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la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno III/nuova serie
numero 11
settembre-dicembre 2019
EDITORIALE
ISSN: 2532-4063
Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org https://issuu.com/lacausadeipopoli
Non siamo tutti sulla stessa barca Alessandro Michelucci
DOSSIER
Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico
Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College (†), Myrddin ap Dafydd Gwasg Carreg Gwalch, Alain de Benoist Krisis, Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Philip J. Deloria Harvard University, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Elina HelanderRenvall University of Lapland, Ruby Hembrom Adivaani, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies (†), Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, Jean Malaurie CNRS, David MayburyLewis Cultural Survival (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Massimo Olmi giornalista (†), Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora (†), Ruedi Suter MediaSpace, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Literatures Across Frontiers, Inja Trinkuniene Romuva, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations
Il segno indelebile del colonialismo Antonella Visconti
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Il giorno che brillarono due soli Darlene Keju-Johnson
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Il ragazzo di Emu Field Karina Lester
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L'eredità di Ken Saro-Wiwa Intervista a Roy Doron e Toyin Falola
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Un gulag americano Laura Waterman Whittstock
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Kekuni Blaisdell, medico militante Anthony Gordon
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Anche questo è genocidio Ana Maria Vidal Carrasco
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La vostra civiltà sta uccidendo il pianeta Nemonte Nenquimo
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INTERVENTI
Il coraggio di dire no Alessandro Michelucci
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Un'altra occasione mancata per la Nuova Caledonia Giovanna Marconi
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LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca Musiche
IL RITRATTO
Tre continenti, tre razzismi diversi Alessandro Michelucci
In copertina: Nina Gualinga (foto: Caroline Bennett/Amazon Watch)
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Non siamo tutti sulla stessa barca L'esplosione della pandemia di COVID-19 ci ha stimolato a realizzare il dossier sulla salute dei popoli indigeni che compare in questo numero, ma non abbiamo voluto concentrarci sull'emergenza sanitaria in atto, soggetta a continui mutamenti che soltanto i media possono documentare in tempo reale. Allo stesso modo, abbiamo lasciato da parte aspetti clinici ed epidemiologici che non ci competono e che sarebbero del tutto fuori luogo in una rivista come questa. Il tema della salute ci interessa invece perché si intreccia con l'eredità del colonialismo, e quindi tocca una ricca varietà di aspetti sociali, culturali e politici. La salute, per i popoli indigeni, non è un dato puramente medico, ma è strettamente legata agli effetti dell'aggressione culturale, politica e territoriale che ha segnato – e spesso segna tuttora – la loro vita quotidiana. In altre parole, questi popoli non devono fronteggiare soltanto comuni malattie o virus come quello attuale, ma patologie provocate più o meno volontariamente da attività industriali, militari o scientifiche. Il tema è molto ampio e quindi non può essere trattato in modo esaustivo. Quello che vogliamo fare, comunque, è mettere in evidenza almeno tre aspetti di rilievo centrale per comprendere appieno lo sviluppo storico della questione indigena e le loro ricadute moderne. Tali aspetti sono ben noti a chi pratica la materia, ma non agli altri, che possono averne letto sulla stampa quotidiana, senza però che questa permettesse loro di comprendere la vastità del fenomeno. Gli aspetti che abbiamo scelto sono il razzismo ambientale, il colonialismo nucleare e la sterilizzazione forzata. Si tratta di temi ancora poco noti in Italia. Proprio perciò è importante fare conoscere anche nel nostro paese la drammatica realtà umana e l'efferatezza che ciascuno racchiude. Soltanto così sarà possibile capire che certi orrori ingenuamente confinati in un passato funesto sono sopravvissuti fino ai nostri giorni, agevolati dal progresso scientifico e dal silenzio dei media. Tutti gli episodi evidenziati sono confortati da prove inconfutabili, spesso lasciate dagli stessi responsabili, o comunque documentate da specialisti rispettati e affidabili. Come abbiamo già detto, i popoli indigeni non sono bizzarre comunità umane che vogliono restare attaccate al passato, ma donne e uomini che reclamano il diritto di avere un futuro. A questo scopo cercano di resistere all'aggressione delle multinazionali, dei governi complici, dei mille meccanismi politici, economici e burocratici che attentano alla loro salute. Alla logica del profitto che cerca di strangolarli nel nome dello "sviluppo". Ma quale sviluppo può giustificare che la salute venga compromessa in modo irreversibile, quale sviluppo può costruirsi sul sacrificio di vite umane? Anche davanti al COVID-19, comunque, molti popoli indigeni si sono trovati in una situazione svantaggiata, dato che hanno dovuto fare i conti con governi ostili o comunque scarsamente sensibili alle loro necessità. La nuova pandemia ha colpito tutti, ma non nello stesso modo. Non è vero, come si è sentito dire più volte nei mesi scorsi, che "siamo tutti sulla stessa barca". Non si tratta di un parere personale: le stesse preoccupazioni sono state espresse il 6 aprile scorso da Anne Nuorgam, presidente del Forum permanente dell'ONU sui popoli indigeni. Le maggioranze dominanti, nonostante le differenze sociali, possono far riferimento a un contesto politico che mobilita ingenti forze tecniche e sanitarie per fronteggiare la grave emergenza. I popoli indigeni, a seconda dei casi, traggono più o meno vantaggi da questi sforzi. In certi casi possono soltanto aspirare alle briciole. Questo conferma quanto siano ipocriti tanti discorsi basati sulla trinità laica di libertà, uguaglianza e fraternità, a tre secoli dall'evento storico che li ha scritti sulla carta. Dove sono rimasti. Alessandro Michelucci
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Il segno indelebile del colonialismo Antonella Visconti
Nella complessa architettura ideologica del colonialismo la dimensione fisica dei popoli indigeni occupa un ruolo centrale. Questo appare chiaramente fin dall'inizio: il contatto con gli invasori europei determina la diffusione di malattie ignote che hanno effetti devastanti, come morbillo, tifo, tubercolosi e vaiolo. Queste patologie preannunciano la catastrofe ecologica, culturale e sociale che si affermerà in breve tempo. Il primo impatto dell'invasione europea, quindi, è quello che colpisce la salute. Questo segna un precedente emblematico. Non soltanto perché le malattie si susseguiranno a più riprese, ma soprattutto perché la salute si affermerà come un terreno ideale, anche se non l'unico, sul quale le potenze coloniali europee e americane potranno esprimere la propria volontà di sopraffazione. Pratiche come la diffusione dei liquori, la distribuzione di coperte infette e l'avvelenamento dei fiumi non lasciano dubbi in proposito. La possibilità di incidere sulla salute conferisce ai nuovi stati coloniali – dall'Australia al Brasile, dalla Nuova Zelanda agli Stati Uniti – un potere paragonabile a quello di un medico che può staccare la spina quando vuole. Lo dimostrano le innumerevoli pratiche criminali che molti stati hanno realizzato fino a pochi anni fa, e che in certi casi praticano tuttora: dagli esperimenti nucleari alla sterilizzazione coatta, dall'inquinamento industriale all'assimilazione forzata. In altre parole, una ricca varietà di danni più o meno volontari all'integrità fisica e alla salute. Talvolta sono gli stessi che in tempi di conflitto vengono definiti crimini di guerra, ma che in altri passano sotto silenzio, quando non sono addirittura considerati funzionali al progresso scientifico e tecnologico. Questi rilievi possono sembrare esagerati o dettati da un indigenismo partigiano, ma esistono molti dati scientifici che li confermano in modo inoppugnabile. I popoli indigeni del pianeta sono esposti alle malattie di ogni tipo in percentuale superiore rispetto agli altri; le ereditano più facilmente; hanno un'aspettativa di vita più breve. È il marchio di un colonialismo che continua in molte parti del mondo, sotto forme nuove ma non meno insidiose, aggravate da un disinteresse mediatico e politico che confina talvolta con la complicità. Nel 2014 la rivista inglese The Lancet, una delle pubblicazioni scientifiche più antiche e più prestigiose, ha incaricato un gruppo di esperti di realizzare uno studio sulla salute dei popoli indigeni. A questo scopo ha chiesto la collaborazione del Lowitja Institute, il centro di ricerche australiano che si occupa della salute degli Aborigeni. Due anni più tardi, dopo un lavoro imponente che ha coinvolto studiosi di 23 paesi e 28 popoli indigeni, The Lancet ha pubblicato il rapporto intitolato A Global Snapshot of Indigenous and Tribal Peoples’ Health: The Lancet–Lowitja Institute Collaboration. Il rapporto compara i dati relativi ai popoli indigeni con quelli che riguardano i non indigeni e la popolazione totale per evidenziare le disuguaglianze. Il lavoro è stato realizzato con la massima cura, tenendo conto dei fattori storici, culturali, politici, legali, economici e demografici. In certi casi, purtroppo, la situazione politica di alcuni paesi non ha consentito ai ricercatori di raccogliere informazioni sufficienti sui popoli indigeni. Lo studio evidenzia un elevato numero di costanti che conoscono eccezioni rarissime: fra i popoli indigeni, per esempio, sono più diffusi il diabete, la malnutrizione, la mortalità infantile e l'obesità; le condizioni sanitarie sono nettamente inferiori. Ma al di là dei dati del rapporto, come si diceva prima, la salute fisica e mentale dei popoli indigeni assume un ruolo centrale nel processo di assimilazione forzata, che non a caso viene perseguita con apposite strutture sanitarie e didattiche: ospedali per il trattamento della tubercolosi, istituti psichiatrici e residential schools, i famigerati convitti dove i ragazzi venivano rinchiusi con l'o4
biettivo di "farne dei bianchi". In questi istituti i bambini e i ragazzi indigeni erano sottoposti a continue violenze fisiche e psicologiche. La loro identità culturale, linguistica e religiosa veniva soffocata e mortificata nel modo più crudele. L'alimentazione era cadente, l'igiene scarsa. Un buon numero di ragazzi si suicidava o moriva per malattie non curate adeguatamente. Queste pratiche disumane sono state realizzate col contributo decisivo di preti, suore e delle loro strutture religiose. Tutto questo è accaduto durante l'ultimo secolo in varie parti del mondo, ma è stato attuato con particolare efficienza negli Stati Uniti e in Canada. In Australia, intanto, si affermava la pratica secondo la quale i ragazzi venivano strappati alle famiglie e dati in adozione a famiglie bianche. Il Canada e l'Australia, seppure con modi ed effetti diversi, hanno riconosciuto di aver compiuto questi crimini, mentre nulla di simile è ancora accaduto negli Stati Uniti.
Speranza di vita di alcuni popoli indigeni Stato
Indigeni
Australia
60
Canada Danimarca* India Indonesia# Messico Nuova Zelanda Panama Stati Uniti Taiwan
75 (Indiani) 73 (Inuit) 80 (Meticci) 69 64 70 69 75 68 73 71
Maggioranza 81 82 81 69 72 75 82 78 78 79
Se non indicato i popoli indigeni vengono considerati collettivamente. * Inuit della Groenlandia # Popoli di Papua Occidentale Bibliografia Greenwood M. et alii (a cura di), Determinants of Indigenous Peoples' Health in Canada: Beyond the Social, Scholars' Press, Toronto (ON) 2015. Henry R. et alii (a cura di), Global Indigenous Health: Reconciling the Past, Engaging the Present, Animating the Future, University of Arizona Press, Tucson (AZ) 2019. Silburn K. et alii (a cura di), A Global Snapshot of Indigenous and Tribal Peoples’ Health: The Lancet–Lowitja Institute Collaboration, Lowitja Institute, Carlton South (VIC) 2016.
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Il giorno che brillarono due soli Darlene Keju-Johnson
Il 1946 segnò la nostra vita in modo indelebile. Fu in quell'anno che arrivò a Bikini un funzionario del governo statunitense. Andò a parlare con Juda, il capo della comunità, e gli disse testualmente: "Stiamo facendo degli esperimenti nucleari per il bene dell'umanità, per poter garantire al mondo un futuro senza guerre". Allora nelle isole Marshall erano pochi quelli che capivano l'inglese. Juda non comprese bene il significato di quello che gli era stato detto, ma fu colpito dalla parola umanità. L'aveva imparata dalla Bibbia. Così guardò il funzionario americano e gli disse: "Se questo viene fatto nel nome di Dio, dirò alla mia gente che dobbiamo partire". Comunque il nostro destino era già stato deciso: ovunque c'erano soldati che andavano e venivano, mentre la laguna era piena di aerei e di navi. Erano già pronti. La gente non poté fare altro che lasciare l'atollo, senza sapere se avrebbe mai potuto tornarci. A Juda era stato detto che gli Stati Uniti avevano bisogno dell'atollo per un breve periodo. Lui pensò che questo significasse una settimana, al massimo un mese: non sapeva che la realtà era ben diversa. Così la gente si trasferì su Rongerik. Nelle nostre isole si vive di quello che si trova nel mare e sulla terra, ma su Rongerik non c'era niente. Gli americani ci portarono sull'isola e se ne andarono. Un anno dopo mandarono un ufficiale medico a controllare le loro condizioni di salute: la gente stava morendo di fame. Immaginate che qualcuno vi porti via dalla vostra casa, vi scarichi su un'isola e si faccia vivo un anno dopo per vedere come state. Gli indigeni di Bikini sono stati trasferiti tre volte, con traumi psicologici gravissimi. Anche altri popoli dell'area, come gli indigeni di Enewetak, hanno vissuto la stessa tragedia. Nel 1954 gli Stati Uniti fecero esplodere su Bikini una seconda bomba atomica, 1000 volte più potente di quella che era stata lanciata su Hiroshima nel 1945. Quella volta nessuno ci avvertì, così la pioggia radioattiva ci colse di sorpresa. I bambini ci giocavano, ma smisero quando la pioggia cadde sulla loro pelle e iniziò a bruciarla. La gente fuggiva terrorizzata, gridava, vomitava. Fu un'esperienza terribile. La popolazione di Rongelap e di Utirik fu evacuata soltanto tre giorni dopo. "Sbrigatevi" dicevano i soldati che erano venuti a prenderci. "Gettatevi in mare e raggiungete la nave in fretta, dobbiamo partire". Non c'era tempo per decidere, ma solo per fuggire. Non c'era nessuna scialuppa che portasse la gente alla nave, neppure per i bambini e per gli anziani. Quando la gente si imbarcava ogni famiglia riceveva una coperta. Una sola, anche se aveva dieci o dodici figli. Le radiazioni contaminarono anche 28 americani che erano rimasti su Rongerik per osservare l'esperimento e l'equipaggio di un peschereccio giapponese che era nei paraggi. Siamo rimasti in contatto con uno degli uomini che avevano assistito all'esplosione. Gli Stati Uniti, ci ha detto, sapevano che il vento soffiava verso altre isole (Rongelap e Utirik, ndt) e che questo avrebbe coinvolto anche loro, ma vollero procedere comunque. Non fu uno sbaglio. Negli anni Quaranta, quando erano state sperimentate bombe di potenza limitata, la gente era stata trasferita, mentre al momento di usare la bomba più potente non fu avvertita. Fummo usati come cavie. L'aumento delle malattie fu spaventoso. Tuttora siamo afflitti dal cancro, che colpisce soprattutto le donne e i bambini. Le prime lo contraggono al seno e ai genitali, mentre i bambini nascono deformi. Ne ho visto uno di Rongelap, un neonato con i piedini che sembravano due bastoni. Un altro era senza mani. Altri ancora hanno una crescita ritardata. Attualmente abbiamo il problema di quelli che chiamiamo "bambini medusa". Sono proprio le meduse: non hanno braccia né gambe, sono senza occhi e senza testa. Di umano non hanno niente, ma sono nati come gli altri, sulla sedia gestatoria... Santo cielo, sono le cose più orribili che si possano immaginare. Alcuni hanno i capelli, respirano, ma ovviamente vivono solo poche ore. Quando muoiono vengono subito portati via per la sepoltura: si preferisce che le mamme non li vedano, perché potrebbero impazzire dal dolore. 6
La tragedia di Rongelap Il 1° marzo 1954 gli Stati Uniti fecero esplodere sull'atollo di Bikini la bomba atomica denominata Bravo, 1000 volte più potente di quella che era stata lanciata su Hiroshima il 6 agosto 1945. Circa 160 Km a est, completamente esposto alla pioggia radioattiva, si trovava un atollo abitato da 250 persone: Rongelap. Quando arrivò la pioggia atomica gli abitanti credettero che nevicasse e i bambini cominciarono a giocare con quella polvere bianca. Due giorni più tardi la popolazione venne evacuata perché l'effetto delle radiazioni era diventato insopportabile: la radioattività assorbita era stata 2000 volte superiore alla dose tollerabile in un anno. I funzionari americani sapevano che i venti provenienti da ovest avrebbero trasportato la pioggia radioattiva su Rongelap, e proprio per questo avevano allontanato dalla regione tutti i loro connazionali, ma non gli abitanti dell'atollo. Nel 1957 il governo americano comunicò alla popolazione che l'isola non era più contaminata e che quindi sarebbero potuti tornarci. Ma negli anni successivi la gente continuò ad accusare le conseguenze delle radiazioni: crescita ritardata, disfunzioni tiroidee, cancro. Gli esami urinari realizzati nel 1973 misero in evidenza una concentrazione di plutonio 10 volte superiore a quella riscontrata negli abitanti di Bikini, ma i risultati furono tenuti segreti per 14 anni. Nel 1982, comunque, un rapporto del governo statunitense dimostrò che Rongelap era contaminata come Bikini. Nei tre anni successivi il senatore Jeton Anjain, rappresentante di Rongelap nel Parlamento delle isole Marshall, cercò invano di ottenere che il suo popolo venisse evacuato per poter vivere in un ambiente sano. Al tempo stesso si adoperò perché l’isola fosse sottoposta all'esame di una commissione scientifica indipendente. Giunti ormai al limite della sopportazione, nel 1985 gli abitanti decisero di abbandonare la loro terra. Con l'aiuto di Greenpeace raggiunsero l’atollo di Mejato, a 190 Km da Rongelap, dove però il cibo era scarso e mancava anche la minima struttura sanitaria. I funzionari americani si accanirono contro Anjain e cercarono di diffamarlo per aver promosso l’evacuazione. Ma lui voleva che il problema restasse all’ordine del giorno: Washington investiva milioni di dollari per bonificare Bikini ed Enewetak, mentre aveva completamente dimenticato la tragedia di Rongelap. Nel 1988 si ripeté in parte il copione del 1957: agli indigeni fu detto che l'isola era abitabile, ma solo per gli adulti, che comunque non avrebbero dovuto vivere nella parte settentrionale. Ma stavolta non si fidarono. Anjain continuò a far pressione sul Congresso affinché l'atollo fosse esaminato da una commissione indipendente. Riuscì a coinvolgere diversi scienziati stranieri e a evitare che il problema fosse archiviato nuovamente. Nel 1990 le sue ricerche rivelarono che gli Stati Uniti, violando il patto di associazione con le isole Marshall (1982), avevano conservato su Rongelap delle attrezzature atomiche da usare nel caso che l'URSS avesse deciso di non rispettare il Trattato di non-proliferazione nucleare. Il governo statunitense dovette quindi accettare l'inchiesta per la quale Anjain aveva lottato molti anni. L'impegno di Anjain gli valse dei riconoscimenti prestigiosi: nel 1991 fu premiato col Right Livelihood Award e due anni dopo ricevette il Goldman Prize. Il senatore di Rongelap è morto di cancro nel 1993, senza poter vedere la sua gente che faceva ritorno in patria. In ogni caso aveva costretto gli Stati Uniti a rispettare un dovere a lungo disatteso, restituendo al piccolo popolo micronesiano quella dignità che il terrore atomico gli aveva rubato. Il 19 settembre 1996 gli Stati Uniti hanno istituito un fondo di 45 milioni di dollari (38 milioni di euro) per risanare l'atollo e per farvi tornare gli indigeni. Il problema più grave rimane la contaminazione: il suolo è impregnato di cesio 137, che viene assorbito dalle piante e quindi dall'uomo che se ne nutre. Giovanna Marconi
Da sinistra: Jeton Anjain; gli abitanti di Rongelap lasciano l’atollo nel 1985 grazie a Greenpeace.
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Oggi molte donne vivono nel terrore di partorire bambini come questi. Recentemente mi sono stati asportati due tumori: ho paura di restare incinta, perché so che potrei partorire un bambino deforme. Oggi non ne nascono soltanto sulle isole contaminate, ma in tutte le Marshall. Ho parlato con tante donne che vivono nelle isole settentrionali dell'arcipelago: questa è la loro storia. La contaminazione non ha colpito soltanto le persone, ma anche l'ambiente. Penso all'albero del pane, che somiglia alla patata: prima aveva un bel colore verde, ma oggi è sbiadito. Sembra deforme, proprio come i nostri bambini. Molti dei frutti che crescono sulle nostre isole non sono più commestibili. Anche l'atollo di Enewetak, che si trova a ovest di Bikini, fu teatro di esperimenti nucleari. In tutto ne furono realizzati 43. Nell'atollo c’è una piccola isola, Runit. Nessuno potrà più abitarci. Dopo gli esperimenti gli Stati Uniti cercarono di risanare Enewetak. Raccolsero le scorie nucleari che si trovavano sulle isole meridionali – le altre erano troppo contaminate – e le sotterrarono in un cratere su Runit, poi ricoprirono tutto con una colata di cemento. Oggi gli scienziati dicono che il cratere inizia a sprigionare delle radiazioni, ma secondo loro si tratta di un problema trascurabile, perché la laguna è già radioattiva. L'abitato dista solo cinque o sei kilometri. Le isole setten-trionali, a sedici kilometri da lì, sono anch'esse inabitabili. Per qualche tempo la gente ha continuato ad andarci per cercare qualcosa da mangiare, ma solo ora ci dicono che si tratta di cose non commestibili. Al tempo stesso, i viveri forniti dagli americani arrivano tardi e in quantità insufficiente. Quindi la gente è costretta a cercare il cibo sulle isole inabitabili. Come se tutto questo non bastasse, gli americani decisero di utilizzare l'atollo di Kwajalein come base missilistica. Ancora una volta la nostra gente fu trasferita forzatamente. Due terzi della laguna di Kwajalein, che è la più grande del mondo, vennero occupati dalle attrezzature missilistiche, quindi la popolazione dovette spostarsi su Ebeye. Su questa isola minuscola – grande appena 267.000 mq – vivono oggi circa 8500 persone. La gente può pescare solo quando non vengono fatti degli esperimenti, così deve vivere di pane, riso e cibi conservati. Perciò soffriamo di malnutrizione e i bambini non sono sani. Oltre a questo veniamo discriminati: tanto per fare un esempio, per andare su Kwajalein abbiamo bisogno di un lasciapassare. Sono i militari a decidere se possiamo andare nelle nostre isole. Su Ebeye c’è un ospedale, se proprio lo vogliamo chiamare così. Ci lavorano in pochi e le attrezzature sono scadenti. A cinque chilometri, dentro la base, c’è un bellissimo ospedale per gli americani. Noi non possiamo andarci perché abbiamo la pelle scura. Gli Stati Uniti hanno affittato gli spazi che occupano, ma vi immaginate cosa accadrebbe se diventassero i padroni? È per questo che nel 1982 la gente di Kwajalein ha deciso di fare qualcosa. Ha raggiunto alcune isole e ci è rimasta quattro mesi. Erano un migliaio; volevano dire agli americani: "Non potete trattarci come cittadini di serie B, perché questa è la nostra terra". La base fu chiusa e gli esperimenti furono interrotti. Il governo americano, dopo tutti questi anni, non ha ancora condotto un esame epidemiologico. Certo, ha inviato alcuni medici, ma questi si sono limitati a visitare le due isole che secondo il governo di Washington erano le uniche contaminate dal fallout del 1954: Rongelap e Utirik. Ma ce ne sono anche tante altre. Per giunta, gli esami che vengono fatti non riguardano i bambini, ma soltanto le persone che si trovavano su Rongelap e su Utirik nel 1954. Analizzano il sangue, le urine, guardano se qualcuno ha il cancro alla tiroide. Se qualcuno dev'essere operato lo mandano a Guam o negli Stati Uniti. Non forniscono alcun dettaglio sulle operazioni necessarie: ti dicono solo che devi andare in ospedale. Il contatto con la civiltà americana è scioccante: ascensori, luci, un mondo sconosciuto e ostile. A riceverli ci sono soltanto gli uomini del Dipartimento dell'Energia, ma non parlano la nostra lingua e non ci sono traduttori. Non devi telefonare a nessuno e devi parlare solo con loro. I referti medici non vengono conservati. Nessuno capisce cosa gli stiano facendo: devi solo farti togliere la tiroide e tornartene a casa. Quello che chiediamo è una serie di esami realizzati da medici indipendenti. Non vogliamo avere più niente a che fare col governo americano. Gli abitanti di Rongelap non si sono limitati a dirlo: con l'aiuto di Greenpeace, che li ha imbarcati sul Rainbow Warrior, hanno lasciato la loro terra per trasferirsi su Mejato, una piccola isola nell'atollo di Kwajalein. Gli americani hanno reagito con rabbia, ma intanto la gente aveva dimostrato che rifiutava di piegarsi alla follia nucleare e che voleva costruire un futuro diverso, perché sapeva che l'isola era contaminata. Non era stata una decisione facile. Siamo poche persone che vivono su piccole isole, ma abbiamo cercato di fermare la follia nucleare, e alla fine ci siamo riusciti. La nostra battaglia continua, e solo col vostro aiuto potremo garantire un futuro ai nostri figli. 8
Da sinistra: Il 7 marzo 1946 gli abitanti di Bikini vengono costretti ad abbandonare il loro atollo prima dell'esperimento che si terrà il 1° luglio. Il 7 novembre 1946 l'ammiraglio William Blandy (a sinistra), responsabile dell'operazione, festeggia l'esperimento con una torta che riproduce il fungo atomico. Bibliografia Dibblin J., Day of Two Suns. US Nuclear Testing and the Pacific Islanders, London, Virago 1988. Garbe E., Mikronesien. Missbraucht Inseln im Pazifik, Paxifik-Informationsstelle, Neuendettelsau 1991. Dé Ishtar Z. (a cura di), Pacific Women Speak out for Independence and Denuclearization, The Raven Press, Christchurch 1998. Genz J. H., Breaking the Shell: Voyaging from Nuclear Refugees to People of the Sea in the Marshall Islands, University of Hawai'i Press, Honolulu (HI) 2018. Johnson G., Collision Course at Kwajalein: Marshall Islanders in the Shadow of the Bomb, Pacific Concerns Resource Centre, Honolulu (HI) 1984. Niedenthal J., For the Good of Mankind: A History of the People of Bikini and Their Islands, Micronitor, Majuro 2001. Weingartner E., Il Pacifico avvelenato. Le conseguenze dei test nucleari sui popoli dell'area, Macro/edizioni, Sarsina (Forlì) 1992. Women Working for a Nuclear Free and Independent Pacific (a cura di), Pacific Women Speak. Why Haven’t You Known?, Greenline, Oxford 1987.
La paladina delle vittime nucleari Nata su Ebeye (isole Marshall), Darlene Keju si è fatta conoscere in tutto il mondo per l'impegno instancabile a favore dei popoli micronesiani colpiti dalle conseguenze degli esperimenti nucleari americani. Le stesse per cui è morta di cancro al seno nel 1996, a soli 45 anni. È stata fra le prime micronesiane a laurearsi in medicina. Ha partecipato a molte iniziative locali e internazionali. Nel 1982 ha sposato il giornalista americano Giff Johnson, direttore del Marshall Islands Journal. Con altre donne indigene del Pacifico ha partecipato al tour europeo organizzato dal movimento Nuclear Free and Independent Pacific (1984-86). L'articolo di queste pagine è il testo dell'intervento che pronunciò allora. Ha fondato l'associazione Youth to Youth in Health per sostenere le persone affette da alcoolismo, malnutrizione e altre malattie, spesso derivate dagli esperimenti. Il marito le ha dedicato una bella biografia, Don't Ever Whisper. Darlene Keju: Pacific Health Pioneer, Champion for Nuclear Survivors (CreateSpace, 2013). Anthony Gordon
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Il ragazzo di Emu Field Karina Lester
Yami Lester era mio padre. Ma soprattutto era un uomo straordinario. Nato a Walyatjara-Walatina, nella zona desertica del dell'Australia Meridionale, era cresciuto parlando la lingua yankunytjatjara, strettamente legato ai valori della terra che aveva appreso dagli anziani del suo popolo. Aveva anche imparato a cacciare il canguro, il tacchino e il varano. Aveva fatto propria tutta la varietà e la profondità della cultura aborigena. Da giovane aveva imparato a fare il mandriano: lavorava nelle proprietà dei primi coloni curando il loro bestiame nell'estremo nord dell'Australia Meridionale. Amava quel lavoro perché gli permetteva di lavorare nel suo territorio, a contatto diretto con la sua gente. Ma il 15 ottobre 1953 tutto questo cambiò radicalmente. La Gran Bretagna e e l'Australia decisero di realizzare alcuni esperimenti nucleari nell'entroterra dell'Australia Meridionale. Il campo di prova di Emu Junction era situato circa 100 km a sud di Walyatjata-Walatina, dove viveva e lavorava una comunità aborigena abbastanza grande. La gente governava il bestiame o lavorava alle pulizie domestiche senza paga, in cambio di cibo. Erano gli anni dei primi contatti fra i coloni e gli Anangu. La loro vita veniva stravolta dalle regole imposte dai coloni, che avevano una visione del mondo diversa e disprezzavano la cultura aborigena. Fu in questo contesto che si realizzò il genocidio degli Anangu. Gli esperimenti nucleari di quegli anni fecero alcuni morti e lasciarono gravi conseguenze fisiche per lungo tempo. Mio padre perse la vista, ma non la forza di lottare per la giustizia. Negli anni successivi mio padre e la sua famiglia si trasferirono ad Alice Springs, nel Territorio del Nord. Un giorno, mentre lui era a casa con l'influenza, ascoltò alla radio un'intervista con un certo Sir Ernest Titterton. Parlava dei test nucleari britannici di Emu e Maralinga. Quando gli venne rivolta una domanda sulla condizione degli aborigeni locali l'uomo rispose: " Oh, non c'è nessun problema per loro, erano state prese tutte le misure per proteggerli". Mio padre sapeva che non era andata così: alcune persone erano morte e lui stesso aveva vissuto quell'esperienza spaventosa. L'intervista lo fece riflettere e lo spinse ad impegnarsi per far conoscere quella tragedia. Così cominciò la lunga strada che nel 1984 avrebbe portato alla creazione della commissione governativa sui test nucleari britannici, nata grazie all'impegno instancabile del parlamentare laburista James McClelland. Negli anni che precedettero la sua formazione furono raccolti documenti e testimonianze sulle conseguenze fisiche derivate dagli esperimenti. Era la storia di quello che era accaduto ai "neri" il 15 ottobre 1953. Anche se papà non poté provare di aver perso la vista a causa dei test nucleari, riuscì comunque a dimostrare che Walyatjata-Walatina aveva subito la più alta ricaduta di polveri radioattive. Secondo il rapporto finale della commissione governativa, presentato da McClelland il 20 novembre 1985, "quelle terre venivano usate dagli Anangu per la caccia e la raccolta, per gli insediamenti temporanei e per praticare le proprie credenze religiose". L'Operazione Totem era composta da due test nucleari atmosferici che si erano svolti a Emu Field (Australia Meridionale): Totem 1 - 15 ottobre 1953 (9,1 kilotoni) e Totem 2 - 27 ottobre 1953 (7,1 kilotoni). Ricordo che mia madre e mio padre andarono in Gran Bretagna per esporre la questione al governo britannico. All'epoca avevo solo 10 anni, la stessa età che aveva mio padre quando era stato esposto alle radiazioni. A 15 anni era diventato completamente cieco: non avrebbe mai visto sua moglie, i suoi tre figli, i suoi nipoti e i suoi pronipoti. Ma li conosceva tutti attraverso la voce, per l'amore che gli dimostravano, per la cura che avevano di lui. Lo amavano profondamente. Mio padre divenne la voce del suo popolo parlando pubblicamente degli effetti tragici del nucleare. 10
Non soltanto degli esperimenti, ma anche dell'estrazione di uranio e dei siti necessari per seppellire le scorie. Non lottava soltanto per gli aborigeni, ma per tutti gli australiani. La sua ultima battaglia è stata quella contro l'incremento dell'industria nucleare che il governo dell'Australia Meridionale aveva progettato per il 2015. Il programma prevedeva fra l'altro la creazione di nuovi siti per lo stoccaggio dei residui radioattivi. Questa volta la lotta ha coinvolto anche la generazione successiva, i suoi figli, nipoti e pronipoti, sostenuti dai sindacati e dai movimenti ecologisti, che si sono battuti per un'Australia Meridionale senza scorie nucleari. Il dibattito politico ha dimostrato che l'Australia Meridionale era nettamente contraria al nuovo programma nucleare, così questo è stato accantonato.
Prima di Hiroshima La prima bomba atomica, detta The Gadget, esplode alle 5.29 (ora locale) del 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico, a circa 55 km dalla cittadina di Socorro. La potenza è di 21 kilotoni, come quella che il 9 agosto verrà sganciata su Nagasaki. Nei dintorni vivono circa 19.000 persone, incluse alcune comunità apache, navajo e pueblo. Nessuno le ha avvertite, nessuna misura è stata presa per proteggerle. Nessuno tornerà per dire loro come devono comportarsi, cosa devono bere e mangiare. Le conseguenze non tardano a manifestarsi: l'incidenza di tumori cresce velocemente in pochi anni. Le organizzazioni indiane dell'area cercano a lungo di portare all'attenzione generale la propria tragedia, ma invano. Soltanto nel 2014 il National Cancer Institute comincia a svolgere un'indagine sulle conseguenze dell'esperimento, ma ad oggi (dicembre 2020) non ha ancora pubblicato un rapporto. Alessandro Michelucci Nel luglio del 2020 il problema delle scorie nucleari è tornato d'attualità. Stavolta non si parla di sviluppare l'industria nucleare, ma di cosa fare con le scorie esistenti. Anche questa è una battaglia che coinvolgerà le nuove generazioni. Il governo federale ha identificato dei terreni agricoli a Kimba per lo stoccaggio delle scorie. La nostra comunità anangu è impegnata ancora una volta in una lotta insieme agli agricoltori, agli ecologisti e ai comuni cittadini che cercano un futuro migliore. Questa è anche la mia battaglia. Mio padre è morto il 21 luglio 2017 e ora riposa a Walyatjata-Walatina, nel suo paese natale, dove è cominciato tutto. Dove ha visto la sofferenza e la morte della sua gente. Dove ha preso la decisione di battersi contro il terrore nucleare di ieri e contro l'incubo nucleare di oggi. Oggi, fedele al suo insegnamento, proseguo la sua lotta come ambasciatrice della Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari (ICAN), una rete internazionale nata in Australia grazie alla collaborazione delle persone sopravvissute agli esperimenti nucleari. Abbiamo il dovere preciso di liberare il mondo da queste armi, se davvero vogliamo apprezzare e valorizzare la vita che abbiamo.
L'epoca degli esperimenti nucleari australiani ha ispirato spesso il cinema e la letteratura. Da sinistra: Yami, l'autobiografia di Yami Lester (1993); il film Silent Storm (2003), scritto e diretto da Peter Butt; il romanzo autobiografico di Robert Drewe Montebello (2012); l'albo a fumetti Maralinga (2015), di Jean Breach e Douglas Holgate; lo sceneggiato Operation Buffalo, scritto e diretto da Peter Duncan (trasmesso dall'ABC, la televisione di stato australiana, 6 puntate, 31 maggio-5 luglio 2020). 11
Cinquant'anni di colonialismo nucleare Gli esperimenti atomici realizzati in territori indigeni Stato
Periodo
Località
Stati Uniti
1945-1992
Alaska, Oceano Atlantico, Colorado, Kiribati, isole Marshall, Mississippi, Nevada, New Mexico
Unione Sovietica
1949-1990
Kazakhstan, Novaya Zemlya, Turkmenistan, Uzbekistan
Australia-Gran Bretagna
1952-1957
Emu Field, Kiribati, Malden Island, Maralinga, Monte Bello
Francia
1960-1996
Fangataufa, Moruroa, Reggane (Sahara algerino)
Gran Bretagna
1962-1992
Nevada
Cina
1964-1996
Lop Nor (Xinjiang)
India
1974-1998
Pokhran (Rajasthan)
Pakistan
1998
Ras Koh (Balochistan)
La tabella si riferisce agli esperimenti nucleari di ogni tipo (atmosferici e sotterranei) realizzati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 24 ottobre 2020 è stato approvato il trattato internazionale che vieta l'uso di armi nucleari. Promosso dall'ONU, questo entrerà in vigore il 22 gennaio 2021. Si tratta di una novità importante, anche se per il momento avrà effetti pratici molto scarsi: nessuna potenza nucleare l'ha firmato e solo 4 dei 50 aderenti sono europei, cioè Austria, Irlanda, Malta e San Marino. Come si vede, paesi che non aderiscono alla NATO.
Bibliografia Arnold L., Smith M., Britain, Australia and the Bomb: The Nuclear Tests and their Aftermath, Palgrave Macmillan, London-New York 2006. Cross R. T., Beyond Belief: The British Bomb Tests: Australia's Veterans Speak Out, Wakefield Press, Adelaide (SA) 2005. Lester Y., Yami: The Autobiography of Yami Lester, Institute for Aboriginal Development, Alice Springs (NT) 1993. Mattingley C., Maralinga's Long Shadow: Yvonne's Story, Allen & Unwin, St Leonards (NSW) 2016. Tynan E., Atomic Thunder: The Maralinga Story, University of New South Wales Press, Sydney (NSW) 2016. Wongar B., Totem and Ore: A Photographic Collection, Dingo Books, Carnegie (VIC) 2006.
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L'eredità di Ken Saro-Wiwa Intervista a Roy Doron e Toyin Falola
Il 10 novembre 1995, dopo un processo-farsa, lo scrittore ogoni Ken Saro-Wiwa viene impiccato dal governo nigeriano con altri otto attivisti del Movement for the Survival of the Ogoni People (MOSOP), da lui fondato e diretto. A nulla sono servite le pressioni internazionali che erano state organizzate per salvarli. La sua morte porta all'attenzione mondiale la tragedia degli Ogoni, fortemente minacciati dalle multinazionali petrolifere, prime fra tutte la Shell, responsabili dell'ecocidio che sta devastando la Nigeria meridionale. La giornalista Portia Roelofs ha intervistato Roy Doron e Toyin Falola, autori della biografia Ken Saro-Wiwa (Ohio University Press, 2016), che hanno rievocato quei fatti e riflettuto sull'eredità politica dello scrittore. L'intervista è tratta dalla rivista Jacobin, che ringraziamo per averci permesso di riprodurla in italiano. All'inizio l'impegno politico di Ken Saro-Wiwa non era molto concentrato sulle questioni ambientali, ma soprattutto sull'autonomia delle minoranze in una Nigeria federale. In che modo questo impegno ha influenzato la sua scelta di campo nella guerra civile, quando la Regione Orientale si è staccata dal paese per dare vita alla repubblica del Biafra? Ken ha pubblicato il suo libro di memorie sulla guerra, On a Darkling Plain: An Account of the Nigerian Civil War, soltanto nel 1989, quando stava già progettando le sue iniziative contro il governo e la Shell. Nel libro si dichiara un fedele nigeriano per evitare le accuse di sedizione, tradimento e separatismo. Queste accuse avrebbero potuto danneggiarlo seriamente, quindi voleva sottolineare la sua fedeltà nei confronti della Nigeria a chiunque potesse muovergli queste accuse. Una lettura attenta del libro, comunque, mostra che la realtà è più complessa. Prima della guerra si trovava a Ibadan, ma nel 1966 è partito per la Regione Orientale (il futuro Biafra, ndt) unendosi agli sfollati interni subito dopo gli attacchi che erano stati realizzati nel nord contro gli Igbo. Al tempo stesso ha criticato gli altri che avevano fatto la stessa cosa, definendoli persone deboli di mente che "avevano soltanto bisogno di una parola di incoraggiamento e si sono subito rimessi in marcia verso casa". Eppure era uno di loro! Tuttavia, avendo capito che il Biafra era destinato alla sconfitta e non approvando la politica degli Igbo nei confronti delle minoranze locali, decise di schierarsi col governo e si diresse a Bonny, dove entrò a far parte dell'amministrazione civile. Resta da capire quanto fosse guidato dall'idealismo politico e quanto dall'opportunismo. Ma indubbiamente fu il primo che prevalse. Dopo la guerra Saro-Wiwa non emerse in campo politico. Non riuscì a conquistare il seggio che gli avrebbe permesso di rappresentare gli Ogoni nell'assemblea costituzionale nel 1977, così si concentrò sulle proprie attività commerciali e culturali. In che modo le prime si legano alle seconde? Dopo la guerra Ken divenne uomo d'affari e funzionario pubblico a Port Harcourt. Aveva una casa editrice, Saros, e una catena di supermercati. Alla prima assicurò la fornitura esclusiva di libri scolastici, alla seconda la fornitura di pasti nel sistema scolastico di Port Harcourt. Poi fu rimosso dalle cariche pubbliche, ma ormai era ricco e decise di darsi alla scrittura, attività che incrementò dopo aver mancato il seggio che gli avrebbe permesso di partecipare alla conferenza costituzionale. Quindi trasferì la famiglia in Gran Bretagna, ma continuò a trascorrere la maggior parte del suo tempo in Nigeria, dove scriveva e collaborava a vari giornali. Ma fu la sua mancata partecipazione alla conferenza costituzionale, più di ogni altra cosa, a spegnere la sua volontà di agire all'interno del sistema politico nigeriano. Preferì invece costringere il sistema a trattare con lui. Saro-Wiwa ha dato un contributi importante alla letteratura e alla televisione africana, soprattutto grazie al successo della commedia televisiva Basi and Company, trasmessa dal 1985 al 1990, 13
e alle innovazioni linguistiche del suo romanzo Sozaboy: A Novel in Rotten English (tr. it. Sozaboy, Baldini Castoldi Dalai, 2005, ndt), pubblicato nel 1985. Perché queste opere sono state così importanti? Sebbene Sozaboy sia il suo libro più acclamato dalla critica, Basi and Company è probabilmente il suo lavoro più importante, almeno in Nigeria. È stato un successo sia commerciale che culturale, anche per l'assenza quasi totale assenza di riferimenti etnici. Basi ha fatto ridere tutti i nigeriani prendendoli in giro bonariamente, indipendentemente dal fatto che vivessero in una zona remota del delta del Niger o nelle metropoli di Lagos o Kano. Nei suoi cinque anni di vita la commedia ha affrontato il tema della corruzione e il culto di molti nigeriani per il guadagno facile. Saro-Wiwa voleva raggiungere un pubblico il più ampio possibile: per questo Basi era parlato nel vero inglese, anziché nel pidgin di Sozaboy. Questo romanzo, d'altra parte, lo ha reso molto noto anche al di fuori della Nigeria e gli ha permesso di stabilire quei contatti che gli sarebbero tornati utili più tardi, quando avrebbe iniziato la sua fase di attivista. Basi and Company si rivelò anche una manna finanziaria per Saro-Wiwa, perché il programma si concludeva sempre con la réclame della sua casa editrice, stimolando la gente a comprare romanzi, libri per bambini e materiale legato allo spettacolo. Sotto il dittatore Sani Abacha la Nigeria ha reagito alle iniziative degli Ogoni con una violenza spietata. Nel 1999, quattro anni dopo la morte di Saro-Wiwa, il paese è tornato alla democrazia, e negli ultimi vent'anni la "responsabilità sociale delle imprese" è diventata una parola d'ordine per le compagnie petrolifere transnazionali. Come si è evoluta la risposta dello stato alla distruzione ambientale causata dall'industria petrolifera? Uno dei problemi principali della politica nigeriana è che il petrolio del delta del Niger è la fonte di quasi tutte le entrate del governo. Di conseguenza, ogni tentativo di imporre un maggiore controllo locale rappresenta una minaccia mortale per il governo e per la corruzione che lo regge. Qualunque governo, sia militare o civile, dipende dalle entrate dell'industria petrolifera, quindi non può permettersi di andare contro gli interessi delle aziende. Oggi molte compagnie petrolifere parlano di responsabilità aziendale e molti, sia nei media che nel mondo accademico, lodano le iniziative della Shell, dell'Eni e di altre compagnie petrolifere per bonificare i terreni devastati dal loro stesso sfruttamento. Ma in pratica le compagnie cercano soltanto di blandire l'opinione pubblica e di alleviare i sensi di colpa degli investitori, grazie ai quali le comunità locali sono state colpite dagli incendi di gas, dalle di fuoriuscite di petrolio e dall'espropriazione sistematica delle terre. Queste comunità, quando è stato possibile, si sono rivolte a tribunali stranieri. In certi casi sono riuscite a far valere i propri diritti. Negli Stati Uniti, al contrario, la Shell ha vinto in un caso che era arrivato fino alla Corte suprema. Nei Paesi Bassi gli Ogoni hanno vinto varie cause, ma si tratta di battaglie lunghe e costose che spesso i contadini poveri non possono sostenere. Saro-Wiwa ha scritto molto sulla distruzione ambientale causata dalle fuoriuscite di petrolio e dagli incendi, ma si è occupato poco dei danni globali che colpiscono l'ecosistema. La mobilitazione etnica è in grado di affrontare questi problemi a livello locale, nazionale e globale? La mobilitazione etnica è locale per natura, e gli Ogoni non fanno eccezione. Saro-Wiwa è riuscito a mobilitare oltre la metà del suo popolo, ha attirato l'attenzione del mondo. I gruppi locali, soprattutto nelle aree piò povere, subiscono il peso della distruzione ambientale a causa del debole controllo dello stato e della corruzione che lo lega alle compagnie petrolifere. Quando Saro-Wiwa ha iniziato a occuparsi di questi temi, inoltre, questioni come il riscaldamento globale non erano ancora oggetto di una grande attenzione politica e mediatica. Questi problemi sono emersi dopo la sua morte, e anche i gruppi locali hanno dato un contributo importante alle nuove lotte ambientaliste. Il movimento di protesta contro il Dakota Access Pipeline (guidato dai Lakota del South Dakota, ndt) dimostra che i gruppi locali con una forte componente etnica possono mobilitare il resto della popolazione. Tuttavia, la stessa protesta è fallita proprio perché il sistema ha sempre sostenuto gli interessi economici a scapito delle preoccupazioni locali per l'am14
biente e i diritti umani. In quanto tali, questi movimenti riescono ad attirare l'attenzione, ma la natura coercitiva dello stato favorisce gli interessi delle imprese. Come possono essere risolti i problemi ambientali della Nigeria? Come abbiamo detto, il problema fondamentale della Nigeria è la sua forte dipendenza dal petrolio. Qualsiasi tentativo di imporre alle compagnie petrolifere modi di lavorare più onerosi, limitando quindi i loro effetti negativi sull'ambiente, o di imporre maggiori controlli a livello locale, sarà sempre represso con la forza. Le sole organizzazioni che hanno costretto il governo nigeriano ad attuare qualche riforma sono quelle come che hanno fatto ricorso alla violenza, come il MEND (Movement for the Emancipation of the Delta Niger).
Lo scrittore che sfidò un gigante Sintesi cronologica 10 ottobre 1941 Kenule Beeson Saro-Wiwa nasce a Bori (Nigeria meridionale). 1958 La Shell inizia le escavazioni di petrolio in Nigeria. 1965 Si laurea in Inglese all’Università di Ibadan. 1967-1970 Durante la guerra del Biafra si schiera dalla parte del governo e presta servizio nell'esercito. 1985 Pubblica Sozaboy: A Novel in Rotten English. 1990 Fonda il MOSOP (Movement for the Survival of the Ogoni People). Novembre 1990 Presenta al governo nigeriano l'Ogoni Bill of Rights, un documento che rivendica l'autonomia politica, economica e ambientale del territorio abitato dagli Ogoni. 1992 Pubblica Genocide in Nigeria: The Ogoni Tragedy, dove accusa duramente il governo nigeriano. 19 gennaio 1993 Il MOSOP aderisce all'UNPO (Unrepresented Nations and Peoples Organization), l'unione mondiale dei popoli non riconosciuti dall’ONU. 1993 Viene arrestato varie volte. Amnesty International lo adotta come prigioniero di coscienza. 21 maggio 1994 Viene imprigionato per "propaganda sediziosa". 7 dicembre 1994 Gli viene conferito il Goldman Environmental Prize. 24 febbraio 1995 Riceve il Right Livelihood Award. 10 novembre 1995 Dopo un processo irregolare viene impiccato dal governo nigeriano insieme ad altri otto attivisti del MOSOP. 2020 In occasione del venticinquennale della morte viene lanciata una petizione internazionale perché il governo nigeriano cancelli il verdetto di colpevolezza del 1995.
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Un gulag americano Laura Waterman Wittstock
Le relazioni tra il governo statunitense e gli Indiani, già molto difficili, peggiorarono ulteriormente nel 1900, dieci anni dopo il massacro di Wounded Knee, quando venne costruito lo Hiawatha Insane Asylum, il manicomio di Hiawatha per soli indiani, che sarebbe rimasto attivo per oltre 30 anni. I corpi delle donne e degli uomini indiani che ci sono morti sono sepolti a Canton, nel South Dakota, sotto un campo da golf. La guerra contro gli Indiani è proseguita senza sosta anche dopo gli scontri bellici veri e propri. È una guerra che non ha rispettato neanche i morti: la memoria delle 121 persone sepolte là sotto viene calpestata dalle palle da golf che passano sui loro resti, mentre Don Pottranz, ex presidente della Canton Area Historical Society, dice che "la gente sa che qui sotto ci sono le loro bare, ma ormai è una vecchia storia". Nel 1899 il senatore repubblicano del South Dakota Richard Franklin Pettigrew (1848-1926), che non aveva la minima conoscenza delle culture indigene, fece approvare una legge che istituiva la creazione del primo manicomio per indiani. Per costruirlo il Congresso stanziò 45.000 dollari. La costruzione cominciò l'anno successivo, dopo che l'avvocato Oscar Gifford, ex sindaco di Canton, aveva concluso l'acquisto di 100 acri di terreno a tre kilometri da questa cittadina. Gifford divenne il sovrintendente della nuova struttura, che accolse il primo paziente nel 1902. Alcuni anni dopo, però, l'avvocato fu costretto a lasciare l'incarico perché aveva vietato a un medico di rimuovere i calcoli biliari di un paziente, che in seguito era morto. Gifford fu sostituito da Harry Hummel, uno psichiatra. Pochi mesi dopo tredici dipendenti accusarono il nuovo direttore di aver maltrattato e picchiato alcuni pazienti. Nel 1926 le infermiere che lavoravano nel manicomio furono sostituite da infermiere professionali. Tre anni dopo si cercò di rimuovere Hummel, ma grazie all'intervento di Louis Cramton, rappresentante governativo, il direttore conservò il suo posto. Successivamente fu accusato di vari illeciti e licenziato. Il dottore, famoso per il suo carattere irascibile, aveva diretto il manicomio per 25 anni. Nel 1933 i pazienti furono trasferiti al St. Elizabeth's Hospital di Washington, e un anno dopo il commissario per gli affari indiani John Collier chiuse il manicomio, nonostante alcuni membri del Congresso si fossero battuti per tenerlo aperto. Il bilancio era tragico: in 30 anni era morta una media di quattro persone al mese. Nel 1990, cento anni dopo Wounded Knee, il giornalista Harold Ironshield ha fatto delle ricerche sull'ex manicomio e sui 121 pazienti sepolti nel campo da golf. Ha chiesto alle pubblicazioni indiane di elencare i loro nomi nella speranza che le famiglie li riconoscessero e si facessero avanti. Ironshield voleva sapere se volessero spostare altrove le bare. Inoltre ha cercato di ricostruire la storia del manicomio e di capire con quali criteri clinici venissero scelti i pazienti. Stando ai racconti dei testimoni, venivano internati coloro che non rispettavano le norme governative e la disciplina scolastica. Secondo Ironshield il manicomio era più un gulag che una struttura ospedaliera per curare le malattie mentali degli Indiani. Nel manicomio venivano rinchiuse persone provenienti da tutti gli Stati Uniti. I registri mostrano che i malati vivevano in condizioni disumane. Venivano ammanettati ai letti e alle tubature, spesso addirittura costretti a sguazzare nei loro stessi escrementi, mentre la biancheria veniva cambiata di rado. Secondo il dottor Hummel la pazzia era in crescita fra gli indigeni, e forse aveva eragione, perché la fame che affliggeva le riserve all'epoca incideva profondamente sul loro equilibrio psicofisico. Strappati alle loro culture, gli Indiani erano ormai preda dell'assimilazione forzata. Molto probabilmente non sarà mai possibile conoscere tutta la verità su questa pagina tragica, ma il manicomio di Hiawatha rimane una delle espressioni più rivoltanti e disumane del colonialismo americano. 16
La retata degli anni Sessanta I crimini che il Canada ha compiuto nei confronti dei popoli indigeni (Indiani, Inuit e Meticci) non sono soltanto quelli più noti dei secoli scorsi, ma anche quelli meno conosciuti che si sono protratti durante tutto il Novecento. Uno di questi è il cosidetto Sixties Scoop, la "retata degli anni Sessanta": i bambini venivano strappati alle famiglie e sistemati in appositi istituti o dati in adozione a famiglie bianche. In realtà il termine è improprio, perché questa pratica disumana ebbe inizio alla fine degli anni Cinquanta e proseguì fino agli anni Ottant. Si stima che le vittime siano state almeno 20.000. La maggior parte rimaneva in Canada, mentre alcuni venivano portati negli Stati Uniti o nell'Europa occidentale. L'adozione veniva realizzata attraverso inserzioni pubblicate dai giornali, come si fa per le macchine e per le case. Ogni provincia (equivalente degli stati statunitensi) aveva leggi e programmi propri. Nel Saskatchewan, per esempio, era stata creata un'agenzia apposita. Come hanno raccontato molte persone, i dottori e gli assistenti sociali cercavano di convincere le donne a consegnare i bambini poco dopo il parto. A quelle che acconsentivano veniva detto che si trattava di un distacco temporaneo e che avrebbero potuto interromperlo poco tempo dopo. Ma quando le donne cercavano di riavere i bambini scoprivano che questi erano già stati adottati, o comunque veniva loro detto che questo era avvenuto anche se non era vero. Il fenomeno si intreccia strettamente con quello delle residential schools (1831-1996), i convitti dove venivano rinchiusi i ragazzi indigeni con l'obiettivo di "trasformarli in bianchi". In entrambi i casi venivano perseguiti lo sradicamento culturale e l'assimilazione. Convitti di questo tipo, sempre gestiti da religiosi, sono stati attivi anche negli Stati Uniti, ma in questo paese le istituzioni non hanno ancora indagato sui propri crimini. In Canada la pratica delle adozioni forzate si è interrotta attorno alla metà degli anni Ottanta, in seguito ad alcune risoluzioni approvate dal governo dell'Ontario e a un'inchiesta giudiziaria realizzata nel Manitoba. Edwin Kimelman, il giudice responsabile, pubblicò il rapporto intitolato No Quiet Place (1985), che condannava senza mezzi termini la pratica delle adozioni forzate. Questo aprì la strada a numerose cause per risarcimento. Nel 2017 la Corte Suprema dell'Ontario ha riconosciuto che questa provincia è responsabile dei gravi danni psicologici che sono stati inflitti ai ragazzi adottati. In seguito a una serie di azioni collettive promosse in tutto il Canada sono stati definiti dei risarcimenti, ma la questione, lunga e complessa, non ha ancora trovato una soluzione definitiva. Anthony Gordon
Da sinistra: Annuncio per l'adozione di una bambina; manifesto di una mostra sul tema. Bibliografia Hentz T. L. (a cura di), Stolen Generations: Survivors of the Indian Adoption Projects and 60s Scoop, Blue Hand Books, Greenfield (MA) 2016. Lux M. K., Separate Beds: A History of Indian Hospitals in Canada 1920s – 1980s, University of Toronto Press, Toronto (ON) 2016. Stevenson A., Intimate Integration: A History of the Sixties Scoop and the Colonization of Indigenous Kinship, University of Toronto Press, Toronto (ON) 2020.
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Kekuni Blaisdell, medico militante Anthony Gordon
"Non sono un separatista hawaiiano: come possiamo separarci se non ci siamo mai uniti?" Così disse Kekuni Blaisdell durante un'intervista realizzata nel 1995 per l'edizione italiana di Pogrom. Il medico kanaka maoli (indigeno hawaiiano) si riferiva al referendum che nel 1959 aveva trasformato l'arcipelago nel cinquantesimo stato della federazione statunitense. Un referendum formale, dato che gli elettori avevavo potuto scegliere soltanto fra due ipotesi: restare una colonia o diventare uno stato federato, mentre il ritorno all'indipendenza era stato scartato in partenza. Richard Kekuni Akana Blaisdell nasce a Honolulu l'11 marzo 1925. Laureatosi in Medicina nel 1958, svolge attività ospedaliera e didattica in varie strutture statunitensi. All'età di 41 anni diventa titolare della prima cattedra di Medicina istituita nell'Università della Hawai'i. Negli anni Ottanta è il primo a chiedersi perché la popolazione indigena dell'arcipelago hawaiiano, storicamente sana e robusta, abbia subito il netto peggioramento comprovato dagli studi medici. Di conseguenza decide di concentrare i propri studi sulla materia. Negli anni successivi questo lo stimola ad assumere un chiaro impegno politico: medicina e lotta per l'autodeterminazione diventano i due temi inestricabili che segneranno la sua vita. In altre parole, due lati della stessa medaglia. Sul fronte medico si batte per promuovere un cambiamento radicale dell'alimentazione, sostituendo certi cibi grassi e malsani dell'industria americana con quelli tradizionali hawaiiani; per il recupero delle antiche pratiche di guarigione; per l'uso della medicina indigena. Sul fronte politico Blaisdell non rimane un semplice comprimario, ma è fra i fondatori di varie iniziative popolari per l'autodeterminazione, come Na 'Oiwi O Hawai'i, che organizza la prima conferenza sulla sovranità degli indigeni hawaiiani, e il Kanaka Maoli People's Tribunal (1993), che documenta i crimini americani davanti a una commissione internazionale di giuristi. Nel frattempo prosegue la propria attività scientifica pubblicando numerosi saggi e rapporti medici. Il suo intenso impegno viene premiato più volte. Blaisdell si ritira dall'attività medica nel 2010. Ormai ottacinquenne, non può più camminare e deve usare la sedia a rotelle. Muore il 12 febbraio 2016 per alcune complicazioni respiratorie. Se oggi la salute dei popoli indigeni è oggetto di una crescente attenzione accademica, se certi temi medici e alimentari sono parte integrante delle rivendicazioni hawaiiane, se le lotte dei Kanaka Maoli sono uscite dalla marginalità, lo dobbiamo anche a questo dottore gentile e sorridente, ma anche energico e determinato. Oggi Kekuni non è più tra noi, ma la sua esperienza insolita e generosa di medico militante vivrà per sempre.
Da sinistra: un libro dedicato a Blaisdell; Blaisdell insieme a Noelani Goodyear-Kaʻōpua, docente goodyear-kaʻōpua universitaria hawaiiana; un testonoelani scientifico al quale Blaisdell ha collaborato. 18
Anche questo è genocidio Ana María Vidal Carrasco
Alberto Fujimori fu eletto presidente del Perù il 28 luglio 1990. Uno degli obiettivi principali del suo governo era la riduzione dell'incremento demografico. Nell'anno successivo, che fu dichiarato Anno della pianificazione familiare, il governo approvò un programma quinquennale (1991-1995) con l'obiettivo di ridurre il tasso di natalità al 2% e il tasso di fertilità totale al 3,3%. Il 9 settembre 1995, sulla base di un disegno di legge presentato dall'Esecutivo, il Congresso emendò la legge sulla politica demografica nazionale includendo la sterilizzazione femminile e maschile fra i metodi di pianificazione familiare. Alla quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui problemi della donna, che si tenne a Pechino negli stessi giorni, Fujimori affermò che le donne peruviane dovevano essere padrone del proprio destino. Nel frattempo il Ministro della Sanità Eduardo Yong Motta aveva avviato una campagna di contraccezione chirurgica volontaria, mentre Fujimori aveva creato un ufficio governativo per poterla dirigere personalmente. Sterilizzazioni forzate Così, proclamandosi paladino dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne, il governo cominciò ad attuare il programma di "pianificazione familiare e salute riproduttiva". Fra il 1996 e il 2001, secondo i dati del Difensore civico, vennero sterilizzate 272.028 donne, mentre gli uomini sottoposti a vasectomia furono "soltanto" 22.004, cioè l'8% delle donne. Un gran numero di operazioni era stata eseguita in zone rurali, dove si parla una lingua diversa dallo spagnolo, gran parte della popolazione non è alfabetizzata e vive in povertà. In pratica questa politica era rivolta soprattutto contro le donne indigene. La questione cominciò a complicarsi quando il Difensore civico denunciò che 19 persone erano morte per complicazioni postoperatorie. Le indagini In seguito alle denunce di molte persone sterilizzate tra il 1996 e il 2001 e ai decessi per complicazioni postoperatorie il Difensore civico produsse tre rapporti che rilevarono le gravi violazioni realizzate dal programma governativo. Alcune di queste erano: Mancanza di garanzie per la libera scelta. Mancanza di follow-up post-chirurgico. Difficoltà nel determinare la responsabilità penale. Inosservanza del dovere di risarcimento delle persone sterilizzate. Mancanza di garanzie per una decisione informata sui metodi contraccettivi. Mancanza di autorizzazione per l'opera-zione: uso di diversi documenti, sterilizzazione di persone analfabete senza che l'autorizzazione fosse stata firmata da una persona alfabetizzata. Assenza di regole che regolassero il processo decisionale informato per le persone che non parlano la lingua spagnola. Nel gennaio del 1998 il Difensore civico raccomandò al Ministero della Salute di "mettere in bilancio le risorse necessarie per risarcire le persone - o i familiari, se del caso - che erano state sterilizzate senza il loro consenso, che avevano subito complicazioni o che erano morte a causa di interventi che non avevano soddisfatto gli standard di qualità accettati nelle procedure e nelle pratiche istituzionali e professionali". Tre anni dopo, nel 2001, il Congresso approvò l'istituzione di una sottocommissione d'inchiesta che redasse il Rapporto finale sull'applicazione della contraccezione chirurgica volontaria (VSC) negli anni 1990-2000, dove si concludeva che le persone sterilizzate erano state danneggiate nella loro inte19
grità fisica e psicologica. Inoltre era stata violata la loro libertà individuale ed era stata realizzata la riduzione selettiva delle nascite in un preciso gruppo sociale. Lo stato è colpevole María Mamérita Mestanza Chávez aveva 33 anni, viveva a Cajamarca, era sposata e aveva sette figli quando è morta a causa di complicazioni postoperatorie, otto giorni dopo che le era stata praticata la sterilizzazione. Il marito ha denunciato il caso alla Procura della Repubblica. Il procuratore provinciale di Baños del Inca ha accusato quattro persone di omicidio colposo.
Eugenetica boreale La Svezia è il primo paese dove nasce un istituto governativo di biologia razziale (Statens institut för rasbiologi, SIFR), che inizia la propria attività nel 1922. Situata a Uppsala, la struttura si dedica allo studio dell'eugenetica e della genetica umana. Nel 1934 il Parlamento approva una legge sulla sterilizzazione, che verrà applicata (se necessario anche senza consenso) alle persone con disturbi mentali di vario tipo. La legge viene sostenuta da vari partiti e dalla Chiesa luterana. Le sterilizzazioni cominciano nel 1935, toccano il massimo nel 1946 e proseguono fino al 1976. Secondo le stime più attendibili, in questi 41 anni vengono sterilizzate circa 63.000 persone: un record per l'Europa, se si esclude la Germania nazionalsocialista. Il 90% delle persone sterilizzate è costituito da donne. Alcuni storici sostengono che questo deriva dal maschilismo imperante, secondo il quale la normalità viene misurata su standard maschili, mentre la devianza viene facilmente associata alle donne. Nel 1997 il giornalista Maciej Zaremba pubblica una serie di articoli su Dagens Nyheter, uno dei principali quotidiani svedesi, portando alla luce la sterilizzazione che è stata praticata dal 1935 al 1976. Grazie a questi articoli nasce un dibattito che va ben oltre i limiti nazionali, toccando anche paesi come il Giappone, la Norvegia e la Svizzera, dove sono state applicate leggi analoghe. Il governo istituisce una commissione d'indagine. Questa decide che le persone sterilizzate senza consenso vengano risarcite. La legge sulla sterilizzazione viene cambiata negli anni Settanta, restando obbligatoria per chi vuole cambiare sesso. Nel 2012 il Parlamento cerca di annullarla, ma invano. L'anno dopo ci riprova con successo. Alcune delle 500 persone sterilizzate in base a questa legge vengono risarcite negli anni successivi. Laura Shaw ed Erna Kurbegovic
Da sinistra: Herman Lundborg (1868-1943), primo direttore dello Statens institut för rasbiologi, fece anche numerosi studi sui Sami; un libro sull'eugenetica dei paesi scandinavi. inizia la propria
Alcuni mesi dopo ha chiuso il caso, ma la questione non si è conclusa così, perché lo stesso organismo l'ha portata all'attenzione della Commissione interamericana per i diritti umani (CIDH). Il 10 ottobre 2003 lo stato peruviano ha firmato un accordo di composizione amichevole con la CIDH e con la famiglia di María Mamérita. Ha riconosciuto di aver violato i diritti della donna, ga20
rantiti dalla Convenzione americana sui diritti umani e dalla Convenzione interamericana per la prevenzione, la punizione e l'eliminazione della violenza contro le donne. In questo modo si è impegnato ad "adottare misure di riparazione materiale e morale per i danni subiti e a promuovere un'indagine esaustiva, tendente a sanzionare i responsabili della giurisdizione comune". L'accordo prevedeva anche l'adozione di politiche pubbliche per evitare che si ripetessero eventi simili. Il lungo calvario delle vittime Nella relazione finale della Commissione per la verità e la riconciliazione si afferma che il 75 % delle vittime morte nel conflitto armato interno (fra il Perù e i movimenti terroristici d'ispirazione marxista, 1980-2000, ndt) aveva come lingua madre il quechua o altre lingue indigene. Inoltre, che la tragedia vissuta dai Quechua e dagli Ashaninka non è stata sentita come propria dal resto del Perù, cosa che conferma un razzismo diffuso. Nel 2004 è stata creata la Commissione multisettoriale di alto livello per il risarcimento delle vittime del conflitto armato interno, che ha lo scopo di definire la politica nazionale sulla pace, la riconciliazione e il risarcimento. Nel luglio del 2005 il Congresso ha approvato la legge n. 28592, che ha creato il Piano globale di riparazione per le vittime. Tuttavia, le vittime della sterilizzazione forzata non sono ancora state ascoltate. Soltanto nel novembre 2015 è stato istituito il Registro delle vittime della sterilizzazione forzata, un ufficio del Ministero della Giustizia e dei Diritti umani, per fornire assistenza legale gratuita, supporto psicologico e assistenza sanitaria alle vittime delle sterilizzazioni effettuate tra il 1995 e il 2001. Questo registro, comunque, non prevede il diritto di risarcimento per le vittime. Al novembre 2019, 7.277 donne avevano richiesto l'iscrizione nel Registro delle vittime della sterilizzazione forzata, di cui 5.125 già iscritte. Purtroppo, attualmente sono disponibili solo pochi avvocati pubblici per difendere le migliaia di vittime elencate nel Registro suddetto. Nel 2019 il Ministero degli Affari Femminili non ha stanziato fondi per la cura delle vittime, mentre in molti centri sanitari dove le donne si recano per il trattamento delle complicazioni postoperatorie il personale sanitario che le assiste è lo stesso che è intervenuto a suo tempo per realizzare le sterilizzazioni. Lo stato è responsabile di questa politica che, nel bel mezzo di un conflitto armato interno, ha sterilizzato con la forza migliaia di donne peruviane. Nonostante l'enorme numero di proteste per interventi chirurgici eseguiti con la forza o senza le adeguate condizioni igieniche, rapimenti nei centri sanitari per interventi chirurgici, sterilizzazioni senza le adeguate informazioni, legatura delle tube per donne in gravidanza, decessi e complicazioni postoperatorie, lo stato peruviano si è rifiutato di trattare le vittime in modo equo. Le loro richieste non sono ancora state ascoltate, così come devono essere ancora riconosciuti i loro diritti alla verità, alla giustizia e al risarcimento.
Da sinistra: Fujimori accusato di genocidio dal quotidiano peruviano Correo; una manifestazione contro di lui; il quotidiano peruviano La República riporta la ferma condanna della Chiesa cattolica. Bibliografia Ballon Gutiérrez A. (a cura di), Memorias del caso peruano de esterilización forzada, Fondo Editorial de la Biblioteca Nacional del Perú, Lima 2014, Vidal Carrasco A. M. (a cura di), Al fin de la batalla: Después del conflicto, la violencia y el terror, Cocodrilo, Lima 2015.
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Il primo museo nazionale dedicato alla cultura ainu
Upopoy è il nome del primo museo nazionale giapponese dedicato alla cultura ainu. La nuova struttura sorge a Shiraoi, cittadina situata nella parte sudoccidentale dell'isola di Hokkaido, patria storica della minoranza indigena. L’apertura ufficiale, rinviata più volte per la pandemia, è avvenuta il 20 luglio 2020. Il complesso (8600 metri quadrati) comprende il museo vero e proprio, un parco e un sacrario. Il parco ospita una sala per gli spettacoli musicali, un laboratorio di cucina, una raccolta di strumenti musicali e uno studio per le dimostrazioni artigianali. Il sacrario include alcuni spazi per le cerimonie funebri, per la conservazione delle ceneri, un cimitero e un monumento. Il museo si inserisce nella nuova linea politica dello stato nipponico, che il 15 febbraio 2019 ha riconosciuto ufficialmente gli Ainu come minoranza indigena, impegnandosi anche a promuovere la loro cultura. Il termine upopoy significa “cantare in gruppo” nella lingua autoctona. https://ainu-upopoy.jp/en/
Via Macello/Schlachthofstr. 50 39100 Bolzano/Bozen tel. 0471-974643 www.bibmondo.it
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La vostra civiltà sta uccidendo il pianeta Nemonte Nenquimo
Questo appello è rivolto ai presidenti dei nove paesi amazzonici e a tutti i leader mondiali che stanno depredando la nostra foresta. Il mio nome è Nemonte Nenquimo. Sono una donna waorani, una madre e una leader del mio popolo. La foresta amazzonica è la mia casa. Scrivo questa lettera perché la nostra terra è ancora devastata dagli incendi. Perché le multinazionali stanno avvelenando i nostri fiumi col petrolio. Perché i minatori rubano l'oro (come fanno da 500 anni) e lasciano dietro di sé una terra avvelenata. Perché i ladri di terre stanno tagliando le foreste primarie per farci pascolare il bestiame, per fare spazio alle piantagioni e perché l'uomo bianco possa mangiare. Perché i nostri anziani stanno morendo di coronavirus, mentre voi continuate a tagliare la foresta per tenere in piedi un modello economico che non ci ha mai portato nessun vantaggio. Perché, come popoli indigeni, stiamo lottando per proteggere ciò che amiamo - il nostro stile di vita, i nostri fiumi, gli animali, le foreste, la vita sulla Terra - ed è giunto il momento che ci ascoltiate. In ognuna delle nostre lingue esiste una parola per definirvi: l'estraneo, lo straniero. Nella mia lingua, il waoTededo, questa è cowori. Non era una parolaccia, ma voi l'avete resa tale. Per noi questa parola significa che l'uomo bianco sa troppo poco per il potere che ha e per i danni che provoca. Probabilmente non siete abituati a sentire una donna indigena che vi definisce ignoranti. Ma per noi indigeni è chiaro: meno sai di una cosa, meno valore ha per te, e più facile è distruggerla. E per facile intendo senza colpa, senza rimorsi, in modo sciocco. Questo è esattamente ciò che state facendo a noi, alla nostra foresta, e in sostanza all'intero pianeta. Noi abbiamo impiegato migliaia di anni per conoscere la foresta amazzonica. Per capire i suoi segreti, per imparare a sopravvivere e a prosperare con lei. Voi, invece, vi conosciamo solo da 70 anni (siamo stati "contattati" dai missionari evangelici americani negli anni Cinquanta), ma impariamo in fretta, e voi non siete complessi come la foresta pluviale. Quando dite che le compagnie petrolifere usano meravigliose tecnologie capaci di succhiare l'olio dalle nostre terre come i colibrì bevono il nettare di un fiore, sappiamo che state mentendo perché vediamo che quel petrolio avvelena i nostri fiumi. Quando dite che l'Amazzonia non brucia, non abbiamo bisogno di immagini satellitari per dimostrare che vi sbagliate; siamo soffocati dal fumo dei frutteti che i nostri antenati hanno piantato molti secoli fa. Quando dite che state cercando di risolvere i problemi climatici, mentre continuate a sostenere un'economia mondiale basata sull'estrazione e sull'inquinamento, sappiamo che state mentendo perché siamo i più vicini alla terra e i primi che la sentono piangere. Non ho avuto la possibilità di studiare e di laurearmi. Quello che so l'ho imparato dai miei antenati e dalla foresta. E ho imparato abbastanza per capire che avete perso la strada e che la vostra civiltà minaccia l'intero pianeta. Ci avete imposto la vostra civiltà, e ora guardate dove siamo: pandemia, crisi climatica, estinzione di specie e, alla base di tutto, una povertà spirituale profonda. In tutti questi anni avete saputo soltanto prendere, prendere, prendere dalle nostre terre. Non avete mai avuto il coraggio o la curiosità di conoscerci. Per capire chi siamo, cosa pensiamo, cosa proviamo, cosa sappiamo sulla vita. Neanch'io potrò insegnarvi a farlo. Ma quello che posso dire è che siamo legati a questa foresta da un amore millenario. Amore nel senso più profondo, rispetto, venerazione. La foresta ci ha insegnato a camminare con leggerezza, e poiché l'abbiamo ascoltata, conosciuta e difesa, ci ha dato tutto: acqua, aria pulita, nutrimento, rifugio, medicine, felicità. Oggi voi ci state portando via tutto questo: non solo a noi, ma a tutti gli abitanti del pianeta e alle generazioni future. È il primo mattino, poco prima dell'alba: un momento ideale per condividere i nostri sogni, i nostri pensieri più forti. Così dico a tutti voi: la Terra non si aspetta che la salviate, ma che la rispettiate. E noi, come popoli indigeni, ci aspettiamo lo stesso. 23
Il coraggio di dire no Alessandro Michelucci
La globalizzazione ha avuto effetti disuguali e contraddittori. Da una parte è riuscita a farci conoscere contesti sociali e culturali che ignoravamo, compresi i più remoti, cancellando o incrinando stereotipi datati. Dall'altra, però, non è riuscita a fare lo stesso con alcuni ambienti più vicini. Un caso esemplare riguarda la Svizzera, che rimane spesso ostaggio dei cliché consunti a base di cioccolata, formaggi e orologi. Eppure si tratta del paese che ha dato al mondo Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt, Jean–Jacques Rousseau e Arnold Böcklin, Carl Gustav Jung e Carla del Ponte. Non solo, ma è anche quello che vanta il maggior numero di premi Nobel in rapporto alla popolazione. Se i personaggi suddetti godono di fama mondiale, accanto a loro merita di essere incluso uno meno noto ma non meno importante: stiamo parlando di Bruno Manser, che ha pagato con la vita il proprio impegno in difesa dei popoli indigeni e dell'ambiente. L'ha fatto in tempi non sospetti, quando i mutamenti climatici non erano ancora un tema all'ordine del giorno e i giovani che oggi manifestano insieme a Greta Thunberg non erano ancora nati. Dalle Alpi alla foresta tropicale Nato a Basilea nel 1954, dopo la maturità Manser frequenta vari corsi di formazione in sintonia col suo forte interesse per la natura: agricoltura, arte casearia, artigianato tradizionale, economia alpina. Negli stessi anni lavora come pastore e casaro nel Cantone dei Grigioni. All'epoca Manser somiglia a certi hippies degli anni Sessanta: pacifista e nonviolento, non ha un lavoro fisso e sogna una vita libera a contatto con la natura. Sente il bisogno di conoscere mondi nuovi, lontani dal ritmo convulso della civiltà industriale. Da questo deriva il suo amore per il viaggio. È così che nel 1984, all'età di 30 anni, parte per il Borneo con una spedizione speleologica. Legata a un immaginario esotico e avventuroso, questa grande isola è bagnata a nord ed a ovest dal Mar Cinese meridionale, a nord-est dal Mare di Sulu, ad est dal Mar di Celebes e a sud dal Mare di Giava. Arrivato nel Borneo, Manser entra in contatto con i Penan, gli indigeni che abitano la parte malaysiana dell'isola. Non impiega molto tempo a capire che la loro situazione è tragica. Negli anni Sessanta la Malaysia ha aperto la foresta tropicale alle multinazionali del legname. La deforestazione ha ridotto lo spazio vitale dei Penan e i fiumi sono stati inquinati dal materiale di scarto. La riduzione della biodiversità ha costretto gli indigeni a modificare la propria dieta. Manser avverte presto una forte empatia con gli indigeni: sente che il loro destino lo riguarda e decide di vivere con loro. Per questo lo chiamano laki penan (uomo penan). Per sei anni, dal 1984 al 1990, condivide con loro la vita quotidiana, il cibo, le pericolose battaglie contro la deforestazione. Impara la loro lingua. Ma soprattutto, sviluppa una sintonia ideale e umana che supera le profonde diversità culturali. La presenza di un europeo che sostiene attivamente le iniziative dei Penan provoca la reazione di Abdul Taib Mahmud, primo ministro di Sarawak, che lo dichiara "nemico dello Stato" e scatena una spietata caccia all'uomo contro di lui. Manser viene braccato dall'esercito come un criminale. Al potere dal 1981, Taib guida un impero economico corrotto che coinvolge molti membri della sua famiglia. Grazie a lui questi hanno ottenuto posti di primo piano nell'industria del legno e nella produzione dell'olio di palma. La stampa vicina al potere cerca di screditare Manser in tutti i modi, definendolo perfino "comunista" e "agente sionista". In varie occasioni l'attivista svizzero viene ferito e si salva per miracolo. Col tempo la situazione si fa insostenibile. Inoltre Manser sa bene che non potrà mai raggiungere il proprio obiettivo senza esercitare forti pressioni politiche e senza coinvolgere l'opinione pubblica. Quindi decide di tornare in Svizzera. Qui, insieme ad alcuni amici, fonda il Bruno Manser Fonds e pubblica il libro Stimmen aus dem Regenwald. Zeugnisse eines bedrohten Volkes (Voci della foresta tropicale. Testimonianze di 24
un popolo minacciato, Zytglogge, 1992). La nuova associazione comincia subito un'intensa attività fatta di conferenze, sit-in e altre iniziative pubbliche. Nel 1993, per esempio, organizza un lungo sciopero della fame davanti al Parlamento federale di Berna affinché la Svizzera approvi una moratoria sull'importazione di legname dalla Malaysia. La richiesta verrà accolta soltanto nel 2010. Le iniziative promosse dal Bruno Manser Fonds colpiscono l'attenzione di Al Gore, senatore democratico americano, grazie al quale il Congresso approva una risoluzione che condanna la politica ambientale del governo malaysiano. Il principe Carlo, notoriamente sensibile ai problemi dei popoli indigeni, non esita a parlare di "genocidio". Grazie ai documentari realizzati dalla BBC e dal National Geographic Channel le iniziative di Manser vengono conosciute in tutto il mondo. Riviste come Time, The New Yorker e Newsweek fanno altrettanto. Manser torna periodicamente nel Borneo. Nel 2000 parte per quello che sarà il suo ultimo viaggio: il 25 maggio dello stesso anno scompare misteriosamente. Le ricerche si rivelano inutili. Vanished, scomparso: questa parola, scritta con caratteri cubitali, domina la copertina del settimanale Time datato 3 settembre 2001. Il 10 marzo 2005 la corte cantonale di Basilea dichiara la sua morte presunta. Ma il suo impegno esemplare in difesa dei popoli indigeni e della foresta tropicale prosegue grazie all'associazione che porta il suo nome.
Negli ultimi anni la lotta ecologista di Bruno Manser è stata raccontata da uno dei suoi amici più cari, il giornalista svizzero Ruedi Suter, autore del libro Rainforest Hero. The Life and Death of Bruno Manser (Bergli Books, 2016). Ancora più recente è il film Bruno Manser - Die Stimme des Regenwaldes (Bruno Manser, la voce della foresta), diretto da Niklaus Hilber. Nel lungometraggio, girato nel Borneo con attori indigeni non professionisti, il giovane attore Sven Schelker interpreta in modo efficace il ruolo di Manser. Il film, che ha richiesto dieci anni di lavorazione, ripercorre le parti salienti della lotta esemplare alla quale l'attivista svizzero aveva dedicato la propria vita. Al tempo stesso, il lungometraggio fornisce un ritratto realistico della cultura penan e del suo legame profondo con la natura. Hilber sottolinea con forza che la difesa dell'ambiente e la difesa dei popoli indigeni sono strettamente connesse. Bruno Manser - Die Stimme des Regenwaldes è arricchito dalla bella colonna sonora di Gabriel Yared. Al momento non si sa se il film verrà distribuito in Italia. 25
La deforestazione del Borneo Il Borneo, quarta isola del pianeta per grandezza, si estende per 743.107 Kmq ed è diviso fra tre stati del sudest asiatico: Malaysia (stati di Sabah e Sarawak, 73%), Brunei (1%) e Indonesia (regione del Kalimantan, 26%). La sua foresta pluviale, che occupa circa il 60% del primo, custodisce una grande varietà di specie animali e vegetali, alcune delle quali uniche, come la rafflesia e l'orango. Negli ultimi 50 anni circa il 90% della foresta primaria di Sarawak è stato abbattuto e quasi tutto il legno ricavato è stato esportato. Il governo locale ha promosso in ogni modo questo scempio. La deforestazione ha avuto un effetto devastante sul clima planetario, sugli ecosistemi locali e sulla vita dei popoli indigeni. Questi hanno cercato di opporsi alla deforestazioni organizzando dei blocchi stradali. Bruno Manser, prima da solo e poi con la propria associazione, ha fornito loro un aiuto costante. Nel 2019 il Bruno Manser Fonds (BMF) è riuscito a impedire la distruzione di 4400 ettari di foresta che avrebbero dovuto ospitare una piantagione di olio da palma. Grazie a un progetto del BMF i Penan hanno potuto realizzare il Baram Peace Park, un vivaio per la riforestazione. Questo consente loro anche una certa autonomia economica. Giovanna Marconi
Bibliografia Hoffman C., The Last Wild Men of Borneo: A True Story of Death and Treasure, William Morrow, New York (NY) 2018. Manser B., Stimmen aus dem Regenwald. Zeugnisse eines bedrohten Volkes, Zygtlogge, Gümligen 1992. Ritchie J., Bruno Manser: The Inside Story, Summer Times, Singapore, 1994. Suter R., Rainforest Hero. The Life and Death of Bruno Manser, Bergli Books, Basel 2016.
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Un'altra occasione mancata per la Nuova Caledonia Giovanna Marconi Nel 1939, quando iniziò la Seconda guerra mondiale, l'impero coloniale francese comprendeva il 5% degli abitanti del pianeta. Quelli che vivevano nelle colonie (69 milioni) superavano ampiamente quelli della Francia continentale (41 milioni). Oggi, dopo la decolonizzazione, la situazione è mutata radicalmente: i secondi sono 64 milioni, mentre i primi non superano il milione e mezzo. Il processo che ha determinato questo mutamento demografico e territoriale è stato lungo e doloroso. La fase più critica è stata quella che ha segnato la perdita dell'Algeria (1954-1962): una guerra di oltre sette anni, un trauma culturale tuttora vivo in certi settori della società francese. Il paese più ricco dell'Oceania Oggi la Francia conserva dodici colonie insulari extraeuropee, articolate in un sistema complesso che prevede diversi livelli di autogoverno. Il territorio più grande è l'arcipelago melanesiano della Nuova Caledonia, situato fra Australia e Nuova Zelanda. Scoperto da James Cook nel 1774, l'arcipelago viene annesso da Napoleone III nel 1853. Nell'immediato dopoguerra (1946) la Nuova Caledonia viene inserita dall'ONU nella lista dei territori che devono essere decolonizzati, ma ne viene tolta l'anno successivo, paradossalmente soltanto perché la nuova costituzione francese ha abolito il termine colonia per sostituirlo con territorio d'oltremare. Grande quanto la Lombardia, la Nuova Caledonia occupa un posto particolare fra le ultime colonie francesi. Si tratta infatti dell'unica per la quale è in corso un processo politico che potrebbe portare all'indipendenza. Rispetto all'Algeria, dove i francesi erano appena un milione e gli autoctoni oltre nove, la situazione demografica è molto diversa: i Kanak, indigeni melanesiani, rappresentano il 39% della popolazione, mentre i franco-caledoni (detti caldoches) raggiungono il 27%. Questo conferisce alla minoranza franco-caledone, in prevalenza contraria all'indipendenza, un peso molto superiore a quello che avevano i francesi d'Algeria. I caldoches, per esempio, occupano un ruolo prevalente nell'industria del nickel, che ha fatto della Nuova Caledonia il paese più ricco dell'Oceania e una potenza estrattiva di rilievo mondiale. I Kanak, al contrario, contribuiscono in modo decisivo al 35% che vive sotto la soglia di povertà. Le due componenti hanno anche una divisione geografica piuttosto netta: gli autoctoni a nord e i caldoches a sud. La lunga strada verso l'indipendenza Il processo che potrebbe sfociare nell'indipendenza è iniziato nel 1988, quando il governo francese guidato dal socialista Michel Rocard definì l'iter di un progressivo distacco dalla Francia. L'accordo fu poi aggiornato nel 1998. Furono fissati tre referendum. Il primo, che si è svolto il 4 novembre 2018, ha visto la sconfitta dei separatisti (43,6% contro 56,4%). Ma questi si sono comunque ritenuti soddisfatti, dato che i sondaggi avevano previsto una sconfitta ancora più pesante. Il secondo si è tenuto il 4 ottobre 2020. I voti dei separatisti sono cresciuti, ma non abbastanza da superare quelli contrari (46,74% contro 53,26%). Una terza e definitiva consultazione si terrà nel 2022. A questo punto l'indipendenza sembra un esito improbabile, ma se questa si realizzasse resterebbe comunque una grossa incognita. La decolonizzazione del secolo scorso ha dimostrato ampiamente che i legami con le varie potenze coloniali sono troppo stretti perché l'indipendenza possa realizzarsi in modo sostanziale. In altre parole, un inno e una bandiera non bastano. I riflessi sulla Francia Macron sa bene che la Nuova Caledonia, indipendentemente dall'esito dei referendum, può incarnare un precedente molto pericoloso. Se venisse meno il dogma della "repubblica una e indivisibile" altre colonie potrebbero reclamare l'avvio di un processo politico che sfociasse nell'indipendenza. 27
Non solo, ma questo potrebbe dare alla Corsica la spinta decisiva per raggiungere quell'autonomia che l'isola reclama da molto tempo. Tanto più che oggi la Collettività Territoriale Corsa (equivalente alla nostra Regione) è guidata da Gilles Simeoni, figlio di Edmond Simeoni (1934-2018), figura centrale dell'autonomismo isolano. La nuova legge contro il separatismo che sta per essere approvata dal Parlamento francese, pur essendo diretta principalmente contro l'estremismo islamico, sembra concepita anche per reprimere ogni volontà di emancipazione politica.
Jean-Marie Tjibaou, una vita per l'identità kanak Jean-Marie Tjibaou è stato una delle figure più rappresentative dell'intera Oceania, sia in termini politici che culturali. Nato nel 1936 a Tiendanite (Nuova Caledonia), compie studi religiosi e viene ordinato sacerdote a 29 anni. Quindi studia sociologia all’Università cattolica di Lione ed etnologia alla Sorbona. All'inizio degli anni Settanta, dopo essere tornato in patria, torna allo stato laicale. Nel 1974, con Jacques Iewkawé, concepisce il festival Melanesia 2000, che per la prima volta mette in piena evidenza la ricchezza della cultura kanak. Negli stessi anni Tjibaou inizia l'attività politica: eletto sindaco di Hienghiène nel 1977, due anni dopo diventa consigliere territoriale del neonato Fronte indipendentista. Nel novembre 1984 è fra i fondatori del FLNKS ( Front de Libération National Kanak et Socialiste), il nuovo movimento indipendentista di cui viene eletto presidente. Il 26 giugno 1988, a Parigi, rappresenta il popolo kanak nei colloqui che sfociano negli Accordi di Matignon. Il documento viene firmato da Tjibaou, dal Primo Ministro Michel Rocard e da Jacques Lafleur, presidente del RPCR (il principale partito francese della Nuova Caledonia). Sempre contrario alla violenza, il 4 maggio 1989 viene ucciso a Ouvéa da alcuni indipendentisti dissidenti insieme a Yeiwené Yeiwéné. Nel maggio 1998 viene inaugurato a Nouméa il centro culturale intitolato alla memoria del leader kanak, progettato da Renzo Piano, che ha fuso la tradizione melanesiana con un'architettura futuristica. Antonella Visconti
Da sinistra: Un libro di Tjibaou; il primo ministro Michel Rocard e Tjibaou il giorno degli accordi di Matignon (26 giugno 1988); la locandina del film Rebellion – Un atto di guerra, diretto da Mathieu Kassovitz, che racconta uno scontro del 1988 fra separatisti kanak e forze militari francesi (visibile su www.primevideo.com). Bibliografia Confavreux J., Mediapart, Une décolonisation au présent. Kanaky-Nouvelle-Calédonie: notre passé, notre avenir, La Découverte, Paris 2020. Tjibaou J.-M., La présence kanak , Odile Jacob, Paris 1996. Tjibaou J.-M., La présence kanak , Odile Jacob, Paris 1996.
PACIFIC JOURNALISM REVIEW La rivista di analisi politica fondata e diretta da David Robie, giornalista neozelandese, uno dei massimi esperti dell'area oceanica. Robie anima inoltre il blog Café Pacific https://ojs.aut.ac.nz/pacific-journalism-review/ http://cafepacific.blogspot.com/
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Biblioteca
Sabah Rahmani, Paroles des peuples racines: Plaidoyer pour la Terre, Actes Sud, Arles 2019, pp. 208, €15. In Francia, diversamente da quello che accade in Italia, il mondo giornalistico dedica una certa attenzione ai problemi dei popoli indigeni. Lo dimostra Sabah Rahmani, autrice del libro Paroles des peuples racines: Plaidoyer pour la Terre e consulente editoriale della nuova rivista Natives, dedicata agli stessi temi. Il volume è un'antologia di testimonianze inedite: Kogi e Maori, Pigmei e Mapuche, insieme a molti altri popoli autoctoni, espongono le proprie opinioni sulla difesa dell'ambiente. La cosa importante è che lo fanno con toni accessibili a chiunque, nella maniera più semplice e naturale, attingendo al proprio bagaglio culturale e religioso. Le loro parole confermano che i popoli autoctoni non propongono un ritorno nostalgico alle origini, ma offrono un contributo originale e responsabile ai problemi ambientali che minacciano il nostro pianeta, primo fra tutti il cambiamento climatico. Un'opera poetica ma priva di accenti utopistici, un volume prezioso per gli indigenisti come per gli ecologisti. L'introduzione è firmata da Pierre Rabhi, pioniere dell'agricoltura ecologica, fondatore del movimento Colibris. Rabhi è noto anche in Italia, dove sono stati tradotti alcuni dei suoi libri, fra i quali Manifesto per la terra e per l'uomo (ADD, 2011) e Parole di terra. Dal saccheggio della terra al ritorno della comunità (Pentagora, 2014). Alessandro Michelucci Adriano Cirulli, Etnoregionalismi, Mondadori Education, Milano 2019, pp. 117, €10. Con questo sostanzioso volume di Adriano Cirulli l'editoria italiana si arricchisce di una risorsa molto utile per coloro che vogliono avere un panorama chiaro dei tanti autonomismi, regionalismi, indipendentismi e nazionalismi periferici presenti in Europa (e non solo). Purtroppo tali argo-menti, soprattutto in Italia, sono spesso affrontati con superficialità e sulla base di inveterati pregiudizi, anche da parte di chi dovrebbe avere solidi elementi di conoscenza e di analisi. Ma non è certo il caso del libro in oggetto, che riesce in un centinaio di pagine ad affrontare la questione, seppur in maniera sintetica, con un solido impianto teorico, precisi riferimenti storici e puntuali richiami all'attualità. Il volume è diviso in due parti. La prima è dedicata alle principali teorie interpretative del fenonomeno nazionale, anche con attenzione specifica alle nazioni senza stato e ai nazionalismi periferici, 29
recuperando, tra gli altri, i classici Anderson, Deutsch, Hobsbawn e Smith, il neoregionalismo di Keating e il colonialismo interno di Hechter. La seconda parte affronta alcune problematiche-chiave, dalla presunta contrapposizione tra il nazionalismo etnico e quello civico ai rapporti tra etnoregionalismi e integrazione europea, senza tralasciare le reazioni alla crisi sociale e politica, tra populismo e radicalizzazione democratica, il fenomeno migratorio e quello della violenza politica. Un libro necessario per comprendere le diverse declinazioni del rapporto tra territorio, identità e politica. Marco Stolfo Angela V. John, Rocking the Boat: Welsh Women who Championed Equality 1840-1990, Parthian Books, Cardigan 2018, pp. 313, £20. Il ruolo che le donne hanno svolto nella storia stenta a diventare oggetto di grande attenzione. Nonostante il grande contributo che hanno dato al progresso sociale e politico, i loro nomi sono spesso citati frettolosamente quando si parla degli uomini. Nel libro Rocking the Boat Angela V. John cerca di ridurre questo squilibrio. Concentrandosi sulla storia gallese, l'autrice offre un ampio panorama di questo universo femminile trascurato. La storica, lei stessa gallese, sottolinea le difficoltà che le donne hanno dovuto superare in contesti sociali e culturali dominati da figure maschili. L'autrice non si limita a mettere in evidenza gli episodi salienti delle loro vite, ma sottolinea il contributo che hanno dato alla cultura gallese, permettendo al lettore di cogliere in tutte le sue sfaccettature la discriminazione che hanno dovuto subire. Non si limita a un approccio biografico, ma ferma un momento cruciale come si farebbe con la macchina fotografica. Il saggio che l'autrice dedica alla dottoressa Frances Hoggan, la prima donna medico del Regno Unito, utilizza la tecnica del racconto nel racconto: la narrazione fa da cornice a un discorso che la protagonista pronuncia al Primo congresso universale delle razze, uno dei primi congressi mondiali antirazzisti. L'approccio di John, pur essendo rigorosamente accademico, è sempre accessibile, con brevi e chiari richiami narrativi che stimolano l'attenzione del lettore. Libro biografico per definizione, Rocking the Boat non è comunque un freddo studio accademico, ma si rivolge alla vasta platea che non conosce queste donne. Concentrandosi su 150 anni l'autrice offre una ricca varietà di contesti sociali e dei diversi ruoli che le donne hanno assunto col passare del tempo. Un lavoro importante che merita molta attenzione. Siobhan Denton Anne Chabanon (a cura di), Les mémoires d'Edmond Simeoni, Flammarion, Paris 2019, pp. 400, €21. Edmond Simeoni, Corsica! Le secolari battaglie di un piccolo popolo per la libertà, Il Cerchio, Rimini 2019, pp. 97, €18. Edmond Simeoni, deceduto il 14 dicembre 2018 all'età di 84 anni, verrà ricordato come il fondatore del nazionalismo corso moderno. In altre parole, l'erede di Pasquale Paoli, u babbu di a Patria, che anticipò la Rivoluzione francese e guidò la breve Corsica indipendente (1755-1769). Questo libro, il primo su Simeoni che viene pubblicato dopo la sua morte, è il frutto di una lunga intervista che Anne Chabanon, giornalista di Corse-Matin, ha realizzato pochi mesi prima della sua morte. Acuta osservatrice della realtà politica isolana, dopo questo Chabanon ha pubblicato un altro libro, Nationalistes corses : Le pouvoir désarmé (Albiana, 2020), che si concentra sulla storia degli ultimi anni. Les mémoires d'Edmond Simeoni è un'opera fondamentale per conoscere questa personalità affascinante e complessa. Nessuno più di lui ha vissuto in modo intenso e responsabile i problemi politici, ecologici e sociali dell'isola, nessuno più di lui si è impegnato in prima persona per risolverli. Il libro disegna un panorama esaustivo delle lotte politiche che hanno segnato la sua vita: contro la corruzione, l'inquinamento e il centralismo, per l'autonomia, la democrazia e i diritti delle donne. 30
Radicalmente contrario alla violenza e alla clandestinità, Simeoni ha sempre combattuto a viso aperto. Non avrebbe mai potuto permettere alla Francia di considerarlo un fuorilegge: agiva a testa alta, era il dottor Edmond Simeoni, come gli piaceva sottolineare. Il volume evidenzia il suo legame profondo col fratello maggiore Max, autonomista come lui. Un legame umano e politico fortissimo: Max, figura diversa ma complementare, ha giocato un ruo-lo decisivo nel suo processo di maturazione politica. È per questo che lo definiva "mon maître". Ma la vita di Edmond non si è esaurita nella lotta autonomista. Altre cause l'hanno caratterizzata, in un impegno sociale e politico senza frontiere. La lotta ecologista, che intraprese nel 1960, quando la Francia cercò di costruire una base nucleare vicino a Calvi. Edmond dette un forte contributo alle proteste popolari che avrebbero indotto Parigi a cancellare il progetto. Un altro tema particolarmente caro a Simeoni era la diaspora corsa: 800.000 persone emigrate in molte parti del mondo, da Marsiglia a Porto Rico. Per questo fondò l'associazione Corsica Diaspora et Amis de la Corse, che ha guidato fino alla morte. Negli ultimi anni, infine, si dedicò con grande passione alla pratica nonviolenta. Una Corsica autonoma, moderna e democratica, pensava, si potrà realizzare soltanto rompendo la spirale della violenza e del clanismo (la forma particolare del clientelismo corso). Un panorama esauriente delle sue idee ci viene offerto anche da Corsica! Le secolari battaglie di un piccolo popolo per la libertà. Diversamente dal lavoro succitato, questa è una raccolta di brevi testi dello stesso Simeoni, originariamente apparsi sul suo blog negli ultimi anni. Si tratta di un'antologia che colma un vuoto, perché è la prima opera dell'autonomista che viene tradotta nel nostro paese. I temi a lui cari vengono esposti in modo sintetico ma non frettoloso, disegnando un panorama che analizza i problemi locali e i rapporti dell'isola con la Francia. L'unico appunto riguarda il titolo, che allude a una storia secolare, mentre Simeoni si concentra sull'ultimo mezzo secolo. Come dimostrano ampiamente i due libri, la vita dell'attivista isolano è stata un percorso esemplare che tutti dovrebbero conoscere. Medico, ecologista, antirazzista, difensore dei diritti delle donne, quest'uomo che si definiva "allergico alle ingiustizie" ci lascia un'eredità inestimabile. Giovanna Marconi
Romain Colonna (a cura di), "Corsican language: Between past and future challanges", International Journal for the Sociology of Language, XXXXVII, 261, January 2020. La prestigiosa rivista statunitense International Journal of the Sociology, fondata da Joshua Fishman, ha dedicato un intero numero alla lingua corsa. Curato da Romain Colonna, uno dei massimi esperti della materia, questo fascicolo monografico segna la definitiva affermazione internazionale della lingua isolana come oggetto di attenzione accademica. Il numero contiene 10 saggi (alcuni in francese, altri in inglese) firmati da studiosi autorevoli, tutti già noti per saggi e libri dedicati alla materia: da Alexandra Jaffe a Jacques Thiers, da Robert Blackwood allo stesso Colonna. I testi analizzano vari aspetti storici e sociali della lingua in questione. Il risultato è un quadro aggiornato della materia, che da vari anni è oggetto di dibattito politico a livello locale. L'attenzione della rivista dimostra che ormai questo dibattito ha superato i ristretti confini isolani. Alessandro Michelucci Giuliana Giuseppina Carboni, Il regionalismo identitario. Recenti tendenze dello Stato regionale in Spagna, Italia e Regno Unito, CEDAM, Padova 2020, pp. XI+256, €30. In diversi paesi europei, durante la seconda metà del secolo scorso, si è affermato un regionalismo che risponde a precise esigenze culturali e territoriali. Si tratta di un fenomeno variegato che ha assunto forme molto diverse, come la devolution britannica, le autonomie spagnole e le nostre regio31
ni a statuto speciale. Un esame puntuale di questi tre casi ci viene offerto da Giuliana Giuseppina Carboni nel libro Il regionalismo identitario. Recenti tendenze dello Stato regionale in Spagna, Italia e Regno Unito. I casi analizzati si sono sviluppati in contesti politici profondamente diversi. Differente è stata anche l'evoluzione, che in due casi - Catalogna e Scozia – ha fatto intravedere la possibilità della secessione, mentre in Italia questa ipotesi non è mai diventata concreta. Il volume dedica ampio spazio a due articolazioni della materia, il regionalismo sanitario e quello culturale. Nel complesso, l'opera offre un panorama esauriente e aggiornato di alcuni contesti regionali che sono riusciti a definire una fisionomia politica propri pur restando parte integrante del più ampio quadro statale. Giovanna Marconi Laurens van der Post, Il cuore del cacciatore, Adelphi, Milano 2019, pp. 287, € 24. San è il nome con cui gli Ottentotti chiamano i Boscimani, i piccoli e abilissimi cacciatori e raccoglitori che vivono nel deserto del Kalahari, uno dei luoghi più inospitali della terra. Lo scrittore ed esploratore sudafricano Laurens van der Post (1906-1996) ha dedicato alla loro alcuni dei suoi libri più famosi. Ne Il cuore del cacciatore, straordinario racconto di una spedizione nel Kalahari, l'autore alterna panoramiche giganti e indimenticabili (il deserto e la sua luce, l'immensità della notte africana) e particolari sorpresi al microscopio (la vita di piccole creature del deserto sempre all'opera, il linguaggio segreto della natura). Usando storie raccolte personalmente, van der Post descrive magnificamente l'esperienza e la magia di luoghi dove le condizioni di vita sono quasi impossibili, illustrando lo spirito dei Boscimani, le leggende, i miti venatori e propiziatori, le danze, il culto degli astri. Un profondo sentimento di affetto e riconoscenza lo unisce al popolo autoctono: “… Il pensiero di ciò che i bianchi e neri hanno fatto al boscimano per me è quasi intollerabile. Non potevo purtroppo riportarlo in vita, ma mi sembrava che se avessi contribuito a far sì che almeno il senso che la vita aveva per lui non andasse perduto sarebbe stato una sorta di parziale risarcimento”. Nel 1961, quando questo libro fu pubblicato per la prima volta, la cultura dei Boscimani era già minacciata e impoverita in seguito al contatto con quella europea e con le popolazioni nere confinanti. Oggi i Boscimani sono in grandi difficoltà, lottano per la sopravvivenza e sono oggetto di politiche brutali; spesso arrestati e torturati a morte, vivono costretti a integrarsi con la forza e sono sedentarizzati in miseri campi di reinsediamento governativi, in un'atmosfera di decadenza e sofferenza psicofisica. Non possono tornare a vivere e cacciare nella loro terra ancestrale, che nel frattempo è diventata una riserva naturale. Maurizio Torretti Herbert Ekwe-Ekwe, The Longest Genocide – since 29 May 1966: Essays, African Renaissance, Dakar-Reading 2019, pp. 283, £7.76. Negli ultimi tempi si parla sempre più spesso di genocidi dimenticati: in molte parti del mondo studiosi e attivisti, seppur con mezzi diversi, si battono perché alcune tragedie ignote o rimosse vengano portate alla luce e iscritte nella memoria collettiva. Cause nobili, naturalmente, ma in molti casi destinate al fallimento. Un caso esemplare è il genocidio del Biafra, avvenuto nel contesto della guerra civile che insanguinò la Nigeria fra il 1967 e il 1970. Una tragedia umanitaria di dimen-sioni enormi, una mobilitazione bellica planetaria inferiore soltanto alla Seconda guerra mondiale: Egitto, Gran Bretagna, Nigeria, Portogallo, Stati Uniti, URSS, etc. In Europa la tragedia biafrana è un ricordo lontano. Non solo, ma il fatto che la guerra fosse sfociata in un genocidio non è stato percepito ovunque. Non certo in Italia, dove nessuna manifestazione ha ricordato i 3.000.000 di persone (in prevalenza igbo cristiani) travolte dalle forze con32
giunte nigeriane, britanniche e sovietiche. Ma altrove la questione è ancora viva e continua a stimolare una consistente letteratura. L'esempio più recente è questo volume che raccoglie vari saggi di Herbert Ekwe Ekwe (1953-2019), un autorevole studioso nigeriano che ha dedicato il proprio impegno accademico al Biafra e ad altre questioni africane. Il libro ricompone accuratamente lo sviluppo della tragedia biafrana accusando senza mezzi termini la Nigeria e il suo principale alleato, la Gran Bretagna, all'epoca guidata dal laburista Harold Wilson. Al tempo stesso critica duramente l'inerzia degli altri paesi e quella dell'ONU, sostenendo che la guerra avrebbe potuto essere fermata. Un'opera appassionata, sincera, un libro che merita di essere letto e meditato, perché anche le vittime della tragedia biafrana hanno diritto a quella memoria che viene reclamata per molte situazioni consimili. Antonella Visconti
Tommy Orange, Non qui, non altrove, Frassinelli, Milano 2019, pp. 336, €18.90. Una serie di personaggi che si intrecciano e si incontrano in un territorio indiano metropolitano, come la zona di Oakland, che ha accolto i nativi dagli anni Cinquanta del Novecento; un altrove che potrebbe essere in una qualunque grande città e che Tommy Orange ci vuol far conoscere partendo dalla propria esperienza: “evitavo gli scrittori che parlavano delle riserve, mi facevano sentire isolato, come se quello fosse l’unico modo di scrivere da indiani”. Questi ritratti, ben disegnati, mi hanno fatto pensare a indiani conosciuti nel corso degli anni: storie vere che hanno le loro radici nella Relocation (una legge del dopoguerra che voleva favorire l'abbandono delle riserve per favorire l'inurbamento) e si dipanano nel contemporaneo, lontano dagli stereotipi del rapporto con la natura e delle espressioni di spiritualità che si associano ai nativi tradizionalisti. “Non ci trasferimmo in città per morire. I marciapiedi e le strade, il cemento assorbivano la nostra presenza. Il vetro, il metallo, la gomma e i fili, la velocità, le masse che sfrecciano veloci - la città ci ha accolto. Era parte dell'Indian Relocation Act, che faceva parte della Indian Termination Policy, che era ed è esattamente quello che sembra: farli sembrare e agire come “noi”. Diventino “noi” e così scompariranno. Ma non è stato proprio così…” Molti protagonisti del romanzo non sono mai stati in una riserva e faticano a comprendere cosa significhi la loro diversità culturale in un mondo dove si lotta prima di tutto per la sopravvivenza. E lo scopo di Orange è proprio trasportarci nel presente: "Abbiamo bisogno che la gente sappia che siamo gente di oggi", afferma lui stesso. In realtà il romanzo contiene numerosi riferimenti storici, e chi conosce questi eventi può comprendere meglio da dove deriva il vissuto di Tony, Dene, Opal, Edwin, Bill, Calvin, Jacquie, Orvil, Octavio, Daniel, Blue, Thomas e il loro percorso identitario. I lettori potranno quindi leggere quest'opera con diverse chiavi a seconda della loro conoscenza del mondo indiano, ma apprezzeranno comunque il romanzo dal punto di vista letterario e l'originalità dell'intreccio: tante storie di vita che convergono nel grande evento finale del powwow. Naila Clerici
Pedro Cayuqueo, Historia secreta mapuche, Catalonia, Santiago de Chile 2017, pp. 372, $35. Pedro Cayuqueo, Historia secreta mapuche 2, E-book kindle, Catalonia, Santiago de Chile 2020. Le principali opere sulla storia dei Mapuche sono state scritti da winka, parola mapuche che indica chi non appartiene a questo popolo. Gran parte di questi libri rispecchia la visione dei colonizzatori, dipingendolo come una masnada di ladri selvaggi o, nella migliore delle ipotesi, con un approccio paternalistico. A fornire un'alternativa ideale provvede Pedro Cayuqueo, uno dei più famosi scrittori mapuche, che vanta una lunga carriera di giornalista. Nei due volumi della Historia secreta Mapuche Cayuqueo racconta la parte meno conosciuta della 33
del suo popolo, che ha ricostruito con un imponente lavoro di documentazione e di ricerca. L'autore sfida la "leggenda nera" imposta dalla storia ufficiale e descrive un popolo fiero dei suoi guerrieri e allevatori, con i loro riti e costumi, la loro organizzazione sociale e la loro vita nomade. I Mapuche hanno agito con intelligente diplomazia quando i potenti colonialisti europei sono arrivati nelle loro terre. Hanno stipulato accordi e alleanze con le nuove repubbliche del Cile e dell'Argentina, trasformando la propria terra in un'enorme scacchiera politica sulla quale personaggi leggendari come Calfucura, Mañilwenu e Kilapán hanno agito con una lucidità sorprendente. Sapevano anche combattere e vendere le loro sconfitte quando la superiorità della macchina militare permetteva ai coloni di annettere ii loro territori. Cayuqueo correda l'opera con un'ampia bibliografia che spazia dagli autori mapuche ai numerosi viaggiatori ed esploratori ed esecutori che hanno raccontato lo scontro tra due mondi così diversi. Uno scontro tra due popoli che sono sempre stati destinati a capirsi. Cayuqueo ci permette di conoscere la storia dei Mapuche e di capire che il futuro del Sudamerica non può essere costruito senza di loro. José Luis Alonso Marchante Julian Charrière, Nadim Samman, Noi che galleggiavamo. Nell'atollo di Bikini, MAMbo, Bologna 2019, pp. 154, €10. Era doveroso che qualcuno si ricordasse di loro. Parliamo degli indigeni micronesiani che nell'immediato dopoguerra furono martoriati dalle conseguenze dei primi esperimenti nucleari americani. Dopo quegli anni la loro vita non sarebbe stata più la stessa: oggi, alla quinta generazione da allora, gli eredi sono ancora affetti da malattie e disfunzioni di vario tipo. La storia è piena di vittime dimenticate, ma poche come loro sono state cancellate così perfettamente dalla memoria collettiva, nonostante l'entità delle atrocità che avevano dovuto subire. Lo stesso fatto che il termine bikini sia associato unicamente al costume ideato da Louis Réard è un'offesa intollerabile alla loro memoria. Ancora una volta è stato un piccolo editore coraggioso a scavare in un passato drammatico ma dimenticato. Anche se si tratta di una traduzione, Noi che galleggiavamo. Nell'atollo di Bikini è il primo libro pubblicato in Italia sulla tragedia nucleare micronesiana. Questa rimane sullo sfondo, mentre buona parte del libro è occupata dal viaggio che i due scrittori compiono per raggiungere l'atollo. I due descrivono, talvolta con eccessiva accuratezza, la vita a bordo, i mille pericoli dell'immersione subacquea, i problemi fisici e psicologici che si presentano durante il viaggio. La spaventosa esperienza degli indigeni micronesiani viene comunque rievocata più volte, sempre senza retorica. Un libro avvincente, anche se in certi punti appesantito da una punteggiatura eccessiva. Anthony Gordon
la causa dei popoli
alle anteprime di Naxoslegge 2020 Il 16 maggio 2020 la nostra rivista è stata invitata alle anteprime telematiche di Naxoslegge, il prestigioso festival letterario diretto da Fulvia Toscano. Per l'occasione Alessandro Michelucci ha presentato il numero 10 della rivista. www.facebook.com/Naxoslegge/videos/2720381748284185
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Nuove iniziative culturali sul genocidio dei Selk'nam Il genocidio dei Selk'nam, indigeni della Terra del Fuoco, è uno dei (molti) genocidi che hanno poche possibilità di essere riconosciuti come tali. Nonostante questo, durante l'ultimo anno abbiamo notato un'inattesa varietà di iniziative culturali dedicate a questa tragedia dimenticata. Dalla letteratura al cinema, dal fumetto alla musica, si sta facendo strada un interesse che deve essere sottolineato. Il libro Selknam: Genocidio y resistencia (Catalonia, 2019), firmato dal nostro amico José Luis Antonio Marchante, è la prosecuzione logica del precedente Menéndez rey de la Patagonia (Catalonia, 2016). Prima opera specificamente dedicata al genocidio degli indigeni fuegini, il volume è frutto di ricerche lunghe e accurate. Un lavoro fondamentale che recensiremo nel prossimo numero. Allo stesso Julio Menéndez, architetto dello sterminio, è dedicato (si fa per dire) il disco Menéndez: Auge y caída del rey de la Patagonia. Il gruppo cileno Alameda Memoria propone una cantata dai tipici colori latinoamericani che porta la firma di Victor González Pérez (musica) e Felipe Sandoval Cuevas (testi). Anche il cinema contribuisce a questo fermento. Attenzione però: non si tratta dell'ennesimo documentario etnografico destinato agli indigenisti, ma di un film che è stato premiato al Festival di Venezia e ad altre manifestazioni. Parliamo di Blanco en blanco (2019), diretto da Theo Court, che ritrae in modo convincente l'ambiente cileno del primo Novecento dove si consumò la tragedia. Naturalmente speriamo che il film venga distribuito in Italia, ma per ora non si sa niente in proposito. El genocídio selknam en Tierra del Fuego è il titolo di un documentario finanziato dal governo regionale di Magallanes, situato nell'estremo sud del Cile. Le attente ricerche del giornalista Alejandro Avendaño López sono state trasposte sulla scena da Fredy Cárdenas e Jorge Carvajal. L'iniziativa si inserisce nella rinnovata attenzione istituzionale che la questione sta suscitando in Cile da qualche anno, sia a livello politico che didattico. Anche sul fronte delle arti visuali si segnalano due novità stimolanti. La prima è la recente mostra Shelk'nam Èyyó, Pinceladas de un pueblo, dove Yami Galaz ha esposto i propri dipinti ispirati alla cultura selk'nam. La seconda, che è uscita in dicembre, è l'albo a fumetti Nosotros los Selknam, con disegni di Rodrigo Elgueta e testi di Carlos Reyes. I due autori cileni sono già noti in Italia per Gli anni di Allende (Edicola, 2016). Speriamo vivamente che la casa editrice di Paolo Primavera, nata per promuovere i legami culturali fra Italia e Cile, decida di pubblicare anche questa nuova opera di Elgueta e Reyes. Alessandro Michelucci 35
Nuvole di carta
Frédéric Bertocchini (testo), Michel Espinosa (disegni), Nuria Sayago (colori), Edmond Simeoni, una vita per la Corsica, Centro Studi Dialogo, Vedano al Lambro (MB) 2020, pp. 112, s.i.p. Nonostante i forti legami della Corsica con l'Italia, la nostra editoria ha sempre trascurato la sua storia recente. Negli ultimi anni, però, pare che le cose stiano cambiando. Dopo la ristampa de La Corica. Storia di un genocidio (Franco Angeli, 1982), scritto da Sabino Acquaviva, il Centro Studi Dialogo ha curato la traduzione italiana del fumetto dedicato alla vita del principale autonomista corso. L'eccellente lavoro ripercorre fedelmente la vita di un uomo "allergico alle ingiustizie", come lui stesso si definiva, nemico della violenza, paladino instancabile di una Corsica autonoma e diversa. Un uomo sempre al passo coi tempi che ha animato un blog fino a poco prima della morte. Giovanna Marconi Jean-Denis Pendanx (disegni), Tahnee Juguin (testo), Mentawaï!, Futuropolis, Paris 2019, pp. 160, € 25. Il fumetto francese si sta impegnando molto per far conoscere le culture indigene, comprese quelle più remote e dimenticate. Lo conferma Mentawai!, frutto dell'interesse sincero di Tahnee Juguin, una giovane attivista francese che vive una parte dell'anno con questo popolo stanziato nell'omonimo arcipelago indonesiano. In uno dei suoi soggiorni Tahnee Jaquin è stata accompagnata dal disegnatore Jean-Denis Pendanx. La storia che viene raccontata è ispirata proprio dal loro viaggio. L'obiettivo è quello di far conoscere la cultura dei Mentawai e di difenderla attraverso un mezzo di larga diffusione come il fumetto. Bello e avvincente il disegno di Pendanx, già noto per lavori come Diavolo le solennel (Glenat, 1991) e Abdallahi (Futuropolis, 2006). Antonella Visconti AA.VV., Puro Perú, CESAL, Madrid 2019, pp. 92, https://www.vooltea.org/puro-peru/ L'albo è stato realizzato dall'ONG spagnola CESAL per mettere in evidenza la risposta delle comunità indigene peruviane ai cambiamenti climatici. Hanno collaborato 11 nomi autorevoli, fra i quali il disegnatore MacDiego, curatore del volume, e il giornalista Roberto Brasero, che firma l'introduzione. Un lavoro stimolante che sottolinea lo stretto legame fra la difesa dell'ambiente e quella dei popoli indigeni. Giovanna Marconi 36
Cineteca
Lethal Nationalism: Genocide of the Greeks 1913-1923, regia di Peter Lambrinatos, Stati Uniti, 2019, 80'. Contrariamente a quello che si legge su gran parte della stampa italiana, il libro dei due storici israeliani Benny Morris e Dror Ze'evi Il genocidio dei cristiani. 1894-1924 (Rizzoli, 2019) non è il primo a documentare che il genocidio armeno fu in realtà lo sterminio di tutte le minoranze cristiane presenti nell'impero ottomano (armena, assira e greca). Si tratta semmai del primo libro in italiano sul tema, e quindi di un lavoro prezioso che merita la massima attenzione. All'estero sono disponibili già molte opere su questa immane tragedia, come anche numerosi documentari. Il più recente, Lethal Nationalism: Genocide of the Greeks 1913-1923, è stato realizzato dall'Asia Minor and Pontos Hellenic Research Center (AMPHRC), la principale associazione di esuli greci attiva negli Stati Uniti. Ricco di materiali d'archivio, il documentario è stato realizzato con grande rigore storico. Alessandro Michelucci Amá, regia di Lorna Tucker, Stati Uniti, 2018, 73'. Nei primi anni Settanta del secolo scorso comincia a emergere una realtà spaventosa: molte indiane nordamericane in età fertile sono state sterilizzate contro la propria volontà. La cifra è imprecisata, ma si tratta sicuramente di alcune decine di migliaia. In molti casi l'intervento è stato mascherato da altre operazioni o da esami di routine. Gli interventi sono stati praticati in ossequio alla volontà delle autorità statali. Molte donne hanno scoperto la mutilazione che avevano subito soltanto alcuni anni dopo. Non è difficile immaginare l'effetto psicologico devastante di questa pratica genocida. La storia di una vittima viene raccontata nel documentario Amá (Madre in navajo). La protagonista è Jean Whitehorse, una donna navajo del New Mexico. Il documentario, diretto da Lorna Tucker e prodotto da Colin Firth, ha indotto altre donne a raccontare la propria tragedia. In questo modo ha trovato conferma una realtà in parte già nota, ma che soltanto ora viene raccontata direttamente dalle vittime. Forse coloro che ancora vedono negli Stati Uniti un faro di democrazia e di libertà dovrebbero cominciare ad aggiornare le proprie convinzioni. Giovanna Marconi 37
Musiche
Muriel Batbie Castell, Par tous les chemins, Troba Vox, 2020. La logica giacobina francese, ottusa e antiquata, continua a disprezzare la varietà linguistica che invece dovrebbe esibire come una ricchezza. Al tempo stesso, però, si moltiplicano le iniziative culturali indipendenti che cercano di promuovere il prezioso patrimonio linguistico dell'Esagono. Uno degli esempi più recenti è il CD Par tous les chemins, realizzato dalla cantautrice occitana Muriel Batbie Castell. Il disco è ispirato al libro Florilège poétique des langues de France (alsacien, basque, breton, catalan, corse, occitan (Le Bord de l'Eau, 2019), la prima antologia poetica dedicata alle lingue minoritarie della repubblica transalpina, curata dall'occitana Marie-Jeanne Verny insieme al corso Norbert Paganelli. La cantautrice ha musicato 17 testi di altrettanti poeti presenti nell'antologia. Fra questi, Pèire Bec, Roland Euler e Robert Lafont. Muriel Batbie Castell canta e suona la chitarra acustica, accompagnata dall'arpa di Anne-Claire Cazalet. Un'opera insolita e stimolante, un disco fatto col cuore. Alessandro Michelucci
Iva Bittová, Zoran Majstorović, Ethnicities, Atma Mundi, 2020. La violinista ceca Iva Bittová e Zoran Majstorović, chitarrista-polistrumentista croato, hanno alle spalle esperienze molto diverse, ma hanno in comune un bagaglio musicale fortemente radicato nella ricca tradizione mitteleuropea. Lei, figlia di un musicista zingaro, è nata a Bruntál, una cittadina morava situata nei pressi del confine con la Polonia. Lui è originario di Fiume, città con una storia multietnica fatta di croati, italiani, ungheresi, etc. Questa affinità è il motore del disco che hanno realizzato insieme, Ethnicities, un elegante omaggio alla varietà culturale del pianeta: dal'Africa ("Dogon people") alle Hawai'i ("Na pali Kauai"), dal Nordamerica ("Navajo nation") all'Australia ("Uluru"). I due musicisti firmano le dieci composizioni e suonano una ricca varietà di cordofoni: chitarra, kamal, oud, saz, ukulele e violino. Iva Bittová cura le parti cantate, mentre Zoran Majstorović si occupa del missaggio e della produzione. La varietà strumentale è il riflesso della varietà culturale che i due musicisti vogliono esprimere. Giovanna Marconi 38
AA.VV., Folk Music of China, Vol. 5: Aboriginal Folk Songs of Taiwan, Naxos World, 2020. L'etichetta discografica Naxos, fondata nel 1987 da Klaus Heymann, si concentra sulla musica classico-contemporanea. Si distingue per il catalogo ricco di nomi insoliti e per i prezzi molto contenuti dei propri CD, facilmente reperibili nei negozi che vendono dischi di musica classica. Lo scorso anno ha lanciato Naxos World, una collana specificamente dedicata alla musica folk e tradizionale, diretta da Ina Schroeder. Una delle iniziative più interessanti è la serie di 19 CD dedicati all'intero mondo sinofono. Fra i titoli già pubblicati, quello dedicato alle musiche indigene di Taiwan. Il disco propone 28 pezzi brevi tratti dal patrimonio tradizionale di nove popoli autoctoni: Amis, Atayal, Bunun, Paiwan, Rukai, Saisiyat, Seediq, Truku e Tsou. Un'occasione ideale per conoscere queste culture, ignote anche a molti di coloro che si occupano di questioni indigene. Alessandro Michelucci Alhousseini Anivolla, Girum Mezmur, Afropentatonism, Piranha Records, 2020. La musica etiopica e quella tuareg si sono affermate all'inizio di questo secolo: la prima grazie a Mulatu Astatke, influenzato dal jazz, la seconda con gruppi come Tartit, Tinariwen e Toumast (il cosiddetto "blues del deserto"). I due fenomeni, finora ben distinti, si sono intrecciati in Afropentatonism, nato dalla collaborazione di due chitarristi, Alhousseini Anivolla e Girum Mezmur. Il primo è un tuareg del Niger, il secondo un amhara dell'Etiopia. Pur essendo lontani in termini geografici e culturali, i due musicisti hanno trovato un terreno di contatto nell'uso delle scale pentatoniche, comuni a molte culture musicali: dal folk celtico al jazz, dal blues al gamelan indonesiano. Il risultato è una musica ricca di ritmi ripetitivi, quasi ipnotici, ammalianti e moderni anche se ben legati alla tradizione. Antonella Visconti
Gli autori di questo numero
La guida per esplorare la ricchezza musicale del pianeta www.songlines.co.uk
Ana Maria Vidal Carrasco peruviana, avvocatessa specializzata nella difesa dei diritti umani. Fondatrice e direttrice dell'editrice Cocodrilo, per la quale ha curato Al fin de la batalla: Después del conflicto, la violencia y el terror (2015). Naila Clerici fondatrice e presidente di Soconas Incomindios, dirige la rivista Tepee. Autrice di vari libri, ha insegnato Storia delle popolazioni indigene d'America all'Università di Genova. Siobhan Denton scrittrice e insegnante gallese, collabora regolarmente alla Wales Arts Review. Anthony Gordon giornalista di Nottingham, si occupa prevalentemente di questioni indigene e ambientaliste. Darlene Keju-Johnson vedi profilo a pagina 9. Karina Lester figlia di Yami Lester, continua la sua battaglia antinucleare partecipando a varie iniziative. Nemonte Nenquimo presidente di Conconawep, organizzazione degli Waorani della regione di Pastaza (Perù). Laura Waterman Whittstock giornalista, esperta di culture amerindiane, ha pubblicato vari libri, fra i quali We Are Still Here: A Photographic History of the American Indian Movement (Borealis Books, 2013). Degli altri autori è stata data notizia nei numeri precedenti.
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Tre continenti, tre razzismi diversi
COLIN TATZ 1938-2019
COLIN TATZ 1934-2019
La vita di Colin Tatz, il grande studioso deceTatz, uno dei massimi esperti del genocidio, duto a Sydney il 19 novembre 2019, è stata dedicata adeceduto una lottaa seria e coerente contro haincideche tre razzismi diversi. Nato a Johannesburg il 18 luglio Nato a Johannesburg(Sudafrica) nel 1934, israelita, 1938, israelita, Tatz si schiera in modo netto <<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<< contro l'apartheid che entra in vigore nel 1949. Lascia il paese natale nel 1961 e si stabilisce in Australia, dove studia la condizione degli Aborigeni. Nel 1964 fonda il Centre for Research into Aboriginal Affairs presso la Monash University (tuttora attivo come Monash Indigenous Centre). In breve si afferma come uno dei massimi esperti del genocidio. Pubblica molti libri e articoli, mettendo in luce le affinità e le differenze fra l'apartheid, l'antisemitismo e la discriminazione degli indigeni australiani. Il suo impegno accademico, apprezzato in tutto il mondo, viene premiato con numerosi riconoscimenti.
UNA NUOVA RIVISTA FRANCESE DEDICATA ALLE CULTURE INDIGENE Alcuni giornalisti francesi che dedicano molta attenzione ai problemi dei popoli indigeni e dell'ambiente si sono uniti per dare vita a Natives, una rivista che sottolinea gli stretti legami fra le due tematiche. Il trimestrale cartaceo, 120 pagine riccamente illustrate, ha esordito il 21 giugno. Natives presenta una notevole affinità con la nostra rivista: ampio spazio ai rappresentanti dei popoli indigeni, linguaggio giornalistico, grande attenzione ai problemi ambientali, culturali e politici. Jean-Pierre Chometon è il direttore responsabile. Fra i garanti, il regista Yann Arthus-Bertrand, l’oceanografa Catherine Jeandel e Pierre Rabhi, pioniere dell’agricoltura ecologica. Un importante ruolo di consulenza spetta a Sabah Rahmani, giornalista ecologista, autrice del libro Les peuples racines. Plaidoyer pour la Terre, che può essere considerato l'ispiratore della rivista. Il primo numero contiene fra l’altro articoli sugli Hopi e sui Maori; un ritratto di Patricia Gualinga, attivista kichwa dell’Ecuador; un dossier sulle foreste; un’intervista a Davi Kopenawa e Bruce Albert; notizie, recensioni e aggiornamenti vari. Il secondo contiene un dossier sulla donna. Salutiamo con entusiasmo la nascita di questa rivista e rivolgiamo agli amici francesi gli auguri più sinceri. Per altre informazioni: http://www.revue-natives.com
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