La causa dei popoli 5

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anno II/nuova serie

numero 5

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settembre-dicembre 2017


la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno II/nuova serie

numero 5

ISSN: 2532-4063 Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org

Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico

Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Università di Genova, Walker Connor Middlebury College (†), Alain de Benoist Krisis, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Ruby Hembrom Adivaani, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, David Maybury-Lewis Harvard University (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ruedi Suter MediaSpace, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Mercator Media, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Maung Zarni studioso indipendente Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations In copertina: Quadro di Stan Davis

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settembre-dicembre 2017 EDITORIALE L'America dimenticata Alessandro Michelucci

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DOSSIER Per una vera riconciliazione Arthur Manuel

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Centocinquant'anni di resistenza indiana Massimiliano Galanti

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Crimini senza colpevoli Giovanna Marconi

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Lingue da difendere Belinda Daniels

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Inuit Nunangat, la patria artica Alessandro Michelucci

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Futuro antico Alessandro Michelucci

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Il calvario dei Meticci Rudolph Rÿser

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Prima di Mengele Erika Dyck

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Il cinema al servizio della memoria Antonella Visconti

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Un genocidio senza aggettivi Jesse Staniforth

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Io non festeggio il centenario del Canada Geswanouth Slahoot (Chief Dan George)

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Suoni, immagini e parole

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LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca Autori

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L'America dimenticata Il Canada, grande quanto l'Europa, è lo stato più esteso dell'intero continente americano e occupa quasi un quarto della sua superficie. Al tempo stesso, però, beneficia da sempre di un'attenzione mediatica molto scarsa. Non riveste un ruolo politico ed economico paragonabile a quello degli Stati Uniti, né ha mai vissuto esperienze politiche e sociali di rilievo mondiale come quelle dell'America "latina". I suoi artisti – da Neil Young a Joni Mitchell, da Graham Greene a Margaret Atwood – vengono spesso scambiati per statunitensi. Nella percezione comune, insomma, il Canada rappresenta un'appendice della grande federazione contigua e finisce spesso per confondersi con questa. Ma se osserviamo la storia, le differenze fra i due paesi appaiono in modo netto e incontestabile. La nascita degli Stati Uniti ha una data certa: il 4 luglio 1776, giorno in cui i rappresentanti di 13 colonie britanniche (Connecticut, Georgia, Delaware, Maryland, Massachusetts Bay, New Hampshire, New Jersey, New York, North Carolina, Pennsylvania, Rhode Island and Providence Plantations, South Carolina e Virginia) sottoscrivono la Dichiarazione d'indipendenza. Lo stesso non può dirsi del Canada, che vede la luce un secolo e mezzo fa, il 1° luglio 1867. In realtà il termine Canada era in uso fin dal 1535, quando indicava una delle colonie francesi. Dopo il Trattato di Parigi (1763), col quale la Francia l'ha ceduta alla Gran Bretagna, la colonia è stata ribattezzata Provincia del Québec (non coincidente con l'attuale Québec). Il centocinquantenario si riferisce quindi alla nascita della federazione canadese, cioè del paese che conosciamo. Un'altra differenza fra i due stati riguarda il rapporto con la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti sono il frutto di una rivolta anticoloniale, mentre il Canada è nato come dominion britannico e ha raggiunto l'indipendenza nel 1931. Ma ha dovuto aspettare fino al 1982 per avere una Costituzione propria. La sua bandiera, nonostante sia cambiata più volte, ha conservato lo Union Jack britannico fino al 1965, quando è stata sostituita da quella bianca e rossa con la foglia di acero al centro. Accanto a queste differenze storiche evidenti ce ne sono altre meno note, ma che per noi rivestono un ruolo centrale: quelle che riguardano la politica governativa nei confronti dei popoli indigeni. Entrambi i paesi hanno cercato di sradicare le culture autoctone attraverso la pratica criminale delle residential schools, i convitti nati per realizzare l'assimilazione forzata dei ragazzi in età scolare: "uccidere l'indiano, salvare l'uomo", secondo la formula coniata dal fondatore, Richard Henry Pratt. Ma mentre il governo canadese ha istituito una commissione d'inchiesta su questi crimini, che li ha definiti un genocidio, pur temperando questo termine con l'aggettivo "culturale", nulla di simile è mai stato concepito negli Stati Uniti. Paradossalmente, però, questo paese ha firmato la Convenzione sul genocidio, seppure soltanto nel 1988, mentre il Canada non l'ha mai sottoscritta. Nel 2017 il Canada ufficiale ha festeggiato la propria nascita, mentre il Canada indigeno ha commemorato 150 anni di diritti negati. Non solo, ma esistono ancora numerosi problemi – ambientali, sociali, politici – che impediscono una vera riconciliazione. Il dossier di questo numero cerca di fornire una mappa di questa realtà dimenticata, che nonostante le apparenze ci riguarda. Alessandro Michelucci

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Per una vera riconciliazione Arthur Manuel

Per noi, popoli indigeni del Canada, il 2017 segna il centocinquantenario della colonizzazione. Si tratta di una ricorrenza importante, ed è ormai venuto il momento di decidere se vogliamo che questa colonizzazione continui o se vogliamo impegnarci seriamente per arrivare all'autodeterminazione. Dobbiamo confrontarci con la realtà: il Canada è uno stato coloniale creato dalla Gran Bretagna per impadronirsi delle nostre terre e sfruttarle. Questo tipo di sfruttamento si chiama colonizzazione e ha lo scopo di conferire ai coloni la proprietà dei territori indigeni. In pratica, i popoli indigeni sostengono l'economia canadese con queste terre e con le loro risorse. La colonizzazione è un fenomeno articolato e complesso, ma anche semplice da comprendere se si considera che l'espropriazione, la dipendenza e l'oppressione sono le sue conseguenze inevitabili. È importante che le Nazioni Unite abbiano condannato la colonizzazione in tutte le sue forme, perché derubare un popolo della propria terra significa innescare una lotta con la quale la vittima cerca di riacquistarne il possesso. In questo senso il colonialismo rappresenta una minaccia permanente per la pace. Il colonialismo canadese, inoltre, si basa sulla discriminazione razziale, come appare chiaramente dall'intero edificio giuridico e costituzionale del paese. I popoli indigeni non devono festeggiare i 150 anni di questo paese, perché così sottoscriverebbero la logica razzista che è alla base del colonialismo canadese. Al contrario, tutti i canadesi – indigeni e no – che credono nei diritti umani devono rispondere ai festeggiamenti ufficiali impegnandosi a realizzare una vera decolonizzazione che garantisca l'autodeterminazione dei popoli originari. Il sistema dello 0,2% La prima cosa che dobbiamo fare è osservare gli effetti territoriali del colonialismo. La percentuale di terra che spetta agli Indiani, per esempio, è davvero minima, dato che le riserve occupano appena lo 0,2%della federazione. Eppure si presume che una quantità così piccola (19.794 kmq, poco più del Veneto, ndt) basti a garantire la nostra sopravvivenza. Al contrario, questa superficie garantisce l'oppressione che il sistema coloniale canadese impone agli Indiani. Questo sistema viene utilizzato per assicurare una miseria e una debolezza che riducano la nostra capacità di reagire. Non solo, ma anche per corrompere i capi indiani e trasformarli in alleati neocoloniali che curano i sintomi delle malattie suddette senza incidere sulla causa principale, cioè la spoliazione delle terre indigene. La maggioranza canadese, dal canto suo, può godere di tutto ciò che deriva dal restante 99,8%, secondo quello che viene sancito dalla prima Costituzione, approvata alla nascita del Canada (British North America Act, 1867). La stessa che ci trasformò in sudditi della Corona britannica fissando la suddetta percentuale dello 0,2%. Gli Indiani che vivono nelle riserve non godono dei servizi sociali e sanitari che vengono garantiti al resto della popolazione. Il governo federale e quelli provinciali non hanno ancora stabilito a chi spettasse la competenza dei servizi che devono essere garantiti alle riserve. Il risultato è che queste somigliano a una terra di nessuno, per cui ci chiediamo se siamo canadesi o no. E se lo siamo, come sembra, come mai questi servizi non vengono garantiti agli indiani delle riserve? La metà di noi è stata costretta a stabilirsi altrove perché nelle riserve mancano il lavoro e l'istruzione. Gli Indiani diventano canadesi soltanto se sono costretti a urbanizzarsi. Le riserve sono sempre in contrasto con i loro capi coloniali, come si legge nel Royal Commission on Aboriginal Peoples Report 1996. Gli organismi dell'ONU che si occupano dei diritti umani hanno richiamato più volte il Canada al rispetto degli accordi internazionali che riguardano i popoli indigeni. Il Canada ha sempre 4


fatto orecchie da mercante perché il suo obiettivo è quello di cancellare i diritti dei popoli indigeni e assimilarli. Il Canada non vuole la riconciliazione Sono stato il capo della mia riserva per otto anni (1995–2003). Ho potuto toccare con mano che lavorare su un territorio così ristretto è una perdita di tempo. Il governo federale e quelli provinciali non hanno mai avuto la seria intenzione di aumentare il territorio riservato ai popoli indigeni, che hanno potuto far valere i propri diritti soltanto attraverso la Corte Suprema. Per giunta, questo organismo funziona in modo lento e costoso. Dalla nascita della confederazione canadese a oggi la Corte Suprema ha riconosciuto i diritti territoriali dei popoli indigeni soltanto una volta, nel 2014, quando ha attribuito 1750 kmq agli Tsilhqot'in della Columbia Britannica. Il Canada è il secondo paese del mondo per estensione e ha 35.0000.000 di abitanti, 1.000.000 dei quali è costituito da indiani. La Columbia Britannica è grande quanto California, Oregon e Washington State riuniti, che hanno una popolazione complessiva di 40.000.000. La Columbia Britannica ha soltanto 4.600.000 abitanti, 200.000 dei quali sono indigeni. Il contesto geografico e demografico del Canada consente mutamenti radicali capaci di garantire pienamente i nostri diritti territoriali. Questa riforma deve consentirci il pieno esercizio del nostro diritto all'autodeterminazione. Il nuovo territorio deve avere un'estensione che ci permetta di difendere le nostre peculiarità culturali, linguistiche, giuridiche ed economiche. Gli altri canadesi devono constatare che il sistema attuale non funziona. Questo incremento delle terre indigene, inoltre, avrà effetti positivi per tutti, perché permetterà ai popoli autoctoni di incidere sulle scelte economiche del paese. La Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni (2007) e altre convenzioni approvate dalle Nazioni Unite lasciano ampio spazio ad accordi che realizzino il nostro diritto all'autodeterminazione. La Corte Suprema deve capire che queste garanzie internazionali potranno essere tradotte in pratica soltanto in un Canada decolonizzato. Gli organismi esecutivi federali e provinciali devono agire di conseguenza, in sintonia con le garanzie previste dalla Costituzione del 1982. Tutto questo appare chiaro se si pensa alle lotte indigene degli ultimi anni, come quelle territoriali della Columbia Britannica e l'opposizione al progetto Kinder Morgan. Le politiche territoriali canadesi sono state un fallimento. Il governo guidato da Justin Trudeau sta cercando di aggirare questo problema - garantirci territori più grandi – stanziando maggiori fondi per programmi e servizi di vario tipo. Questo potrà dare alle riserve qualche kilometro quadrato in più, ma non risolverà il problema della povertà che affligge le nostre famiglie.

I popoli indigeni del Canada Indiani Meticci Inuit Identità miste* Altri** totale

977230# 587545# 65025# 21310 22670 # 1673785

2,7% 1,8% 0,18% 0,06% 0,06% 4,8%

* persone nate da membri di due popoli indigeni diversi ** persone affiliate a comunità indigene Fonte: Censimento 2016 (Canada 35.151.728)

Riconciliazione e diritti territoriali, due questioni inseparabili La prima cosa da fare è rifiutare i fondamenti del colonialismo e riconoscere che ogni nazione indiana possiede pieni diritti sul proprio territorio. Inoltre, riconoscere che questi diritti esclusivi interessano almeno 3-5 milioni di acri (12.000-20.00000 kmq), base minima perché possiamo salvaguardare la nostra lingua, la nostra cultura e la nostra economia. Gli Stati Uniti hanno dato alle tribù indiane riserve molto più grandi di quelle canadesi. Le prime garantiscono una maggiore indipendenza economica, ma restano legate al contesto economico statunitense. Tutti i canadesi devono capire che oggi, dopo 150 anni di colonialismo, è venuto il mo5


mento di cambiare rotta. Deve affermarsi un nuovo sistema che garantisca i diritti dei popoli indigeni e li riconosca come nazioni. Nell'attuale sistema coloniale gli Indiani non sono cittadini canadesi a pieno titolo, perché siamo costretti a vivere in condizioni di povertà e privati delle nostre terre originarie. Se accettiamo un rapporto di tipo coloniale col Canada non facciamo altro che perpetuare le condizioni di miseria in cui viviamo. Fino a quando l'estensione delle terre indiane resterà invariata non sarà possibile parlare di riconciliazione. Nulla può giustificare questo sistema che ci deruba e ci degrada. Soltanto quando vedremo la seria volontà di cambiarlo potremo costruire un nuovo rapporto con la maggioranza canadese.

Arthur Manuel all'ONU di Ginevra (2004)

L'ultimo libro di Manuel

Bibliografia Angus C., Children of the Broken Treaty: Canada's Lost Promise and One Girl's Dream, University of Regina Press, Regina (SK) 2015. Ladner K. L., Tait M. J. (a cura di), Surviving Canada: Indigenous Peoples Celebrate 150 Years of Betrayal, ARP Books, Winnipeg (MB) 2017. Manuel A., Derrickson R., Unsettling Canada: A National Wake-Up Call, Between the Lines, Toronto (ON) 2015. Manuel A., Derrickson R., The Reconciliation Manifesto: Recovering the Land, Rebuilding the Economy, Lorimer, Toronto (ON) 2017. Romano C. C., Violenza sugli indiani del Canada moderno. Giustizia riparativa, Temperino rosso, Brescia 2015.

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Centocinquant'anni di resistenza indiana Sintesi cronologica

1o luglio 1867 Nasce la confederazione canadese. Si tratta di un dominion britannico composto da New Brunswick, Nova Scotia, Ontario e Quebec. 1871-1921 Il Canada obbliga gli Indiani ad accettare una serie di trattati coi quali cedono le proprie terre in cambio di piccole riserve, garantendo alla federazione l'accesso alle immense risorse naturali del paese. 1876 Il governo approva l'Indian Act, che regola la vita degli Indiani in tutti i suoi aspetti. Inoltre fissa i criteri per definire chi debba considerarsi indigeno e chi no. 1884 Un emendamento dell'Indian Act sancisce l'educazione obbligatoria per i bambini indiani. Questo segna la definitiva diffusione dei convitti (residential schools) concepiti per assimilarli. 1919 Il mohawk Frederick Ogilvie Loft fonda la League of Indians of Canada, la prima organizzazione indiana di respiro federale. 1922 Peter Henderson Bryce, funzionario del Dipartimento sanitario dell'Ontario, pubblica a proprie spese The Story of a National Crime: Being a Record of the Health Conditions of the Indians of Canada from 1904 to 1921. Il libro accusa le condizioni medico-sanitarie disumane che vengono imposte ai ragazzi indigeni (non solo indiani) rinchiusi nei convitti. Molti anni prima Bryce ha già sottoposto un rapporto analogo al governo, che però ha rifiutato di pubblicarlo. In seguito alla sua denuncia il funzionario è stato ostacolato in vari modi e infine costretto a dimettersi nel 1921. Dicembre 1946 Esordisce The Native Voice, il primo periodico indigeno del Canada. La fondatrice è Maisie Hurley, un'attivista gallese che vive a Vancouver. Suo marito, Thomas Hurley, è un avvocato che difende i diritti degli Indiani. Mensile di 4-8 pagine, organo ufficiale della Native Brotherhood of British Columbia, The Native Voice darà un contributo fondamentale alle lotte indiane. Maisie morirà nel 1964, ma il giornale continuerà fino al 1969. La donna (nata Campbell-Johnston, 1887-1964) viene ricordata come una delle persone che si sono impegnate nel modo più concreto nella difesa degli Indiani canadesi. 1960 Gli Indiani ottengono il diritto di votare alle elezioni federali. 1966 Il governo crea il Department of Indian Affairs and Northern Development (DIAND), competente per tutte le questioni che riguardano le tre comunità indigene del paese (Indiani, Inuit e Meticci). 1969 Il governo liberale guidato da Pierre Trudeau rende noto un documento noto come White Paper, col quale intende estinguere i diritti dei popoli autoctoni per "creare una società più giusta". La dura opposizione delle organizzazioni indigene lo costringe a ritirarlo nel 1971. 11 novembre 1975 Il governo del Quebec, i rappresentanti dei Cree e degli Inuit firmano l'Accordo della Baia di James (James Bay and Northern Quebec Agreement), concepito per regolare i diritti territoriali delle due comunità indigene che vivono nel Quebec. Negli anni successivi l'accordo verrà perfezionato. Estate 1990 L'amministrazione locale di Oka (Quebec) annuncia l’intenzione di costruire alcuni condomini di lusso con campi da golf su un territorio rivendicato dai mohawk di Kanehsatake. La comunità indiana organizza una resistenza che si protrae dall'11 luglio al 25 settembre. Lo scontro che oppone gli indigeni all'esercito è particolarmente duro: le strade vengono bloccate, molte famiglie vengono divise, i militari arrestano numerosi manifestanti. Un anziano mohawk e un poliziotto perdono la vita. Il braccio di ferro termina con la vittoria degli indiani: il progetto di costruire le case e i campi viene cancellato. 14 febbraio 1992 Si tiene a Vancouver (British Columbia) la prima marcia in memoria delle donne indigene uccise e scomparse. 13 dicembre 2007 L'Assemblea Generale dell'ONU approva la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni con 143 voti favorevoli, 4 contrari (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti) e 11 astensioni. Giugno 2008 - dicembre 2015 La Truth and Reconciliation Commission of Canada (TRC) compie l'inchiesta governativa sui convitti per indigeni. 11 giugno 2008 Il governo canadese presenta una dichiarazione di scuse formali agli ex studenti dei convitti. 12 novembre 2010 Il governo accetta formalmente la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni, ma al tempo stesso chiarisce che questa non ha effetti pratici sulla legislazione canadese. 12 novembre 2012 Quattro donne del Saskatchewan (Nina Wilson, Sylvia McAdam, Jessica Gordon e Sheelah McLean) fondano Idle No More, un movimento di protesta che avrà un ruolo importante nelle lotte indiane. 1º settembre 2016 Si apre l’inchiesta governativa sulle donne indigene uccise e scomparse. 8 aprile 2018 In seguito alla grande manifestazione di protesta di varie organizzazioni indigene la ditta Kinder Morgan interrompe la costruzione di un oleodotto dal forte impatto ambientale. Massimiliano Galanti 7


Crimini senza colpevoli Giovanna Marconi

A Vancouver, fra il 1978 e il 2001, scompaiono 65 donne. Le indagini convergono su Robert Pickton, proprietario di una fattoria locale. Processato e riconosciuto colpevole di 26 omicidi, l'uomo viene condannato all'ergastolo. Ma questo non basta a salvare il Canada dalla tragedia che dilaga negli anni successivi, colpendo soprattutto le comunità autoctone. Secondo un'indagine compiuta dalla Royal Canadian Mounted Police (le celebri Giubbe Rosse canadesi), fra il 1980 e il 2012 vengono uccise 1017 donne indigene, mentre altre 108 scompaiono misteriosamente. Un rapporto più recente, pubblicato nel 2015, sottolinea che le donne indigene, pur essendo soltanto il 4,3% della popolazione femminile, raggiungono il 16% delle donne uccise e l'11% di quelle scomparse. Come si può immaginare, una parte di quelle che inizialmente vengono dichiarate scomparse vengono ritrovate morte in un secondo momento. I colpevoli restano spesso ignoti. Per molti anni l'interesse per la questione rimane limitato ai diretti interessati, senza che gli ambienti politici ufficiali le dedichino la minima attenzione. La prima marcia in memoria delle donne scomparse e uccise si svolge a Vancouver il 14 febbraio 1992. La scelta del giorno (San Valentino) è simbolica. Successivamente diventa una ricorrenza regolare. Nel 2002 la Native Women's Association of Canada (NWAC), Amnesty International e altre associazioni formato la National Coalition for our Stolen Sisters per dare visibilità pubblica alla questione. Negli anni successivi nascono varie associazioni indigene con lo stesso obiettivo, fra le quali Sisters in Spirit. Nel frattempo la questione ha già cominciato a stimolare una notevole attenzione mediatica e accademica. Il governo di Ottawa, sollecitato più volte a fare luce su questa tragedia, comincia a incontrare i parenti delle vittime soltanto alla fine del 2015. Nel giugno dello stesso anno sono terminati i lavori della Truth and Reconciliation Commission (TRC) istituita dal governo federale per indagare sui crimini commessi dalle residential schools, i convitti per indigeni attivi dal 1884 al 1996. Una delle 94 misure suggerite nel rapporto finale parla di "indagini sulla morte e sulla sparizione di donne e ragazze indigene", legando così le due questioni. Justin Trudeau, il nuovo premier liberale eletto il 4 novembre 2015, manifesta l'intenzione di tradurre in pratica tutte queste raccomandazioni. Nel maggio del 2016 viene pubblicato il rapporto che riassume le informazioni e le sollecitazioni raccolte durante gli incontri dei mesi precedenti. Successivamente il governo nomina i cinque funzionari che dovranno dirigere l'inchiesta sulle donne scomparse e uccise. L'indagine governativa, superati gli ostacoli di natura formale, inizia ufficialmente il 3 agosto 2016. Ma viene presto intralciata da notevoli difficoltà di ordine burocratico, tanto che fra il 2016 e il 2018 alcuni membri della commissione decidono di dimettersi. Nel frattempo, alla fine del 2017 è stato pubblicato un rapporto intermedio intitolato Our Women and Girls Are Sacred. Il documento sollecita fra l'altro maggiori fondi, sia a livello federale che provinciale; propone la costituzione di un fondo per le commemorazioni; chiede che venga snellita la procedura operativa, dato che il rapporto finale dovrebbe essere pubblicato entro la fine del 2018. I lavori della commissione, comunque, procedono stancamente. All'inizio del 2018 alcuni parenti delle vittime chiedono al governo federale di rifondare la commissione e rivedere radicalmente le l'intero processo operativo. Trudeau rifiuta la richiesta sottolineando che il governo ha già stanziato una somma enorme (53,8 milioni di dollari) e che non è in grado di sopportare oneri maggiori. I lavori della commissione, costosi ma inconcludenti, rimangono quindi ipotecati da pesanti incertezze che potrebbero determinarne il fallimento. In questo modo resterebbe aperta una delle piaghe più dolorose che abbiano colpito la società canadese nell'ultimo mezzo secolo. 8


Dedicato alle sorelle scomparse La sagoma di un uomo attraversa velocemente la scena. Non si vedono coltelli luccicanti né altre armi. Soltanto una violenza cupa e confusa che lo spettatore assimila prima ancora di vedere un incubo che si materializza dalle profondità del sonno. "Dite alla mamma che sono scappata! Sono scappata! Sono scappata più veloce che potevo! Dite alla mamma che sono scappata!" grida una ragazza. Queste sono le parole di una sedicenne, un'altra vittima dell'Autostrada 16 che attraversa la Columbia Britannica, meglio nota come Highway of Tears (autostrada delle lacrime). La grande quantità di donne indigene uccise e scomparse testimonia il razzismo e la violenza di genere che scorrono nelle vene del Canada. Dal 1980 sono scomparse o sono state uccise 1200 donne indigene, circa metà delle quali lungo questa autostrada. Dopo una lunga inerzia Ottawa ha deciso di occuparsi di questa tragedia, e alla fine del 2016 ha aperto un'inchiesta ufficiale. Meno prevedibile, invece, era che qualcuno pensasse di rileggerla con l'arte. Ma è proprio quello che hanno fatto due compagnie, la City Opera Vancouver e la Pacific Opera Victoria, con Missing, un'opera musicale che ha debuttato allo York Theatre di Vancouver il 3 novembre 2017. Il lavoro in due atti racconta la storia di una ragazza indiana che perde l'autobus della scuola e fa l'autostop sull'Autostrada 16, dove viene imbarcata da un assassino. I parenti disperati attendono sue notizie. Mettendo in luce la loro sofferenza Missing onora quella delle tante famiglie che hanno vissuto la stessa esperienza. Auspicando che alla fine di questo tunnel buio ci sia un po' di luce, come dice Brian Current, autore delle musiche. La scrittrice meticcia Marie Clements, autrice del libretto, è stata mossa da una sincera partecipazione emotiva. Il suo lavoro ha un significato catartico, un viaggio che ha come approdo la riconciliazione fra gli indigeni e la cultura coloniale. In passato la City Opera Vancouver aveva trattato altri temi di rilievo sociale, come la perdita di un figlio (Sumidagawa, 2010) e il trauma della guerra (Fallujah, 2011). Ma Missing rappresenta una novità assoluta per questa compagnia coraggiosa, che si misura con un libretto cantato parzialmente in gitxsan, la lingua indigena parlata nella regione traversata dall'Autostrada 16. Questa scelta conferisce all'opera un sapore particolarmente realistico. "Soltanto così poteva essere raccontata questa storia tragica e necessaria", dice Charles Barber, direttore artistico della City Opera Vancouver. Per realizzare questo obiettivo la compagnia aveva coinvolto nella lavorazione le famiglie e gli amici delle vittime. Inoltre aveva chiamato un maestro di dizione, Vince Gogag, perché curasse la pronuncia delle parti in gitxsan: anche se quattro dei sette cantanti sono indigeni, nessuno è in grado di parlare questa lingua. I consigli e le opinioni delle persone direttamente coinvolte nella tragedia sono stati fondamentali, dice Current. Questo ha inciso anche sulla musica: la partitura minimalista di Missing "è completamente diversa dalle mie composizioni precdenti" ha aggiunto il musicista. Esplorando il tema universale della perdita, Missing cerca di costruire un ponte fra due culture segnate dalla solitudine che devono unirsi per abbracciare la logica della riconciliazione e del perdono. Per dar vita a un nuovo Canada dove ciascuno di noi veda nell'altro un fratello da onorare e difendere. Roberta Staley

Da sinistra: Clarence Logan (baritono), Rose-Ellen Nichols (mezzosoprano) e la protagonista Melody Courage (soprano) Bibliografia Lavell Harvard M., Brant J., Forever Loved. Exposing the Hidden Crisis of Missing and Murdered Indigenous Women and Girls in Canada, Demeter Press, Bardford (ON) 2016. Walter E., Sœurs volées. Enquête sur un féminicide au Canada, Lux, Montréal (PQ) 2014.

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Lingue da difendere Belinda Daniels

Quando sento parlare il cree sento le voci dei miei genitori e dei miei avi come se fossero vivi. Quando sorge il sole sento la lingua della mia gente. Come nei momenti di dubbio, di solitudine e di preghiera. La sento anche nei miei sogni e quando cerco delle risposte alle domande della vita. La voce delle mia gente raggiunge la massima forza quando ascolto il suono della Madre Terra. Mentre respiro la lingua mi aiuta a capire chi sono e dove sto andando. Mi dà forza, mi completa e mi conforta. La lingua ci collega al passato mentre ci ancora al presente. Le persone come me, che si battono per difendere una lingua, si battono al tempo stesso per difendere un'identità culturale. Il futuro dei nostri figli dipende dal loro legame con la lingua e con la terra. È fondamentale che sappiano chi sono e da dove vengono. Proseguire su questa strada significa mettere in pericolo l'identità culturale dei Cree. Soltanto una resistenza forte e decisa pùo salvarci. L'ho capito quando avevo 20 anni, così ho cominciato ad ascoltare le voci dei miei antenati per trovare la forza di opporre questa resistenza. Non è qualcosa che si impara sui libri: sono stati il mio cuore e il mio spirito a guidarmi. Così ho trovato la forza di rinascere come cree. Ho capito che la nostra identità è la nostra forza. Questa identità è strettamente legata alla terra: quando le nostre terre sono in pericolo lo siamo anche noi. Queste vengono sfruttate, trivellate, vendute e comprate senza il minimo rispetto per le generazioni future. Che ne sarà di noi se la nostra identità viene messa in vendita? Le nostre lingue costituiscono un diritto innato, perché ci sono state donate dal nostro Creatore. Fanno parte di quei diritti conservati dai nostri antentati che sono stati riconosciuti dai trattati internazionali. Oggi è il governo canadese che ha il dovere di rispettarli. La sezione 35 della Costituzione (riguardante i diritti dei popoli indigeni, ndt) è oggetto di una revisione che coinvolge l'Assembly of First Nations (AFN) e il Department of Indigenous and Northern Affairs (DIAND). Ma finora questo processo non è stato portato avanti in modo corretto, come spiegherò più avanti. Negli ultimi anni il governo Trudeau sta elaborando nuove leggi sui diritti linguistici. Nel luglio del 2016, a Niagara Falls, i rappresentanti dell'AFN e quelli del governo si sono incontrati per discutere queste proposte. Molte persone, come me, non sapevano di questo incontro e non hanno potuto essere presenti per far sentire la propria voce. La politica di Trudeau rappresenta un grave pericolo per noi. Prendendo esempio dallo White Paper concepito da suo padre nel 1969, Trudeau parla di "riconciliazione", ma in realtà vuole estinguere i diritti dei popoli indigeni. In un primo momento pensavo che l'Indigenous Languages Act e le norme sulle scuole indigene proposte dal governo fossero delle novità positive. Pensavo che una nuova legge sulle lingue indigene avrebbe previsto lo stanziamento di fondi per rivitalizzarle. Ma dopo un'indagine più attenta ho capito che mi ero sbagliata. La nuova legge proposta dal governo è un'abile truffa. Soltanto chi ignora le astuzie verbali e procedurali del governo può pensarla diversamente. Una nazione, per esempio i Cree, ha bisogno di cinque cose per esistere: una terra, una cultura, una struttura politica, un popolo e una lingua. Se le nostre lingue diventeranno oggetto di una legge canadese perderemo la nostra identità di popolo e verremo esclusi da un trattato internazionale che afferma l'autorità canadese sui popoli indigeni. Non saremo più considerati una nazione e perderemo il diritto di avere un'istruzione in sintonia con la nostra cultura. La bozza elaborata dall'AFN e del governo suggerisce che il DIAND adotti nuovi criteri di finanziamento. Inoltre trasferisce alle province la competenza in materia di istruzione. Questo creerebbe numerosi problemi organizzativi e darebbe alle strutture scolastiche un potere illimitato. Noi popoli indigeni avremmo ben poca voce in capitolo se non rispettassimo gli obblighi fissati in questo accordo. Patricia A. Shaw ci ricorda i principi fondamentali dell'AFN: "Non sei nessuno... non puoi recla10


clamare un diritto se non hai la tua lingua, se non hai una chiara identità culturale e spirituale" ("Land and Identity Language and the Land", BC Studies 131, 2001, p. 41). È assurdo che l'AFN firmi accordi come quello suddetto: perché ha dimenticato i propri principi? L'AFN è un gruppo di pressione, non una nazione. Ho il massimo rispetto per il lavoro che ha svolto in passato, ma come molti altri non condivido affatto quello che sta facendo oggi. Come se tutto questo non bastasse, è un organismo che lavora per il governo con i finanziamenti che riceve da Ottawa. Non so cosa ci riservi il futuro, né se questo accordo verrà concluso. So soltanto che continuerò a lavorare per la difesa della lingua cree e che mi opporrò in ogni modo a chi vuole derubarci della nostra sovranità. Lo farò come madre, come insegnante e soprattutto come donna, mossa da un amore sincero per il nostro popolo. Non posso tacere davanti a questa oppressione: devo combatterla. La lingua è una componente essenziale della nostra identità. È la forza gioiosa che ci unisce e ci rende vivi. nēhiyaw oma niya, nēhiyawak oma kiyanaw. Io sono cree, noi siamo i Cree.

Le lingue indigene del Canada LINGUE

PARLANTI

Algonchine

175825

Cree Ojibway

96575 .

28130

Oji-Cree

15585

Montagnais (Innu)

11360

Mi'kmaq

8870

Atikamekw

6600

Blackfoot

5565

Inuit (Eschimesi)

42065

Inuktitut

39770

Athabaska

23455

Dene

13005

Salish

5620

Shuswap (Secwepemctsin)

1290

Sioux

5400

Stoney

3665

Irochesi

2715

Mohawk

2350

Tsimshian

2695

Gitxsan (Gitksan)

1285

Wakashan

1445

Kwakiutl (Kwak'wala) Michif*

585 1170

Haida

445

Tlingit

255

Kutenai

170

totale

260550

* Lingua dei Meticci, nata dalla fusione di cree e francese Fonte: Censimento 2016

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Liberi di essere mohawk I secoli di oppressione che il Canada e gli Stati Uniti hanno imposto ai popoli indigeni hanno avuto un effetto devastante sulle loro lingue. Un ruolo decisivo l'hanno svolto i famigerati convitti, dove i ragazzi indigeni venivano puniti quando usavano la propria lingua. Oggi molti idiomi indigeni nordamericani sono scomparsi e molti altri rischiano l'estinzione. Diversamente da quanto accade in Europa, in Canada e egli Stati Uniti non esiste una legislazione che contempli una chiara difesa delle lingue minoritarie. Ma varie comunità non si sono arrese e hanno fondato strutture didattiche autonome, dove l'insegnamento viene impartito nelle rispettive lingue autoctone. Una delle esperienze più stimolanti è quella dell'Akwesasne Freedom School, fondata nel 1979 da alcuni genitori. La scuola si trova nella riserva mohawk di Akwesasne, divisa fra il Quebec, l'Ontario e lo stato di New York. L'impegno delle famiglie e dei volontari - anche non indigeni - ha permesso alla scuola di superare molti problemi finanziari e politici. La lingua è solo uno degli aspetti dell'identità mohawk. Insieme a questa vengono insegnati valori umani fondamentali come il rispetto, la convivenza e la solidarietà. Questa scuola è la proiezione didattica della lotta per l'autodeterminazione. Ma soprattutto è un luogo dove gli studenti sono liberi di essere kanien'kehaka (mohawk). Un'altra iniziativa didattica in difesa della lingua mohawk è quella attiva nella riserva di Tyendinaga, che sorge a 200 km da Toronto. Il documentario Raising The Words (2016), diretto dalla regista Chloë Ellingson, racconta la sua storia. Antonella Visconti


Inuit Nunangat, la patria artica Alessandro Michelucci

Spesso i nomi che vengono usati comunemente usati per designare i popoli indigeni nascondono un significato dispregiativo. I Lakota, ad esempio, vennero ribattezzati Sioux dai missionari gesuiti, che si ispirarono al termine nado-we-siu (vipere) adoperato da alcuni popoli nemici. Non fanno eccezione gli Inuit, da sempre noti come Eschimesi, termine derivato dall'algonchino wiyaskimok (mangiatori di carne cruda). Originari delle fredde distese siberiane, abitano la regione circumpolare e vivono prevalentemente di caccia, pesca e piccole attività agricole. Oggi sono poco più di 100.000 e vivono divisi fra Canada (Québec, Labrador e Nunavut), Stati Uniti (Alaska), Groenlandia e penisola di Chukotka (Russia). Divisi da spazi sconfinati, si sentono comunque parte di una stessa patria, che chiamano Inuit Nunangat. Questa occupa circa 3.500.000 kmq (35%del Canada) e comprende quattro comunità: la provincia di Nunavut, la Regione Inuvialuit, Nunavik e Nunatsiavut. Il rapporto degli Inuit con il potere federale evolve in modo molto diverso rispetto a quello degli Indiani. L'Indian Act, approvato dal governo canadese nel 1876, non considera gli indigeni artici. Questo crea un vuoto legislativo che viene colmato soltanto nel 1939, quando una decisione della Corte Suprema stabilisce che gli Inuit debbano considerarsi "indiani". Qualche anno dopo il governo federale decide di affrontare un problema particolarmente complesso: quello dei nomi. Gli Inuit li hanno, ma finora questi sono stati dati con un criterio complicato che teneva conto dei legami con gli animali, con l'ambiente e con la famiglia. Ottawa decide quindi che ogni eschimese venga identificato da un numero impresso su un disco di pelle insieme ad altre informazioni logistiche: questo è il documento che sostituisce la carta d'identità. Ma la soluzione crea una sorta di discriminazione e stimola numerose critiche. Nel 1970, quindi, il governo vara un'iniziativa (Project Surname) per sostituire il numero con un vero nome. A dirigerla è proprio un inuit, Abraham Okpik, i cui sforzi non vengono accolti favorevolmente da tutti gli interessati. Dall'Artico alle Nazioni Unite Fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo nascono le principali associazioni indigeniste: International Workgroup for Indigenous Affairs (1968), Survival International (1969), Gesellschaft für bedrohte Völker (1970) e Cultural Survival (1972). Questo fermento segna una svolta decisiva, stimolando molti popoli indigeni a definire una strategia diplomatica comune. Anche gli Inuit, nonostante il loro isolamento geografico, diventano parte attiva del movimento indigeno internazionale che si forma in questi anni. Nel 1973 si tiene a Copenaghen la prima Conferenza dei Popoli Artici, che riunisce Inuit, Sami e Indiani del Nordamerica. Pochi anni dopo nasce a Barrow (Alaska) la Inuit Circumpolar Conference, che promuoverà le istanze eschimesi a livello internazionale. Autonomie artiche Gli Inuit costruiscono una fitta rete associativa anche in Canada. Le loro rivendicazioni territoriali cominciano a manifestarsi nel 1971 con la nascita di Inuit Tapirisat of Canada (poi Inuit Tapiriit Kanatami), che si propone come interlucutore col governo federale. Nella comunità di Nunatsiavut (Terra Nuova e Labrador), due anni dopo, viene fondata la Labrador Inuit Association (LIA). Alla fine del 2005, dopo una trattativa durata oltre 30 anni, verrà firmato un accordo col governo che istituisce una forma di autonomia parziale all'interno della provincia. Nel 1975 la Makivik Corporation, espressione della comunità situata nel Quebec settentrionale, stipula una convenzione che regola le sue rivendicazioni territoriali, dopodiché il referendum del 12


1986 introduce la denominazione ufficiale di Nunavik per questo territorio. La Inuvialuit Regional Corporation vede la luce nel 1984, quando il territorio abitato dagli Inuivialuit (Territori di NordOvest) ottiene una forma di autonomia che comunque non altera i confini interni. Nel frattempo le lotte politiche degli indigeni artici sono andate avanti anche nella vicina Groenlandia, colonia danese abitata quasi unicamente da eschimesi, che nel 1979 ha ottenuto una forma di autonomia e ha potuto eleggere un proprio parlamento. In Canada, invece, proseguono le trattative per raggiungere un traguardo ancora più ambizioso: la creazione di una provincia a maggioranza inuit. Questo obiettivo è al centro della lotta politica eschimese negli anni Ottanta. Si tratta di un iter estenuante, complicato da mille implicazioni giuridiche, ma gli Inuit dimostrano una determinazione e una perizia diplomatica incredibili. Il sogno si realizza il 1º aprile 1999, quando una parte dei Territori di Nord-Ovest ne viene separata dando vita a Nunavut ("la nostra terra"). Il nuovo territorio, grande quasi come la Groenlandia (2.093.000 kmq), occupa il 21% della federazione canadese e costituisce la più estesa delle sue provincie. La nascita di Nunavut trasforma il Canada in un paese trilingue, con l'inuktitut che si aggiunge ai due idiomi già riconosciuti (inglese e francese). Su un sesto di tale superficie gli Inuit hanno il diritto di proprietà, a cui si aggiungono i diritti estrattivi in certe zone. Questi successi, quasi irreali per un popolo disperso su spazi sconfinati e penalizzato da condizioni atmosferiche durissime, non devono far dimenticare i gravi problemi che affliggono le varie comunità. Le statistiche dell'ultimo decennio confermano dati già noti in precedenza. Molti inuit vivono in case sdotte e sovraffollate. Fumo, alcool e droga sono molto diffusi. Tutti gli indicatori sociali, dal lavoro alle malattie, evidenziano una situazione peggiore rispetto alla media canadese. Onde polari Per le comunità inuit, spesso divise da distanze enormi, lo sviluppo dei media riveste un ruolo centrale. L'uso della televisione comincia a svilupparsi nei tardi anni Settanta, quando il governo federale vara delle strutture rudimentali che vengono installate in sei comunità inuit. Le trasmissioni via satellite che iniziano nel 1980 permettono a varie comunità di entrare in contatto e scambiarsi informazioni nella propria lingua. L'anno dopo, sull'onda di questi primi successi, il governo concede una licenza a Inuit Tapirisat of Canada, che dà vita alla Inuit Broadcasting Corporation. Da questa nasce poi Television Northern Canada, una televisione gestita da un consorzio di vari organismi indigeni e governativi. La rete trasmette in inglese e principali dialetti eschimesi. Il 1° settembre 1999, a Winnipeg (Manitoba), iniziano le trasmissioni dell'Aboriginal Peoples Television Network (APTN), la prima emittente gestita da indigeni nordamericani (eschimesi e indiani), che trasmette in tutto il Canada. La nuova televisione si affianca a iniziative analoghe, come Imparja, la rete aborigena nata in Australia alla fine degli anni Ottanta. Pochi mesi dopo la comunità berbera dell'Algeria darà vita a Berbère Télévision, mentre nel 2003 gli indigeni della Nuova Zelanda lanceranno Maori Television. La lotta contro i mutamenti climatici La regione artica è una delle prime aree del pianeta che subiscono gli effetti negativi del riscaldamento globale. Lo scioglimento dei ghiacci marini, l'aumento della temperatura e del livello del mare, la fusione del permafrost e l'erosione delle coste sono soltanto alcune delle conseguenze che incidono pesantemente sulla vita quotidiana degli aborigeni artici. Di conseguenza il problema assume un ruolo centrale per queste comunità. "Il futuro degli Inuit è il futuro del resto del mondo: la nostra terra è il barometro di quello che sta accadendo all'intero pianeta" ha scritto Sheila Watt-Cloutier nel libro The Right to be Cold: One Woman’s Story of Protecting Her Culture the Arctic and the Whole Planet. Non si tratta di un parere fra i tanti, perché l'autrice ha presieduto la Inuit Circumpolar Conference (1995-2002) e ha ricevuto vari riconoscimenti per il suo impegno ecologista. La lotta contro i mutamenti climatici rappresenta una priorità anche per Inuit Tapiriit Kanatami, che nel 2016 presenta il documento Inuit Priorities for Canada's Climate Strategy, reclamando il diritto di contribuire alla politica governativa sulla materia. 13


Le vittime dimenticate della guerra fredda Contrariamente agli altri popoli indigeni delle Americhe, gli Inuit non sono vittime di guerre o di massacri. La pratica criminale dei convitti (residential schools), comunque, non risparmia nemmeno loro. Inoltre il rilievo geopolitico delle loro terre stimola l'interesse di certi paesi aderenti alla NATO – Canada, Danimarca e Stati Uniti – che vogliono affermare la propria sovranità sulla regione polare. Gli Inuit vengono quindi sottoposti a un'aggressione spietata. La Groenlandia, colonia danese dal 1775, è abitata in prevalenza da inuit. Nel 1951 gli Stati Uniti decidono di costruire la base aerea di Thule, che occuperà il villaggio di Dundas. A questo scopo gli inuit che lo abitano vengono trasferiti forzatamente 130 km a nord, dove viene fondata la città di Qaanaaq. Qui le famiglie vengono abbandonate con pochi generi necessari per la sopravvivenza (cibo, pelli, tende). L'impatto con l'ambiente è terribile: 24 ore di buio in inverno, 24 ore di luce durante l'estate. Il governo danese assicura che dopo due anni li riporterà a casa, ma non mantiene la promessa. Non solo, ma proprio due anni dopo vengono trasportate in un luogo vicino a Qaanaaq altre 35 persone. In questo inferno ghiacciato, piagati dalla fame, dal freddo e dalla miseria, gli inuit cercano di organizzarsi per sopravvivere. Sono i tempi in cui Washington impone la propria volontà facendo appello al pericolo sovietico. Lo stesso che ha fatto pochi anni prima trasformando il Pacifico in teatro dei propri esperimenti nucleari, che hanno diffuso malattie ereditarie di vario tipo fra gli indigeni micronesiani. Il governo danese promette agli inuit che costruirà delle case nel luogo di destinazione. In realtà le abitazioni vengono costruite in ritardo e con criteri approssimativi, costringendo molte famiglie ad am-massarsi in spazi molto ristretti. La nuova collocazione stravolge profondamente la vita degli indigeni: abituati a vivere in una zona adatta alla caccia, si ritrovano in un territorio inospitale che mette in serio pericolo la loro sopravvivenza. La situazione viene ulteriormente aggravata dalla base americana, il cui impatto ambientale si rivela devastante. All'inizio del 1968 un aereo che trasporta quattro bombe nucleari all'idrogeno si schianta nel mare vicino alla base. L'incidente determina un'esplosione che disperde il materiale radioattivo in un'area molto ampia. I militari pretendono che gli indigeni li aiutino a bonificare la zona. Negli anni successivi alcuni di loro accusano malattie derivate dalla radioattività. Gli aborigeni polari, comunque, non si arrendono e cercano di tornare nella propria terra. Nel 1996 uno di loro, Uusaqqak Qujaukitsoq, fonda Hingitaq 53 (gli esiliati del 1953), un'associazione che intende raggiungere questo obiettivo. A tale scopo promuove un'azione legale contro il governo di Copenaghen. Nel 1989, in seguito a queste pressioni, 40 persone possono tornare alle comunità originarie, ma la maggior parte dei giovani preferisce rimanere. Questo crea delle fratture dolorose nelle famiglie che si sono formate dopo il trasferimento forzato. Nel 1999 l'Alta Corte della Danimarca orientale si pronuncia a favore degli indigeni, affermando fra l'altro che il trasferimento forzato del 1953 è stato "illegale". Il governo danese crea un fondo per indennizzare le vittime, che ricevono dei risarcimenti per alcuni anni. Nel 2017, però, annuncia che le condizioni economiche determinate dalla crisi mondiale del 2008 lo costringono a liquidare i sopravvissuti con una somma forfettaria. L'aggressione spietata nei confronti della minoranza artica non risparmia neanche i bambini. Nel 1951 il governo danese preleva 22 ragazzi groenlandesi fra i 6 e 8 anni dalle rispettive comunità e li costringe a vivere in Danimarca. Qui vengono adottati da famiglie danesi e istruiti secondo i canoni europei: l'obiettivo è quello di integrarli nella società e farne dei bianchi. Il trauma è tremendo. Un anno dopo alcuni bambini vengono riportati in Groenlandia, dove non vengono restituiti alle famiglie, ma sistemati in un orfanotrofio. Gli altri rimangono in Danimarca, ma molti di loro muoiono prima di diventare adulti. Nel 2009 la Groenlandia (autonoma dal 1979) chiede al governo danese una dichiarazione ufficiale di scuse. Il Primo ministro Rasmussen rifiuta, limitandosi a dire che si è trattato di una "iniziativa infelice". Lo stesso accade in Canada nei primi anni Sessanta, quando il governo separa tre bambini dalle famiglie e li inserisce in alcune famiglie di Ottawa. Ma in questo caso gli esiti si rivelano meno disastrosi. Peter Ittinuar, Zebedee Nungak ed Eric Tagoona divengono attivisti politici e danno un contributo importante alle lotte per i diritti territoriali. Zebedee Nungak racconta la propria esperienza nel libro Wrestling with Colonialism on Steroids: Quebec Inuit Fight for Their Homeland (Vehicule Press, 2017). Giovanna Marconi 14


Inuit Nunangat

Fonte: Censimento 2016

I territori inuit Nunavut kmq 2.093.000 Regione inuvialuit (Territori di Nord-Ovest) kmq 906.430 Nunavik (Quebec) kmq 443.685 Nunatsaviut (Terranova e Labrador) kmq 72.520 totale kmq 3.515.635

Inuit Nunangat Bibliografia Coresi F., Nunavut. Antropologia di una rivoluzione al rallentatore, Aracne, Roma 2005. McComber L. (a cura di), Changing the Face of Canada: The Life Story of John Amagoalik, Nunavut Arctic College Media, Iqaluit (NU) 2007. Mc Grath M., The Long Exile: A True Story of Deception and Survival amongst the Inuit of the Canadian Arctic, Fourth Estate, London 2006. Nungak Z., Wrestling with Colonialism on Steroids: Quebec Inuit Fight for Their Homeland, Vehicule Press, Montreal (QC) 2017. Watt-Cloutier S., The Right to Be Cold: One Woman's Story of Protecting Her Culture, the Arctic and the Whole Planet, Penguin Canada, Toronto (ON) 2016.

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Futuro antico Alessandro Michelucci

Nel corso degli ultimi vent'anni le espressioni musicali dei popoli indigeni sono uscite dalla marginalità. Basti pensare al successo di gruppi rock tuareg come Tinariwen e Tartit; ad aborigeni australiani come Geoffrey Gurrumul; a sami (lapponi) come Mari Boine (inizialmente nota come Mari Boine Persen), scoperta da Peter Gabriel. Anche l'affermazione planetaria della world music ha dato visibilità alle musiche indigene, stimolando un forte interesse commerciale e accademico. Sarebbe comunque un grave errore pensare che le espressioni musicali dei popoli autoctoni fossero soltanto quelle strettamente connesse ai rispettivi patrimoni tradizionali. Al contrario, sono sempre più frequenti gli artisti che li utilizzano come punto di partenza, innestandoli in contesti musicali estremamente vari, dal rock alle sperimentazioni più coraggiose. Uno dei casi più interessanti è quello di Tanya Tagaq, un'artista inuit specializzata nel katajjaq (canto difonico o canto di gola), che consente di emettere contemporaneamente due suoni. Di origine antichissima, questa tecnica vocale viene tuttora praticata in una vasta zona geografica che comprende la Mongolia, il Tibet, certe regioni siberiane e le terre circumpolari abitate dagli Inuit. Tanya Tagaq Gillis nasce il 5 maggio 1975 a Cambridge Bay (Iqaluktuutiaq). Dopo aver frequentato la scuola si trasferisce a Yellowknife (Territori di Nord-Ovest), dove comincia a praticare il canto difonico. Al tempo stesso coltiva la passione per la pittura e si laurea al Nova Scotia College of Art and Design. Nel frattempo continua a praticare il canto di gola. Ascolta molte registrazioni, si esercita e si esibisce alle feste degli amici. Nella tradizione inuit il katajjaq prevede due cantanti, ma Tanya non riesce a trovare una compagna e decide di continuare da sola. Il primo contatto col mondo musicale avviene nel 2001, quando Björk la invita a partecipare alla tournée con cui l'artista islandese sta promuovendo il CD Vespertine. Fra le due cantanti si sviluppa velocemente una sintonia profonda. Alcuni anni dopo Tanya viene chiamata ancora da Björk, che la vuole con sé in Medulla (2004). L'anno successivo la cantante inuit pubblica il primo CD solista, Sinaa (2005), dove la collega islandese compare come ospite in un brano. A prima vista la proposta di Tanya non costituisce una novità. Gli ambienti musicali più attenti hanno già scoperto il canto difonico, soprattutto quello praticato a Tuva, repubblica autonoma della Russia confinante con la Mongolia. Nel 1990 il festival jazz di Münster ha messo in luce la cantante Sainkho Namchylak. L’etichetta Real World, fondata da Peter Gabriel, ha pubblicato Voices from the Distant Steppe (1994) del gruppo Shu-de. Al Sundance Film Festival del 1999 è stato premiato il documentario Genghis Blues, diretto da Roko Belic. L'opera racconta la storia vera di Paul Pena, un cantante americano che raggiunge Tuva per conoscere il canto di gola. Ma Sinaa mette subito in luce che Tanya Tagaq si muove in una direzione personale. Il canto difonico non viene inteso in modo tradizionale, né contaminato col rock o col jazz: la giovane artista si muove nel terreno dell'avanguardia sperimentale. Si esprime con mormori, sussurri, urla, oppure ansimando: la voce diventa uno strumento. I suoi strati si sovrappongono, si intrecciano e si fondono. La accompagnano soltanto alcuni effetti elettronici e le percussioni del basco Felipe Ugarte, a compagno della cantante. Un'altra collaborazione importante è quella col Kronos Quartet, uno dei principali gruppi cameristici americani. Nel 2006 il quartetto di David Harrington la coinvolge in Nunavut, uno spettacolo al quale la musicista inuit collabora anche come compositrice. Nel successivo lavoro solista, Auk/Blood (2008), la voce è affiancata da vari strumenti (archi, batteria e altre voci) e da una gamma più ampia di effetti sonori. Nel film Tungijuq (2009), diretto da Felix Lajeunesse e prodotto da Zacharias Kunuk, la cantante compare come protagonista. Anuraaqtuq (2011) viene registrato al Festival international de musique actuelle di Victoriaville. L'artista è ormai ben inserita nel mondo musicale. Al tempo stesso rimane strettamente legata alla propria cultura e difende la caccia alla foca, scatenando le dure reazioni degli ecologisti. L'anno 16


successivo il Toronto International Film Festival la coinvolge in Nanook of the North (1922), il celebre film di Robert Flaherty. Tanya dà nuova vita a questo classico del cinema muto eseguendo dal vivo le musiche composte da Derek Clarke per l'occasione. Il 2014 segna un progresso decisivo. All'inizio dell'anno Musicworks, autorevole rivista canadese dedicata alle musiche d'avanguardia, le dedica la copertina del numero 118. Fra i brani del CD allegato c'è "Tugulak", tratto dal CD Animism, che esce poco tempo dopo. Come i precedenti dischi dell'artista inuit, il nuovo lavoro è caratterizzato da complessi intrecci di suoni gutturali, effetti elettronici, archi, fiati e percussioni. Fra i musicisti spicca il violinista Jesse Zubot, produttore del disco e coautore di molti brani. Animism è un inno al rapporto con la natura e con gli animali, elementi centrali della cultura inuit. Lo attestano i due lupi della copertina, come anche i titoli di molti brani: "Howl" (gufo), "Rabbit" (coniglio), "Tugulak" (corvo), "Umingmak" (bue muschiato). Animism, premiato con il prestigioso Polaris Music Prize, è il primo lavoro dove l'impegno sociale appare in modo chiaro e diretto: "È con la partecipazione umana più profonda che dedico questo disco a Loretta Saunders (giovane inuit uccisa nel 2014, ndt) e a tutte le indigene canadesi donne scomparse e uccise" si legge fra le note di copertina. Questa piaga, sostanzialmente ignota al di fuori del Canada, affligge il paese ormai da molti anni. In Tundra Songs (2015) la cantante torna a collaborare col Kronos Quartet. I sei pezzi del disco, composti da Derek Charke, sono ispirati alla cultura inuit. La cantante occupa un ruolo centrale nel lungo brano omonimo, quasi mezz'ora che richiede un ascolto attento e paziente. Diviso in cinque movimenti, il brano utilizza una serie di accorgimenti tonali che rendono simili il suono degli archi e il canto di gola. "Sassuma Arnaa: The Woman Down There", il pezzo che chiude il CD, racconta la storia di Sedna, dea del mare nella mitologia eschimese. Il testo viene recitato da Laakkuluk Williamson Bathory, scrittrice e attrice teatrale inuit. Il risultato è una musica mobile, imprevedibile, inclassificabile. La versatilità dell'artista trova ulteriore conferma nella collaborazione con A Tribe Called Red, un gruppo indiano di Ottawa che fonde reggae, dance e influenze indigene. Tanya compare in due brani del loro CD We Are the Halluci Nation (2016). Poco dopo esce il quarto album solista, Retribution (2016). Il brano che intitola il disco è dedicato al mutamento climatico, un problema che negli ultimi anni ha assunto un grande rilievo per le comunità inuit. L'interesse per il cinema viene confermato dal film Maliglutit (Searchers, 2016), diretto da Zacharias Kunuk, per il quale l'artista scrive le musiche insieme a Chris Crilly, un compositore irlandese che vive in Canada. Nel 2017 Tanya compare in "You got to run", il brano che incide insieme a Buffy Sainte-Marie, celebre cantante cree. La canzone apre il CD Medicine Songs, che quest'ultima pubblica alla fine del 2017. Nata nel 1941, sempre impegnata in difesa degli Indiani, Buffy ha collaborato con i principali esponenti del rock americano, da Neil Young a Joni Mitchell. Ha scritto canzoni famose, come "Universal Soldier", ripresa da Donovan; "Soldier Blue", che canta nel film omonimo (Soldato blu); "Up where We Belong", interpretata da Joe Cocker e Jennifer Warnes nel film Ufficiale e gentiluomo. Questa collaborazione ha un significato importante, perché collega la cantante inuit del ventunesimo secolo a un personaggio ormai storico. Ieri come oggi, la musica si dimostra uno dei canali privilegiati attraverso i quali si esprime la lotta dei popoli indigeni.

Tanya Tagaq

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Il calvario dei Meticci Rudolph Rÿser

Discendono dagli Abenaki, dai Cree, dai Mohawk e da molti altri popoli indigeni, ai quali sono legati da almeno quattro secoli. Le loro culture sono strettamente connesse a quelle autoctone, anche se la loro struttura sociale originaria (odoodem) è andata perduta. Oggi vengono chiamati Meticci, parola derivata dal francese métis: in pratica discendono da padri francesi (o comunque europei) e da madri indigene. I loro antenati sono originari delle regioni nordorientali del Nordamerica e delle pianure, dove si sono uniti ad altri popoli dando vita al complesso sistema politico e sociale noto come nindoodemag (il termine antropologico è "legami di parentela che superano i confini della comunità"). I membri di ciascuna comunità sono legati a quelli di molte altre perché condividono lo stesso odoodem. Il nindoodemag è un legame fra tutti coloro che hanno lo stesso doodem, indipendentemente dal luogo in cui vivono. Questo sistema sociale ha una funzione ben precisa, quella di organizzare il potere politico e la divisione del lavoro, ma anche quella di stabilire una relazione personale con le entità che hanno creato il mondo. I secoli scorsi sono stati segnati dalle violenze fisiche e dall'educazione distorta dei coloni francesi e inglesi. Le loro leggi hanno minato la coesione sociale e culturale di questi popoli realizzando un genocidio culturale. Il crimine coloniale Prima del 1599, data in cui i primi coloni francesi fondarono l'insediamento di Tadoussac sul Kaniatarowanenneh (il fiume San Lorenzo in lingua mohawk, ndt), i legami di parentela fra queste comunità non erano ben definiti e non c'erano "meticci", dato che l'identità di ciascuno derivava dal nindoodemag in cui nasceva. Questo criterio valeva anche quando una persona veniva separata dalla propria comunità e diventava parte di un'altra in seguito a un conflitto. Il concetto di "meticcio" nacque soltanto con l'arrivo dei colonialisti, prima francesi e poi olandesi, inglesi e spagnoli. Quindi fu un prodotto della cultura europea, assolutamente estraneo alle relazioni sociali e culturali originarie. Gli effetti devastanti della colonizzazione cancellarono il criterio di identificazione basato sul nindoodem e lo sostituirono con quello basato sul sangue. L'invasione europea determinò una catastrofe sociale, biologica e territoriale. Questi popoli furono massacrati, mentre i sopravvissuti vennero ridotti in schiavitù. I Cree e tutte le comunità che vivevano nei pressi del Kaniatarowanenneh furono travolti dall'avidità coloniale dei francesi e degli inglesi. Nel 1603 i francesi - guidati da Samuel Champlain e seguiti dai gesuiti - entrarono nella regione atlantica del Nordamerica per dare inizio alla colonizzazione. Gli Innu di Nitassinan (il loro territorio ancestrale, situato nel Quebec orientale e nel Labrador meridionale, ndt) furono fra i primi a farne le spese. Una grande quantità di inglesi e francesi si riversò nella regione alla ricerca di lavoro o di gloria. Erano tutti uomini: violentavano le donne indigene, le sposavano e vivevano con loro. Fu così che nacquero i mezzosangue, quelli che oggi chiamiamo Meticci. In altre parole, discendenti di persone nate da donne indigene ed europei che lavoravano per le compagnie (prima francesi, poi inglesi) attive nel commercio delle pellicce. Via via che questa attività si espandeva verso ovest, la commistione fra gli Anishinaabe, i Cree e gli immigrati modificò profondamente il contesto sociale. Nel tardo Seicento e nei due secoli successivi molti uomini provenienti dalla Germania e dalle isole britanniche si impiegarono nelle compagnie coloniali come la Hudson's Bay Company e dettero un forte contributo all'aumento dei

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meticci. Molti di loro diventavano parte delle comunità indigene, ma altri ne rimanevano esclusi, legati a queste da semplici relazioni parentali. I legami individuali degli europei con lo stato erano profondamente estranei ai popoli indigeni. Per questi i legami familiari e comunitari erano fondamentali. L'identità culturale derivante dal nindoodem si basava sulla famiglia allargata che non aveva confini geografici. All'interno dei vari popoli c'erano gruppi ai quali venivano riconosciute funzioni specifiche. I Moozwaanowe (Code di alce) erano preposti alla caccia e alla raccolta; i Wawaazisii (Pesci gatto) si occupavano dell'istruzione e delle cure; gli Aan'aawenh (Codoni) erano preposti alle comunicazioni interne. Questa divisione di ruoli era alla base della società.

Louis Riel e Gabriel Dumont, leader meticci Anche i Meticci hanno dato un contributo alla resistenza indigena del diciannovesimo secolo. Lo attestano i molti esponenti politici – uomini, donne, anziani – che si sono impegnati per difendere i loro diritti. Le figure più importanti sono quelle di Louis Riel e Gabriel Dumont. Nell'Ottocento i Meticci erano Otipemsiwak, "il popolo padrone di se stesso". Avevano proprie strutture sociali, economiche, culturali e giuridiche. Erano attivi nel commercio e nella caccia al bisonte. Alla fine del secolo la Hudson's Bay Company si accingeva a vendere al Canada il territorio noto come Terra di Rupert, che faceva parte della regione abitata dai Meticci. Questi formarono un comitato nazionale per difendere i propri diritti territoriali. Il capo era Louis Riel. Il leader meticcio era nato nel 1844 a St. Boniface, nel Red River Settlement (poi inglobato dal Manitoba). Aveva studiato a Quebec, dove aveva stretto saldi legami con la Chiesa cattolica. Nel 1869, ormai capo del Métis National Committee, impedì che il governatore locale William McDougall entrasse nel territorio conteso. Quindi cominciarono i negoziati per limitare l'espansione del Canada nella Terra di Rupert. L'anno successivo Riel scrisse un documento dove elencava i diritti che riteneva necessari perché le regioni nordoccidentali aderissero alla neonata confederazione. Alla fine del 1869 il Métis National Committee si trasformò in governo provvisorio della regione. Lo scontro era chiaro: da una parte gli orangisti inglesi protestanti, dall'altra i Meticci francofoni e cattolici. Un giovane inglese, Thomas Scott, fu condannato a morte dai Meticci dopo uno scontro. Molti orangisti dell'Ontario si mobilitarono contro Riel e misero una taglia sulla sua testa. Il 12 maggio 1870, con l'obiettivo di sedare la rivolta dei Meticci, il governo di Ottawa dichiarò ufficialmente la nascita della quinta provincia, il Manitoba, che inglobava anche il Red River Settlement. Il documento ufficiale prometteva ai Meticci 1,4 milioni di acri (5700 kmq). Ma la promessa non venne mantenuta e la loro ribellione proseguì, seppur repressa duramente dall'esercito federale. Louis Riel riparò negli Stati Uniti, ma tornò in patria pochi mesi dopo. Nel 1873 fu eletto alle elezioni federali, quindi fu chiamato dai Meticci che vivevano nella parte meridionale dei Territori di Nord-Ovest (il futuro Saskatchewan) perché li aiutasse a difende i loro diritti territoriali. Uno dei loro leader era Gabriel Dumont, che si era messo in luce come cacciatore di bisonti e come capo militare nella battaglia di Grand Coteau (1862). Era un tiratore scelto e parlava sette lingue. Nel 1863 fu eletto capo dei cacciatori di bisonti, carica di grande importanza fra i Meticci. Nei primi anni Ottanta, insieme ad altri capi, inviò molte lettere al governo federale invocando il rispetto dei diritti politici e territoriali. Divenuto leader dei Meticci locali, Dumont andò negli Stati Uniti per contattare Louis Riel, all'epoca esule, e riportarlo in patria per sostenere le nuove rivolte. Qui i due crearono un governo provvisorio per difendere i diritti dei Meticci. Nel 1885 e il Canada inviò 500 soldati a Batoche, sede del governo provvisorio, per reprimere la rivolta. Gabriel Dumont riunì 300 soldati e guidò la guerra contro l'esercito federale. I Meticci vennero sconfitti. Riel fu catturato e impiccato. Dumont rimase qualche tempo nell'insediamento per assicurare alle famiglie meticce una vita dignitosa. Quindi riparò negli Stati Uniti. Molti anni dopo tornò in patria, dove morì nel 1906. Tricia Logan Un genocidio dichiarato "L'obiettivo principale della nostra legislazione è quello di sradicare il sistema tribale e assimilare gli Indiani prima possibile" ammise nel 1887 John Alexander McDonald, Primo ministro del neonato Canada. Il suo governo, aggiunse, era fermamente intenzionato a distruggere le culture indi19


gene per imporre quella di origine europea. Queste parole dimostravano chiaramente l'intenzione di compiere un genocidio. Dieci anni dopo, con l'appoggio manifesto di alcune istituzioni religiose, il governo dette vita ai convitti per indigeni, anche se in realtà alcune scuole erano già attive da tempo. Questo sistema fu creato per separare i bambini dalle famiglie e indebolire i loro legami con la cultura indigena per "farne dei bianchi". Per oltre un secolo l'obiettivo principale del Canada fu quello di eliminare le strutture politiche indigene; ridurre i trattati in carta straccia; minare le basi sociali, culturali e politiche dei popoli indigeni in modo da assimilarli. I Meticci, come gli Indiani e gli Inuit, furono strappati alle famiglie, europeizzati a forza e sottoposti a una dura disciplina. Inoltre furono vittime di violenze fisiche e sessuali. Il trauma plurisecolare inflitto a centinaia di migliaia di meticci non deve essere dimenticato. I testimoni ascoltati dalla Truth and Reconciliation Commission (la commissione federale istituita per indagare sui crimini commessi nei convitti, ndt) chiedono una riparazione che non si limiti al risarcimento pecuniario e alla costruzione di un monumento in memoria della tragica esperienza che ha coinvolto una ventina di generazioni. Il crimine originario, il primo atto del genocidio, è stata la colonizzazione. I Meticci chiedono giustizia. Il Canada ha fissato un risarcimento individuale, ma il crimine è stato commesso contro intere collettività, perciò la questione rimane aperta. Bibliografia Bohaker H., "The significance of nindoodemag in the Algonquian kinship networks in the Eastern Great Lakes Region", The William and Mary Quarterly, LXIII, 1, 2006, pp. 23–52. Penny J. , So Few on Earth: A Labrador Métis Woman Remembers, Dundurn, Toronto (ON) 2010. Sinclair N. J., . Nindoodemag Bagijiganan: A History of Anishinaabeg Narrative, University of British Columbia, Vancouver (BC) 2013 [tesi universitaria]. Truth and Reconciliation Commission, Canada's Residential Schools: The Métis Experience (vol. 3), McGillQueen's University Press, Montreal (QC) 2015.

Louis David Riel (1844-1885)

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Prima di Mengele Erika Dyck

All'inizio del ventesimo secolo molte province canadesi manifestano un forte interesse per le nuove teorie eugenetiche. Quelle che approvano leggi sulla sterilizzazione forzata sono l'Alberta (1928) e la Columbia Britannica (1933). Queste leggi verranno cancellate negli anni Settanta, dopo che oltre 3000 persone saranno state sterilizzate. Inizialmente queste pratiche riguardano i malati di mente e coloro che sono considerati affetti da deficienza mentale. Questi vengono sterilizzati dopo essere stati ricoverati in ospedali psichiatrici o in istituti analoghi. Nel 1935 l'Alberta emenda il proprio Sexual Sterilization Act eliminando la necessità del consenso informato per la sterilizzazione dei ritardati. In questo modo la provincia canadese si differenzia nettamente da altri territori nordamericani, dove questo consenso è un requisito irrinunciabile. Alcuni anni dopo la provincia approva nuove leggi per poter applicare i programmi eugentici anche al di fuori dell'ambito istituzionale. È così che vengono identificati molti bambini con attraverso visite mediche e ispezioni nelle scuole. Questo accade soltanto in Alberta e nella Columbia Britannica. Le altre province non approvano specifiche leggi eugenetiche, ma forniscono comunque un contributo accessorio. La Nova Scotia, per esempio, non sterilizza le persone, ma ricovera le donne in età fertile che non vengono considerate in grado di crescere i bambini, spesso perché hanno partorito figli illegittimi. Il Quebec elargisce incentivi finaziari di vario tipo alle famiglie numerose L'Ontario, il Manitoba e il Saskatchewan cerca di approvare leggi per la sterilizzazione, che però vengono accantonate in seguito alla forte protesta popolare guidata dai cattolici. Le sterilzzazioni praticate nei Territori di Nord-Ovest rappresentano un caso a parte. Negli anni Settanta nasce una controversia. Alcuni sostengono che la sterilizzazione praticata nei confronti delle donne inuit rappresenti una forma di genocidio, altri ribattono che siano le inuit stesse a richiederla data la loro alta fertilità e l'alto numero di mortalità materna e infantile. La storia dell'eugenetica è strettamente legata a quella del Canada, anche se le formulazioni e le applicazioni variano da provincia a provincia. Quando entrano in vigore le leggi suddette queste vengono accolte positivamente. Sono appoggiate dalle femministe, dai socialisti, dagli agricoltori e dai protestanti anglosassoni. Questi credono che il Canada, in particolare il Canada occidentale, possa realizzare una società ideale limitando la fertilità di certi gruppi sociali e stimolando quella di altri. Nei primi decenni di applicazione i riformisti del Canada occidentale pensano che gli immigrati ostacolino la creazione di questa comunità anglosassone ideale. Quelli provenienti dall'Europa orientale, in particolare, risultano i peggiori nei test per l'intelligenza e nelle indagini del servizio sanitario. Così molti vengono ricoverati e sterilizzati. Col passare del tempo, però, il governo provinciale dell'Alberta concentra la propria attenzione sui bambini orfani e su quelli disabili, come anche sulle donne indigene. Gli uomini e i ragazzi vengono sterilizzati meno frequentemente. In pratica, le prime vittime sono le donne indigene. L'Alberta cancella il proprio Sexual Sterilization Act nel 1972 e la Columbia Britannica segue il suo esempio l'anno successivo. Fino ad oggi soltanto una donna ha vinto la causa che aveva fatto al governo provinciale: le indagini hanno rivelato che era stata sterilizzata per errore, in seguito a un calcolo sbagliato del quoziente d'intelligenza. Altre 700 vittime hanno chiesto un risarcimento e le loro pratiche sono state definite per via extragiudiziale. Ufficialmente la sterilizzazione è fuorilegge, ma in certi casi la pratica continua. Talvolta rappresenta una forma di contraccezione. La questione è più complessa se i genitori vogliono far sterilizzare i figli disabili. Nel 1986, per esempio, la Corte Suprema ha stabilito che gli individui con disabilità intellettive non possono fare scelte che incidano sulle proprie facoltà riproduttive. Questo dimostra che la logica eugenetica continua a influenzare la materia, mentre i diritti delle persone affette da disabilità mentali, intellettive o fisiche restano limitati. 21


Padroni della vita Le applicazioni più aberranti dell’eugenetica – sterilizzazione forzata, inoculazione o mancata cura di malattie, eliminazione fisica di persone deboli o malate - vengono generalmente associate al nazionalsocialismo. Si tratta di un'idea giusta, ma molto parziale, perché non tiene conto di una storia più articolata e complessa. Concepite dallo studioso inglese Francis Galton (1822-1911), cugino di Charles Darwin, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, le teorie eugenetiche trovano un terreno particolarmente fertile nell'area nordamericana. Questa diffusione non viene accolta positivamente da tutti. Fra le voci contrarie, una delle più importanti è quella dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton, che nel libro profetico Eugenics and Other Evils (1922) denuncia senza mezzi termini la pericolosità delle nuove teorie. Nel frattempo queste trovano un campo di applicazione molto ampio: dai disabili ai malati di mente, dai criminali agli indigeni. Questi ultimi possono anche essere sani. La loro sterilizzazione forzata non viene realizzata soltanto nelle strutture sanitarie, ma anche nei convitti per indigeni attivi dalla fine del secolo precedente. Qui vengono condotti anche altri esperimenti, come quelli relativi agli effetti della malnutrizione, realizzati fra il 1942 e il 1952 con diete a base di farina e vitamine. Evidentemente le residential schools sono il luogo ideale dove queste sperimentazioni possono essere realizzate senza clamore. La politica dell'igiene razziale ideata e applicata dal regime nazionalsocialista si ispira apertamente alla legislazione in vigore in Canada e negli Stati Uniti all'inizio del ventesimo secolo. Lo hanno documentato molti studiosi autorevoli, fra i quali Edwin Black (War against the Weak. Eugenics and America's Cam-paign to Create a Master Race, Thunder's Mouth Press, 2003) e James Whitman (Hitler's American Model. The United States and the Making of Nazi Race), Princeton University Press, 2017). Alessandro Michelucci

Bibliografia Chesterton G. K., Eugenetica e altri malanni, Cantagalli, Siena 2008. Dyck E., Facing Eugenics: Reproduction, Sterilization, and the Politics of Choice, University of Toronto Press, Toronto (ON) 2013. Stote K., An Act of Genocide: Colonialism and the Sterilization of Aboriginal Women, Fernwood Publishing, Black Point (NS) 2015.

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Il cinema al servizio della memoria Antonella Visconti

Buona parte degli stereotipi che falsificano la storia degli Indiani nordamericani è stata diffusa attraverso il cinema, da Stagecoach (Ombre rosse, 1939) a Pocahontas (1995). Era quindi naturale che qualcuno si servisse proprio della settima arte per abbattere le note immagini distorte e offensive: uomini violenti e bellicosi, donne relegate in una posizione servile, tutti dotati di un vocabolario povero e approssimativo. A fare questa scelta coraggiosa è stata Alanis Obomsawin, una regista abenaki che ha messo la propria attività al servizio delle cause indiane. Tutti i temi sociali, politici e culturali degli Indiani canadesi hanno trovato spazio nei suoi documentari. Non soltanto le rivendicazioni collettive, ma anche storie personali praticamente ignote al di fuori delle singole comunità. La sua attività cinematografica è stata sempre affiancata da iniziative di solidarietà: concerti, conferenze, donazioni, proiezioni gratuite, raccolte di fondi. Attenzione però: non stiamo parlando di un personaggio marginale noto a pochi cultori di questioni amerindiane, ma di una regista ben nota anche al di fuori degli ambienti indigenisti. Lo attestano l'attenzione e il seguito che riceve tuttora in varie parti del mondo, insieme ai numerosi riconoscimenti che ha ricevuto. Alanis Obomsawin nasce il 31 agosto 1932 a Lebanon (New Hampshire). Il padre è una guida, la madre gestisce una pensione. Cresce in una riserva odonak situata a nordest di Montreal. All'età di 9 anni si trasferisce con la famiglia a Trois-Rivières, una città del Quebec situata fra Montreal e Quebec City. Nel 1960, stabilitasi a Montreal da qualche anno, esordisce come cantante. In pochi anni si fa conoscere grazie alla sua attività intensa: si esibisce nelle riserve, nelle scuole, nelle prigioni e alla televisione. Nel 1970 è fra i responsabili del Mariposa Folk Festival, un'importante iniziativa che celebra la varietà musicale del Nordamerica. Conserva questo incarico fino al 1976, ma nel frattempo capisce che il suo mezzo espressivo ideale è il cinema. Il suo primo lavoro è Christmas at Moose Factory (1971), un documentario sui bambini cree. Quindi comincia a lavorare per il National Film Board of Canada, che pochi anni prima ha dimostato molta attenzione per il suo impegno umanitario. Il successivo lavoro, Mother of Many Children (1977), è un omaggio alla donna: la regista ne ripercorre l'intero ciclo vitale, dall'infanzia alla vecchiaia, mettendo in evidenza le differenze che distinguono i vari popoli indigeni. Incident at Restigouche (1984) documenta le lotte dei Mi'kmaq per i diritti di pesca. Nello stesso anno Alanis Obomsawin riprende brevemente l'attività musicale e registra Bush Lady, il suo unico 33 giri. Accompagnata da pochi strumenti (archi, flauto, oboe, tamburo), l'artista canta brani tradizionali in vari idiomi che riaffermano i legami con la natura: "Nelle nostre lingue non esiste lui o lei. Siamo tutti figli della terra e del mare". Il cinema resta comunque l'attività con la quale esprime il proprio impegno militante: "lo scopo principale [dei miei film] è quello di dar voce alla nostra gente" dichiarerà in un'intervista del 1987. Richard Cardinal: Cry from a Diary of a Métis Child (1986) racconta la tragica storia di un giovane meticcio. Richard Cardinal, figlio di due alcoolisti, è stato separato dalla famiglia da piccolo. Dopo 14 anni trascorsi in vari istituti, sopraffatto da problemi psicologici gravissimi, ha deciso di suicidarsi. Il documentario porta in primo piano una piaga sociale ignorata dalla maggior parte dei canadesi. Kanehsatake: 270 Years of Resistance (1993) è uno dei suoi lavori più intensi. Il documentario racconta lo scontro che si è verificato a Oka nel 1990, quando i mohawk di Kanehsatake hanno protestato contro il progetto di costruire alcuni condomini di lusso su un territorio rivendicato dai mohawk stessi. La comunità indiana ha organizzato una resistenza che si è protratta dall'11 luglio al 25 settembre. Il braccio di ferro è terminato con la vittoria degli indiani: il progetto di costruire le case e i campi è stato cancellato. Gli scontri di Oka, documentati anche dalla stampa straniera, re23


stano uno degli episodi più rilevanti della resistenza indiana canadese. Il documentario riceve 18 premi internazionali. Allo stesso tema la regista dedica altri tre lavori: My Name is Kahentiiosta (1995), dove parla di una giovane mohawk arrestata in seguito agli scontri; Spudwrench – Kahnawake Man (1997), infine, ritrae Randy Horne, un mohawk che lavora come operaio siderurgico. Our Nationhood (2003) documenta invece l'uso che i Mi'kmaq fanno delle proprie risorse naturali.

Atanarjuat, il primo film inuit Quanto successo potrebbe avere un film in lingua inuit (eschimese) che dura tre ore, con sottotitoli nella lingua dello spettatore? Pochissimo, si direbbe. Eppure un film come questo ha ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi: non solo è stato premiato al 54° Festival di Cannes (2001), ma anche a tante altre manifestazioni analoghe, da Edimburgo a Toronto, da Gent a San Diego. Stiamo parlando di Atanarjuat, il primo film inuit che è stato distribuito nel normale circuito cinematografico. Anzi, per la precisione si tratta del primo film scritto, prodotto, diretto e interpretato da eschimesi, in maggioranza non professionisti. Il lungometraggio è stato diffuso in vari paesi europei, ma purtroppo non in Italia. Lo spettatore medio, abituato a film ambientati in altri contesti geografici, associa gli Eschimesi a vecchie pellicole di sapore etnografico come Nanook of the North (Nanuk l’eschimese, 1922) di Robert J. Flaherty. Atanarjuat: The Fast Runner (questo è il titolo originale) non ha niente a che vedere con questi stereotipi datati. La lavorazione, come si può immaginare, è stata tutt’altro che facile, visto che con la bassa temperatura (25-30 gradi sottozero) il teleobiettivo si congelava spesso. Per girare il film sono stati necessari sei anni, ma in realtà si tratta di un progetto concepito attorno alla metà degli anni Ottanta. Non è un caso che un film come questo sia nato proprio fra gli Inuit: fra tutti i popoli autoctoni, infatti, gli uomini dei ghiacci sono quelli che hanno recepito con maggiore curiosità le innovazioni tecnologiche, stimolati da un ambiente naturale che le rendeva necessarie alla sopravvivenza. Diretto da Zacharias Kunuk, un regista inuit con una lunga esperienza, Atanarjuat è stato girato a Igloolik, nel Nunavut, la provincia del Canada subartico abitata in prevalenza da inuit. Il film si basa su una leggenda che è stata tramandata oralmente da otto anziani, dopodichè è stata trascritta dal soggettista, Paul Apak Angilirq, che purtroppo è morto di cancro prima che il film fosse terminato. La storia, ambientata nel sedicesimo secolo, racconta lo scontro fra il protagonista Atanarjuat e Oki, divisi dall'amore per la stessa donna. Zacharias Kunuk è originario di Igloolik. Prima di dedicarsi al cinema faceva lo scultore. Nel 1981, quando vide per la prima volta una cinepresa, capì che il cinema sarebbe stato la sua vita. Così vendette l'attrezzatura di scultore e con il ricavato acquistò la prima videocamera. Negli anni successivi ha lavorato con l'Inuit Broadcasting Corporation, la prima compagnia televisiva inuit. Atanarjuat non è nato per caso. Dietro il film ci sono anni di lavoro, ma soprattutto c’è la Igloolik Isuma Productions, la casa di produzione indipendente fondata da Kunuk, che utilizza tutti i media: dal video alla televisione, dal cinema a Internet. In questo modo vuole favorire lo sviluppo economico e culturale della comunità eschimese. Kunuk ha realizzato molti altri lavori, fra i quali i film Before Tomorrow (2008), Searchers (2016) e il cortometraggio Home (2011). Nel 2017 è stato invitato a diventare membro dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS, l’organizzazione professionale che assegna il Premio Oscar) insieme ad Alanis Obomsawin ed Andrew Okpeaha MacLean. Quest'ultimo è un regista inuit dell'Alaska che ha già realizzato vari lavori, fra i quali On the Ice (2011) e Feels Good (2016). Tutto questo dimostra che i registi indigeni sono usciti dalla marginalità. Giovanna Marconi Uno dei riconoscimenti più importanti che le vengono attribuiti è la retrospettiva integrale organizzata dal Museum of Modern Art di New York (14-26 maggio 2008). La regista introduce i propri lavori e ne discute con alcuni esperti. Negli stessi giorni riceve il Governor General's Performing Arts Award, uno dei massimi riconoscimenti federali. Trick or Treaty? (2014), dedicato alla spinosa questione dei trattati, è la prima opera di un regista indigeno che viene proiettata al Festival internazionale del cinema di Toronto. Il documentario viene premiato al Sundance Film Festival, con il quale la regista collabora più volte come membro della giuria. L'attività di Alanis Obomsawin è molto intensa, ma non si esaurisce nel cinema. Dai primi anni Novanta, infatti, l'artista si esprime anche attraverso l'incisione e la stampa. Un'ampia scelta di questi lavori viene esposta all'Open Studio di Toronto nel 2015. Al tempo stesso non dimentica la 24


vecchia passione per la musica. Il 12 novembre 2017 si esibisce a Utrecht, nel contesto del festival Le Guess Who?, dove esegue le canzoni di Bush Lady e due brani inediti insieme a un quintetto cameristico che riproduce la strumentazione originaria del disco uscito nel 1984. Il cinquantesimo documentario, Our People Will Be Healed (2017), è dedicato alla Norway House, una comunità cree del Manitoba che rappresenta un modello di sviluppo sociale e culturale. In altre parole, un'esperienza lontana anni luce dagli stereotipi che vedono nei popoli amerindiani una realtà residuale piagata dall'alcool e dalla povertà. In mezzo secolo di attività Alanis Obomsawin ha dimostrato che la settima arte può essere un mezzo per abbattere i luoghi comuni costruiti dal cinema, dalla televisione e dalla stampa. Ma anziché rimpiazzarli con rabbiosi proclami da agit-prop, la regista abenaki ha scelto la via più naturale e più autentica: quella di documentare la realtà. Ha lasciato che a parlare fossero le comunità, le persone, i luoghi, i fatti. In questo modo ha ricomposto una storia dimenticata, talvolta addirittura ignota. Col suo contributo inestimabile ha riaffermato che la memoria non è il privilegio di pochi, ma un diritto di tutti. Bibliografia Evans M. R., The Fast Runner: Filming the Legend of Atanarjuat, University of Nebraska Press, Lincoln (NE) 2010. Lewis R., Alanis Obomsawin: The Vision of a Native Filmmaker, University of Nebraska Press, Lincoln (NE) 2006.

A sinistra: Zacharias Kunuk e Alanis Obomsawin; a destra: Kunuk premiato a Cannes nel 2001

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Un genocidio senza aggettivi Jesse Staniforth

Per dare ai bambini un'istruzione adeguata dobbiamo separarli dalle loro famiglie. Qualcuno dirà che questo è un metodo spietato, ma se vogliamo civilizzarli non abbiamo altra scelta. Hector-Louis Langevin, Ministro dei Lavori Pubblici, cofondatore del Canada, 1883 Probabilmente la conclusione più discutibile alla quale è arrivata la Truth and Reconciliation Commission (TRC) è quella secondo la quale il sistema dei convitti per indigeni costruito dal Canada avrebbe realizzato un "genocidio culturale". Questo presuppone che il sistema fosse stato concepito per distruggere delle culture e non degli esseri umani, ma la realtà è molto diversa. L'aggettivo culturale indica che queste misure non erano disumane, ma semplicemente sbagliate. Questo termine diplomatico ha già allarmato coloro che rifiutavano di ammettere che il nostro paese avesse commesso un genocidio, seppur temperato da un aggettivo riduttivo. La nostra storia li ossessiona. Il sistema scolastico in questione, sebbene non avesse l'obiettivo dichiarato di uccidere i membri delle comunità indigene, si è macchiato di crimini che rientrano nella fattispecie prevista dalla Convenzione sul genocidio: (b) Cagionare seri danni fisici o mentali ai membri del gruppo; (c) Infliggergli deliberatamente delle condizioni che causino la sua distruzione fisica totale o parziale; (e) Trasferire forzatamente i bambini del gruppo a un altro gruppo. Certo, il governo canadese non ammassava i bambini indigeni in treni diretti verso campi di sterminio, né li costringeva a compiere marce estenuanti per poi ucciderli a colpi di pistola o di fucile. Nonostante questo, non è colpevole di "genocidio culturale", ma di un genocidio vero e proprio. I bambini venivano strappati alle famiglie, talvolta sotto la minaccia delle armi, e rinchiusi in collegi remoti dai quali non potevano fuggire. Talvolta venivano anche ammanettati. Nei convitti venivano sottoposti ai lavori forzati e a un sistema educativo concepito per cancellare la loro identità culturale. Questo desiderio di distruggere delle culture sembra essere il motivo che legittima l'uso dell'aggettivo culturale davanti a genocidio. Un altro motivo, forse, è che molti sono attaccati in modo caparbio e infantile all'idea che il Canada sia sempre stato un paese giusto, per cui fanno fatica ad ammettere che abbia realizzato un genocidio che è durato circa un secolo. I convitti per indiani (residential schools) nacquero dalla convinzione che i bambini indigeni fossero strutturalmente inferiori agli altri bambini, per cui venivano sottoposti al lavoro coatto come se fossero animali. Per lo stesso motivo venivano intenzionalmente malnutriti e alloggiati in luoghi sporchi e angusti. Quando si ammalavano a causa di questo trattamento non venivano curati adeguatamente e morivano come mosche. Il governo canadese era ben contento di sbarazzarsi di questi bambini che riteneva inferiori. All'inizio del Novecento smise perfino di contare quanti ne morissero: il rapporto finale della Truth and Reconciliation Commission, istituita dal governo nel 2008, sostiene che questo fu fatto perché i frequenti decessi avrebbero potuto compromettere l'immagine di paese giusto. Il governo canadese non smise di uccidere, ma soltanto di documentare quanti ragazzi uccideva. E quando questi morivano, il più delle volte non venivano neanche informate le famiglie, non si annotava il motivo della loro morte e non si scriveva il loro nome sulle tombe. Fra tutte queste pratiche disumane, quale merita di essere mitigata con l'aggettivo culturale? Non parlo della violenza sessuale, che era pratica corrente, anche se non rientrava nelle direttive 26


federali. Ma tutto il resto era espressione di una chiara volontà genocida. Essendo un giornalista canadese che si occupa di questioni indigene so bene che la storia di questo paese è ricca di tragedie occulte. Il mio bisnonno fu decorato al valore a Vimy (battaglia della Prima guerra mondiale, 912 aprile 1917, ndt) mentre i ragazzi indigeni venivano strappati alle loro famiglie e rinchiusi nei convitti ideati per annientare la loro cultura. La storia di un paese è troppo complessa perché la si possa amare incondizionatamente. Io non sono così attaccato al mio paese da arrampicarmi sugli specchi per difendere questo genocidio. A quelli che lo fanno vorrei chiedere una cosa: se ammetteste che il Canada è colpevole di questo crimine contro l'umanità, come cambierebbe il vostro rapporto con il vostro paese, con voi stessi e con i popoli indigeni? Oggi, dopo la fine dei lavori della Truth and Reconciliation Commission, il genocidio dei popoli indigeni fa ufficialmente parte della nostra storia. Questo ci riguarda tutti: coloro che accettano di confrontarsi con questa tragedia e coloro che preferiscono negarla. Si tratta di fatti che non possono cambiare, perché fanno parte del passato. Sono soltanto i canadesi che possono cambiare - e dovranno farlo – per riconoscere questi tragici fatti della propria storia. Bibliografia Austin A. J., Scott J. S. (a cura di), Canadian Missionaries, Indigenous Peoples. Representing Religion at Home and Abroad, University of Toronto Press, Toronto (ON) 2005. Giago T., Children Left Behind. The Dark Legacy of Indian Mission Boarding Schools, Clear Light Books, Santa FE (NM) 2006. Igloliorte H. (a cura di), We Were So Far Away. The Inuit Experience of Residential Schools, Legacy of Hope Foundation, Ottawa (ON) 2010. Métis Nation of Alberta, Métis Memories of Residential Schools: A Testament to the Strength of the Métis, Métis Nation of Alberta, Edmonton (AB) 2004. Milloy J., A National Crime. The Canadian Government and the Residential School System, 1879 to 1986, University of Manitoba Press, Winnipeg (MB) 1999, n. ed. 2017. Qikiqtani Truth Commission, Thematic Reports and Special Studies 1950-1975, Qikiqtani Inuit Association, Iqaluit (NU) 2014. Sellars B., They Called Me Number One. Secrets and Survival at an Indian Residential School, Talonbooks, Vancouver (BC) 2013. Trafzer C. E. et al. (a cura di), Boarding School Blues: Revisiting American Indian Educational Experiences, University of Nebraska Press, Lincoln (NE) Nebr2006. Truth and Reconciliation Commission of Canada, They Came for the Children. Preliminary Report, Truth and Reconciliation Commission of Canada, Winnipeg (MB) 2012. http://www.myrobust.com/websites/trcinstitution/File/2039_T&R_eng_web[1].pdf

Una classe della Cross Lake Indian Residential School, Cross Lake (Manitoba), 1940

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Io non festeggio il centenario del Canada Geswanouth Slahoot (Chief Dan George)

Noto al grande pubblico per film come Il piccolo grande uomo (1970) e Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), il capo salish Geswanouth Salhoot, meglio conosciuto come Chief Dan George (1899-1981), scrisse il testo Lament for Confederation in occasione del centenario del Canada. Lo lesse a Vancouver il 1º luglio 1967. Canada, da quanto ci conosciamo? Cento anni? Certo, ma anche molti di più. E oggi, mentre tu festeggi i tuoi cento anni, io non posso unirmi alla tua festa, perché penso a tutti gli indiani che vivono in queste terre. Perché ti ho conosciuto quando le tue foreste erano mie; quando mi dissero cosa mangiare e come vestire. Ti ho conosciuto quando vedevo i tuoi pesci che saltavano e ballavano al sole, quando i fiumi dicevano "Vieni e nutriti con l'abbondanza che ti offro". Ti ho co-nosciuto nella libertà del vento. E il mio spirito, come il vento, vagava per le tue dolci terre. Ma in questo secolo che è passato ho visto sparire la mia libertà come il salmone che si getta nel mare. Le strane usanze dell'uomo bianco, che per me erano incomprensibili, mi hanno stretto fino a soffocarmi. Quando ho lottato per difendere la mia terra e la mia casa mi hanno chiamato selvaggio. Quando non ho capito il loro modo di vivere e l'ho rifiutato mi hanno definito pigro. Quando ho cercato di governare il mio popolo mi hanno privato della mia autorità. La mia nazione non compare nei tuoi testi scolastici, per i quali è poco più importante del bisonte che correva per le praterie. Sono stato ridicolizzato dal tuo cinema e dal tuo teatro, e quando bevevo la tua acqua di fuoco mi ubriacavo – mi ubriacavo tanto. E dimenticavo. Oh Canada, come posso celebrare questo centenario insieme a te? Devo ringraziarti per le riserve che mi hai dato in cambio delle mie belle foreste? Per i pesci dei miei fiumi che hai messo in scatola? Per avermi tolto il mio orgoglio e la mia autorità anche fra la mia gente? Per avermi tolto la volontà di ribellarmi? No! Devo dimenticare tutto quello che è stato. Oh Dio! Ridammi il coraggio dei vecchi capi. Lasciami combattere con quello che mi circonda. Lascia che possa dominare il mio ambiente come una volta. Lascia che accetti questa nuova cultura e che la utilizzi per risollevarmi e andare avanti. Oh Dio! Come il tuono di ieri io risorgerò dal mare; userò gli strumenti dell'uomo bianco – la sua cultura, le sue capacità – per trasformare il mio popolo nella parte più orgogliosa della tua società. Prima di raggiungere i grandi capi che mi hanno preceduto io vedrò tutto questo. Vedrò i nostri capi sedere nei tribunali e negli uffici governativi, dove saranno guidati dal retaggio culturale della nostra grande terra. Così spezzeremo le barriere dell'isolamento, e i prossimi cento anni saranno i più grandi delle nostre tribù e delle nostre nazioni.

Chief Dan George (a destra) e Dustin Hoffman nel film Il piccolo grande uomo 28


Suoni, immagini e parole Materiali sui popoli indigeni del Canada Film e documentari Angry Inuk, regia di Alethea Arnaquq-Baril, Canada, 2016. Arctic Defenders, regia di John Walker, Canada, 2013. Atanarjuat, The Fast Runner, regia di Zacharias Kunuk, Canada, 2001. Before Tomorrow, regia di Marie-Hélène Cousineau e Madeline Ivalu, Canada, 2008. Broken promises: the High Arctic relocation, regia di Patricia Tassinari, Canada, 1995. The Experimental Eskimos, regia di Barry Greenwald, Canada, 2009. Gufo Grigio, regia di Richard Attenborough, Canada, 1999. Kanehsatake: 270 Years of Resistance, regia di Alanis Obomsawin, Canada, 1993. Maïna, regia di Michel Poulette, Canada, 2013. Manto nero, regia di Bruce Beresford, Canada, 1991. Martha of the North, regia di Marquise Lepage, Canada, 2009. Nanook of the North, regia di Robert J. Flaherty, Stati Uniti, 1922 (ed. it. rest. Nanuk l'eschimese, 2010). Ombre bianche, regia di Nicholas Ray, Francia-Italia-Gran Bretagna, 1960. Qapirangajuq: Inuit Knowledge and Climate Change, regia di Zacharias Kunuk e Ian Mauro, Canada, 2010. Richard Cardinal: Cry from a Diary of a Métis Child, regia di Alanis Obomsawin, Canada, 1986. Searchers (Maliglutit), regia di Zacharias Kunuk e Natar Ungalaaq, Canada, 2016. Tkaronto, regia di Shane Belcourt, Canada, 2007. We Were Children, regia di Tim Wolochatiuk, Canada, 2012. Fumetti AA. VV., Arctic Comics, Renegade Arts, Canmore (AB) 2016. Brown C., Louis Riel: A Comic-Strip Biography, Drawn and Quarterly, Montreal (QC) 2003. Hellman M., Nunavik, Pow Pow, Montreal (QC) 2016. Robertson D. A., Will I See?, HighWater Press, Winnipeg (MB) 2016. Vianello L., Il grande nord. Storie di indiani e Giubbe Rosse, Segni d'autore, Roma 2016. Musiche Guibeault N., Riel: Plaidoyer Musical/Musical Plea, Ambiances Magnétiques, 1999. Hatzis C., Going Home Star. Truth and Reconciliation, Centrediscs, 2015. Ho V., The Shaman/Arctic Symphony, Centrediscs, 2017. Romanzi Boyden J., Nel buio che precede l'alba, Sonzogno, Milano 2006. Erdrich L., Il giorno dei colombi, Feltrinelli, Milano 2014. Erdrich L., La casa futura del Dio vivente, Feltrinelli, Milano 2014. Nappaaluk M., Sanaaq: An Inuit Novel, University of Manitoba Press, Winnipeg (MB) 2004. Ruesch H., Paese dalle ombre lunghe, Garzanti, Milano 1972. Theriault Y., Agaguk, l'ombra del lupo, Giunti, Firenze 1993. Vermette K., The Break, House of Anansi Press, Toronto (ON) 2016. Wagamese R., Indian Horse, Douglas & McIntyre, Vancouver (BC) 2012.

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Biblioteca

Fabio Garuti, L'olocausto delle donne. 30 milioni di donne arse sul rogo in oltre 6 secoli di caccia alle streghe, Anguana, Sossano (Vicenza) 2016, pp. 130, € 12. Considerare la caccia alle streghe un genocidio può sembrare sbagliato, o perlomeno discutibile, date le notevoli differenze che li separano. Al tempo stesso, però, è necessario considerare che negli ultimi tempi sono stati proprio gli studiosi del genocidio a occuparsi di questa tragedia dimenticata che ha insanguinato l'Europa per molti secoli. Adam Jones, uno dei massimi esperti della materia, include la caccia alle streghe fra i genocidi nel suo sito www.genercide.org Fra i contributi italiani spicca quello di Fabio Garuti, uno scrittore napoletano che si dedica allo studio di pagine storiche poco note. Sulla caccia alle streghe aveva già pubblicato Le streghe di Benevento. La grande bugia (Anguana, 2014). Il suo nuovo libro ricostruisce in modo sintetico ma non frettoloso la lunga persecuzione che costò la vita a un numero imprecisato di donne. Probabil-mente meno dei 30 milioni denunciati da Garuti, ma questo ha poca importanza. L'autore sottolinea che le accuse mosse dai tribunali ecclesiastici erano animate da una volontà persecutoria diretta contro donne emarginate, non allineate, legate a credenze precristiane. Questo spiega perché spesso le donne che reclamano una soggettività storica si richiamano alle vittime di questo olocausto: tremate, tremate, le streghe son tornate era lo slogan più popolare delle femministe. Un piccolo difetto è l'eccessivo spazio riservato all'elenco di alcune vittime, che occupa circa un terzo del libro. La bibliografia, al contrario, risulta troppo succinta. Ma in pratica si tratta di dettagli che scompaiono davanti alla validità dell'opera. Scritto con appassionata competenza, L'olocausto delle donne stimola una riflessione che va ben oltre la caccia alle streghe in quanto tale: i crimini dell'Inquisizione non hanno rappresentato una parentesi isolata, ma si sono iscritti in un contesto molto più ampio. Il loro vero obiettivo, come nota acutamente l'autore, era quello di "annientare totalmente la componente femminile della società". È lo stesso obiettivo col quale Cirillo di Alessandria fece massacrare Ipazia (415). Oggi, santo e dottore della Chiesa, viene festeggiato il 27 giugno. Se la nostra società non fosse così pesantemente condizionata dalla sudditanza nei confronti del cristianesimo, questa sarebbe apologia di reato. Alessandro Michelucci Andria Fazi (a cura di), Guarda fratellu! Affissu è contestazione in Corsica 1970-1990, Albiana, Ajaccio 2017, pp. 280, € 44. Il profondo cambiamento politico che la Corsica sta vivendo negli ultimi anni trova un complemento essenziale in campo editoriale, grazie alle numerose opere che ricompongono il mosaico di una cultura ricca ma quasi ignota fuori dai confini locali. Uno dei motori principali di questa riscoperta 30


è l'unica università dell'isola, fondata da Pasquale Paoli nel 1765 e riaperta nel 1981 in seguito a imponenti manifestazioni popolari. È proprio in tale contesto che è nata l'idea di realizzare Guarda fratellu!, una mostra di manifesti che coprono il periodo più caldo del nazionalismo isolano (1970-1990). L'iniziativa si deve in particolare ad Andria Fazi, studioso corso fra i più preparati e autore di varie opere, fra le quali spicca La recomposition territoriale du pouvoir : Les régions insulaires de la Méditerranée occidentale (Albiana, Ajaccio 2010). I manifesti riprodotti ci permettono di conoscere i fermenti politici del ventennio suddetto, grazie al quale la Corsica ha potuto ridurre le limitazioni imposte dal centralismo francese. Un ventaglio di temi che spaziano dall'indipendenza alla difesa dell'ambiente, dalla solidarietà con lotte nazionalitarie analoghe all'autonomia. Oltre al valore documentario dell'iniziativa, il volume conferma la vivacità di un ambiente accademico capace di conciliare rigore scientifico e impegno politico. È auspicabile che la mostra venga allestita anche in Italia, dove la storia della Corsica rimane oggetto di un grave disinteresse. Alessandro Michelucci Deborah Paci, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità. L'irredentismo fascista nel mare nostrum (1922-1942), Le Monnier, Firenze 2015, pp. 278, € 21. La maggior parte dei libri sulla Corsica viene pubblicata in Francia. Nel nostro paese, invece, nonostante i legami storici e culturali con quest'isola vicina, l'editoria stenta a dimostrare un certo interesse per le sue vicende politiche e culturali. Un'eccezione particolarmente gradita è Corsica fatal, Malta baluardo di romanità. L'irredentismo fascista nel mare nostrum (1922-1942), libro scritto da Deborah Paci. Il lavoro è ancora più interessante in quanto tratta un tema che la storiografia sul fascismo ha largamente trascurato: il tentativo di annettere terre straniere ritenute "italiane", o comunque legate alla cultura italiana, che Mussolini rivendicò in nome di questi legami. Accanto al caso corso il libro analizza anche quello maltese. Nel primo caso esistevano forti connessioni storiche e linguistiche che invece mancavano nel secondo. Colonia britannica dal primo Ottocento, Malta esprimeva comunque un certo sentimento filoitaliano che fu fortemente ostacolato dalla potenza coloniale. Precisa e ben documentata, l'opera ricostruisce il contesto nel quale si svilupparono gli avvenimenti, mettendo in luce gli argomenti della propaganda irredentista e il fallimento delle due rivendicazioni italiane. Un libro importante che colma un vuoto. Giovanna Marconi Fernando Aramburu, Patria, Guanda, Milano 2017, pp. 640, € 19. Trent'anni di vita e di lotta nei Paesi Baschi raccontati attraverso un grandioso affresco polifonico. Due saghe familiari che si intrecciano con continui salti cronologici descrivendo i silenzi, le paure, le invidie, i ricatti, l'omertà. Al centro della narrazione, costruita con un sapiente montaggio a brevi capitoli, un omicidio che spacca in due la trama e stravolge le vite di tutti i personaggi, diventando il pretesto per scandagliare l'anima più profonda del separatismo armato che ha insanguinato il paese per mezzo secolo. Romanzo ambizioso già nelle dimensioni (oltre 600 pagine), Patria, ultimo lavoro dello scrittore basco Fernando Aramburu, è diventato in poco tempo un vero caso letterario, vincendo premi prestigiosi e spingendo alcuni critici a definirlo nientemeno che il Guerra e pace iberico. Ad appena un anno dalla sua uscita in lingua originale conta già venti ristampe, quasi mezzo milione di copie vendute e una dozzina di traduzioni tra cui quella italiana di Bruno Arpaia. Nessun romanzo aveva raccontato prima d'ora il dramma dell'ETA con tale profondità e lucidità, analizzando la coscienza delle vittime e dei carnefici e rispecchiando la società basca di quegli anni. Fernando Aramburu, già autore di altri romanzi, conosce bene quel mondo perché è nato e 31


cresciuto a San Sebastián, e in gioventù faceva parte di un gruppo di artisti che cercava di ridicolizzare l'ETA usando l'umorismo e la poesia. Da anni vive in Germania, e forse proprio per questo è riuscito ad analizzarlo con la giusta distanza, affrontando con coraggio un tema delicato e controverso. Patria non avrebbe potuto essere concepito prima del 2011 e della definitiva rinuncia alla lotta armata da parte dell'ETA. Soltanto allora, infatti, è stato possibile chiudere il cerchio della memoria e aprire la strada al ripensamento e al perdono, come accade in carcere a uno dei protagonisti: "A poco a poco avevano smesso di risuonare slogan, argomenti, tutti quei rottami verbali/sentimentali con i quali per lunghi anni aveva oscurato la propria verità intima. E qual era questa verità? Che aveva fatto del male e aveva ucciso. Per cosa? E la risposta lo riempiva di amarezza: per niente". Riccardo Michelucci Andrea Corsale, Geografia delle minoranze tra Baltico e Mar Nero, Franco Angeli, Milano 2016, pp. 230, € 32. I profondi mutamenti geopolitici che hanno interessato l'Europa nell'ultimo decennio del secolo scorso hanno cancellato l'artificiosa divisione fra "Est" e "Ovest" che era stata la base della guerra fredda. In questo modo ha ripreso forma l'impressionante varietà culturale del Vecchio Continente, fatta di lingue e popoli che molti avevano dimenticato sui banchi di scuola, se non addirittura ignorato. Addentrarsi in questo labirinto non è impresa facile, tanto più che in Italia, data la diffusa ignoranza dell'area in oggetto, quello che si può dare per scontato è veramente poco. A cimentarsi nell'improba fatica è Andrea Corsale, che col suo libro prende in esame una parte consistente dell'Europa centro-orientale, quella compresa fra il Baltico e il Mar Nero. Il volume analizza tre grandi gruppi etnici: Ungheresi, Polacchi e Tedeschi. Popoli che hanno un proprio stato ma che spesso sono anche minoranze più o meno consistenti in paesi confinanti. Opera chiara e documentata, il libro ci stimola a riannodare i legami con quell'Europa dimenticata che è parte integrante della nostra identità culturale. Giovanna Marconi Riccardo Michelucci (a cura di), Bobby Sands. Un'utopia irlandese, Clichy, Firenze 2017, pp. 144, € 7,90. La personalità di Bobby Sands, la sua vicenda personale, la sua militanza e in particolare la sua permanenza nel carcere di Maze, dove avrebbe trovato la morte alla fine di un tragico sciopero della fame, sono stati oggetto di molteplici studi e pubblicazioni. Lo stesso vale per l'intero conflitto nordirlandese, in cui si colloca il percorso umano e politico del patriota originario di Abbots Cross. Tuttavia c'è ancora molto da leggere sia sulla storia di Bobby Sands che su quella dello scontro tra l'Inghilterra e l'IRA, come dimostra questo libro. Il curatore, Riccardo Michelucci, riesce a realizzare un libro che nel contempo soddisfa il bisogno di conoscenza di chi poco o nulla sa di questi argomenti e suscita l'interesse di chi già li conosce, incrociando con efficacia dati, informazioni, documenti, riferimenti bibliografici, brani del diario di Sands ed estratti dei suoi articoli pubblicati sul giornale An Phoblacht - Republican News. L'apertura è affidata ad una ricca sintesi biografica del primo dei dieci martiri di Long Kesh, caduti tra maggio e agosto del 1981 per effetto del loro estremo gesto di lotta per la libertà. A questa segue un'appassionata introduzione del curatore, che si rivolge direttamente a Bobby Sands per ripercorrerne momenti di vita e di lotta, sino quell'ultima sera di febbraio del 1981, prima del definitivo rifiuto del cibo e di oltre due mesi di agonia. Una carrellata di immagini d'epoca annuncia quello che è il cuore del volume, una selezione di 32


scritti di Bobby Sands che vanno dal marzo 1978 al marzo 1981. Sono parole semplici e pesanti, prosa e in qualche caso poesia: la prigione e la prigionia, la resistenza contro il tentativo di "chiudere la finestra della mia mente" e contro le angherie dei carcerieri, le valutazioni sulla situazione politica, le riflessioni sulla vita e sull'esistenza, la memoria e la speranza, i giorni dello sciopero della fame. Le ultime pagine presentano una curata bibliografia essenziale, che accanto alle opere di Sands e ad una selezione di testi in italiano e in inglese comprende un'interessante filmografia. Marco Stolfo Norina Bogatec, Zaira Vidau (a cura di), Una comunità nel cuore dell'Europa. Gli sloveni in Italia dal crollo del Muro di Berlino alle sfide del terzo millennio, Carocci, Roma, 2017, pp. 248, € 29. Un libro interessante che offre una ricca e articolata panoramica della comunità slovena del Friuli e dell'area triestina. Una comunità nel cuore dell'Europa. Gli sloveni in Italia dal crollo del Muro di Berlino alle sfide del terzo millennio, raccolta di saggi a cura di Norina Bogatec e Zaira Vidau, fornisce un quadro completo e aggiornato della realtà storica, geografica, demografica, linguistica, culturale, sociale ed economica della minoranza slovena presente nell'estremo nordest italiano, con un'attenzione specifica per il periodo più recente, caratterizzato da diversi cambiamenti, da nuove prospettive e da alcune contraddizioni. Nella prima parte Sara Brezigar e Gorazd Bajc definiscono il quadro storico; Devan Jagodic si concentra su quello demografico; Zaira Vidau illustra la normativa di tutela, inserita nel contesto europeo da Bojan Brezigar. La seconda sezione, dedicata alla dimensione identitaria, è introdotta da Devan Jagodic. Majda Kaučič-Baša e Roberto Dapit analizzano la situazione linguistica, che varia notevolmente dalla città di Trieste al Carso triestino e dal Goriziano alle Valli prealpine ed alpine della provincia di Udine. Susanna Pertot ne presenta le vicende identitarie, tracciando l'evoluzione della percezione e della definizione di sé ed evidenziando le influenze dei contesti politici e istituzionali dell'ultimo secolo. Segue una serie di contributi che affrontano diversi aspetti della società, in particolare negli ultimi cinque lustri: la produzione culturale e la creatività (Nataša Sosič, Martina Kafol e Nives Cossutta), lo sport con le sue strutture organizzative e la sua narrazione mediatica (Peter Verč), la Chiesa cattolica (Tomaž Simčič), la politica (Zaira Vidau), i servizi sociali e assistenziali (Annamaria Carli Kalc) e l'economia (Sara Brezigar). La terza parte offre alcune testimonianze esterne alla comunità – friulane, italiane e slovene d'oltreconfine – e da conto delle iniziative volte a valorizzare il pluralismo linguistico e culturale di quest'area, in maniera positiva, inclusiva e rispettosa e con spirito squisitamente europeo. Marco Stolfo Marta Federica Ottaviani, Il Reis. Come Erdoĝan ha cambiato la Turchia, Textus, L’Aquila 2016, pp. 362, € 17,50. Autrice di numerosi libri sulla Turchia, in questo nuovo lavoro Marta Federica Ottaviani analizza con acume critico la situazione del paese mediorientale, rivolgendo particolare attenzione alla storia travagliata dell'ultimo decennio, ricco di stravolgimenti ed elementi contraddittori. Attraverso profonda indagine storica del retroterra politico e religioso che ha facilitato l'ascesa di Erdoĝan, l'autrice delinea un percorso variegato e complesso della sua parabola politica. La tesi centrale consiste nella straordinaria coincidenza delle sorti del paese con quelle del suo presidente attuale, in una spiccata personificazione di leader e popolo. Dalle premesse all'ascesa del leader dell'AKP, l'autrice individua le avvisaglie di quelle che si riveleranno delle crepe assai profonde nella sua amministrazione. La svolta autoritaria di Erdoĝan si delinea in tutte le sue sfumature: dalla repressione della libertà di stampa alla lotta contro la magistratura; dalla riforma dell'istruzione al comportamento discontinuo nei confronti della minoranza 33


kurda fino alle opportunistiche quanto ambigue alleanze con Russia e Israele. Il nuovo dittatore che emerge da questo quadro è un leader fuori controllo, che comunque non avrebbe potuto raggiungere il potere odierno senza il concorso della classe politica europea. Marta Ottaviani, che lavora in Turchia da molti anni, è un'attenta osservatrice della realtà politica locale. Giornalismo d’inchiesta, indagine storica corredata da piena consapevolezza del contesto geopolitico, il volume costituisce una fonte di grande valore per la comprensione di un paese che esercita un ruolo strategico all’interno dello scacchiere euro-mediterraneo e mediorientale. Ne emerge un quadro estremamente variegato, conflittuale e non privo di profonde inquietudini. Queste possono sintetizzarsi nelle parole dell'autrice: "Come questa Turchia sempre più autoritaria e radicalizzata impatterà sull’Europa?". Giovanni Ragni David N. Gellner, Sondra L. Hausner, Chiara Letizia (a cura di), Religion, Secularism, and Ethnicity in Contemporary Nepal, Oxford University Press, New York (NY) 2016, pp. 482, £36.99. Questo volume prezioso per chiunque voglia capire il Nepal odierno raccoglie i contributi di alcuni tra i maggiori studiosi del paese himalayano. Il motivo conduttore è il sottile legame che unisce religione, secolarismo e identità etnica nel variegato panorama sociale nepalese. Dopo la fine della guerra civile (1996–2006) e dell'esperimento autocratico di re Gyanendra il paese si è trasformato in repubblica. Questo cambiamento ha riportato in primo piano il problema della varietà culturale che caratterizza il paese, dove almeno sessanta gruppi etnici indigeni, collettivamente definiti janajati adivasi, convivono con le varie caste hindu, oltreché con comunità musulmane e cristiane. La fine dell'induismo di stato ha fatto emergere, le rivendicazioni di specificità delle singole comunità, tutte intente a ritagliarsi una porzione di rappresentanza in parlamento e di territorio grazie all'introduzione del federalismo. Al tempo stesso, ha stimolato una tendenza verso il secolarismo, qui inteso come pari legittimità per tutte le confessioni religiose. Il nesso tra identità etnica e religione risulta di particolare importanza in questo contesto, dato che molte comunità rivendicano con orgoglio la propria estraneità al sistema induista e ne fanno una vera e propria bandiera. È il caso del buddhismo, ad esempio, o delle religioni sciamaniche. Più delicata è invece la posizione dei cristiani, apertamente osteggiati dal sistema, dei musulmani, percepiti come immigrati indiani, e dei gruppi hindu del Terai, le grandi pianure del sud, anch'essi considerati troppo vicini all'ingombrante vicino meridionale. Davide Torri Arthur Manuel, Grand Chief Ronald Derrickson, The Reconciliation Manifesto: Recovering the Land, Rebuilding the Economy, Lorimer, Toronto (ON), pp. 224, $22.95. Il Canada è noto per il suo paesaggio vasto e incontaminato, per le sue squadre di hockey e per l'ottima qualità del suo servizio sanitario. Ma dietro questa bella immagine si nasconde un lato oscuro: la guerra contro i popoli indigeni che il fedele alleato settentrionale degli Stati Uniti conduce da 150 anni. Le conseguenze di questa guerra sono evidenti: gli Indiani controllano appena lo 0.2% dei loro territori originari; 88 delle 90 lingue indigene sono vicine all'estinzione; l'accesso ai beni di prima necessità – acqua, alloggi, istruzione, sanità – non viene ancora garantito a tutti. In Unsettling Canada: A National Wake-Up Call (Between the Lines, Toronto 2015) Arthur Manuel e Ronald M. Derrickson avevano fatto un'analisi critica delle lotte territoriali degli Indiani canadesi. Questo nuovo libro, pubblicato poco prima della morte di Manuel, approfondisce l'esame di tale situazione e fornisce una serie di suggerimenti preziosi per cambiarla. A questo scopo rimette in discussione tutto quello che la maggioranza canadese – e in pratica, il mondo intero – pensa del Canada e dei suoi rapporti con i popoli indigeni. The Reconciliation Manifesto è un libro di storia, ma al tempo stesso è anche una critica puntuale 34


del colonialismo canadese e uno studio delle strategie che Indiani, Inuit e Meticci possono adottare per ottenere i diritti culturali, economici e linguistici che non hanno. Ma il libro va ben oltre e mette sotto accusa il processo di riconciliazione proposto dal Canada. Secondo gli autori, questo non è un sincero tentativo di rompere col passato coloniale, ma somiglia molto al famigerato White Paper del 1969, col quale il governo di Pierre Trudeau cercò di estinguere i diritti dei popoli indigeni per "creare una società più giusta". Niente lascia pensare che il Canada voglia imboccare una strada diversa. Proprio perciò The Reconciliation Manifesto è uno dei libri più libri importanti che siano stati scritti negli ultimi decenni. John Ahni Schertow Tadeusz Lewandowski, Red Bird, Red Power: The Life and Legacy of Zitkala-Ša, University of Oklahoma Press, Norman (OK), pp. 288, $29.95. Tadeusz Lewandowski (a cura di), Zitkala-sa: Letters, Speeches, and Unpublished Writings 18981929, Brill, Leiden 2017, pp. 270, € 115. Gli studiosi dell'Europa centrale e orientale danno un contributo rilevante allo studio delle culture amerindiane. Basti pensare all'ungherese György Ferenc Tóth, autore del libro From Wounded Knee to Checkpoint Charlie: The Alliance for Sovereignty between American Indians and Central Europeans in the Late Cold War (SUNY Press, 2016); a Sergei A. Kan, etnologo russo specializzato nelle culture autoctone dell'Alaska; al polacco Tadeusz Lewandowski, che dedica particolare attenzione alla figura di Gertrude Simmons Bonnin, meglio nota come Zitkala-Ša (1876–1938). Scrittrice, musicista e attivista dakota, la donna ha lasciato un'eredità culturale ampia e multiforme, frutto di un impegno sempre solidamente ancorato alla realtà. Red Bird, Red Power è la prima biografia della scrittrice. Per ricostruirla accuratamente Lewandowski ha attinto a una grande varietà di fonti, incluse alcune lettere e diari dimenticati. Come sottolinea lo studioso polacco, la profondità delle sue analisi e la sua ferma volontà di stimolare un dibattito sulla questione indiana dimostrano che la scrittrice precorse il Red Power di almeno mezzo secolo. Figura complessa e affascinante, Zitkala-Ša scrisse su vari giornali, compreso il celebre Atlantic Monthly; lottò strenuamente contro la pratica abberrante delle residential schools, i convitti istituiti per realizzare l'assimilazione dei popoli indigeni; fondò il National Council of American Indians; scrisse insieme a a William Hanson il libretto e le musiche per la Sun Dance Opera. Zitkala-sa: Letters, Speeches, and Unpublished Writings 1898-1929, complemento ideale del libro precedente, traccia un percorso cronologico dei temi che le erano cari: problemi culturali, territoriali, economici, organizzativi. Entrambi i libri sono opere preziose, ma possiedono anche un valore aggiunto: gli studi sui principali esponenti delle culture amerindiane sono molti, ma in genere sono dedicati a figure maschili, da Russell Means a John Trudell, da Leonard Peltier a Dennis Banks. Lewandowski ci ricorda invece che anche molte donne hanno dato un contributo importante alle lotte indiane. Zitkala-Ša è certamente una delle più rilevanti. La conoscenza di questa figura è indispensabile per capire appieno quello che sono stati gli Indiani nordamericani nel secolo scorso. Proprio per questo è auspicabile che i lavori di Lewandowski vengano tradotti in italiano. Antonella Visconti Clara Orlandi, Le figlie del Sogno aborigene, libere, sottomesse, autodeterminate, Edifir, Firenze 2016, pp. 143, € 14. Per lungo tempo i popoli aborigeni dell'Australia sono stati vittime di discriminazioni e violenze molto gravi. La società australiana ne ha preso coscienza soltanto negli anni Novanta, quando è scoppiato il caso delle stolen generations: migliaia di bambini aborigeni allontanati con la forza dalle comunità originarie, inseriti in famiglie bianche ed educati secondo i canoni della cultura anglo35


sassone. Tra loro c'erano moltissime bambine, schiavizzate e deportate, oppresse fisicamente e psicologicamente, costrette a prostituirsi, private della propria identità culturale e di ogni diritto. Il colonialismo anglosassone aveva imposto il modello di relazione uomo-donna della società europea, in totale contrasto con quello delle culture aborigene. Negli ultimi anni il recupero dell'identità, seppure lento, si sta affermando chiaramente. Al tempo stesso le donne aborigene stanno dando un contributo creativo in campo culturale e sportivo, trasformando il volto della società australiana. In questo bel libro le parti più intense sono proprio quelle dedicate alle donne che hanno deciso di raccontare le violenze di cui sono state vittime. La speranza è che il lento processo di riconciliazione e autodeterminazione, come più volte caldeggiato dal governo australiano, favorisca una vera convivenza. Soltanto allora le donne aborigene saranno veramente libere da un sistema sociale che sentono ancora come ingiusto ed estraneo. Maurizio Torretti

"Kanaky – Nouvelle-Calédonie : situations décoloniales", Mouvements, 91, 3/2017, pp. 180, € 15. Il rilievo mediatico che il separatismo catalano ha ottenuto negli ultimi tempi ha stimolato qualche accenno al referendum sull'indipendenza che si terrà in Nuova Caledonia il 4 novembre 2018. Troppo poco, ovviamente, perché una questione scarsamente nota come questa potesse essere compresa appieno. In ogni caso è evidente che si tratti due casi ben distinti, perché la Nuova Caledonia è inserita in un contesto coloniale del tutto estraneo alla Catalogna. Questo numero monografico di Mouvements, che raccoglie contributi di molti esperti, offre un panorama della questione e ne approfondisce vari aspetti in modo efficace. Diviso in tre sezioni tematiche, il denso fascicolo non si limita a esaminare la situazione dell’arcipelago, ma la inserisce saggiamente in un contesto più ampio. Lo dimostrano il saggio sull'Oceania e quelli su altre colonie francesi (Guadalupa, Mayotte e Reunion). Nel complesso, uno strumento utile e chiaro. Antonella Visconti

INDIGENOUS PEOPLES ATLAS OF CANADA Un'opera in 4 volumi realizzata dalla rivista Canadian Geographic in collaborazione con le principali organizzazioni indigene canadesi Problemi linguistici, culturali, politici, economici e territoriali: un panorama completo e aggiornato del Canada indigeno, arricchito da varie risorse interattive L'uscita è prevista per giugno 2018 www.canadiangeographic.ca

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Nuvole di carta

Frédéric Bertocchini (testi), Michel Espinosa (disegni), Nuria Sayago (colori), Aiò zitelli. Nouveaux écrits 14-18, Albiana, Ajaccio 2016, pp. 48, € 13,50. Questo è il secondo volume della serie Aiò Zitelli, dedicata ai corsi che caddero nei campi di battaglia (e non solo) della Prima Guerra Mondiale. Come nel primo volume, la forma è quella del racconto breve. I protagonisti non sono personaggi famosi, ma persone comuni che si trovano di fronte alle tragedie della guerra. Una guerra combattuta sotto la bandiera francese, che poco li rappresentava, ma che decisero di servire con enormi sacrifici. Nell'albo trovano spazio molti aspetti del conflitto, anche quelli meno eroici, come la diserzione e gli insulti razzisti rivolti ai corsi da ministri o generali francesi. Nell'ultimo racconto, per esempio, viene narrata la storia della nave Balkan, silurata nell'ultimo anno di guerra portando con sé negli abissi 400 persone, tra le quali militari in congedo, civili e intere famiglie. Il risultato è un panorama toccante dell'impegno isolano nel conflitto, un conflitto pagato in modo durissimo: 50.000 mobilitati, 12.000 morti, 25.000 feriti. Alberto Schiatti Fabio Brucini (testi), Lelio Bonaccorso (testi e disegni), Sinai. La terra illuminata dalla luna, Becco Giallo, Verona 2017, pp. 160, € 21. Raramente si può trovare una sintonia maggiore di quella che lega le edizioni Becco Giallo e Lele Bonaccorso. Entrambi fortemente orientati verso temi di rilievo sociale e politico, talvolta inconsueti, confermano questa armonia ideale con Sinai. La terra illuminata dalla luna. L'albo è il frutto del lungo viaggio in Egitto che il disegnatore siciliano ha compiuto insieme a Fabio Brucini. La loro ricerca mette in primo piano i beduini, gli arabi nomadi che vivono da secoli nel Sinai e nel contiguo deserto del Negev, la regione meridionale dello stato israeliano. Ottima la soluzione cromatica, che con una ricca gamma di colori caldi disegna un paesaggio realistico ed efficace. Dotati di uno stile sintetico e di una passione sincera, i due autori ritraggono una cultura estranea in modo coinvolgente attraverso una ricca varietà di testimonianze dirette. L'appendice offre un utile complemento di dati storici e culturali. Giovanna Marconi 37


Cineteca

Raccolto amaro (tit. or. Bitter Harvest), regia di George Mendeluk, Canada, 2017, 103'. Con Max Irons, Samantha Barks, Barry Pepper, Terence Stamp. Per la prima volta il grande cinema internazionale si interessa allo Holodomor, il genocidio per fame che sterminò milioni di contadini ucraini all’inizio degli anni Trenta. A quell'immane tragedia, frutto della collettivizzazione forzata delle terre imposta da Stalin, è dedicato il bel film Bitter Harvest di George Mendeluk, regista canadese di origine ucraina. I due temi centrali attraverso i quali lo sceneggiatore Richard Bachyncky ha cercato di denunciare la tragedia sono l'amore e il potere dell'arte, intesa come tentativo di risvegliare le coscienze. La trama poggia sulla storia d'amore tra il giovane artista Yuri (Max Irons) e Natalka (Samantha Barks), le cui vite vengono travolte dal furore staliniano e dalla collettivizzazione dei terreni agricoli che priva i contadini di ogni mezzo di sostentamento, con le truppe bolsceviche che reprimono senza pietà ogni tentativo di ribellione. Da segnalare la scenografia suggestiva, capace di far entrare lo spettatore in un'Ucraina quasi fiabesca che fa da contraltare alla tragedia. "Come farà il mondo a sapere quello che sta accadendo?" si chiede Stalin in una scena eloquente. All’epoca (1933) gli allarmanti resoconti sulla carestia ucraina trovarono un certo spazio sulla stampa britannica, ma furono quasi del tutto ignorati negli Stati Uniti. In quello stesso anno Washington riconobbe ufficialmente l'URSS. Bitter Harvest è dedicato a tutte le vittime del genocidio, ma contrariamente a ciò che si potrebbe pensare non è stato promosso in alcun modo dal governo ucraino. La realizzazione del film è stata possibile solo grazie ai finanziamenti offerti da Ian Ihnatowycz, un magnate canadese con antenati ucraini che ha voluto impegnarsi per far conoscere al mondo quella che rappresenta ancora oggi il simbolo doloroso dell'identità nazionale ucraina. Riccardo Michelucci Rumble: The Indians Who Rocked the World, regia di Catherine Bainbridge e Alfonso Maiorana, Stati Uniti, 2016, 103'. Molto è stato detto e scritto sul rock americano, ma quello che ha tratto ispirazione nelle culture autoctone è stato sempre trascurato. Questo documentario colma il vuoto mettendo in evidenza che i legami fra questi due mondi sono meno remoti di quello che si creda. Pensiamo al chitarrista mohawk Robbie Robertson, cofondatore del gruppo The Band; a Buffy Sainte Marie, autrice della canzone Up where we belong, resa celebre da Joe Cocker; a molti altri musicisti che trovano spazio in questo bel documentario. 38


Naturalmente non vengono dimenticati gli aristi indigeni, da Floyd We-sterman (Dieci Orsi in Balla coi lupi) a Joanne Shenandoah. Un panorama stimolante e ricco di sorprese, una storia che ci appartiene anche se molti non lo sanno. Alessandro Michelucci

Minoranze e popoli indigeni sullo schermo X London Kurdish Film Festival Londra (Gran Bretagna) 13-22 aprile 2018

XXVIII Présence Autochtone Montréal (Quebec/Canada) 8-15 agosto 2018

www.lkff.co.uk

www.presenceautochtone.ca

New York Forum of Amazigh Film Festival New York (Stati Uniti) 26-27 aprile 2018

XXXXI Festival de cinéma de Douarnenez Douarnenez (Bretagna/Francia) 17-25 agosto 2018

www.nyfaf.com

www.festival-douarnenez.com

XXXIX Celtic Media Festival LLanelli (Galles/Gran Bretagna) 2-4 maggio 2018

XIII Fest. intern. de cine y video de los pueblos indígenas Varie località del Guatemala 1-18 ottobre 2018

www.celticmediafestival.co.uk

www.ficmayab.org

XIV Göttingen Ethnographic Film Festival Coblenza (Germania) 9-13 maggio 2018

XII Native Spirit Film Festival Londra (Gran Bretagna) 12-21 ottobre 2018

www.gieff.de

www.nativespiritfoundation.org

VII Garifuna Indigenous International Film Festival Venice (California/Stati Uniti) 18-27 maggio 2018

XXXXIII American Indian Film Festival San Francisco (California/Stati Uniti 2-10 novembre 2018

http://garifunafilmfestival.com

www.aifisf.com

IV Festival Ciné-Palestine Parigi (Francia) 25 maggio-3 giugno 2018

XVII Cornwall Film Festival Falmouth (Cornovaglia/GB) 9-11 novembre 2018

http://festivalpalestine.paris

http://cornwallfilmfestival.com

XIII Wairoa Maori Film Festival Matariki (Nuova Zelanda) 1-4 giugno 2018

VII Europäisches Minderheiten-Film-Festival Husum (Germania) 14-17 novembre 2018

www.kiaora.tv

www.minority-film.eu

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Gli autori di questo numero Belinda Daniels Dottoranda cree alla University of Saskatoon, fondatrice del Nehiyawak Summer Language Program, animatrice di varie iniziative per la difesa delle lingue indigene canadesi. Erika Dyck Docente di Storia della medicina alla University of Saskatchewan. Ha pubblicato il libro Facing Eugenics: Reproduction, Sterilization, and the Politics of Choice (University of Toronto Press, 2013). Il suo articolo è tratto da Eugenics Archive, che ringraziamo per averci permesso di riprodurlo. Massimiliano Galanti Scrittore, membro del Comitato direttivo dell'associazione Il cerchio (Coordinamento nazionale di sostegno ai nativi americani). Ha pubblicato vari libri, fra i quali La questione indiana. Da Colombo a Obama (Odoya, 2009), ed. agg. La questione indiana. Da Colombo al terzo millennio (Odoya, 2016). Tricia Logan Studiosa meticcia, ricercatrice al National Centre for Truth and Reconciliation, University of Manitoba (Winnipeg). Ha pubblicato numerosi scritti, fra i quali il libro The Lost Generations: The Silent Métis of the Residential School System: Interim Report 2001 (Manitoba Métis Federation, 2001). Arthur Manuel Attivista shuswap. Ha pubblicato Unsettling Canada, A National Wake Up Call: Between the Lines (2015) e The Reconciliation Manifesto: Discovering the Land, Rebuilding the Economy (2017), entrambi scritti con Ronald Derrickson. Il suo articolo è tratto da First Nations Strategic Bulletin, XIV, 8-12, August-December 2016. Giovanni Ragni Laureato in Metodologia delle ricerca etnografica con la tesi Il chjam'è rispondi. Una pratica di canto improvvisato nel contesto corso (Università di Bologna, a. a 2015-2016). Rudolph Rÿser Docente di Storia e Cultura allo Union Institute di Cincinnati, direttore del Center for World Indigenous Studies, direttore del Fourth World Journal. Ha pubblicato Indigenous Nations and Modern States: The Political Emergence of Nations Challenging State Power (Routledge, 2012). John Ahni Schertow Giornalista mohawk, direttore del sito https://intercontinentalcry.org Alberto Schiatti Caporedattore della rivista Dialogo euroregionalista. Geswanouth Slahoot (Chief Dan George) attore, poeta, ha pubblicato due raccolte di poesie, My Heart Soars (Hancock House, 1974) e My Spirit Soars (Hancock House, 1982), entrambe realizzate insieme al pittore Helmut Hirnschall. Roberta Staley Giornalista, scrittrice e regista canadese. Ha diretto il documentario Mightier than the sword, realizzato in Afghanistan, che ha ricevuto numerosi premi. Jesse Staniforth Giornalista canadese. Il suo articolo è tratto da Toronto Star, 11 giugno 2015. Lo ringraziamo per averci permesso di riprodurlo. Davide Torri Specialista di culture indigene asiatiche. Lavora al Cluster of Excellence Asia and Europe in a Global Context (Karl Jaspers Centre for Advanced Transcultural Studies, Heidelberg). Degli altri autori è stata data notizia nei numeri precedenti.

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