la causa dei popoli anno III/nuova serie
numero 7-8
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maggio-dicembre 2018
la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno III/nuova serie
numero 7-8
ISSN: 2532-4063
maggio-dicembre 2018
EDITORIALE
Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org https://issuu.com/lacausadeipopoli
Un paese in bilico Alessandro Michelucci
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DOSSIER
Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico
Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College (†), Alain de Benoist Krisis, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Ruby Hembrom Adivaani, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora (†), Ruedi Suter Media-Space, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Mercator Media, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations
Stato delle autonomie e stato federale Jesús Palomar
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La questione catalana Daniele Conversi
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La ricostruzione dell'autonomia basca José Maria Portillo Valdés
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Una lingua che rinasce Giovanna Marconi
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Il futuro della Spagna Intervista ad Alfonso Botti
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Suoni, immagini e parole
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INTERVENTI Contro la logica della violenza Edmond Simeoni
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Una vittoria agrodolce per gli Ainu Giovanna Marconi
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Un pericolo mortale per i popoli indigeni Alessandro Michelucci
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LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca Autori
In copertina: Manifestazione di separatisti galeghi per l'indipendenza della Catalogna, A Coruña, 3 novembre 2017 (foto:@BNG_comarcaAC)
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Un paese in bilico Siamo sinceri: vedere una folla di persone che agitano delle bandiere invocando l'indipendenza della propria terra ha un certo fascino. In teoria questo è un obiettivo seducente per chiunque. Ma scendendo in pratica è necessario fare delle riflessioni. A questo punto la questione si fa più complessa. Reclamare l'indipendenza è una delle rivendicazioni politiche più radicali e più gravide di conseguenze. Proprio per questo, prescindendo da giudizi di merito sul contesto geopolitico ed economico che si vuole sovvertire, la nascita di un nuovo stato e l'amputazione di quello esistente non è una richiesta che dovrebbe essere avanzata senza offrire una contropartita. In altre parole, senza chiarire che tipo di stato si voglia costruire. Di regola, invece, coloro che si battono per l'indipendenza di un territorio non fanno altro che reclamare un assegno in bianco. Evidentemente è ben chiaro quello che vogliono, ma nulla dicono di come intendano articolare il nuovo paese indipendente, e tantomeno di quella che sarebbe la sorte delle nuove minoranze che nascerebbero. Non solo, ma questo non viene neanche richiesto dagli altri stati. La Catalogna è un esempio ideale. Da quarant'anni la regione gode di un'autonomia fra le più ampie del continente. Oggi reclama l'indipendenza da Madrid. Ma quando fosse nato uno stato catalano, cosa ne sarebbe della nuova minoranza spagnola? I segnali provenienti dagli ambienti indipendentisti, purtroppo, sono stati tutt'altro che rassicuranti. A differenza della Scozia, dove l'indipendenza viene perseguita in pieno accordo con Londra, la rivendicazione catalana resta gravata da una rabbia antispagnola, quasi da una sete di vendetta, che non promette nulla di buono. Se una secessione basata sull'odio è inaccettabile, lo è altrettanto la tesi che questa tendenza goda di un ampio consenso popolare: nel referendum del 1º ottobre 2017, considerata la massiccia astensione (52,97%), si è espresso a favore della secessione appena il 38,7% degli elettori attivi. Al di là di tutto questo, comunque, il fermento separatista catalano è la spia di un malessere che riguarda l'intera Spagna. Nata nel 1978 dalle ceneri della dittatura franchista, la democrazia iberica si è certamente distinta per un rispetto delle minoranze fra i più esemplari del continente. Al tempo stesso, però, non ha mai trovato la forza di trasformarsi in un vero sistema federale, pur avendone costruito le premesse. In questo modo l'equilibrio dei poteri fra centro e periferia è diventato fonte di tensioni che hanno compromesso la convivenza. Il caso catalano è quello più evidente, ma non certo l'unico. Tanto è vero che la trasformazione della Spagna in stato federale è oggetto di un dibattito che coinvolge gli ambienti politici, intellettuali e accademici. Al tempo stesso, la sospensione dell'autonomia catalana decisa da Madrid potrebbe avere innescato un'involuzione centralista capace di convivere con la conservazione formale dell'Estado autonómico. La recente affermazione elettorale di Vox, il nuovo partito della destra filofranchista, potrebbe esserne la conferma. Crediamo quindi che sia necessario cercare di capire cosa sta accadendo in Spagna e quello che potrebbe accadere domani. Ma soprattutto, crediamo che l'europeismo sia destinato a restare un concetto vuoto fino a quando la grande maggioranza degli europei continuerà a dimostrare il più totale disinteresse per quello che accade a poche centinaia di chilometri da loro, concentrandosi unicamente sulla misurazione dello spread e sulla "reazione dei mercati". Il nostro futuro non si basa (soltanto) sui dati del Dow Jones e del Nasdaq o sulle "pagelle" di Standard & Poor's. Alessandro Michelucci
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Stato delle autonomie e stato federale Jesús Palomar
La Spagna democratica nata dopo la fine della dittatura franchista è uno stato che si basa sulle autonomie locali (Estado autonómico). In genere gli stati di questo tipo sono entità politiche con un passato centralista che hanno ceduto alcune competenze alle regioni che li compongono. Gli stati federali come la Germania e gli Stati Uniti, al contrario, sono composti da entità che originariamente erano sovrane e indipendenti, ma che hanno ceduto questa sovranità a una compagine territoriale più grande. Alcuni esponenti politici propongono che la Spagna diventi uno stato federale, sostenendo che questa riforma metterebbe fine alle tensioni nazionaliste. Ma basterebbe davvero a risolvere questo problema? In alcuni stati federali esiste un autogoverno locale maggiore di quello che si riscontra negli stati basati sulle autonomie. I länder tedeschi, comunque, hanno meno autonomia della Catalogna o dei Paesi Baschi. Non esiste una regola fissa. La forma federale non è necessaria se l'obiettivo è una maggiore autonomia locale. All'inverso, se l'obiettivo è un assetto asimmetrico, lo stato che si fonda sulle autonomie dà maggiori garanzie di uno stato federale. In effetti, la Spagna è già abbastanza asimmetrica per chi vorrebbe che tutti i cittadini avessero uguali diritti. La differenza fondamentale fra uno stato federale e uno basato sulle autonomie non sta nella struttura, ma nelle origini. Juan ha i capelli corti e Pedro li ha lunghi. Juan se li lascia crescere e Pedro se li taglia. Ora hanno i capelli della stessa lunghezza, ma questo non significa che Pedro volesse avere i capelli della stessa lunghezza dell'altro. In ogni caso, se vogliamo davvero che la Spagna diventi una federazione di stati dobbiamo anzitutto trasformare le comunità autonome (regioni, ndt) in stati indipendenti. Poi questi dovranno unirsi volontariamente alla federazione cedendo la sovranità che hanno acquisito in precedenza. In altre parole, affrancarsi dalla sovranità spagnola per poi accettarla di nuovo. Il problema è che la sovranità è inalienabile, e neanche la sovranità spagnola può essere abolita con una legge. La sovranità è un dato di fatto. Uno stato sovrano non ha il diritto di rinunciare definitivamente alle proprie capacità decisionali. Questo può avvenire soltanto in seguito a una situazione traumatica o rivoluzionaria. In ogni caso appare ovvio che cercare di trasformare la Spagna in uno stato federale, oltre a innescare un processo complicato senza alcuna garanzia di successo, è una vera e propria assurdità. A ben vedere, comunque, non esiste una differenza sostanziale fra uno stato federale e uno basato sulle autonomie locali. Ma se non si vuole cambiare veramente la situazione attuale, che senso ha cambiare le parole? Pirrón, il filosofo scettico, diceva che fra la vita e la morte non c'è nessuna differenza. Una persona gli chiese: "Ma allora perché non muori?" E lui rispose in modo deciso: "Proprio per questo, perché non c'è differenza". Nel caso che ci interessa dovremmo dire lo stesso: se non esiste una differenza sostanziale, perché cambiare? Ma coloro che vogliono cambiare il termine - federalismo al posto di autonomismo – sono convinti che la differenza esista. Se viene meno la lealtà costituzionale dei partiti nazionalisti ogni negoziato sulla materia nasconde sempre un secondo effetto. Per i liberali del diciannovesimo secolo la nazione era composta dai cittadini che avevano una coscienza politica. Per i romantici, al contrario, era l'insieme degli individui con tradizioni e costumi comuni. Oggi la prima viene chiamata nazione politica e coincide con i cittadini di uno stesso stato, mentre la seconda è la nazione culturale, che può essere divisa in vari stati o appartenere a uno solo insieme ad altre regioni. La prima ha un evidente rilievo giuridico, mentre la seconda è importante in termini sociologici. Se la Catalogna e i Paesi Baschi verranno considerate nazioni in 4
quest'ultimo senso potranno facilmente reclamare lo status di nazione politica (stato, ndt). Di conseguenza saranno come la California e potranno reclamare la stessa sovranità che hanno la Francia o gli Stati Uniti. Il loro obiettivo finale è questo. Se ci abitueremo a definire nazione (nel senso di stato, ndt) la Catalogna e i Paesi Baschi, saremo ormai prossimi a riconoscerlo legalmente. In questo modo la Spagna attuale cesserà di esistere e si trasformerà in una confederazione di stati dove si intreccia un confuso insieme di diverse sovranità. In pratica quello che esiste non è uno stato confederale, ma una confederazione di stati sovrani. In altre parole, un insieme di stati che, pur condividendo temporaneamente certe competenze, restano sovrani e come tali possono staccarsi unilateralmente. Con una Spagna nominalmente federale, ma di fatto confederale ― una nazione di nazioni, dicono alcuni ― questo gioco di parole avrà finito per mutare la realtà, e questo sarà successo senza colpo ferire, come fa Passepartout nel film Il giro del mondo in 80 giorni, confondendo i suoi avversari dialettici con giochi di parole micidiali. Come tanti altri temi che occupano le prime pagine di molti giornali, quello fra autonomia e federazione è un falso dilemma che interessa soprattutto ai partiti: ad alcuni per conquistare con l'inganno una sovranità che la storia gli nega e ad altri per conservare i vantaggi di cui godono. In sostanza, cambia la parola ma la sostanza rimane la stessa, perché oggi le autonomie sono soprattutto centri di corruzione e di nepotismo. Il problema è un altro: queste autonomie sono efficienti? Ha senso conservarle o dobbiamo eliminarle? Quello che costano è compatibile col miglioramento dei servizi sociali? Aprite gli occhi: nessun partito vi farà queste domande.
Gli stati federali in Europa L'Europa comprende sei stati federali: Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Germania, Russia (parte europea) e Svizzera. Questo non significa che i loro ordinamenti sono uguali, perché le leggi che regolano le rispettive strutture sono diverse e diverse sono le vicende storiche dalle quali sono nati. Vediamo queste differenze tenendo conto della successione cronologica dei vari ordinamenti. Svizzera (1848) Questa repubblica è nata nel 1291 con l'unione di tre regioni (Schwyz, Uri e Unterwalden), detti "cantoni primitivi". La confederazione che conosciamo (in realtà una federazione) è nata nel 1848, quando i cantoni erano già diventati 22. La Costituzione del 1998 elenca 26 cantoni, ognuno dei quali ha una propria Costituzione, un parlamento, un governo e organi giurisdizionali propri. Germania (1949) La Repubblica Federale Tedesca, o Germania Ovest, è nata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1989 si è ampliata annettendo l'ex Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est). Oggi si compone di 16 stati federati. Austria (1955) La forma federale (9 stati) è stata fissata dal trattato che ha istituito la repubblica. Russia (1993) La sua suddivisione è molto articolata: 46 regioni, 22 repubbliche, 9 territori, 4 circondari autonomi, 1 regione autonoma e 3 città federali (Mosca, San Pietroburgo e Sebastopoli) che funzionano come regioni separate. In ogni caso la qualifica di stato federale rimane un puro flatus vocis: il governo centrale esercita un controllo politico, economico e amministrativo sulle regioni che contraddice in pieno la sostanza del federalismo. Belgio (1993) Questo è l'unico stato ad aver assunto la forma federale dopo la sua nascita, che risale al 1830. Oggi si compone di tre regioni: Fiandre, Vallonia e Regione di Bruxelles. Bosnia Erzegovina (1995) Indipendente dal 1992, poi divisa in due entità territoriali in seguito agli accordi di Dayton: la Federazione croato-musulmana, la Repubblica serba e il distretto di Brčko, che appartiene a entrambe le entità. Non si deve confondere il federalismo con la devolution. Il primo presuppone la distribuzione dei poteri fra diversi livelli di governo, alcuni dello stato centrale e altri delle entità territoriali che formano la federazione. Nella devolution, che invece non intacca la natura unitaria dello stato, questo delega una parte delle proprie competenze alla periferia (cioè alle regioni). Per avere un'idea più chiara, si pensi alla differenza che esiste fra la Germania e la Gran Bretagna. I referendum del 1997, che hanno sancito la devolution della Scozia e del Galles, non hanno trasformato il Regno Unito in un paese federale. Alessandro Michelucci 5
La questione catalana Daniele Conversi
La Catalogna, poco più grande del Belgio (32.091 kmq), è la regione più ricca della Spagna. Lo sviluppo che ha avuto negli ultimi 30 anni si è manifestato con un forte incremento del turismo e dei beni di consumo, trasformandola in una potenza economica di livello continentale. Negli ultimi anni la regione ha guadagnato un grande rilievo mediatico in seguito al referendum sull'indipendenza (1° ottobre 2017), che ha visto l'affermazione dei movimenti separatisti. Con questa novità epocale Barcellona ha lanciato una grande sfida non soltanto alla Spagna, ma anche all'Unione Europea e al mondo intero. La Catalogna è una delle 17 comunità autonome che compongono la Spagna nell'ambito di un assetto costituzionale unitario arricchito da elementi di federalismo asimmetrico. Negli anni della transizione democratica seguita alla morte di Francisco Franco (1975-1982) alcune regioni sono riuscite ad ottenere maggiore autonomia delle altre: i Paesi Baschi, per esempio, hanno accordi tributari e finanziari propri che garantiscono loro potere fiscale, in linea con diritti storici preasseriti. I separatisti catalani fanno risalire le proprie origini agli albori della civiltà, ma la realtà è più prosaica. Basti pensare alla festa nazionale della Catalogna (Diada), che si celebra a Barcellona l'11 settembre. Da qualche anno questa data viene usata per commemorare anche il giorno in cui oltre 200 anni addietro, l'11 settembre 1714, Barcellona cadde dopo quattordici mesi d'assedio da parte delle truppe borboniche di Filippo V. Lo stato sciolse il governo catalano (Consell de Cent), abrogando quindi l'autonomia regionale. Ma la stessa Diada è una ricorrenza piuttosto recente, che cominciò a essere celebrata in modo discontinuo soltanto verso la fine dell'Ottocento. Dopo la vittoria borbonica la Spagna costruì una struttura rigidamente centralizzata che venne meno soltanto con i due brevi interludi repubblicani (1873-1874 e 1931-1939), per poi risorgere con la dittatura di Francisco Franco (1939-1975). Il regime proibì rigorosamente qualsiasi espressione culturale e politica diversa da quella castigliana. In altre parole, realizzò un processo di omogeneizzazione culturale ricalcato sul modello francese, ma allo stesso tempo in sintonia con i regimi fascisti europei. Durante gli ultimi anni del franchismo le forze della sinistra catalana furono attivamente impegnate nel recupero dell'identità nazionale. Subito dopo la morte del dittatore cominciarono grandi mobilitazioni popolari. La più imponente, realizzata l'11 settembre 1977 dalle sinistre e da gruppi nazionalisti sotto lo slogan Libertà, amnistia, statuto di autonomia, riuni 1.200.000 persone. La nuova Costituzione, approvata nel 1978, concesse alla Catalogna un alto grado di autonomia, dotandola tra l'altro di un proprio governo (Generalitat), di un sistema scolastico, di una propria radiotelevisione e di forze di polizia, i Mossos d'Esquadra ("ragazzi della squadra"). Lo Statuto di autonomia della Catalogna, approvato il 18 settembre 1979, dichiarò fra l'altro che la lingua regionale diventava ufficiale al pari dello spagnolo. Da allora il partito egemone è rimasto Convergència i Unió, la formazione di centro-destra capeggiata a lungo da Jordi Pujol i Soley, seguito dal Partit dels Socialistes de Catalunya. All'epoca tutte le forze politiche democratiche erano d'accordo sugli ampi poteri che dovevano essere accordati alla regione. Questo consenso è durato fino al 2006, anno in cui è stato proposto un nuovo statuto, poi approvato a maggioranza dal Parlamento regionale e confermato da un referendum. Ma una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali diversi articoli del nuovo Statuto, in particolare quelli che definivano la Catalogna una nazione. La risposta popolare è stata immediata, come ha dimostrato la manifestazione che si è svolta a Barcellona il 10 luglio 2010 con lo slogan Siamo una nazione. Decidiamo noi, che contestava la sentenza della Corte. Fu una 6
manifestazione imponente alla quale parteciparono oltre 1.000.000 di persone, col sostegno della maggior parte dei partiti catalani, dei sindacati e circa 1.600 istituzioni. Dopo questa data le proteste si sono fatte sempre più forti, raggiungendo il culmine l'11 settembre 2012 con la manifestazione dedicata al tema Catalogna, il nuovo stato d'Europa, oramai decisamente indipendentista, con quasi 2.000.000 di persone. Nel giro di due anni, quindi, il nazionalismo catalano ha radicalizzato le sue posizioni per protestare contro il governo centrale dominato dai conservatori del Partido Popular (PP), chiaramente incapace di gestire la situazione.
Tabarnia, la terza via catalana La stampa, eccettuata quella spagnola, ha ridotto la questione catalana a un contrasto fra separatisti e unionisti che difendono lo status quo, ma esistono anche dei catalani che non si riconoscono in nessuna delle due posizioni. Come quelli che hanno concepito il progetto di Tabarnia, neologismo creato unendo Tarragona e Barcellona. Il loro obiettivo è appunto quello di creare una nuova comunità autonoma unendo alcune zone delle relative province. Il territorio, che si dividerebbe tra l'Alta Tabarnia (area di influenza di Barcellona) e Bassa Tabarnia (area di influenza di Tarragona), sarebbe formato da 10 comarche (divisione territoriale che comprende varie province, ndr). I sostenitori affermano che "la divisione amministrativa odierna non corrisponde alla realtà" e sostengono di voler recuperare "la sovranità storica della contea di Barcellona". Alcuni mezzi di comunicazione hanno accolto la proposta come una trovata satirica, ma i dirigenti dell'organizzazione hanno ribattuto che il progetto "non è affatto uno scherzo". Finora questa proposta ha ottenuto scarso seguito. Antonella Visconti Il Parlamento regionale, dove i partiti favorevoli a un referendum sull'indipendenza avevano la maggioranza dei seggi, ha indetto la consultazione per il 1° ottobre 2017. Il referendum è stato fortemente osteggiato dal governo centrale, dai partiti nazionali e da una parte consistente della stessa società civile catalana. Al contrario, ha ottenuto l'appoggio della minoranza occitana stanziata nella Valle d'Aran e di numerose organizzazioni degli immigrati. Sebbene già il giorno successivo la Corte costituzionale avesse sospeso la sua convocazione, hanno votato oltre due milioni di persone. L'esito, data per scontata la vittoria indipendentista, è stato fermamente contestato dalle forze anti-indipendentiste, oltre che dal governo centrale, per i quali la vittoria non era rappresentativa della volontà democratica di tutto il popolo catalano. Il 10 ottobre 2017 la maggioranza parlamentare catalana ha redatto la dichiarazione d'indipendenza della Catalogna, dichiarandola Stato indipendente e sovrano. Un'ora dopo il Senato spagnolo convocato dal premier Mariano Rajoy ha approvato l'applicazione dell'articolo 155 della Costituzione, sospendendo l'autogoverno della Catalogna, sciogliendo il Parlamento e indicendo nuove elezioni regionali. Quindi sono stati incarcerati alcuni dei principali leader indipendentisti, mentre il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, è fuggito all'estero. Alle elezioni del 21 dicembre 2017 tre partiti indipendentisti hanno ottenuto 70 seggi su 135, ma soltanto il 47,5% dei voti. Il grande sconfitto è stato il Partido Popular del premier Mariano Rajoy, penalizzato per l'inefficienza con cui aveva gestito una crisi che era già in atto nel 2002. Ma la grande sorpresa è stata la vittoria di Ciutadans (Cittadini), il partito nato con l'obiettivo esplicito di contrastare l'indipendentismo. Soltanto poche settimane prima la mobilitazione popolare contro l'indipendenza sarebbe stata inconcepibileI. In sostanza, l'avanzata del progetto separatista ha stimolato la frammentazione sociale. Inoltre, lo spettro dell'instabilità ha causato una fuga di capitali dalla regione, rafforzando ulteriormente il fronte unionista. Contrasti fra centro e periferia Perché la Catalogna ha richiesto un nuovo Statuto durante un periodo di relativa prosperità e benessere economico? I motivi sono diversi. Anzitutto perché il Partido Popular, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, aveva fatto leva su un nazionalismo spagnolo che mal si addice a uno Stato plurinazionale come la Spagna. A questo nazionalismo aveva affiancato una rigida adesione ai dogmi della globalizzazione neoliberista. 7
La società e le istituzioni catalane, a partire dalle Olimpiadi di Barcellona (1992), hanno preso piena coscienza del proprio potere economico. Il movimento indipendentista ha cominciato a raccogliere consensi nel 2002, in risposta al crescente centralismo del governo di José Luis Aznar: fu allora che, per la prima volta, il maggior partito indipendentista, Esquerra Republicana de Catalunya, triplicò i suoi voti mantenendo un profilo centrale. Durante il mandato monocolore del secondo governo Aznar (2000-2004), il Partido Popular aveva una posizione egemonica che gli permetteva di condizionare gran parte delle istituzioni, incluse le Corti, il Tribunale Costituzionale e soprattutto i media. Aznar aveva partecipato alla cosiddetta "guerra al terrorismo" statunitense, incluse le invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq. Allo stesso tempo, la sua politica conservatrice aveva eroso lo stato sociale che aveva finora conosciuto una relativa continuità fin dalla dittatura. La risposta elettorale non si fece attendere: alle elezioni regionali del 2003, Esquerra Republicana de Catalunya duplicò i propri consensi elettorali passando dal 8,6% al 16,5 % dei voti, imponendosi come la terza forza politica catalana. D'altra parte, la crescita economica avanzava e le istituzioni regionali continuavano a rafforzarsi. Le Olimpiadi celebrate a Barcellona nel 1992 garantirono alla città un rilievo internazionale di cui non aveva mai goduto. I forti investimenti crearono un benessere duraturo che si aggiunse al boom edilizio spagnolo, comunque meno solido. Inoltre il turismo continuò a crescere, raggiungendo numeri senza precedenti. Questo spiega perché il nazionalismo catalano è stato definito il "nazionalismo dei ricchi". Nonostante questo sviluppo economico la cultura politica catalana si è impregnata in modo sempre più marcato di miti storici e di nostalgia per un passato glorioso, frammisti al malessere sociale indotto dalla globalizzazione, dalla recessione e dall'intransigenza del potere centrale. Secondo la lettura nazionalista la Spagna è un nemico perenne che ha un solo obiettivo, quello di eliminare le recenti conquiste dell'autonomia catalana, strangolando economicamente la regione. In questa logica i conflitti sono sempre perenni, immutabili e arcaici. Anzi, in un tempo scandito dal cambiamento rapido e continuo, sono proprio questi conflitti a rimanere inalterati, a fondare verità permanenti e inattaccabili. Attraverso i grandi cambiamenti subiti in questi ultimi anni, spesso drastici e drammatici, molti hanno trovato nella persistenza dei conflitti storici un senso di stabilità utile a mantenere una parvenza di ordine sociale. Aspirando a far parte di un sistema di stati nazionali che tendono alla reciproca solidarietà, i nazionalisti catalani avevano sperato di stimolare la simpatia dell'opinione pubblica internazionale. Da una parte, le credenziali pluraliste e progressiste sono sempre state messe bene in mostra, con un'apertura al pluralismo, ai diritti delle minoranze e al multiculturalismo. L'appello romantico a una Catalogna solidale, progressista e socialmente avanzata non tiene comunque conto del prepotente ritorno del nazionalismo statale, esemplificato dalla Brexit, da Trump e da vari segnali di intolleranza verso le minoranze. Lo spettro dell'indipendentismo ha involontariamente rafforzato la posizione di chi predica il ritorno a una visione omogenea della nazione. La maggior parte dei governi stranieri temeva dunque assai più un governo dominato dai nazionalisti catalani a Barcellona che un governo conservatore a Madrid. Da principale corresponsabile della crisi, il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy si è trasformato subito in garante della stabilità nazionale e internazionale, riacquistando da un giorno all'altro il credito che aveva perso in seguito all'imposizione di misure draconiane. Ma un governo dominato dal Partido Popular non riuscirebbe mai a risolvere il contenzioso con la Catalogna, mentre un governo di coalizione delle sinistre rappresenta il primo spiraglio verso un dialogo che può offrire una via d'uscita. Conclusione È impossibile comprendere il cammino catalano verso la secessione senza comprendere prima la rigidità del governo conservatore di Madrid, pervaso da un nazionalismo centralista sempre più aperto. Tale rigidità si era già ampiamente manifestata durante la gestione del rapporto col nazionalismo radicale basco. Parallelamente, la radicalizzazione del conflitto ha generato profonde fratture all'interno della stessa Catalogna, facilmente sfruttabili dal governo centrale. Questo a sua volta potrebbe portare a un'ulteriore frammentazione. Anche se non sappiamo cosa succederà, sappiamo che il tavolo del negoziato deve rimanere sempre aperto. 8
Gli altri catalani Il termine Catalogna stimola un’immediata associazione mentale con la Spagna, ma sarebbe un grave errore pensare che il catalano fosse diffuso soltanto nella regione con questo nome. La lingua viene parlata anche in altre zone dello stato iberico (isole Baleari, Comunità Valenciana, Franja d'Aragona); nel dipartimento francese dei Pirenei Orientali, che i nazionalisti chiamano appunto Catalunya del Nord, dove la lingua è coufficiale col francese dal 2007; nel principato di Andorra, dove è la lingua ufficiale; ad Alghero, in provincia di Sassari. Per avere un'idea più chiara, basta considerare che la Catalogna si estende per 32.100 kmq ed è abitata da 5.000.000 di catalanofoni, mentre includendo i territori suddetti si tratta rispettivamente di circa 70.000 kmq e di quasi 8.000.000 di parlanti. In passato questa unità culturale e linguistica aveva stimolato il sogno politico di una grande Catalogna unita, che poi è venuto meno durante la dittatura. Antonella Visconti Bibliografia Cirulli A., L'ascia e il serpente: l'ETA e il nazionalismo basco dopo la lotta armata, Datanews, Roma 2012. Conversi D., The Basques, the Catalans and Spain: Alternative Routes to Nationalist Mobilization, Hurst, London 1997. Conversi D., "The smooth transition: Spain's 1978 Constitution and the nationalities question", National Identities, IV, 3, 2002, pp. 223 -244. Conversi D., "Homogenisation, nationalism and war: Should we still read Ernest Gellner?', Nations and Nationalism, XIII, 3, 2007, pp. 371-394. Conversi D., ''We are all equals!' Militarism, homogenization and 'egalitarianism' in nationalist state-building (1789-1945)', Ethnic and Racial Studies, XXXI, 7, 2008, pp. 1286-1314. Conversi D., (2012) "Nación, estado y cultura. Para una historia política y social de la homogeneización cultural (1789-1945)", Historia contemporánea, XXXXV, 45, 2012, pp. 429-473. Dalle Mulle E., The Nationalism of the Rich: Discourses and Strategies of Separatist Parties in Catalonia, Flanders, Northern Italy and Scotland, Routledge, London 2018. Greer S. L., (2016) "Who negotiates for a nation? Catalan mobilization and nationhood before the Spanish democratic transition, 1970–1975", Democratization, XXIII, 4, 2016, pp. 613-633. Medda-Windischer R., Carlà A. (a cura di), Migration and Autonomous Territories: The Case of South Tyrol and Catalonia, Brill/Nijhoff, Leiden 2015. Moreno L., The Federalization of Spain, Frank Cass, London 2001.
A sinistra: manifestazione di barcelloneti contro la secessione. Lo striscione bianco fa riferimento all'effettiva percentuale di persone che hanno votato a favore della secessione: sui 5.313.564 aventi diritto ha votato il 43,3% (2.286.217), il 90,18 dei quali (2.044.038) si è espresso per l'indipendenza. Comunque la si pensi, è ovvio che il 38,47% non può essere considerato indicativo di una volontà popolare prevalente. A destra: manifestazione a favore della secessione, anche questa a Barcellona
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La ricostruzione dell'autonomia basca José Maria Portillo Valdés
L'autonomia è una peculiarità della storia basca moderna che fu parzialmente sospesa durante la dittatura del generale Francisco Franco (1939-1975). Fino al 1876 le province basche di Vizcaya, Álava e Guipúzcoa avevano conservato un governo locale autonomo, detto régimen foral, fondato sulle rispettive strutture giuridiche (Fueros) che definivano le province suddette come corpi politici. Un'assemblea provinciale, un governo autonomo e un giudice che rappresentava il re di Castiglia formavano un sistema di governo basato sul concetto di autoamministrazione. Questo sistema politico sopravvisse alla prima guerra civile spagnola, la cosiddetta prima guerra carlista (1833-1840), e fu modificato nel 1839 per inserirlo nella nuova monarchia costituzionale di orientamento liberale. Fu soltanto dopo la seconda guerra carlista (1872-1876) che il sistema politico basco venne riformato radicalmente. Furono eliminate le assemblee provinciali e il delegato governativo, lasciando soltanto il governo provinciale. Nel 1876 venne creato il sistema fiscale che sarebbe durato fino a oggi. In sintesi, fu stabilito che le imposte venissero riscosse dalle province, che poi avrebbero dovuto versarne al governo una parte in cambio delle attività gestite dal centro (difesa, relazioni con l'estero, spese della Corona, etc.). Questa autonomia rimase in vigore durante la dittatura del generale Miguel Primo de Rivera (1923-1930) e durante la rivoluzione repubblicana del 1931. In questo stesso anno Indalecio Prieto, socialista di Bilbao, Ministro delle Finanze, riformò il sistema fiscale basco conformandolo a quello repubblicano. Pochi anni dopo questo sistema venne cancellato dal colpo di stato che sfociò nella guerra civile (1936-1939) e nella conseguente vittoria dei franchisti. Franco non trattò tutte le province basche allo stesso modo. Nel caso di Álava, così come in quello della Navarra, che aveva un regime simile a quella basco, conservò l'autonomia fiscale per tutta la dittatura. Ma per un motivo ben preciso: le due regioni avevano sostenuto il colpo di stato contro la repubblica. Guipúzcoa e Vizcaya, invece, avevano resistito, capitolando nella primavera del 1937. Fu per questo che Franco soppresse l'autonomia fiscale delle due province. Quando morì il dittatore, quindi, la situazione era complessa. La legislazione franchista aveva cancellato l'autogoverno ovunque. Le due regioni che erano riuscite a elaborare uno statuto di autonomia durante la repubblica, la Catalogna e i Paesi Baschi, avevano visto scomparire tutte le proprie istituzioni. Álava e Navarra, invece, avevano conservato una minima autonomia fiscale. Negli anni Sessanta le forze antifranchiste avevano capito che non sarebbe stato possibile rovesciare la dittatura con mezzi legali. I paesi democratici non solo avevano abbandonato la repubblica durante la guerra civile, ma negli ani Cinquanta avevano fatto lo stesso con gli antifranchisti, regolarizzando le relazioni diplomatiche con la dittatura e riconoscendola come legittima. Fin da allora, quindi, apparve chiaro che il ritorno alla democrazia avrebbe richiesto un periodo di transizione. Fu appunto il periodo che cominciò nel 1975, dopo la morte di Franco. Nei vari progetti di transizione concepiti durante gli anni Sessanta e Settanta era stato sempre presente il ripristino dell'autonomia basca e catalana. Per Adolfo Suárez, nominato Primo ministro dal re Juan Carlos I nel luglio del 1976, uno dei compiti più impegnativi fu quello di preparare il terreno per poter ricostruire l'autonomia delle due regioni. Nel caso dei Paesi Baschi questo fece sì che prima di cominciare il dibattito sulla Costituzione fossero già state gettate le basi giuridiche per ristabilire l'autonomia provinciale nei tre territori. Nei Paesi Baschi il periodo della transizione fu caratterizzato da tre aspetti rilevanti. In primo luogo, la rapida affermazione di un'egemonia nazionalista. Alle prime elezioni libere del 1977 questa tendenza ottenne un consenso ridotto nelle province basche e in Navarra, mentre nel 1979 la 10
sua egemonia divenne assoluta: il Partido Nacionalista Vasco (PNV), la sinistra di Euskadiko Ezkerra e la sinistra estrema di Herri Batasuna occuparono quasi il 65% del primo parlamento regionale. I principali partiti nazionali, la Unión de Centro Democrático (UCD) e il Partido Socialista Obrero Español (PSOE), compresero che era necessario trovare una soluzione specifica per la questione basca. Questo obiettivo venne perseguito durante i dibattiti costituzionali, ma soprattutto con lo Statuto di autonomia del 1979. Il secondo elemento che favorì la ricostruzione dell'autonomia basca fu il peso crescente che la storia guadagnò nel dibattito politico. Se i primi progetti costituzionali, a destra come a sinistra, considerarono l'autonomia un dato puramente politico, via via che si andò sviluppando il dibattito parlamentare la storia assunse un forte rilievo come argomento politico. Tanto che la legge fondamentale in vigore è la prima in Europa che conferisce rilievo costituzionale ai "diritti storici dei territori autonomi". In questo peso assunto dalla storia prevalse ampiamente la lettura nazionalista della storia basca. Secondo questa interpretazione, fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo l'autogoverno basco era stato cancellato, quindi la nuova Costituzione aveva il preciso dovere di riparare questo torto storico. Come rilevò Miguel Herrero, deputato dell'UCD, la prima norma integrativa che sancì il rango costituzionale dei diritti storici dei territori baschi e della Navarra aveva soprattutto questo obiettivo. Il terzo elemento di questo scenario fu senza dubbio il più determinante. Alla fine degli anni Sessanta un gruppo di giovani nazionalisti aveva optato per il terrorismo. Paradossalmente, fu proprio quando iniziò la transizione verso la democrazia che l'ETA divenne più aggressiva: dagli 11 omicidi compiuti nel 1977 passò ai 66 del 1978 e agli 80 del 1979, quindi proprio negli anni in cui vennero approvati la Costituzione e il nuovo Statuto di autonomia. I motivi per i quali il terrorismo basco si mostrò più aggressivo con la democrazia che con la dittatura furono chiariti dagli stessi resposabili dell'ETA. Nel 1976, quando la nomina di Suarez era ormai certa, tutte le forze nazionaliste si riunirono ad Anglet, un paese della Francia meridionale, per decidere come affrontare la nuova situazione. L'ETA chiarì al PNV che il ritorno alla democrazia non avrebbe interrotto la sua attività terroristica. Al contrario, questa fu incrementata a tal punto che provocò il 90% delle vittime del terrorismo in quegli anni. L'intreccio di questi tre fattori — egemonia nazionalista, crescente rilievo della storia nel dibattito costituzionale e terrorismo ultranazionalista — dettero vita al contesto nel quale si svilupparono la Costituzione e lo Statuto di autonomia. Secondo le idee che circolavano sulla stampa e sulle pubblicazioni dei vari partiti, quando iniziò il processo costituente la regolamentazione dell'autonomia venne inquadrata in un'ottica diversa da quella che si sarebbe poi affermata. Nei progetti elaborati dai partiti di centrodestra e da quelli di sinistra il modello era quello italiano. In altre parole, si pensava di istituire delle autonomie speciali per i Paesi Baschi e per la Catalogna, mentre le altre province avrebbero goduto di un certo decentramento. In realtà, è più esatto dire che si pensava di recuperare il sistema della Seconda repubblica attraverso l'esperienza costituzionale italiana. La destra, ancora legata al centralismo franchista, si oppose nettamente a qualunque forma di autonomia. Il risultato, come sappiamo, fu molto diverso dal sistema di autonomia che si stava affermando con l'acquisizione di competenze analoghe. Oggi, eccettuata la polizia autonoma, presente soltanto in Catalogna, Navarra e Paesi Baschi, gran parte delle competenze principali (educazione, mezzi pubblici di comunicazione e sanità) spettano a tutte le comunità (regioni, ndt). Inoltre queste hanno tutte governi, parlamenti e tribunali superiori di giustizia propri. Il 41% della popolazione vive in comunità autonome dove esiste una lingua ufficiale diversa dallo spagnolo, e questo ha dato un forte impulso alla gestione autonoma dell'educazione dei mezzi di comunicazione. Comunque esiste un'eccezione che riguarda i Paesi Baschi e la Navarra. Negli anni della transizione si parlò molto di due diversi livelli di autonomia, uno per la Catalogna e i Paesi Baschi, e uno per le altre province, che però non fu mai definito. Questo schema si ruppe quando assunse lo status autonomo anche l'Andalusia, innescando un tendenza ad applicarlo a tutto il paese che venne definito café para todos. I soli territori che si differenziarono nettamente dal resto del paese furono i Paesi Baschi e la Navarra, perché la la prima norma integrativa della Costituzione aveva incluso il riconoscimento esplicito dei loro diritti storici. Questo permise alle due province di svi11
luppare i propri statuti in modo particolare: in termini fiscali si trasformarono in territori confederati con la Spagna. Così, quando la Spagna aderì alla CEE (1986), sorse un problema, perché non si trattava di accogliere soltanto la Spagna, ma cinque unità territoriali distinte (Alava, Guipuzcoa, Navarra, Spagna e Vizcaya). I Paesi Baschi, pertanto, hanno realizzato una forma di autonomia ancora più ampia di quella che viene definita primera, cioè del livello più avanzato. Questo spiega perché il suo Statuto, insieme a quello della Galizia, non sia mai stato riformato. Inoltre spiega perché, una volta scomparsa la logica distruttiva del terrorismo, la minoranza basca crei meno problemi di quella catalana. Secondo i dati diffusi dall'Universidad del País Vasco, la soluzione che riscuote maggiori consensi non è l'indipendenza, ma l'autonomia, seppure in diverse formulazioni. In definitiva, quindi, il bilancio dell'autonomia rifondata dopo la fine della dittatura si può considerare positivo. Bibliografia Botti A., La questione basca, Bruno Mondadori, Milano 2003. Campuzano Carvajal F. (a cura di), Les nationalismes en Espagne : De l'Etat libéral à l'Etat des autonomies (18761978), Presses Universitaires de la Méditerranée, Montpellier 2002. Portillo Valdés J. M., Entre tiros e historia: La constitución de la autonomía vasca (1976-1979), Galaxia Gutenberg , Barcelona 2018.
Tre popoli uniti dalla musica Nel corso dell'ultimo secolo le tre minoranze più numerose della Spagna – Baschi, Catalani e Galeghi – hanno collaborato più volte, sia a livello politico che culturale, spesso sotto la sigla Galeusca o Galeuzka (termine che sintetizza i nomi delle tre regioni: Galiza, Euzkadi e Catalunya). Questo scambio culturale si è espresso anche attraverso la musica, spaziando dalla semplice ispirazione alla realizzazione di lavori comuni. Il celebre compositore catalano Enrique Granados ha dedicato la prima opera orchestrale alla Galizia (Suite sobre cantos gallegos, 1899). José Gonzalo Zulaica, compositore basco meglio noto come Aita Donostia, è l'autore delle Cuatro melodías catalanas para voz y piano (1914-1915). In anni più recenti Kepa Junkera, virtuoso della trikitixa (fisarmonica basca), ha inciso il CD Galiza (2013) e il successivo Enllà (2017), quest'ultimo con l'arpista catalano Josep Maria Ribelles. Gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma quello che ci interessa di più è appena nato. Parliamo del Gaizca Project, che riunisce musicisti galeghi, baschi e catalani. Si tratta di Ialma, un gruppo di artiste galeghe emigrate in Belgio, di Iñaki Plaza, percussionista basco, di Ciscu Cardona, chitarrista catalano, e di Manu Sabaté, suonatore di gralla, tipico strumento catalano che appartiene alla famiglia degli oboi. Completa il gruppo il batterista Nicolas Scalliet. Recentemente è uscito il loro primo CD omonimo (Homerecords, 2019). Alessandro Michelucci
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Una lingua che rinasce Alessandro Michelucci
Il recente rilievo mediatico del separatismo catalano ha stimolato un interesse indiretto per le rivendicazioni basche, comunque sopite in seguito al declino del separatismo armato, sfociato nel disarmo definitivo dell'ETA. Ma un'altra minoranza del paese iberico (nacionalidad historica, secondo la formula costituzionale) è rimasta completamente in ombra: parliamo dei Galeghi (o Galiziani), circa 3.000.000 di persone che abitano la regione atlantica dell'estremo nordovest spagnolo confinante con il Portogallo. La Galizia è legata a questo paese da una forte affinità linguistica, dato che il galego è un idioma lusofono sostanziamente identico al portoghese. Il termine galego, derivato dallo spagnolo gallego, viene usato per evitare la confusione con gli abitanti di un'altra Galizia, la regione storica situata fra Polonia e Ucraina, anche se questa non esiste più come tale. La Galizia presenta molte differenze rispetto alla Catalogna e ai Paesi Baschi. Molto meno popolata, meno sviluppata economicamente, la regione ha sempre rivendicato la propria diversità, ma non ha mai utilizzato la violenza, se si escludono pochi episodi marginali. La coscienza di una forte identità culturale ha generato un movimento separatista molto più debole. Il capoluogo della regione, Santiago di Compostela, è la meta del celebre pellegrinaggio: secondo la tradizione cristiana, la città custodisce le spoglie dell'apostolo Giacomo il maggiore. Il galego e lo spagnolo sono lingue neolatine, ma la regione conserva tracce importanti di un passato celtico. In vari luoghi si trovano toponimi celtici; la musica tradizionale presenta marcate affinità con quella bretone, gallese, irlandese e scozzese; una delle squadre calcistiche più importanti si chiama Celta Vigo. Anche il paesaggio, ricco di verde, ricorda spesso quello scozzese e irlandese. A queste caratteristiche geografiche si affiancano quelle culturali: basta leggere la bella antologia Cruceiros. Racconti dalla Galizia magica (Edizioni Estemporanee, 2007) per ritrovare l'inconfondibile immaginario celtico, ricco di atmosfere magiche e misteriose. La differenza fondamentale rispetto agli altri territori celtofoni (Bretagna, Cornovaglia, Galles, Irlanda, Isola di Man e Scozia) risiede quindi nella lingua, che appartiene alla famiglia neolatina. Questo non ha influito minimamente sul rilievo culturale del galego, che ha conservato un ruolo centrale nelle rivendicazioni identitarie. Non solo, ma la lingua è stata anche il motore della resistenza galega al franchismo, che ha cercato di vietarne l'uso in nome del centralismo castigliano. È stata la bandiera della diversità culturale che la dittatura ha tentato di soffocare. Il ritorno alla democrazia ha innescato quindi un recupero lento ma deciso di questa diversità. La lunga notte di pietra Il 1939 segna la fine della guerra civile spagnola e l'inizio della dittatura franchista. Le espressioni culturali e politiche delle tre minoranze (basca, catalana e galega) vengono proibite nel nome di un centralismo che riconosce soltanto la lingua spagnola. Comincia così quella che lo scrittore galego Celso Emilio Ferreiro definisce La longa noite de pedra (La lunga notte di petra), titolo dell'antologia poetica dove denuncia il regime. Ferreiro ha iniziato a scriverla nel 1937, quando era in prigione per aver inneggiato pubblicamente all'Unione Sovietica. L'opera verrà pubblicata soltanto nel 1962. Nel frattempo, la dittatura ha imposto lo spagnolo come unica lingua, marginalizzando le altre. Questa repressione, comunque, viene realizzata in modo discontinuo- Se negli anni Quaranta il galego viene sostanzialmente oscurato, nel decennio successivo si aprono dei minimi spazi di manovra per coloro che non vogliono piegarsi al monolonguismo di stato. Nel 1950, a Santiago de Compostela, viene fondata la casa editrice Galaxia, che pubblicherà soltanto libri in galego, contribuendo in modo decisivo alla rinascita della lingua autoctona. Il Dia das letras galegas (Giornata della letteratura galega) che viene istituito il 17 maggio 1963 conferma la vivacità della cultura regio13
nale. La scelta del 17 maggio ha un significato molto importante, perché coincide col centenario dei Cantares gallegos di Rosalía de Castro (1837-1885), la scrittrice che rappresenta una delle massime espressioni della letteratura galega. Come scrive Xesús Alonso Montero, "La Galizia prova un orgoglio speciale per il fatto che il suo grande giorno non evochi un episodio dove sono protagonisti la spada o le armi".
Figli della stessa lingua Il 5 gennaio 1915 Aurelio Ribalta, uno scrittore galego residente a Madrid, pubblica sul quotidiano La Voz de Galicia un appello per la creazione di un'associazione che difenda la lingua galega. Bastano pochi mesi perché attorno a lui si raccolga un folto gruppo di intellettuali e uomini politici che condividono pienamente il suo proposito. Il 18 maggio 1916, nei locali della Real Academia Galega a La Coruña, nascono così le Irmandades da Fala (Fratellanze della lingua), l'associazione politico-culturale che getta le basi del moderno nazionalismo galego. L'obiettivo principale rimane la difesa della lingua. Fra i promotori ci sono alcuni dei principali esponenti della cultura regionale, come Manuel Lugrís Freire, Luís Porteiro Garea, Francisco Tettamancy e Ramón Villar Ponte. In poco tempo nascono varie sezioni in tutta la regione. Il 14 novembre esce il primo numero della rivista ufficiale, A Nosa Terra, pubblicata interamente nella lingua autoctona. Le prime iniziative hanno come scopo la proiezione della cultura: corsi di galego, mostre, recite, etc. Al tempo stesso, però, il movimento non nasconde l'intenzione di operare in campo politico. Nel 1917 collabora con la Lliga Regionalista catalana per le elezioni politiche dell'anno successivo, ma riesce a presentarsi soltanto in tre distretti e non ottiene nessun seggio. L'associazione si radica anche in Argentina e a Cuba, dove esistono consistenti comunità galeghe in seguito all'emigrazione cominciata nel 1857. Il legame con questi fratelli d'oltre Atlantico è particolarmente sentito. Un gruppo importante si forma anche a Madrid. Il movimento politico-culturale cresce rapidamente, ma le adesioni proseguono con alti e bassi: alla fine del 1917 gli affiliati sono 200, l'anno successivo 700, sempre divisi in vari gruppi locali. Nel congresso celebrato a Lugo alla fine del 1918 viene definito un programma politico dettagliato. Questo include fra l'altro la piena autonomia della Galicia, la cofficialità della lingua insieme al castigliano, l'uguaglianza dei sessi e una serie di misure in campo legislativo, economico e giudiziario. Inoltre viene disposto l'esame di un'eventuale unione federale con il Portogallo. Nel 1919 inizia un lento declino, ma durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera (1923-1930) il movimento comincia a rinascere. Alla fine del 1931 opta per la politica attiva: nasce il Partido Galeguista (PG). Quando scoppia la guerra civile (1936) il PG si unisce alle forze antifranchiste e viene travolto dagli eventi. La repressione induce molti militanti a fuggire in Francia e in vari paesi dell’America "latina”. Antonella Visconti
Il centenario delle Irmandades da Fala (2016) è stato celebrato con numerose iniziative. Da sinistra: il libro che raccoglie gli atti del convegno organizzato dal Museo do Pobo Galego; il CD realizzato dal duo italo-galego 2na Frontera; il libro illustrato di Pepe Carreiro edito da Baía.
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L'Instituto da Lingua Galega (ILG), fondato nel 1971 all'Università di Santiago, inizia subito a collaborare con la Real Academia Galega, gia attiva dall'inizio del secolo. Lo scopo comune è lo studio della lingua e la definizione della sua normativa. I primi segnali di rinascita Francisco Franco muore a Madrid il 20 novembre 1975. Con lui finisce la dittatura e inizia il periodo di transizione che trasformerà la Spagna in una monarchia costituzionale analoga alle tante che esistono già in Europa. La Costituzione democratica che viene approvata nel 1978 definisce un'organizzazione territoriale a metà strada fra lo stato unitario e quello federale: si tratta di uno stato basato sulle autonomie (estado autonomico). Fra il 1979 e il 1983 prende forma l'assetto odierno della Spagna, composto da 17 regioni autonome. La Galizia sancisce la propria autonomia con lo Statuto del 1981. L’anno successivo la Giunta regionale approva la normalizzazione linguistica definita dalla Real Academia Galega (RAG), che nel 1983 viene fissata da una legge apposita. Un progresso importante per lo sviluppo della lingua regionale è la nascita della radiotelevisione regionale. Creato da una legge del 1985, il nuovo ente pubblico ha per obiettivo la gestione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione in galego. Gli anni successivi dimostrano che questo servizio sta svolgendo un ruolo decisivo nella diffusione della lingua. Celtici ma non celtofoni Fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta il retaggio celtico della Galizia diventa oggetto di una lunga contesa che si sviluppa all'interno della Celtic League, l'organizzazione che riunisce numerose associazioni culturali dei sei paesi celtici. Alan Heusaff, presidente e fondatore, propone che l'organizzazione accolga la Galizia e le Asturie. I legami storici e culturali delle due regioni con il mondo celtico sono innegabili, ma manca quello linguistico, dato che in entrambe si parlano lingue neolatine. La proposta viene comunque accettata e le due regioni vengono accolte nella Celtic League. La questione torna d'attualità nel 1993, quando Peter Beresford Ellis pubblica The Celtic Dawn. Il libro dello storico inglese contesta apertamente che la Galizia e le Asturie vengano considerate terre celtiche a tutti gli effetti. Ellis ricorda che nessuna lingua celtica viene più parlata in queste regioni dal nono secolo. La sua tesi innesca un lungo dibattito, ma alla fine viene accolta. La Celtic League torna sulla propria decisione e le esclude dai propri ranghi, pur accettando di collaborare con loro per l'affinità culturale incontestabile. Da Santiago a Bruxelles Negli stessi anni l'interesse per il galego supera i confini regionali. A Birmingham nasce nel 1991 un istituto accademico che si dedica allo studio dell'idioma. Centri analoghi prendono forma in altri atenei, da Cork a Perugia, da Parigi a Roma. Grazie a queste iniziative comincia a circolare anche in Italia la produzione letteraria e cinematografica più recente. Oltre a questo si moltiplicano i contatti e gli scambi col Portogallo, che dimostra un interesse crescente per la lingua lusofona del paese confinante. Nel 2005, in seguito alle pressioni del governo spagnolo, l'Unione Europea inserisce il galego, il catalano e il basco fra le lingue di uso ufficiale. Questo non significa che diventano ufficiali in senso stretto, ma che possono essere usate nelle istituzioni comunitarie. Le scuole della discordia Nel 2007 il governo regionale composto dai socialisti e dai nazionalisti del Bloque Nacionalista Galego (BNG) vara le Galescolas, una rete di scuole in galego per bambini fino a 3 anni. Si tratta di una novità importante, ma purtroppo dura poco: due anni dopo, in seguito alle elezioni regionali, il potere passa nelle mani del Partido Popular, che riorganizza completamente il servizio didattico. Cambia anche il nome: le Galescolas diventano Galiña Azul, con l'intenzione di offrire un'educazione "spoliticizzata e deideologizzata". Questo mutamento radicale viene contestato dagli ambienti nazionalisti, che lamentano l'abbandono del progetto originario. La fondatezza di queste critiche viene confermata dal minor rilievo che viene dato al galego nella pubblica amministrazione. Oltre a questo, le statistiche disegnano una situazione tutt'altro che rosea. Fra il 2003 e il 2013 il numero di parlanti registra una diminuzione costante, soprattutto fra i giovani. 15
Lingue ufficiali e lingue riconosciute della Spagna Lingua ufficiale Castigliano (spagnolo) 54.000.000 Catalano 13.000.000 Galego# Valenziano1 Basco Aranese (occitano)2
Lingue coufficiali
46.000.000 59.000.000 5.000.000 18.000.000 2.000.000 75.000 2.000.000 900.000 50.000 5.000
4,52
1.500.000
Lingue non ufficiali con uso regolato dalla legge Bable (Asturiano) Catalano4 Aragonese5
3
100.000 50.000 12.000
800.000 800.000
Lingue riconosciute nello Statuto di autonomia Leonese6 150.000 1 variante locale del catalano 2 parlato nella Val d'Aran (Catalogna) 3 parlato nelle Asturie 4 parlato nella Franja d'Aragona 5 parlato in Aragona 6 parlato in Castiglia e León
25.000 3.000
Bibliografia Beswick J. E., Regional Nationalism in Spain: Language Use and Ethnic Identity in Galicia, Multilingual Matters, Bristol 2007. Colin C., Charquez Gámez R. (a cura di), La Galice. Identité culturelle et répresentations, L'Harmattan, Paris 2017. Colmeiro J., Peripheral Visions/Global Sounds. From Galicia to the World, Liverpool University Press, Liverpool 2017. Diéguez Cequiel U.—X. (a cura di), As Irmandades da Fala (1916-1931). Reivindicación identitaria e activismo socio-político-cultural no primeiro terzo do século XX, Laiovento, Santiago de Compostela 2016.
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Il futuro della Spagna Intervista ad Adolfo Botti
Adolfo Botti, condirettore della rivista Spagna contemporanea insieme a Claudio Venza, è uno dei più autorevoli ispanisti italiani. Inoltre dirige la collana di studi storici omonima presso le Edizioni dell'Orso di Alessandria. Ha pubblicato numerose opere, fra le quali ricordiamo La questione basca. Dalle origini allo scioglimento di Batasuna (Bruno Mondadori, 2003) e Le patrie degli spagnoli. Spagna democratica e questioni nazionali (1975-2005) (Bruno Mondadori, 2007). Insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Modena-Reggio Emilia. Lo abbiamo intervistato per capire meglio la situazione attuale della Spagna e le prospettive che si possono aprire in seguito alla crisi catalana. L'intervista è stata fatta prima delle elezioni politiche del 28 aprile 2019. Le sembra giusto parlare di ritorno al franchismo, come molti hanno fatto in seguito alla repressione avvenuta dopo il referendum catalano? Assolutamente no. Semmai bisogna rilevare che certo españolismo (nel senso di nazionalismo spagnolo) ha ripreso vigore. Questo è diventato praticamente l'unico riferimento ideologico di Ciudadanos, rafforzando la curvatura a destra del Partito Popolare (PP) e anche, seppur in misura minore, del Partito Socialista. Queste sono reazioni abbastanza evidenti, ma parlare di "ritorno al franchismo" mi pare immotivato ed esagerato. D'altra parte occorre considerare che il nazionalismo catalano ha tutto l'interesse ad accentuare lo spagnolismo dei governi di Madrid, obiettivo che Rajoy è perfettamente riuscito a centrare. Il caso catalano ha o potrebbe avere un effetto negativo sull’intero istituto delle autonomie? Anche in questo caso penso di no. Le autonomie sono state una conquista della democrazia. Per quanto abbiano mostrato dei difetti e non abbiano risolto il problema della sussidiarietà, non vedo come si possa tornare indietro. D'altra parte, non mi pare che ci sia chi auspichi il ritorno all'antico centralismo. Crede che la riforma della Costituzione dovrebbe trasformare la Spagna in uno Stato federale? Penso che una riforma costituzionale in senso federale sarebbe auspicabile e che potrebbe risolvere il problema almeno per un certo numero di anni. Il fatto è che soltanto Podemos e in parte il PSOE sono disponibili a procedere in questa direzione, mente non lo sono il PP e soprattutto Ciudadanos. La Costituzione del 1978 fu varata in un clima di grande consenso. Un consenso che attorno all'architettura dello Stato fissato dalla Carta fondamentale ha consentito al paese iberico di crescere nei tre decenni successivi. Senza un consenso di quel tipo non si va da nessuna parte ed è ìmpossibile una riforma costituzionale. Per la quale, ora come ora, non vedo le condizioni. Dove crede che porterà la cauta apertura di Sanchez nei confronti dei separatisti catalani? Dipende molto dall'esito delle prossime elezioni politiche. Se gli elettori premieranno Sánchez senza penalizzare Podemos potrebbe aprirsi un nuovo scenario nel quale un serio dialogo con il nazionalismo catalano (che non è tutto indipendentista) potrebbe intavolarsi e dare i suoi frutti. Nel separatismo catalano il fattore economico pesa più di quello identitario? Se per fattore economico intendiamo il fatto che la Catalogna rappresenta uno dei territori con maggiore benessere del paese iberico, esso ha avuto e continua ad avere la sua importanza. Se l'intendiamo dal punto di vista finanziario e del dinamismo delle imprese, direi di no. Le evidenze 17
empiriche ci dicono che banche e imprese hanno trasferito altrove le proprie sedi e i centri direzionali di fronte alla minaccia di una secessione. Quindi sarei propenso ad attribuire al fattore identitario il peso maggiore. Un fattore identitario che per quanto sia costantemente presente, ma spesso anche latente, riemerge nelle forme più radicali di fronte alle chiusure del governo di Madrid. Questo è quanto è avvenuto in varie occasioni nel corso del Novecento, ed è anche quello che è successo qualche anno fa con la sentenza della Corte Costituzionale alla quale il PP si era rivolto affinché si pronunciasse sul nuovo Statuto catalano.
Nel 2018 la nostra associazione ha compiuto 25 anni. Nata a Firenze come Associazione per i popoli minacciati, sezione italiana della Gesellschaft für bedrohte Völker, nel 2000 ha sciolto il legame con l'associazione tedesca assumendo il nuovo nome, Centro di documentazione sui popoli minacciati. Non ci piacciono i toni trionfalistici, quindi ci limitiamo a ringraziare coloro che ci hanno seguito, aiutato, incoraggiato. È soprattutto grazie a loro che la nostra attività può continuare. Al tempo stesso, rivolgiamo un saluto affettuoso a due cari amici che non sono più fra noi materialmente, Edmond Simeoni e Alfons Benedikter, ma che continuano a seguire e ad ispirare il nostro impegno, perché in realtà non ci hanno mai abbandonato.
THE INDIGENOUS WORLD 2019
Un'opera indispensabile per conoscere la questione indigena Un panorama completo e aggiornato unico al mondo www.iwgia.org 18
Suoni, immagini e parole Materiali sulle minoranze della Spagna Film e documentari Baschi Amama, regia di Asier Altuna, Spagna 2015, 103'. Ogro, regia di Gillo Pontecorvo, Italia-Francia-Spagna 1979, 100'. La pelota vasca: la piel contra la piedra (La pelota vasca. Patria basca e libertà), regia di Julio Medem, Spagna 2003, 115'. Catalani Any de Gràcia, regia di Ventura Pons, Spagna 2012, 90'. Patria, regia di Joan Frank Charansonnet, Spagna 2017, 112'. Salvador (Puig Antich) (Salvador: 26 anni contro), regia di Manuel Huerga, Spagna-Regno Unito 2006, 134'. Terra Lliure, punt final, regia di David Bassa, Spagna 2007, 59'. Galeghi Crónicas da represión lingüística, regia di Xan Leira, Spagna 2008, 28'. Os fenómenos, regia di Alfonso Zarauza, Spagna 2014, 99'. Fronteiras, regia di Rubén Pardinhas, Spagna 2007, 57'. El lápiz del carpintero (Ossessione d’amore), regia di Antón Reixa, Spagna 2003, 106'. Lena, regia di Gonzalo Tapia, Spagna 2001, 97'. Sicixia, regia di Ignacio Vilar, Spagna 2016, 98'. Tralas luces, regia di Sandra Sanchez, Spagna 2011, 113'.
Romanzi e fumetti Baschi Aramburu F., Patria, Guanda, Milano 2017. Aramburu F., Anni lenti, Guanda, Milano 2018. Atxaga B., Storie di Obaba, Einaudi, Torino 2002. Portela E., Meglio l'assenza, Lindau, Torino 2019. Catalani Castillo D., Barcellona non esiste, CartaCanta, Forlì 2015. Efa R., Lapière D., Seule, Futuropolis, Paris 2018. Riera C., La metà dell’anima, Fazi, Roma 2007. Rodoreda M., La piazza del Diamante, La Nuova Frontiera, Roma 2008. Sales J., Incerta gloria, Nottetempo, Milano 2018. Galeghi AA. VV., Cruceiros. Racconti dalla Galizia magica, Edizioni Estemporanee, Roma 2007. Colectivo Pestinho, Historia da língua em banda desenhada, n. ed., Através, Santiago de Compostela 2016. Manera D., Baraghini M. (a cura di), Racconti galeghi, Stampa Alternativa, Viterbo 1992. Rivas M., I libri bruciano male, Feltrinelli, Milano 2009. 19
Contro la logica della violenza Edmond Simeoni
Edmond Simeoni, l'esponente più autorevole dell'autonomismo corso, è morto ad Ajaccio il 14 dicembre 2018. Aveva 84 anni e soffriva di cuore da molti anni. Abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di parlare a lungo con lui, sviluppando un'amicizia preziosa. Quindi la sua scomparsa ci ha colpito profondamente. Ma non vogliamo ricordarlo col consueto "coccodrillo"che ripercorre la sua vita. Al contrario, pubblichiamo un suo articolo che mette in luce una delle ultime imprese politico-culturali alle quali aveva deciso di dedicarsi: quella di combattere la cultura della violenza, ben radicata nell'isola, con l'obiettivo di costruire una Corsica diversa, autonoma, inserita nel contesto francese ed europeo ma liberata dal centralismo soffocante di Parigi. Spesso si sente dire che la sola risposta alla violenza – politica, economica, culturale – è il ricorso alla forza, quindi un'altra violenza. Secondo questa logica, in pratica, l'unico modo per combatterla sarebbe una forma di violenza autorizzata dalla legittima difesa. Questa è una logica sbagliata, perché è possibile, pur rifiutando l'uso della forza, battersi nel terreno civico e democratico per promuovere una società meno conflittuale e più giusta. Non solo, ma anche per combattere l'ingiustizia. In Corsica conosciamo bene questa problematica coloniale, dato che molti nazionalisti avevano scelto l'indipendentismo violento e la clandestinità, ma poi hanno abbandonato definitivamente questa strada, permettendo così che si consolidassero le forze che si battono per l'emancipazione della Corsica. I nazionalisti moderati (autonomisti, ndr), che dopo i fatti di Aleria hanno rinunciato alla violenza, si battono democraticamente per ottenere uno statuto di autonomia. La scelta della nonviolenza non ha niente a che fare col disfattismo, con la paura, con la resa. Al contrario, è una scelta coraggiosa e responsabile radicata nella società civile. Soltanto questa potrà garantire la vittoria della causa corsa, diffonderla a livello popolare in tutta l'isola e nella diaspora e guadagnarle una simpatia internazionale. Oltre a liberarci ci permetterà di trasformare una terra devastata dal colonialismo in un paese moderno fondato sulla democrazia, sul lavoro e sulla solidarietà. Il mio amico François Vaillant, esponente del Mouvement d'Alternative Non Violente (MAN), lavora in questo campo insieme a un altro amico, il cantante Jean-François Bernardini, che con la sua Fondazione UMANI ha istruito circa 3000 formatori per diffondere la nonviolenza nelle scuole, nelle università e nelle imprese. Non soltanto in Corsica, ovviamente, ma anche nella Francia continentale. Un impegno esemplare che deve diventare contagioso. François mi ha consigliato di leggere due libri del suo amico Jean-Marie Muller. Il primo, Stratégie de l'action non-violente (Seuil, 1981), è ormai datato, ma rimane attuale perché contiene dei suggerimenti pratici che coniugano morale e politica. L'altro, Dictionnaire de la non-violence (Éditions du Relié, 2014), analizza tutto quello che ha a che fare con la materia: aggressività, boicottaggio, sciopero della fame, etc. Oltre 50 parole spiegate in modo chiaro e dettagliato. François mi segnala anche gli studi di Gene Sharp, un ricercatore americano che merita molta attenzione. Come si può ben capire, la Corsica deve confrontarsi con problemi gravi e complessi: si tratta di costruire un paese nuovo, democratico, libero, moderno. Dopo decenni di violenza e di repressione, il Fronte di Liberazione Naziunale di a Corsica (FLNC) ha rinunciato definitivamente alla lotta armata e alla clandestinità. Il movimento nazionalista, al tempo stesso, ha scelto la strada dell'unità e ha ottenuto dei risultati elettorali importanti, prima al Comune di Bastia, poi alle elezioni legislative del 2017 e alle regionali dello stesso anno. Oggi, attraverso il presidente della Collectività Territoriale (la Regione, ndt), presiede la Commissione insulare delle Regioni Periferiche Marittime (CRPM), che dovrà stimolare l'UE a ridurre le disparità sociali ed economiche di questi territori. 20
La Francia, oltre a rifiutare un vero dialogo, ha posto delle pregiudiziali sulle nostre rivendicazioni principali: la lingua, l'identità, il nuovo Statuto... A questo non intendiamo rispondere imboccando la strada della violenza, che sarebbe insensata e suicida. Al contrario, dobbiamo utilizzare le elezioni, le lotte pacifiche e tutti gli altri strumenti democratici a nostra disposizione. Secondo Gene Sharp esistono 198 mezzi per vincere lo scontro con lo stato senza utilizzare la violenza, oltre a quello che si può fare con i mezzi di comunicazione largamente diffusi in Corsica, in Europa e ovunque. La gamma di mezzi per contestare la politica statale è molto varia. Una volta che si è definito un programma, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Per esempio, si potrebbe organizzare uno sciopero generale in tutta la Corsica che avesse un impatto concreto sugli interessi dello Stato. Non ha senso continuare lamentarsi della politica dilatoria della Francia, che si è concretizzata in quattro statuti vaghi e insufficienti; del suo rifiuto cronico e delle promesse che non ha mantenuto. Giorno dopo giorno, mentre prosegue la lotta, prende forma lentamente una Corsica nuova, emancipata, moderna. Lo Stato non potrà frenare questo processo finché restiamo nei limiti della legalità, e nessuno può negare che stiamo facendo progressi in tutti i campi. Un giorno non lontano questo processo costringerà la Francia a convergere sulle nostre posizioni per costruire insieme una vera autonomia. Il popolo corso – dell'isola e della diaspora – vivrà finalmente libero, in armonia con gli altri popoli del mondo. Si tratta di un'evoluzione giusta e inevitabile, conforme al diritto internazionale, che nessuno potrà impedire.
Artigiani della nonviolenza La società corsa è segnata da un retaggio di violenza che affonda le proprie radici nei secoli. Proprio per questo una conferma dei mutamenti profondi che la interessano è lo sviluppo di una sensibilità nonviolenta che caratterizza gli ultimi anni. Parlare pubblicamente di nonviolenza in Corsica era impensabile fino a una decina di anni fa, ma oggi il fenomeno si sta radicando e guadagna crescenti consensi fra le nuove generazioni. A questo ha contribuito la fine del separatismo violento e l'affermazione politica degli autonomisti, da sempre contrari alla lotta armata, alla clandestinità e alla deriva mafiosa insita in questa logica. La ferma volontà di rompere con la violenza ha trovato il motore principale in Jean-François Bernardini, fondatore e leader dei Muvrini, uno dei principali gruppi musicali isolani. Nel 2002 Bernardini è stato fra i fondatori dell'Associu pè una Fundazione di Corsica – Umani, il cui principale obiettivo è appunto quello di diffondere la cultura della nonviolenza. A questo scopo il musicista ha tenuto molte conferenze, soprattutto nelle scuole; non solo in Corsica, ma anche in varie città della Francia continentale. In quest'opera Bernardini ha trovato il sostegno di molte persone, primo fra tutti Edmond Simeoni, esponente storico dell'autonomismo isolano. Giovanna Marconi
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Bibliografia Le piège d’Aleria, Lattès, Paris 1975. La volonté d’être, Albiana, Ajaccio 2001. Un combat pour la Corse. Entretien avec Pierre Dottelonde, Le Cherche Midi, Paris 2003. Lettre aux femmes corses, DCL–Stamperia Sammarcelli, Ajaccio-Biguglia 2008 . Corse! De la résistance à la résilience, Stamperia Sammarcelli, Biguglia 2017. Corse, l'inéluctable liberté, Alain Piazzola, Ajaccio 2018. Les mémoires d'Edmond Simeoni (a cura di Anne Chabanon), Flammarion, Paris 2019. Filmografia Edmond Simeoni, l'esprit militant, regia di PierreAntoine Beretti, Francia 2015.
Un uomo allergico alle ingiustizie Edmond Simeoni passerà alla storia come il fondatore del nazionalismo corso moderno: se un giorno la Corsica otterrà l'autonomia per la quale si è battuto, sarà soprattutto merito suo e di suo fratello Max. Ma la vita di Edmond non si è esaurita nella lotta autonomista. Ecologista, antirazzista, nemico della violenza e del maschilismo, quest'uomo che si definiva "allergico all'ingiustizia" ci lascia un'eredità inestimabile. 1960 A Marsiglia, dove compie gli studi universitari di medicina, fonda l'Association des etudiants corses de Marseille per protestare contro il programma governativo che vuole realizzare in Corsica degli esperimenti nucleari. In seguito alle imponenti proteste popolari il programma viene cancellato. 1973 Mobilita la popolazione corsa contro la Montedison, che scarica fanghi rossi tossici derivati dalla produzione della bauxite al largo di Capo Corso. La Montedison viene poi processata e condannata. 21-22 agosto 1975 Guida il gruppo che occupa l'azienda vinicola di Henri Dépeille, situata ad Aleria, per denunciare i gravi problemi economici dell'isola. La Francia reagisce inviando 1200 uomini in assetto di guerra. Negli scontri muoiono due persone e una resta ferita. Simeoni viene processato e condannato a sei mesi di carcere. 1987 È fra i fondatori del collettivo antirazzista Avà Basta insieme a Noelle Vincensini, esponente della resistenza antifascista deportata a Ravensbrück-Neubrandenburg. 25-30 agosto 1998 Partecipa al seminario Insular Regions and European Integration: Corsica and the Åland Islands Compared, che si svolge a Helsinki e a Mariehamn, organizzato dallo European Centre for Minority Issues per studiare l'autonomia delle isole Åland. 2004 Fonda l'associazione Corsica Diaspora et Amis de la Corse, della quale assume la presidenza. 2009 Partecipa alla fondazione del collettivo contro la centrale a gasolio di Lucciana, nei pressi di Bastia. 2010 Coordina il Forum citoyen mondial dell'UNESCO insieme al regista Magà Ettori. 12 ottobre 2015 Ad Ajaccio, insieme a Jean-François Bernardini, tiene la conferenza sul tema Corse,"Terre promise" pour la non-violence. Sono ormai alcuni anni che Edmond Simeoni sviluppa una riflessione politico-culturale basata sulla nonviolenza. 24 novembre 2018 Riceve il Maurits Coppetiers Award, che viene conferito alle personalità che si sono impegnate per la pace e per l'autodeterminazione dei popoli.
Edmond Simeoni (a destra) viene accolto dal fratello Max quando viene scarcerato (Parigi, 14 gennaio 1977)
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Una vittoria agrodolce per gli Ainu Giovanna Marconi
Il Giappone non è soltanto il paese che vanta la terza economia del pianeta e un'industria tecnologica senza pari. Dietro a questa realtà di solare evidenza, infatti, esiste un retaggio storico fatto di discriminazione e di disuguaglianza sociale. La sua pietra angolare è il dogma dell'omogeneità che caratterizza la cultura nipponica. Si tratta del nihonjinron ("teorie sui giapponesi"), una teoria sociologica diffusa in Giappone nel dopoguerra per spiegare le particolarità della cultura e della mentalità nazionali. Secondo questa religione civile, che non ha nessun fondamento scientifico, il Giappone sarebbe abitato da un unico popolo che parla una sola lingua. Non includerebbe quindi minoranze etniche o linguistiche, le differenze regionali sarebbero irrilevanti e la maggioranza della popolazione apparterrebbe alla classe media. Questa teoria presenta qualche analogia con il centralismo giacobino, ma in pratica si basa su un'omogeneità razziale del tutto estranea ai dogmi della Rivoluzione francese. Il nihonjiron è stato diffuso attraverso migliaia di conferenze, libri, saggi e altre iniziative analoghe: "Ben poco di quello che si è scritto sulla società giapponese è immune da questa influenza, che non risparmia neanche molti autori stranieri", sottolinea Karel Van Wolferen nel libro The Enigma of Japanese Power: People and Politics in a Stateless Nation (Vintage Books, 1990). Questo terreno culturale ha legittimato la discriminazione delle minoranze: da quelle sociali come i Burakumin (giapponesi che svolgono lavori "impuri" come la macellazione e la sepoltura) a quelle etniche come i Coreani, gli indigeni di Okinawa e gli Ainu. Questi ultimi, il popolo autoctono più antico dell'arcipelago, sono i protagonisti di un caso emblematico. Come spesso accade con le minoranze, i dati sulla consistenza numerica sono incerti. Secondo le cifre ufficiali del 2013 gli Ainu sarebbero 17.000, mentre l'Ainu Association of Hokkaido afferma che la cifra reale si aggira sui 2.000.000. Ainu Moshir (terra degli esseri viventi) è il termine col quale definiscono l'insieme dei propri territori. Oggi la maggior parte vive sull'isola di Hokkaido, la più settentrionale dell'arcipelago. A questa comunità si aggiungono poche centinaia stanziate in alcune regioni limitrofe dell'estremo oriente russo. Dall'assimilazione al riconoscimento La storia degli Ainu ricorda per certi versi quella degli Indiani nordamericani. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo Hokkaido divenne parte integrante del Giappone. Iniziò così un processo di colonizzazione che trasformò notevolmente la cultura ainu. Derubati delle loro terre e sottoposti a un’assimilazione spietata, gli indigeni cominciarono un declino demografico e culturale che pareva inarrestabile. In tempi recenti, grazie anche al rinnovato interesse dell'ONU per la questione indigena, si è diffusa fra loro una forte autocoscienza politica e culturale. Anche il Giappone, sebbene fra mille incertezze, ha iniziato a invertire la rotta. La prova più tangibile è il riconoscimento del Parlamento di Tokyo, che il 15 febbraio 2019 li ha ufficialmente dichiarati "un popolo indigeno con una propria lingua, una propria religione e una propria cultura". Il riconoscimento si richiama all'articolo 14 della Costituzione, secondo il quale "tutti sono uguali davanti alla legge", e obbliga il governo e le amministrazioni locali a varare leggi che promuovano la cultura ainu. Non è poco per un paese radicato nel culto della propria omogeneità. Il riconoscimento ufficiale è stato accolto da commenti difformi, perfino fra le varie associazioni indigene. Tadashi Kato, direttore dell'importante Ainu Association of Hokkaido, ha espresso un parere positivo: "La risoluzione ha un grande significato – ha detto – il governo giap23
ponese ha impiegato 140 anni per riconoscerci come popolo indigeno". Altri, al contrario, hanno espresso un parere decisamente negativo. Fra questi spicca Yuji Shi-mizu, presidente dell'associazione Kotan no Kai: "Il documento non parla di diritti territoriali né di diritto all'autodeterminazione, ma vuole usare gli Ainu come risorsa turistica. Chiediamo che questa legge venga immediatamente annullata", ha detto senza mezzi termini l'attivista. Visti da fuori certi giudizi negativi possono sembrare ingenerosi e mossi da una logica che vuole mantenere in vita un contenzioso sine die. Ma la realtà è diversa e si iscrive in un fenomeno più complesso. Negli ultimi 30 anni i problemi dei popoli indigeni hanno guadagnato una visibilità inattesa. Persino l'ONU, per molti anni sorda alle loro rivendicazioni, ha preso coscienza dei loro problemi e si è adoperata per risolverli, o almeno per ridurne gli effetti negativi. Questa attività ha partorito la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni, approvata dall'Assemblea generale il 13 settembre 2007 con 143 voti su 158 (incluso il Giappone). Il documento segna una svolta importante, elencando in modo certosino una ricca varietà di diritti culturali, politici ed economici. Ma possiede, come tanti documenti analoghi, un limite strutturale: l'adempimento non è obbligatorio, ma viene lasciato alla discrezionalità dei firmatari. Tanto è vero che l'hanno sottoscritto anche paesi come la Birmania e la Russia, che da allora non hanno mutato di una virgola la propria linea liberticida nei confronti delle delle minoranze. Il nodo è proprio questo: fino a quando la difesa di diritti globali – si tratti dei popoli indigeni, dell'ambiente o di altro – sarà demandata ad atti non vincolanti, in pratica questi avranno il valore di una stretta di mano. Al contrario, un riconoscimento come quello approvato dal Parlamento giapponese dovrebbe avere un altro peso, ma le buone intenzioni non coincidono sempre con la pratica. Gli Ainu sanno bene che i suoi limiti strutturali possono essere aumentati fino a renderlo nullo. In questo caso anche la Dichiarazione universale sottoscritta al Palazzo di vetro diventerebbe carta straccia. Il riconoscimento, nonostante le critiche suddette, segna comunque un passo avanti che permetterà agli Ainu di continuare la propria battaglia in modo più incisivo. Una battaglia, è bene sottolinearlo, che non si è mai espressa con la violenza. Nel 2020 verrà inaugurato il museo nazionale dedicato alla loro cultura, mentre sembra che le Olimpiadi di Tokyo verranno aperte da uno spettacolo di danze tradizionali ainu, come alcune associazioni hanno proposto negli anni scorsi.
Una delegazione ainu a un'iniziativa organizzata dall'associazione maori Te Reo O Taranaki (New Plymouth, 9 giugno 2016) Bibliografia Kayano S., Our Land was a Forest. An Ainu Memoir, Westview Press, Boulder (CO) 1994. Sjøberg K. V., The Return of the Ainu: Cultural Mobilization and the Practice of Ethnicity in Japan, Harwood Academic Press, New York (NY) 1993. Tsuneyoshi R., Okano K. H., Boocock S. (a cura di), Minorities and Education in Multicultural Japan: An Interactive Perspective, Routledge, London 2011.
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Un pericolo mortale per i popoli indigeni Alessandro Michelucci
Oggi l'America "latina" non è più il continente costellato di dittature militari, più o meno sostenute dagli Stati Uniti, che è stato nel secolo scorso. Regimi spietati come quello di Jorge Videla (19761981), di Augusto Pinochet (1973-1990) e la dittatura militare brasiliana (1964-1981) sembrano un ricordo lontano. Eppure molti paesi della regione sono ancora piagati da problemi sociali gravissimi. Valga per tutti il caso del Venezuela, in preda a una lunga crisi che sembra senza sbocco. Ma una situazione di particolare gravità è quella brasiliana. Non era mai accaduto, infatti, che la dittatura militare venisse apertamente rivendicata come un modello da un regime (formalmente) democratico. È appunto quello che sta accadendo nel più grande paese sudamericano, dove il nuovo presidente Jair Messias Bolsonaro non perde occasione per lodare la dittatura suddetta, lamentandosi al tempo stesso di non poterne replicare i metodi repressivi. In una situazione come questa le prime vittime sono i popoli indigeni, anche se il contrasto che li oppone al potere non è certo nato con Bolsonaro. Inoltre, la sua politica rappresenta una grave minaccia per l'intera popolazione brasiliana. Anche per i suoi sostenitori, che potrebbero essere travolti dal malcontento popolare come accade ai collaborazionisti. Reazioni endogene In certe occasioni il presidente brasiliano assume delle posizioni così palesemente antidemocratiche che le altre autorità federali sono costrette a intervenire. Bolsonaro si è appena insediato quando decide di esautorare la FUNAI, l'ente governativo per la demarcazione dei territori indigeni, dalla sua funzione. La materia viene affidata al Ministero dell'Agricoltura, strettamente legato ai latifondisti. Stephen Corry, direttore generale di Survival International, reagisce duramente: "È un attacco ai diritti, alle vite e ai mezzi di sussistenza dei popoli indigeni del Brasile [che] getta le basi della catastrofe ambientale". Alcuni mesi dopo, il 22 maggio, la Camera dei deputati decide che la FUNAI sia reintegrata nei propri poteri. La votazione viene confermata dal parere favorevole del Senato, ma l'ultima parola spetta a Bolsonaro, che il 14 giugno riafferma la propria decisione. Un altro episodio, ancora più indicativo della nuova linea presidenziale, riguarda invece l'intera popolazione. Il 25 marzo il portavoce della presidenza, Otavio Rego Barros, annuncia che Bolsonaro vuole commemorare il 55° anniversario del golpe militare (31 marzo 1964). Questa è stata la dittatura sudamericana più lunga, se si esclude il regime paraguayano di Alfredo Stroessner (19541989). La repressione, anche nei confronti degli indigeni, è stata spietata. La notizia scatena una reazione che si diffonde rapidamente attraverso Facebook, Twitter e le altre reti sociali. Alle manifestazioni di piazza partecipano anche molti indigeni. Il giudice di Brasilia Ivani Silvia da Luzha emette poi una sentenza dove afferma che la commemorazione "non è compatibile con il processo di ricostruzione democratica" stabilito nella Costituzione del 1988. La protesta popolare prosegue e si coagula poi in un libro, Ninguém solta a mão de ninguém. Manifesto afetivo de resistência e pelas liberdades (Nessuno lasci la mano di nessuno. Manifesto emotivo di resistenza e per le libertà). Il volume, curato da Tainã Bispo, riunisce 22 testi inediti di vario tipo: dal saggio alla canzone, dalla poesia alla prosa. Fra gli autori spiccano l'attivista indigeno Yaguarê Yamã, la cantante Ceumar e la docente accademica Anielle Franco, sorella di Marielle Franco, una sociologa progressista assassinata da ignoti il 14 marzo 2018. L'accusa dell'antropologo L'opposizione alla politica del nuovo presidente non viene soltanto da ampi strati popolari e dai popoli indigeni, ma anche dall'ambiente accademico. Un caso paradigmatico è quello di Eduardo Viveiros de Castro, un prestigioso antropologo che insegna all'Università di Rio de Janeiro. Lo stu25
dioso è noto anche in Italia, dove sono stati pubblicati molti dei suoi lavori, l'ultimo dei quali è Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove (Quodlibet, 2019). De Castro critica duramente le posizioni del nuovo esecutivo: "È così ignobile che fa rimpiangere i governi precedenti, decisamente negativi perché incapaci di concepire uno sviluppo che non fosse basato sulla crescita economica a spese dell'ambiente, delle terre pubbliche, delle culture di coloro che non si riconoscono nella società dei consumi". Secondo l'antropologo esiste una differenza sostanziale fra il governo attuale e i due precedenti. "Prima si trattava di incomprensione e di miopia ideologica, mentre ora si tratta di persone che hanno l'obiettivo dichiarato di privatizzare le terre indigene e distruggere le culture dei popoli che le abitano". Quale identità? Bolsonaro viene spesso definito "nazionalista" e "identitario", ma si tratta di etichette insensate. Così viene percepito anche in Italia, sia a sinistra che a destra. "Il vento identitario soffia anche oltre i confini d'Europa!" ha scritto Lorenzo Fontana, Ministro leghista per la Famiglia, aggiungendo "Complimenti e buon lavoro al nuovo Presidente del Brasile Jair Bolsonaro". Un'interpretazione analoga è emersa dal convegno L’internazionale nera tra Europa, Stati Uniti e America Latina, di segno politico opposto, che si è svolto a Roma il 13 giugno scorso. Ma quale sarebbe il "vento identitario" lodato dal Ministro Fontana ed esecrato nel convegno romano? Se identitario è colui che difende strenuamente la propria identità culturale, non si vede proprio come questo aggettivo possa attagliarsi a un uomo che vuole sventrare una parte vitale del proprio paese – la foresta amazzonica – a vantaggio dei latifondisti e delle multinazionali straniere, nemici giurati dell'ambiente, dei popoli indigeni e della diversità culturale. Bolsonaro è strettamente legato a diversi poteri forti che condizionano la sua linea politica: l'esercito, tanto è vero che il suo governo include 5 militari; la Chiesa evangelica (originariamente cattolico, nel 2016 il presidente si è fatto battezzare simbolicamente nel Giordano); i latifondisti e l'industria agroalimentare. Tutto questo viene confermato dalla composizione del suo governo. Il Ministro dell'Agricoltura, Tereza Cristina, ha fatto parte di un comitato governativo che nel 2018 ha approvato una regolazione più flessibile sull'uso dei pesticidi. Paulo Guedes, Ministro dell'Economia, liberista allievo di Milton Friedman, è il fondatore della banca d'investimenti BTG Pactual. Il Ministro degli Esteri Ernesto Araújo è convinto che il mutamento climatico non sia un dato oggettivo, ma l'espressione di un "complotto marxista". Questa tesi bizzarra è condivisa da Olavo de Carvalho, testa pensante del governo, secondo il quale l'Inquisizione è stata "un passo gigantesco nella lotta per i diritti umani" e le sue torture "sono tutte inventate".
Bolsonaro, liberticida e liberista Non saranno le accuse di fascismo che fermeranno Bolsonaro, perché sono armi vecchie e spuntate: ormai sono lontani i tempi in cui bastava gridare al fascista per emarginare un esponente politico sgradito. Il presidente brasiliano è certamente un liberticida, ma solo per certi aspetti limitati alla politica interna, mentre a livello internazionale si presenta come un liberista convinto, filoisraeliano e filoamericano, legato a Trump da un solido rapporto che potrebbe portare il suo paese nella NATO. Questo gli garantisce piena cittadinanza nel panorama politico internazionale, che in genere condivide pienamente questa linea. La stessa di uomini che operano in contesti sociopolitici molto diversi, come Emmanuel Macron e Carlo Calenda. Al contrario, il presidente dovrebbe essere attaccato soprattutto sui temi ambientali, come hanno fatto alcuni giornalisti, fra i quali Eliane Brum (El País) e Julia Blunck (Prospect). Ma purtroppo il peso soffocante dell'economia impone che gli affari vengano prima delle questioni di principio come la tutela ambientale e i diritti delle minoranze. Non solo, ma l'Unione Europea ha già dimostrato quale linea intenda adottare: il 28 giugno scorso ha firmato un accordo ventennale di libero commercio che coinvolge quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). Il nuovo accordo prevede fra l’altro la liberalizzazione dei dazi, dell'uso di pesticidi e di OGM. Insomma, non sarà certo l'Unione Europea a frenare la distruzione dell'Amazzonia progettata da Bolsonaro. 26
Due modi diversi di opporsi a Bolsonaro. A sinistra, il quotidiano comunista francese L'Humanité parla di "minaccia fascista". Nelle altre foto, invece, si mette l'accento sulla gravissima minaccia che la sua politica comporta per l'intero pianeta. Bibliografia Carneiro da Cunha M., Índios no Brasil, Claro Enigma, São Paulo 2012. Foley C. (a cura di), In Spite of You: Bolsonaro and the NewBrazilian Resistance, OR Books, New York (NY) 2019. Lenzi Grillino F., I confini delle terre indigene in Brasile. L'antropologia di fronte alla sfida delle consulenze e delle perizie tecniche, CISU, Roma 2010. Torres M., Branford S., Amazon Besieged: By Dams, Soya, Agribusiness and Land-grabbing, Pratical Action Publishing, Rugby 2018.
IL BRASILE CHE DICE NO Artisti, esponenti politici, femministe, militanti indigeni, studiosi e ambientalisti: una mappa del Brasile che resiste a Bolsonaro
www.orbooks.com 27
Biblioteca
Grand Chief George Manuel, Michael Posluns, The Fourth World: An Indian Reality, nuova ed., University of Minnesota Press, Minneapolis (MN) 2018, pp. 320, $24.95. La prima edizione di quest'opera fondamentale apparve nel 1974, lasciando una traccia profonda negli Indiani nordamericani e in pratica nei popoli indigeni del pianeta. Il libro ha mutato il linguaggio coniato dai sociologi del diciannovesimo secolo, che allora costituiva un riferimento accademico necessario per analizzare le culture indigene e il loro ruolo nella società. The Fourth World ha inserito i popoli indigeni nel dibattito locale e in quello globale, utilizzando un linguaggio nuovo che ha conferito piena dignità alle lotte legali e politiche fra i discendenti dei colonizzatori e gli eredi dei popoli colonizzati. La stessa espressione Fourth World (Quarto mondo) ha avuto un'importanza decisiva, perché ha stimolato una collaborazione fra i popoli autoctoni che ha cambiato il mondo. Fu davvero insolito, nei primi anni Settanta, che un leader indigeno scrivesse un libro così importante. È grazie a lui che i popoli originari hanno acquisito il diritto di sedere ad un tavolo da pari grado e guardare negli occhi gli oppressori. Il suo valore è rimasto immutato, perché oggi come allora riflette lo scontro con gli stati, fondati su un'accumulazione della ricchezza che danneggia le nazioni indigene. Con parole lucide e appassionate il libro mette in luce la profonda saggezza dei popoli del Quarto Mondo, eredi di culture millenarie, diversamente dalle società degli stati, che hanno un bagaglio di pochi secoli. Al tempo stesso Manuel dimostra che le nazioni indigene hanno creato istituzioni economiche in sintonia con l'ambiente, contrariamente alle politiche miopi degli stati. Si tratta di un esempio che tutti dovrebbero imitare, perché così si potrebbero evitare molti conflitti e costruire un mondo più pacifico e più umano. Rudolph Rÿser Stefania Baroncelli (a cura di), Regioni a statuto speciale e tutela della lingua. Quale apporto per l'integrazione sociale e politica?, Giappichelli, Torino 2017, pp. 320, € 42. Le regioni a statuto speciale sono il frutto degli sforzi che vennero fatti in sede costituente per tutelare le lingue minoritarie presenti in varie aree del territorio nazionale. Nonostante questo impegno, unico in tutta l'Europa occidentale postbellica, è stato necessario oltre mezzo secolo perché l'articolo 6 della Costituzione trovasse piena attuazione, tanto è vero che la legge in questione è stata approvata soltanto nel 1999 (482/99). Il volume si propone di verificare, a quasi due decenni da allora, a che punto sia la tutela delle 28
minoranze nelle regioni a statuto speciale, tenendo conto della differenza esistente tra le lingue minoritarie con status forte (francese, sloveno e tedesco), avvantaggiate dal peso politico di Stati di riferimento nel contesto internazionale, e le altre minoranze. Diviso in cinque sezioni, il libro si sofferma sulla crescente dimensione linguistica nella protezione dei diritti, il ruolo e la valorizzazione della lingua minoritaria nell'accesso alla pubblica amministrazione, nel sistema scolastico e nei processi giudiziari. L'ultima sezione si sofferma sulla differenza della tutela apportata alle lingue minoritarie storiche e alle lingue dei migranti, cercando di comprendere quanto le regioni speciali, in virtù della loro esperienza nell'integrazione fra varie etnie, possano avere un ruolo propulsore nell'integrazione dei migranti o nuovi immigrati. L'unico difetto del libro è che propone più di un confronto in chiave comparata tra Valle d'Aosta e Provincia Autonoma di Bolzano, entrambe caratterizzate principalmente dalla presenza di minoranze con status forte. Forse sarebbe stato più interessante fare un confronto tra tali realtà e regioni con minoranze che non possono contare sul peso politico di Stati di riferimento (su tutte, Sardegna e Friuli Venezia Giulia). Marco Torresin AA. VV., Stiamo scomparendo. Viaggio nell'Italia in minoranza, CTRL Books, Bergamo 2018, pp. 123, € 18. La letteratura sulle minoranze d'Italia è ormai consistente, ma in genere privilegia le comunità confinarie che godono di autonomia, come i valdostani e i sudtirolesi. Al contrario, molto poco si scrive sulle minoranze che sono comunque tali anche nei territori che abitano. A colmare in parte questa lacuna provvede il volume che segna l'esordio della collana edita dal CTRL Magazine, un interessante pubblicazione bergamasca che privilegia le esperienze dirette: "Se si parla di un luogo, lo visitiamo di persona", si legge sul suo sito. Opera viva e originale, il libro contiene cinque reportage che spaziano dal nord (occitani e walser) al sud (greci e albanesi), includendo un testo sui tabarchini, minoranza solitamente negletta anche da chi si occupa di questi temi. Un lavoro di taglio narrativo realizzato a contatto con la gente, impreziosito da una ricca sezione fotografica. Alessandro Michelucci Gianluca Cettineo, The Poppy e the Lily. Calcio ed etnia a Belfast, Urbone,Sant'Andrea di Conza (Avellino) 2018, pp. 170, €12,90. Questo libro racconta le divisioni politiche, sociali e culturali dell'Irlanda del Nord dall'angolatura insolita ma illuminante dei campi di calcio. A Belfast la geografia urbana ricalca tali divisioni in modo simmetrico: la squadra del Linfield fu fondata nel lontano 1866 a Sandy Row, un quartiere del centro solitamente ostile ai cattolici, da una comunità di operai protestanti affiliati all'Ordine d'Orange. La sua prima uniforme di gara bianca, rossa e blu richiama i tradizionali colori dell'Union Jack britannica, mentre la seconda maglia è arancione proprio in onore dell'Orange Order. Dopo la scomparsa del leggendario Belfast Celtic – ritiratosi dalle scene nel 1948 dopo anni di violenti scontri con le tifoserie avversarie - gli indipendentisti cattolici della capitale tifano quasi tutti per i biancorossi del Cliftonville, che giocano i match interni nel piccolo Solitude, lo stadio dell'enclave cattolica di Ardoyne, a Belfast nord. Il conflitto ha segnato anche la storia del Derry Football club, la squadra del ghetto cattolico di Bogside dove ebbe luogo la strage della Bloody Sunday del 1972, quattordici civili massacrati dai paracadutisti inglesi durante un corteo per i diritti civili. I bianco-rossi di Derry non sono scomparsi come il Celtic, ma sono stati ostracizzati e costretti ad autoesiliarsi al di là del confine. A causa dei ricorrenti scontri con i tifosi delle squadre protestanti, nel 1971 la polizia chiuse il loro stadio per motivi di sicurezza, obbligando il club a gio29
care le partite casalinghe nella vicina città di Coleraine, a maggioranza protestante. Nel 1985, con l’intercessione della FIFA, il club di Derry è infine "emigrato" nella Lega calcistica della repubblica irlandese, dove milita ancora con ottimi risultati, tra i quali spicca uno storico triplete di trofei nazionali, realizzato nel 1989. Neanche l’accordo di pace siglato vent'anni fa è riuscito a spegnere del tutto le tensioni negli stadi, e il calcio continua a essere uno dei campi in cui si manifesta lo scontro identitario tra repubblicani cattolici e unionisti protestanti. I cori delle curve – opportunamente citati nel libro di Cettineo – trasudano ancora un odio ancestrale che arriva persino a irridere un'immane tragedia come la Grande Carestia del diciannovesimo secolo. Riccardo Michelucci Carlos Núñez, La hermandad de los celtas, Editorial Espasa, Madrid 2018, pp. 552, € 21,90. Bretagna, Cornovaglia, Galles, Irlanda, Isola di Man e Scozia: sono queste le sei terre celtiche, come conferma la Celtic League, l'associazione politico-culturale fondata nel 1961 da Alan Heusaff (19211999) per sviluppare un'azione comune. Accanto a queste ce ne sono altre due che rivendicano un'eredità celtica: le Asturie e la Galizia, entrambe regioni spagnole. Quello che le differenzia dalle sei terre suddette è la mancanza di una lingua celtica. Ma i legami sono comunque innegabili, come conferma la musica. Uno degli artisti più impegnati nella collaborazione panceltica è il galego Carlos Núñez. Nato a Vigo nel 1971, il musicista viene considerato uno dei massimi virtuosi della gaita (cornamusa galega). Un ottimo strumento per conoscerlo è il suo CD più recente, Interceltic (RCA Victor, 2014), dove lo accompagnano alcuni dei colleghi più celebri dell'area celtofona, fra i quali Dan Ar Braz, Paddy Moloney e Alan Stivell. Alla stessa fratellanza celtica allude il titolo del suo primo libro, La hermandad de los celtas. Il volume propone un ampio viaggio storico e culturale attraverso la musica celtica, disegnando un panorama affascinante nel quale si susseguono riferimenti storici, geografici, politici e culturali. L'autore approfondisce i legami della musica celtica con altre musiche e le reciproche influenze. Al tempo stesso, racconta varie esperienze personali e i contatti con vari esperti della materia: antropologi, cronisti, storici e naturalmente musicisti. Un'opera ricca, frutto di una passione profonda e di uno studio attento, un libro scritto con la testa e col cuore. Una lettura tonificante con la quale possiamo addentrarci nelle pieghe più riposte del ricco immaginario celtico, che costituisce una componente fondamentale della cultura europea. Giovanna Marconi Deniz Yücel, Ogni luogo è Taksim. Da Gezi Park al controgolpe di Erdogan, Rosenberg & Sellier, Torino 2017, pp. 272, € 16. Un momento storico straordinario che non ritornerà mai più. L'unica volta in cui la Turchia ha davvero avuto la possibilità di cambiare. Le proteste di Gezi Parki hanno scosso dal profondo un paese che tutti, per primo l'allora premier e attuale presidente Erdogan, credevano addormentato. Un paese che invece esplose con proposte e riflessioni in grado di accettare le sfide della modernità e della piena democratizzazione, ma che poi sono state accantonate e lo resteranno per molti anni. Deniz Yücel ha spiegato quel momento straordinario nel suo libro Ogni luogo è Taksim. Il corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt, incarcerato con l'accusa di propaganda a favore di un'organizzazione terroristica, è stato testimone diretto di quegli eventi. La sua è una narrazione puntuale ed esaustiva di quello che successe in quei giorni. Per nulla retorico, il libro di Yücel può essere definito una vera e propria radiografia del movimento. I primi nove capitoli sono dedicati alle zone di Istanbul che in quelle settimane decisero i destini della Turchia moderna. Non soltanto quelle da dove partì e si sviluppò la protesta, ma anche alcuni quartieri di Istanbul necessari per capire la geografia politica della megalopoli sul Bosforo, 30
utili ancora oggi per comprendere e individuare le tensioni che covano, sotterranee, fra quel che resta della società civile. Il libro, inoltre, spiega molto bene come le proteste di Istanbul hanno influito sul resto del paese, in particolare sulla capitale Ankara, dove andò in scena la repressione più dura e meno trattata dai media, fino ad arrivare a Kayseri, il cuore del potere economico di Erdogan. Infine, il libro offre una serie di approfondimenti fondamentali per comprendere come il paese sia potuto degenerare fino ai livelli odierni. Yücel, infatti, descrive molto bene anche il regolamento di conti all'interno del partito di Erdogan e le condizioni che hanno portato al golpe fallito del luglio 2016. Marta Ottaviani Ruedi Suter, Rainforest Hero. The Life and Death of Bruno Manser, Bergli Books, Basel 2016, pp. 330, CHF 29,90. Molti europei, noti e meno noti, hanno deciso di schierarsi dalla parte dei popoli indigeni. Pochissimi, però, l'hanno fatto pur sapendo che avrebbero potuto pagare questo impegno con la vita. Un esempio recente è quello di Bruno Manser, nato a Basilea nel 1954. Allevatore e poi impiegato presso il museo di storia naturale della sua città, fra il 1984 e il 1990 Bruno ha vissuto insieme ai Penan di Sarawak (Malesia). Con loro ha diviso i problemi di ogni giorno, dalla vita comunitaria alle lotte contro il disboscamento della foresta pluviale. Rientrato in Svizzera ha fondato il Bruno Manser Fonds, un'associazione che si propone di dare respiro internazionale alla causa dei Penan e degli altri popoli indigeni che vivono nella Malesia settentrionale. Nel 2000 è ripartito per Sarawak. Dal 25 maggio dello stesso anno non si sono avute più sue notizie. Cinque anni dopo un tribunale svizzero l'ha dichiarato morto. Ruedi Suter, un giornalista svizzero amico di Manser, aveva cominciato a documentare le sue attività sul quotidiano Basler Zeitung. Quindi aveva pubblicato il libro Bruno Manser: Die Stimme des Waldes, (Zygtlogge, 2005), che poi è stato tradotto in inglese col titolo Rainforest Hero. The Life and Death of Bruno Manser. Si tratta dell'opera ideale per conoscere la figura di questo grande attivista. Il volume sottolinea che l'impegno di Bruno Manser ha danneggiato la reputazione internazionale della Malesia, mettendo in evidenza la sua politica scellerata a sostegno delle compagnie del legname. Grazie a lui una questione sostanzialmente ignota al resto del mondo ha guadagnato una certa visibilità. Opera accurata, dettagliata, scritta con sincera partecipazione umana ma anche con rigore giornalistico, il libro di Suter merita la massima attenzione. Giovanna Marconi Helen Fallon, Ide Corley, Laurence Cox (a cura di), Silence Would Be Treason: Last Writings of Ken Saro-Wiwa, Daraja Press-Maynooth University, Montréal (PQ)-Maynooth 2018, pp. 222, € 16,37. Il suo sorriso, la sua forza e la sua voglia di lottare restano uno degli esempi più belli della resistenza indigena contemporanea. Stiamo parlando di Ken Saro-Wiwa (1942-1995), lo scrittore e attivista che ha reso nota al mondo la tragedia del popolo ogoni. Fondatore del Movement for the Survival of the Ogoni People (MOSOP), Saro-Wiwa torna all'attenzione del grande pubblico grazie al libro Silence Would Be Treason: Last Writings of Ken Saro-Wiwa. In questa seconda edizione com-paiono numerosi testi non inclusi nell’edizione del 2003. Il libro contiene un'ampia raccolta di lettere e poesie che dipingono la lunga lotta di Ken Saro-Wiwa in difesa del suo popolo e dell'ambiente. Una lotta che lo vede opporsi a due giganti alleati, il governo nigeriano e le multinazionali petrolifere, prime fra tutte la Shell, responsabili dello sfruttamento selvaggio delle risorse petrolifere e della devastazione ambientale conseguente. Noo Noo Saro-Wiwa, figlia del romanziere, firma la nuova introduzione. La scrittrice è gia nota al pubblico italiano per In cerca di Transwonderland, l'autobiografia pubblicata da 66th and 2nd nel 2015. 31
L'impegno dello scrittore ogoni e del suo movimento guadagnano l'attenzione mondiale anche grazie al sostegno di un altro autore nigeriano, lo yoruba Wole Soyinka, Premio Nobel, che nei primi anni Novanta denuncia la pulizia etnica realizzata dal regime militare nigeriano contro gli Ogoni. La Shell e le altre compagnie petrolifere hanno infatti richiesto l'intervento dell'esercito affinchè neutralizzasse la resistenza locale: una richiesta che il governo militare ha soddisfatto con la massima solerzia. Intanto Saro-Wiwa scrive, parla, viaggia per far conoscere al mondo la tragedia del suo popolo. In Europa, intanto, lo scrittore ha trovato l'appoggio dei movimenti ambientalisti, Greenpeace in testa, e delle associazioni per la difesa delle minoranze, in particolare della Gesellschaft für bedrohte Völker (Associazione per i Popoli Minacciati) e dell'UNPO (Unrepresented Nations and Peoples Organization). Nella primavera del 1995 viene imprigionato insieme ad altri otto ambientalisti. A nulla valgono le iniziative e le pressioni internazionali per salvarli: il 10 novembre, dopo un processo-farsa, Saro-Wiwa e gli altri vengono impiccati. Animato da una fede incrollabile, intransigente ma sempre contrario alla violenza, Ken SaroWiwa ci ricorda che la devastazione dell'ambiente coincide spesso con la condanna dei popoli che lo abitano. Ecologisti e indigenisti dovrebbero prenderne piena coscienza e unirsi in una solida alleanza che portasse avanti le due cause. Antonella Visconti Marzio G. Mian, Artico. La battaglia per il Grande Nord, Neri Pozza, Milano 2018, pp. 219, € 13.50. La febbre dell'Artico continua a crescere. I rapidi effetti del riscaldamento globale sul delicato ecosistema polare marino e terrestre, iniziati con lo scioglimento dei ghiacci perenni, non sono più soltanto una preoccupazione, ma una realtà. Non molto tempo fa, l'Artico era quasi la luna. Un altro pianeta rispetto alla grande storia dell’umanità. Invece ora si trova al centro di trasformazioni epocali, ultima frontiera di un mondo che sta per essere distrutto dall'avidità e dalla sete di dominio. Le immense distese bianche, ostili e incontaminate, sono sempre più blu, trasformate in un nuovo mare che sta diventando sempre più navigabile. Nell'arco di pochi anni l’Artico è diventato un'area di rilevanza strategica, mercantile e militare, il crocevia di nuove rotte ma anche un'area di tensioni geopolitiche tra nuovi attori – la Groenlandia, l’Alaska, la Russia, gli Stati Uniti, la Cina, i paesi scandinavi e il Canada – per l'approvvigionamento di materie prime di cui l'Artico è ricchissimo. Una contesa planetaria per la conquista di risorse immani. Con questo libro, frutto di dieci anni di lavoro sul campo, Marzio Mian, uno dei pochi giornalisti ad aver esplorato la regione artica, ha voluto colmare un vuoto intrecciando temi di discussione internazionale e storie individuali, raccontando lo spaesamento e il senso di sconfitta dei popoli artici, defraudati del proprio habitat e dei propri diritti da un nuovo colonialismo. Maurizio Torretti Louise Erdrich, La casa futura del dio vivente, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 301, € 18. Il mondo si avvia verso la fine. I nuovi nati replicano specie umane arcaiche, scomparse da millenni. La scienza non elabora antidoti e appare impotente. Cedar, la giovane protagonista ojibwe, adottata alla nascita da una coppia di bianchi liberal, è confusa e inquieta: porta il cambiamento dentro di se, in quanto incinta al quarto mese. L'atmosfera è angosciosa: la società comincia a disgregarsi. Incombe la legge marziale: il Congresso fa sequestrare le donne gravide e promette laute ricompense a chi le consegna. Si mutano i toponimi in versetti della Bibbia. Alla vigilia del cataclisma Cedar cerca di fuggire per salvare la propria vita e quella del nascituro. 32
Al tema distopico e metafisico si affianca un altro nucleo narrativo incentrato sulla religione. Chiari gli echi della natività: la futura madre si chiama Mary; la notte del concepimento Phil, il padre, aveva appena dismesso le ali indossate in una recita nella chiesa del quartiere; la famiglia fugge per salvare il bambino. Si tratta di un romanzo avvincente che enfatizza la condizione femminile, l'autodeterminazione, la biologia e i diritti naturali. Domina l'idea che saranno le donne a salvare il mondo. Marginale, infatti, è il ruolo di Phil, "cresciuto a latticini come tutti i ragazzi del Minnesota". La visione apocalittica del racconto è chiaramente influenzata dal clima politico successivo all'11 settembre 2001. Qui ricorrono i temi cari alla scrittrice amerindiana: la vita all'interno della riserva, il conflitto fra modernità e tradizione, l'uso del corpo femminile. Evocativa la traduzione di Vincenzo Montanari, che ha reso le atmosfere plumbee ed esasperate in un ordito linguistico scorrevole e allusivo, intessuto di metafore suggestive che rispettano la forma epistolare dell'opera. Vincenzo Durante Arysteides Turpana Igwaigliginya, Crítica del Gunasdule, pubblicato in rete nel marzo 2018 da Red de Pensamiento Decolonial: http://www.rpdecolonial.com/rpdecolonial/category/libros/ Crítica del Gunasdule è parte della storia del rapporto tra conquistatori e indigeni nelle Americhe, là dove la falsa verità predicata dagli spagnoli sulla "scoperta" ha sedimentato una falsa coscienza connessa al potere dominante, tuttora capace di produrre falsa narrazione come legittimazione del proprio potere. Non si tratta di ottiche diverse, ma di parametri della ricerca storica, cioè di persele fonti di etnostoria come strumento di coscientizzazione dei popoli nativi e del resto del mondo; dell'assunzione dello sguardo indigeno sul mondo proprio e su quello dominante. Una demistificazione del criterio con cui l'ideologia dominante definisce il rapporto con l'altro, che è senza voce e ritenuto senza documenti. È proprio qui il valore del libro: per la prospettiva decolonialista, base dell'autonomia di pensiero e della rivendicazione politica. Non a caso la ricerca viene pubblicata dalla Red de Pensamiento Decolonial, che parte proprio da questo nuovo modo di pensare ed indagare, di dare voce ad una narrazione che si contrapponga alle storie e ai racconti circolanti sugli "eroi della patria" e sugli indigeni affabulatori che praticano miti e credenze magiche prive di qualsiasi valore culturale. Il libro si articola in vari saggi critici: Balboa y nosotros los panameños, Victoriano Lorenzo a los 112 años de su fusilamiento, Cultura dule [degli indigeni] e identidad, El bautizo más caro de la historia cristiana, Igwasalibler: la hora de los españoles, Los Ngäbe-Buglé ante la ignorancia y el racismo, e infine la poesia epica Enero 9, 1962 sul valore degli indigeni si sono opposti ai conquistatori. Massimo Squillacciotti Davi Kopenawa, Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, Roma 2018, pp. 1072, € 35. Questo libro è uno straordinario resoconto della vita e del pensiero cosmologico di Davi Kopenawa, sciamano, portavoce e attivista degli Yanomami stanziati nell'Amazzonia brasiliana. Una monumentale opera biografica di grande impatto, potente, visionaria e poetica, raccolta e redatta dall'antropologo Bruce Albert, fervente difensore dei diritti degli yanomami, con i quali lavora a stretto contatto dal 1975. Kopenawa è un figlio della foresta pluviale che ha visto parte del suo popolo morire di epidemie trasmesse da agenti estranei ai popoli dell'Amazzonia. Non solo, ma è stato anche testimone di violenze e massacri che continuano tuttora. I suoi racconti sono certamente fra i più dettagliati che siano mai stati registrati dalla parte delle vittime. A differenza di molti attivisti indigeni di oggi, Davi non ha studiato e ha sempre vissuto nella foresta. 33
Questo non gli impedisce però di tracciare un indimenticabile quadro della sua cultura, regalando al lettore un panorama culturale e umano affascinante e rivelandoci una visione del mondo complessa come quella delle grandi religioni. L'universo yanomami, spiega Davi, è multiforme, un luogo in continua trasformazione, dove forze misteriose e imprevedibili cambiano continuamente in base a seconda di come vengono usate. E seppur imponderabili, si attengono a precise convenzioni costringendo chi legge a riflettere profondamente sull'ipocrisia della nostra società. Dalla sua iniziazione sciamanica all’incontro con i bianchi, ai viaggi in tutto il mondo come ambasciatore del suo popolo, Kopenawa ripercorre una kunga storia fatta di repressione culturale, devastazione, saccheggio ambientale; non risparmia una critica forte e risoluta alla società industriale e all'ipoteca che ha posto sul futuro del mondo. Organizzata in tre parti, quest'opera si fonde in un complesso intreccio di generi costruendo un ponte fatto di miti, visioni, sogni e profezie sciamaniche, restituendoci un patrimonio inestimabile di conoscenze che rappresenta tutta la potenza concettuale e poetica del popolo yanomami. Maurizio Torretti
Musiche e poesie dei fratelli isolani La canzone e la poesia e canzone si sono intrecciate più volte in ogni parte del mondo. Uno degli esempi più recenti è Puetissimu, il doppio CD-libro con il quale la cantante corsa Michèle Sammarcelli festeggia 40 anni di attività. Questo è il suo terzo lavoro, dopo Latine (1992) e Opus meo (2005). Il disco contiene 21 canzoni con testi e musiche scritti dai principali protagonisti della vita culturale isolana. Si tratta di un panorama molto vario che include fra l'altro poeti (Jacques Fusina, Norbert Paganelli), autori teatrali (Orlando Forioso), musicisti (Dédé Nobili, Patrizia Gattaceca, Iviu Pasquali) e attivisti politici (Edmond Simeoni, Jean-Guy Talamoni). Gli autori vengono elencati sulla copertina col vero nome, quello corso, anziché con quello francese di uso comune (Edimondu Simeoni/Edmond Simeoni). Un disco intenso, fatto col cuore, una bella antologia della creatività corsa contemporanea. Per contatti: domino.sammarcelli@orange.fr
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Nuvole di carta
Pablo Fajardo (testi), Sophie Tardy-Joubert (sceneggiatura), Damien Roudeau (disegni), Texaco: Et pourtant nous vaincrons, Les Arènes BD, Paris 2019, pp. 136, € 20. L’interesse del fumetto per i problemi dei popoli indigeni è sempre più marcato, soprattutto in Francia, patria indiscussa della nona arte. Negli anni scorsi erano già usciti numerosi albi, fra i quali Vénus noire (Emmanuel Proust, 2010) e Rouge Himba: Carnet d'amitié avec les éleveurs de Namibie (La boîte à bulles, 2017). Questa tendenza viene confermata da Texaco: Et pourtant nous vaincrons. L'albo racconta la storia della lunga lotta che 30.000 cittadini ecuadoriani hanno condotto contro la Texaco-Chevron, una delle aziende petrolifere più potenti del pianeta. Con 60 milioni di petrolio lasciati all'aria aperta e 79 milioni di litri di resisui scaricati nella foresta amazzonica, la multinazionale americana aveva generato un inquinamento pari a 3000 volte la marea nera della nave Erika, naufragata in Bretagna nel 1999. La battaglia, iniziata dall’avvocato Pablo Fajardo, ex operaio della multinazionale, si è rivelata vittoriosa. Un lavoro militante che sottolinea ancora una volta lo stretto legame fra problemi dei popoli indigeni e problemi ambientali. Giovanna Marconi Didier Quella-Guyot (testi), Manu Cassier (disegni), Esclaves de l'île de Pâques, La boîte à bulles, Paris 2018, pp. 80, € 16. Questo albo francese ci trasporta su Rapa Nui, meglio nota come isola di Pasqua, che viene generalmente considerata il territorio più isolato del pianeta. Pur appartendendo oggi al Cile, dal quale dista circa 4000 km, Rapa Nui appartiene culturalmente alla Polinesia, quindi all'Oceania. La storia comincia nel 1862. Gli abitanti dell'isola, scoperta dagli olandesi 140 anni prima, patiscono ogni giorno le sofferenze imposte dal colonialismo. Le donne vengono violentate o schiavizzate, mentre molti uomini vengono deportati in Perù e costretti a lavorare nelle miniere di guano. In questo contesto si inserisce una figura storica, Eugène Eyraud (1820-1868), un prete che decide di installarsi sull'isola per convertire gli indigeni. La sua opera di evangelizzazione provocherà danni gravissimi alla religione autoctona, che verrà quasi completamente sradicata. Il fumetto non si limita a raccontare una storia ignota, ma mette in evidenza gli effetti devastanti del colonialismo e dell'evangelizzazione, più volte alleati nel tentativo di distruggere le culture indigene. Caratterizzato da un disegno incisivo, l'albo propone un'alternativa salutare al "politicamente corretto" che condanna il colonialismo ma assolve le missioni, come se la storia non a35
vesse dimostrato chiaramente che entrambi volevano scardinare le culture indigene per imporre la propria. Alessandro Michelucci Paul Diamond (a cura di), Savaged to Suit: Māori and Cartooning in New Zealand, New Zealand Cartoon Archive, Wellington 2018, pp. 208, $39.50. Questo è il libro che Paul Diamond, giornalista e storico di grande prestigio, ha dedicato alle rappresentazioni dei Māori nella stampa neozelandese. Prima opera dedicata a questo tema, il volume si concentra su un periodo ampio che va dagli anni Trenta agli anni Novanta, ma non di-mentica alcune opere più vecchie e tocca velocemente anche il nostro secolo. Il libro offre un prezioso panorama degli stereotipi, non di rado impregnati di razzismo, espressi dal fumetto neozelandese nel secolo scorso. I capitoli analizzano tutti i temi relativi ai Māori: dalla cultura allo sport, dalla lingua al Trattato di Waitangi, il testo che fonda la nascita della Nuova Zelanda e definisce i rapporti fra gli indigeni polinesiani e i coloni europei. Le 250 vignette incluse nel libro mettono in evidenza il significato socioculturale del fumetto, che fino a 15-20 anni fa era considerato un passatempo per ragazzi. Inoltre, Diamond sottolinea che accanto agli stereotipi razzisti le vignette denotano scarso interesse per le donne. Un'opera di ottima levatura, un volume di grande interesse per chi si occupa di fumetti e/o di questioni indigene. Giovanna Marconi
La nona arte alleata della lingua galega Il fumetto si conferma uno strumento ideale per la diffusione delle lingue minoritarie. Lo dimostra la nuova rivista A viñeta de Schrödinger, diretta dal disegnatore galego Kiko da Silva. Il primo numero della pubblicazione è uscito nel luglio del 2018. Il trimestrale, che ha 32 pagine in lingua galega, pubblica storie brevi e autoconclusive realizzate da un'equipe di 16 collaboratori. Il suo legame con la lingua minoritaria è particolarmente stretto, in quanto è promossa dalla Mesa pola Normalización Lingüística, una piattaforma civica nata nel 1986 per difendere i diritti linguistici dei galegofoni. In questi 32 anni di attività la Mesa ha svolto questa funzione con dimostrazioni, conferenze e altre initiative pubbbliche. La rivista si iscrive appunto in questo impegno. Francisco Javier Da Silva Irago Respecto, meglio noto come Kiko Da Silva, nato a Vigo nel 1979, è un disegnatore che merita molta attcenzione. Attivo da molti anni nel campo della settima arte, nel 2012 ha fondato O Garaxe Hermético, la prima scuola professionale di fumetto della regione. Giovanna Marconi
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I POPOLI INDIGENI DELL'AMAZZONIA
SONO IN PERICOLO Il 2019 non è un anno come gli altri per i popoli indigeni del Brasile. Il presidente Jair Bolsonaro, entrato in carica all’inizio dell’anno, ha dichiarato guerra alle comunità autoctone del grande stato sudamericano. Si tratta di una situazione particolarmente grave che richiede una netta presa di posizione da parte di tutti coloro che difendono i diritti dei popoli indigeni. I primi a mobilitarsi, ovviamente, sono stati i diretti interessati. Negli ultimi mesi alcune delegazioni indigene hanno avuto dei contatti con l’Unione Europea, sperando di poter ottenere un sostegno che però rimane molto improbabibile. Questa situazione gravissima non può lasciare indifferenti chi si occupa di questi temi. La nostra rivista è pronta a collaborare in ogni modo con chiunque voglia mettere in evidenza i pericoli che minacciano i popoli indigeni, ma anche altri segmenti della popolazione brasiliana.
DALLA PARTE DEI POPOLI AMAZZONICI I popoli indigeni della foresta amazzonica sono strettamente legati al Centro di documentazione sui popoli minacciati. La prima mostra che abbiamo organizzato, all'epoca come Associazione per i popoli minacciati, si intitola "Figli del sole e della terra lungo il fiume Xingù". La pagina principale del nostro primo sito, attivo fino al 1999, riproduceva la bambina indigena della seconda foto. La copertina del primo numero della rivista, uscito in occasione del cinquecentenario brasiliano, è dedicata al tema 500 anni di resistenza indigena. Ma il legame più importante con l'Amazzonia rimane la lunga amicizia con Gerardo Bamonte (1939-2008), antropologo di fama mondiale, uno dei massimi esperti di culture amazzoniche.
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Gurrumul, regia di Paul Damien Williams, Australia, 2017, 96’. Questo documentario sulla vita di Geoffrey Gurrumul Yunupingu, figura centrale della musica australiana, è stato realizzato con l'approvazione dell'artista aborigeno, morto nel 2017 a soli 46 anni. Quella di Gurrumul, cieco dalla nascita, è stata una vita infelice, quindi il film avrebbe potuto essere carico di malinconia. Ma Williams conosceva bene il musicista, che aveva collaborato a lungo con la sua etichetta Skinnyfish. Quindi il documentario mette in luce pregi e difetti di questo artista che non era interessato alla celebrità e amava parlare poco. Per lui contava soltanto la musica. Il lungometraggio si apre con Gurrumul che sembra rifiutare di rispondere a un'intervista televisiva nel 2008, dopodiché inizia la storia della sua vita: la giovinezza a Elcho Island (Arnhem Land), gli anni col gruppo Yothu Yindi, dove aveva un ruolo di primo piano, poi con la Saltwater Band, infine la sua rapida ascesa come solista. Hohnen, amico e produttore dei suoi dischi, parla di lui in toni molto affettuosi, e spesso parlava per lui quando il musicista preferiva tacere. Il motivo di questo silenzio non è chiaro. Forse perché aveva scarsa dimestichezza con l'inglese? O forse perché era timido? O magari soltanto perché non amava la luce dei riflettori? Il documentario dedica ampio spazio alla sua cecità, senza dimenticare l'infausta battuta che fece Sting quando i due musicisti apparvero insieme alla televisione francese. Ma Gurrumul non parlava mai di questa menomazione, perché non la riteneva un problema. L'artista poteva sembrare scostante nei filmati dove non parlava, ma all'improvviso faceva un bel sorriso e sghignazzava. La sua simpatia era irresistibile, come dimostra Hohnen, che gli era sinceramente affezionato. Ci mancherà tanto. Dato che si tratta di un uomo che aveva dedicato la vita alla musica, Gurrumul compare spesso sulla scena con la sua voce indimenticabile. Se pensiamo che alcune delle sue canzoni sono tratte da storie che hanno 10.000 anni non possiamo che restare a bocca aperta e chiederci se qualcuno dei successi odierni, per esempio quelli di Taylor Swift, verranno ancora suonati fra 10.000 anni. DM Bradley
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Il primo Oscar a un indiano del Nordamerica Il grande schermo ha reso noti molti indiani nordamericani: basti pensare ad Adam Beach (Segreti dal passato), Tantoo Cardinal (I segreti di Wind River), Graham Greene (Balla coi lupi, Cuore di tuono, Il miglio verde) e Wes Studi (Balla coi lupi, Geronimo, Caccia spietata, Avatar). Quest'ultimo sarà il primo amerindiano che viene premiato con l'Oscar alla carriera. L'attore cherokee riceverà il prestigioso riconoscimento il 27 ottobre. Insieme a lui verranno premiati due registi, David Lynch e Lina Wertmüller, e l'attrice Geena Davis.
Ryuichi Sakamoto aderisce al comitato scientifico della rivista Ryuichi Sakamoto, uno dei massimi compositori viventi, Oscar 1988 per la colonna sonora del film L'ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, ha aderito al comitato scientifico de La causa dei popoli. Il musicista giapponese, noto per l'impegno antinucleare ed ecologista, ha manifestato in varie interviste il proprio sostegno per le lotte indigene. Fra le molte colonne sonore che ha scritto spiccano quella per La pioggia nera (1989) di Nagisa Oshima, tratto dal libro omonimo di Ibuse Masuji, dove appare anche come interprete; quella di Nagasaki: Memories of My Son (2016), diretto da Yoji Yamada, che rievoca la tragedia della città bombardata dall'aviazione americana; quella di Italian Ainu (2016). In questo documentario Mujah Maraini-Melehi racconta l’odissea della sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale, quando i nonni Topazia Alliata e Fosco Maraini, residenti in Giappone, furono imprigionati in un lager perché avevano rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Fosco Maraini, grande yamatologo, è stato uno dei primi a studiare la cultura ainu.
Il cinema catalano e gallego premiati a Cannes Il 25 maggio 2019, alla 72ª edizione del Festival di Cannes, il regista galego Oliver Laxe e il collega catalano Albert Serra sono stati premiati per i rispettivi film, O que arde e Liberté. Il film di Laxe (Premio speciale della giuria) racconta la storia di un piromane. Molto diverso è invece il lavoro di Serra (Premio della giuria), ambientato nel diciottesimo secolo, dove alcuni libertini espulsi dalla corte francese si abbandonano al sesso sfrenato in un bosco.
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Gli autori di questo numero DM Bradley Giornalista, collaboratore del mensile australiano The Adelaide Review, che ringraziamo per averci permesso di pubblicare la sua recensione. Marta Ottaviani giornalista, esperta di politica turca contemporanea. José Maria Portillo Valdés storico delle idee costituzionali e della modernità costituente spagnola, docente presso il Dipartimento di Storia contemporanea dell'Università del Paese Basco (Vitoria). Autore di numerosi saggi e libri. Rudolph Rÿser fondatore e direttore del Center for World Indigenous Studies. Ha pubblicato il libro Indigenous Nations and Modern States: The Political Emergence of Nations Challenging State Power (Routledge, 2012). Edmond Simeoni esponente storico dell'autonomismo corso, autore di vari libri (vedi pag 22). Massimo Squillacciotti professore ordinario di Antropologia cognitiva dal 2000 all'Università di Siena, dal 2011 è docente a contratto per lo stesso insegnamento presso l'ateneo senese e di Antropologia culturale presso l'Università Telematica Uni-Nettuno. Ha pubblicato vari libri e saggi sui popoli indigeni latinoamericani, fra i quali I Cuna di Panamà. Identità di popolo tra storia ed antropologia (L’Harmattan Italia, 1998). Marco Torresin laureato in studi europei alla Europa Universität di Flensburg, ricercatore, si interessa al fenomeno del populismo e alle tendenze autonomistiche del Nord Est Italiano. Degli altri autori è stata data notizia nei numeri precedenti.
L'UNICA RIVISTA ITALIANA DEDICATA AI PROBLEMI DELLE MINORANZE, DEI POPOLI INDIGENI E DELLE NAZIONI SENZA STATO
I numeri della serie attuale (sotto ) sono su https://issuu.com/lacausadeipopoli I quattro delle serie precedenti (sopra) possono essere richiesti gratuitamente a popoli-minacciati@ines.org o ad Alessandro Michelucci (tel. 327-0453975)
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