la causa dei popoli anno III/nuova serie
numero 6
gennaio-aprile 2018
L'autonomia sepolta nella Costituzione? 1
problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno III/nuova serie
numero 6
ISSN: 2532-4063 Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestatova Novotna, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Centro di documentazione sui popoli minacciati Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927 - 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org
Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico
Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Università di Genova, Walker Connor Middlebury College (†), Alain de Benoist Krisis, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Patrick McCully Black Rock Solar, Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, A. Dirk Moses University of Sydney, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Université d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria TauliCorpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Mercator Media, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations
gennaio-aprile 2018
EDITORIALE Cambiare tutto per non cambiare niente Alessandro Michelucci
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DOSSIER La prima rivoluzione anticolonialista dell'Europa moderna 5 Alessandro Michelucci La lunga strada verso l'autonomia Giovanna Marconi
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La lingua corsa ha bisogno dell'italiano Intervista a Stella Retali-Medori
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L'autonomia sepolta nella Costituzione Andria Fazi
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Una vita per la Corsica Victoria Enfield
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Il paese che vive di musica Giovanna Marconi
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Per l'autonomia della Corsica Intervista ad Alain de Benoist
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Suoni, immagini e parole
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INTERVENTI L'impossibile principio di uguaglianza Natan Sznaider
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Un'iniziativa popolare per le minoranze Thomas Benedikter LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca Autori
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Cambiare tutto per non cambiare niente Li chiamiamo "cugini", ma la maggior parte degli italiani sa poco di loro. Se si escludono i fatti più documentati della politica parigina e qualche ricordo sbiadito della grandeur gollista, per molti italiani la realtà politica e sociale francese rimane ignota. Eppure stiamo parlando di uno stato vicino e affine. A questa ignoranza contribuisce il disinteresse dei mezzi d'informazione. Nessuna delle tante trasmissioni televisive sui temi politici e sociali, per esempio, ha dedicato il minimo spazio ai numerosi mutamenti politici e istituzionali che hanno interessato la repubblica transalpina nel corso dell'ultimo decennio. La rivista Limes, al contrario, ha colto l'importanza del fenomeno e ha dedicato alla Francia uno degli ultimi numeri ("La Francia mondiale", 3/2018). I mutamenti suddetti interessano la politica estera, più visibile al resto del mondo, come quella interna. Nel 2009, sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, il paese è rientrato a pieno titolo nel comando integrato della NATO, che de Gaulle aveva lasciato nel 1966. In questo modo è finita la relativa indipendenza nei confronti degli Stati Uniti che aveva caratterizzato la sua politica per quasi mezzo secolo. Le ricadute di questa scelta sono state immediate, a partire dall'invasione della Libia realizzata insieme alla Gran Bretagna. In pochi anni un partito di tradizione storica come quello socialista è precipitato dai 280 seggi (elezioni presidenziali del 2012) a 31 (2017), mentre il peso politico dei neogollisti (oggi Les Républicains) è stato fortemente ridimensionato. Al contrario En Marche, il partito centrista fondato da Emmanuel Macron, ha ottenuto un successo eclatante alle elezioni legislative del 2017. Con la riforma territoriale che è entrata in vigore il 1º gennaio 2016 le 22 regioni metropolitane sono state sostituite da 13 macroregioni realizzate con accorpamenti che rispondono soprattutto alla logica della produttività. Le cinque regioni extraeuropee, cioè le (ex) colonie, sono rimaste immutate, ma una di queste – la Nuova Caledonia – si prepara al referendum del 4 novembre, che quasi sicuramente sancirà l'indipendenza dell'arcipelago melanesiano. All'inizio del 2018 la Corsica è diventata una collettività territoriale unica, abbandonando la divisione in due dipartimenti (Alta Corsica e Corsica del sud). La giunta regionale che si era insediata alla fine del 2015, la prima guidata da autonomisti e separatisti, ha avanzato una serie di richieste che dessero finalmente corpo all'autonomia vagheggiata da lungo tempo. Parigi si è dimostrata disponibile a trattare, ma per ora accetta soltanto che l'isola venga menzionata nella Costituzione, che viene riformata nell'anno in corso, senza che questo includa il riconoscimento dell'autonomia. I nostri mezzi d'informazione, che hanno sempre trascurato i problemi politici e sociali dell'isola, non sembrano cambiare atteggiamento neanche davanti a novità come queste. Ma il loro disinteresse non deve indurci a pensare che il dossier corse, come si dice in Francia, rappresenti un problema secondario per la politica transalpina. Al contrario, la Corsica è oggetto di un'attenzione politica e mediatica costante. Per essere più precisi, è l'unica regione francese dove le aspirazioni di autonomia (e non di indipendenza, come spesso si legge) rappresentano un tema di costante dibattito per il potere centrale. Non solo, ma è anche la sola regione dove il governo locale è in mano a coloro che perseguono tale obiettivo. A questo si aggiunge un altro dato storico importante: la Corsica è la sola regione francese che si fosse costituita in stato sovrano prima di essere annessa alla Francia. Queste particolarità le conferiscono un valore simbolico altissimo. I mutamenti suddetti disegnano una Francia rinnovata, ma non migliore. Si fa ancora più soffocante, per esempio, l'elemento che costituisce l'essenza più profonda della repubblica transalpina: il centralismo. Ormai questo non viene più lamentato soltanto nelle regioni abitate da minoranze, come la Corsica e la Bretagna, ma anche in molte altre. Il 24 aprile scorso Le Monde ha pubblicato una lettera aperta dove i presidenti di 15 regioni denunciano la nuova centralizzazione imposta da Macron e chiedono un "patto girondino", cioè un insieme di regole che completino il decentramento avviato nel 1982. Dati alla mano, si dimostra che il centralismo rappresenta un ostacolo alla modernizzazione del paese. Secondo il presidente del Senato Gérard Larcher, intervistato da Régions Magazine (aprile 2018), " È chiaro che stiamo assistendo a una nuova centralizzazione". Il centralismo si riflette ancora più pesantemente sulle numerose minoranze linguistiche dell'Esagono (circa il 15% della popolazione). La Francia è l'unico paese che non ha firmato la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, approvata dal Consiglio d'Europa nel 1994. 3
Aveva sottoscritto la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, ma poi il documento è stato rifiutato dal Senato, che ci ha visto un attentato alla Francia "una e indivisibile". Quindi ha ribadito che veniva negato il diritto di cittadinanza a ogni lingua diversa dal francese. Ma al di là di questo, molti non sanno che la repubblica è stata condannata più volte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Eppure continua a essere considerata la "patria" di tali diritti. È l'ora di archiviare questo stereotipo consunto e guardare in faccia la realtà, partendo proprio dalla Corsica. Perché quest'isola non aspira affatto a divenire l'ennesimo staterello dotato di un'indipendenza formale: è pura disinformazione scrivere che Corsica e Nuova Caledonia sono "le spine secessioniste di Macron", come fa Leonardo Martinelli (La Stampa, 4 novembre 2017). Il suo obiettivo è molto diverso: quello di scardinare pacificamente la Francia giacobina. Per chi si oppone davvero al centralismo, quale obiettivo può essere più stimolante, più nobile, più esaltante? Alessandro Michelucci
La Corsica dall'annessione a oggi Sintesi cronologica
30 novembre 1789 La Francia repubblicana annette ufficialmente la Corsica. 4 marzo 1790 Viene creata la regione, con dipartimento unico e prefettura (cioè capoluogo) a Bastia. 17 giugno 1794-19 ottobre 1796 Regno anglocorso: alleanza fra Pasquale Paoli e Giorgio III d’Inghilterra in funzione antifrancese. Di fatto l'isola è un protettorato britannico. 1796-1811 L'isola, riconquistata dalla Francia, è divisa in due dipartimenti (Liamone e Golo). 5 febbraio 1807 Pasquale Paoli muore a Londra. 1811 L'isola diventa nuovamente un dipartimento unico. Il capoluogo viene fissato ad Ajaccio. 15 agosto 1852 L'uso dell'italiano viene proibito: il francese diventa la sola lingua ufficiale. 1896 A tramuntana, diretto da Santu Casanova, è il primo giornale in lingua corsa. 11 novembre 1942 La Corsica viene invasa da truppe italiane e tedesche. Mussolini vuole annetterla facendo leva sul retaggio culturale italiano dell'isola. 4 ottobre 1943 La Corsica è il primo dipartimento francese liberato. 1960 Nascono le regioni: l'isola diventa parte della regione Provenza-Costa Azzurra-Corsica. 8 dicembre 1966 Max Simeoni fonda Arritti, il primo settimanale autonomista corso. 9 gennaio 1970 La Corsica diventa una regione. 1º gennaio 1976 Nuova divisione in due dipartimenti: Alta Corsica, con capoluogo Bastia, e Corsica del Sud, con capoluogo Ajaccio. Questa città rimane anche capoluogo della regione. 26 ottobre 1981 Viene riaperta l'Università di Corte, fondata da Pasquale Paoli nel 1765 e chiusa nel 1769. Per sottolineare questo legame storico viene intitolata a lui: Università di Corsica Pasquale Paoli. 2 marzo 1982 Viene approvata la legge che istituisce uno statuto particolare e crea l'Assemblea regionale. 15-18 giugno 1989 Prime elezioni europee: l'autonomista Max Simeoni viene eletto nella lista dei Verdi. 13 maggio 1991 Viene creata la Collettività Territoriale di Corsica (CTC), che dispone di maggiori poteri. 6 febbraio 1998 Il prefetto Claude Erignac viene ucciso ad Ajaccio da assassini ignoti. Viene incolpato e processato Yvan Colonna, che però si dichiara innocente. 22 gennaio 2002 Il governo amplia i poteri della CTC. 6 luglio 2003 Referendum per il dipartimento unico, dove prevalgono i voti contrari. 17 maggio 2013 L'Assemblea regionale approva la coufficialità della lingua corsa. 30 marzo 2014 L'autonomista Gilles Simeoni viene eletto sindaco di Bastia. 13 dicembre 2015 Gilles Simeoni viene eletto presidente della Collettività Territoriale. La nuova maggioranza è formata da autonomisti e separatisti. Jean-Guy Talamoni (Corsica Libera, separatista) è il nuovo presidente dell'Assemblea regionale. 10 dicembre 2017 Gilles Simeoni viene rieletto presidente della Collettività Territoriale. 1º gennaio 2018 La Corsica torna a essere una regione con dipartimento unico. 18 gennaio 2018 Wanda Mastor, docente di Diritto pubblico all’Università di Tolosa, presenta alla CTC un progetto di autonomia regionale.
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La prima rivoluzione anticolonialista dell'Europa moderna Alessandro Michelucci Siamo còrsi per nascita e sentimento ma prima di tutto ci sentiamo italiani per lingua, origini, costumi, tradizioni e gli italiani sono tutti fratelli e solidali di fronte alla storia e di fronte a Dio… Come còrsi non vogliamo essere né schiavi né "ribelli" e come italiani abbiamo il diritto di trattare da pari con gli altri fratelli d'Italia… O saremo liberi o non saremo niente… O vinceremo con l’o-nore o soccomberemo con le armi in mano... La guerra con la Francia è giusta e santa come santo e giusto è il nome di Dio, e qui sui nostri monti spunterà per l’Italia il sole della libertà. Pasquale Paoli, Napoli, 1750 Attorno alla metà del diciottesimo secolo la vita culturale e politica europea viene scossa da una novità epocale: la prima costituzione democratica dell'era moderna. Il fatto più sorprendente è che questa non veda la luce in uno dei paesi che guidano la politica continentale, come la Francia o la neonata Gran Bretagna, ma in un'isola ignota che sta lottando per liberarsi da oltre quattro secoli di dominio genovese: la Corsica. La costituzione di Pasquale Paoli (1755) è erede diretta di quella che il padre Giacinto ha emanato nel 1735, prima del breve regno di Theodor von Neuhoff (aprile-novembre 1736), un avventuriero tedesco che si era fatto eleggere "re di Corsica". Ma a differenza del padre il giovane rivoluzionario corso costruisce un vero stato. Organizza l'esercito e la marina; fonda Isula Rossa (IleRousse) per avere un porto in alternativa a Calvi, che è rimasta sotto il dominio genovese; usa metodi draconiani per sradicare la pratica della vendetta diffusa nelle faide interfamiliari; fonda l'università di Corte (1765), dove l'insegnamento viene impartito gratuitamente in italiano. Pasquale Paoli, che poi verrà definito u babbu di a patria, trasforma la colonia genovese in un originale laboratorio di democrazia che suscita l'ammirazione del mondo politico e culturale europeo: dalla Toscana alla Polonia, dalla Gran Bretagna alla Russia. Bastano pochi anni perché lo sconosciuto generale corso si trasformi in una leggenda vivente. Il suo nome si diffonde nei salotti, nelle corti, nei circoli politici e letterari. L'interesse per l'isola, che risale ai tempi più antichi, si sposta così dal terreno geografico-naturalistico a quello politico. Uno dei primi stranieri che colgono appieno l'importanza di Pasquale Paoli è James Boswell, che si reca nell'isola per conoscerlo. Il viaggiatore scozzese manifesta la propria ammirazione per il padre della Corsica indipendente in numerosi scritti, il più celebre dei quali è An Account of Corsica, The Journal of a Tour to That Island; and Memoirs of Pascal Paoli (tr. it. Viaggio in Corsica, Sellerio, 1989). Boswell torna in Gran Bretagna e inizia a promuovere la causa corsa con grande entusiasmo, creando un terreno favorevole che segnerà profondamente il futuro dell'isola. Federico II di Prussia e Caterina II di Russia manifestano apertamente la propria ammirazione per Paoli. Goethe lo conosce a Francoforte nel 1769 e ne rimane affascinato. Vittorio Alfieri gli dedica la tragedia Timoleone, pubblicata per la prima volta nel 1777 e rielaborata fino al 1789. Anche in Francia, dove si sta preparando la Rivoluzione, il suo esperimento politico attira l'attenzione del mondo politico e culturale. "Qualcosa mi dice che un giorno quest'isola sbalordirà l'Europa" scrive Jean-Jacques Rousseau nel Contratto sociale (1762). Nel 1765 il filosofo ginevrino scrive il Progetto di costituzione per la Corsica, che gli è stato richiesto l'anno prima da Matteo Buttafuoco, uno dei più stretti collaboratori di Paoli. "Toute l'Europe est corse!" scrive Voltaire il 18 novembre 1768 in una lettera alla nipote Marie Louise Denis. Purtroppo, però, quest'ammirazione non si traduce nel sostegno politico che Paoli sta cercando: 5
nessuno stato riconosce la sua Corsica indipendente. Al contrario, la collocazione geografica dell'isola stimola gli appetiti delle potenze imperiali. In particolare della Francia, che nel 1738 è entrata in campo per aiutare l'agonizzante repubblica genovese a reprimere i moti isolani. Parigi è già interessata alla Corsica da molto tempo, ma ora ancora di più, dato che sta cercando di ricostruire il proprio impero. Pochi anni prima, con il Trattato di Parigi (10 febbraio 1763), la monarchia transalpina ha perduto tutte le colonie nordamericane (la cosiddetta Nouvelle France) a vantaggio della corona britannica. Al tempo stesso ha dovuto abbandonare alcuni possedimenti del subcontinente indiano. Questo spiega perché l'isola riveste un'importanza centrale: "Credo di poter dire che la Corsica è più utile alla Francia di quanto lo fosse il Canada" scrive il duca di Choiseul in un rapporto a Luigi XV. La monarchia raggiunge il proprio obiettivo il 15 maggio 1768, firmando un trattato col quale Genova le cede temporaneamente la sovranità sull'isola. L'accordo specifica più volte che questa sovranità deve intendersi come cauzione delle spese militari sostenute dalla monarchia. In realtà la Francia manifesta subito la chiara intenzione di annettere l'isola. Pochi giorni dopo due battaglioni francesi raggiungono il porto di Ajaccio. Alla fine di luglio inizia la guerra. Nei primi mesi l'esercito corso si rivela superiore: il 9 ottobre, dopo due giorni di scontri a Borgo, i francesi guidati da Louis de Marbeuf sono costretti a capitolare. Nelle settimane successive le truppe paoline si confermano superiori, tanto che a Parigi si valuta l'ipotesi di rinunciare alla conquista dell'isola. Nel 1769, però, la situazione si ribalta. La mattina dell'8 maggio i due eserciti si scontrano a Ponte-Novo. I paolisti si battono strenuamente, ma la superiorità numerica degli altri è schiacciante: il giorno dopo i corsi vengono sconfitti. È la fine. In questo modo tramonta una delle esperienze democratiche più sincere e più originali dell'Europa moderna.
L'altra vita di Napoleone In Italia, nonostante la vasta letteratura dedicata a Napoleone, l'analisi storica che lo riguarda è sostanzialmente limitata alla seconda parte della sua vita, quella che va dal colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) alla morte (5 maggio 1821). In altre parole, quella del grande conquistatore che combatte ad Austerlitz, a Trafalgar, a Waterloo. Quasi metà della sua vita rimane in ombra. Ma in Francia, come si può immaginare, i suoi anni giovanili non vengono dimenticati. Lo storico francese Jean Tulard, uno dei maggiori specialisti dell’epoca napoleonica, ha detto che "non si può capire la personalità di Napoleone senza considerare le sue origini". Napoleone Bonaparte nasce ad Ajaccio il 15 agosto 1769. Il padre Carlo è un fiero indipendentista: pochi mesi prima (8-9 maggio) ha combattuto a Ponte-Novo nella battaglia che ha segnato la sconfitta definitiva della Corsica paolina. Il giovane Nabulione (così viene chiamato) assimila questo patrimonio ideale fin dai primi anni di vita. A 9 anni parte dall'isola e si stabilisce al collegio di Autun, che lascia pochi mesi dopo per la scuola militare di Brienne. Essendo un ardente sostenitore di Paoli, esule in Gran Bretagna, viene malvisto dai commilitoni. Nel 1784 lascia Brienne ed entra alla scuola militare di Parigi. Negli anni successivi il giovane ufficiale scrive numerose lettere dove manifesta apertamente la propria ammirazione per Pasquale Paoli e una fiera avversione per la Francia. Così i Corsi sono riusciti, seguendo tutte le leggi della giustizia, a liberarsi del giogo genovese, e possono fare lo stesso con quello francese (26 aprile 1786). Voi francesi, non contenti di aver razziato tutto quello che ci era caro, avete anche corrotto i nostri costumi (3 maggio 1786). Nei primi mesi del 1789 scrive al Lorenzo Giubega, padrino al suo battesimo, definendo la dominazione francese "la tirannia più orribile". Ma il testo nel quale manifesta più chiaramente la propria ammirazione per Paoli è la lettera che gli scrive da Auxonne il 12 giugno dello stesso anno (vedi pagina 7). Il 17 luglio 1790 Paoli arriva a Bastia proveniente da Parigi, dove è stato acclamato come precursore della Rivoluzione. Napoleone è fra coloro che lo accolgono. Ma l'anno successivo emergono i primi attriti. I due si allontanano sempre più, fino alla rottura definitiva che si consuma nel 1793. Giovanna Marconi Paoli lascia l'isola e ripara a Londra, dove viene ospitato dal re Giorgio III. Fra i due, comunque, non mancano i contrasti: la sincera fede democratica del rivoluzionario corso non può conciliarsi con i metodi della monarchia britannica, che accetta di dare asilo al primo in funzione antifrancese. L'esilio londinese, comunque, amplifica ulteriormente la notorietà di Paoli. In quegli anni il padre 6
della Corsica indipendente entra in contatto con Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, che trovano in lui un ispiratore e un maestro. Ma la Corsica non ha dimenticato il proprio eroe. All'epoca Napoleone Bonaparte è ancora un ardente sostenitore di Paoli: Generale, io sono nato mentre la nostra patria stava morendo. Trentamila francesi vomitati sulle nostre coste per annegare nel sangue la nostra libertà, questo fu lo spattacolo orrendo che trafisse i miei occhi. Le grida della gente che moriva, i gemiti degli oppressi, le lacrime della disperazione hanno segnato la mia vita fin dalla culla. Voi lasciaste la nostra isola e con voi perì ogni speranza di libertà; la schiavitù fu il prezzo della nostra sottomissione. Speravo di poter venire da voi a Londra per esprimervi i sentimenti che avete fatto nascere in me, e che al tempo stesso hanno causato la sventura della Patria, ma la distanza me lo impedisce. Con rispetto, generale, resto il vostro umile e obbediente servitore, Napoleone Bonaparte. (Auxonne in Borgogna, 12 giugno 1789). Lo scoppio della Rivoluzione crea le premesse perché l'esilio di Paoli possa finire. Il 30 novembre 1789 viene emanato il decreto che sancisce la definitiva annessione dell'isola: "L'Assemblea Nazionale dichiara che la Corsica fa parte dell'impero francese e che i suoi abitanti sono sottoposti alla stessa Costituzione che regola tutti gli altri francesi". Genova protesta per la violazione del trattato di Versailles, ma invano. Paoli, conscio della forte sintonia fra le due anime rivoluzionarie, quella corsa e quella francese, accetta volentieri che la sua isola diventi parte della repubblica in gestazione: "Siamo più sicuri della nostra libertà in connessione con tante altre provincie; e il panno è più largo" scrive il 29 gennaio 1790 all'abate Andrei, deputato corso alla Convenzione di Parigi. L'Assemblea emana anche un decreto di amnistia nei confronti dei corsi che hanno combattuto contro la monarchia francese. Paoli può quindi lasciare l'esilio londinese e rientrare in Corsica, dove verrà poi eletto presidente della nuova assemblea dipartimentale. Prima di raggiungere la sua isola si ferma a Parigi, dove viene accolto trionfalmente e ossequiato come un precursore della rivoluzione in atto. Il 22 aprile 1790, parlando all'Assemblea, sottolinea questa affinità ideale accettando l'unione della Corsica alla nuova repubblica: Questo è il più bel giorno della mia vita. Io l’ho passata in ricercare la libertà, della quale qui vedo un nobile esempio. Lasciai la mia patria serva; la trovo libera: che più mi resta da desiderare? Sciogliendo i còrsi dalle loro catene, voi gli avete resa l’antica virtù. Ora che io ritorno alla mia patria, non potete dubitare di me; voi che siete stati con me generosi, di me che non sono stato mai schiavo. La mia vita passata, la quale ebbe l’onore della vostra approvazione, è garanzia della mia futura condotta. La mia vita, oso dire, è stata tutta un giuramento alla libertà. Alla costituzione fondata da voi ho già, dunque, prestato giuramento. Ora mi resta di giurare dinanzi alla Nazione, dalla quale sono adottato, e al re che io riconosco: e questo favore chiedo all’augusta Assemblea. Ma la sintonia fra Paoli e i rivoluzionari parigini è destinata a durare poco: appare subito chiaro che il centralismo giacobino non concederà la minima autonomia alle regioni. Il 21 settembre 1792, quando viene proclamata la repubblica, Paoli ha già capito che la libertà e l'uguaglianza promesse dalla "madre di tutte le rivoluzioni" non sono arrivate per tutti. La conferma arriva l'anno successivo, che si apre con l'esecuzione di Luigi XVI, condannato a morte dopo un processo formale. Inizia così il Terrore, che sprofonda la Francia nella violenza più sanguinaria. Paoli rifiuta nettamente questa svolta e denuncia apertamente il nuovo dispotismo. Nello stesso periodo la neonata repubblica decide di invadere la Sardegna. L'organizzazione viene affidata a Paoli, che accetta l'incarico controvoglia. Alla guerra partecipa anche Napoleone Bonaparte. La spedizione ha un esito disastroso e la responsabilità del fallimento viene addossata a Paoli, che non ha potuto raccogliere più di mille e ottocento uomini. A Parigi, intanto, cresce l'ostilità nei confronti della Corsica, accusata di contribuire scarsamente alle finanze repubblicane. Il 7 febbraio la Convenzione nomina tre deputati corsi che dovranno verificare la situazione dell'isola, dove sta crescendo il contrasto fra giacobini e paolisti. Poche settimane dopo, i corsi ostili a Paoli persuadono la Convenzione a dichiararlo "traditore della Repubblica". 7
Paoli e Mandela, la stessa sete di libertà Paragonare figure politiche diverse, o comunque tracciare paralleli storici fra loro, è una prassi antica. Basti pensare alle celebri Vite parallele di Plutarco. È inutile dire che fra la Corsica del Settecento e il Sudafrica del Novecento le differenze superano ampiamente le affinità. Questo, comunque, non ci impedisce di tentare un parallelo fra le due figure più significative dei due contesti: Pasquale Paoli e Nelson Mandela. A molti questa similitudine sembrerà bizzarra. Mandela è noto a tutti, mentre la fama dell'altro è rimasta limitata all'Europa e agli Stati Uniti. Ma bisogna considerare che Paoli, uomo del diciottesimo secolo, non ha potuto godere dell'apparato mediatico che invece ha garantito la notorietà internazionale a Mandela. Non solo, ma l'africano ha beneficiato di una sensibilità collettiva molto più sviluppata, lottando contro una piaga sociale e culturale - il razzismo - che ai tempi di Paoli veniva ampiamente legittimata dal colonialismo. In ogni caso, si tratta di due icone. Paoli incarna la lotta anticolonialista contro Genova e gli ideali della rivoluzione corsa, che anticipa quella francese e dà vita alla prima costituzione democratica dell'era moderna. Mandela rappresenta la lotta contro l'apartheid, legge di stato in Sudafrica durante la seconda metà del Novecento (1948-1994). Ciascuna di queste lotte ha come obiettivo un paese radicalmente diverso: una Corsica nuova liberata dal giogo genovese, un nuovo Sudafrica liberato dalla piaga dell'apartheid. Entrambi esprimono un messaggio universale, tanto da ottenere anche il sostegno di governi che non sono realmente contrari né al colonialismo né al razzismo. Nessuno dei due è quello che oggi si definirebbe un pacifista: i nemici che devono fronteggiare non lo permettono. Se entrambi possono contare su un vasto seguito popolare, altrettanto consistente è il numero di coloro che li guardano con sospetto o con manifesta avversità. La differenza più evidente, invece, è nei risultati. Il leader antirazzista sudafricano è un vincente, anche se questa vittoria gli è costata una lunga prigionia. Il generale corso, figlio di un tempo dove la guerra era il mezzo privilegiato per risolvere le controversie politiche, ha perduto la propria lotta sul campo. Antonella Visconti Nell'isola, intanto, lo scontro fra paolisti e giacobini si fa sempre più duro. La famiglia Bonaparte, finora fedele alleata di Paoli, si schiera con la Convenzione. Napoleone sfugge a un attentato e abbandona la Corsica. La sua casa di Ajaccio viene saccheggiata dai paolisti inferociti, dopodiché l'intera famiglia viene ufficialmente espulsa dall'isola. La rottura fra Paoli e Bonaparte segna l'inizio della rapida ascesa politica e militare del secondo, che nel 1804 verrà incoronato imperatore a Parigi. A questo punto la Corsica ha bisogno di un alleato forte per potersi contrapporre alla Francia. Paoli si rivolge alla monarchia britannica, che accetta di sostenere la nuova rivolta isolana. I rivoluzionari parigini vedono in Paoli l'uomo che non esita ad allearsi con Giorgio III nel tentativo di ripristinare l'indipendenza dell'isola: in altre parole, il primo separatista della Francia repubblicana. Quello che consideravano il precursore della rivoluzione diventa così il peggior nemico. Ma l'effimero regno anglocorso si fonda su presupposti inconciliabili: Paoli si batte per l'indipendenza, mentre Giorgio III agisce in funzione antifrancese con l'obiettivo di annettere l'isola, che di fatto è già un protettorato britannico. Francia e Gran Bretagna, nemici storici, tornano così a scontrarsi. La Corsica, vaso di coccio, ha un'unica prospettiva: quella di essere annessa dal vincitore. Alle battaglie che oppongono le due potenze partecipa anche l'ammiraglio Horatio Nelson, che perde l'occhio destro durante l'assedio di Calvi (17 giugno-10 agosto 1794). Nel 1796 la vittoria francese riconsegna l'isola alla nuova repubblica. U babbu di a patria ripara nuovamente a Londra, dove muore il 5 febbraio 1807. Viene sepolto nella capitale, ma nel 1889 le sue spoglie vengono portate in Corsica e tumulate nel paese natale di Morosaglia. La rivoluzione corsa guidata da Pasquale Paoli (e prima ancora dal padre Giacinto) ha anticipato la più famosa delle rivoluzioni, quella francese. Ma la storia che è stata diffusa nel resto del mondo è molto diversa, perché la grandeur transalpina non avrebbe mai potuto ammettere che la democrazia moderna fosse stata concepita da un "traditore" in un'isola situata a 800 km da Parigi. Per giunta, in una terra aspra e selvaggia abitata da montanari che non conoscevano il francese ed erano lontani anni luce dai canoni europei dell'epoca. In altre parole, oscurare la figura di Paoli era necessario per conferire alla rivoluzione francese il rilievo mondiale che ha oggi. 8
A sinistra: il ritratto di Pasquale Paoli, opera di Richard Cosway (1798), conservato nella Galleria Palatina di Firenze; la targa che si trova a Londra, sulla casa dove Paoli visse durante il secondo esilio londinese (1769-1790); busto di Paoli, opera di Carlo Rivi (1888), situato nei giardini romani del Pincio, fra i 229 busti dedicati ai grandi italiani. Bibliografia AA. VV., Pasquale de' Paoli. La Corse au ceur de l'Europe, Albiana-Musée de la Corse, Ajaccio-Corte 2007. Bertocchini F., Pasquale Paoli, DCL, Ajaccio 2010. Boswell J., Viaggio in Corsica, Sellerio, Palermo 1989. Carrington D. (a cura di), La constitution de Pascal Paoli, 1755, La Marge, Ajaccio 2000. Casanova A. (a cura di), La Corse du jeune Bonaparte. Manuscrits de jeunesse, Albiana, Ajaccio 2010. Cattani T., Teodoro re di Corsica, Bietti, Milano 2002. Cini M. (a cura di), La nascita di un mito: Pasquale Paoli tra '700 e '800, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998. Ettori F., "Pascal Paoli modèle du jeune Bonaparte", Annales historiques de la Révolution française, XXXXIII, 203, janvier-mars 1971, pp. 45-55. Graziani A.-M., Pascal Paoli, Père de la patrie corse, Tallandier, Paris, 2002.
50 anni per i popoli minacciati di tutto il mondo Gesellschaft für bedrohte Völker 1968-2018 Compie mezzo secolo la Gesellschaft für bedrohte Völker, che dal 1968 a oggi ha promosso innumerevoli iniziative per la difesa delle minoranze e dei popoli indigeni di tutto il mondo: dai Kurdi agli Indiani del Nordamerica, dai Rom agli Assiri, dai Ladini agli Aborigeni australiani. Un impegno esemplare che non è mai stato condizionato da motivazioni ideologiche. Oggi l'associazione fondata da Tilman Zülch (nella foto), riconosciuta dall'ONU, ha varie sedi in tutto il mondo: Austria, Bosnia-Erzegovina, Cile, Germania, Lussemburgo, Sudtirolo e Svizzera. La sua rivista Bedrohte Völker-Pogrom è uno strumento informativo indispensabile al quale contribuiscono attivisti ed esperti di tutto il mondo. Auguri!
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La lunga strada verso l'autonomia Giovanna Marconi
Dopo i Romani, la Corsica ha conosciuto diciannove dominazioni diverse, trentasette denominazioni, trentasette rivolte, sette periodi di anarchia. È la storia più tragica del Mediterraneo. Alexandre Sanguinetti, Lettre ouverte à mes compatriotes corses (1980) Travolto dalle inclinazioni filofasciste nate in seguito all'invasione italiana della Corsica (19421943), il nazionalismo isolano viene condannato alla marginalità. I primi tentativi di ricostruirlo risalgono alla fine degli anni Cinquanta. Inizialmente si tratta di iniziative a carattere quasi esclusivamente economico, che reclamano una risposta di Parigi al degrado amministrativo e urbanistico in cui versa l'isola. Le strade sono poche e trascurate, l'assistenza sanitaria è scarsa, molte case sono prive di servizi igienici, non ci sono università. La Corsica è penalizzata anche a livello amministrativo: nel 1960, quando nascono le circoscrizioni regionali, l'isola viene accorpata nella regione Provenza-Costa Azzurra-Corsica. Soltanto dieci anni dopo diventa un'entità amministrativa a se stante. Nello stesso anno (1970) il movimento autonomista vero e proprio rinasce attorno ai fratelli Edmond e Max Simeoni, entrambi medici, che fondano l'Action Regionaliste Corse (ARC). Intanto è già attiva anche l'ala violenta del nazionalismo isolano, come dimostrano gli attentati dinamitardi incruenti firmati da Ghjustizia Paolina e dal Front Paysan de Libération de la Corse. Si tratta comunque di casi marginali e isolati, privi di una vera organizzazione. I fratelli Simeoni, al contrario, privilegiano i metodi legalitari, ma non per questo sono disposti a restare con le mani in mano. Il degrado causato dall’abbandono dello stato centrale non risparmia neanche l'ambiente. Nell'aprile del 1972 scoppia il caso dei fanghi rossi: alcune navi della Montedison, col consenso del governo italiano, scaricano nei pressi di Capo Corso rifiuti tossici generati dalla produzione industriale dell'alluminio. La protesta popolare nasce dai pescatori e si trasforma velocemente in un movimento che include l'intera popolazione locale. L'ARC dei fratelli Simeoni svolge un ruolo determinante. Nel 1974, grazie a questa mobilitazione generale, la Montedison viene condannata. I tempi sono ormai maturi per passare dalle parole ai fatti. Per sottolineare l'intenzione di passare a un'azione più incisiva l'Action Regionaliste Corse cambia nome in Action pour la Renaissance de la Corse. Il 21 agosto 1975, ad Aleria, un gruppo di autonomisti guidato dai due fratelli occupa l'azienda vinicola di Henri Depeille, coinvolta in un caso di sofisticazione alimentare. L'iniziativa è il frutto di un malessere sociale profondo: la recente perdita dell'Algeria (1962) ha determinato il rimpatrio di molti corsi, che Parigi ha favorito in vari modi a scapito della popolazione locale. Depeille è appunto uno di loro. Gli uomini che occupano la Cave Depeille sono armati con dei fucili da caccia, ma non hanno cattive intenzioni: il loro obiettivo è quello di portare all'attenzione generale una situazione intollerabile, che il resto della Francia ignora. Il governo reagisce all'occupazione dell'azienda vinicola in maniera sproporzionata: viene inviato l'esercito e la zona viene sottoposta a un assedio che dura alcuni giorni. Negli scontri muoiono due militari. Edmond Simeoni, regista dell'occupazione, viene arrestato e processato: il Pubblico Ministero non esita a invocare la pena capitale. Migliaia di corsi manifestano il proprio sostegno al leader autonomista. Il processo si chiude con la condanna a cinque anni, ma all'inizio del 1977 Simeoni viene scarcerato grazie agli sconti di pena che la legge francese accorda agli incensurati. Quando lascia la prigione è ormai una leggenda vivente. Non tutti i corsi, comunque, rifiutano la violenza. Alcuni autonomisti delusi, insieme ad altri provenienti dai movimenti separatisti attivi negli anni precedenti, hanno fondato il Fronte Naziu10
nale di Liberazione di a Corsica (FLNC). Il manifesto che la nuova organizzazione terroristica ha diffuso il 5 maggio 1976 dichiara guerra alla Francia e reclama l'indipendenza. I fratelli Simeoni rifiutano questa scelta basata sulla violenza e sulla clandestinità, ribadendo la propria opzione democratica e legalitaria. Questa linea trova espressione nell'Unione di u Populu Corsu (UPC), che Max Simeoni fonda nel 1977. La frattura fra gli autonomisti e i separatisti che hanno scelto la lotta armata è ormai netta. Negli anni successivi i due ambienti intessono stretti legami con le forze politiche europee affini: i primi con vari partiti autonomisti europei (bretoni, gallesi, sardi, etc.), i secondi con i terroristi dell'ETA e dell'IRA e con le rispettive vetrine legali (Herri Batasuna e Sinn Fein). Bisogna però sottolineare che il FLNC non può essere assimilitato a questi movimenti più noti. Nei primi tempi, infatti, i terroristi corsi si limitano a compiere attentati dinamitardi contro edifici che simboleggiano il potere francese, evitando accuratamente di fare vittime. In un secondo momento compiranno degli attentati, ma sempre diretti contro persone singole, senza compiere le stragi tipiche dell'ETA e dell'IRA. È anche per questo che le sue azioni non guadagneranno mai un rilievo mediatico continentale, ma resteranno sostanzialmente limitate alla Francia. Le prime elezioni europee (1989) segnano il successo di Max Simeoni, che viene eletto parlamentare nella lista dei Verdi. Nei cinque anni del suo mandato svolgerà un'intensa azione in difesa delle minoranze europee e dei Kurdi. Fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta appaiono nuovi partiti separatisti: Cuncolta Naziunalista (CN), Muvimentu pe l'Autodeterminazione (MPA) e Accolta Naziunali Corsa (ANC). Il fenomeno riflette altrettante fratture interne al FLNC. Al tempo stesso inizia un feroce regolamento di conti fra le varie fazioni rivali. L'ultimo tentativo di ricompattare un mondo politico che si va frantumando è rappresentato da Corsica Nazione, la coalizione elettorale che riunisce autonomisti e separatisti all'inizio degli anni Novanta. A dirigerla viene chiamato Edmond Simeoni, ma presto il contrasto fra autonomisti e separatisti si dimostra insanabile e la coalizione si sfalda. Nel maggio 1994 Simeoni abbandona la vita politica, mentre la sigla Corsica Nazione continua a essere utilizzata dal gruppo che rappresenta la Cuncolta Naziunalista (poi ribattezzata Indipendenza) nell'Assemblea regionale. Negli anni successivi il governo francese porta avanti delle trattative segrete con i separatisti, senza peraltro raggiungere un accordo. All'inizio del 1998 Claude Erignac, prefetto dell'isola, viene ucciso nel centro di Ajaccio da un assassino ignoto. Le indagini convergono su Yvan Colonna, un militante separatista che si proclama innocente. Nel 2007 sarà condannato a Parigi all'ergastolo. La sentenza sarà confermata in appello quattro anni dopo. Verso la fine del centralismo? Nella seconda metà degli anni Novanta, anche sull'onda emotiva derivata dalla frammentazione della Jugoslavia dell'URSS, alcuni paesi europei manifestano l'intenzione di rinegoziare i rapporti con le rispettive minoranze. Basti pensare all'autonomia della Scozia e del Galles, sancita dai referendum del 1997; all'accordo del 1998 che fissa un regime simile per l'Irlanda del Nord; alla legge 482/99, che dopo oltre mezzo secolo attua l'articolo 6 della Costituzione italiana. Questi progressi mettono in evidenza che la Francia resta arroccata in una logica centralista. Lo capisce bene Lionel Jospin, Primo ministro socialista, che nel 1998 presenta un progetto di autonomia per l'isola. Si tratta di un programma molto avanzato, che per la prima volta mette in discussione i poteri del centro. La proposta viene però accantonata in seguito alle elezioni del 2002, che segnano la sconfitta del leader socialista. La carica di Primo ministro passa così al neogollista Jean-Pierre Raffarin. In ogni caso la proposta di Jospin ha ormai stimolato un ampio dibattito politico. Non a caso Raffarin propone un ampio piano di decentramento per l'intera repubblica. Nel frattempo, alla fine del 2002 l'UPC si unisce ad altri partiti autonomisti dando vita al Partitu di a Nazione Corsa (PNC). Poche settimane dopo, il 6 luglio, si svolge il referendum regionale voluto dal premier Raffarin e dal Ministro dell'Interno Nicholas Sarkozy. La consultazione prevede soltanto la possibilità di trasformare l'isola, divisa in due dipartimenti, in una regione decentralizzata unica. Gli abitanti dell'isola bocciano la proposta: il 50,98% dei votanti esprime parere negativo. 11
Un risveglio culturale e politico Negli anni successivi l'isola esprime un fermento culturale che la proietta oltre i confini locali. Si comincia a riannodare il legame con l'Italia (in particolare con la Toscana) attraverso varie iniziative politiche e culturali. Fra queste spiccano il patto d'amicizia fra Porto-Vecchio e Firenze; la nascita di varie associazioni italo-corse, come La giraglia e Radiche; le iniziative musicali realizzate nel quadro del programma europeo Interreg. Nel 2009 la paghjella, la forma più tipica della polifonia isolana, viene dichiarata patrimonio culturale dell'umanità dall'Unesco. Poi è la volta di Jérôme Ferrari, che nel 2012 vince il Premio Goncourt, massimo riconoscimento letterario francese, con il romanzo Le sermon sur la chute de Rome (tr. it. Il sermone sulla caduta di Roma, E/O, 2013). Giallisti come Archange Morelli e Marie-Hélène Ferrari vengono tradotti e apprezzati anche in Italia, mentre Patrizia Gattaceca, poetessa e cantante, viene tradotta negli Stati Uniti. Nel maggio del 2013, per la prima volta, il Festival di Cannes presenta un film girato in Corsica e diretto da un regista isolano, Thierry de Peretti (Les Apaches). A questo risveglio culturale si accompagna quello politico. Il 17 maggio 2013 l'Assemblea regionale della Corsica approva a larga maggioranza (36 voti su 51) la coufficialità della lingua isolana. Per la prima volta il monopolio del francese, pietra angolare della repubblica transalpina, viene messo in discussione. La coufficializzazione della lingua corsa è il frutto di un processo istituzionale che è iniziato nel 2007, quando l'esecutivo regionale ha adottato all'unanimità un piano che prevedeva la promozione dell'idioma regionale. Questa intenzione è stata ribadita nella Carta della lingua corsa che è stata firmata il 15 febbraio da Paul Giacobbi, presidente della Regione, e François Deluga, presidente del Centre national de la fonction publique territoriale (CNFPT). L'ascesa degli autonomisti Le elezioni amministrative francesi che si svolgono nel 2014 non segnano soltanto l'affermazione del Front National guidato da Marine Le Pen. Lontano da Parigi, in un contesto politico e culturale molto diverso, si verifica un piccolo miracolo. In Corsica viene eletto sindaco di Bastia l'avvocato Gilles Simeoni, figura emergente dell'autonomismo isolano. La sua affermazione (55,40%) è stata possibile grazie all'alleanza trasversale che la sua lista (Inseme per Bastia) aveva concluso dopo il primo turno con liberali, socialisti e una lista di sinistra dissidente. Questa vittoria è importante per due ragioni. Anzitutto perché è la prima volta che un autonomista viene eletto primo cittadino di una grande città corsa. Inoltre perché segna la fine del lungo potere della famiglia Zuccarelli, che dal 1912 a oggi ha governato la città portuale per 60 anni. Il nuovo sindaco è il figlio maggiore di Edmond Simeoni, l'eroe di Aleria. Nell'isola la politica è spesso un affare di famiglia, ma non bisogna fare di ogni erba un fascio. Edmond Simeoni è stato consigliere regionale, ma non ha mai ricoperto cariche istituzionali di rilievo. Oggi è impegnato nella società civile: cura un blog, dirige l'associazione Corsica Diaspora et Amis de la Corse, cerca di valorizzare il ruolo della donna in un'isola dove il maschilismo ha radici profonde. Inoltre si batte contro una cultura della violenza che ha radici profonde. Al contrario gli Zuccarelli, militanti in partiti nazionali di sinistra, sono sempre stati fortemente legati al potere centrale/centralista parigino. Non a caso hanno ricoperto anche diverse cariche ministeriali. Pochi mesi dopo, il 25 giugno 2014, il FLNC annuncia la fine della lotta armata e il progressivo abbandono della clandestinità. Nel frattempo, il rilievo politico degli autonomisti si fa sempre più evidente. Alla fine del 2015 Gilles Simeoni viene eletto presidente della Collettività Territoriale (nome ufficiale della Regione). La nuova maggioranza è formata da autonomisti e separatisti. JeanGuy Talamoni (Corsica Libera, separatista) è il nuovo presidente dell'Assemblea regionale. Due anni dopo Simeoni viene confermato alle elezioni regionali che precedono la trasformazione della Corsica in una regione con dipartimento unico. L'ascesa politica degli autonomisti, impensabile fino a dieci anni fa, apre un ventaglio di prospettive: dal bilinguismo alla ripresa dei rapporti con l'Italia, e in particolare con Sardegna e Toscana, dall'amnistia nei confronti dei terroristi ai problemi fondiari e ambientali che affliggono l'isola. Ma l'obiettivo più ambizioso, ovviamente, resta l'autonomia. Come ha dimostrato il recente comportamento di Macron, sono ancora forti le resistenze giacobine che vedono in ogni accenno all'autonomia l'anticamera della frammentazione territoriale. 12
Lo spettro del colonialismo nucleare Il 13 febbraio 1960 la Francia realizza il primo esperimento nucleare nel Sahara. Oltre 6000 persone sono state mobilitate per l'operazione chiamata Gerboise bleue. Tutti gli aerei che sorvolano l'Africa hanno avuto l'ordine di tenersi lontani dal deserto di Tanezrouft, situato nel cuore del deserto. La bomba di 70 kilotoni (quattro volte quella di Hiroshima) è stata disposta su una torre alta 100 metri. L'esperimento viene realizzato 15 anni dopo Hiroshima, ma soltanto 5 anni dopo che il governo di Pierre Mendès-France ha deciso che la Francia costruisse la propria bomba atomica. Nel 1956 la decisione è stata confermata dal Primo ministro Guy Mollet, molto irritato dalla nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser. Con questo esperimento, che il generale de Gaulle saluta col celebre "Hourrah pour la France", la repubblica transalpina entra ufficialmente nel club delle potenze nucleari. Tre mesi dopo, i sostenitori dell'avventura nucleare non sono ancora soddisfatti e le trattative che porteranno alla fine della guerra franco-algerina proseguono faticosamente. Durante i negoziati de Gaulle chiede che il centro nucleare di Reggane resti a disposizione della Francia fino al termine del programma. I rischi di questa scelta sono chiari a tutti, ma alcuni pensano ad una soluzione alternativa da utilizzare nel caso che le autorità algerine rifiutino la proposta del Presidente. Il 14 aprile 1960 Pierre Guillaumat, ex ministro della Difesa, e Francis Perrin, responsabile del Commissariato per l'Energia Atomica (CEA), si recano quindi ad Ajaccio. Il loro obiettivo è semplice: proporre che gli esperimenti nucleari sotterranei vengano realizzati nel deserto delle Agriate, e in particolare vicino al massiccio dell'Argentella, situato fra Calvi e Galeria. Secondo gli esperti quello sarebbe il luogo ideale, perché le sue qualità litologiche e morfologiche permetterebbero l'assorbimento di esplosioni chimiche o nucleari contenute. Per convincere gli scettici i due funzionari governativi precisano che non ci sarebbero ricadute radioattive: in seguito alla fusione e alla vetrificazione della roccia l'epicentro dell'esplosione diventerebbe un luogo ermeticamente chiuso. Pierre Guillaumat incontra la popolazione isolana e cerca di convincerla: "Fidatevi! Questi esperimenti non avrebbero nessun effetto negativo, né per voi né per la vostra terra. Il rumore dello scoppio è più o meno quello di una mina che viene utilizzata per la costruzione di una strada. Non sarà necessario evacuare i villaggi vicini, gli esperimenti non saranno minimamente influenzati dalle condizioni meteorologiche (in quanto sotterranei), la fusione e la vetrificazione della roccia non causeranno nessuna ricaduta radioattiva...". Ma il progetto elaborato dal CEA mentre attende che le autorità algerine mettano a disposizione le montagne di Inn Ekker non viene accolto come previsto. Ad Ajaccio, Bastia e Corte la gente comincia a parlare della questione e ad organizzarsi. Il 20 aprile nascono i primi comitati civici che si oppongono al progetto. Il mondo politico, sindacale e associativo si mobilita. Il Primo ministro Michel Debré viene sommerso da lettere di protesta. Il 23 aprile l'esponente politico risponde affermando che gli esperimenti previsti non presentano pericoli per nessun essere vivente. D'altronde, come specifica, questi esperimenti "sicuramente innocui" verrebbero realizzati soltanto da novembre ad aprile, vale a dire al di fuori della stagione turistica (!). Naturalmente queste parole non rassicurano i corsi, che credono di essere presi per imbecilli. Il 29 aprile gli abitanti della Balagna (regione nordoccidentale, ndt) si riuniscono davanti alla sottoprefettura di Calvi per protestare contro il progetto. Il 2 maggio, quando si svolge una manifesatione analoga a Ponte-Novo, il prefetto della Corsica Bernard Vaugon cerca di calmare le acque dicendo che il governo centrale non ha ancora preso nessuna decisione. Il 6 maggio molti sindacati proclamano lo sciopero. Il Primo ministro comincia a fare macchina indietro. Per dimostrare che la popolazione non ha nessuna intenzione di fare da cavia per le ambizioni nucleari francesi, il Consiglio generale della regione adotta all'unanimità una risoluzione contraria (21 maggio). Due settimane dopo, il 4 giugno, il Primo ministro annuncia che il progetto è stato accantonato e che i Corsi non hanno più niente da temere. La realtà non è così semplicistica: soltanto il 14 giugno, alla vigilia di una grande manifestazione popolare che deve svolgersi al sito dell'Argentella, un comunicato laconico del governo annuncia che i tecnici incaricati di valutare la fattibilità del progetto hanno lasciato la Corsica. Sostenuta da numerose personalità politiche e scientifiche non corse – come l'oceanologo Jacques-Yves Cousteau e Gaston Defferre, sindaco socialista di Marsiglia – la protesta continua, fino a quando il governo decide di arrendersi. La partenza dei nuclearisti coinciderà poi con altre trattative su isole molto lontane, (ufficialmente) meno ribelli, situate nel Pacifico meridionale... dove sarà difficile limitare gli effetti degli esperimenti. Ben Cramer 13
Bibliografia Crettiez X., La question corse, Complexe, Bruxelles 1999. Poggioli P., Journal de bord d'un nationaliste corse, Éditions de l'Aube, Aix-en-Provence 1996. Simeoni E., Un combat pour la Corse. Entretiens avec Pierre Dottelonde, Le cherche midi, Paris 2003. Simeoni E., Corse! De la résistance à la rélisience, Stamperia Sammarcelli, Biguglia 2017. Talamoni J.-G., Avanzà! La Corse que nous voulons, Flammarion, Paris 2016. Vergé-Franceschi M., Une histoire de l'identité corse, des origines à nos jours, Payot, Paris 2017.
Da sinistra: Edmond Simeoni e Gilles Simeoni
STORIA CORSA Le edicole francesi offrono una ricca scelta di riviste dedicate alla divulgazione storica. Recentemente questo panorama si è arricchito ulteriormente grazie a Storia corsa, una nuova pubblicazione che si concentra sulla storia della Corsica, dalla preistoria ai nostri giorni. Alla rivista, diretta dal giornalista Pierre Lanfranchi (secondo da sinistra nella foto), contribuiscono specialisti di grande valore, fra i quali Antoine-Marie Graziani, Alain Venturini e Michel Vergé-Franceschi. Il primo numero (pp. 68, € 9,90) tratta diversi aspetti della storia isolana: le prime rivolte antigenovesi del Settecento; la storia del Teatro di Bastia, il più importante dell'isola, che vanta quasi tre secoli; il movimento eretico dei Giovannali (quattordicesimo secolo); lo sviluppo della comunità corsa di Marsiglia (sedicesimo-diciottesimo secolo), etc. Una storia ricca e varia ma ancora poco nota. Completano il numero notizie sulle mostre e sulle pubblicazioni dedicate all'isola. Riccamente illustrata, la rivista ha periodicità trimestrale. Inutile dire che rivolgiamo al collega Pierre Lanfranchi e all'intera redazione gli auguri più sinceri. Storia corsa conferma che l'editoria corsa, nonostante le sue dimensioni ridotte, si sta impegnando a fondo per far conoscere la storia dell’isola e i suoi articolati rapporti col resto del mondo. Per il momento non ci risulta che la nuova pubblicazione abbia un proprio sito o una pagina Facebook. Per altre informazioni: www.hommell-magazines.com
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La lingua corsa ha bisogno dell'italiano Intervista a Stella Retali-Medori
In Francia almeno il 15% della popolazione parla anche una lingua autoctona diversa dal francese: alsazianotedesco, basco, bretone, catalano, corso, fiammingo e occitano. Ma la repubblica transalpina rimane fedele alla logica giacobina della Rivoluzione, che vede nel pluralismo linguistico un nemico mortale. La battaglia per l'autonomia politica è quindi strettamente legata a quella per il bilinguismo. In Corsica, unica regione francese governata da una coalizione di autonomisti e indipendentisti, questo obiettivo riveste un ruolo centrale. Una Corsica bilingue non potrebbe prescindere da uno stretto rapporto con l'Italia, dati i forti legami storici e linguistici che le uniscono. Ma l'Italia, purtroppo, appare del tutto disinteressata a un simile rapporto. Per capire meglio i vari aspetti della questione ne abbiamo parlato con Stella Retali-Medori, docente di varie discipline linguistiche all’Università di Corsica e collaboratrice del Nouvel Atlas Linguistique et Ethnographique de la Corse (NALC). Dal 2015 dirige la Banque de Données Langue Corse (BDLC) insieme a Marie-José Dalbera-Stefanaggi. L'intervista è stata realizzata prima che il presidente Macron rifiutasse l'autonomia richiesta dalla Collettività Territoriale di Corsica, annunciando che il governo si sarebbe limitato a menzionare la specificità dell'isola nella Costituzione. Macron sembra favorevole a iscrivere la Corsica nella Costituzione, ma rifiuta il bilinguismo. Pensa che dopo questa riforma della Costituzione sarà più facile avanzare nuove rivendicazioni, come il bilinguismo e l'autonomia? Il bilinguismo è una situazione di fatto e non si può rivendicare sul piano politico da sola. Ma le azioni politiche, come la dichiarazione della coufficialità, possono svolgere un ruolo positivo. Pensa che la diffusione del corso potrebbe stimolare maggiori rapporti con l'Italia? Certo, ma è ancora più vero l'inverso. L'allontanamento dell'isola dal suo contesto geografico e culturale naturale ha avuto effetti molto negativi, non solo sulla pratica linguistica, ma anche sulla conoscenza dei riferimenti culturali comuni (letteratura, arte, etc.). La chiusura del corso in un contesto corso-francese provoca un indebolimento della prima lingua, che da sola non è più in grado di resistere alla pressione del francese. Oltre alla perdita linguistica, questa pressione si misura sulla struttura linguistica del corso, diversa da quella del francese. Ad esempio, questo si vede da qualche anno con la pressione turistica francofona e con l'evoluzione demografica dell'isola. I Corsi tendono a conformarsi alla pronuncia francese dei nomi geografici o dei patronimici corsi e italiani, cosa che negli anni Settanta non succedeva. Oggi la lingua di riferimento dei Corsi è il francese: è questo che impone i suoi schemi strutturali. L'italiano rimane uno spazio prediletto di comunicazione per i corsofoni, ma questi non ne sono sempre consapevoli. Un incremento del turismo italiano nell'isola potrebbe stimolare l'uso dell'italiano. Anche per la modernizzazione della lingua il corso potrebbe nutrirsi del contatto con l'italiano, che gli potrebbe fornire dei neologisimi utili nel contesto attuale, dove il corso utilizza automaticamente il francese. Infatti il contatto con il francese altera le strutture sintattiche, fonologiche e talvolta anche morfologiche del corso. Inoltre, riallacciare i contatti con l'Italia servirebbe a ritrovare alcuni riferimenti culturali, soprattutto in campo letterario e artistico, che permetterebbero agli isolani di comprendere il proprio patrimonio culturale e linguistico. I politici dovrebbero favorire gli scambi con l'Italia in ogni campo: dai media al turismo, dalla cultura ai trasporti. Il problema è che molti corsi conservano una certa acrimonia verso l'Italia per l'invasione fascista del 1942, e ovviamente questo costituisce un freno allo sviluppo di nuovi rapporti. Ma i pregiudizi non finiscono qui. Molti corsi credono che l'Italia sia un paese coloniale come la Francia: questa idea determina un rifiuto e una costruzione identitaria che li allontana da tutto ciò che ha a che fare con l'Italia. 15
Noi studiosi sappiamo che spesso si tratta di problemi di rappresentazione senza fondamento, perché questa somiglianza è radicata in un'antica storia comune. Spesso si sente dire "il corso non è italiano perché l'italiano si esprime in quest'altra maniera". In realtà, quello che spesso viene considerato "non italiano" si riferisce all’italiano standard, che è il risultato di una costruzione linguistica intellettuale, mentre le somiglianze sono da ricercarsi in molte varietà dialettali italiane, compreso il toscano. È una situazione dannosa, perché il contatto tra corso e italiano riporterebbe la prima lingua nella sua culla latina. In questo modo potrebbe aprirsi anche ad altre varietà romanze che permettono una forte intercomprensione e che hanno riferimenti culturali comuni. A che punto è l'insegnamento scolastico del corso? In teoria il corso è presente in tutte le scuole elementari con vari gradi : ci sono scuole bilingui e altre con corsi di tre ore alla settimana. Lo stesso vale per le scuole medie (scuole bilingue o insegnamento di tre ore). Ma la varietà dell'offerta per gli alunni che arrivano a questo livello, e ancora più al liceo, ne induce tanti a lasciare il corso per altre discipline. Quindi la scuola permette di studiare il corso, ma il problema è che nella vita quotidiana (a cominciare dalla famiglia) la lingua ha una presenza debole. Secondo un'indagine ufficiale del 2013, soltanto il 2% delle famiglie lo usano come unica lingua e il 14% delle famiglie lo parla insieme al francese. Queste percentuali, secondo l'UNESCO, sono quelli delle lingue in via di estinzione. La presenza del corso nelle scuole è utile, ma non basta se nella vita quotidiana la lingua è assente o quasi. Ultimamente sono stati introdotti in Corsica dei cartelli bilingui. È possibile una reazione parigina? Non penso, proprio perché sono bilingui. Anche se per quanto riguarda i cartelli toponomastici non si possono considerare proprio bilingui, perché la toponomastica corsa è stata, da secoli, trascritta con il sistema grafico dell’italiano (o del toscano per i secoli più remoti), secondo un coppia corso-italiano (o corso-toscano) che i Corsi consideravano come due livelli della stessa lingua. L'uso di questa coppia era frutto di secoli di costruzione linguistica comune e di equilibrio tra le due varietà. L'Università della Corsica gioca un ruolo importante nell’affermazione del bilinguismo – un ruolo politico, diciamo – o si tratta soltanto di un ruolo accademico? La posizione dell’Università è, in teoria, quella di un'istituzione academica che studia la lingua come oggetto scientifico sia sul piano della struttura e del funzionamento linguistico che sul piano dello statuto della lingua. Offre insignamenti legati alla produzione scientifica e per la formazione degli insegnanti delle scuole elementari e medie. Comunque, l'università si è spesso schierata in difesa del corso, non solo come istituzione, ma anche col sostegno che ha offerto alle rivendicazioni degli studenti. Infatti la lingua è stata spesso oggetto di manifestazioni importanti, e in questi casi l'università ha manifestato una solidarietà aperta.
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L'autonomia sepolta nella Costituzione Andria Fazi
Il 23 novembre 2017, dieci giorni prima del primo turno delle elezioni regionali corse, Le Monde ha pubblicato un articolo di Gilles Simeoni, presidente autonomista del Consiglio esecutivo dell'isola. L'articolo si intitolava "La Corsica non è la Catalogna", anche se il tema non era questo. Il titolo evidenzia che le vicende catalane avevano dominato l'attualità politica del periodo. Nonostante il significato simbolico dell'atto, vedere un'assemblea regionale che dichiara unilateralmente l'indipendenza della stessa regione è un fatto eccezionale. Se non vado errato, questo non era mai accaduto in una democrazia occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale. Questa eccezionalità dimostra che il rischio di un effetto domino, paventato spesso dalla stampa, è molto scarso. Nel caso della Corsica, i risultati elettorali del 2017 hanno dato ai partiti nazionalisti un rilievo che non avevano mai avuto. Nel mese di giugno, alle elezioni politiche, storicamente sfavorevoli ai nazionalisti, la coalizione autonomista-indipendentista Pe a Corsica ha conquistato tre seggi su quattro. In dicembre, alle elezioni regionali, la stessa coalizione ha vinto col 56,49% dei voti espressi al secondo turno, risultato eccezionale per tre motivi. Primo, perché migliorava di oltre venti punti il risultato del 2015, che per la prima volta aveva permesso ai nazionalisti di conquistare il potere regionale. Secondo, perché nessuna lista corsa aveva mai ottenuto la maggioranza in questo tipo di elezioni: finora il risultato migliore era stato il 37,02% raggiunto dalla coalizione di destra nel 1998. Terzo, perché considerando tutte le democrazie occidentali, si tratta di un risultato superato solo dai partiti nazionalisti dei Paesi Baschi, del Sudtirolo e della Groenlandia. Ovviamente i successi nazionalisti non derivano soltanto dalle debolezze degli avversari, ma anche dalla mobilitazione di potenti risorse politiche. Possono convincere un'elettorato molto più largo, ora che il FLNC ha cessato le proprie azioni terroristiche. Per questo si appoggiano da una parte su un nuovo leader, Gilles Simeoni, che oggi è la personalità politica più popolare. Dall'altra parte possono far conto su un potenziale umano enorme, fatto di migliaia di militanti e simpatizzanti, che esercitano un dominio quasi egemonico sulle reti sociali. Infine le sue proposte, come l'autonomia e la coufficialità della lingua corsa sono al centro dell'agenda politica e del dibattito pubblico. Da tutto questo appare chiaro che oggi, finita la violenza terroristica del secolo scorso, l'unione nazionalista Pe a Corsica propone un'offerta politica capace di attrarre elettori di ogni tipo. Ma sarebbe sbagliato pensare che tutto questo consentisse alla Corsica di seguire l'esempio della Catalogna. È quanto mai utopistico che l'isola opti per un processo analogo a quello catalano, e a maggior ragione per la cosiddetta via unilateral, che consiste nel conseguire l'indipendenza senza tenere in considerazione le norme statali. L'attuale maggioranza nazionalista aspira(va) a uno statuto di autonomia, ma il governo del presidente Macron ha bocciato questa domanda, generando una tensione notevole all'interno del campo nazionalista. Corsica e Catalogna, un parallelo insensato La scelta dell'indipendenza comporta ovviamente delle conseguenze molto rilevanti. Non si rompe soltanto con una comunità nazionale e con un ordine politico-istituzionale, ma anche con un sistema economico e sociale, che per quanto imperfetto garantisce comunque una quantità imponente di risorse alle persone e alle imprese. Stabilire un nuovo ordine giuridico, una struttura tributaria, un insieme di garanzie sociali e sindacali, tanto per fare qualche esempio, non è certo un gioco da ragazzi. Quindi per poter sostenere credibilmente una rivendicazione d'indipendenza, sia davanti alla propria popolazione che allo Stato di appartenenza, queste capacità hanno un peso determinante. 17
A livello storico, il richiamo a un'indipendenza precedente può essere un argomento efficace per dimostrare la fondatezza dell'obiettivo che si persegue, cioè recuperare questo status e i poteri conseguenti. La breve indipendenza della Corsica, guidata da Pasquale Paoli fra il 1755 e il 1769, è senza dubbio interessante. Ma molto più interessante è il precedente del plurisecolare principato di Catalogna, che mantenne una larga autonomia anche dopo l'unione con la corona aragonese. Fu solo col decreto di Nueva Planta (1716) che furono dissolte le Cortes catalanes, fondamento delle istituzioni catalane, ma senza che venisse loro imposto il diritto privato e il regime fiscale vigenti nel resto della Spagna. L'esperienza catalana è molto più ricca di quella corsa anche a livello politico-amministrativo. Dal 1980 la regione spagnola gode di un'autonomia che include molte competenze legislative, tra le quali la tutela della concorrenza, l'accoglimento degli immigrati e la gestione della previdenza sociale. Inoltre ha una polizia regionale competente perfino in materia di terrorismo. La regione spagnola ha un'economia assai dinamica e garantisce molti posti di lavoro. Nelle democrazie occidentali è impensabile che la maggioranza della popolazione rischi di peggiorare la propria situazione economica e sociale per conseguire l'indipendenza. D'altronde, nell'Europa occidentale le tendenze separatistiche sono presenti soprattutto nelle regioni ricche, ma nel mondo le secessioni si concretizzano soltanto in territori poveri. Basti pensare ai casi più recenti: Kosovo, Montenegro e Sud Sudan. Detto questo, bisogna ricordare che in campo economico le differenze tra Catalogna e Corsica sono enormi. La Catalogna rappresenta il 16,22% dell'intera popolazione, il 19% del PIL e il 25% delle esportazioni della Spagna; la disoccupazione è al 12,63%, contro il 16,55% della Spagna. La Corsica rappresenta lo 0,5% della popolazione, lo 0,4% del PIL e lo 0,015% delle esportazioni francesi; la disoccupazione tocca il 10,2%, contro il 9,4% della Francia continentale. Persino il leader indipendentista e Presidente dell'Assemblea regionale, Jean-Guy Talamoni, ha dichiarato che un dibattito sull'indipendenza della Corsica potrà essere fatto seriamente soltanto a patto che i Corsi abbiano chiare garanzie sulla loro sicurezza economica (Francetvinfo, 2 ottobre 2017). La differenza fra le due regioni è altrettanto grande in termini elettorali. Nelle due ultime elezioni regionali il 47% degli elettori catalani ha votato per i partiti indipendentisti. In Corsica, al contrario, questo orientamento rappresenta la parte minoritaria del nazionalismo. Al primo turno delle elezioni regionali del 2015 le due liste indipendentiste hanno cumulato il 10,2% dei consensi. In quelle politiche del 2017, tra i candidati, i tre candidati autonomisti della coalizione Pe a Corsica sono stati eletti con percentuali alte, mentre l'unico candidato indipendentista è stato eliminato al primo turno. Purtroppo in Corsica i sondaggi sono molto rari, ma sembra che la scelta dell'indipendenza sia sostenuta soltanto dal 10-15% della popolazione. All'interno di questa percentuale, poi, bisognerebbe vedere quanti la vogliono subito e in modo incondizionato, perché sostenere l'ideale dell'indipendenza non significa necessariamente credere che questa possa essere attuata a breve termine. Insomma, le differenze fra Corsica e Catalogna sono troppe perché si possa tracciare seriamente un parallelo politico tra le due regioni. Comunque non bisogna dimenticare che il rifiuto dell'autonomia da parte di Parigi potrebbe radicalizzare le posizioni nazionaliste. L'autonomia negata Nonostante i suoi clamorosi successi elettorali, l'attuale maggioranza nazionalista non persegue l'obiettivo dell'indipendenza. Questo dovrebbe bastare a chiudere la discussione e a dimostrare che il paragone con la Catalogna non ha senso. Nel suo programma la lista Pe a Corsica parla di un'autonomia da raggiungere entro tre anni e di un periodo di attuazione che durerebbe altri dieci anni (il tempo di due legislature). Alla fine di questo periodo si dovrebbe valutare un'altra evoluzione istituzionale, che comunque non sarebbe necessariamente l'indipendenza. L'altra organizzazione nazionalista di rilievo, Core in Fronte, che ha ottenuto il 6,69% dei voti al primo turno, propone un percorso più chiaro: inizialmente, uno statuto d'autonomia legislativa prima della fine della presidenza Macron (2022); quindi un referendum sull'autodeterminazione nel 2032. Certo, l'autonomia non è un concetto univoco. Questo termine viene utilizzato per definire sta18
tuti molto diversi. Per esempio, l'autonomia della Groenlandia è considerevolmente più larga di quella delle regioni italiane a statuto speciale. Anche all'interno di uno stesso Stato gli statuti di autonomia possono presentare forti differenze: in Francia, per esempio, l'autonomia della Polinesia francese è più ampia di quella di Saint-Martin (ex colonia francese, oggi collettività d'oltremare, ndr).
Il nuovo assetto territoriale della Francia Con la riforma territoriale che è entrata in vigore all'inizio del 2016 le 22 regioni francesi sono state sostituite da 13 macroregioni realizzate con accorpamenti che rispondono prevalentemente alla logica della produttività. In Francia il concetto di regione è molto diverso da quello che conosciamo in Italia. Mentre la Toscana, la Sardegna o il Veneto hanno precise identità storiche e culturali, lo stesso non può dirsi di agglomerati artificiali come il PACA (Provenza-Alpi-Costa Azzurra) o il Rodano-Alpi. In Francia, poi, le regioni sono divise a loro volta in dipartimenti. Spesso entrambi prendono il nome dai fiumi, dai monti o da altri dati geografici (Alpi, Loira, Pirenei, etc.). Sarebbe come se la Toscana si chiamasse Arno-Amiata o come se il Veneto, il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia fossero riuniti in una regione chiamata Nord-Est. La riforma ha avuto effetti molto diversi. Alcune regioni periferiche, come la Bretagna e la Corsica, sono rimaste invariate. La Normandia, finora divisa in due regioni, è diventata una. Sei delle altre, invece, sono state accorpate secondo i criteri suddetti. Tanto per fare un paio di esempi, la Nuova Aquitania è grande come l'Austria, mentre l'Alvernia-Rodano-Alpi ha una superficie pari a quella irlandese. Questi mutamenti, come si diceva, sono stati fatti per creare regioni più competitive. Ma non sono mancate le proteste. Martine Aubry, sindaco socialista di Lilla, ha reagito duramente alla creazione della regione Nord-Pas-de-Calais/Piccardia definendola "un'aberrazione economica e sociale" e aggiungendo che "due regioni povere non fanno una regione ricca". La riforma è stata criticata anche dal Consiglio d'Europa. Una delle regioni più penalizzate è stata l'Alsazia, che di fatto è scomparsa perché è stata fusa con Lorena e Champagne-Ardenne. La nuova entità, Grand-Est, è grande come Piemonte, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia riunite. Il suo nome, quanto mai generico, inghiotte secoli di storia cancellando l'Alsazia dalle carte geografiche. I più preoccupati da questa fusione sono gli autonomisti di Unser Land, un partito che rappresenta la minoranza germanofona. Ma non sono i soli: Philippe Richert, presidente neogollista del nuovo Consiglio regionale, ha detto che questa fusione è "l'avvenimento più grave per l'Alsazia dalla fine della guerra", dato che questa regione "non avrà più alcuna istituzione politica a rappresentarla". Alessandro Michelucci
Per i nazionalisti corsi l'autonomia non è un sistema complessivo d'organizzazione statale analogo a quello degli Stati federali, ma un modo per riconoscere i diritti nazionali del popolo corso. Di conseguenza non si può limitare all'attuazione delle norme statali. La coalizione Pe a Corsica reclama un'autonomia "de plein droit et de plein exercice", che fa riferimento alla possibilità non solo 19
di adattare ma di sostituire la legge nazionale, con l'unico vincolo della conformità costituzionale. È lo stesso per Core in Fronte, che cita spesso l'esempio della Sardegna, mettendo in evidenza le sue competenze legislative esclusive. In termini normativi, quindi, l'autonomia proposta dai nazionalisti corsi è compatibile con la nuova versione dell'articolo 74 della Costituzione francese, approvato nel 2003, che permette a certe collettività d'oltremare (ex colonie, ndr) di legiferare su determinate materie al posto del legislatore nazionale. In Polinesia francese questa categoria di norme è denominata lois du pays, perché le leggi sono definite dalla Costituzione come espressione della sovranità nazionale. In Francia, tuttavia, l'autonomia viene riconosciuta soltanto a certe collettività d'oltremare. È proprio qui che risiede la grande ambiguità della Francia, che non ha un sistema di organizzazione territoriale ma due... e i loro principi sono molto diversi. Il grande problema dei nazionalisti è che per il potere centrale la Corsica rimane un territorio metropolitano, che come tale non può attentare al principio dell'unità. Di conseguenza il governo francese non è disposto a soddisfare le domande dei nazionalisti. Dopo un ciclo breve ma intenso di discussioni Parigi ha accettato – come ha detto Macron a Bastia il 7 febbraio 2018 – di menzionare la specificità della Corsica nella Costituzione, ma le conseguenze pratiche sono molto diverse da quelle che auspicavano i nazionalisti: si tratterebbe solo di permettere agli eletti corsi di adattare la legge nazionale dopo l'approvazione del Parlamento. Tale dispositivo è attivo negli dipartimenti d'oltremare dal 2007, ma in Corsica viene con-siderato un semplice contentino. Inoltre, secondo lo stesso Macron, questa menzione della Corsica nella Costituzione avrebbe lo scopo di "ancorarla alla Repubblica". Il governo ha rifiutato anche la domanda di amnistia per i militanti nazionalisti incarcerati, la coufficialità della lingua corsa e uno statuto di residente che riserverebbe l'accesso alla proprietà fondiaria e immobiliare a chi risiede sull'isola da un certo numero di anni. Vista l'importanza – per non dire la sacralità – che il principio dell'unità riveste in Francia, si può dire che questo esito era prevedibile. In ogni caso è improbabile che le scelte del governo non incidano sui rapporti fra Parigi e la maggioranza nazionalista, come anche sugli equilibri interni al movimento nazionalista. Conclusioni Ormai è chiaro che Macron è disposto a rischiare per attuare le sue riforme economiche e sociali, ma è altrettanto chiaro che per lui la Corsica non è una priorità. Il governo attuale reputa impossibile, o comunque molto rischioso, fare ulteriori concessioni all'isola. Impossibile perché sarebbe necessaria una riforma costituzionale che richiederebbe l'approvazione del Senato, dove la maggioranza di destra è ancora più ostile all'autonomia. Rischioso perché richieste simili sono molto impopolari in Francia. Tuttavia, considerando la legittimità democratica dei nazionalisti, è rischiosa anche l'opposizione del governo centrale. In linea di massima, questa potrebbe allontanare buona parte dei Corsi – soprattutto giovani – e la Repubblica francese. All'interno del governo regionale si sono già moltiplicate le richieste di una strategia più radicale nei confronti delle autorità statali, anche se non è ben chiaro come dovrebbe esprimersi questa nuova strategia. Non si può certo immaginare un ritorno alla violenza degli anni Settanta-Ottanta, con centinaia di attentati dinamitardi all'anno, ma non è da escludere la ricostituzione di piccoli gruppi violenti, che potrebbe avere conseguenze gravi per la stabilità politica dell'isola. Quindi la situazione in cui si trova il Presidente del Consiglio esecutivo Gilles Simeoni è molto delicata: da una parte, la cooperazione col governo centrale è indispensabile per poter attuare le sue politiche economiche, sociali e ambientali; dall'altra, la pressione dei militanti e delle organizzazioni politiche più radicali lo spinge ad assumere posizioni più dure. Trovare il giusto equilibrio sarà una sfida molto impegnativa. Da questo dipende il futuro politico del nazionalismo corso.
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Una vita per la Corsica Victoria Enfield
Molti artisti hanno vissuto periodi più o meno lunghi in paesi stranieri. Alcuni hanno trovato in questi luoghi l'ispirazione per le loro opere: poesie, quadri, romanzi, sinfonie. Pochi, però, hanno trascorso in questi luoghi una parte importante della propria vita dedicandosi allo studio della terra che li ospitava fino a sentirla propria, come se ci fossero nati. In seguito a questa simbiosi hanno lasciato un segno indelebile della loro presenza, proprio come la terra un tempo straniera l'aveva lasciato dentro di loro. Sono pochi, dicevamo, ma anche la Corsica ne ha avuto uno. Si tratta di Dorothy Carrington (1910-2002), nota anche come Lady Rose, che ha dedicato la sua vita all'isola, alla sua cultura, alla sua gente. Nata nel 1910 a Perrots Brooke (Gran Bretagna) e cresciuta in un ambiente borghese di alta levatura culturale, Dorothy Carrington visita la Corsica per la prima volta nel 1948 insieme al terzo marito, il pittore Francis Rose. L'isola la affascina subito: qui trova "quella parte di assoluto che cercavo fin da bambina". Nel 1952 decide di stabilirsi definitivamente ad Ajaccio. Negli anni successivi la scrittrice inglese esplora ogni angolo dell'isola, dalle città ai paesi più piccoli e remoti. Mossa da un profondo amore per la Corsica, non si limita ad approfondire i più diversi aspetti della cultura isolana, dal periodo paolino allo sciamanesimo dei mazzeri, ma diventa lei stessa una delle massime autorità in materia. Lo attestano libri come Trésors oubliés des églises de Corse (1959, insieme a Geneviève Moracchini), This Corsica (1962), Granite Island: A Portrait Of Corsica (1971), il saggio "The Corsican constitution of Pasquale Paoli (1755–1769)" (The English Historical Review, luglio 1973) e The Dream Hunters (1995). Al tempo stesso partecipa a conferenze e iniziative analoghe in vari paesi europei e negli Stati Uniti. Questo impegno culturale viene premiato più volte. Nel 1986 il Ministero della cultura francese le conferisce la croce di cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere. L'Università di Corsica le conferisce la laurea honoris causa nel 1991. La sua avventura terrena termina ad Ajaccio il 26 gennaio 2002, all'età di 91 anni. Un mese dopo esce il suo ultimo lavoro, Portrait de Charles Bonaparte d'après ses écrits de jeunesse et ses mémoires. Secondo le sue volontà, Dorothy riposa nel cimitero delle Sanguinarie, che gli ajaccini chiamano U canicciu, ma vive nel cuore di tutti gli isolani. Nessuno straniero ha amato la Corsica come lei.
Dorothy Carrington legge Kyrn, rivista corsa dell'epoca, in un caffè di Ajaccio, 16 dicembre 1991.
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Il paese che vive di musica Alessandro Michelucci
Un viale alberato che porta alla strada principale, un gruppo di case raccolte attorno alla chiesa settecentesca: siamo arrivati a Pigna, un minuscolo paese della Balagna, la regione nordoccidentale della Corsica. A prima vista sembra un paese come tanti altri, ma in realtà ha una storia unica, perché qui tutto parla di musica: si costruiscono strumenti, si studia la polifonia isolana, si suona e si registrano dischi. In altre parole, la musica fa parte della vita quotidiana come l'aria. Abbandonato fino alla fine degli anni Sessanta, il paese è rinato grazie a Toni Casalonga e alla Corsicada, la cooperativa di artigiani che l'ha trasformato in un laboratorio musicale. Scenografo, scultore, pittore e musicista, Toni vive qui con la moglie Nicole, raffinata cantante e strumentista, i figli Ugo, liutaio, e Jérôme, che anima il gruppo Zamballarana. Ogni anno, all'inizio di luglio, la rassegna Festivoce propone musicisti provenienti da tutto il mondo, con una particolare attenzione per la regione mediterranea. Ma questa manifestazione estiva è soltanto una delle tante iniziative che si svolgono nel minuscolo paese della Balagna: le attività musicali organizzate dal Centre culturel Voce (CCV) occupano tutto l'anno. Da qui sono passati gli artisti più diversi: catalani e sardi, azeri e georgiani, jazzisti francesi come Louis Sclavis e alfieri del rock sperimentale come Chris Cutler. Ai concerti si affiancano stage aperti al pubblico, da quello per costruire strumenti con materiale di scarto a quello sulla mimofonia, un metodo per apprendere la polifonia ideato da Nando Acquaviva. L'artista, che guida il gruppo A Cumpagnia (dove ritroviamo Jérôme Casalonga), contribuisce in modo determinante alle iniziative che si tengono a Pigna. Il 26 ottobre 2017 dello scorso anno il Ministero della Cultura ha riconosciuto il CCV come centro nazionale di creazione musicale. Si tratta di una qualifica prestigiosa che finora era toccata soltanto a sei strutture francesi, fra le quali il CIRM (Centre international de recherches musicales) (CIRM) di Nizza e il Groupe de musique expérimentale di Marsiglia. Pigna ospita anche Casa, attiva dal 1997, un'etichetta discografica piccola ma ricca di proposte interessanti che spaziano dal folklore isolano alla musica barocca, dal jazz alla world music. Fra i dischi più recenti merita particolare attenzione Isokhronos, nato dalla collaborazione fra Antonello Salis e Jérôme Casalonga. Quest'ultimo ha già collaborato con vari musicisti italiani, fra i quali Stefano Cantini e Riccardo Tesi.
A sinistra: veduta di Pigna. A destra: il gruppo A Cumpagnia. Da sinistra: Nando Acquaviva, François-Philippe Barbolosi, Jérôme Casalonga, Laurent Barbolosi e Ugo Casalonga.
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Chiama e rispondi Come in altre parti del mondo, anche in Corsica si è conservato un particolare modo di cantare: un vero e proprio dialogo, in cui due o più persone discorrono dei più svariati argomenti, ma lo fanno in un modo insolito, cioè cantando. Ma si tratta di un canto spontaneo, improvvisato, in altre parole un dialogo che non è stato studiato a tavolino. È il chjam’è rispondi, analogo al canto in ottava rima diffuso in Maremma e in altre zone dell'Italia centrale. Questa affinità conferma i legami profondi fra la Corsica e la penisola: l'isola montuosa al largo di Capraia e Montecristo è stata una colonia pisana, poi genovese, per un totale di sette secoli. Dopo l'annessione alla Francia l'Italia ha dimenticato questi legami, ma non ha fatto lo stesso la Corsica, dove la cultura italiana è sempre rimasta oggetto di un forte interesse. Tornando al nostro chjam’è rispondi, l’espressione che lo identifica non fa altro che confermare il tratto peculiare del dialogo, quello di uno schietto scambio di idee, un "botta e risposta" in piena regola. Ma di cosa si canta? Di tutto: dall’amore alla politica, dalla filosofia all’attualità, il chjam’è rispondi finisce per essere un pretesto per cantare, discutere, ma soprattutto per incontrarsi tra amici e conoscenti, giocando a convincere l'altro improvvisatore e il pubblico della nostra abilità a cantare improvvisando. E non è per niente facile! Infatti non basta accennare un canto, così "come viene viene", ma è necessario un rigoroso rispetto della sillabazione, una cura certosina nell'intonazione dei versi e un'accurata disposizione della rima. Questi elementi lo rendono un eccezionale esercizio dove si intrecciano la parola, l'ingegno linguistico e la ricchezza metaforica, ma anche uno strumento di dialogo particolare e ancora tutto da scoprire. Giovanni Ragni
E figure di a Corsica Symboles, emblèmes et allégories Catalogo della mostra, 1º agosto 2018 - 30 marzo 2019 Musée de la Corse, Corte
La testa di moro, la sagoma dell'isola, il muflone e altri simboli legati alla storia e alla cultura della Corsica
Testi di Virginie Bar - Carlo Bitossi - Dominique Brême Philippe Colombani - Ernesto Fernández-Xesta y Vázquez Barbara Fois - Antoine Franzini - Anna Gnedina-Moretti Dominique Gresle-Pouligny - Michel Pastoureau Michel Popoff - Michel Vergé-Franceschi
240 pagine - € 34 www.albiana.fr
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Per l'autonomia della Corsica Intervista ad Alain de Benoist Alain de Benoist, scrittore e filosofo francese, dirige le riviste Krisis e Nouvelle Ecole. Inoltre collabora a numerose pubblicazioni, fra le quali Diorama letterario, Eléments e Valeurs actuelles. Ha scritto molti libri, alcuni dei quali sono stati tradotti in italiano. Fra i più recenti ricordiamo La fine della sovranità. La dittatura del denaro che toglie il potere ai popoli, Arianna Editrice, 2014; Uomini e animali. Il posto dell'uomo nella natura, Diana, 2014; Il Trattato Transatlantico. L'accordo commerciale USA-UE che condizionerà le nostre vite, Arianna Editrice, 2015; Populismo. La fine della destra e della sinistra, Arianna Editrice, 2017. Federalista convinto e fautore della decrescita, de Benoist è anche un sincero difensore della diversità culturale e linguistica. Questa è l'intervista sulla questione corsa che ci ha concesso. Qual è la sua posizione sull'eventuale autonomia della Corsica? Sono assolutamente favorevole all'autonomia della Corsica. Anzitutto perché credo che uno statuto di autonomia dovrebbe essere riconosciuto a tutte le minoranze linguistiche e culturali, ma anche perché sono un sostenitore del federalismo integrale. Così come sono fermamente contrario al giacobinismo e allo stato centralista. Secondo il principio della sussidiarietà, io credo che per quanto è possibile le scelte debbano essere fatte al livello più basso, in modo che la gente possa decidere il più possibile sulle cose che la riguardano. Detto questo, non concepisco l'autonomia come una tappa intermedia verso l'indipendenza. Penso che fra l'autonomia e l'indipendenza non ci sia una differenza di grado, ma di sostanza. La rivendicazione della prima si basa sul principio di responsabilità ; il desiderio d'indipendenza, invece, si basa su un nazionalismo che spesso non è altro che un individualismo collettivo. Ma a parte questo, l'aspirazione all'indipendenza mi sembra un po' superata, perché fa riferimento all'epoca in cui si andava affermando il principio di nazionalità. Infine bisogna interrogarsi sul concetto stesso d'indipendenza. Nell'era della globalizzazione, dove anche i paesi più grandi vedono sparire gran parte della propria sovranità, chi può dirsi davvero indipendente? E per quanto riguarda la coufficialità della lingua corsa? Non sono contrario – ci sono vari paesi con più lingue officiali – ma credo che questo sarà un obiettivo più difficile da raggiungere. Fare del corso una lingua ufficiale al pari del francese viene auspicato soltanto in Corsica. Ma anche in questo caso, volere che tutti gli abitanti e tutti i funzionari che lavorano sull'isola sappiano parlare e scrivere nelle due lingue può comportare dei problemi pratici notevoli. Nel migliore dei casi ci vorrà molto tempo per raggiungere un simile obiettivo. Macron ha rifiutato quasi tutte le rivendicazioni dei nazionalisti corsi: l'iscrizione della Corsica nella Costituzione sarà limitata a una semplice menzione. Crede che gli autonomisti abbiano fatto degli errori, oppure che avrebbero potuto agire diversamente? No, non credo che abbiano fatto degli errori. Anzi, penso che negli ultimi anni abbiano acquisito una maturità notevole. Macron non è il giacobino più ottuso, ma è erede di una tradizione politica che è sempre stata ostile alle specificità regionali. La Costituzione afferma esplicitamente che la Repubblica francese è "una e undivisibile", che la sua unica lingua è il francese, etc. Inoltre, non dimentichiamo che nel 1991, quando il governo aveva ipotizzato di riconoscere l'esistenza di un "popolo corso, componente del popolo francese", il Consiglio costituzionale ha rigettato questa formula ritenendola incompatibile con la Costituzione. Ufficialmente, quindi, il popolo corso non esiste! Crede che la Corsica riuscirà mai a raggiungere l'autonomia? Non è possibile prevederlo. Quello che si può dire è che i Corsi non si arrenderanno, e che la Corsica ha delle prerogative che la favoriscono rispetto ad altre regioni che aspirano all'autonomia, so24
prattutto perché si tratta di un'isola. Ma ci vorrà un po' di tempo: credo che anche i prossimi governi continueranno a tergiversare. Pensa che un'autonomia della Corsica potrebbe scatenare un effetto domino in altre regioni francesi, come la Bretagna e l'Occitania? Credo di no, per il semplice motivo che soltanto in Corsica esiste un movimento autonomista ben radicato che ha già guadagnato la maggioranza politica. Quello bretone è molto attivo in campo artistico e culturale, ma in termini politici non conta quasi niente. Fiamminghi e Alsaziani sono ancora più deboli. Quanto all'Occitania, termine che non viene accettato da tutti, si tratta di un'idea vaga che non ha nessuna possibilità di coagularsi in qualcosa di concreto. Comunque, se questo effetto domino dovesse verificarsi, non sarebbero soltanto i giacobini di destra e di sinistra a contrastarlo. Molti di coloro che si oppongono all'immigrazione lamenterebbero che questo effetto domino favorirebbe le "minoranze invisibili", originarie del Maghreb o dell'Africa subsahariana, che così sarebbero ulteriormente stimolate a creare quella controsocietà di cui si vedono già i primi segnali. Catalogna, Fiandre, Scozia: il separatismo è di grande attualità. Ma l'Unione Europea sembra trascurare questo problema... Qui torniamo alla differenza fra l'autonomia e l'indipendenza. Senza dimenticare che certi nemici del giacobinismo sognano di creare delle strutture più piccole, ma che sarebbero altrettanto giacobine! A cosa servirebbe una Catalogna indipendente se questa generasse un giacobinismo catalano? Che senso avrebbe una Scozia indipendente se questa comportasse la discriminazione culturale della minoranza inglese? Il grande problema con cui si scontrano quelli come me, che difendono per principio le minoranze, è che sono portati – visto che si tratta appunto di un principio – a considerarle tutte come se fossero in situazioni analoghe. In realtà esistono differenze notevoli, e ciascun caso va considerato secondo il rispettivo contesto geopolitico, l'orientamento politico-ideologico, etc. Tanto per fare un esempio, mi sembra molto difficile fare un parallelo fra i Fiamminghi, che vogliono lasciare uno stato artificiale nato appena 200 anni fa, e i Baschi o i Catalani, che vogliono rompere con uno stato spagnolo plurisecolare. Alla fine del diciannovesimo secolo i Fiamminghi rappresentavano un gruppo sociale popolare, oppresso e discriminato dalla borghesia francofona. Oggi costituiscono la parte più ricca e più potente del Belgio. Anche la Catalogna è la regione più ricca della Spagna, e se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che la lingua e la cultura catalana sono dominanti. I Bretoni e i Corsi possono soltanto sognare l'autonomia di cui i Catalani godevano fino a poco tempo fa! La divisione fra destra e sinistra, come Lei scrive spesso, è ormai superata. Crede che le posizioni politiche degli autonomisti corsi (o degli autonomisti court) lo confermino? Il binomio destra-sinistra è superato per vari motivi, che ho cercato di analizzare nel mio libro recente sul populismo. Il fatto stesso che l'autonomismo cerchi di restituire agli abitanti di un territorio il diritto di autogovernarsi, secondo me, lo pone al di là di questa dicotomia. Questo non significa che tutti gli autonomisti abbiano le stesse idee politiche, ma soltanto che la loro rivendicazione è più forte di quello che li separa. Lo stesso vale per il giacobinismo: come ho detto, ci sono sempre giacobini di destra e giacobini di sinistra. Questo conferma che la lotta fra autonomisti e giacobini non si riduce alla vecchia dialettica destra-sinistra.
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Suoni, immagini e parole Materiali sulla Corsica Film e documentari Acqua in bocca, regia di Pascale Thirode, Francia, 2009. Les Apaches, regia di Thierry De Peretti, Francia, 2013. Corsica!, regia di Nico Cirasola, Gianfrancesco Lazotti, Giorgio Molteni, Italo Spinelli, Pasquale Squitieri, Italia, 1991. Forza Bastia 78, regia di Jacques Tati, Francia, 1978 [d]. Génération FLNC, regia di Samuel Lajus, Francia, 2002 [d]. Les exilés, regia di Rinatu Frassati, Francia, 2015. Liberata, regia di Philippe Carrese, Francia, 2005. Mateo Falcone, regia di Eric Vuillard, Francia, 2009. Résistantes corses déportées, regia di Jackie Poggioli, Francia, 2016 [d]. Scrittori, regia di Pierre Taisne, Francia, 2004 [d]. Le silence, regia di Orso Miret, Francia, 2004. Edmond Simeoni, l'esprit militant, regia di Pierre-Antoine Beretti, Francia, 2016 [d]. Une vie violente, regia di Thierry de Peretti, Francia, 2017. Terra di i turmenti, regia di De Gaulle Eid, Francia, 2015 [d]. Fumetti Antonetti P., Corsica 1919. I. Un antru "chemin des dames", Antonetti, s.i.l. 2017. Bertocchini F., Sandro, Nino P., Colomba, DCL, Ajaccio 2012. Bertocchini F., O'Griafa M., Espinosa M., Libera me. L’intégrale, DCL, Ajaccio 2016. Bertocchini F., Rückstühl E., Pasquale Paoli. La leggenda, Taphros, Olbia 2018. Blancou D., Camberou P., Pottier F., Sous le feu corse: L'enquête du juge des paillotes, Futuropolis, Paris 2016. Dodo, Chapron G., Une histoire corse, Glenat, Paris 2018. Manfruelli B., Corsicartoons, Stamperia Sammarcelli, Biguglia 2005. Micheli S., Korsis. I. La dame blanche, Corsicacomix, 2017. Piatzszek S., Espé, L'Île des Justes: Corse, été 42, Glenat, Paris 2015. Stromboni, Mazzeru, Casterman, Paris 2017. Tignous, Paganelli D., Le procès Colonna, 12 bis, Paris 2008. Romanzi Andreani J.-J., L'ile des ogres, Albiana, Ajaccio 2017. Anonimo, Dominique e Séraphine. Un romanzo corso, 1768, Barbès, Firenze 2012. Benigni G, Ieiettu. Una storia fuori dal comune, Impressioni Grafiche, Acqui Terme (AL) 2016. Chamaillard P., U Pinzutu ou la Corse de l'impossible oubli, Cheminements, Le Coudray-Macouard 2003. Colonna d’Istria R, Une famille corse. 1200 ans de solitude, Plon, Paris 2018. De Mapaussant G., La Corse de Guy de Maupassant: Nouvelles et récits, Albiana, Ajaccio 2007. Ferrari J.., Balco atlantico, E/O, Roma 2013. Ferrari J., Il sermone sulla caduta di Roma, E/O, Roma 2014. Ferrari M.-H., Il destino non c'entra, Lantana, Roma 2011. Flaubert G., Viaggio nei Pirenei e in Corsica, Tarka, Mulazzo (MS) 2016. Santini J.-P., Corsica clandestina, Albiana, Ajaccio 2005.
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L'impossibile principio di uguaglianza Natan Sznaider
Il 19 luglio 2018 il Parlamento israeliano ha approvato la legge ufficialmente nota come Legge fondamentale: Israele come stato nazionale del popolo ebraico. Il governo ha salutato la sua adozione – importante anche per motivi legati alla prossima campagna elettorale – come se la Dichiarazione d'indipendenza fosse stata approvata una seconda volta. Una parte dell'opposizione e la minoranza araba pensano che questo segni la fine della democrazia. Varie critiche sono giunte anche dall'estero. A prima vista questa legge non cambia molto. Israele era nato come stato ebraico. Il sionismo aveva sempre avuto la funzione di garantire il predominio ebraico. Allora perché tanto entusiasmo, se questa legge non fa altro che ribadire dei principi che erano chiari fin dalla nascita di Israele? "La terra d'Israele è la patria storica del popolo ebraico, nella quale è stato edificato lo stato israeliano": questo viene affermato chiaramente all'inizio, in modo da inserire la bandiera, l'inno nazionale e la capitale nella legge. Ma dal 1948 anche la popolazione araba vive in Israele come minoranza etnica e religiosa, con precisi diritti di cittadinanza. Oggi sono circa 1.700.000 e costituiscono il 21% dei cittadini. E la cittadinanza presuppone un'uguaglianza formale. "Finché dentro il cuore, nella sua parte più profonda, l'anima ebraica anela e verso l'oriente lontano, un occhio guarda verso Sion...." così comincia l'inno nazionale. Il suo contenuto profondamente ebraico è sempre stato inaccettabile per molti cittadini arabi. La nuova legge stabilisce che questo è l'inno nazionale, ma gli arabi se ne sentono esclusi. Sono palestinesi, ma al tempo stesso sono anche cittadini israeliani. Sono estranei al progetto sionista perché non possono stabilire un legame simbolico con lo stato nazionale ebraico. Questo problema esiste fin dalla nascita di Israele, ma prima di ora non era mai stato chiaramente regolato dalla legge. La presenza araba ricorda costantemente alla maggioranza ebraica che la sua sovranità non è una realtà lapalissiana e che lo "stato ebraico" deve sempre fare i conti con una minoranza non ebraica. A questo proposito, la legge esprime la profonda insicurezza degli ebrei nei confronti della propria identità nazionale. La paura di perderla stimola il ritorno a un nazionalismo illiberale che si riscontra ultimamente anche in Europa e negli Stati Uniti. La società è interessata anche da altri cambiamenti. Col passare degli anni, la popolazione araba è diventata parte integrante dell'ambiente israeliano che contesta apertamente il carattere ebraico dello stato. Data la vicinanza geografica di Israele all'Occidente, l'efficienza del suo sistema scolastico e i suoi principi democratici, questa generazione non accetta più lo status di cittadini di serie B. Quindi il vero obiettivo della nuova legge è quello di ripristinare la vecchia logica della discriminazione. Negli ultimi anni la popolazione araba è cambiata molto. I suoi dirigenti si sono fortemente "palestinizzati" e hanno chiesto che lo stato ebraico diventasse uno "stato di tutti i cittadini". Inoltre hanno reclamato uguaglianza sociale e autonomia culturale. Per esempio, l'élite palestinese ha pubblicato vari documenti che auspicano questo nuovo stato binazionale. Quindi la nuova legge prevede già che un giorno lo status quo dell'occupazione (dei territori palestinesi, ndt), che in pratica può durare ancora a lungo, non sarà più praticabile. I cittadini arabi sono sempre stati accusati di essere più leali verso i Palestinesi e l'intera comunità araba che verso Israele. Ma è proprio la discriminazione sociale alla quale sono sottoposti che rafforza questo fenomeno. Al tempo stesso, la progressiva commistione di arabi ed ebrei viene avversata da coloro che hanno a cuore l'omogeneità etnica. Così, mentre i primi chiedono maggiore eguaglianza, i secondi chiedono misure più discriminatorie. Uno dei principali obiettivi della nuova legge è proprio quello di tradurle in pratica dando loro una cornice giuridica precisa. Ed è lo stesso motivo per il quale l'approvazione della legge ha scatenato cortei di persone che sventolavano la bandiera palestinese. Il governo non aspettava altro: Netanyahu ha detto che queste dimo27
strazioni avevano semplicemente confermato la necessità di applicare una legge che istituzionalizzasse il carattere ebraico dello stato. Israele, comunque, non è mai stato un paese liberale. I principi liberali sono basati sull'uguaglianza, mentre quelli etnonazionali si fondano su una logica particolaristica che la esclude a priori. Oggi Israele è simile a paesi come Estonia, Polonia, Slovacchia e Ungheria, che possono definirsi "democrazie etniche". Quando il Primo ministro ungherese Orbán ha detto che la democrazia liberale era finita, le sue parole hanno avuto una forte eco nello stato ebraico. Il fatto che Israele venga assimilato a queste democrazie illiberali irrita molte persone, soprattutto in Germania. Ma in pratica questo è non è altro che l'esito logico del sionismo. Israele era nato come isola europea nel Medio Oriente, ma ora si sta allontanando dal modello democratico occidentale per avvicinarsi agli stati non liberali della "nuova Europa" col sostegno degli Stati Uniti. Non è un caso che i suoi legami con questi paesi europei si siano fatti più stretti. Ma i problemi non finiscono qui. L'occupazione, la santità dei territori conquistati e la soluzione dei due stati caldeggiata all'estero hanno allontanato Israele dall'Europa. La terra di Israele è la patria del popolo ebraico. La legge usa questi termini: non dice lo stato di Israele. Nella lingua ebraica questa distinzione è molto importante. Si tratta di due concetti diversi che si intrecciano saldamente fra loro: da una parte lo stato israeliano con le sue istituzioni politiche e coi suoi cittadini, dall'altra la "terra di Israele", un'entità sacra dove valgono altre leggi e altre strutture temporali. Fino alla guerra dei sei giorni (1967) la "terra di Israele" era stata un'entità immaginaria che non conosceva confini. Dopo aver riconquistato la West Bank (Cisgiordania) strappandola alla confinante Giordania, che l'aveva annessa con la guerra del 1948, questa entità è diventata reale, venendo a coincidere con lo stato israeliano. Questo usa un linguaggio politico chiaro: parla di democrazia, di confini, di leggi. Coloro che vivono in questo stato si considerano ebrei "illuminati" che cercano di far coincidere il loro linguaggio politico con quello "sacrale". Per coloro che credono nella "terra di Israele" la parola occupazione non ha alcun senso: non si può occupare illegalmente il proprio paese. La nuova legge, quindi, prevede che un giorno lo status quo dell'occupazione venga meno: il paese diventerà la madrepatria degli ebrei, dove i concetti di maggioranza e minoranza non avranno più senso.
Emptied Lands: A Legal Geography of Bedouin Rights in the Negev Alexandre Kedar, Ahmad Amara, Oren Yiftachel
Questo libro ricostruisce il lungo conflitto giuridico e territoriale fra lo stato sionista e la popolazione indigena beduina. Gli autori tracciano un'analisi interdisciplinare che intreccia dati storici, giuridici, geografici e culturali, fornendo così la prima analisi esaustiva della dottrina della terra nullius concepita da Israele per cacciare i beduini dal deserto del Negev e giudaizzare la loro terra. Un'opera necessaria per capire un aspetto ignoto della realtà israeliana, i cui problemi non finiscono con la questione palestinese.
pp. 424, $70.00, Stanford University Press, 2018 28
Un'iniziativa popolare per le minoranze Thomas Benedikter
È passata quasi inosservata un'iniziativa politica di grande rilievo che riguarda le numerose minoranze etnolinguistiche presenti nei paesi dell'UE. Si tratta del Minority Safepack (lett. "pacchetto di misure di salvataggio"), lanciato nel luglio 2013 dalla Federal Union of European Nationalities (FUEN), che riunisce un centinaio di organizzazioni minoritarie presenti in 30 paesi europei. Lo strumento partecipativo dell'Iniziativa dei cittadini europei (ICE) – simile alla proposta di legge di iniziativa popolare italiana – consente, dopo aver raccolto un milione di firme, di proporre alla Commissione europea norme su materie che rientrino nella sfera di competenza dell'UE. In un primo momento la Commissione aveva respinto questa iniziativa dichiarandola inammissibile. Ma i promotori, affiancati dalla Südtiroler Volkspartei (SVP) e dall'Alleanza Democratica degli Ungheresi della Romania (UDMR), hanno fatto ricorso e hanno ottenuto via libera per la raccolta delle firme. Stando alle statistiche più attendibili, in Europa esistono almeno 300 comunità minoritarie, per un totale di quasi 100 milioni (inclusa la Russia europea). La Commissione europea parla di 40 milioni di cittadini comunitari su 500 milioni di residenti (incluso il Regno Unito) che parlano una lingua diversa da quella maggioritaria. Quindi si tratta di un settimo della popolazione totale, fra cui molte comunità linguistiche minuscole che rischiano l'assimilazione. In Italia sono 13 le minoranze linguistiche riconosciute dallo Stato (Legge 482/1999). Le rivendicazioni esposte nel Minority Safepack riguardano vari campi: dalla cultura ai servizi audiovisivi e mediatici, dalla scuola all'uguaglianza. Inoltre l'iniziativa chiede all'UE di stimolare gli stati membri a un maggiore impegno. In altre parole, l'intera Unione Europea dovrebbe impegnarsi più concretamente e con maggiori risorse per la protezione delle minoranze linguistiche sul suo territorio. Tanto più che il suo motto principale è proprio Unità nella diversità. Grazie a una vasta campagna mediatica l'iiniziativa ha raccolto 1.216.000 firme, superando ampiamente il minimo richiesto. In Italia ne sono state raccolte 60.545, grazie soprattutto al forte impegno della Provincia autonoma di Bolzano. Nel resto del paese – eccettuata la Valle d'Aosta – l'attenzione è stata invece molto scarsa, perfino nelle regioni dove vivono le minoranze linguistiche meno protette (Friuli, Piemonte, Sardegna e Sicilia). Nei prossimi mesi la Commissione dovrà studiare degli interventi concreti, mentre i promotori avranno il diritto di essere ascoltati ufficialmente dal Parlamento europeo. La Commissione potrà respingere le proposte e il suo parere sarà insindacabile. In ogni caso la campagna non sarà stata inutile, perché le minoranze saranno riuscite a rimarcare la scarsità di risorse che vengono stanziate per le loro necessità. Spetterà ai vari stati decidere se destinare maggiori risorse a un impegno culturale estraneo ai compiti dell'UE, ma la soluzione auspicabile sarebbe che tutti i paesi membri ratificassero e applicassero la Convenzione-quadro per la minoranze nazionali e la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie.
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Biblioteca
AA. VV., "Les minorités dans le civilisations antiques", Volumen, 15-16, 2016. Quando si parla di minoranze è abbastanza implicito che ci si occupi di questioni attuali, o comunque piuttosto recenti, al massimo circoscritte agli ultimi due secoli. Ma questa regola, proprio in quanto tale, prevede delle eccezioni. Del resto, in ogni periodo storico sono esistite delle minoranze, anche se questo concetto ha avuto diversi significati a seconda del contesto sociale, politico e geografico in cui era inserito. Proprio perciò segnaliamo molto volentieri il dossier pubblicato da Volumen, rivista belga fondata per valorizzare il patrimonio storico, archeologico e artistico del mondo antico. Il panorama include fra l'altro le comunità nate in seguito alla diaspora, come i libici di Cartagine, i germani dell'impero romano e i greci dell'India. Non mancano le minoranze religiose, dai pagani della tarda antichità agli ebrei presenti in Cirenaica e in Egitto. Risolutamente interdisciplinare, il dossier si sofferma anche sulla normativa che regolava lo status delle varie minoranze. Un'utile raccolta di contributi firmati da esperti autorevoli. Antonella Visconti Jeff Corntassel et alii (a cura di), Everyday Acts of Resurgence: People, Places, Practices, Daykeeper Press, Olympia (WA) 2018, pp. 123, $ 14.99. Ormai i popoli indigeni contribuiscono in modo determinante alle iniziative politiche e culturali che li riguardano: dalle riviste ai libri, dai siti alle conferenze, chi vuole seguire questi temi dispone di una scelta molto ampia, spesso di buona qualità. Un esempio è il libro Everyday Acts of Resurgence: People, Places, Practices, nato nell'ambiente che fa capo al sito www.intercontinentalcry.org, fondato da John Ahni Schertow, e al prestigioso Center for World Indigenous Studies guidato da Rudolph Rÿser. Il volume contiene ventidue saggi, tutti piuttosto brevi, firmati da attivisti e docenti indigeni di rilievo, fra i quali Natalie Clark, Brad Coombes e Gerald Taiaiake Alfred. La maggior parte è costituita da indiani del Nordamerica e kanaka maoli (indigeni hawaiiani). I temi trattati spaziano dai diritti territoriali ai legami familiari, ma quello che spicca è il continuo richiamo al rinascimento culturale e al riscatto politico. Gli "atti quotidiani di rinascita" evocati nel titolo sono gli strumenti irrinunciabili di un mondo culturale che vuole essere parte attiva del cambiamento al quale aspira. Alessandro Michelucci 30
Patrice Bonnel, Yannick Doublet, Corse et Âmes, Clementine, Porto-Vecchio 2017, pp. 132, € 26,80. Il libro è il frutto della prima collaborazione fra il fotografo Yannick Doublet e lo scrittore Patrick Bonnel. In un paio di anni i due hanno girato la Corsica incontrando un centinaio di persone note e meno note: artigiani e musicisti, imprenditori e scrittori, giornalisti e sportivi. Alcuni di loro hanno un rilievo che supera i confini locali: basti pensare al liutaio Ugo Casalonga, che ha ricostruito la cetera (l'antica cetra corsa). Da sempre avvezza al contatto col mondo, l'isola è oggi più che mai aperta, viva, tutt'altro che chiusa in se stessa. Lo attestano alcune persone avvicinate dai due autori, come Marina Raibaldi, italiana della Croazia, il berbero Mounir Ghazali e Pamela Saint-Clair Naylon, irlandese di Dublino. Il panorama fornisce un'immagine positiva dell'isola e ci permette di conoscere i cambiamenti che sta vivendo in questi anni. "Qualcosa mi dice che un giorno quest'isola sbalordirà l'Europa" ha scritto Jean-Jacques Rousseau nel Contratto sociale (1762). E se quel momento stesse per arrivare? Giovanna Marconi Gerald Stone, Slav Outposts in Central European History: The Wends, Sorbs and Kashubs, Bloomsbury Academic, New York (NY) 2016, pp. 408, $32.36. Generalmente i popoli slavi costituiscono delle maggioranze: dagli Sloveni ai Bulgari, dai Russi ai Serbi, gran parte dell'Europa centrale e orientale lo attesta chiaramente. Talvolta, però, sono anche minoranze in altri paesi, siano questi abitati da una maggioranza slava o no. È il caso dei Vendi e dei Sorabi, stanziati nell'ex Germania Est, e dei Casciubi, che abitano nel nordest della Polonia. Il libro di Gerald Stone traccia un efficace panorama storico e culturale di questi tre popoli minoritari scarsamente trattati dalla pubblicistica accademica. I Vendi e i Sorabi vengono considerati separatamente, pur tenendo conto degli stretti legami che li uniscono (oggi i due termini vengono spesso usati come sinonimi). L'autore, Emeritus Fellow dell'Università di Hertford, ha al proprio attivo altre opere dedicate allo stesso tema, fra le quali The Smallest Slavonic Nation: The Sorbs of Lusatia (Bloomsbury Academic, 2015). Le minoranze che lo studioso tratta in Slav Outposts in Central European History sono i popoli slavi più occidentali (in termini geografici). Stone non dimentica gli aspetti linguistici, ma il libro rimane comunque un'opera storica, e come tale non interessa soltanto coloro che si occupano di lingue minacciate. Come sottolinea l'autore, il fatto che certe minoranze siano state oppresse dalla dittatura – i Sorabi dal nazismo e dal comunismo, i Casciubi dal secondo – non deve indurre a pensare che il ritorno alla democrazia abbia sanato completamente queste ferite. La narrazione è intensa, toccante, ma mai compromessa da un approccio di parte. La logica manichea imposta dalla Guerra fredda ha prodotto una frattura profonda fra le due parti del continente. La straordinaria ricchezza culturale dell'Europa balcanica, danubiana e baltica è stata dimenticata - o addirittura ignorata - da milioni di italiani, francesi, spagnoli... Il volume di Stone, appassionante come un romanzo, è un lodevole tentativo di invertire questa rotta perversa e di ricollegarci con le nostre radici. Perché siamo europei e non "occidentali". Alessandro Michelucci Luca Maestri, An gorta mór. La Grande Carestia in Irlanda (1845-1851), Pentagora, Savona 2017, pp. 140, € 10. Nel volgere di pochi anni, alla metà del XIX secolo, quasi un terzo della popolazione irlandese morì o fu costretta a emigrare in America in seguito a una delle più gravi carestie dell'Europa contemporanea. All'epoca la patata era l'unico alimento che garantiva la sussistenza dei contadini irlandesi, ma la rapida diffusione di un fungo proveniente dall'America del nord ridusse i tuberi a un 31
ammasso marcescente rendendo immangiabile buona parte del raccolto. Quando il morbo fu scomparso definitivamente il bilancio fu tragico: centinaia di migliaia di persone erano morte per la fame e per le epidemie diffuse dalla denutrizione (colera, gastroenterite, scorbuto, tifo), mentre due milioni erano emigrati. Un conciso saggio di Luca Maestri, An Gorta Mór. La Grande Carestia in Irlanda (1845-1851), ricostruisce quei fatti alla luce del percorso storiografico svolto fino ad oggi. Le catastrofiche conseguenze della perdita dei raccolti dipesero dal contesto socio-economico di stampo coloniale dell'epoca: il cibo prodotto in Irlanda avrebbe potuto sfamare l'intera popolazione, se solo non fosse stato destinato all'esportazione. Altrettanto colpevole fu il governo britannico, fedele ai principi del laissez-faire, che imponevano di non interferire col corso naturale degli eventi. Il governo non pianificò lo sterminio di massa della popolazione irlandese, ma non fece nulla per prevenire la tragedia o per ridurne gli effetti. Al contrario, accolse la carestia come il modo ideale per risolvere il problema della sovrappopolazione e per procedere a una distribuzione più redditizia delle terre. Alcuni storici contemporanei ritengono che considerarla soltanto una carestia sia riduttivo e sostengono che sia più corretto parlare di genocidio, poiché le politiche messe in atto dagli inglesi favorirono quell'ecatombe allo scopo di eliminare i contadini irlandesi. In appendice al libro, un'interessante sezione ripresa dai giornali dell'epoca, con descrizioni e disegni assai eloquenti, in un'epoca in cui la fotografia era ancora agli albori. Riccardo Michelucci Ana Dominguez (a cura di), Repensar la España plurinacional, Icaria Editorial, Barcelona 2017, pp. 188, € 13,50. Nell'ultimo anno la stampa ha dedicato ampio spazio alla Catalogna. Molti articoli hanno accennato alle altre due regioni autonome spagnole, con particolare attenzione ai Paesi Baschi, comunque già più noti in seguito agli attentati terroristici dell'ETA. La Galizia, al contrario, ha ricevuto un'attenzione minima. Queste tre autonomie si iscrivono nell'articolato quadro politico-amministrativo che la Spagna ha costruito dopo la morte di Franco. Si tratta di un sistema originale, di tipo quasi federale, che merita di essere conosciuto meglio. Un valido strumento per farlo è questo libro curato da Ana Dominguez. Il volume raccoglie scritti inediti di dieci autori che rappresentano varie tendenze della sinistra spagnola, fra i quali Paolo Ignesias e altri parlamentari di Podemos, la sociologa basca Irantzu Mendia e Xosé Manuel Beiras, figura storica del nazionalismo galego. Gli interventi contengono numerosi spunti interessanti che stimolano una riflessione profonda sull'attuale conformazione politica del paese iberico e sulla necessità di riformarlo. Secondo Pérez Tapias la Spagna deve attuare un vero federalismo, mentre Beiras sottolinea che la sinistra radicale e i movimenti nazionalitari (basco, catalano e galego) sono alleati naturali e devono prenderne atto. Pablo Iglesias, leader di Podemos, crede che sia necessario costruire uno "spirito repubblicano di fratellanza" come motore di un impulso costituente, e che "questo non sarà possibile senza la collaborazione delle sorelle e dei fratelli catalani". Opera composita e attualissima, Repensar la España plurinacional inaugura Argumenta, la nuova collana delle edizioni Icaria dedicata a vari temi d'interesse politico, sociale e culturale. Antonella Visconti Sergio Salvi, Patria e Matria. Dalla Catalogna al Friuli, dal Paese Basco alla Sardegna: il principio di nazionalità nell’Europa occidentale contemporanea, 2. ed., Papiros, Nuoro 2017, pp. 194, € 10. Questo è il terzo libro di Sergio Salvi, edito originariamente da Vallecchi nel 1978 dopo Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia (Vallecchi, 1973) e Le nazioni proibite. Guida a dieci colonie 'interne' dell'Europa occidentale (Rizzoli, 1975). Con queste opere lo scrittore fiorentino era sta32
to uno dei primi italiani ad affrontare in modo rigoroso ma divulgativo i problemi delle minoranze. Sono passati oltre quarant'anni da allora, ma questi libri sono per molti versi ancora di grande attualità. Perciò è apprezzabile l'iniziativa di ristampare Patria e matria, con una gradevole veste grafica e una premessa che collega all'attualità le riflessioni sviluppate nella prima edizione. Patria e Matria si conferma una lettura decisamente interessante, sia come documento d'epoca che come chiave interpretativa della realtà contemporanea, a partire dalla distinzione tra nazione e stato, e quindi tra nazionalità e cittadinanza. Il libro presenta un coerente inquadramento teorico; con acume e ironia denuncia e talvolta ridicolizza lo sciovinismo dei nazionalismi di stato; interpreta in modo liberatorio la questione delle identità linguistiche e delle nazioni senza stato. Negli ultimi quarant'anni sono cambiate molte cose, ma è ancora vivo il bisogno di identità, di giustizia sociale, di autogoverno. Il futuro è da scrivere... e anche da leggere. Marco Stolfo Francesca Rosati, L'Islam in Cina. Dalle origini alla Repubblica popolare, L'Asino d'oro, Roma 2017, pp. 292, € 23. In Italia l'interesse per il mondo cinese si è concentrato principalmente sulla Rivoluzione Culturale di Mao Zedong, interpretata come riscatto di una classe popolare emarginata negli anni della contestazione giovanile, per poi indagare, più o meno profondamente, nel veloce e confuso sviluppo economico ancora in atto. Assorbiti da questi argomenti, gli accademici e i media non hanno mai approfondito altri temi altrettanto importanti che sono emersi con prepotenza dopo gli anni Ottanta. Questo libro di Francesca Rosati colma almeno in parte una di queste lacune, dando il giusto spazio ai contributi che il mondo islamico ha dato alla storia cinese. Il volume traccia in modo puntiglioso un percorso di sviluppo ricco di dati, prendendo spunto da documenti di prima mano, come attesta anche la ricca e articolata biografia. Proprio l'abbondanza di date, nomi e citazioni rende questo lavoro adatto più al mondo accademico e al lettore che mostra interesse per lo specifico argomento. Il lettore medio, a cui non interessa entrare nel dettaglio, si sentirebbe spaesato davanti a questa sovrabbondanza di personaggi e toponimi. Il lavoro certosino dell'autrice, inoltre, ha il pregio di sfatare diversi miti che ancora oggi cir-colano sui musulmani della Cina: la studiosa sottolinea infatti che è stata la tolleranza dell'Islam a far accettare questa religione; che i musulmani presenti oggi in Cina non sono solo di etnia uigura (ci sono almeno dieci nazionalità che hanno il Corano come Libro Sacro); che studiosi musulmani sono stati importanti consiglieri all'interno delle corti imperiali del Celeste Impero. L'ultima parte è giustamente dedicata al nazionalismo islamico, in particolare uiguro, scoperto dai media solo negli anni Novanta, ma presente ben prima di allora e radicato nello Xinjiang. Gli sforzi economici che il governo ha fatto per recuperare l'appoggio delle frange popolari musulmane e il coinvolgimento di alcuni combattenti uiguri nel jihad meriterebbero una discussione più ampia, come ammette la stessa autrice. Si spera, data la qualità del libro, che questi temi vengano trattati nelle sue prossime fatiche. Piergiorgio Pescali Simone Zoppellaro, Il genocidio degli yazidi. L’Isis e la persecuzione degli «adoratori del diavolo», Guerini e Associati, Milano 2017, pp. 136, € 14,50. L'intolleranza per la diversità culturale, linguistica e religiosa è una costante della storia. Oggi, in particolare, questa contrasta con la difesa dei diritti culturali, linguistici e religiosi affermata da tutti gli organismi internazionali. Generalmente viene espressa dalle maggioranze "forti" nei confronti delle minoranze "deboli", con risultati spesso tragici. L'intolleranza religiosa, che era stata espressa a lungo dagli stati europei a maggioranza cristiana, 33
oggi è portata avanti soprattutto dall'integralismo di matrice islamica sunnita. Non ci riferiamo solo al noto contrasto fra sunniti e sciiti, ma soprattutto all'odio contro i seguaci altre religioni, diffuso specialmente dall'ISIS, che occupa le cronache da alcuni anni. Un odio che perdura e che può avere come vittime anche gruppi come gli Yazidi, monoteisti e preislamici, che fino a poco tempo fa abitavano nella regione del Sinjar e nel Kurdistan iracheno, al confine settentrionale con la Siria. La storia di questa minoranza religiosa viene raccontata con molta chiarezza da Simone Zoppellaro nel libro Il genocidio degli Yazidi. L'autore si sofferma soprattutto sulle vicende degli ultimi anni, durante i quali l'ISIS ha realizzato un vero e proprio genocidio nei confronti degli Yazidi, ritenuti "adoratori del diavolo". Questa persecuzione spietata ha prodotto migliaia di morti, disperdendo la popolazione restante negli stati vicini e in tutti i continenti. Zoppellaro calcola che i 300.000 yazidi residenti nel Sinjar prima del 2014 siano oggi ridotti a 3000 persone, per poi ritornare a circa 80.000 dopo la sconfitta dell'ISIS. Un calvario fatto di stupri, uccisioni di massa, deportazioni, schiavitù sessuale — puntualmente raccontato e documentato dall'autore — volto ad annientare la differenza in un delirio totalitario e pseudoreligioso, approfittando della debolezza degli Yazidi e dell'inerzia occidentale. Diego Corraine Paul D. Barclay, Outcasts of Empire: Japan’s Rule on Taiwan’s “Savage Border,” 1874–1945, Oakland, CA: University of California Press, Oakland (CA) 2018, pp. xvii + 307 pp. , $34.95. I popoli indigeni di Taiwan sono ignoti al grande pubblico. In genere si parla dell'isola per il ruolo che riveste nel contesto geopolitico internazionale: ultimo baluardo delle forze nazionaliste cinesi di Chiang Kai-Shek, Taiwan è rimasta politicamente isolata, anche se questo provoca ricorrenti tensioni con la Repubblica Popolare, che rivendica da sempre l'isola. Il volume di Barclay, al contrario, analizza un altro aspetto della storia taiwanese, cioè l'epoca coloniale giapponese e le sue ricadute sulle popolazioni indigene, che cercarono di resistere a più riprese all'espansione nipponica. Taiwan, che gli studiosi considerano la culla delle civiltà austronesiane, è abitata da almeno 16 gruppi aborigeni. Nel 1874 fu occupata dai giapponesi, che riuscirono a controllare i maggiori insediamenti abitati dagli Han (la popolazione di origine cinese). Ma le ampie zone collinari, coperte dalla foresta e abitate dagli indigeni, rimasero sempre una zona di frontiera. Qui, come accade spesso quando un invasore si espande nei territori tribali, le autorità coloniali si comportarono con maggiore brutalità. Le comunità indigene non facevano parte dell'impero cinese; così, quando il trattato di Shimonoseki (1895) sancì il dominio nipponico, i loro territori erano di fatto indipendenti. Il libro si concentra sui rapporti tra indigeni e autorità coloniali, dai primi contatti fino alla ribellione di Wushe del 1930 e alla sua cruenta repressione, per poi analizzare la situazione post-bellica e i successivi sviluppi, fino al fermento indigeno globale del ventunesimo secolo. Davide Torri AA. VV., "Les Berbères: De Saint Augustin à Zinedine Zidane", Les collections de l'Histoire, 78, janvier-mars 2018, pp. 96, € 6,90. La rivista di divulgazione storica diretta da Valérie Hannin propone un ampio panorama della cultura berbera, partendo dalla resistenza contro gli invasori che si sono avvicendati nei secoli: romani, arabi, francesi. L'indagine storica arriva fino a oggi, con ampio spazio per le rivendicazioni attuali. Dalla guerra d'Algeria ai Tuareg, da Lounès Matoub a Zinedine Zidane, un viaggio affascinante attraverso una cultura antica e originale. Integra il testo un ricco corredo iconografico. Hanno contribuito alcuni dei maggiori esperti della materia, fra i quali Ahmed Boukous, Hélène Claudot-Hawad e Tassadit Yacine. Alessandro Michelucci 34
Giulia Bogliolo Bruna, Equilibri artici. L'umanesimo ecologico di Jean Malaurie, CISU, Roma 2016, pp. 304, € 26. Jean Malaurie, Terra Madre. In omaggio all'immaginario della Nazione Inuit, EDUCatt, Milano 2017, pp. 49, € 4. Jean Malaurie, Oser, résister, CNRS Editions, Paris 2018, pp. 200, € 19. Una delle eredità più preziose per i cultori di questioni indigene è quella di Jean Malaurie, il massimo eskimologo vivente, che ha operato una sintesi ideale fra impegno scientifico e difesa dei popoli autoctoni. Profondo conoscitore delle culture artiche, lo studioso francese ha cercato di portarle all'attenzione mondiale in ogni modo: con articoli, conferenze, libri, rassegne cinematografiche, riviste, etc. A questa mole impressionante di lavoro deve aggiungersi la direzione della collana Terre humaine, nata nel 1954 e pubblicata da Plon: un centinaio di testi che spaziano dall'Artico all'Amazzonia, dalla Corsica all'Australia, componendo un mosaico affascinante della varietà culturale che caratterizza il nostro pianeta. I libri di Malaurie sono stati tradotti in molte lingue, ma l'editoria italiana gli ha dedicato poca attenzione. Perfino le notizie reperibili sulla versione italiana di Wikipedia sono molto scarse, per cui lo studioso, pur godendo di rilievo mondiale, è ancora quasi ignoto al lettore italiano. Ma negli ultimi anni, fortunatamente, sono usciti due libri che colmano questa lacuna, mettendo in luce l'opera e il pensiero dell'eskimologo. Entrambi si devono all'impegno di Giulia Bogliolo Bruna, un'importante americanista che ha collaborato a lungo con lui, condividendo lo spirito delle sue ricerche. Equilibri artici. L'umanesimo ecologico di Jean Malaurie è la versione italiana di Jean Malaurie, une énergie créatrice (Editions Armand Colin, Paris 2012). Una vera e propria biografia, ricca e dettagliata ma mai pedantesca. Dalle pagine traspare chiaramente l'ammirazione per il collega francese, che l'autrice considera un maestro, naturalmente senza che questo tolga niente all'originalità del proprio impegno scientifico. Grazie a questo volume il lettore dispone finalmente di una bussola che gli consente di cogliere la varietà e la complessità dell'approccio malauriano. Questo compare ancora più chiaramente in Terra Madre. In omaggio all'immaginario della Nazione Inuit, un manifesto ecologista curato e tradotto dalla studiosa ligure. Il breve testo si richiama apertamente all'enciclica Laudato si (2015), dove il Pontefice manifesta un forte interesse per i popoli indigeni e per le loro culture. Probabilmente Malaurie, come molti altri, sopravvaluta certe posizioni scomode del Papa, che non ha esitato a santificare il controverso missionario francescano Junipero Serra (23 settembre 2015), accusato di aver partecipato al genocidio degli Indiani, scatenando forti critiche da parte di alcuni studiosi e di varie organizzazioni indigene. In ogni caso questa contraddizione non si riflette sullo studioso: il riferimento alle posizioni papali viene fatto in buona fede e non compromette minimamente la sostanza del testo. Oggi Malaurie ha 95 anni, ma possiede ancora lo slancio vitale che ha segnato la sua vita. Lo dimostra il suo ultimo libro, Oser, résister. In questa nuova opera l'eskimologo espone chiaramente le proprie idee traendo spunto dai tanti contesti ambientali e umani nei quali ha sviluppato la propria attività multiforme. Dalle regioni artiche alla Terra del Fuoco, senza dimenticare una ricca varietà di temi culturali, sociali e ambientali connessi, l'autore ci esorta a mantenere viva quella voglia di resistere all'omologazione che minaccia tutti: noi, i popoli indigeni, il pianeta. Soltanto in questo modo, sostiene giustamente, sarà possibile raggiungere quello che lui considera il suo obiettivo primario: la difesa dei popoli autoctoni e dell'ambiente. Poetico ma mai astratto, politico nel senso più nobile del termine, il messaggio tocca vertici umani altissimi. In pratica è proprio questa la vera forza dello studioso, che con la sua carica empatica resta lontano anni luce dalla freddezza aulica che molti potrebbero temere. Gridi di allarme contro il materialismo occidentale come questo non sono certo nuovi, soprattutto negli ultimi anni, ma quello dello studioso francese, animato da un vero spirito libertario e da una ricca esperienza scientifica, si differenzia nettamente da quelli di coloro che coltivano il vezzo della diversità fine a se stessa. Giovanna Marconi 35
Massimiliano Galanti, La questione indiana da Colombo al terzo millennio, seconda ed., Odoya, Bologna 2016, pp. 472, € 24. Questo ricco lavoro storico a fini divulgativi, pur essendo schierato dalla parte dei nativi, presenta una ricerca equilibrata che tiene conto dei vari fattori in gioco. Il libro offre dunque una buona raccolta di dati storici in cui si colgono gli eventi dell'America indigena e le ragioni politiche ed economiche che li sottendono. L'autore privilegia la storia della colonizzazione britannica, che portò alla formazione degli Stati Uniti, lasciando in secondo piano il ruolo di francesi, spagnoli e russi. Vengono messi in rilievo la catastrofe demografica provocata dalle epidemie e i molti problemi dovuti al contatto, con una stimolante descrizione del contrasto tra le culture indigene e quelle europee. Dettagliata l'analisi dell'edificio giuridico elaborato dai colonizzatori europei per giustificare l'occupazione e la conquista del territorio, dal diritto di scoperta all'evangelizzazione. Piuttosto tradizionale nell'impostazione, il volume non tiene conto degli storici nativi (pochi in verità) né degli storici revisionisti che privilegiano argomenti come i ruoli di genere e gli squilibri sociali insiti nell'avanzamento della frontiera. Vengono privilegiati gli eventi bellici piuttosto che la ricerca di soluzioni diplomatiche tra nazioni indiane e governo statunitense. Non emergono ritratti di personaggi importanti e le donne non hanno alcun ruolo di rilievo. Meritavano maggiore approfondimento argomenti come il trauma intergenerazionale determinato dai programmi di acculturazione forzata delle residential schools (convitti per indigeni). Lodevole, al contrario, la scelta di offrire informazioni dettagliate sulla situazione contemporanea. Manca un indice analitico, ma questo è un problema di quasi tutti i libri italiani. Un libro di consultazione e non di lettura coinvolgente, forse perché troppo ricco di dati e di date.
Naila Clerici
Melodie casciube L'ISPAN (Istituto d’Arte dell'Accademia Polacca delle Scienze) ha ripubblicato un prezioso documento etnomusicale, Cassubia incognita, uscito originariamente nel 2009. La nuova edizione, che contiene anche brani non inclusi nella prima, ha un altro titolo: Melodie z borów, łąk, pól i znad wód (Melodie delle foreste, dei prati, dei campi e delle acque). Si tratta di un lavoro interamente dedicato alle musiche tradizionali della Casciubia, la regione nordoccidentale della Polonia abitata da una minoranza slavofona che convive felicememente con la maggioranza polacca. Il CD propone varie registrazioni vocali e strumentali dell'area casciuba, realizzate nel 1945, più altre degli anni Cinquanta, per un totale di 99 titoli. Il libretto allegato contiene testi in casciubo e in polacco, ma purtroppo non in inglese. Le note sono firmate da esperti della materia come Piotr Dorosz, Ewelina Grygier, Jacek Jackowski, Maciej Kierzkowskie, Aleksandra Szymańska e Maria Szymańska-Ilnata. Un valido strumento per conoscere una cultura dimenticata (o addirittura ignorata) dell'Europa centrale. L'ISPAN, fondato nel 1949, è un istituto di ricerca interdisciplinare con sede a Versavia. La sua preziosa opera di documentazione spazia dalla musica alle arti plastiche, dal cinema al teatro. www.ispan.pl
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Nuvole di carta
Colectivo Pestinho, Historia da língua em banda desenhada, n. ed., Através Editora, Santiago de Compostela 2016, pp. 66, € 12,50. Questo albo satirico dedicato alla storia della lingua galega era già stato pubblicato nel 1991, quando il fumetto non era ancora un mezzo per stimolare la conoscenza delle culture minoritarie. La nuova edizione, rivista e ampliata, dimostra che nel frattempo la nona arte è diventata uno strumento particolarmente adatto a questo scopo, soprattutto in campo didattico. Alessandro Michelucci Solenn Bardet (testi), Simon Hureau (disegni), Rouge Himba: Carnet d'amitié avec les éleveurs de Namibie, La boîte à bulles, Saint-Avertin 2017, pp. 312, € 34. L'interesse del fumetto per i problemi dei popoli indigeni è sempre più marcato, soprattutto in Francia, ma questa graphic novel si differenzia da quelle analoghe già pubblicate, essendo stata concepita da una studiosa che lavora con le comunità himba della Namibia. I suoi testi sono stati tradotti in immagini da Simon Hureau, disegnatore e soggettista francese già noto per diversi lavori, fra i quali L'empire des hauts murs (Delcourt, 2006) e Mille parages (La Boîte à bulles, 2015). Regista del film "Les Himbas font leur cinéma" (2007), Solenn Bardet aveva già partecipato a numerose trasmissioni televisive sugli Himba. Questa nuova pubblicazione è una delle iniziative realizzate per finanziare l'associazione Kovahimba, fondata dall'autrice per promuovere la cultura himba. Un lavoro dove si intrecciano perfettamente competenza etnologica, perizia grafica e amore sincero per le culture indigene. Antonella Visconti Adrian Dingle, Nelvana of the Northern Lights, a cura di Hope Nicholson, Bedside Press, Winnipeg (MB) 2017, pp. 324, $ 10. Hope Nicholson, giovane esperta canadese della nona arte, ha curato numerosi albi, fra i quali la serie in due volumi Moonshot: The Indigenous Comics Collection. I fumetti dove i popoli indigeni svolgono un ruolo di primo piano devono essere fra i suoi interessi primari, come conferma la riedizione di Nelvana of the Northern Lights, fumetto canadese degli anni Quaranta interpretato da una inuit. Scritto e disegnato da Adrian Dingle, il personaggio raggiunse velocemente una vasta popo37
larità. Oggi la Marvel e molte altre case editrici propongono regolarmente supereroi indigeni, ma negli anni Quaranta si trattava di una scelta decisamente insolita. La pubblicazione è stata realizzata con una campagna di crowdfunding che ha raggiunto la cifra necessaria in pochi giorni. Raccoglie tutte le storie di Nelvana, pubblicate a puntate su vari giornali dell'epoca. I meno giovani non faticheranno a riconoscere un disegno dai tratti essenziali, talvolta quasi infantili, che all'epoca era diffuso anche in Italia. Completa il volume la postfazione di Soraya Roberts. Antonella Visconti
Il fumetto corso sbarca in Italia Negli ultimi anni la Corsica sta sviluppando una fisionomia propria nel campo del fumetto: l'isola ospita ogni anno due festival molto interessanti, uno a Bastia e l'altro ad Ajaccio; esprime un'attività editoriale intensa; si sta affermando un folto gruppo di sceneggiatori e disegnatori. Uno degli artisti che guidano questo fermento è Frédéric Bertocchini, soggettista di Ajaccio, fondatore del festival che si tiene ogni anno nella città napoleonica. Laureato in storia, autore di libri su Ajaccio, Bastia e Pasquale Paoli, Bertocchini lavora come giornalista ad Alta Frequenza, una delle principali radio del capoluogo insulare. Una parte importante del suo lavoro di soggettista è dedicata alla storia della Corsica. Insieme al disegnatore Eric Rückstühl ha realizzato una serie di tre albi dedicati a Pasquale Paoli (Pasquale Paoli: la légende, 2007-2009) e un adattamento di Colomba (DCL, 2012), il famoso romanzo di Merimée ambientato in Corsica. In anni più recenti sono usciti i due volumi della serie Sampiero Corso (DCL, 2013-2014) e i due della serie Aleria (DCL, 2014-2015). Una novità importante è che alcuni di questi albi sono stati tradotti in italiano. Il Centro Studi Dialogo ha curato la versione italiana di Aleria, che ha pubblicato a puntate sulla sua rivista Dialogo euroregionalista. I tre albi dedicati a Paoli sono stati raccolti in un volume unico, Pasquale Paoli. La leggenda (2018), pubblicato in settembre dalle edizioni Taphros di Olbia. In precedenza era stata tradotta la biografia di Jim Morrison (Jim Morrison. La biografia a fumetti, Edizioni BD, 2011, con disegni di Jef). Il fumetto corso esprime anche altri autori, fra i quali Jules Stromboni (Mazzeru, Casterman, 2017), Serge Micheli (Korsis, I. La dame blanche, Corsicacomix, 2017) e Philippe Antonetti (Corsica 1919, I. Un antru "chemin des dames", Antonetti, 2017). Giovanna Marconi
Mezzo secolo in difesa dei popoli indigeni 1968-2018 Compie cinquant'anni l'International Workgroup for Indigenous Affairs (IWGIA), una delle più attive e longeve associazioni nate per difendere i diritti dei popoli indigeni. L'organizzazione è stata fondata dall'antropologo norvegese Helge Kleivan e da altri studiosi nel 1968. In questo mezzo secolo, oltre all'attività a diretto contatto con i popoli indigeni di tutto il mondo, ha pubblicato una grande quantità di libri. Fra questi spicca The Indigenous World, il prezioso rapporto annuale sulla situazione dei popoli indigeni del pianeta. Alla direttrice Julie Koch, a Lola Garcia-Alix e agli altri amici di Copenaghen inviamo gli auguri più sinceri. www.iwgia.org 38
Cineteca
Baltic Tribes: The Last Pagans of Europe (tit. or. Baltu ciltis), regia di Lauris Ābele e Raitis Ābele, Lettonia, 2018, 100’. L'area baltica è stata la regione europea che ha espresso la più tenace resistenza all'imposizione del cristianesimo. I popoli in questione – all'epoca Estoni, Lettoni, Lituani e Prussiani – hanno difeso le proprie credenze politeistiche dall'attacco dei cavalieri teutonici, della Chiesa cattolica e dai regni cristiani scandinavi, cedendo soltanto in un arco di tempo che va dalla metà del tredicesimo secolo (Prussia, 1249) all'inizio del quindicesimo (Samogizia/Lituania, 1413). Questa lunga sopravvivenza del paganesimo, caso unico in tutto il continente, ha lasciato tracce profonde. Pur essendo in prevalenza cristiani, i tre paesi baltici odierni (Estonia, Lettonia e Lituania) contano diverse migliaia di persone fedeli alle antiche religioni. Il 24 maggio 2018 il Parlamento lituano ha riconosciuto ufficialmente la religione baltica praticata da Romuva, un movimento fondato da Jonas Trinkunas (1939-2014), che era stato duramente perseguitato dal regime sovietico. Attenzione però: non si tratta di gente bizzarra paragonabile al mago Otelma, ma di normalissime persone di ogni condizione sociale che non intendono rinunciare alle proprie credenze. Se quello che si sente dire spesso sul pluralismo religioso è vero, meritano il massimo rispetto. Il fatto che queste religioni siano ancora radicate nella regione baltica trova ulteriore conferma nel documentario Baltic Tribes: The Last Pagans of Europe. Scritto da Toms Ķencis, il film ripercorre lo sviluppo delle religioni autoctone con ricostruzioni storiche, animazioni telematiche e narrazioni di studiosi. Un viaggio insolito e stimolante. La conoscenza di questa materia è fondamentale, non solo per riempire una delle tante lacune relative alla storia europea, ma anche per capire che le minoranze religiose odierne non sono necessariamente monoteiste, e che una difesa coerente delle fedi minoritarie non può dimenticare quelle di origine precristiana. Infine, per ricordare che l'identità culturale europea non coincide con la cristianità, perché ha radici molto più antiche.
Alessandro Michelucci Per primo hanno ucciso mio padre (tit. or. First They Killed My Father: A Daughter of Cambodia Remembers), regia di Angelina Jolie, Cambogia-Stati Uniti, 2017, 136'. Fra il 1975 e il 1979 gli Khmer Rossi di Pol Pot realizzarono un genocidio che cancellò tre milioni di persone. Fra i superstiti c'era anche Loung Ung, nata in una famiglia medio-borghese di Phnom Penh, che lasciò la propria vita agiata quando la loro furia cominciò a seminare il terrore nel paese. 39
Lei e la sua famiglia raggiunsero le campagne con un vecchio camioncino, portando con sé l'essenziale. Le feste e i pranzi ai quali erano abituati divennero presto un ricordo lontano. Tacendo le proprie origini borghesi e l'alta carica militare del padre si stabilirono in un campo di lavoro dove l'unico lusso era quello di arrostire grilli durante la notte. Angelina Jolie, soggettista e regista, ha realizzato il film First They Killed My Father: A Daughter of Cambodia Remembers attingendo all'esperienza personale della protagonista. Il suo testo ben strutturato, arricchito dalla fotografia incisiva di Anthony Dod Mantle, alterna episodi di vita quotidiana e momenti di terrore. Scene di crudeltà e violenza si fondono con parti meditative e sognanti che evocano La sottile linea rossa di Terrence Malick. Ma il peso della tragedia viene compensato dalla forza dei protagonisti. La giovane Srey Moch Sareum interpreta Loung Ung in modo espressivo e toccante. Forte e determinata, la protagonista guarda il mondo che le crolla accanto. Il forte legame che la unisce al padre le dà la forza di sopravvivere per poter raccontare un mondo che è andato distrutto. Kerri Craddock
René Viale, una vita per il cinema Imprenditore e sostenitore del mondo associativo, René Viale è stato per molti decenni l'anima del cinema di Bastia, offrendo a questa città, che tanto amava, una forte impronta mediterranea e internazionale. E' morto la notte del lunedì 2 aprile 2018, ma ha lasciato un segno indelebile nelle sale cinematografiche dell'isola. Il suo dinamismo e la sua creatività hanno arricchito il panorama culturale ed economico della Corsica. Il nome di René Viale è legato al cinema Le Studio, sala storica di Bastia, ma anche ai principali festival corsi, in particolare al Festival des Cultures Méditerranéennes, che oggi è il festival Arte Mare. Nel 1988 ha fondato il Festival du cinéma italien de Bastia, uno dei principali eventi culturali isolani, insieme al suo amico e braccio destro Jean-Baptiste Croce. Appassionato di cortometraggi e film d'autore, ha sostenuto i giovani registi isolani, che ha accompagnato a Cannes più volte. René Viale ha sviluppato anche una rete di cinema d'essai in tutta la Corsica. Appassionato di cinema fin dall'infanzia, amava raccontare che nel dopoguerra giocava con i suoi amici nei giardini del Consolato d'Italia e li incantava mostrando loro delle immagini di fumetti montate su una bobina che faceva scorrere. I suoi amici lo chiamavano "il mago". È così che ha imparato ad amare la settima arte. La svolta decisiva è arrivata con l'apertura del cinema Le Studio. Era il 1957, René aveva 22 anni e aveva appena vinto un concorso per operatore cinematografico. Dopo alcuni anni da impiegato, uno dei proprietari dell'epoca gli propose di rilevare l'attività e rilanciarla. Per lui fu l'inizio di un'avventura entusiasmante che lo avrebbe impegnato per tutta la vita. In questa attività hanno trovato spazio anche numerosi ateliers di formazione destinati a scolari e studenti.
Lidia Morfino
Autori Kerri Craddock direttrice della programmazione del Toronto International Film Festival. Il suo articolo è tratto da www.tiff.net, che ringraziamo per averci concesso di pubblicarlo. Ben Cramer giornalista francese, collaboratore di Charlie Hébdo, autore del libro Guerre et paix... Et écologie : Comment le militarisme détruit la planète (2014). Victoria Enfield giornalista inglese, collabora a varie testate culturali e politiche. Andria Fazi docente di Scienze politiche all'Université de Corse, ha pubblicato vari lavori, fra i quali La recomposition territoriale du pouvoir. Les régions insulaires de la Méditerranée occidentale (2009). Lidia Morfino responsabile delle relazioni con l'Italia del Festival du cinéma italien de Bastia. Natan Sznaider docente di Sociologia all'Academic College of Tel-Aviv-Yaffo. Fra i suoi libri, The Holocaust and Memory in the Global Age (2005) e Human Rights and Memory (2010). Il suo articolo è tratto da International Politics and Society, che ringraziamo per averci concesso di pubblicarlo. Degli altri autori è stata data notizia nei numeri precedenti.
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