodossia cattolica. Imprigionata in carcere per un anno e mezzo, non abiurò. La sua vita si spense il primo giugno 1310 a Parigi, in Place de Grève, come lei stessa aveva quasi preconizzato: «Quest’anima è scorticata per mortificazione, arsa per ardore di fuoco di Carità, la sua cenere gettata, anzi posta, / nel mare del nulla della volontà». Ma il suo scritto influenzò profondamente, oltre ai Fratelli del Libero Spirito, anche la predicazione del teologo e mistico renano Maestro Eckhart. Anch’egli, peraltro, parzialmente condannato per eresia.


13 Il mestiere delle armi

Tra le figure più popolari ed emblematiche del Medioevo, epoca di guerre e di conflitti per antonomasia, è annoverata senz’altro quella del guerriero. Protagonista di epiche imprese, amante del lusso e del bello, è passato nell’immaginario collettivo come l’affascinante nobiluomo paladino dei deboli e degli oppressi in groppa al suo baldo destriero, la lucente armatura rutilante ai raggi del sole. Cosa c’è di vero in tutto ciò? Poco o nulla. I cavalieri medievali, e prima ancora i combattenti germanici di cui in parte sono eredi, erano prima di tutto dei signori della guerra. Che amavano combattere per conquistare, ottenere prestigio sociale e, soprattutto, fare bottino. All’ideale, impregnato di cultura cristiana, del guerriero – e in particolare del cavaliere – inteso come difensore della Chiesa e degli oppressi si oppone il più prosaico soldato (e il mercenario) che utilizza le armi come mestiere, che si muove al servizio del soldo e della gloria. Il che non significa, naturalmente, che a spingere gli uomini d’arme a combattere non fossero – almeno nel caso degli ordini monastici – anche motivazioni di ordine religioso, etico e morale (per l’epoca, s’intende). Comunque sia, stupri, saccheggi e devastazioni erano all’ordine del giorno. E non solo nei secoli comunemente considerati più “bui”, bensì anche alla fine del Medioevo, quando la scena fu calcata dalle compagnie di ventura.


Furor teutonicus L’epoca di transizione tra l’età tardoantica e i primi secoli del Medioevo vide stagliarsi sulla scena un nuovo protagonista assoluto: il guerriero germanico. Non che Roma non avesse mai avuto a che fare con lui anche prima, tutt’altro. Anzi, ne conosceva bene il pericolo. Già lo storico latino Publio Cornelio Tacito (55-120), nelle accurate descrizioni contenute nella Germania, aveva evidenziato il carattere fiero di queste genti dedite prevalentemente alla guerra. Il neonato impero ebbe modo di sperimentare quanto fossero indomite nel 9 d.C. quando ben tre legioni comandate da Publio Quintilio Varo furono letteralmente fatte a pezzi nella selva di Teutoburgo da una coalizione di germani guidati dal cherusco Arminio. La proverbiale organizzazione dell’esercito romano, del resto, era stata messa a dura prova anche in altre occasioni da parte di varie genti barbariche, prime fra tutte i celti, sottomessi dopo lunghissime ed estenuanti campagne militari. Qual era il segreto del loro successo? Stando alle fonti antiche, la loro era una società profondamente militarizzata. Ogni uomo libero portava le armi. Ai giovani veniva insegnato a combattere non appena erano in grado di tenerle in mano, ossia intorno ai quindici-sedici anni. I guerrieri restavano tali fino alla morte o – i più fortunati, anche se morire in battaglia era considerato un onore – alla vecchiaia. E tutti gli aspetti della vita pubblica e privata, dall’elezione dei capi alle decisioni su questioni comuni, coinvolgevano l’assemblea degli armati. L’economia stessa si reggeva sulla razzia e sul saccheggio. A dire il vero, combattevano in maniera abbastanza rudimentale: quando non tendevano imboscate, si disponevano a cuneo e si gettavano contro il nemico all’improvviso contando sulla forza d’urto e sul timore ingenerato – come testimoniano le fonti antiche, primo fra tutti il già citato Tacito – dal rumore assordante e dai canti di guerra (barditus) intonati per esaltare gli animi: «Puntano tutto sull’asprezza del suono e a produrre un’onda sonora tutta franta, e accostano lo scudo alla bocca affinché la voce, per risonanza, rimbombi più forte e cupa»91. Col tempo – e anche grazie al contatto con l’esercito romano – raffinarono le loro tecniche anche se, ad esempio, non riuscirono mai a ottenere grandi risultati nell’assedio. Le fonti classiche, unanimemente, pongono l’accento soprattutto sulla loro ferocia. Il furor teutonicus – ottenuto anche tramite l’assunzione di piante che portavano all’estasi – inquietava e spaventava


i romani non poco.


Inquadrati alla meta L’impero nella fase tarda manteneva invece, pur tra molte difficoltà, un esercito ampio e bene organizzato. La disciplina era rigorosa e gli effettivi ben addestrati e ben equipaggiati. La paga – stipendium, donde il nostro stipendio, da stips, una moneta di rame di bassa qualità – poteva essere in denaro oppure in natura. Insomma, si trattava di una professione di tutto rispetto che garantiva un tenore di vita abbastanza agiato e una vecchiaia – posto che ci si arrivasse! – garantita: dopo aver servito per tanto tempo la patria – il periodo variava dai venti ai ventiquattro anni – si percepiva una sorta di “liquidazione” che permetteva di acquistare beni fondiari o avviare un’attività commerciale. Chi faceva parte dell’esercito? Innanzitutto, come quasi tutte le professioni, era un mestiere ereditario per cui i contingenti erano composti dai soldati e dai loro figli. A loro si affiancavano gli uomini reclutati con la leva annuale che si basava sul censo. Mercanti e proprietari fondiari, cioè, dovevano fornire a seconda del reddito un certo numero di uomini armati. Infine, i ranghi erano completati da volontari purché in grado di combattere. La graniticità dell’esercito romano, soprattutto se confrontato a quello barbarico, era però più apparente che reale. A partire dal II secolo nubi sempre più fosche andavano addensandosi all’orizzonte. Raggiunta la massima espansione e incapace di procedere a nuove conquiste, l’impero si andava infatti ripiegando progressivamente su se stesso. Con le città che conoscevano il periodo di massimo splendore e concentravano popolazione e ricchezza, l’interesse nel fare la guerra pareva decisamente passato di moda. Tra i sudditi, chi poteva tentava di aggirare l’obbligo della leva versando un’apposita tassa, l’aureum tironicum (da tiro, “recluta”), per cui coloro che finivano a prestare servizio nell’esercito erano per lo più diseredati cui non restava altra scelta per sopravvivere. Ecco perché, nonostante l’impero contasse decine di milioni di abitanti, pare riuscisse a mobilitare soltanto dai 500 ai 600.000 uomini, di cui tre quarti peraltro non erano combattenti di professione92. Queste cifre non erano però sufficienti. Ai confini, infatti, interi popoli si stavano spostando alla ricerca di nuove terre e Roma era un boccone troppo succoso per non tentare di divorarlo. In questo panorama movimentato e instabile, gli imperatori intuirono il pericolo e cercarono di arginarlo sul nascere. Testatone il valore militare sul


campo in numerosi scontri, Roma cercò di inserire i germani all’interno del proprio esercito sfruttandoli come baluardo contro le altre popolazioni barbariche che premevano sui confini. L’esercito “regolare” venne dunque coadiuvato dai contingenti dei federati, composti da popolazioni che avevano stretto un patto di alleanza – un foedus, appunto – in base al quale, in cambio di un terzo delle terre, dovevano presidiare il territorio contro eventuali invasori. Costoro godevano di una relativa autonomia perché rispondevano ai loro capi militari, combattevano senza dimenticare i costumi degli avi e prestavano servizio in cambio di una somma di denaro. La misura era intelligente ma si sarebbe rivelata foriera di molte conseguenze allora forse non del tutto prevedibili. A livello sociale, gli scambi tra barbari federati e popolazione “latina” favorì la progressiva romanizzazione dei primi, attratti da una civiltà percepita come più avanzata e dall’indubbio fascino. Ciò, unito al ruolo chiave rivestito dai barbari stessi nel contenimento della pressione nemica e al progressivo disimpegno dall’esercito dei romani, fece sì che in breve non si potesse più fare a meno di loro. Sullo scorcio del IV secolo troviamo dunque numerosi elementi germanici all’interno non solo dell’esercito romano, ma anche nelle istituzioni, il che fu per loro un formidabile veicolo di ascesa sociale. A lungo, il principale pericolo che Roma dovette fronteggiare fu non tanto l’invasione vera e propria quanto il saccheggio e l’assedio di città. I raid avvenivano in maniera rapida, approfittando sovente dei “buchi” che si aprivano sul fronte quando le truppe venivano a dar manforte chiamate altrove. Ciò si rese palese in particolare dopo Costantino, che per primo iniziò a ritirare progressivamente le legioni dai confini, lasciando il presidio alle sole limitanee, e dislocandole alla difesa delle città. In seguito, tra IV e V secolo si costruì, ad esempio nelle zone strategiche a ridosso delle principali vie di comunicazione che davano verso le Alpi, un sistema di fortificazioni, castelli (castra) e torri di avvistamento che non aveva tanto lo scopo di respingere le invasioni ma di contenere il nemico intanto che i contingenti si preparavano ad affrontarlo in campo aperto. Finché si trattava di far fronte a semplici scorrerie, il Tractus Italiae circa Alpes – così si chiamava questo congegno – si dimostrò abbastanza efficace. Ma se a esercitare la pressione erano popoli interi?


Armati fino ai denti Quando migravano, le genti barbariche si spostavano in massa. Non solo i guerrieri, ma anche gli inermi – donne, bambini, anziani – affrontavano lunghe marce insieme al bestiame e alle salmerie. Fu ciò che accadde ad esempio con i longobardi. Nel 568 varcarono le Alpi Giulie e si riversarono senza trovare praticamente ostacoli in tutta la Pianura Padana. Secondo stime accettabili erano tra i 150 e i 180.000 e tra loro erano presenti numerosi elementi di altre popolazioni, come i sassoni, che si erano uniti a loro durante la lunga migrazione che dal Nord Europa li aveva condotti verso il Mediterraneo oppure mentre erano stanziati nelle pianure ungheresi. Presero possesso delle città, che caddero una dopo l’altra, e occuparono i capisaldi lungo le principali vie di comunicazione e i castra. Che aspetto avevano i guerrieri longobardi? Sicuramente minaccioso. Come tutti gli uomini liberi, erano sempre armati. Però non tanto la spada, ma lo scramasax costituiva per loro lo status symbol dal quale non separarsi mai. Si trattava di un coltellaccio multiuso a filo unico lungo una quarantina di centimetri (ma ne sono stati rinvenuti anche lunghi ottanta) adatto alla caccia e ai combattimenti corpo a corpo a cavallo. Era portato sospeso alla cintura, al centro anteriormente o sul lato destro; sull’esterno del fodero, a volte, era inserito un coltellino di “servizio”. Gli arimanni, letteralmente “uomini dell’esercito”, possedevano inoltre una spada a doppio taglio, lunga circa novanta centimetri, portata sulla sinistra e fissata alla cintura grazie a un elaborato sistema di sospensione che impediva l’intralcio del passo. Il fodero era in legno rivestito di pelle, a volte con l’interno coperto di pelliccia. L’impugnatura poteva essere semplicemente in legno oppure elaborata, in bronzo e corno, e presentare come inserto due anelli di metallo concatenati, simbolo della dedizione al re o al duca. La cintura, di cuoio, era ricca di pendagli con le estremità guarnite da puntalini metallici finemente decorati a sbalzo o in agemina, tecnica che prevedeva l’incisione del motivo sul metallo e poi il riempimento del “vuoto” con argento fuso o ribattuto. Lo scudo era tondo, concavo e non piatto, di legno di pioppo e ricoperto di cuoio decorato con raffigurazioni di animali o simboli geometrici. Aveva un diametro di circa ottanta centimetri e un umbone centrale di ferro fissato da cinque borchie: quando non serviva, era portato a tracolla sulle spalle. Un posto importante nell’armamento era occupato dall’ascia, leggera e maneggevole, usata in duello oppure lanciata a distanza: la testa presentava una


sezione a cuneo e un caratteristico profilo “barbuto”, ma era diffusa anche la “francisca”, che deriva il suo nome dai franchi. Grande importanza, inoltre, aveva la lancia. Lunga almeno due metri, possedeva un forte significato magicosacrale ed era connessa alla regalità e al mito (la lancia di Odino): l’assemblea (gairethinx) dei guerrieri, riunitasi per scegliere il re, lo acclamava appunto con le lance alzate. La sua onnipresenza ha fatto ipotizzare che lo stesso nome “longobardi” significhi non già “uomini dalla lunga barba” ma “uomini dalle lunghe lance”, anche se – occorre dirlo – la prima spiegazione è quella generalmente accettata dalla maggioranza degli studiosi. L’equipaggiamento longobardo era simile, tranne qualche differenza, a quello delle altre popolazioni germaniche. Una caratteristica più originale era costituita da alcune armi difensive che essi avevano “importato” dalle popolazioni orientali – avari, gepidi ecc. – con cui erano venuti in contatto durante il soggiorno in Pannonia: l’elmo e la corazza a lamelle. Il primo era costituito dall’assemblaggio di lamine metalliche o di cuoio tenute insieme da lacci, con due paraguance, chiuso al centro da un nasale di metallo e sormontato da un pennacchio; la seconda era formata da lamelle di metallo o di cuoio bollito cucite a fasce orizzontali, che la rendevano resistente, adattabile ai movimenti ed estremamente facile da indossare in caso di necessità. Quando non serviva, era arrotolata e appesa alla sella del cavallo. I longobardi usavano anche l’arco ricurvo composito, che avevano mutuato dalle genti delle steppe. Le corde erano ricavate da fibre di lino, tendini o crini di cavallo. Grazie all’anima centrale in legno, al ventre in stecche di corno e al dorso in tendine, l’arco era corto e leggero e la geometria dei flettenti garantiva una gittata lunga, grande precisione e notevole rapidità d’azione, il che li rendeva molto pericolosi anche con quest’arma.


Questione di staffa Un’altra innovazione che introdussero e che avrebbe cambiato per sempre il modo di cavalcare in Europa fu la staffa. Pur essendo presente anche in parte nell’esercito bizantino, a usarla in prevalenza erano agli avari, che l’avevano a loro volta ereditata in Oriente (pare che sia stata “inventata” in India): grazie all’appoggio fornito da questo finimento, al cavaliere era non solo garantita una maggior facilità nel salire in sella ma anche una maggiore stabilità e libertà di movimento, consentendo di concentrare tutta la forza durante l’assalto al nemico senza essere disarcionati. La cavalleria era molto importante anche nell’esercito bizantino, con cui i longobardi – e prima di loro, i goti – dovettero scontrarsi molte volte. Le tecniche militari, che restarono in uso fino all’XI secolo, sono efficacemente descritte nello Strategikon, una sorta di manuale di guerra a lungo attributo all’imperatore Maurizio ma con ogni probabilità da lui soltanto revisionato. Anche grazie alla staffa, comunque, la cavalleria, che fino all’Alto Medioevo era stata tutto sommato marginale negli eserciti, divenne invece un reparto cruciale grazie alla sua forza di impatto devastante. Fino a quel momento anche tra i germani, eccettuati quelli che avevano avuto un contatto diretto con le popolazioni delle steppe, che invece erano costituite da cavalieri provetti, il cavallo non era molto diffuso. Rappresentava un costo altissimo per il mantenimento e quindi potevano permetterselo in pochi. In più, dato che nella mentalità barbarica era connesso alla sfera del divino e in particolare all’aldilà, possedeva una forte connotazione simbolica. Il cavallo era, insomma, per pochi eletti: una sorta di status symbol riservato solo ai migliori, in particolare ai re o ai capi più valorosi. Dei quali condivide le sorti. Ecco perché a volte (necropoli longobarde di Campochiaro, Moncalieri, Vicenne ecc.) compare nelle sepolture insieme al suo proprietario: dopo averlo servito fedelmente in vita, ora lo accompagna nel suo ultimo viaggio nell’aldilà. Per lungo tempo nel primo Medioevo rimase in auge il vecchio concetto che ogni uomo libero avesse il diritto/dovere di portare le armi. Ma le cose cambiarono a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo col regno dei franchi. La dinastia dei Pipinidi, maestri di palazzo dei merovingi che ne avevano scalzato il potere, fondò il suo ruolo sulla redistribuzione delle terre ai guerrieri che la sostenevano. Grazie alle rendite fondiarie, questi poterono permettersi cavalli e un equipaggiamento adeguato alla guerra. E la società iniziò a dividersi in maniera sempre più netta tra i pochi che combattevano – i milites – e la stragrande maggioranza dei rustici, ossia i


contadini, che invece erano inermi. Il guerriero si differenzia nettamente dal resto della popolazione: inizia qui il cammino che lo avrebbe portato a identificarsi in maniera definitiva con il cavaliere che ben conosciamo anche nel mito oltre che nella storia.

Vichinghi, ungari e saraceni: il terrore in Europa Tra il IX e il X secolo l’Europa, da poco pacificata proprio sotto i franchi, fu nuovamente minacciata dalle scorrerie degli arabi e di nuovi “barbari”. Caddero in mano musulmana tutta l’Africa del Nord, la Sicilia e parte del Sud Italia e riprese l’espansione in Spagna, che si aggiunsero al Medio Oriente già musulmano. La loro azione era caratterizzata dalla leggerezza e agilità sia della fanteria che della cavalleria. Nonostante i bizantini e i persiani, loro rivali, fossero armati in maniera più pesante e avessero equipaggiamenti migliori e più completi, comandanti addestrati e fossero in superiorità numerica, gli arabi riuscirono a sfruttare la propria mobilità e il genio tattico dei loro comandanti come il celebre Khalid ibn al-Walid (592-642), soprannominato Sayf al-Islam, “La spada di Allah”. Non da ultimo, a renderli motivati c’era la spinta ideologico-religiosa garantita dalla certezza di stare combattendo una guerra santa (il jihad, letteralmente “sforzo”) per sottomettere i “gentili” all’Islam. A ciò si aggiunge che in alcuni contesti – l’Africa ma anche la Sicilia – gli stessi abitanti collaborarono al successo arabo aprendo le porte delle città per sbarazzarsi del governo bizantino, sempre più evanescente ed esoso. I saraceni invece agivano soprattutto con rapide e micidiali scorrerie. Celebri e devastanti furono i saccheggi subiti da città di mare come Marsiglia, dalle coste della Sardegna (il re dei longobardi Liutprando mandò una spedizione a recuperare le reliquie di sant’Agostino per evitare che cadessero in mani infedeli e le fece collocare a Pavia nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro), da monasteri come Montecassino, Farfa, San Vincenzo al Volturno e addirittura San Gallo, nel cuore delle Alpi. Ma i pericoli maggiori giunsero da nord, da dove avevano iniziato a muoversi i normanni, e da est, da cui partirono i terribili attacchi degli ungari, spinti a loro volta dai movimenti di altre popolazioni asiatiche. A queste incursioni, tanto fulminee quanto micidiali, era praticamente


impossibile per l’esercito franco rispondere con efficacia: troppo superiore la flotta normanna rispetto all’inesistente forza navale carolingia, troppo agile la cavalleria leggera degli ungari rispetto alla pesante macchina militare franca. L’unica soluzione per le popolazioni “a rischio”, quindi, fu quella di costruire mura di difesa e castelli, e sperare che le mura fossero abbastanza solide da resistere. Provenienti dalla Scandinavia, dove esercitavano in prevalenza le attività di mercanti e pescatori, i normanni – “uomini del Nord”, detti anche vichinghi, cioè esploratori (o saccheggiatori) – verso la fine dell’VIII secolo iniziarono, forse alla ricerca di nuove terre, ad attaccare le coste delle isole britanniche scontrandosi a più riprese contro gli anglosassoni che avevano occupato l’Inghilterra, e con i celti d’Irlanda. Vittime dei raid furono anche molti monasteri costruiti vicino al mare o sulle isole dai predicatori irlandesi, come quello di Lindisfarne, al largo della costa nordorientale d’Inghilterra, che fu orrendamente saccheggiato nel 793 nella prima incursione vichinga di cui si abbia notizia nelle cronache. I vichinghi si stanziarono stabilmente in Irlanda fondando alcune città importanti – come Dublino – e furono respinti dal re Brian Boru nel 1014 a Clontarf in una battaglia che assunse quasi subito i toni del mito. L’espansione degli “uomini del Nord” continuò in varie direzioni con esiti alterni. Nel IX secolo gruppi di danesi si insediarono in Britannia assoggettando i locali regni anglosassoni senza riuscire a sfondare la resistenza del più potente di questi, il Wessex, e del suo sovrano, Alfredo il Grande. Maggior successo incontrò invece il capo normanno Rollone che, nel 911, riuscì a ottenere dal re di Francia Carlo il Semplice l’area che avrebbe preso il nome di Normandia, e a insediarvisi come suo vassallo, ponendo le basi per uno Stato vigoroso dal quale di lì a poco sarebbero partite nuove spedizioni dirette verso il Mediterraneo. Tutto ciò mentre, a partire dal X secolo, dapprima in Danimarca, poi anche in Norvegia e infine in Svezia i normanni si andavano strutturando con forme di governo più stabili rispetto alle forme tribali di impianto guerriero che fino ad allora ne avevano caratterizzato le società. Navigatori provetti, i normanni viaggiavano su imbarcazioni lunghe, robuste e molto agili (le drakkar), attaccando dal mare, saccheggiando le coste e l’entroterra, o risalendo i fiumi, mettendo a ferro e fuoco le città, spargendo il terrore fra la popolazione. Indicativa in tal senso è l’invocazione «Libera nos a malo et a diabulo septentrionale» (“Liberaci dal male e dal diavolo che viene dal Nord”) contenuta in alcuni messali francesi di questo periodo, scritti evidentemente nel terrore delle devastazioni. Ecco un episodio emblematico riportato dall’agiografo Aelfric nella Passione di Edmondo, dedicata al re-santo dell’East Anglia, una contea anglosassone,


oltraggiato e ucciso intorno all’870: Avvenne poi che giungessero con la loro flotta i danesi, portando morte e distruzione in tutto il territorio, come loro costume. In quella flotta i capi più importanti erano Ivar e Ubbi, la cui alleanza era stata voluta dal diavolo: sbarcarono in Northumbria con navi da guerra, devastarono il territorio e massacrarono la popolazione. Poi Ivar si volse a est con le sue navi, e Ubbi si fermò in Northumbria, avendo ottenuto una crudele vittoria. Ivar giunse bordeggiando nell’East Anglia nell’anno in cui Alfredo, poi glorioso re del Wessex, aveva ventuno anni. Ivar piombò su quella terra, come un lupo uccise la popolazione, uomini donne, bambini innocenti, e angariò oltraggiosamente gli incolpevoli cristiani. Inviò subito al re Edmondo un tracotante messaggio dicendo che doveva sottomettersi, se gli premeva la vita. Dopo un breve consulto col suo vescovo, Edmondo decide di resistere e rimanda dal suo padrone il messo. Per strada – riprende Aelfric – incontrò il sanguinario Ivar, che con il suo esercito si dirigeva velocemente verso Edmondo, e comunicò a quel malvagio la risposta ricevuta. Allora Ivar ordinò con tracotanza ai suoi pirati di cercargli quel re, l’unico che dispregiasse i suoi comandi, e di catturarlo immediatamente. Quando Ivar giunse, re Edmondo era in piedi nella sala; pensando al Salvatore gettò via le armi, poiché voleva imitare l’esempio di Cristo che proibì a Pietro di combattere con le armi contro i crudeli ebrei. Allora i malvagi legarono Edmondo, lo insultarono obbrobriosamente e lo colpirono con le loro aste. Quindi condussero il re fedele a un solido albero, lo legarono con corde robuste e di nuovo lo colpirono a lungo con le fruste: tra i colpi, con fede incrollabile, egli sempre si rivolgeva a Cristo Salvatore. La sua fede, e il fatto che chiamasse sempre Cristo in aiuto, esasperarono i pagani e ne accrebbero la furia. Allora, per divertirsi, tirarono contro di lui con le frecce, finché – come san Sebastiano – non fu interamente circondato di frecce, quasi fossero gli aculei di un porcospino. A quel punto Ivar, il crudele pirata, si rese conto che il nobile re non avrebbe mai rinnegato Cristo, cui continuava a rendere testimonianza con risoluta fede. Comandò allora che fosse decapitato, e i pagani eseguirono l’ordine.

A volte, però, gli uomini del Nord colonizzavano terre fino a quel momento quasi disabitate. I loro attacchi si rivolsero anche verso il Mediterraneo e l’Italia, dove molte regioni, ripetutamente flagellate, furono costrette dal IX secolo al pagamento di esosi tributi. Infine portarono alla creazione di nuovi regni che, come quello di Sicilia, alterarono gli equilibri politici e si imposero come nuovi, importanti interlocutori sulla scena del continente europeo. Un’altra enorme e sentitissima minaccia fu quella che giunse da est a opera degli ungari. Si trattava di nomadi spinti dalla pressione di genti turche e cinesi, che nel IX secolo lasciarono le steppe orientali per riversarsi a ondate nel cuore dell’Europa. Oltre all’aspetto – erano definiti «mostri umani93» – a terrorizzare era il loro urlo di battaglia, «Hui, hui» secondo il vescovo Liutprando da


Cremona94. Per dare un’idea del clima che si doveva respirare all’epoca si può citare questo passo del cronista Giovanni Diacono: Nell’anno 900, il popolo pagano e crudelissimo degli ungari giunse in Italia e cominciò a devastare tutto con incendi e rapine, uccidendo un gran numero di uomini e facendone schiavi molti altri. Passando per Treviso, Padova, Brescia e altre terre, essi giunsero a Pavia e a Milano, devastando ogni cosa. A porre fine al flagello fu il re di Germania Ottone I di Sassonia, che nel 955 riuscì a sconfiggerli in un’epica battaglia a Lechfeld, nei pressi di Augusta. Ma il loro ricordo si sarebbe perpetuato a lungo nella memoria collettiva: basti pensare che il termine “orco” – con le sue prerogative sinistre di crudele antropofago – deriva proprio da ogro, che altro non è se non la storpiatura di “ungaro”. Sul territorio, l’ondata di scorrerie produsse il fenomeno dell’incastellamento, cioè la creazione di fortificazioni a scopo difensivo. Tempo duecento anni e all’orizzonte sarebbero apparsi i mongoli. Eccone un’efficace descrizione a opera del cronista francese Ivo di Narbona: «Sono uomini inumani, la cui legge è essere senza legge, sono ira e strumento del castigo divino, devastano terre enormi muovendosi come fiere e sterminando col ferro e col fuoco tutto ciò che incontrano. Sono gli alleati dell’anticristo». Nella sua mentalità – era un chierico – era automatico associarli al demonio. Del resto era quello che facevano i profughi che, scampati ai massacri, raccontavano a tinte foschissime la loro triste esperienza. Alla testa di queste schiere che seminavano morte e distruzione c’era Gengis Khan. Temüjin – questo il suo vero nome – grazie a un’innata abilità diplomatica unita a un’intelligenza non comune, si era circondato di anda (e cioè “fratelli di sangue”), a lui legati da un rapporto fondato sulla fedeltà più assoluta, e aveva iniziato un’astuta politica di alleanze riuscendo a farsi proclamare Khan (“capo”) del vasto ed eterogeneo gruppo di tribù disseminate nelle steppe. Come insegna, onorifica e magica al tempo stesso, aveva scelto il tuk, un’asta dalla quale pendevano nove code di yak (il bue muschiato), e quando morì, nel 1227, era riuscito a dar vita a uno degli imperi più vasti che la storia ricordi: il doppio di quello romano e quattro volte quello di Alessandro Magno. Il segreto del suo successo era, oltre al grande carisma personale, il terribile esercito (che comandava di persona e sempre in prima linea) e l’imposizione del rispetto più assoluto per la yassak, la legge fondata su consuetudini radicate da secoli ma integrata da precetti di tolleranza. La sua fama, però, in Occidente fu alquanto sinistra, al punto che leggende e racconti lo dipingevano come il diavolo in persona. Forse perché, a differenza degli altri condottieri, non portava


la guerra per motivi religiosi né politici, né per prestigio personale, ma unicamente per soddisfare la perenne fame di terra dei nomadi delle steppe. Incoraggiato dagli sciamani (i grandi sacerdoti dei popoli senza patria), era convinto che il suo potere gli derivasse direttamente dal dio del cielo Tngi, e che da ciò fossero legittimati anche i massacri di coloro che non intendevano sottomettersi. Ma al di là delle leggende (tra le quali quella dell’esatta posizione della sua tomba, finora ancora ignota), il “Khan Oceano” introdusse la scrittura (l’uighur), fondamentale per organizzare una burocrazia e un’amministrazione statale e per creare un’unità culturale. La sua eredità fu raccolta dal nipote Baku, che fondò la dinastia dell’Orda d’Oro e riuscì a occupare il Sud della Russia e le steppe dell’Asia. Convertiti i mongoli all’islamismo, Baku pose a Saraj la sua capitale e da lì impose la sua autorità, dopo averli resi tributari, sui numerosi principati russi accentuandone il distacco dall’Europa. Ma ciò che sorprese maggiormente i contemporanei fu la stupefacente capacità di organizzare e condurre un esercito di cavalieri efficientissimo e ordinato, in grado di coprire immense distanze in pochi giorni e di colpire con una pioggia di frecce bersagli lontani mentre erano lanciati al galoppo.


Inscatolati in sella Non i grandi solcatori delle steppe ma, forse, i normanni, e in particolare quelli che nel 1066 ad Hastings conquistarono l’Inghilterra al comando di Guglielmo il Conquistatore, sono considerati nell’iconografia tra i prototipi del cavaliere medievale. A favorirli, senz’altro, c’è un testimone d’eccezione: il celebre arazzo di Bayeux. Lungo oltre settanta metri e alto cinquanta centimetri, fu ricamato ad ago con fili di lana di otto colori su una fascia di tela di lino, pare, da Matilde, moglie dello stesso Guglielmo. Navi, armi, contadini, persino la cometa di Halley appaiono nei numerosi quadri che, uno accanto all’altro, si susseguono a raccontare le vicende come in un fumetto, con tanto di didascalie in latino a corredare le scene. Ma i veri protagonisti sono appunti i cavalieri, muniti di cotte di maglia, elmi a calotta con tanto di nasale e grandi scudi a goccia, rappresentati nelle più varie azioni. Il cavaliere medievale, del resto, nell’immaginario collettivo compare sempre rivestito dalla testa ai piedi di ferro. Decine di chili di metallo che ne rallentavano il passo, impacciavano i movimenti e richiedevano continua assistenza non solo per issarlo a cavallo, ma anche in guerra, perché se finiva disarcionato durante uno scontro erano guai. Ma era davvero questa l’immagine che offriva sui campi di battaglia? In realtà le cose stavano un po’ diversamente. Sin da quando fece la sua comparsa, era in genere corazzato, ma almeno nei primi secoli abbastanza alla leggera. Il capo più pesante, elmo a parte, era costituito da una cotta formata da centinaia di anelli di metallo ribattuti e agganciati a gruppi di quattro che coprivano le parti vitali, ossia le spalle e il torace. La fitta maglia di ferro garantiva libertà di movimento e impediva di ferire alle stoccate di punta, ma si rivelava abbastanza inefficace se il colpo veniva dato di taglio oppure inferto con forza dall’alto al basso. Ecco che allora al di sotto della tunica di metallo il cavaliere poteva indossare un’ulteriore protezione fatta di cuoio bollito o di stoffa imbottita che serviva ad attutire i colpi e ridurre il rischio di fratture ossee. Pian piano, la cotta di maglia prese a essere estesa anche alle braccia e alle cosce. E logicamente più era grande, più era pesante. Nel corso del XIV secolo, pian piano iniziano a diffondersi ulteriori protezioni di ferro applicate alle braccia e alle gambe e in corrispondenza delle articolazioni, unitamente a un elmo coperto da una visiera anch’essa metallica, magari munito di barba di ferro – simile alla cotta di maglia – a protezione del collo e della nuca. Un’armatura completa siffatta, che si indossava sopra alla


citata tunica imbottita di stoffa, poteva arrivare a pesare anche trenta-quaranta chilogrammi. Tuttavia si trattava di protezioni articolate e mobili, per cui tutto sommato si restava piuttosto agili anche appiedati dopo una carica. Il problema si presentava quando il cavaliere corazzato cadeva in acqua: se non riusciva a liberarsi, il peso del metallo lo trascinava velocemente sul fondo e moriva annegato. A parte quest’eventualità, l’unica vera e grande controindicazione era rappresentata dal fatto che l’armatura di metallo, scaldata dal sole, si trasformava in un vero e proprio forno. Ma a questo si tentava di porre rimedio dipingendo alcune parti con colori più chiari. Così abbigliati, naturalmente, i cavalieri erano difficilmente distinguibili l’uno dall’altro. Per questo ognuno portava il suo blasone dipinto ben visibile sullo scudo o sulle armi. Naturalmente, anche il cavallo era corazzato. Di solito erano previste protezioni per la testa, per il collo e per il petto. Tutto questo peso richiedeva una bestia dalla struttura fisica possente e di statura notevole: ragion per cui rispetto ai cavalli che utilizzavano ad esempio i germani nel primo Medioevo, relativamente bassi ma agili – e di cui come si ricorderà conosciamo le dimensioni grazie a numerosi ritrovamenti archeologici –, i combattenti in armatura facevano ricorso a stalloni appartenenti ad esempio alla razza Frisone. Va ricordato comunque che i cavalieri avevano più cavalli dalle diverse caratteristiche a seconda dell’impiego cui erano destinati. Se il corsiero, ad esempio, per la velocità e la mole era il campione dei tornei, il palafreno era il cavallo prediletto per affrontare i viaggi. Ronzini e cortaldi erano invece utilizzati per portare armi, pesi e salmerie ed erano affiancati da altre bestie da soma. Il guerriero medievale possedeva e utilizzava varie armi d’offesa (come l’ascia, la mazza, la lancia), ma quella “cavalleresca” per eccellenza era la spada. Di solito era a doppio taglio e con un’impugnatura più o meno elaborata a seconda della ricchezza e del rango del suo proprietario. Che non se ne separava mai, anzi la considerava un alter ego di se stesso. Del resto, la tradizione ci ha addirittura tramandato nomi di spade illustri appartenute a personaggi altrettanto preclari: la Durlindana di Orlando e la mitica Excalibur (letteralmente, “che taglia l’acciaio”) di Re Artù. Il duo spada-cavaliere si scindeva soltanto quando il secondo moriva oppure decideva di donarla a un uomo del suo seguito particolarmente meritevole. È il caso della Durlindana, secondo la leggenda ricevuta da Orlando dal suo signore Carlo Magno. La spada poteva essere “abbandonata” – ma mai in battaglia, cosa considerata ignominiosa! – solo se il cavaliere decideva di cambiare vita. Fu ciò che fece il nobiluomo senese Galgano Guidotti nel XII secolo, quando scelse di abbandonare la vita turbolenta


del guerriero per darsi all’eremitaggio. Salito sul Monte Siepi, cercò del legno per costruire una croce ma non lo trovò: estrasse allora la spada e l’affondò in una roccia. La “spada nella roccia” di san Galgano, che ricorda molto da vicino l’Excalibur arturiana (da notare che lo stesso nome Galgano è una variante del Gawain che compare nelle leggende legate al mitico sovrano, il che ha aperto interessanti collegamenti e prospettive di interpretazione), è ancora oggi visibile all’interno dell’eremo di Montesiepi da lui fondato. Data la grande valenza simbolica (e anche religiosa) della spada, nel corso del Medioevo maneggiarla divenne pian piano una vera e propria arte e anche il combattimento, in generale, fu considerato non solo un mezzo per difendersi, ma anche un modo per coltivare la propria nobiltà. Preziosa testimonianza in tal senso sono alcuni manuali scritti dal Trecento in poi che insegnavano, letteralmente e con l’ausilio di figure esplicative, la tecnica corretta del combattimento con le varie armi. Il più antico trattato di scherma finora conosciuto è il London Tower Fechtbuch (anche noto come manoscritto numero I.33, conservato in originale nell’Armeria reale di Leeds): databile al 1320 circa, illustra una serie di azioni tra due monaci, un maestro e un allievo, armati di spada e di brocchiero, cioè un piccolo scudo circolare. Anche se i disegni sono anatomicamente imprecisi – ci sono strani grovigli di gambe e a volte i personaggi compaiono con due mani sinistre! – la tecnica spiegata è articolata in sette movimenti base da ripetere con varianti e il testo è corredato da brevi didascalie da imparare a memoria per favorirne l’apprendimento. Il testo più completo e importante è però il Flos duellatorum del friulano Fiore de’ Liberi da Premariacco, composto intorno al 1410, che illustra l’istruzione del cavaliere in tutte le sue componenti base, dalla lotta a mani nude alla daga, alla lancia, a diversi tipi di bastoni, in armatura e senza, a piedi e a cavallo.


Questione di immagine Ma questi guerrieri erano davvero così “cavalieri” come il mito li descrive? Intanto, esserlo non era cosa da tutti. Occorreva possedere un cavallo, avere chi se ne occupava (di solito, uno o più scudieri) e mantenerlo. Poi, lo si cavalcava armati, il che lievitava ulteriormente le spese. Per diventare cavalieri occorreva superare un tirocinio di molti anni. Sin da piccolo, cioè intorno agli otto anni, l’aspirante entrava come paggio alla corte di un nobile per apprendere l’arte della guerra. A quattordici anni passava al rango di scudiero, ossia di “reggiscudo” – donde il nome – di un cavaliere già maturo, che diventava in pratica il suo tutore. Così il baldanzoso giovane poteva mettere in pratica ciò che aveva sinora imparato. Mentre perfezionava la sua tecnica nel maneggiare le armi con costanti esercizi anche molto duri, seguiva il suo signore come un’ombra, lo aiutava a indossare l’armatura, si occupava della manutenzione di tutto l’equipaggiamento e, soprattutto, ne accudiva il cavallo. Ogni tanto poteva accadere che combattesse anch’egli al suo fianco. Se dimostrava di essere valoroso e affidabile, allora otteneva l’investitura, che avveniva con una cerimonia di investitura pubblica. Dopo aver pronunciato il solenne giuramento di fedeltà, riceveva un “buffetto” sulla guancia o sulla nuca da parte del suo signore, una sorta di schiaffo di iniziazione. Tale cerimonia, che nel Duecento prese il nome di adoubement (dal francone dubban, “colpire”), accoglieva simbolicamente il neofita nel gruppo degli “eletti”. Questa cerimonia assunse a partire dal XII secolo, nel caso degli ordini monastici cavallereschi, un’ulteriore valenza. Il che non significa che anche i cavalieri “laici” non dovessero obbedire a princìpi di carattere morale. In genere però si può dire che per costoro, ormai avviati a essere professionisti della guerra, ogni occasione era buona per combattere. I tempi erano talmente cupi che la Chiesa stessa tentò di limitare i danni, dapprima consigliando e poi imponendo (nel Concilio di Arles del 1037 e in altri successivi) un periodo di tregua – la treuga Dei, “tregua di Dio” – durante i periodi connessi alle grandi feste liturgiche e dal venerdì alla domenica, pena la scomunica. Ma non sempre veniva rispettata, come accadde il 27 luglio 1214, una domenica appunto, quando l’imperatore Ottone IV di Brunswick e il re di Francia Filippo Augusto si scontrarono a Bouvines. Anche per quanto concerne il rispetto dell’avversario vinto, non sempre si procedeva con i dovuti riguardi che l’etica avrebbe imposto. Ad Agincourt, nel


1415, i nobili inglesi si rifiutarono di eseguire l’ordine del re di uccidere i loro pari francesi sconfitti. Il sovrano però non volle sentire ragioni e ordinò agli arcieri, che non potevano insubordinarsi, di finirli a colpi di azza, una lunga ascia provvista di spuntone. Anche quando il nemico veniva risparmiato, non era tanto per scrupoli morali quanto per la speranza di ricavarci un cospicuo riscatto, impossibile in caso di decesso dei prigionieri. Non erano rari nemmeno gli episodi di dileggio. Nel 1237, dopo la vittoria contro i comuni a Cortenuova, Federico II raccolse sul campo quel che restava del Carroccio dei milanesi e lo portò in pompa magna a Cremona per poi inviarlo a Roma con l’ordine di esporlo in Campidoglio – secondo l’antica tradizione – come “spoglia opima”. Sul Carroccio, con un cappio al collo, era legato il podestà di Milano, quel Pietro Tiepolo figlio del doge veneziano che, pochi anni dopo, avrebbe fatto giustiziare in Puglia. Gli facevano compagnia altri prigionieri legati. E a trascinare il carro, anziché la consueta coppia di buoi, c’era un elefante bardato a festa.

La variopinta scorta dell’esercito A invitare i cavalieri alla battaglia c’era, oltre all’obbligo di servire il signore, uno scopo ben più prosaico: quello di far bottino e, magari, accrescere il proprio rango sociale. Perché se è vero che chi ben combatteva e si dimostrava leale, in caso di vittoria poteva ricevere compensi in terre e feudi, se le cose andavano male si rivaleva di solito sulle popolazioni inermi traendo in questo modo poco “ortodosso” i compensi per la guerra e il bottino per gli uomini che a sua volta lo avevano supportato. Questa eventualità, ovviamente, si presentava spesso anche in caso di esito favorevole: il saccheggio e l’eventuale riscatto chiesto per i nemici catturati risultavano così un bel modo per “arrotondare” i profitti derivati dall’impegno in


battaglia. Esperti del genere erano i vichinghi, gli ungari e i saraceni, che tra il IX e il X secolo devastarono l’Europa con una serie di scorrerie, ma anche gli inglesi che, durante la Guerra dei Cent’anni (1337-1453), misero a ferro e fuoco il Nord della Francia con le terribili chevauchées, incursioni a cavallo a scopo di saccheggio, stupro e massacro della popolazione. La morte era seminata anche dalle epidemie, veicolate ulteriormente dalle truppe. Nel 593 l’esercito longobardo di Agilulfo fu decimato dalla malaria alle porte di Roma e lo stesso accadde sempre al Barbarossa, che a causa del morbo – allora la Città Eterna era circondata di paludi – unito alla dissenteria perse gran parte dei suoi uomini tra cui i suoi migliori luogotenenti, i vescovi Corrado di Augusta, Alessandro di Liegi, Goffredo di Spira, Eberardo di Ratisbona, Daniele di Praga, Ermanno di Verden, il duca Federico di Svevia, Guelfo VII, Teobaldo di Boemia, Rainaldo di Dassel e persino lo storico imperiale Acerbo Morena. Durante la terza crociata le truppe cristiane furono decimate dalla peste. Durante l’ottava, nel 1270, trovò la morte a causa della dissenteria causata dalla mancanza di acqua potabile persino il re di Francia Luigi IX: il suo corpo fu bollito e spolpato e i resti seppelliti in parte in Tunisia, in parte altrove mentre il suo cuore fu spedito a Parigi. Nel 1347 nelle fila dell’esercito mongolo dell’Orda d’Oro che assediava la fortezza di Caffa, in Crimea, esplose una violenta epidemia di peste. Di lì a poco raggiunse, sulle navi genovesi, l’Europa e in sei anni sterminò almeno un terzo della popolazione, passando alla storia come la “Peste Nera”. Con le truppe viaggiava – come una specie di scorta variopinta – anche un corteo di artigiani, mercanti, saltimbanchi, giullari e prostitute. Soprattutto le crociate furono il teatro in cui spettacoli del genere si potevano vedere di frequente. Stando al cronista arabo Imad-ad-Din, ad esempio, ad accompagnare coloro che si recavano in Terrasanta c’erano navi cariche di «belle donne franche, adorne di lor giovinezza e beltà, raccoltesi d’oltremare e proffertesi a commetter peccato». Durante la prima crociata, nel 1095, prima ancora dei nobili partirono per la Terrasanta, aizzati dalla bruciante predicazione di Pietro l’Eremita, gruppi di pauperes, contadini e diseredati che, al grido di «Deus lo


vult» (“Dio lo vuole”), intendevano liberare i luoghi santi caduti in mano agli infedeli. Nelle loro fila, oltre a cavalieri dalla dubbia reputazione – come il celebre Gualtieri Senza Averi – c’erano donne, vecchi, bambini senza alcuna organizzazione di tipo militare. Per approvvigionarsi, lungo il tragitto si diedero a massacri, saccheggi e ruberie di ogni sorta finendo per la massima parte decimati prima ancora di raggiungere Costantinopoli. Tra le vittime della loro azione ci furono soprattutto gli ebrei, ai danni dei quali scatenarono veri e propri pogrom. Nel 1251, chiamati a raccolta dall’oscuro Giacobbe, detto il Maestro (o Prete) d’Ungheria, si radunarono invece in Francia migliaia di contadini, esclusi di ogni sorta e soprattutto malviventi. L’eloquenza del Maestro era riuscita a convincere persino Bianca di Castiglia, la madre di Luigi IX che era stato fatto prigioniero in Terrasanta, circa la bontà delle loro azioni atte a punire i malcostumi del clero. Ma come divenne subito chiaro, questa “crociata dei pastorelli” – come fu poi battezzata – si dimostrò l’occasione per molti uomini e donne ai margini della società per sottrarsi alla legge e darsi a ogni sorta di eccessi. A Tours catturarono un gran numero di preti e, accusatili di sodomia e corruzione, li fustigarono per le strade in mezzo a sciami di plebaglia plaudente. Dopo di che si diedero a saccheggiare i monasteri. Dovunque passavano, lasciavano cumuli di morti e di macerie fumanti. L’accozzaglia si disperse dopo che, in seguito all’ennesima uccisione gratuita, lo stesso Prete d’Ungheria finì fatto a pezzi dalla folla. Ma dopo pochi decenni, sempre in Francia si sarebbe scatenata una nuova “crociata” che avrebbe unito – ancora! – la plebaglia ai reietti della società contro gli ebrei e il clero. E anche questa sarebbe annegata nel sangue.


Monaci e cavalieri A proposito di crociate, fu proprio per tentare di riconquistare la Terrasanta che si mossero gruppi di cavalieri del tutto particolari. Si trattava di uomini che pronunciavano i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza e, nel contempo, si impegnavano a combattere gli infedeli e a proteggere i deboli e gli oppressi. Tra i primi milites Christi, “soldati di Cristo”, ci furono i Cavalieri di San Giovanni, o “ospitalieri”, che presero il nome dall’omonimo e più antico ospedale sorto a Gerusalemme per ospitare i pellegrini che si recavano nei luoghi santi. Confermato con una bolla papale nel 1113, l’ordine fondato dal beato Gerardo Sasso si affiancò a quello dei templari – che risiedevano sul luogo dove sorgeva il Tempio di Salomone – ed entrambi, grazie alle cospicue donazioni di terre e ai ricchi proventi che ne derivavano, si distinsero per capacità economica, organizzativa e militare. La fondazione dei templari avvenne, secondo il cronista Guglielmo di Tiro, nel 1118, quando alcuni nobili cavalieri, pieni di devozione per Dio, religiosi e timorati di Dio, rimettendosi nelle mani del signore patriarca per servire Cristo, professarono di voler vivere perpetuamente secondo le consuetudini delle regole dei canonici, osservando la castità e l’obbedienza e rifiutando ogni proprietà. Tra loro i primi e i principali furono questi due uomini venerabili, Ugo de Paganis e Goffredo di Santo Aldemaro95. Tuttavia fu ufficializzato solo nel 1129 quando assunse la sua prima Regola, poi arricchita da redazioni successive: in essa si prescrivevano tra le altre cose l’astensione dal frequentare le donne (anche parenti), il ricorso frequente alla preghiera, la solidarietà collettiva, il divieto di usare la violenza gratuita e l’uso della balestra, considerata diabolica e condannata – insieme all’arco – da papi e concili come arma da non potersi utilizzare negli scontri tra cristiani. Il che, tra parentesi, non significa che non venisse impiegata, anzi: dalla fine del XII secolo compare sempre più spesso negli eserciti fino a caratterizzare interi reparti (sovente mercenari) specializzati. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) lodò apertamente, nel De laude novae militiae ad Milites Templi (“In lode della nuova milizia”), lo sforzo dei templari – l’opera è dedicata al Maestro Ugo di Payns – di unire audacia bellica e ardore religioso contro i “nemici della cristianità” e arrivò persino a teorizzare


il “malicidio”: uccidendo un infedele, un pagano o un eretico, cioè, non si compiva un delitto ma un’azione gradita a Dio in quanto si eliminava il male che essi veicolavano. Certo – spiegava – non si dovrebbero uccidere neppure gli infedeli se in qualche altro modo si potesse impedire la loro eccessiva molestia e l’oppressione di fedeli. Ma nella situazione attuale è meglio che essi vengano uccisi piuttosto che lasciare la verga dei peccatori sospesa sulla sorte dei giusti e affinché i giusti non spingano le loro azioni fino all’iniquità.

Le sue parole, dunque, non lasciano adito a dubbi: «Il Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo». Oltre a combattere, divennero ricchissimi grazie ai proventi della gestione dei beni dei pellegrini: a loro, probabilmente, si deve il primo capillare sistema bancario del Medioevo. Anche per questo, una volta terminate le crociate, attirarono la cupidigia di più parti e sul loro conto iniziarono a fiorire le più disparate maldicenze. Le colse, insieme all’opportunità di incamerane i beni, il re di Francia Filippo IV il Bello che, con l’aiuto di papa Clemente V, li accusò di idolatria ed eresia (tra le colpe, quella di praticare la sodomia, di sputare sulla croce e di adorare un idolo barbuto nominato Baphomet). Dopo un lungo e drammatico processo che si aprì nel 1307, la fine dei templari si consumò nel 1314 tra le fiamme che avvolsero sul rogo l’ultimo Maestro Jacques de Molay e il precettore di Normandia Geoffrey de Charnay. L’ordine monastico militare dei “teutonici” invece, fondato in Terrasanta durante la terza crociata da alcuni mercanti di Brema e Lubecca allo scopo di assistere i pellegrini di lingua tedesca, è passato alla storia per aver strappato ai pagani, con campagne belliche di grande ferocia, buon parte dell’Europa nordorientale. Impegnati dapprima contro i musulmani durante il sanguinoso periodo delle crociate, dopo la perdita di Gerusalemme furono costretti a trovare altri spazi in grado di saziare la loro fame di conquiste. Smantellata nel 1191 l’ultima roccaforte nel Vicino Oriente, rivolsero dunque i loro occhi sempre a est, ma stavolta nel cuore del continente, verso il Baltico, e da quel momento in poi concentrarono le loro energie alla sottomissione delle genti ancora pagane. Si scontrarono via via con i danesi, i lituani, i russi, i polacchi, persino i mongoli, in uno stato continuo di guerra che conobbe momenti epici come anche sconfitte memorabili. Come quella avvenuta il 5 aprile 1242 sul lago Peipus, a opera del principe di Novgorod Alexandr Nevskij, destinata a diventare un mito grazie al film di Eisenstein (1938) con musiche di Prokof’ev. O quella del 15 luglio 1410 a Tannenberg, a opera dei polacchi e dei lituani, che iniziò un lungo periodo di


progressiva e sempre più cupa decadenza. Da allora i teutonici persero pian piano il controllo di tutti i territori tranne quelli prussiani, sui quali peraltro governava nominalmente il re di Polonia. E il colpo di grazia arrivò a partire dal 1525 quando Alberto di Brandeburgo, Gran Maestro dal 1511, aderì alla Riforma luterana e secolarizzò i beni dell’ordine. Da lì in avanti il Deutscher Orden, che per trecento anni si era gloriato del blasone di un vero e proprio principato territoriale, veniva declassato a ducato ereditario degli Hohenzollern, finendo per diventare il nucleo fondante della Prussia moderna. E se pure al Gran Maestro – che dalla sua residenza di Ellingen assistette impotente, nel 1526, al trasferimento delle sede dell’ordine a Mergentheim – restava la dignità di principe-abate dell’impero, venivano meno per i teutonici l’autonomia e il prestigio di cui avevano goduto per secoli. All’apparenza – a cominciare dal vestiario – non si differenziavano molto dagli altri ordini. Ma nella sostanza la cifra peculiare dei teutonici era assai diversa: mentre templari e ospitalieri davano molta importanza anche a occupazioni “pacifiche” come l’assistenza ai pellegrini, i cavalieri del Deutscher Orden facevano della guerra la loro pressoché unica cura. La memoria corre agli antichi germani, che combattevano per entrare nel Valhalla, la “sala dei morti in battaglia”, ansiosi di assistere Wotan nel Ragnarök, lo scontro finale tra le potenze della luce e dell’ordine e quelle della tenebra e del caos, prodromo alla fine del mondo e alla sua rigenerazione. In battaglia questo mistico confine tra tenebra e luce, tra ordine e caos, doveva essere spesso superato se è vero che la sola apparizione sul campo della croce nera patente, futura croce germanica, e dell’aquila con le ali spiegate suscitava nel nemico un autentico terrore. Accanto alla spada, usavano anche l’aratro e, soprattutto, l’ingegno della costruzione: la fitta costellazione di austeri castelli-convento (il più celebre è quello di Malbork in Polonia, noto anche come Ordensburg Marienburg, designato dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità) costituiva il nucleo per future città, organizzate intorno al maniero con campi dissodati e bonificati alla bisogna. La velocità e l’efficienza (“teutonica”, appunto) con cui costruivano divenne proverbiale e sono alla base anche del mito (oltre che della realtà) della Prussia moderna. Altro confine che seppero valicare fu quello dell’accettazione della donna, come presenza attiva, in seno all’ordine, ovviamente nel campo dell’assistenza: anche questo, un unicum nel panorama degli ordini monastici di stampo cavalleresco e un tratto di sorprendente modernità.

Saccheggi, stupri, massacri Ma torniamo ai saccheggi


e alle requisizioni. Esse si verificavano anche durante le normali operazioni militari, che di regola avvenivano nella bella stagione. Se infatti da un lato spostare truppe ed equipaggiamenti durante l’inverno poteva risultare poco agevole a causa del freddo, della pioggia e della neve, dall’altro nei mesi da ottobre a marzo era più difficile anche approvvigionare le migliaia di uomini e animali in marcia. Di solito quando si intraprendeva una campagna militare, si pensava anche alla logistica. Il più delle volte, si procedeva a requisire con la forza (o per legge: gli ufficiali pubblici e il sovrano avevano il diritto di fodro, ossia di esigere foraggi e biada per i cavalli) le risorse necessarie alla popolazione locale. A volte però si organizzava un sistema di trasporto delle vettovaglie che procedeva insieme all’esercito utilizzando fiumi e canali navigabili o il mare. Solo di rado le merci viaggiavano insieme alle truppe perché rischiavano di rallentare troppo la marcia e di diventare facile bersaglio per razzie e saccheggi da parte del nemico. Di conseguenza, se i rifornimenti non arrivavano, oppure le condizioni climatiche rendevano particolarmente difficile l’approvvigionamento, scattavano quasi sempre i raid ai danni dei contadini inermi. Durante le lunghe lotte tra comuni e Federico Barbarossa, ad esempio, l’imperatore si cimentò più volte in requisizioni forzate di vettovaglie, saccheggi e devastazioni sistematiche dei campi intorno alle città nemiche onde impedirne i rifornimenti. Per cercare di sopravvivere si ricorreva allora ai più ingegnosi stratagemmi. A fine ottobre del


1179, ad esempio, proprio il Barbarossa tentò inutilmente l’assedio di Alessandria, la città che la Lega lombarda aveva costruito a sua onta battezzandola col nome del papa suo acerrimo nemico. Gli abitanti resistettero per mesi. Giunti ormai alla Pasqua, le scorte scarseggiavano e occorreva inventarsi qualcosa per costringere le truppe imperiali a levare l’assedio intanto che le milizie comunali si organizzavano per i soccorsi. A sbloccare la situazione fu, secondo la leggenda, una trovata geniale escogitata da un vaccaro di nome Gagliaudo. Dopo aver setacciato la città in cerca delle ultime granaglie rimaste, rimpinzò la sua ultima vacca e facendo finta di nulla la portò a pascolare nei campi proprio davanti all’esercito nemico. Le vedette dell’accampamento tedesco lo catturarono, presero la mucca e la sventrarono. Nel trovarla colma di granaglie, l’imperatore si convinse che la città era ben rifornita – al contrario delle sue truppe, ormai allo stremo – e si decise a firmare la pace. Assedio ben più fortunato per lui era stato quello condotto nel luglio 1160 alla città di Crema, alleata di Milano. Il Barbarossa aveva fatto approntare, insieme ad altre macchine da guerra, una gigantesca torre di legno. Ora, poiché gli assediati avevano preso a bombardarla a colpi di mangani e petriere (catapulte che lanciavano pietre e altri proiettili), vi fece legare, di fianco e di fronte, i prigionieri cremaschi e milanesi. In città presero la sofferta decisione di continuare la difesa tirando al nemico anche se ciò significava centrare i propri concittadini, che finivano sfracellati, orribilmente mutilati, fatti letteralmente a pezzi. Le urla laceranti di chi veniva colpito e i suoi agghiaccianti lamenti si mischiavano al pianto di chi, da dentro le mura, non poteva che assistere impotente alla tremenda agonia dei propri cari. Così morirono, le cronache tramandano, i milanesi Codemaglio di Pusterla ed Enrico di Landriano, i cremaschi Presbitero di Calusco, Truco di Bonate, Aimo di Galliorosso e tanti altri. L’azione, per quanto alla fine inutile (Crema cadde ugualmente e fu distrutta), valse l’ammirazione dello stesso imperatore. I milanesi, del resto, ricorsero più volte durante il conflitto al genio di un certo maestro Guintelmo che costruì per loro in fretta e furia un ponte sul Ticino, progettò varie macchine da assedio e rimise a nuovo il Carroccio malconcio dopo tante battaglie inserendovi sui lati una selva di falci da fieno affilate in modo da tagliare, se si fosse avvicinato troppo, le gambe al nemico.


Il ruolo della fanteria A proposito di eserciti comunali, va sottolineato come avessero sì a disposizione la cavalleria fornita dalla nobiltà cittadina, ma la parte numericamente più rilevante fosse costituita dai fanti. Non si trattava di militari di professione ma per lo più di contadini strappati, quando l’emergenza lo richiedeva, alla terra. Potevano giovarsi di una varietà di armi di difesa e offesa che definire rudimentali è a dir poco un eufemismo: forconi, zappe, falci e altri attrezzi agricoli, magari modificati alla bisogna. Di tanto in tanto, spuntava una spada, un arco o una mazza di ferro portati da qualche contadino un po’ più abbiente, mentre abbastanza facile era procurarsi uno scudo di legno. Nonostante questa impressione raccogliticcia, i fanti restavano il grosso preponderante dell’esercito comunale. Prima di tutto, perché erano la base silenziosa e impotente della società, con poca dignità e ancor meno diritti. E poi erano tanti, poco costosi e relativamente facili da sostituire, visto che uno valeva l’altro. In una parola, erano carne da macello. La preparazione tecnica e tattica dei fanti era, almeno agli inizi dell’esperienza comunale, piuttosto sommaria, se non addirittura inesistente anche per mancanza di tempo sufficiente all’addestramento: non si poteva certo privare troppo a lungo la terra delle braccia che la lavoravano... Col tempo, però, anche le milizie cittadine furono riorganizzate e nel XII secolo, sempre ai tempi del conflitto tra comuni e Barbarossa, anche chi le preparava conosceva come combattevano gli antichi eserciti, e sapeva come reagivano quando si trovavano a sopportare un impatto frontale duro e di notevoli dimensioni. Per far fronte alla cavalleria in genere gli uomini si schieravano spalla a spalla, serrando le fila, ben protetti sul davanti con gli scudi e con le lance puntate al di fuori, verso il nemico. Le loro forze, se ben dosate e dirette, potevano anche risultare micidiali. La fanteria costituiva il grosso dell’esercito anche in altri contesti. In Inghilterra, ad esempio, era formata in massima parte dagli yeomen, liberi agricoltori che coltivavano il proprio fondo ed erano relativamente ben equipaggiati. Quello inglese in effetti è, insieme al francese, il modello di esercito medievale meglio conosciuto. Esso si componeva di tre battaglioni principali: l’avanguardia (vaward), il centro (battaglia principale) e la retroguardia. La prima era formata da arcieri muniti di arco lungo (longbow), frombolieri e balestrieri; al centro era schierata la fanteria e la cavalleria pesante, infine nella retroguardia si collocavano le unità di cavalleria leggera. La


cavalleria a lungo rimase il fiore all’occhiello dell’esercito, ma col progresso tecnico delle armi a lunga gittata la sua efficacia fu progressivamente limitata. Il processo fu evidente ad esempio nella battaglia di Crécy, una delle tante della Guerra dei Cent’anni che opponeva francesi e inglesi. Il 26 agosto 1346 vinsero i secondi grazie ai loro arcieri: i balestrieri genovesi comandati da Ottone Doria al soldo del re di Francia Filippo IV, messi in difficoltà dalla pioggia e senza i grossi scudi (palvesi o pavesi) che servivano a proteggerli, riuscivano a scoccare al massimo uno o due colpi al minuto di contro alla decina dei longbowers inglesi. Furono così travolti insieme alla cavalleria dalla precisione di una selva di proiettili. Lo stesso accadde nel 1415 ad Agincourt, sempre nel quadro della Guerra dei Cent’anni: i francesi, in superiorità numerica, caricarono con la cavalleria gli inglesi ma affondarono nel fango oppure si infransero contro le palizzate acuminate poste a protezione degli arcieri, e finirono trafitti da una pioggia di dardi. Le progressive difficoltà della cavalleria si erano del resto già intuite nel luglio del 1302 a Courtrai, quando le truppe di mercanti e artigiani delle Fiandre avevano massacrato i cavalieri francesi (ancora loro!) a colpi di Goedendag (ossia “buona giornata”, nome decisamente ironico), una specie di mazza chiodata montata su un’asta. L’episodio era passato alla storia come la “Battaglia degli Speroni d’Oro” dalla moltitudine di speroni dorati strappati al nemico e accatastati dai vincitori. Sempre più pesante, sempre più impacciato, il cavaliere faceva ormai sistematicamente l’ingloriosa fine di un «povero crostaceo» (l’espressione, efficacissima, è di Franco Cardini) infilzato dalla plebaglia. Ad accelerarne la decadenza fu l’invenzione e l’introduzione sempre più massiccia, delle armi da fuoco, contro cui le pur possenti armature non potevano fornire protezione sufficiente. Anche la stessa spada, progressivamente relegata a mero simbolo di potere, passò da un contesto strettamente militare a uno tipicamente civile, svilita nelle effimere mode dei duelli all’arma bianca. Bombarde, cannoni, schioppi, schioppetti, archibugi.... Ovunque prevalse l’«abominoso ordigno» spregiato da Ludovico Ariosto con questi immortali versi: Come trovasti, o scelerata e brutta invenzion, mai loco in uman core? Per te la militar gloria è distrutta, per te il mestier de l’arme è senza onore. Una delle sue prime vittime illustri fu, nel 1526, il celebre condottiero Giovanni dalle Bande Nere, ferito da un colpo di falconetto – un piccolo cannone dal calibro tra i cinque e i sette centimetri – all’altezza del ginocchio. Il


grande letterato Pietro Aretino, che degli eventi fu testimone oculare, descrive in una lettera come Giovanni affrontò l’amputazione della gamba e riferisce la risposta che diede al medico quando ordinò a dieci uomini di tenerlo bloccato per consentirgli di operare: «“Neanco venti – disse sorridendo Giovanni – mi terrebbero”, presa la candela in mano, nel far lume a sé medesimo. Io me ne fuggii, e serratemi l’orecchie sentii due voci sole, e poi chiamarmi, e giunto a lui mi dice: “Io sono guarito”, e voltandosi per tutto ne faceva una gran festa». Non servì a nulla: il condottiero sarebbe morto poco dopo per la cancrena. Rappresentando icasticamente la fine di un’epoca.

Mercenari, soldati e capitani di Ventura Giovanni dalle Bande Nere, nato Giovanni de’ Medici (14981526), era stato uno dei più famosi uomini d’arme del suo tempo. Aveva fatto della guerra la sua professione combattendo ora sotto le insegne imperiali, ora sotto quelle francesi, ora sotto quelle del papa. In ciò arrivava ultimo dopo una folta schiera che annoverò tra gli altri l’inglese John Hawkwood, conosciuto come Giovanni Acuto (1320 ca.-1394), Alberico da Barbiano (1349-1409), Andrea Fortebraccio detto Braccio da Montone (1368-1424), Muzio Attendolo Sforza (1369-1424), Erasmo da Narni detto il Gattamelata (1370-1443), Bartolomeo Colleoni (1395 ca.-1475), Francesco Sforza (1401-1466). Alcuni erano persino riusciti a conquistare potere politico e fondare signorie il più delle volte effimere (come quella di Braccio da Montone a Perugia e Orvieto, di Castruccio Castracani a Lucca e Pisa, o dello Sforza a Milano) ma in certi casi capaci, durante il Quattrocento, di diventare vere e proprie capitali di


Quattrocento, di diventare vere e proprie capitali di arte e cultura rinascimentale. Come si era arrivati a questo punto? Si ricorderà che nei primi secoli dell’Alto Medioevo combattere a fianco del proprio signore era considerato un dovere cui non ci si poteva sottrarre. Coi franchi e per tutto il periodo feudale ogni vassallo era tenuto, in base al reddito, a fornire a titolo gratuito un certo numero di armati (oltre a combattere egli stesso) con tanto di equipaggiamento e cavalcature. Affrontando spese spesso esorbitanti. È stato calcolato96, ad esempio, che nel Duecento l’equipaggiamento completo di un cavaliere poteva costare l’equivalente di 1250 grammi di argento. Se a ciò si aggiungevano le cavalcature e il seguito, adeguatamente armato, si arrivava all’equivalente di circa un anno di reddito. Per quanto fosse previsto da parte del signore un indennizzo in caso di perdita o uccisione dei cavalli – veniva però decurtato il valore della pelle! –, era chiaro che anche eventuali entrate prodotte da conquiste e saccheggi non potevano bastare a evitare che si intaccassero le rendite fondiarie. Inoltre, le campagne militari potevano essere anche molto lunghe, con esiti spesso nefasti. Per quanto l’usanza fosse già parzialmente in essere anche prima, fu dunque a partire dal XII secolo che iniziò a diffondersi sempre più il pagamento di una tassa in cambio dell’esenzione dal prestare servizio armato. Il denaro così raccolto era utilizzato per pagare militari di professione – i soldati, da “soldo” appunto – disposti a combattere per lunghi periodi. In Inghilterra questa imposta prese il nome di scutagium (da scutum, “scudo”). Anche le città, che avevano conosciuto una progressiva evoluzione del proprio stile di vita, si dimostrarono sempre meno disposte a fornire combattenti, preferendo pagare in cambio dell’esenzione. Il risultato fu che in caso di guerra i sovrani, e in Italia le stesse città, ricorsero in prevalenza a mercenari reclutati in base alla specializzazione. La loro forza era l’addestramento e la capacità professionale, appunto, di usare le armi più disparate, in particolare dopo l’introduzione di quelle da fuoco. Grande reputazione avevano, ad esempio, i balestrieri genovesi (che abbiamo visto combattere a Crécy al fianco del re di Francia), i fanti di Guascogna, gli arcieri inglesi, i picchieri svizzeri e così via. Le truppe mercenarie, accomunate dal fatto di essere composte per la maggior parte da soldati di infima estrazione sociale, si distinsero anche per l’estrema leggerezza con cui mettevano a ferro e fuoco non solo il territorio nemico, ma anche quello “amico”, nel caso in cui il loro padrone non li avesse pagati a sufficienza o il bottino fosse stato meno ingente del previsto. A volte bastava il loro stesso nome per incutere terrore. Ecco come il grande storico


siciliano Michele Amari descrive ad esempio gli almogavari, mercenari al soldo di Pietro III d’Aragona durante la conquista della Sicilia (1288): Breve saio a costoro, un berretto di cuoio, una cintura, non camicia, non targa, calzati d’uose e scarponi, lo zaino sulle spalle col cibo, al fianco una spada corta e acuta, alle mani un’asta con largo ferro, e due giavellotti appuntati, che usavan vibrare con la sola destra, e poi nell’asta tutti affidavansi per dare e schermirsi. I lor condottieri, guide piuttosto che capitani, chiamavansi anche con voce arabica Adelilli. Non disciplina soffrian questi feroci, non avean stipendi, ma quanto bottino sapessero strappare al nemico, toltone un quinto pel Re; né questo medesimo contribuivano quand’era cavalcata reale, ossia giusta fazione. Indurati a fame, a crudezza di stagione, ad asprezza di luoghi; diversi, al dir degli storici contemporanei, dalla comune degli uomini, toglieano indosso tanti pani quanti dì proponeansi di scorrerie; del resto mangiavan erbe silvestri, ove altro non trovassero: e senza bagagli, senza impedimenti, avventuravansi due o tre giornate entro terre de’ nemici: piombavano di repente, e lesti ritraevansi; destri e temerari più la notte che il dì; tra balze e boschi più che in pianura97. In Francia nel Quattrocento divennero tristemente famose le imprese di varie compagnie di ventura – come i Tard-Venus, la Compagnie Blanche (comandata da Giovanni Acuto) e gli Écorcheurs –, che devastavano le campagne. Esse erano state assoldate dai sovrani e, una volta terminate le operazioni militari, licenziate: per cui si rivalsero rubando ai contadini, incendiando i villaggi, massacrando e stuprando al punto da richiedere l’intervento della stessa corona per arginarle o cacciarle oltreconfine.

La fine di un’epoca L’arte della guerra così “innovata” rappresentò anche la crisi, anzi la decomposizione, di quei valori che in età cavalleresca, nel Medioevo, avevano ispirato il modo di combattere (e anche, tutto sommato, di rispettare) l’avversario. La guerra combattuta per denaro perse ogni risvolto ideale per diventare un mero mezzo di sussistenza o di arricchimento sia per la soldataglia che per i condottieri, i quali firmavano un vero e proprio contratto – la condotta, appunto – che rovesciavano spesso e volentieri in base al principio di obbedienza a chi offriva di più. Le armature, ormai inefficaci a causa delle armi da fuoco, divennero progressivamente uno status symbol da torneo o da parata (oggi si


possono vedere in varie collezioni, ad esempio a Sabbioneta nel Mantovano, con Vespasiano Gonzaga a cavallo armato di tutto punto, oppure al Museo Stibbert di Firenze) e chi le indossava passò, portando con sé le proprie imprese ora consegnate all’epica, dalla storia al mito. I valori che il cavaliere aveva rappresentato per secoli – al punto da diventare, nella stessa simbologia cristiana, il difensore dei deboli e degli oppressi e il paladino della giustizia – sopravvissero solo nella chanson de geste, nella memoria degli ordini cavallereschi e in poemi fortemente nostalgici come la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso o l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

91 Publio Cornelio Tacito, Germania, III. 92 P. Contamine, La guerra nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1986, p. 29. 93 Ottone di Frisinga, Chronica, a cura di A. Schmidt e F.J. Schmale, Berlino 1965, p. 162. 94 Liutprando da Cremona, Anapodosis, a cura di E. Duemmler, Hannover 1877. 95 Guglielmo di Tiro, Cronaca, a cura di E. Bugio, in Crociate. Testi storici e poetici, a cura di G. Zaganelli, Mondadori, Milano 2004. 96 P. Contamine, op. cit., p. 142. 97 M. Amari, La guerra del vespro siciliano, o Un periodo delle istorie siciliane del sec. XIII, Baudry, Parigi 1843.


14 Feudatari e servi della gleba

L’immagine che prevale è quella dei ricordi scolastici. Un sistema piramidale fisso. Al vertice il re. Sotto di lui, avvinti in legami più o meno stretti, conti, duchi, marchesi. Da loro dipendevano altre figure minori dall’entità il più delle volte sfuggente (i famosi vassalli, valvassori, valvassini di libresca memoria) fino ad arrivare a lui, il mitico e tanto bistrattato “servo della gleba”. L’ultima ruota del carro, senza diritti, legato alla sua zolla e alla mercè del più forte. In realtà questo stereotipo del feudalesimo, prodotto dagli storici del diritto nell’Ottocento, contiene una parte indubbia di verità ma è anche in buona parte falso. Se è vero infatti che la classe feudale deteneva il potere politico ed economico, lo è altrettanto che il cardine dell’intero sistema era il servus, il coltivatore, che lavorava le terre del padrone in cambio di un canone. Egli godeva, pur nel vincolo della subordinazione, di libertà personale e non era schiavo della sua professione. Se nell’Alto Medioevo il mondo si divideva dualmente in potenti e umili, dal Mille in poi, grazie alla ripresa economica la terra – strappata faticosamente all’incolto e oggetto di compravendita –, iniziò a essere concepita come veicolo per l’ascesa sociale.

Il “primo tra pari” Quali sono i presupposti del feudalesimo? Per prima cosa, non si può comprendere il fenomeno se non si ha presente un concetto tipico della mentalità germanica, ossia quello del re inteso come primus inter pares. Egli, cioè, era visto non come un capo supremo e assoluto, ma come il primo tra uomini di pari dignità: un personaggio di forte carisma le cui capacità straordinarie lo legittimavano a guidare l’intero popolo in armi. Già lo storico latino Tacito aveva notato l’abitudine da parte dei capi più importanti di circondarsi di guerrieri a loro fedeli. L’aveva chiamata comitatus (in tedesco si direbbe Gefolschaft) perché – questo è il significato della parola in latino – si trattava di


un gruppo di uomini scelti dal re per accompagnarlo nelle sue imprese. A dire il vero, un’istituzione simile esisteva anche presso i romani: era il piccolo esercito che seguiva (il termine è un composto da cum + eo, “andare insieme”), appunto, gli imperatori nei loro spostamenti e dopo la riforma di Diocleziano e Costantino, chiamato a dare il suo supporto alle truppe di confine per far fronte al pericolo delle invasioni. Le due tradizioni – insieme a quella della clientela, di cui si circondavano abitualmente gli amministratori delle province – si incontrano e fondono durante l’esperienza dei regno romano-barbarici evolvendosi ulteriormente, soprattutto in ambito franco, nella cosiddetta trustis. Si trattava di un gruppo di selezionati guerrieri (simili ai pretoriani romani) che prestavano la loro opera militare al potente in cambio della sua protezione. Chi ne faceva parte godeva di uno status giuridico diverso dagli altri, ad esempio se veniva ferito o ucciso i suoi parenti erano risarciti con una composizione pecuniaria (il guidrigildo) pari al triplo del normale. È logico che simili rapporti non potevano che evolvere in senso ancora più stretto e assumere implicazioni anche di carattere politico: il che puntualmente si verificò quando questi soldati “speciali” iniziarono a ricevere dal re anche beni di carattere materiale. A introdurre “sistematicamente” queste pratiche e a estenderle in tutte le zone da loro conquistate furono, nell’VIII secolo, i franchi. I capisaldi del sistema erano l’immunità e il vassallaggio. A dire il vero non si trattava di novità assolute, perché entrambi erano istituti ben conosciuti già nel basso impero. L’immunitas era la dispensa dal compiere un dovere, un munus appunto: chi la riceveva era dunque esentato dallo svolgere un’attività o un servizio pubblico, oppure dal pagamento delle imposte. Il vassallaggio nel mondo tardoantico si chiamava commendatio ed era l’atto con cui un uomo si affidava alla protezione di un altro. Era diffusa soprattutto fra i coloni che, minacciati dall’instabilità economica e dalle devastazioni causate dalle guerre che a partire dal III secolo flagellarono il cuore del continente, preferivano cedere i loro terreni a un grande proprietario e mettersi sotto la sua protezione. L’unione faceva la forza e i grandi latifondi, concentrati in mano a pochi, cambiarono il sistema economico costituendo, nel trapasso tra l’età antica e i primi secoli del Medioevo, l’ossatura del sistema curtense, basato appunto sulle grandi aziende agricole (curtes) di fatto autosufficienti. Sistema di potereCarlo Magno riprese i due istituti introducendo qualche modifica. Aggiunse all’immunità il privilegio di escludere da alcune terre appartenenti a chiese o monasteri l’ingresso ai funzionari statali. Il che comportava, come si può ben immaginare, la creazione di “isole” potenzialmente in grado di sfuggire al controllo regio. In cambio però i prelati – in genere


vescovi e abati – si impegnavano ad assolvere ai compiti pubblici per le terre e i loro abitanti, reclutando gli uomini in arme, amministrando la giustizia e nominando un rappresentante (advocatus) laico da incaricare in caso di controversie con i conti. E questo perché, oltre a non poter (teoricamente) portare le armi, il clero non poteva nemmeno comparire in giudizio. La commendatio, invece, assunse una valenza più nobile: il termine di origine celtica vassus (“vassallo”), che in origine indicava il semplice garzone, passò a designare un uomo di lignaggio medio-alto che si legava a un signore (dominus) giurandogli fedeltà. Fu proprio di Carlo, del resto, l’idea di riorganizzare, dopo aver annesso aree ancora periferiche come la Germania settentrionale e parte dell’area slava, i territori conquistati in un impero. Ispirato dall’ideologia cristiana (e perciò detto “sacro”), comprendente il nucleo fondante della futura Europa, fu riorganizzato sulla base di immunità e vassallaggio perfezionate fino a creare un sistema gerarchico in grado di garantire un controllo del territorio il più possibile capillare. L’ossatura era costituita da grandi assemblee annuali (placiti) in cui venivano emanate le leggi (capitolari), un palatium centrale ad Aquisgrana che ospitava una corte itinerante, una cancelleria efficiente e una rete di vassalli (conti, marchesi e duchi) che amministravano la giustizia e convocavano l’esercito quando serviva. Infine, una rete di funzionari (missi) che raccordavano il potere centrale con le realtà locali. La corona, simbolo del potere regale sin dall’età tardoantica, assunse ora un’importanza decisiva – come mostrò la celebre incoronazione dello stesso Carlo a Roma, nell’800, da parte del papa. Ma nel regime feudale l’epifania maggiore del potere è forse l’omaggio – come vedremo subito – che il signore riceve dal vassallo in ginocchio e senza armi durante la cerimonia di investitura: un atto di sottomissione dalle implicazioni (anche politiche) enormi ma prima di tutto fortemente simbolico.


Sacri doveri Quella dominata dai franchi si configurò dunque come un’Europa – il termine Europeenses compare per la prima volta proprio in questi anni – fondata sui legami personali. Sappiamo dagli Annali del regno dei franchi che il primo nobile a giurare fedeltà a un re franco fu il duca Tassilone di Baviera, che nel 757 divenne vassallo di Pipino. E dalla stessa fonte conosciamo anche i dettagli della cerimonia, che prevedeva come il vassallo mettesse le mani giunte nelle mani, anch’esse giunte, del suo signore. Questa usanza, altamente simbolica, rimase anche in futuro e fu affiancata dal giuramento di fedeltà (sacramentum fidelitatis) che andava così a completare il rito dell’“omaggio”, anche qui simbolico. La prassi che si sarebbe standardizzata prevedeva che il vassallo omaggiasse il suo signore (dominus) in ginocchio e senza armi; deponendo le sue mani in quelle del superiore, si dichiarava suo “uomo” e a volte gli baciava il piede ricevendo in cambio un bacio che confermava la validità del legame. In seguito, il vassallo giurava sui vangeli conferendo all’atto un carattere sacrale. Lo stesso termine “omaggio” deriva da homo, “uomo”: il vassallo dichiarandosi “uomo” del suo signore era pronto ad assumersi dunque di fronte a lui le proprie responsabilità. Che erano parecchie. Innanzitutto, non doveva tradirlo né allearsi coi suoi nemici. «Mai possa il male nascere e germogliare nel tuo cuore al punto da renderti infedele al tuo signore», ammoniva il figlio la marchesa Dhuoda di Settimania (di cui si è parlato nel primo capitolo) nell’843. Ma gli obblighi erano anche positivi: doveva garantirgli aiuto e consiglio. Aiutarlo fornendogli, proporzionalmente alla sua ricchezza, uomini armati a cavallo, e consigliarlo assistendolo nelle decisioni importanti, soprattutto di carattere giudiziario. Se il signore coincideva col re, il rapporto di vassallaggio era molto prestigioso. Ma il modello fu replicato col tempo anche in scala minore creando così un “reticolato” di rapporti gerarchicamente connessi: Dal re ai feudatari maggiori, da costoro ai valvassori (vassi vassorum, cioè “vassalli di vassalli”), e poi ancora per uno o più gradi verso il basso. I vassalli del re (vassi dominci) erano naturalmente superiori agli altri vassalli, anche se in condizione non certo omogenea tra loro: taluni vivevano a corte in situazione ben più modesta, senza un proprio feudo98.


La scala dei rapporti si estese sino a mettere in comunicazione – sebbene indirettamente – il vertice del potere pubblico con le più piccole realtà locali. Creando maglie talmente fitte che in alcune zone come l’Inghilterra del X secolo un uomo libero senza signore era considerato fuorilegge. Un caso particolare, peraltro frequente, era quello del vassallo con più signori. Nei momenti di pace nessun problema. Ma se i due entravano in conflitto tra loro, per il vassallo si presentava un grave problema: a quale mantenere la fedeltà promessa? Il legame feudale aveva la priorità su tutti gli altri vincoli, compresi quelli di sangue, e durava fino alla morte. Poteva essere infranto in casi eccezionali, ad esempio se la fiducia veniva meno. Ma gravissimo e irreparabile era il reato di fellonia, ossia quando il vassallo tradiva il suo signore: la conseguenza era la perdita, insieme all’onore, anche del feudo. Che fare dunque? La soluzione arrivò intorno al Mille con il cosiddetto “omaggio ligio”: una forma, cioè, di omaggio che imponeva al vassallo che stringeva più patti di privilegiarne uno rispetto a tutti gli altri.

Il beneficio della terra Si è parlato finora spesso di feudo. Ma in cosa consisteva esattamente? Intanto – ed è paradossale visto che poi sarebbe passato a definire l’intero sistema – il termine si diffuse abbastanza tardi: la prima volta è citato in un documento dell’899. Feudum deriva da fehu, “bestiame”, e richiama la concezione tipica delle genti nomadi (come lo erano i germani prima della fine delle migrazioni) per cui la ricchezza risiedeva nel possesso del bestiame. Una volta stanziati, però, il bene-indice divenne la terra e, per estensione, la ricchezza e il potere che da questa derivava. Si preferiva in genere, definirla col corrispondente latino beneficium, “beneficio”. Almeno agli inizi, i franchi concessero in beneficio ai propri vassalli terre confiscate alla Chiesa; in seguito, a essere infeudate furono le terre


di proprietà della corona. L’estensione variava molto: se i benefici maggiori potevano anche comprendere intere regioni, quelli minori coincidevano il più delle volte con pochi appezzamenti. Alla disparità di beni fondiari corrispondeva un trattamento “proporzionale” per quanto riguardava gli obblighi del vassallo, che doveva fornire un uomo a cavallo ogni dodici mansi di terra, ossia circa trentasei ettari. La terra però non era l’unica forma di beneficio. Esso poteva coincidere con una carica pubblica – e allora era un fief de dignité – oppure con un bene ecclesiastico (chiesa, abbazia, cappella), o ancora con una somma di denaro (il nome era eloquente: feudum de bursa!) versata dal signore a scadenza regolare. Va rimarcato che tali benefici, in origine, erano concessi solo in possesso e non in proprietà, e non potevano essere alienati né venduti né ceduti: alla morte del beneficiario, il bene tornava dunque al signore che provvedeva a riassegnarlo. Ecco perché ben presto i feudatari maggiori iniziarono a fare pressione sulla corona perché concedesse loro l’ereditarietà. La ottennero in vista della campagna militare indetta dall’imperatore Carlo il Calvo nell’887: aveva bisogno di loro, quindi concesse di trasmettere il feudo ai figli in caso di loro morte in guerra. Il capitolare di Quierzy-sur-Oisne, precedente ingombrante, divenne prassi nei decenni seguenti. Nonostante il malumore regio, la tendenza all’ereditarietà dilagò anche nei feudi minori finché, nel 1037, Corrado il Salico non fu costretto, con un editto (la celebre Constitutio de feudis), a riconoscerla in via definitiva. A questo punto, si può dire che la società feudale, pur già di fatto esistente da tempo, ebbe il suo battesimo ufficiale.


Di padre in figlio Il vertice del sistema era costituito dal dominus, di solito coincidente col sovrano. A lui erano legati i vassalli, nobili di alto rango vincolati dal giuramento di fedeltà prestato con l’omaggio. Scendendo di un gradino, dai vassalli dipendevano i valvassori, nobili di rango medio e basso (i valvassini sono un falso storico: non sono mai esistiti!). Costoro avevano come interlocutori, come vedremo tra breve, i contadini liberi (massari), che potevano tenere il raccolto corrispondendo al signore un canone in denaro. Chiudevano la piramide i servi della gleba, che pagavano un canone in natura corrispondente a parte del raccolto ed erano tenuti a prestazioni obbligatorie: le famose corvée. Esse si distinguevano in opera (giornate di lavoro) e angariae (servizi di trasporto). Il figlio, per subentrare al padre, doveva prestare giuramento nelle mani del signore e pagare una tassa in genere pari a un anno di rendita del feudo. Le donne erano escluse dalla successione a meno che non si sposassero, e allora il feudo passava – previo benestare del signore – al marito. Se i figli maschi erano più di uno, il rischio di frammentazione era alto quindi o – come in Germania – tutti i figli succedevano simultaneamente (una vera e propria infeudazione collettiva) oppure – come in Inghilterra, in Francia e altrove – a succedere era solo il primogenito. Anche i diritti del vassallo sul feudo, col tempo, finirono per aumentare fino a comprendere l’alienabilità del feudo stesso, che poteva essere comprato e venduto come un bene qualsiasi. E fu il crollo delle idealità: secondo un’efficace espressione dello storico Marc Bloch, si era ormai alla «fedeltà messa in commercio». Quali erano i compiti dei feudatari? Derivavano dall’elemento giuridico del sistema, la già ricordata immunità. Che poteva essere “negativa” – il citato divieto, da parte del funzionario regio, di entrare nei possedimenti per esigere tasse o altro – ma anche “positiva”: la delega, cioè, ad amministrare la giustizia per conto del signore e a riscuotere (e tenere per sé) i proventi di pene pecuniarie. In altre parole, il feudatario si sostituiva al signore per esercitare il potere sulle terre, sui beni e sugli uomini che vi si trovavano. Era il “signore del luogo”. Nel nuovo clima di precarietà instaurato tra IX e X secolo dalle scorrerie ungare, saracene e vichinghe, queste signorie rurali si fortificarono per difendersi, ma le mura oltre a proteggere la comunità e i suoi beni erano anche il simbolo di una forma di governo. Il castello, in cui il proprietario acquisiva


direttamente tutti i diritti (allodio), dall’esazione delle imposte all’esercizio della giurisdizione, senza doverne più render conto al signore, diventava così il centro di un potere “privato” che però non si contrapponeva a quello “pubblico” del re o degli altri feudatari, ma ne costituiva il completamento in una società ormai sempre più policentrica. Ovviamente non fu così in tutta Europa. In molte aree, come la Scandinavia, il feudalesimo restò un fenomeno marginale, e in genere ogni regione ebbe le proprie peculiarità. Particolare fu la situazione nell’Italia che era stata longobarda, soprattutto la Lombardia: a differenza di quello franco, il feudo longobardo era divisibile, alienabile e poteva essere trasmesso anche per via femminile: tutti aspetti che si situano alle origini di quel “particulare” in genere così vilipeso ma che costituisce una delle ragioni della nostra originalità.


Rischi del mestiere Tra i doveri principali di un feudatario c’era, quello, si è detto, di fornire uomini armati al suo signore e accompagnarlo in battaglia. Il che poteva costare – e non solo in termini economici – anche molto caro. Emblematica, ad esempio, la vicenda dei feudatari che seguirono il Barbarossa durante le decennali spedizioni contro i comuni lombardi. Mentre l’imperatore assediava Roma – siamo nell’agosto del 1167 – il suo esercito fu colpito dalla malaria. La Città Eterna allora era circondata da paludi e se i romani erano abituati alla malattia in quanto endemica, gli assedianti no e quindi il contagio era quasi scontato. L’imperatore aveva contratto la malaria durante le crociate e quindi era immune, ma i suoi uomini no. Nel giro di pochi giorni quasi tutta la prima fila dei luogotenenti fu spazzata via: i vescovi Corrado di Augusta, Alessandro di Liegi, Goffredo di Spira, Eberardo di Ratisbona, Daniele di Praga, Ermanno di Verden, il duca Federico di Svevia, Guelfo VII, Teobaldo di Boemia, ma anche lo storico Acerbo Morena e soprattutto il suo fido cancelliere Rainaldo di Dassel. In tutto i morti furono duemila. Federico fu costretto a ritirarsi abbandonando gran parte dei suoi soldati agonizzanti e scelse l’unica strada possibile, la via Francigena, perché tutte le altre erano in mano ai comuni ribelli. Credeva di avere garantito un sicuro passaggio lungo la Cisa, visto che pochi mesi prima aveva concesso ai pontremolesi un corposo privilegio. Ma si sbagliava. Giunto da Lucca nei pressi di Pontremoli, si trovò davanti non solo i locali ma anche le truppe dei lombardi. Con l’esercito ormai ridotto a brandelli e allo stremo delle forze, dovette ritirarsi alla svelta e si salvò solo grazie all’intervento del marchese Obizzone Malaspina, che lo condusse attraverso i sentieri con la moglie e i resti dell’armata fino all’alleata Pavia, dove giunse il 12 settembre. Obizzone si dimostrò fedele: tre anni prima aveva ricevuto dal suo signore in feudo «pro suo magnifico et praeclaro servitio» molti territori della Lunigiana oltre alle valli del Taro, del Trebbia e dell’Appennino, e ora ricambiò il favore salvandogli la vita. Come ricordato poc’anzi, il patto di vassallaggio tra il signore e il suo “uomo” avveniva con una cerimonia peculiare dai risvolti fortemente simbolici. Non sempre, però, la solennità del momento veniva rispettata e potevano verificarsi incidenti anche clamorosi. Ecco un gustoso episodio di cui conosciamo i dettagli grazie al monaco Guglielmo di Jumièges, che li raccontò nei suoi Gesta Normannorum Ducum (“Le imprese dei duchi normanni”). Siamo nel 911 e i vichinghi norvegesi ancora pagani e capitanati dal loro jarl (“conte”)


Rollone – o meglio Göngu-Hrólfur, come lo chiamavano nella loro lingua – stanno mettendo a ferro e fuoco le coste settentrionali della Francia. La popolazione, esausta, si rivolge al re in persona chiedendogli di intervenire. Sul trono dei franchi stava allora Carlo, e il suo soprannome di “Semplice” suscita più di un dubbio a proposito della sua bellicosità: infatti lo accusavano apertamente di essere un incapace. Il re, colpito dalle lamentele, manda al ferocissimo vichingo un suo uomo di fiducia, l’arcivescovo Francone, con una proposta allettante: la conversione al cristianesimo in cambio delle terre costiere tra il fiume Epte e la Bretagna, il tutto suggellato dal matrimonio con sua figlia Gisla. Rollone accetta e, dopo una tregua di tre mesi, si incontra con il re a SaintClaire-sur-Epte: Carlo e il duca franco Roberto su una riva del fiume, il vichingo sull’altra, ben protetto dai suoi uomini disposti a triangolo. Dopo aver discusso i dettagli dell’accordo, giunge il momento di pronunciare il giuramento e adempiere al cerimoniale. E qua avviene l’incredibile: Rollone, che era un gigante alto due metri e possente come una montagna, si rifiuta di baciare il piede del re nell’atto di ricevere l’investitura del ducato di Normandia. I vescovi spiegano all’intrepido capo barbaro che chi diventa vassallo del re è tenuto a compiere quel gesto in segno di omaggio e sottomissione. Ma quello insiste: «Non mi inginocchierò mai davanti a nessuno – proclama con fierezza – e non bacerò mai i piedi di nessuno». A farlo cedere sono le preghiere dei franchi. Ma non è lui ad abbassarsi a tanto. Sceglie uno dei suoi e gli ordina di fare quanto richiesto. La scena che segue è esilarante: «Costui afferrando il piede del re lo portò alla sua bocca, e restando in piedi gli diede un bacio facendolo cascare a terra. Ciò causò nei presenti grandi risa e grandi schiamazzi».

Questione di investiture L’episodio di Saint-Clairesur-Epte fu senza dubbio clamoroso, ma non fu certo l’unico nella storia medievale. Certo, quando la differenza di status tra signore e vassallo era schiacciante raramente si verificavano incidenti. Ma quando il rapporto tra le due forze in campo era in bilico oppure, peggio ancora, oggetto di contesa, allora il problema era più serio.


Per lungo tempo, ad esempio, si era discusso su quale autorità tra papa e imperatore dovesse essere preminente nella cosiddetta “questione delle investiture”. Le prime frizioni si erano avute nel 1059 quando, durante il pontificato di Niccolo II, sotto consiglio del monaco Ildebrando di Soana, era stato convocato un concilio in Laterano in cui, oltre a condannare simonia e concubinato, si vietava a chiunque di ricevere cariche ecclesiastiche dalle mani dei laici (e quindi anche dell’imperatore). Ma la decisione più importante era stata il rifiuto di ogni intervento laico nell’elezione dello stesso pontefice, che da quel momento in poi sarebbe stato scelto solo da un congresso composto dai titolari delle chiese più importanti di Roma (i cardinali) e dai vescovi delle diocesi suburbicarie (cioè vicine all’Urbe). La frattura era avvenuta però quando, nel 1073, era stato elevato al soglio pontificio lo stesso Ildebrando col nome di Gregorio VII. Il suo pensiero in merito al ruolo della Santa Sede è consegnato a un documento non ufficiale, i cosiddetti Dictatus Papae (1075), che contengono la summa delle rivendicazioni e delle prerogative del papato: la sua indiscussa supremazia su ogni altra autorità laica (compreso l’imperatore), la preminenza del pontefice su tutti gli altri vescovi della cristianità e il potere di deporre gli imperatori considerati indegni, sciogliendo di conseguenza i suoi sudditi da ogni vincolo di obbedienza. Per tutta risposta l’imperatore Enrico IV convocò a Worms (era il 1076) un concilio di vescovi germanici per deporre Gregorio, definendolo addirittura «non più papa, ma falso monaco». Il pontefice allora replicò con la scomunica. La misura non era priva di conseguenze: i sudditi del sovrano che la riceveva, infatti, venivano sciolti da ogni obbligo di fedeltà nei suoi confronti e dunque potevano ribellarsi senza rischiare sanzioni, potevano rifiutarsi di pagare le imposte e di rispondere ai bandi. E il regno diventava, di fatto, ingovernabile. I grandi feudatari, sia tedeschi sia italiani, invece di sostenere il loro sovrano contro le ingerenze del pontefice decisero di approfittare della situazione per indebolirlo e si ribellarono. Davanti al rischio concreto di perdere il potere, Enrico fu allora costretto a cedere e nel gennaio 1077 si recò con la moglie, vestito da penitente, a Canossa in Emilia, nel castello della contessa Matilde, fedele alleata del papa. Gregorio lo fece attendere per ben tre giorni di fronte all’ingresso e si decise a farlo entrare soltanto il quarto. L’umiliazione del sovrano fu proverbiale ma non pose fine allo scontro. Enrico infatti tornò in Germania e riprese, una volta domati i feudatari ribelli, a conferire come se nulla fosse le cariche ecclesiastiche. Arrivò la seconda scomunica, ma stavolta la sua reazione fu ben diversa. Postosi alla testa dell’esercito, varcò le Alpi, si diresse verso Roma e assediò Castel Sant’Angelo dove Gregorio si era rifugiato. Il papa chiamò in aiuto addirittura i normanni di


Roberto il Guiscardo, i quali arrivarono in città il 21 maggio 1084. Ma invece di prendersela con i tedeschi, devastarono la Città riducendola a un cumulo di macerie e poi si ritirarono nel Salernitano con il ricco bottino e portando con sé lo stesso Gregorio come prigioniero. Sarebbe morto in esilio un anno dopo. La vicenda delle investiture proseguì anche dopo la morte dei suoi due maggiori protagonisti. Era, infatti, una questione di principio: se il pontefice a ragione rivendicava alla Chiesa il diritto di eleggere vescovi e abati, l’imperatore dal canto suo riteneva fosse sua prerogativa il controllo delle cariche ecclesiastiche (come i vescovi-conti, appunto) che comportavano, allo stesso tempo, anche l’esercizio di funzioni civili nel suo regno. La questione fu sanata con un compromesso, stipulato a Worms tra papa Callisto II e l’imperatore Enrico V (1122), in virtù del quale l’imperatore si impegnava a rinunciare al conferimento di dignità e poteri spirituali, mentre il pontefice riconosceva al suo avversario il diritto di concedere e revocare i benefici feudali. In più, c’era una differenza territoriale: mentre in Italia la consacrazione religiosa avrebbe dovuto precedere l’investitura feudale, in Germania sarebbe avvenuto il contrario.

«Non a te, ma a Pietro» Nonostante il “compromesso storico”, le frizioni e gli attriti tra i due sommi poteri continuarono anche in seguito. Lo dimostra l’emblematico episodio che vide protagonisti nel 1155 Federico Barbarossa e il pontefice Adriano IV quando il primo, ancora re di Germania e d’Italia, si recò a Roma per ricevere dalle mani del pontefice – come da prassi – la corona imperiale. Il papa gli venne incontro a Sutri pretendendo che il re si attenesse a una consuetudine antichissima risalente – pare – addirittura ai tempi di Costantino: doveva fargli da palafreniere e reggergli la staffa tenendogli la chinea bianca, mentre la cavalcava, per la cavezza. Chiaramente da parte di Federico accettare questa richiesta significava ammettere la sottomissione al papa: proprio il contrario di quanto aveva sostenuto sin dalla sua elezione. Egli anzi aveva richiesto ad Adriano di rimuovere l’affresco dipinto quindici anni prima in Laterano che rappresentava il suo predecessore, Lotario III, mentre riceveva dal pontefice alcuni feudi appartenuti a Matilde di Canossa. La scena era corredata da una scritta eloquente: «Rex venit ante foras iurans prius Urbis honores, post fit homo Papae sumit quo dante coronam», “prima di varcare le porte il re giura di rispettare i diritti della città di Roma, poi diviene vassallo del papa che gli conferisce la corona”. Ma l’affresco non era stato coperto ed era ancora lì in


bella vista. Quando la situazione sembrava ormai precipitare, Federico su pressione dei suoi consiglieri decise di cedere, ma si tenne un asso nella manica. Nel momento cruciale, prese la cavalla per le briglie e porse ad Adriano la staffa. Ma quando il papa fece per montare in groppa, il re gli sussurrò: «Non tibi, sed Petro», “non a te rendo questo servizio, ma a san Pietro”. Stizzito, il pontefice gli appoggiò il piede sul collo soffocando un’imprecazione. L’onore di entrambi, almeno all’apparenza, era salvo e il Barbarossa poté finalmente indossare la corona, il 18 giugno 1155, in San Pietro. Ottenendo a modo suo un trionfo memorabile.


Un sistema di corti L’aneddotica, naturalmente, riguarda molto spesso i feudatari maggiori (e i potenti in genere) lasciando nell’ombra quanto avveniva nelle parti basse della “piramide”. Ma anche a calcolarli tutti, i feudatari non erano moltissimi: circa l’1% della popolazione. La maggioranza erano i contadini la cui condizione, sia chiaro, era molto meno triste di quanto non suggerisca il cliché, fortunatamente ormai consunto, del “servo della gleba”. Il servus per buona parte del Medioevo coincide col villicus, ossia il lavoratore dei campi. Ma non appare di certo all’improvviso con l’Età di Mezzo, anzi: egli deriva dal colono di età tardoantica, a sua volta erede di quello classico. Il sistema, però, era molto diverso. In estrema sintesi, si può dire che l’agricoltura in epoca romana classica fosse esercitata o in fondi (fundi) oppure nei pascoli, mentre nelle aree di conquista si crea la centuriazione. La terra era coltivata col sistema delle alternanze: grano e legumi e terreni lasciati a maggese per permettere di recuperare la fertilità in modo naturale. Vaste erano comunque anche le zone incolte (saltus), che si trovavano ai margini degli abitati oppure nelle zone impervie e in montagna. Nonostante le rese fossero di uno a quattro, ossia piuttosto basse, scarse erano le innovazioni in quanto la produzione necessaria era assicurata dal ricorso imponente alla forza animale e, soprattutto, dall’impiego massiccio di un gran numero di schiavi: si calcola che in età augustea, cioè a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., ci fossero più o meno tre milioni di schiavi su una popolazione totale di circa sette milioni di individui. Gli unici spostamenti massicci di derrate avvenivano, in tempi di pace, a Roma e servivano a sfamare la sua sempre maggiore popolazione. A partire da Augusto, con la ripresa delle guerre e i primi cambiamenti di congiuntura economica, i grandi proprietari assorbirono progressivamente i piccoli a causa della loro impossibilità di fronte alla crescente pressione fiscale. L’esercito chiede sempre maggiori derrate, per l’approvvigionamento delle quali l’impero stende ogni anno un preventivo e poi ripartisce il carico sulle varie province in base al loro peso demografico. Nascono i grandi latifondi e il lavoro agricolo, fino a quel momento appannaggio esclusivo della classe servile, si estende a figure di liberi specializzati (coloni) che coltivano la terra a loro affidata da un proprietario in cambio di un canone in natura. Col collasso del sistema seguito alle invasione e al crollo dell’impero, le


uniche strutture economiche che riuscirono a sopravvivere furono proprio i latifondi, dove si concentravano, nelle mani di pochi grandi proprietari terrieri, un gran numero di appezzamenti e di uomini. In tempi di crisi era l’unione a fare la forza: logico quindi che, per scampare alle devastazioni, alle guerre e alle carestie, sempre più coloni trovassero più comodo cedere il proprio terreno a un grande proprietario e mettersi sotto la sua protezione piuttosto che rimanere esposti ai rischi. Il fenomeno della commendatio, verificatosi con una certa frequenza già a partire dal III secolo, divenne la regola nei secoli dei primi secoli del Medioevo: al posto dell’antica aristocrazia terriera romana ora c’erano o i suoi discendenti, o i nuovi possidenti barbari che avevano sostituito la vecchia classe dirigente. Oppure c’erano chiese e monasteri, che grazie a imponenti lasciti testamentari si erano costruiti un patrimonio fondiario sempre più ricco e vasto. Queste antiche villae (o, come iniziarono a chiamarsi in questo periodo, curtes) erano costituite da due parti distinte. La prima, gestita direttamente dal proprietario o da suoi delegati, era detta pars dominica e comprendeva, oltre alle abitazioni del padrone e dei coloni, i ricoveri per il bestiame, gli orti, i magazzini, i frutteti e i forni, il tutto protetto da un modesto sistema di recinzioni costituito per lo più da steccati, muretti o siepi. Accanto alla pars dominica, vi era, in stretti rapporti con essa, la pars massaricia, gestita invece dai coloni che ricevevano – in cambio di un canone in natura (più raramente in denaro) e dell’obbligo di svolgere alcuni lavori per il signore (le citate corvée) – un appezzamento, il manso, della dimensione di circa due ettari. Dominico e massaricio di un unico proprietario raramente confinavano l’uno con l’altro, e anche i singoli mansi erano sovente distanti tra loro, intervallati da quelli di altri possidenti.


Attaccato alla gleba Un documento interessante ci svela le condizioni di un servo nell’Alto Medioevo. Si tratta della controversia tra un certo Lucio, di condizione servile, e il possidente Toto da Campione, membro di una famiglia assai potente grazie ai forti legami che la legavano al monastero milanese di Sant’Ambrogio. La disputa risale all’incirca all’anno 724. Lucio si rivolge al giudice perché questi intervenga a proposito delle prestazioni che per trent’anni ha garantito a Toto. Non è chiaro se chieda l’esenzione totale oppure – visto che probabilmente Toto aveva aggravato il suo carico – la limitazione del lavoro a quanto fino a quel momento aveva svolto. Comunque sia, l’onere delle prestazioni dipende dal suo status giuridico. Egli sostiene che gli antenati di Toto hanno concesso ai suoi genitori la libertà: per dimostrarlo, produce un atto dei tempi del re longobardo Cuniperto (678-699) «che conteneva che i genitori di Toto avevano ceduto a Lucio tre soldi del mundio, mentre avevano riservato altri tre soldi ai propri eredi e che successivamente Lucio aveva riscattato completamente il proprio mundio ed essi lo avevano liberato davanti all’altare». Lucio, quindi, aveva usufruito della cosiddetta manumissio in ecclesia, che però era solo parziale perché dava diritto allo stato non più di servo ma di aldio, ossia semilibero. La liberazione del servo, per essere completa, doveva, secondo la prassi, avvenire in un quadrivio. Nel 721 Liutprando aveva equiparato i due tipi di manomissione, ma poiché il documento citato da Lucio era precedente a quell’editto, e siccome lui – come poi specifica – non può chiamare a testimone nessuno che provi la sua condizione di libero, il giudice sentenzia a Lucio di continuare a svolgere per Toto le attività finora esercitate, ma anche a Toto di non imporgliene altre. Tra di servi che prestavano la loro opera, nella parte padronale c’erano i ministeriales, che possedevano competenze tecniche qualificate e quindi erano docti et probati, ossia esperti. Con loro c’erano numerosi apprendisti. La massima parte però erano porcari, mandriani di bovini e ovini, bubulci (conducenti di carri trainati da buoi) e rusticani (contadini veri e propri). Infine, ecco i servi casati o massarii, che coltivavano un manso di varia estensione (di solito dodici pertiche, equivalente a circa dieci ettari: il necessario per mantenere una famiglia) e che potevano vendere le eccedenze (ma mai la terra). Sotto di loro, la massa di aldii semiliberi, che godevano di libertà personale ma erano sottoposti al mundio del padrone. Improntato all’autosufficienza, il “sistema curtense” fu il cardine


dell’economia altomedievale. Ogni villa, infatti, ospitava un piccolo mercato dove si smerciavano non solo generi agricoli, ma anche prodotti artigianali, e le eccedenze potevano essere scambiate fuori dalla curtis con altri prodotti, dato che la moneta, caduta pressoché in disuso, ricomparve solo nell’VIII secolo con i conii d’argento di Carlo Magno. Il sistema delle curtes ebbe grandi conseguenze anche sull’assetto sociale, politico e amministrativo. Se le condizioni degli schiavi (o servi) migliorarono nettamente, quelle dei contadini liberi, ad esempio, peggiorarono in maniera sensibile. I primi, resi meno numerosi dalla fine delle guerre di conquista (anche se frequenti razzie venivano ancora compiute sulle coste slave: proprio dal termine slavus deriva il nostro “schiavo”) e affrancati a centinaia grazie all’imporsi dello spirito cristiano, ottennero infatti il diritto di avere una famiglia e dei beni; i secondi invece, pur mantenendo il loro status di liberi, furono obbligati a vincoli di obbedienza che prima non conoscevano, finendo di fatto per perdere la loro libertà. La società finì allora per polarizzarsi in maniera sempre più netta tra potenti e umili, i primi caratterizzati dal possesso delle terre e dei mezzi di produzione agricola, i secondi legati a questi da sudditanza, liberi o schiavi, senza più molta differenza. Forti dell’acquisita autorità su un gran numero di persone, i grandi proprietari terrieri si trovarono in breve a capo di nuovi centri di potere: erodendo all’oramai inesistente Stato centrale sempre maggiori prerogative, essi amministravano di fatto la giustizia sulle loro terre e sui loro uomini e provvedevano alle difese militari, avviandosi quindi a diventare veri e propri signori territoriali e costituendo la base del fenomeno feudale che abbiamo prima descritto.

Le “città morte” Per comprendere le dinamiche di questo mondo, non sarà inutile aprire una parentesi e descrivere il paesaggio che circondava l’uomo medievale, visto che ne influenzava profondamente la vita quotidiana, lo spirito e l’immaginario. Anche perché, oggi come allora, si trattava di un paesaggio dinamico, che cambiava di pari passo con la società e veniva condizionato dalle sue esigenze condizionandole a sua volta in modo a tratti determinante. Partiamo dall’inizio. Leggendo le fonti più antiche, parrebbe di poter dire che, all’indomani delle invasioni barbariche e delle guerre che travolsero l’Europa al crollo dell’impero romano, intere regioni, devastate dal passaggio degli eserciti e dai saccheggi, si fossero trasformate in lande desolate. «Il mondo – scriveva Paolo Diacono


nell’VIII secolo parlando di quando i longobardi, due secoli prima, si affacciarono all’Italia – sembrava tornato al grande silenzio delle origini, quando né animali né uomini lo popolavano». In effetti, chi nel VI secolo si fosse inoltrato in Europa centrale o in Italia settentrionale, avrebbe incontrato sulla sua strada estesissime foreste, brughiere e paludi, mentre scendendo verso sud avrebbe cercato di oltrepassare vasti pascoli e campi invasi da sterpaglie. Quanto alle città, ridimensionate dal crollo demografico, sovente parzialmente distrutte e collegate tra loro da una viabilità ormai fatiscente, avevano agli occhi dei contemporanei più dotti – imbevuti di cultura latina e nostalgici della floridezza e della magnificenza dell’età imperiale – un aspetto decisamente spettrale. «Dovunque – scriveva già nel V secolo Sidonio Apollinare, vescovo di Clermont-Ferrand – vi sono chiese col tetto rovinato, cadente, le porte spezzate, i cardini divelti, i cespugli spinosi ne ingombrano l’ingresso, greggi di animali s’aggirano al loro interno, si muovono tra le navate, presso gli altari, dove l’erba cresce alta. L’abbandono è generale».

Da capitali a... succursali Il suo sfogo non era solo letterario e per verificarlo facciamo un esempio concreto in grande: Milano. Dai dati emersi grazie ai recenti scavi archeologici risulta evidente che il capoluogo ambrosiano conobbe una notevole prosperità per tutto l’alto impero, mentre insieme alle invasioni arrivò anche l’inizio della decadenza (anche se non totale). Una prima fase di difficoltà, invero, Milano l’aveva già subita a partire dalla seconda metà del III secolo, in concomitanza con le prime incursioni, quando tutte le aree esterne alla cinta muraria furono abbandonate: la città, in quel caso, sembrò quasi ripiegarsi al suo interno alla ricerca di protezione. Scampato il pericolo, il prestigio e la forza economica erano però tornate a farsi sentire e infatti fu scelta


prima come sede di una delle zecche imperiali e poi, nel 286, come capitale dell’impero, diventando capoluogo della provincia di Aemilia et Liguria. Questa è senz’altro la fase di massimo splendore: al rinnovato ruolo corrispose una ripresa degli interventi edilizi che portarono per prima cosa all’ampliamento dell’area cinta da mura verso est (forse per proteggere una zona di sobborghi cresciuta a ridosso delle mura precedenti) e poi alla costruzione di tutti gli edifici pubblici richiesti da una città del suo rango. All’enorme anfiteatro (155x125 metri, il terzo nell’impero dopo il Colosseo e quello di Capua) furono affiancati il Foro, il palazzo imperiale, il circo (lungo 450 metri e largo 85, l’unico nel Nord Italia insieme a quello di Aquileia), l’arena, le Terme erculee. La seconda cerchia di mura voluta da Massimiano era spessa circa due metri e lunga quattro chilometri e mezzo. All’esterno era circondata da un fossato. Dalle porte, dotate di torri, partivano strade lastricate mentre verso la città convergevano undici vie consolari. La vita era animata da floride attività commerciali esercitate in molte botteghe artigiane. La popolazione, all’epoca, pare ammontasse a circa 200.000 persone. Una magnificenza sintetizzata efficacemente dai versi del poeta Ausonio (310-395 ca.): A Mediolanum ogni cosa è degna di ammirazione, vi sono grandi ricchezze e numerose


sono le case nobili. La popolazione è di grande capacità, eloquenza e affabile. La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura. Vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle Terme erculee. I cortili colonnati sono adornati di statue di marmo, le mura sono circondate da una cinta di argini fortificati. Le sue costruzioni sono una più imponente dell’altra, come se fossero tra loro rivali, e non ne diminuisce la loro grandezza neppure la vicinanza a Roma99. La grande MilanoA Milano, lo ricordiamo rapidamente, nel 313 Costantino emanò il celebre Rescritto (o Editto di tolleranza) che poneva fine alle persecuzioni religiose equiparando il cristianesimo agli altri culti praticati nell’impero. Poco dopo, con sant’Ambrogio (340 ca.-397), la città conobbe un nuovo periodo di splendore. La sua diocesi radunava ventuno città: Vercelli, Brescia, Novara, Bergamo, Lodi, Cremona, Tortona, Ventimiglia, Asti, Savona, Torino, Albenga, Aosta, Pavia, Acqui, Piacenza, Genova, Como, Coira, Ivrea e Alba. Milano si espanse nuovamente, costruì nuove strade e si ricoprì di chiese: fuori dalle mura, ai quattro punti cardinali, l’arcivescovo fece costruire quattro basiliche: dei Martiri (poi Sant’Ambrogio), di San Dionigi (oggi scomparsa), degli Apostoli (poi San Nazaro) e delle Vergini (poi San Simpliciano). Ma il cuore pulsante era rappresentato ancora dall’area gravitante attorno all’odierna piazza del Duomo, com’è stato messo in risalto dagli scavi che tra il 1982 e il 1990 hanno interessato il centro storico in occasione della realizzazione della linea 3 della metropolitana. La decadenza iniziò dopo il pesante assedio subìto dai visigoti, che comportò il trasferimento della capitale, per ragioni di sicurezza, a Ravenna. Pur privata di tale dignità, Milano non subì al momento contraccolpi. Alla metà del V secolo, però, fu teatro di una serie di eventi funesti: prima i saccheggi da parte di Alarico e di Attila (452), poi – con la presa della penisola da parte dei goti e la successiva guerra di riconquista di Giustiniano – la


distruzione (539) da parte di Uraia con relativo massacro di decine di migliaia di abitanti. La ricostruzione avvenne con Narsete, dopo la fine del conflitto, con i longobardi ormai alle porte. I riscontri archeologici confermano le demolizioni, le spoliazioni e gli abbandoni di questo periodo, che aveva visto la pressoché completa destrutturazione della fisionomia della vecchia città romana. Alla fine del sessantennio goto, che pure aveva segnato un’effimera ripresa, era quasi del tutto sparita l’edilizia in muratura; molte zone erano ora occupate da semplici capanne, altre erano state trasformate in orti o abbandonate, le strade erano coperte da pesanti depositi di terra. Milano, insomma, da ganglio di produzione e consumo era decaduta a mero centro di servizi, con un’economia basata non più sul commercio ma sull’autoconsumo e sul baratto. Ed era questa la situazione quando i longobardi guidati da Alboino, il 3 settembre 569, entrarono in città provocando la fuga dell’arcivescovo Onorato a Genova. Proprio i longobardi, durante il regno di Agilulfo e Teodolinda, contribuirono non poco al “rilancio” di Milano come capitale (contrapponendola all’ariana Pavia). Ma nonostante la costruzione (o ricostruzione) di nuovi edifici religiosi e civili operata dalla coppia regnante, il tessuto urbano antico, fortemente diradato, era stato in parte convertito a uso agricolo e gli edifici in muratura erano scarsi, come confermano gli scavi archeologici archeologici già citati e condotti tra il 1982 e il 1990: della casa, o case, di età longobarda emerse sotto l’attuale piazza del Duomo rimangono solo le buche dei piloni che sorreggevano le strutture, che erano come tutto il resto in legno. Era in rovina anche il grandioso circo in cui Agilulfo nel 602 associò, con una cerimonia spettacolare, il figlio Adaloaldo alla corona: come gli altri edifici di età romana, era stato utilizzato come cava di pietra per costruire tutt’altro. Se questa era la situazione di Milano, grande e potente, per le città di minore importanza la decadenza fu anche superiore. Tuttavia è sbagliato pensare che i centri urbani siano come “spariti” dalla storia per essere sostituiti – come centro di produzione e commercio – dalla campagna. Furono ridimensionati e spopolati, è vero. Ma mantennero comunque un ruolo di prestigio nei confronti del contado anche per la presenza del vescovo. A partire già dal VII secolo, le rovine iniziarono ed essere utilizzate per fondare nuove chiese, palazzi e monasteri. E con l’anno Mille, insieme alla rinascita demografica, economica e sociale, le città conobbero rinnovate energie e, in Italia, diedero vita allo straordinario fenomeno comunale. Così che, per restare a Milano, nel Duecento lo scrittore meneghino Bonvesin de la Riva la descriveva come una metropoli di 200.000 abitanti che consumava ben 1200 moggi di grano al giorno e con un’alta specializzazione di arti e mestieri. Vi sono, a suo dire, 40.000 fanti che fanno


parte della milizia comunale, 10.000 cavalieri membri dell’aristocrazia, 120 giureconsulti, 1500 notai, 600 messi del comune (ossia amministratori pubblici), 6 trombettieri del comune, 28 periti medici fisici (ossia teorici), 150 medici chirurghi (pratici), 8 insegnanti di grammatica, 14 dottori in canto ambrosiano, 70 maestri elementari, 40 copisti, 300 fornai (più altri 100 che servono i religiosi), 1000 bottegai, 440 macellai, 400 pescatori, 150 albergatori, 30 fabbricanti di campanelle che stanno al collo dei cavalli, 80 fabbri. Se volessi elencare ordinatamente – scrive con orgoglio – anche il numero degli artigiani di ogni tipo, dei tessitori di lana, di lino, di cotone, di seta, dei calzolai, dei conciatori di pelli, dei sarti, dei fabbri di ogni genere e così via; e poi dei mercanti che girano ogni parte della terra per i loro mercati e sono parte importante nelle fiere delle altre città; e infine dei merciai ambulanti e dei venditori all’asta: io credo che quanti mi leggono e mi ascoltano ammutolirebbero, per così dire, dallo stupore.


Paesaggi agresti Delle campagne si è detto. Anche nell’Alto Medioevo avevano un aspetto meno desolato delle città. I vasti latifondi dell’impero romano, infatti, erano riusciti in qualche modo a sopravvivere, e ospitavano su numerosi appezzamenti molti uomini. Nei tempi di crisi seguiti alle invasioni, era l’unione a fare la forza: era logico quindi che, per scampare alle devastazioni, alle guerre e alle carestie, molti coloni trovassero più comodo cedere il proprio terreno a un grande proprietario e mettersi sotto la sua protezione piuttosto che rimanere esposti ai rischi. Le antiche villae (o curtes), costituite da due parti distinte, ospitavano abitazioni, ricoveri per il bestiame, orti, magazzini, frutteti e forni, il tutto protetto da un modesto sistema di recinzioni costituito per lo più da steccati, muretti o siepi. Un vero e proprio microcosmo, dunque, con tanto di mercato dove si smerciavano generi agricoli, ma anche prodotti artigianali. A partire dal Mille, la campagna migliorò il suo aspetto e aumentò le rese grazie all’introduzione delle nuove tecniche di aratura. L’incremento demografico spinse a dissodare nuovi terreni, a recuperare le paludi, a erodere spazio alle foreste. Dove le condizioni lo consentirono, iniziarono a diffondersi i mulini, prima ad acqua e poi anche a vento. Se l’orizzonte dell’uomo altomedievale era costituito dal bosco, dalla campagna, da qualche monastero e da piccoli villaggi di poche, povere case, dal Duecento in poi esso si arricchì di castelli, di città più grandi e di nuovi villaggi, che imposero uno sfruttamento più intensivo della natura e delle sue risorse. E non senza conseguenze ecologiche anche gravi.


Le risorse del bosco Il processo di decadenza tra epoca tardoantica e Alto Medioevo ebbe delle ripercussioni anche sul rapporto tra uomo e paesaggio, che cambiò radicalmente aprendo la strada a un conflitto millenario da cui il primo non sempre uscì vincitore. Un dato significativo: nei primi secoli del Medioevo la popolazione europea era passata dai circa 25 milioni dell’impero romano a meno della metà. Tutto questo spazio, abbandonato dall’uomo, fu riconquistato, in una sorta di horror vacui, dalla natura. Foreste, brughiere, paludi e acquitrini si estero a dismisura, con le prime che giunsero a occupare gran parte dell’Europa centrale estendendosi per intere province e addirittura regioni. Si può dire che l’uomo medievale non avesse scelta: o sfruttare la foresta, oppure perire. Scelse la prima via e fu la scelta giusta. Trasformò il bosco nella risorsa principale della sua economia traendone tutto il necessario per consentirgli di sopravvivere. Innanzitutto, il legno: per costruire, per scaldarsi, per fabbricare mobili e utensili, ponti e barche. La cenere degli alberi bruciati serviva per fare il sapone, la corteccia per fabbricare corde, dalla resina si ricavava la colla. Tutte le piante erano utilizzate: da alcune si ricavavano tinture naturali per i panni, da altre estratti medicinali, da altre ancora frutti e prodotti alimentari. La castagna, nel Medioevo, era una delle basi dell’alimentazione, e in assenza di frumento poteva essere macinata in farina e panificata. Le ghiande e gli altri prodotti del bosco fornivano cibo agli animali domestici, soprattutto ai maiali (che vi erano allevati allo stato brado), al punto che in molte regioni l’estensione delle foreste era calcolata in base al numero di porci che potevano sostentare. Il bosco, infine, era un serbatoio naturale di selvaggina da cacciare. Ma il bosco possedeva anche un altro volto, quello oscuro e misterioso. Nell’immaginario medievale, vi dimoravano animali strani e fantasiosi come l’unicorno o feroci come il lupo, esseri fatati come gnomi ed elfi, fuorilegge (un caso celebre e notissimo, quello di Robin Hood), briganti ed emarginati. Rappresentava la frontiera con l’ignoto e l’inconoscibile, addirittura con l’aldilà. Realtà, immaginazione e mistero si fondevano in un miscuglio che ora attraeva ora respingeva. Nelle foreste, narrano i poemi cavallereschi, si consumavano amori fugaci e i cavalieri affrontavano le prove più importanti, e nei boschi, raccontano le cronache, sopravvivevano tracce di antichissimi culti pagani e avvenivano i più prodigiosi incantesimi. Le cose cambiarono come detto a partire dal Mille, quando la necessità di


conquistare nuovi spazi agrari aprì un’epoca di conflittualità con il bosco e, in generale, con l’incolto, fosse esso palude, foresta o area marginale. La fame di terre dettata dall’aumento demografico e dall’espansione delle città, tuttavia, oltre a favorire il disboscamento mutò anche le condizioni psicologiche con cui l’uomo iniziò a guardare la foresta: lo dimostra, ad esempio, la progressiva demonizzazione degli animali che vi trovavano rifugio. Primo fra tutti il lupo, divenuto la personificazione stessa del diavolo. Tutto ciò non significò, tuttavia, la scomparsa delle foreste: ancora nel Trecento, infatti, gli statuti cittadini dettavano le precauzioni da prendere per la cattura degli animali selvatici in caso di un loro arrivo in città, e nel Cinquecento sappiamo che la nobiltà amante della caccia provvedeva essa stessa all’immissione di selvaggina nei boschi e alla loro tutela. Per tutto il Medioevo, comunque, anche i contadini continuarono a vedere nel bosco una fonte di approvvigionamento di materie prime e di cibo, utile prosecuzione, quindi, dell’economia rurale. La conservazione delle foreste evitava di dover ricorrere all’acquisto dei suoi prodotti all’esterno, e perciò era una condizione necessaria alla stessa sopravvivenza della comunità.


Uomini e lupi Il progressivo inselvatichimento del paesaggio portò benefici in primis agli animali, che ripresero a regnare quasi incontrastati. L’uomo, negli scarsi insediamenti rurali come nelle spopolate città, era quasi in minoranza, e spesso si trovò nelle condizioni di doversi difendere. Le cronache altomedievali narrano che soprattutto nei momenti dell’anno più freddi o quando il cibo scarseggiava, non era raro vedere lupi (e non solo) aggirarsi in prossimità dei centri abitati, o addirittura penetrarvi alla ricerca di avanzi. L’unico modo per controllare il fenomeno erano le battute di caccia, anche se mai indiscriminate. Nell’editto di Rotari, ad esempio, i cervi erano protetti e per chi li feriva o uccideva senza motivo erano previste forti multe. L’aggressività degli animali era spesso percepita come una punizione divina. Un caso emblematico fu la spaventosa invasione di cavallette che, nel IX secolo, devastò i raccolti in Germania e nell’Italia settentrionale: racconta un cronista che erano talmente numerose da oscurare la luce del sole. Molti resoconti di vite di santi medievali raccontano di animali selvatici feriti guariti per miracolo o di bestie feroci rese improvvisamente miti: eloquente l’esempio di san Romedio, che domò un orso. E il santuario a lui dedicato in Val di Non (Trento) mantiene ancora oggi il ricordo dell’impresa allevando alcuni esemplari del plantigrado, un tempo presenza frequente su quei monti e oggi praticamente scomparso. Certi animali, inoltre, erano considerati rappresentanti o addirittura incarnazioni del demonio, e il racconto allora assume i caratteri della metafora con il santo che trionfa su Satana. Alcuni di essi, come il lupo, continuarono a rivestire un carattere ambivalente: ora amato ora odiato, era sempre guardato con sospetto per la sua natura raminga e per la sua aggressività. Però grazie alla sua forza non mancava di entrare, insieme all’orso, negli stemmi familiari oppure come componente di vari nomi. Uomini e bestie, comunque, non erano sempre e solo in conflitto. Essi condividevano per lo più lo stesso destino: siccità, inondazioni, sbalzi di temperatura e malattie uccidevano tanto gli uomini quanto gli animali. Anche perché vivevano a stretto contatto tra loro. Cinghiali, caprioli, cervi, lepri e altra selvaggina non erano solo cacciati, ma anche allevati. E diffusi erano anche gli animali domestici. I buoi costituivano la base dell’economia rurale: servivano per trainare l’aratro, e in genere aiutavano i contadini a compiere tutti i lavori agricoli di fatica. Poi c’erano gli ovini e i caprini, destinati alla produzione di


latte e carne, i primi anche di lana. E ancora, vacche, polli e galline, conigli, maiali, questi ultimi allevati nei boschi, allo stato brado. E poi c’era il cavallo, che oltre a servire come mezzo di trasporto, era allevato e ricercato per il combattimento. Costosissimi, i cavalli da guerra erano uno status symbol, ed erano talmente legati al destino del padrone che, in alcune società barbariche, quando questi moriva erano uccisi e sepolti con lui. Una sorte, se così si può dire, privilegiata, se si considera che, in genere, le carcasse degli animali morti erano portate fuori dalle mura della città e abbandonate in pasto alle fiere. Anche il cane godeva di uno status particolare: compagno da sempre dell’uomo e simbolo di coraggio, fu ad esempio adottato dalla dinastia dei Della Scala come mascotte e diede il nome, tra gli altri, ai nobili Cangrande e Mastino. Gli animali popolavano l’immaginario collettivo ed erano protagonisti di miti e leggende. Certo sono molto più appariscenti i mostri terribili, le sirene dalla lunga coda biforcuta, i draghi e i basilischi che, rappresentati sui capitelli delle chiese, sono i simboli del peccato e dei vizi e col loro aspetto spaventevole rendono palese al volgo il volto raccapricciante del male per indurlo a starvi lontano. Ma anche gli animali hanno, per l’uomo medievale, poteri soprannaturali. Basta leggere i “bestiari”, repertori enciclopedici che ne contenevano la descrizione, per rendersene conto. Il primo di questi testi, da cui poi sarebbero derivati gli altri, fu il Physiologus, traduzione latina di un’opera alessandrina del II secolo sulla natura degli animali: le figure fantastiche e le bestie che lo popolavano avevano il compito di svelare tramite allegorie non solo i dogmi della religione cristiana, ma anche interi passi della Bibbia. Se nell’Alto Medioevo gli animali selvatici prevalevano di numero, nel complesso, su quelli domestici, col passare del tempo il rapporto si ribaltò: le foreste, con l’espansione delle città e il massiccio disboscamento, si ridussero dopo il Mille in maniera sensibile, e con esse l’habitat naturale degli animali. Inoltre, si diffusero sempre più gli allevamenti, che dal bosco e dal pascolo, lentamente, si trasferirono nelle stalle. Addirittura, nel Duecento in alcune città si diffuse l’abitudine di spostare fuori dalle mura gli animali che, come le capre e i maiali, emanavano cattivi odori: un evidente sintomo di ricerca di benessere in una società che stava diventando più ricca e, a suo modo, anche raffinata. Ma che col progresso si allontanava sempre più dalla natura.

Sistema “bipolare” Il cavaliere e il contadino, il feudatario e il servo della gleba, il miles e il


villicus sono dunque due facce della stessa medaglia, e hanno molto più in comune di quanto non si possa credere. Condividono, ad esempio, un mito (positivo nel primo caso, negativo nel secondo) da sfatare. Il cavaliere medievale (o feudatario che dir si voglia), nato come si è visto tra X e XI secolo dalla disgregazione del potere pubblico e dalla signoria di banno, altro non era, in origine, che un contadino ricco al punto da aver mantenuto, unico in mezzo a una massa di (quasi) diseredati, la proprietà delle sue terre e con esse il diritto di portare le armi. Chiamato in latino miles (soldato, ma in pratica sinonimo di vassallo), comunemente era detto “cavaliere” perché si distingueva grazie al suo cavallo dal resto dei contadini che combattevano a piedi. Se il cavaliere era particolarmente fedele al suo signore, poteva ricevere in dono le armi: un atto, questo, che si tramutò ben presto in un elaborato cerimoniale dal forte sapore sacro. Così “addobbato” – sulla cerimonia e le sue implicazioni si veda il capitolo precedente –, egli diventava ufficialmente parte del clan del suo signore e, come tale, era esentato dal pagamento delle tasse. Membro di un’élite, il cavaliere acquisì sempre maggior prestigio tanto da ottenere, tra il XII e il XIII secolo, l’ereditarietà del titolo e l’esclusione dalla “casta” di chiunque non fosse cavaliere per nascita. Attaccabrighe, rissosi e violenti, i milites dell’Alto Medioevo rappresentavano però il contrario esatto di quell’ideale di “cavalleria” che pure da loro avrebbe preso il nome. Fu infatti la Chiesa che, per porre fine ai soprusi che li vedevano sovente protagonisti, cercò di inculcare loro comportamenti meno violenti e tentò di trasformarli nei “paladini” (ovvero difensori) dei deboli, delle vedove, degli orfani e degli indigenti. Missione, tuttavia, in larga parte fallita, e che rimase nulla più di un ideale letterario destinato a un immenso successo grazie alla poesia cortese. La condizione del contadino, invece, era meno triste di quanto non suggerisca l’oleografica immagine del “servo della gleba”. Se nell’Alto Medioevo la società si era andata bipolarizzando in potenti e umili (con i piccoli coltivatori liberi e gli schiavi accomunati in un’unica, grande categoria di uomini dipendenti da un signore), dal Mille in poi la ripresa dell’economia, l’aumento demografico e l’allargamento della campagna a spese dell’incolto portò con sé – come detto – il concetto di “terra” come bene che poteva essere comprato e venduto, e dunque poteva portare all’ascesa sociale. Il contadino medievale affittava un terreno per lungo tempo in cambio di un canone generalmente sopportabile: era legato al proprietario da un rapporto di dipendenza, ma non era “schiavo” della zolla che coltivava. Men che meno contro la sua volontà, visto che non gli fu mai negata, pur nel vincolo di subordinazione, la libertà personale. Con la rinascita delle città che iniziò intorno al Mille e la conseguente ascesa di nuovi ceti (la cosiddetta “borghesia”), il sistema feudale si ridimensionò in


maniera sensibile perdendo molte delle caratteristiche che lo avevano sinora contraddistinto. A ciò contribuì anche, tra il XII e il XIII secolo, il progressivo irrigidimento delle autorità ecclesiastiche, che vietarono ai chierici – fino a quel momento veri e propri factotum – di esercitare attività “extra” rispetto a quelle di ambito religioso in quanto esulavano dall’ambito spirituale. Si aprì così il campo alle professioni liberali dei laici, nacquero le grandi università (anch’esse laiche) e le corporazioni di arti e mestieri. I mestieri, gerarchizzati, finiscono per differenziarsi e specializzarsi sempre più nettamente. Eloquentissimo, ad esempio, il citato elenco fornito per Milano da Bonvesin de la Riva. Dopo un colpo di coda avvenuto tra Tre e Cinquecento, il sistema feudale si fossilizzò in una mera esteriorità di privilegi che comportavano sovente anche abusi e soprusi. Ad abbatterlo – anche se in certi contesti non definitivamente – ci avrebbe pensato, nel 1789, la Rivoluzione francese.

98 A. Padoa-Schioppa, Il diritto nella storia d’Europa. Il Medioevo. Parte prima, Cedam, Padova 1995, p. 124-125. 99 Decimo Magno Ausonio, Ordo urbium nobilium, 7: Mediolanum.


15 Gli esclusi

Prostitute, omosessuali, banditi, ladri, furfanti... Il mondo dei reietti è, nel Medioevo, estremamente colorito e vivace100. Sono persone che vivono ai margini della società e in contrasto con essa, ne negano l’impostazione oppure ne sono estromessi perché rifiutano di uniformarsi alle regole e ai valori dominanti. Se chi comanda li disprezza, li argina e li punisce, il popolo ha nei loro confronti un atteggiamento ambiguo: li teme ma, a suo modo, li ammira. E in alcuni casi persino li trasforma in eroi sui generis. Se l’omosessuale è condannato senza pietà per la sua “devianza”, la prostituta è un “male necessario” che garantisce l’uomo dagli eccessi; se il ladro ruba e mette in pericolo l’ordine, è però “simpatico” quando sottrae ai ricchi per dare ai poveri. E, se si pente, può persino redimersi. La sua sorte di protagonista dei bassifondi può dunque anche cambiare in meglio. Ciò che non accade, invece, al reietto per antonomasia, l’ebreo. Avvolto da un atavico sospetto, è oggetto di scherno e rabbia e, appena se ne presenta l’occasione, viene accusato delle peggiori nefandezze e travolto da persecuzioni di massa.


Fuorilegge e sovversivi Per tutto il Medioevo imbattersi in un brigante, in un predone o in un ladro era un’eventualità tutt’altro che rara. Innumerevoli fonti testimoniano il senso di precarietà diffuso nella generale latitanza e disorganizzazione (a tutti i livelli) del potere centrale, ragion per cui – il brano è dalla Historia novella di Guglielmo di Malmesbury – spesso «le case dei poveri e dei contadini vengono spogliate sino a terra, e loro stessi erano legati e imprigionati, e non vengono rilasciati se non dopo aver dato come riscatto tutto ciò che possedevano o su cui potevano mettere le mani». Combattere la piaga era molto difficile: terminate le loro imprese, da soli o in gruppo, in genere sparivano dandosi alla macchia, e non era raro che abbandonassero la contrada per evitare di essere catturati e per andare, nell’anonimato, alla conquista di altri bottini. Arrestarli – e punirli – era quasi impossibile: o li si coglieva sul fatto oppure si doveva sperare nella delazione di qualche seguace. Una spia che testimonia la difficoltà di arginare il fenomeno, e di assicurare i colpevoli alla giustizia, è l’esistenza, addirittura, di formule magiche per stanare i ladri, come quelle elaborate dal medico inglese Johannes de Mirfeld (morto nel 1409) insieme a una serie di consigli parimenti utili. Si poteva ad esempio scrivere su cera vergine l’invocazione «+ Agios crux + Agios Crux + Agios Crux Domini» e sospenderla sopra la testa con la mano sinistra, ed ecco che l’identità del ladro si sarebbe rivelata in sogno. Altri metodi sono dar da mangiare al sospettato un pezzo di pane su cui sono state incise alcune lettere (se non riesce a inghiottirlo è colpevole) oppure radunare tutti i presunti ladri di fronte a un muro su cui è stato disegnato un occhio: chi ha commesso il furto dovrebbe iniziare a lacrimare dall’occhio destro. Se nega di essere il colpevole, basta piantare un chiodo di rame nell’occhio dipinto sul muro e aspettare la reazione degli astanti: il colpevole inizierà a gridare come se fosse stato colpito egli stesso101. Chi erano questi briganti? Poveri e derelitti, che non avevano altro mezzo per mantenersi se non delinquere. Ma anche (come testimonia proprio l’esempio appena citato) cavalieri diseredati che dovevano, in qualche modo, procacciarsi i mezzi con cui vivere. Costoro, come pure altri “benestanti” non contenti di ciò che avevano, si davano alle razzie per accaparrarsi ciò che mancava loro per vivere secondo il tenore di vita desiderato. Si prenda il Meier Helmbrecht, poemetto scritto da Wernher der Gartenaere (Gärtner) verso il 1250, in cui


l’omonimo protagonista, un contadino non certo di basso livello, abbandona la sua occupazione per diventare “cavaliere” in un’epoca in cui la cavalleria ormai inesorabilmente compromessa dal declino era popolata per lo più da furfanti e manigoldi alla ricerca di facili bottini. Datosi alla macchia, dopo anni di razzie torna a casa ricco e tronfio per organizzare in pompa magna il matrimonio della sorella con uno dei suoi sgherri. Durante il banchetto, i furfanti vengono però catturati. Nove di questi finiscono subito impiccati. Helmbrecht, accecato e mutilato della mano e di un piede, è scacciato dal padre nella foresta, dove poco dopo viene sorpreso da un gruppo degli contadini che aveva derubato e quindi impiccato. L’epopea di Helmbrecht contiene, si può dire, tutti gli elementi del caso esemplare: la sete di bottino, la ribellione all’ordine sociale, il tradimento dei valori familiari, la mancanza di morale, l’oppressione dei poveri e dei deboli. Sullo sfondo, il bosco, luogo popolato dai reietti per antonomasia che, come dice il loro stesso nome, sono “banditi” per la loro condotta dalla società civile e vagano senza patria e senza meta. La vicenda non può che concludersi sulla forca: la giustizia, laica o ecclesiastica poco importa, riconduce cioè chi si azzarda a sovvertire l’ordine sociale precostituito al suo posto, riservandogli la “giusta” punizione esemplare.


I delitti e le pene A proposito di pene, occorre dire che esse furono largamente applicate anche in maniera sommaria per tutto il Medioevo, ma non sempre allo stesso modo. L’editto di Rotari privilegiava la composizione pecuniaria (o guidrigildo) – ossia il pagamento di una multa variabile in base al rango dell’offeso – alla pena di morte. Si pagava per crimini quali la profanazione della tomba, la spoliazione e l’occultamento di cadavere, l’oltraggio o lo sbarramento della via, il disarcionamento di un cavaliere, la violenza gratuita e ingiusta – soprattutto se perpetrata ai danni di una donna –, l’irruzione con la forza in casa altrui. La pena di morte per i liberi era prevista solo in casi estremi: attentato alla vita o congiura contro il sovrano, sedizione, tradimento e abbandono del compagno in battaglia. Con l’epoca feudale, però, anche su influsso del pensiero teologico, la pena capitale conobbe un successo sempre crescente. Basti pensare che san Tommaso d’Aquino (1225-1274), dottore della Chiesa, sosteneva che «come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa deve essere eliminata per garantire la salvezza di tutta la comunità»102. A comminare le pene erano una pluralità di soggetti che amministravano la giustizia. Se i massimi poteri e fonti del diritto erano il papa e l’imperatore, essi per applicarlo si avvalevano di una fitta rete di uomini (feudatari, prelati, vassalli, funzionari) che si diramava sul territorio. Oltre che come pena per i delitti “comuni” come il tradimento, il furto, l’omicidio, quella capitale – con tratti spettacolari – era riservata anche ai reati “d’opinione” in particolare riferiti alla religione: a finire sul rogo, sovente dopo aver subito torture sanguinosissime e mutilazioni di ogni sorta, erano soprattutto – come si può leggere nel relativo capitolo – gli eretici. Supplizi altrettanto scenografici, anche questi come deterrente per la popolazione, erano riservati anche a chi era giudicato colpevole di alto tradimento ai danni del sovrano. Sette anni dopo la decisiva sconfitta di Falkirk, il 23 agosto 1305 lo scozzese William Wallace, reo di aver condotto i suoi in una lunga ribellione nei confronti del re inglese Edoardo I, fu catturato e giustiziato a Londra sulla pubblica piazza dopo un processo sommario. Accusato di alto tradimento, di volersi impossessare del regno di Scozia, di innumerevoli assassinii e distruzioni di beni, fu legato a un graticcio e trascinato per quattro


miglia dai cavalli fino al patibolo, a Smithfield. Qui, dopo essere stato appeso, mentre era ancora vivo fu smembrato e mutilato davanti alla folla e infine decapitato; i suoi organi interni furono dati alle fiamme, la sua testa fu impalata sul ponte di Londra e il suo corpo squartato in quattro parti, subito spedite ai quattro angoli del regno – Newcastle, Berwick, Edimburgo e Perth – come monito per chiunque avesse avuto l’intenzione di opporsi in futuro al dominio inglese. In genere, la pena per decapitazione era riservata ai nobili; ai colpevoli di rango inferiore la fine più diffusa avveniva tramite impiccagione.

La “santità” dei ladri Tornando ai ladri, è stato però giustamente osservato che il Medioevo ha spesso tenuto un atteggiamento tutt’altro che negativo nei loro confronti, arrivando anzi in molti casi a simpatizzare apertamente con essi e in certi altri, addirittura, a rivalutarli. Il fenomeno, del resto, affonda le sue radici molto prima, addirittura alle origini del cristianesimo, come testimonia la vicenda del ladrone redento che compare nella narrazione evangelica della crocifissione: 39 Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». 40 Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? 41 Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». 42 E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». 43 Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Luca, 23:39-43). Nonostante il suo pedigree poco raccomandabile, non solo il ladrone si pente e viene salvato in punto di morte da Cristo in persona (che gli annuncia l’apertura delle porte del paradiso!), ma sul suo conto fioriscono – a partire dai vangeli apocrifi, che gli attribuirono il nome Dismas – copiose leggende che conoscono grande successo fino a trasformarlo in un santo a tutti gli effetti103. La ballata di Gamelyn (metà del XIV secolo), il cui protagonista ricorda da vicino il leggendario Robin Hood, guarda con simpatia alle imprese della banda di fuorilegge che combatte, in nome della giustizia e dell’equità, la tirannia del potere. Non sempre – e sono gli stessi Padri della Chiesa, Agostino in primis a sostenerlo – è facile distinguere il brigante dal legislatore e il malvivente dal santo. Anche perché sia i ladroni sia gli eremiti hanno abbandonato, ciascuno a modo loro, il mondo e vivono al di fuori del consesso civile. Di più: le bande di


briganti altro non sono che piccoli regni che sussistono grazie a un patto sociale. Se riescono a occupare città e sottomettere popoli, ecco che diventano uno Stato riconosciuto da tutti: ma non certo perché hanno abolito le razzie, bensì in quanto hanno conseguito l’impunità. Siamo tutti briganti, dunque, e tutti peccatori sui quali pende la spada di Damocle della condanna. Ma che possono redimersi – come il Buon Ladrone – se si pentono e si convertono. Anzi. A volte, quando decidono di farlo, sono talmente convinti della loro scelta da impiegare, per perseguirla, la stessa energia e lo stesso sprezzo del pericolo cui erano ricorsi fino a quel momento per compiere le loro malefatte. Come il giovane e terribile ladrone di Trento di cui parla l’abate Cesario di Heisterbach (1180-1240) nel Dialogus magnus visionum et miraculorum (“Grande dialogo delle visioni e dei miracoli”). Convinto ormai, dopo anni di efferatezze di ogni tipo, che la sua anima fosse perduta, si fa convincere da un frate ad astenersi da ogni crudeltà e pregare la Vergine ogni sabato. Compie la sua azione pia con tanta fermezza che, trovato appunto un sabato dalle guardie, non si difende pur sapendo di andare incontro alla morte certa. Condannato al patibolo, rifiuta la grazia che gli stessi giudici gli offrono commossi dalla sua bellezza, e così viene decapitato e seppellito fuori dalla città. Al che avviene l’incredibile: addirittura la Vergine stessa, ammirata dal gesto, si reca sul precario sepolcro del giovane, ne disseppellisce il corpo e riattacca al busto la testa spiccata ordinando subito dopo al vescovo di dare alla salma cristiana sepoltura. Il prelato, spaventato, fa persino di più: posiziona il morto nella cattedrale e istituisce, in suo nome, il sabato di digiuno per tutta la diocesi.

Il sesso ai margini della società Si è già detto – si veda il capitolo sul sessualità – che nel Medioevo il concetto di sesso era strettamente legato a quello di peccato. Pur essendo indispensabile alla procreazione, l’accoppiamento era però derivato dal peccato originale e quindi, comunque, da condannare. Tanto più perché procurava piacere ed esaltava i sensi. Nonostante, come si è visto, non mancassero voci contrarie alla totale negazione del piacere e il


matrimonio fosse considerato un “male necessario” per tenere a freno l’istinto, a essere incoraggiato era – Agostino docet – un approccio «senza lussuria» che permettesse l’adempimento dei propri doveri evitando il più possibile il contatto tra gli stessi corpi. Tra i mezzi più efficaci per garantire una procreazione senza piacere c’era un abito a prova di qualsiasi tentazione erotica: una lunga camicia da notte di tessuto pesante, la chemise cagoule, che, indossata sia dall’uomo che dalla donna, aveva un’unica apertura in corrispondenza degli organi sessuali in modo da permettere la copula senza doversi nemmeno spogliare. In una visione di tal genere la prostituzione era in linea di massima condannata, ma gli stessi teologi, Tommaso d’Aquino in testa, la tolleravano come mezzo per tenere a freno la lussuria ed evitare il diffondersi altrimenti incondizionato di pratiche “degenerate” come l’adulterio, la masturbazione e l’omosessualità. Nonostante questo atteggiamento, però, le autorità non solo civili ma addirittura ecclesiastiche presero col tempo a favorire la creazione di bordelli per ricavarci corpose rendite. L’Ordinanza che regola il governo delle terme di Southwark del vescovo di Winchester, ad esempio, regolamentava, all’inizio del XII secolo, questo stabilimento che era di proprietà del vescovo. Nel 1309 un altro vescovo, Giovanni di Strasburgo, costruì addirittura a sue spese un nuovo bordello nella sua città104. Chi erano le prostitute? Per lo più donne povere o impossibilitate per varie ragioni – ad esempio perché erano state stuprate, oppure erano schiave vendute dai loro padroni perché da loro stessi ingravidate – a trovare marito: per loro vendere il proprio corpo costituiva più che una libera scelta il solo mezzo per mantenersi. La loro reputazione era assai malfamata: oltre a servire degnamente gli eserciti – e a tal scopo erano reclutate da appositi lenoni –, quando potevano si aggregavano ai crociati, alle bande di criminali e persino ai pellegrini,


distogliendo quest’ultimi dallo spirito di devozione con cui avevano intrapreso il viaggio. Addirittura, il sospetto di prostituzione gravava sulle stesse donne che partivano per raggiungere i luoghi santi. Eloquente a tal proposito la lettera inviata da san Bonifacio a Cutberto di Canterbury, in pieno VIII secolo, in cui il santo ammonisce l’arcivescovo circa il rischio che comporta, per la loro purezza, il far partire le donne inglesi per i pellegrinaggi a Roma: non solo poche di loro, sostiene infatti, riescono a mantenere la verginità, ma tutte le città di Francia e Lombardia – ossia dell’Italia del Nord – ormai pullulano di pellegrine inglesi trasformatesi in meretrici105. Se fino al Mille la prostituzione non era un fenomeno organizzato, con la rinascita delle città invece lo divenne e se è vero che molte continuarono a seguire le carovane di pellegrini e gli eserciti vivendo di espedienti, molte di più preferirono insediarsi stabilmente per sfruttare alla meglio l’andirivieni di uomini dovuto alla ripresa dei traffici commerciali. La prostituzione divenne così un fenomeno essenzialmente urbano esercitato in quartieri distinti; come si è visto, chi era dedita al mestiere era riconoscibile grazie a un segno particolare, di solito un velo giallo, che la rendeva subito identificabile rispetto alle altre donne. E i bordelli, come detto, inziarono a essere sfruttati dalle autorità per ricavarne rendite. Il re d’Inghilterra Enrico II in persona pensò bene di emanare una serie di disposizioni per controllare l’esercizio della prostituzione nominando addirittura dei funzionari appositi, i balivi, per verificare ciò che accadeva nei bordelli e garantire che tutto – a cominciare dall’igiene – fosse in ordine. Ben pochi, a quanto pare, si preoccupavano della questione morale. Solo Luigi IX, in Francia, cercò di distogliere le donne dalla prostituzione offrendo loro del denaro e una pensione in cambio del pentimento e della promessa di cambiare vita. Ma il tentativo si risolse in un flop clamoroso: delle 12.000 prostitute parigine (quasi il 10% della popolazione dell’intera città, che all’epoca era di circa 150.000 abitanti) soltanto duecento si presentarono a ritirare i soldi. Tutte le altre, evidentemente, erano convinte che l’esercizio del mestiere, per quanto non certo foriero di prestigio sociale, fruttasse loro di più... Nel Trecento esistevano bordelli di lusso in molte città d’Europa e nel Rinascimento alcune grandi cortigiane, oltre a posare per illustri artisti, passarono agli onori delle cronache per le loro capacità di intrattenere i facoltosi clienti anche con altre arti oltre a quelle di Venere: donne che sapevano cantare, ballare, suonare strumenti e addirittura partecipavano in vesti discinte ai banchetti in onore dei papi, come quello tenutosi a Roma nel 1501 e organizzato da Cesare Borgia per il padre Alessandro VI. Segno che nel Rinascimento i tempi, anche per il mestiere più antico del mondo, erano decisamente cambiati.


Gli ebrei tra un pogrom e l’altro Illustri “esclusi” furono, nella società medievale e non solo, gli ebrei. Già dopo la conquista di Gerusalemme e la distruzione del Tempio da parte di Tito nel 70 d.C., molti si erano rifugiati nell’Africa del Nord e in Spagna, dove avevano dato vita a floride comunità di mercanti e artigiani. Malgrado la diaspora, le loro condizioni di vita erano nel complesso buone, ma peggiorarono sensibilmente allorché il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero. I loro diritti vennero limitati, e la stessa Chiesa adottò nei loro confronti un atteggiamento ambiguo: pur mantenendo nella forma una certa tolleranza, non solo non condannò numerosi episodi di violenza che si conclusero con il rogo delle sinagoghe, ma introdusse, per i cristiani, il divieto di convertirsi all’ebraismo. Il sospetto intorno agli ebrei era dovuto soprattutto all’accusa di aver assassinato Gesù Cristo, ma i rapporti tra i fedeli delle due religioni non furono sempre tesi allo stesso modo. L’Islam, nel complesso, fu comunque molto più tollerante, dato che consentiva agli ebrei di partecipare attivamente all’amministrazione dei nuovi Stati e di radicarsi in tutta l’area di dominazione musulmana. Con la crisi seguita, in Occidente, alle invasioni barbariche, gli ebrei furono invece ben tollerati e anzi in molti casi protetti dalla Chiesa, anche perché spesso facevano parte di comunità che erano riuscite a far fronte alle devastazioni grazie agli intensi traffici commerciali e alla loro posizione di intermediari tra il mondo cristiano e quello islamico. In alcune corti, come quella normanno-sveva di Federico II a Palermo, l’imperatore si circondava di intellettuali ebrei e musulmani cui conferiva prestigiosi incarichi di potere. Siviglia, Cordoba, Granada e Toledo divennero durante il regno di Alfonso X il Savio (1221-84)


l’emblema della perfetta e feconda sintesi tra le tres culturas: la cristiana, l’araba e l’ebraica. Ma erano eccezioni alla regola. La rinascita delle città a partire dall’anno Mille aveva portato con sé l’ascesa di nuovi ceti di mercanti che contendevano agli ebrei il monopolio dei commerci: fu allora che essi iniziarono a ripiegare oltre che sull’artigianato, anche su alcune professioni tradizionalmente vietate ai cristiani, come ad esempio il prestito di denaro a interesse, contribuendo dunque fattivamente alla nascita e allo sviluppo delle banche. Se furono visti con crescente sospetto dal popolo, i ricchi banchieri ebrei si dimostrarono invece assai utili ai sovrani e ai principi europei, soprattutto quando questi ultimi erano impegnati nelle guerre: in cambio di denaro e finanziamenti, gli ebrei ricevettero quindi un po’ ovunque protezione e si insediarono stabilmente in molte regioni d’Europa. Ma nel nuovo clima di fanatismo religioso e intolleranza che si diffuse insieme alle crociate, ripresero anche le persecuzioni che li portarono al massacro, a decine di migliaia, soprattutto nell’Europa centrale. La stessa Chiesa favorì la ghettizzazione imponendo loro dapprima (1215) di indossare abiti particolari e in seguito di portare un contrassegno giallo che li distinguesse dai cristiani. Nel 1290 furono espulsi dall’Inghilterra, nel Trecento dalla Francia. Il sospetto nei loro confronti si accrebbe ancor di più con la crisi del Trecento, quando furono accusati di essere la causa scatenante delle pestilenze e di avvelenare i pozzi, soprattutto durante la Grande Peste del 1347-51. Tra le poche voci in loro difesa, si elevò quella di papa Clemente VI, che con una serie di bolle invitò il clero a proteggerli e a respingere le accuse in quanto infondate: se davvero erano gli ebrei ad avvelenare i pozzi e a diffondere il contagio, osservava il pontefice, perché anche loro perivano a causa dell’epidemia? La popolazione, però, non sentiva ragioni e il linciaggio dei presunti colpevoli, nonché il saccheggio delle loro case e dei loro beni, divenne una vera e propria mania collettiva soprattutto nel Centro Europa. Nel gennaio 1349, a Basilea, i cittadini insorsero contro le stesse autorità che avevano proclamato il bando per chi si macchiava di violenza ai danni degli ebrei e scatenarono una caccia all’uomo senza precedenti. Molti di loro, rastrellati in città, furono rinchiusi in un edificio e bruciati vivi. A Strasburgo la popolazione giudaica della città fu dimezzata, a Worms, a Francoforte e a Magonza furono gli ebrei stessi a darsi la morte appiccando il fuoco alle loro stesse case piuttosto che finire linciati dalla folla. Al termine della pestilenza che aveva spazzato via un terzo delle anime d’Europa, gli ebrei sopravvissuti erano soltanto poche migliaia. Nel Quattrocento furono cacciati dagli stati tedeschi: da qui gli askhenaziti (così erano detti, dal nome ebraico della Germania) partirono alla volta della Polonia dove diedero vita a una cultura originale – la cultura yiddish – che


nacque dalla sintesi tra le radici ebraiche e le tradizioni dell’Europa centrale e slava. Gli ebrei spagnoli (i sefarditi) furono dapprima costretti a convertirsi al cristianesimo – e quindi chiamati con disprezzo marranos – e poi, perseguitati con l’appoggio dell’inquisizione, costretti alla fuga. Espulsi ufficialmente dalla Spagna nel 1492, si insediarono in Africa, in Turchia e soprattutto in Olanda, dove crearono una comunità fiorente nei commerci la cui importanza decisiva sarebbe emersa nel Seicento. Gruppi di ebrei cacciati dai regni europei nel Quattrocento trovarono rifugio in Italia (anche se nel Cinquecento gli ebrei romani furono costretti a rifugiarsi nelle campagne laziali e toscane), dove si insediarono costituendo importanti comunità soprattutto a Venezia, a Roma, nel Mantovano e nel Cremonese. Ma con la fine del Medioevo l’epoca dei pogrom – termine russo che significa “devastazione” – per gli ebrei non era ancora terminata.

100 A. McCall, I reietti del Medioevo, Mursia, Milano 1987. 101 Richard Kieckhefer, Magic in the Middle Ages, Cambridge University Press, 1989, p. 89. 102 Summa theologiae, II-II, 29, artt. 37-42. 103 C. Donà, Pessimae vitae finis optimus: la santità dei briganti nei racconti religiosi del Medioevo, in A. Grossato (a cura di), Le vie spirituali dei briganti, Medusa («Viridarium», 3), Milano 2006, pp. 57-86. 104 A. McCall, op. cit., p. 142. 105 Ivi, p. 140.


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Ringraziamenti

Grazie a Cesare Mandelli, mio professore al liceo e uomo di enciclopedica cultura: a lui e al suo alto esempio devo la scintilla che ha innescato l’incendio. Grazie anche a Roberto Perelli Cippo, straordinario docente di Storia medievale all’Università degli Studi di Milano e relatore della mia tesi: mi ha insegnato a studiare sempre le fonti, ma soprattutto mi ha trasmesso il suo amore sconfinato per il Medioevo. Grazie ai miei genitori per la pazienza. Grazie, infine, a Mario: per il supporto, l’aiuto e la sopportazione. Senza di te, al solito, non ce l’avrei fatta.


Sommario

Introduzione 1 La donna, il bimbo, l’anziano 2 In camera da letto (e non solo) 3 L’abito fa il monaco 4 In viaggio 5 In cucina e a tavola 6 Artisti e intellettuali, scrittura e invenzioni 7 Paure, terrori, tabù 8 Curarsi nel Medioevo 9 La morte nel Medioevo 10 Feste e folklore nella giornata medievale 11 In chiesa 12 Contro la Chiesa 13 Il mestiere delle armi 14 Feudatari e servi della gleba 15 Gli esclusi Bibliografia essenziale


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