Neuroscienze Anemos

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Trimestrale culturale a diffusione gratuita - ott-dic 2019 ♦ anno IX - numero 35

ISSN 2281-0994

Anemos neuroscienze

Trimestrale INTERDISCIPLINARE PER L'INTEGRAZIONE TRA NEUROSCIENZE E ALTRE DISCIPLINE

Media

Comunicazione

Giornalismo

orizzonti provinciali e orizzonti europei

lingue

i fraintendimenti nella diversità linguistica

Linguaggio, lingue, culture Il linguaggio tra neurobiologia, filosofia e politiche delle lingue

neuroscienze

Le strutture cerebrali che sottintendono alla facoltà del linguaggio

linguistica

La traduzione letteraria, tra antropologia e linguistica

storiografia Una cultura di respiro europeo: l'esempio di Madame de Staël


CENTRO DI NEUROSCIENZE ANEMOS Direttore sanitario: Dott. Marco Ruini

area di psichiatria e PSICOLOGIA CLINICA

Dott. Giuseppe Cupello, Dott. Raffaele Bertolini, Psichiatri Dr.ssa Beltrami Daniela, Dr.ssa Faietti Lisa, Dr. Gasparini Federico, Dr.ssa Iotti Linda, Dr.ssa Maldini Federica, Dr.ssa Muscatello Laura, Dr.ssa Sangiorgi Annamaria, Psicologi

AREA DI OCULISTICA Dott. Valeriano Gilioli, Oculista SERVIZIO DI NEUROCHIRURGIA Dr. Marco Ruini: Neurochirurgo Dr. Andrea Veroni: Neurochirurgo Dr. Mattia Sedia, Neurochirurgo Dr. Simone Zironi, Neurochirurgo Collaborazioni

Dr. Piergiorgio Baldi, Neurochirurgo Prof. Vitaliano Nizzoli, Neurochirurgo Prof. Lorenzo Genitori, Neurochirurgia Pediatrica Dr. Aldo Sinigaglia, Dr. Giovanni Casero, Ortopedici,

patologia degenerativa del rachide e scoliosi Dr. Bruno Zanotti, Neurochirurgo Dr. Villiam Dallolio, Neurochirurgo SERVIZIO DI TERAPIA ANTALGICA

Dr. Ezio Gulli, Anestesista, Terapia infiltrativa

SERVIZIO DI RIEDUCAZIONE FUNZIONALE Dr. Aurelio Giavatto, Osteopatia, Manipolazioni viscerali, Dermatologo Dr. Nicolas Negrete, Dr.ssa Ft. Bisay Soledad Maria, Fisioterapisti SERVIZIO DI NEUROLOGIA E DI NEUROFISIOLOGIA Dr. Mario Baratti, Neurologo e Neurofisiologo Dr. Massimiliano Devetak, Neurologo, Patologia vascolare Dr. Enrico Ghidoni, Neurologo, Neuropsicologia clinica Dr.ssa Luisa Motti, Neurologa e Neurofisiologa AREA DI ORTOPEDIA Dr. Antonio Laganà, Ortopedico Dr. Ivo Tartaglia, Ortopedico ALTRE AREE Dr.ssa Ghinoi Alessandra, Reumatologa Dr.ssa Fontanesi Marta, Scienze dell’alimentazione Dr. Gianni De Berti, Neuroradiologo

ANEMOS | Centro Servizi di Neuroscienze Poliambulatorio Medico | Libera Università | Ass. Culturale Via Meuccio Ruini, 6 | 42124 Reggio Emilia tel. 0522 922052 | Fax 0522 517538 | www.anemoscns.it info@anemoscns.it | www.associazioneanemos.org

Centro di riferimento: Centro di Neuroscienze Anemos, Reggio Emilia. Centri Ospedalieri per la Neurochirurgia del rachide e le tecniche mininvasive: Casa di Cura Salus Hospital (Re), Ospedale di Suzzara (Mn), Casa di Cura San Clemente (Mn), Casa di Cura Villa Maria Cecilia di Cotignola (Ra). Ambulatori: Reggio Emilia, Correggio, Suzzara, Poggio Rusco, Mantova, Carpi, Modena, Fiorenzuola, Olbia, Agrigento e Lecco.


Anemos neuroscienze

Ott-Dic 2019 | anno IX - numero 35

Editoriale

Linguaggio e mondo Pensiero, società, identità.

N

ell'editoriale di questo numero ci soffermeremo meno sull'elenco introduttivo degli articoli che compongono il periodico, dedicando una maggiore attenzione alla tematica che accomuna i contributi pubblicati di seguito e fornendo qualche spunto di riflessione . Questo numero del 2019 di “Neuroscienze Anemos” si incentra sulla vastissima tematica del linguaggio e delle lingue naturali, espressione storica concreta della facoltà umana. Come accade sempre, d'altra parte, il nucleo principale si dirama in molte direzioni, indagando il linguaggio in senso lato, da varie prospettive disciplinari. Occorre aggiungere che una parte degli articoli, nonché l'ispirazione tematica generale del numero, derivano da uno specifico convegno tenutosi nell'aprile di quest'anno presso e in collaborazione con il Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia. L'evento è stato organizzato da La Clessidra, dal Centro Anemos, con il supporto dell'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia Romagna, il quale ha concesso la qualifica di corso formativo per giornalisti alla giornata di studi. In quell'occasione, linguisti e storici (per lo più di provenienza accademica) si sono alternati ad

illustrare la questione della lingua, con particolare riferimento al contesto europeo (linguistico, letterario e sociale), analizzandone la prospettiva di una cultura comune. Come si diceva in apertura, occorre differenziare il concetto di linguaggio, che indica la facoltà umana di servirsi di un codice di comunicazione fonetico o visivo, e le lingue, il risultante storico e concreto di questa facoltà (ad es. la lingua italiana, inglese, francese, ecc.). I due fenomeni, ovviamente, sono intrisecamente collegati, ed anzi è spesso complesso trattare uno senza appoggiarsi all'altro. La lingua, in particolare, oltre a presupporre riflessioni sulla stessa natura e struttura del linguaggio, riveste una tale importanza nella vita individuale e sociale umana che difficilmente può essere sopravvalutata. Le lingue contribuiscono spesso in modo determinante a formare identità culturali e nazionali. Anche là dove il monolinguismo si innesta su società multietniche come gli Stati Uniti, il fatto linguistico costituisce un collante culturale, talvolta in senso positivo, tal'altro in senso negativo. Nel citato contesto americano, ad esempio, una certa predilizione delle elite per la componente bianca e anglosassone (quindi anglofona all'origine) tende a predominare sulla pur multiculturale realtà statunitense. Al polo opposto, si trovano le lingue come fonte incredibile di “biodiversità” culturale. L'Europa ne è un esempio perfetto: molte lingue concepite come minori formano comunità linguistiche vivaci e secolari che hanno generato una propria cultura peculiare spesso integrata nel contesto europeo. Non è difficile, infatti, rivelare nel percorso storico della produzione letteraria di queste lingue cosiddette minori, la stessa sequenza cronologica e ideologica dell'Europa come unità culturale omogenea (ad es. ogni letteratura europea ha avuto il proprio Illuminismo o il proprio Romanticismo). È ovvio che tutte queste riflessioni

si basano su una consapevolezza generale della facoltà del linguaggio. Da qui l'esigenza di capire, almeno in linea di massima, cosa sia il linguaggio in termini strettamente neurobiologici (ovvero capire dove siano collocate e quali siano le aree del cervello deputate a questa facoltà) e avere un qualche punto di appoggio tanto psicologico quanto filosofico per comprendere il linguaggio come oggetto in sé, non collegato al sostrato biologico che, per così dire, lo implementa. È il pensiero complesso, infatti, a determinare quella parte conscia della nostra consapevolezza, e da più parti si sostiene che proprio lo sviluppo del linguaggio abbia reso evolutivamente possibile la comparsa di un pensiero complesso (ma si trova anche chi inverte la sequenza causale). Senza nulla togliere, d'altra parte, all'importanza della nostra componente più “primitiva” ed emotiva, che pare maggiormente collegata al sistema limbico e alla parte più antica del nostro encefalo. Si può ben capire, quindi, come oggetti di indagine come il linguaggio e la lingua parlata da individui e comunità rivestano un'importanza enorme per capire l'essere umano: dal micro al marco contesto, dall'individualità che esprime se stessa, al più ampio contesto sociale che genera identità, qualche volta ben armonizzata nelle diversità, altre volte pericolosamente conflittuale nell'incontro-scontro con l'altro da sé. (d.d)

@

CONTATTI. Si possono inviare proposte di articoli, segnalazioni di eventi, commenti o altro all’indirizzo che segue: redazione@clessidraeditrice.it Su Facebook. Neuroscienze Anemos LaClessidraEditrice

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OTT-DIC 2019 | anno IX - numero 35

Linguaggio, lingue, culture

Il linguaggio tra neurobiologia, filosofia e politiche delle lingue

Rubriche

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Neuronews ▪ Parkinson, un aiuto per rallentare la malattia ▪Se dormi poco è colpa di un gene. ▪ I narcisisti hanno capacità cognitive più deboli ▪ Sei mancino? Dipende dal tuo DNA Editore Editrice La Clessidra / Anemos Redazione Via G. Matteotti, 87 42046 Reggiolo (RE) redazione@clessidraeditrice.it Tel 0522 210183 Direttore Responsabile Davide Donadio davidedonadio@clessidraeditrice.it

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Direttore Scientifico Marco Ruini info@anemoscns.it

www.clessidraeditrice.it

Incontri ▪ XXVI congresso nazionale sigenp ▪Il corpo totale, il nuovo libro di Claudio Brigati

Hanno inoltre collaborato:

Redazione e comitato scientifico* Tommy Manfredini, Paola Torelli.

Laura Andrao Mario Baratti Mauro Bertani Raffaele Bertolini Vitaliano Biondi Giuseppe Cupello Salvatore De Franco Giorgio Chiessi

Lorenzo Genitori Enrico Ghidoni Aurelio Giavatto Giorgio Giorgi Franco Insalaco Danilo Morini Luisa Motti Laura Muscatello

Simonetta Muzzini Antonio Nesci Antonio Petrucci Mattia Sedia Ivana Soncini Leonardo Teggi Bruno Zanotti

* Il comitato scientifico è composto da persone che partecipano a vario titolo e con continuità differente alle attività organizzate dal Centro di Neuroscienze Anemos e da La Clessidra Editrice.

Davide Astori, Luca Balugani, Silvia Bruti, Armando Cherici, Filippo Ferrari, Gian Marco Fulgieri, Mattia Mariani, Carlos Merero Luogo di stampa

E.Lui Tipografia - Reggiolo (RE) Registrazione n. 1244 del 01/02/2011 Tribunale di Reggio Emilia Iconografia: alcune immagini presenti in «Neuroscienze Anemos» sono tratte da siti internet contenenti banche dati di immagini di libero utilizzo o da altre fonti. Qualora vi fossero stati errori e omissioni relativi al diritto d’autore l’editore rimane a disposizione per sanare la sua posizione.


SOMMARIO

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Anemos neuroscienze

neuroscienze | medicina

Cervello bilingue e monolingue Bilinguismo e neurobiologia del linguaggio di Enrico Ghidoni

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società

Identità, radici, violenza

La lingua tra identità e pericoli di violenza di Marco Ruini

20

Linguistica | società

Quale/i lingua/e per l'Europa

Qualche riflessione, fra Otto- e Novecento, fra idealità e necessità socio-politiche di Davide Astori

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storia | linguistica

Madame de Staël, patrona culturale d'Europa Un esempio storico di cultura e cittadinanza europea di Filippo Ferrari

32

lingue | comunicazione

Europa senza pagine: anzi no

Linguaggio e dimensione del giornalismo italiano, tra provincialismo e aperture europee di Mattia Mariani

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linguistica

Tradurre

O l'estetica del "quasi" di Silvia Bruti

52

linguaggio | evoluzione

L'immaginazione collettiva Il linguaggio dell'evoluzione di Gian Marco Fulgeri

48

Un ponte tra culture di Carlos Melero

Nei confini del linguaggio

Funzione originaria, funzioni d'uso, comunicazione

62

approfondimenti

Un linguaggio universale e la sua rimozione La danza, le cattedrali, il labirinto di Armando Cherici

Insegnamento e apprendimento

delle lingue

Filosofia DEL LINGUAGGIO

di Antonio Petrucci

Sociolinguistica

58

psicologia

Emozioni, affettività e linguaggio Linguaggio come veicolo di stati interiori di Giorgio Giorgi

65 Se il male è banale, l'integralismo è semplice Realtà e linguaggio di Luca Balugani

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neuronews

RUBRICHE

Rassegna di notizie dal mondo della scienza

Parkinson: un aiuto per rallentare la malattia La Resolvina D1 permette di contrastare il processo neurodegenerativo alla base della malattia

U

no degli obiettivi della ricerca in campo medico è quello di individuare i possibili legami tra stati infiammatori e malattie neurodegenerative. In particolare uno studio pubblicato su “Nature Communications” e condotto dai ricercatori dell’Università di Roma “Tor Vergata”, Fondazione Santa Lucia IRCCS, Università Campus Bio-Medico di Roma, con la collaborazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dell’Università degli Studi di Perugia, dell’Università di Tubinga in Germania e dell’Università di Harvard negli Stati Uniti, è riuscito a contrastare il processo neurodegenerativo alla base della malattia di Parkinson grazie a delle molecole prodotte dal nostro organismo per riparare i danni provocati da infiammazioni. A rallentare il decorso della ma-

lattia sono state le Resolvine, in particolare la Resolvina D1. Come prima cosa i ricercatori hanno rilevato un ridotto livello di Resolvina D1 in pazienti affetti dal morbo di Parkinson e sono quindi intervenuti in modo sperimentale su modelli di laboratorio per riequilibrare la presenza di questa molecola nell’organismo. Inoltre, la presenza ridotta di Resolvine in pazienti affetti dalla patologia potrà essere utile in futuro anche come marcatore precoce della malattia. “Lo studio - ha spiegato Nicola Mercuri, coordinatore della ricerca - ci ha permesso di dimostrare che la proteina alfa sinucleina, nota per il ruolo chiave nello sviluppo della malattia di Parkinson, causa molto precocemente un cattivo funzionamento dei neuroni dopaminergici. Le conseguenze

sono disturbi motori e cognitivi, ma anche un’aumentata neuroinfiammazione associata a ridotti livelli di Resolvina D1 che abbiamo osservato nel sangue e nel liquor cefalorachidiano di pazienti affetti da Parkinson, in cura presso il Policlinico di Tor Vergata. Partendo da questa osservazione, i ricercatori hanno somministrato Resolvina D1 in modelli di laboratorio e dopo due mesi di trattamento hanno potuto osservare una progressiva riduzione dello stato infiammatorio e del processo degenerativo che nella malattia di Parkinson provoca la nota distruzione dei neuroni deputati alla produzione di dopamina. Con essi si sono ridotti anche i sintomi motori e comportamentali caratteristici della malattia”.

Se dormi poco, è colpa di un gene La mutazione del gene Adrb1 fa svegliare le persone circa due ore prima

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no studio, pubblicato sulla rivista “Neuron”, condotto dai ricercatori del dipartimento di Neurologia dell’Università della California a San Francisco, tra cui l’italiano Gaetano Coppola, ha scoperto come la mutazione del gene Adrb1, porti le persone a dormire meno e a svegliarsi due ore prima. I neurologi sono giunti a questa conclusione dopo aver compiuto esperimenti su topi portatori di

una versione mutata del gene. Hanno così scoperto che questi dormivano in media 55 minuti in meno rispetto ai topi normali. La differenza è maggiore negli uomini: quelli che presentano il gene mutato dormono, in media, due ore in meno. Approfondendo le ricerche si è scoperto che il gene era presente ad alti livelli nel ponte dorsale, cioè in una parte del tronco del cervello responsabile di attività come la respirazione, i

movimenti degli occhi e il sonno. Coinvolgendo nello studio anche una famiglia che dorme meno della media, i ricercatori hanno scoperto che i neuroni Adrb1, normali in questa regione del corpo, erano più attivi durante la veglia e durante la fase di sonno Rem. Mentre i neuroni mutanti erano più attivi di quelli normali, contribuendo in questo modo al comportamento del sonno breve.


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Ott-Dic 2019 | anno IX - numero 35

I narcisisti hanno capacità cognitive più deboli La loro mente è meno critica di quanto pensino

Sei mancino? Dipende dal tuo dna Destro o mancino, la causa è da ricercare in un determinato gruppo di geni

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ome sappiamo si può essere o destri o mancini. Nello specifico i mancini, che sono la minoranza (circa il 10% della popolazione mondiale), fanno un uso prevalente della mano sinistra nel compiere le loro azioni quotidiane. Ma da cosa dipende il mancinismo? Una ricerca condotta da un gruppo di studiosi inglesi, e pubblicata su “Brain”, ha identificato alcune regioni del genoma associate a questa caratteristica, conducendo così lo studio più approfondito finora sulle basi del mancinismo. La risposta a questa domanda risiede nel dna: è infatti uno specifico gruppo di geni ad essere associato all’uso prevalente della mano sinistra. Non solo, secondo i ricercatori, se utilizziamo la mano sinistra per scrivere e di conseguenza tutto il lato sinistro del corpo per compiere la maggior parte dei gesti automatici e volontari ciò influisce anche sulla diversa struttura cerebrale e sulla differente attivazione di alcune aree, in particolare quelle associate al linguaggio.

La ricerca, che ha analizzato il genoma di circa 400mila cittadini inglesi dai dati della Uk Biobank, di cui più di 38mila erano mancini, ha confermato come l’essere mancini sia una tendenza naturale legata alla nostra struttura genetica. Dall’analisi dei dati raccolti, i ricercatori hanno scoperto che ci sono quattro regioni di geni che possono essere collegate al mancinismo, in particolare tre di queste contengono geni che sono associati a proteine che influenzano la costruzione e il funzionamento del cervello. Rispetto ai destri, emergono maggiori differenze nelle aree che collegano le regioni associate al linguaggio. Secondo Akira Wiberg, autore dello studio: “nei partecipanti mancini, le aree linguistiche del lato sinistro e destro del cervello comunicano tra loro in modo più coordinato [rispetto a chi usa la mano destra].Ciò solleva l’intrigante prospettiva per future ricerche sul fatto che i mancini possano avere un vantaggio quando si tratta di svolgere compiti verbali”.

È

stata pubblicata sulla rivista “Thinking & Reasoning” una ricerca condotta dall’Università di Waterloo che ha dimostrato che i narcisisti hanno in realtà capacità cognitive più deboli di quanto pensino. Gli studiosi hanno scoperto che mentre molti narcisisti si percepiscono come pensatori particolarmente intelligenti e critici, utilizzano in realtà meno degli altri il pensiero critico, cioè quell’insieme dei processi mentali importanti per risolvere problemi e prendere decisioni. Hanno, quindi, minori probabilità di utilizzare importanti strategie di pensiero riflessivo, dunque gli alti livelli di fiducia che hanno nelle loro capacità intellettuali sono spesso infondati. In psicologia si distinguono due tipi di narcisismo: quello grandioso e quello vulnerabile. Nel primo i soggetti si credono superiori agli altri e hanno una maggiore autostima, al contrario i secondi si sentono più insicuri, introversi e hanno una minore stima di se stessi. In una ricerca, svoltasi negli Stati Uniti, gli studiosi hanno esaminato 100 partecipanti e valutato le loro prestazioni con un test apposito, il Cognitive Reflection Test, l’impegno nella riflessione e il pensiero intuitivo. In un secondo studio le valutazioni sono state ripetute, con l’esame aggiuntivo dell’impatto di un eccesso di fiducia sull’abilità cognitiva. Jonathan Fugelsang, uno degli autori della ricerca, ha così definito i risultati: “Abbiamo scoperto che il narcisismo grandioso e vulnerabile è associato negativamente con alcuni tipi di importanti processi di pensiero riflessivo”.

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INCONTRI Eventi scientifici e culturali

RUBRICHE

XXVI congresso nazionale sigenp Verona, dal 16 al 19 ottobre

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i svolgerà a Verona dal 16 al 19 ottobre il XXVI Congresso Nazionale SIGENP (Società Italiana di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica). Responsabile scientifico: Prof. Carlo Agostoni. Il titolo scelto per il convegno, che ne rappresenta anche il programma è “Specialisti all’opera”. Il congresso si aprirà presentando le varie facce della nutrizione in età evolutiva, dalla mente al corpo e viceversa. Con uno sguardo attendo all’etica e alla divulgazione di questo argomento “globale”. Saranno presenti, inoltre, tre “Medaglie Olimpiche” in modo da esplorare i vissuti di chi ha vinto, primeggiando nel mondo. Si proseguirà poi con il “core” del Congresso: le serie da 100 minuti,

gestiti dalle sei Aree SIGENP che racchiudono la gastroenterologia pediatrica nel suo insieme. In quest’ambito gli specialisti hanno costruito specifici percorsi clinicoassistenziali, che saranno presentati in Aula, tra cui: la dieta di esclusione per la malattia dI Crohn, approccio pratico all’endoscopia pediatrica e le malattie correlate agli alimenti. Per quanto riguarda, invece, il percorso “Nutrire il corpo, nutrire la mente” saranno presenti i Campioni dello Sport: Filippo Lanza, Francesca Porcellato e Sara Simeoni. Infine, ciascun percorso sarà commentato da un esperto dell’argomento e ogni sessione si concluderà con la presentazione dei migliori lavori scientifici inviati al Congresso.

Sede corso precongressuale 1: Palazzo della Gran Guardia, Piazza Bra, Verona Sede corso precongressuale 2: Sala Green Hall, Piazza Cittadella 3, Verona Segreteria organizzativa: Biomedia srl, Via L. Temolo 4, Milano | Tel. 02 45498282 congressosigenp@biomedia.net http://congresso.sigenp.org/2019/ home www.biomedia.net

Il corpo totale È uscito il nuovo libro di Claudio Brigati

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he memoria complessiva possiede il nostro corpo? Che segreti custodisce? Quale ruolo potrebbe realmente giocare nei fenomeni percettivi e cognitivi, alla luce delle recenti scoperte nel campo delle neuroscienze? Sono queste alcune delle domande che si pone Claudio Brigati nel suo “Il Corpo Totale” recentemente uscito per ILMIOLIBRO (Copyright Claudio Brigati 2019; pagg. 137, 13 euro). Il libro prende spunto da un sensazionale risultato recentemente raggiunto nel campo della neuroprotesica per romanzare la storia di un ragazzo (Marco Simonazzi, detto Libet) reso tetraplegico in seguito ad un incidente di motocicletta. Incapace di arrendersi alla sua terribile sorte, Libet si documenta e si imbatte in un gruppo di scienziati che lo arruo-

lano per testare una rivoluzionaria macchina che gli permetterà di muovere gli arti paralizzati col solo pensiero. Per chiarire i molteplici aspetti di questa sorprendente e misteriosa macchina, l’autore amalgama i più brillanti risultati scientifici e rimandi teorici all’interno di una storia bizzarra e rocambolesca, ma che risulta sempre divertente. È così che concetti cardine di ordine epistemologico e neuroscientifico - come il modello ideo-motorio dell’azione umana, i neuroni specchio, la plasticità neurale, la propriocezione o, ancora, lo schema corporeo e soprattutto il corpo come serbatoio di conoscenza innata - si alternano continuamente con la narrazione

ironica di episodi leggeri, tragicomici, che descrivono per esempio i deliri di onnipotenza di Libet, i suoi controversi rapporti con il personale dell’istituto o, ancora, oscure vicende di spionaggio industriale. Il “Corpo Totale” si configura quindi come un saggio romanzato rivolto essenzialmente al grande pubblico (il linguaggio è privo di connotazioni tecniche rilevanti, ma ricco di citazioni che potrebbero “spiazzare” alcuni). A tratti stilisticamente “generazionale”, con riferimenti musicali e di costume che non sfuggiranno ai lettori con qualche capello bianco, il libro ha il carattere di divertissement, ma invita il lettore alla riflessione su temi che inevitabilmente toccano le nostre corde più intime.


A Il tema del numero

Linguaggio lingue culture Il linguaggio tra neurobiologia filosofia e politiche delle lingue

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MAPPA CONCETTUALE Gli argomenti trattati nel numero

neuroscienze medicina Cervello Bilingue e monolingue

Articolo p. 12.

1

Lingue e civiltà d'europa psicologia e società

2

La questione linguistica, tra similitudini e differenze Articoli pp. 20, 26 e 32.

Il concetto di identità può contenere il rischio di contrapposizione violenta Articolo p. 16

3

Linguaggio, lingue, culture Il linguaggio, tra neurobiologia, filosofia e politiche delle lingue 10


Anemos neuroscienze

UALE DEL numero Approfondimenti interdisciplinari e altri punti di vista

8 arte e altre discipline

Danze, pittura e rimozione del linguaggio Articolo p. 62

7 Psicologia

evoluzione e società

Emozioni e affettività. Il linguaggio dell'estremismo

Il linguaggio tra evoluzione e attualità Articolo p. 36.

Articoli p. 58 e 65

Linguistica e sociolinguistica

Riflessioni sulla traduzione e sulle differenze culturali Articoli p. 42 e 48.

Filosofia

Le funzioni del linguaggio Articolo p. 52

4

Strumenti di lettura

5

{

I testi di «Neuroscienze Anemos» sono idealmente suddivisi in In - Interdisciplina App - Approfondimenti R/Np - Ricerca e nuove proposte

6

Agli articoli viene inoltre assegnato un numero che indica la complessità di comprensione del testo da 1 a 5.

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Neuroscienze

Medicina

cervello bilingue e monolingue

bilinguismo e neurobiologia del linguaggio App 2

di Enrico Ghidoni

parole chiave. neurobiologia, linguaggio, bilinguismo, acquisizione, apprendimento. Abstract. L'articolo, partendo da una breve descrizione delle base neurobiologiche del linguaggio, si sofferma sui meccanismi di acquisizione e apprendimento delle lingue. La didattica corrente nell'apprendimento delle lingue privilegia la verifica dell'apprendimento esplicito (conoscenza di regole grammaticali che non è direttamente connessa all'uso pratico della lingua). Lingue diverse, con sistemi grafici diversi (es. alfabeto o ideogrammi) coinvolgono parti diverse del cervello in fase di apprendimento e acquisizione. Lo studio del bilinguismo ha assunto un ruolo importante nella ricerca sulla neurobiologia dell'apprendimento linguistico e ha permesso di evidenziare substrati anatomico-funzionali relativamente specifici e separati per L1 e L2. Si esaminano con maggiore dettaglio i meccanismi neuroanatomici del “cervello bilingue”.

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pprendimento esplicito e implicito. Il linguaggio, una caratteristica fondamentale della specie Homo Sapiens, dipende da un substrato anatomico-funzionale particolarmente complesso, che occupa numerose aree del nostro cervello, prevalentemente (ma non esclusivamente) nell'emisfero sinistro. Tali aree corticali, situate nei lobi frontale e temporale parietale, sono connesse fra loro da numerosi fasci di fibre nervose, fra cui è di rilevante importanza il fascicolo arcuato, che collega le aree posteriori (area di Wernicke e altre aree temporo-parieto-occipitali) e le aree anteriori (area di Broca). Il linguaggio comprende molti compiti e attività distinte, che impegnano in maniera differenziata le diverse componenti

del network neurale. Per esempio, la lettura è una componente specializzata del linguaggio che utilizza i substrati anatomici e i meccanismi funzionali del linguaggio secondo uno schema particolare e complesso che permette di realizzare, rapidamente e in maniera automatica, tale compito. Le basi neurobiologiche del linguaggio sono state studiate intensamente negli ultimi decenni soprattutto con le tecniche di neuroimaging. Anche la genetica molecolare ha dato interessanti contributi, individuando un grande numero di fattori genetici che codificano proteine che cooperano allo sviluppo del sistema, un sistema definito "oscillogenoma del linguaggio". I multipli livelli di descrizione, dal livello del genoma, a quello della fenomenologia osservabile della comunicazione linguistica,

sono ancora lontani da una completa descrizione. Gli innumerevoli lavori di ricerca prodotti hanno evidenziato l'evoluzione delle basi anatomiche e funzionali durante lo sviluppo e l'apprendimento della lingua, con particolare attenzione alle correlazioni con meccanismi di apprendimento impliciti o espliciti. Il coinvolgimento dinamico dei processi impliciti ed espliciti, durante l'apprendimento delle lingue, è un'area di particolare interesse nella ricerca e ha permesso di definire il ruolo di questi meccanismi separati che sono correlati allo sviluppo e all'attivazione di diverse reti cerebrali. In particolare, è noto che l'apprendimento implicito, utilizzato soprattutto nell'apprendimento iniziale della lingua madre (L1), si basa su circuiti cortico-sottocorticali implicati nel si-


Anemos

Ott-Dic 2019 | anno IX - numero 35

neuroscienze

stema di memoria procedurale, mentre i processi di apprendimento esplicito, basati su sistemi di memoria dichiarativa, riguardano principalmente le strutture corticali (temporale e frontale) e l'ippocampo. È stata dimostrata l'attivazione di reti cortico-striatali durante l'apprendimento delle lingue e, nel caso di disturbi della lingua o della lettura, possono essere dimostrati deficit procedurali di apprendimento. I due tipi di apprendimento sono separati ma interagiscono e competono tra loro in modo complesso e dipendono da numerosi fattori, come ad esempio le varie componenti della lingua (vocabolario e semantica si apprendono soprattutto attraverso processi espliciti, mentre la grammatica si impara per immersione, esposizione diretta ed esperienza d'uso, cioè con processi impliciti). Tuttavia, anche i processi espliciti sono in gioco per la grammatica quando particolari regole vengono apprese mediante l'istruzione formale. I due meccanismi dell'apprendimento sono indipendenti, ma entrambi più o meno attivi in tutte le situazioni, permettendo di acquisire aspetti diversi della realtà. Anche quando si fa un insegnamento esplicito sono acquisite molte tracce implicite, spesso più potenti e durature. Lingue trasparenti e lingue opache. La valutazione scolastica tradizionale, basata sulla verifica delle conoscenze trasmesse durante l'insegnamento, indaga quasi esclusivamente l'apprendimento esplicito, come per esempio le regole grammaticali di una lingua straniera, la cui corretta applicazione in un esercizio è cosa ben diversa dal saper parlare la lingua. Il tipo di linguaggio e di ortografia (alfabetico vs. logografico; trasparente vs. opaco) è rilevante anche per determinare il diverso peso delle reti e delle strutture neurali coinvolte. Le lingue trasparenti sono quelle in cui le regole di corrispondenza fra come si scrive e come si legge (cioè tra i grafemi e i fonemi) sono molto chiare e univoche,

con rare eccezioni. Esempi di queste lingue sono l'italiano, lo spagnolo, il finlandese. Le lingue opache invece sono caratterizzate da regole di corrispondenza grafema-fonema molto complesse, con numerose eccezioni, l'esempio più evidente è la lingua inglese, in cui le regole di pronuncia sono così complicate da rendere l'apprendimento della lettura particolarmente arduo per uno scolaro inglese. L'inglese da questo punto di vista appare più vicino ad una lingua ideografica come il cinese. È dimostrato che nell'apprendimento della lettura hanno maggior importanza dei meccanismi sublessicali per la lettura dello spagnolo (lingua trasparente), e dei meccanismi lessicali diretti (passaggio diretto dall'ortografia alla fonologia) per la lettura del cinese. La lettura del cinese (riconoscimento di tutta la parola) si basa principalmente su reti neurali che impegnano il giro frontale inferiore, la lettura dello spagnolo sul giro temporale superiore (assemblaggio fonologico). Inoltre l'apprendimento del cinese richiede un maggior impegno delle strutture neurali di analisi visiva per cui avviene il reclutamento del giro fusiforme destro oltre a quello sinistro. L'impegno della componente di decodifica ortografica è molto diverso nelle diverse lingue e ortografie, e questo può spiegare il diverso substrato anatomico-funzionale dei disturbi della lettura nelle diverse lingue. Il cervello bilingue. Il ruolo dei processi espliciti è in generale molto più importante nel caso dell'apprendimento di una seconda lingua (L2), che avviene soprattutto attraverso l'educazione e l'istruzione scolastica. Nel caso dell'apprendimento della L2 anche la grammatica, che per la L1 è appresa principalmente dal sistema procedurale, si impara attraverso il sistema della memoria dichiarativa come avviene per il lessico. Inoltre, con l'utilizzo nel tempo, anche la grammatica di L2 può essere trasformata in una conoscenza procedurale. Lo studio del bilin-

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Neuroscienze

Medicina

◄ guismo ha assunto un ruolo im-

portante nella ricerca sulla neurobiologia dell'apprendimento linguistico e ha permesso di evidenziare substrati anatomico-funzionali relativamente specifici e separati per L1 e L2, che sono rilevabili negli studi sulla struttura, la connettività e l'attivazione funzionale, anche se esistono revisioni e meta-analisi che concludono per una sostanziale sovrapposizione dei correlati neuroanatomici di L1 e L2. L'importanza delle diverse strutture cerebrali per L1 e L2 dipende da numerosi fattori, quali l'età di acquisizione, il grado di esposizione e il livello di competenza raggiunto nell'uso di L2. In generale, nel caso in cui la L2 venga appresa precocemente o contemporaneamente rispetto alla L1, il substrato funzionale per le due lingue è più simile e sovrapposto. Le capacità di lettura in L1 e L2 sono legate alla forza delle connessioni delle reti di lettura anche in condizione di riposo. Le differenze strutturali e funzionali nelle reti neurali nel cervello bilingue sono legate all'esposizione precoce o tardiva a L2: infatti ci sono chiare differenze nei modelli di attivazione corticale tra i bilingui precoci e quelli tardivi, ma c'è un'importante attivazione dei lobi frontali in entrambe le situazioni. Alcuni studi sottolineano che l'aumento della competenza è associato all'impegno di un comune

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network tra L1 e L2. In sintesi essere bilingui comporta delle vere e proprie modificazioni strutturali del cervello che interessano il lobulo parietale inferiore sinistro, il giro sopramarginale, il frontale inferiore sinistro, la corteccia cingolata anteriore, il polo temporale anteriore, il nucleo caudato e il cervelletto. Questi cambiamenti sono correlati al livello di competenza L2 e all'età di acquisizione. Risultati simili in studi funzionali e in studi di risonanza magnetica con trattografia (DTI) con vari parametri (anisotropia frazionata, diffusività media, diffusività radiale) hanno mostrato cambiamenti nel bilinguismo in diverse strutture della sostanza bianca: fascicolo longitudinale superiore, fascicolo longitudinale inferiore, fascicolo uncinato, corpo calloso e fascicolo fronto-occipitale inferiore. In altri studi c'è un aumento della materia grigia in diverse strutture cerebrali come la corteccia parietale inferiore sinistra, il putamen sinistro, il giro di Heschl; il corpo calloso può risultare ispessito. Analogamente, studi sulla sostanza bianca e sulla connettività funzionale mostrano cambiamenti nei bilingui, come ad esempio una maggiore connettività tra giro frontale inferiore e regioni posteriori. È inoltre possibile identificare correlazioni tra gli aspetti lessicali/ semantici, fonologici e morfosintattici con le modificazioni

strutturali e funzionali del cervello bilingue. Un altro fattore che può influenzare i cambiamenti strutturali e funzionali legati all'apprendimento di L2 è il peso della modalità di apprendimento per immersione nel contesto linguistico (contrapposta all'educazione formale). Questo tipo di apprendimento, più simile all'apprendimento di L1, sembra modificare in particolare alcuni fasci di connessione come il fascicolo longitudinale superiore e il fascicolo fronto-occipitale inferiore e si verifica utilizzando meccanismi più simili a quelli utilizzati per l'apprendimento di L1. I vantaggi del bilinguismo. In soggetti bilingui, un aspetto importante è la gestione dell'uso delle due lingue, che richiede processi di controllo e l'impegno delle funzioni esecutive. La scelta del linguaggio da utilizzare in un dato contesto dipende dall'attivazione di diverse aree cerebrali. Uno studio di risonanza magnetica funzionale su soggetti bilingui francese/tedesco, durante i processi di selezione tra le due

Figura 1.1 - Lo sviluppo del

bilinguismo avvantaggia l'individuo. Vi sono dati consistenti riguardo alla migliore performance dei bilingui nelle prove di controllo esecutivo non-verbale, con i bilingui che superano i monolingui a cominciare dal primo anno di vita


Anemos

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lingue in un compito di denominazione, ha dimostrato che il processo richiede l'attivazione del caudato sinistro e della corteccia cingolata anteriore, mentre un lavoro più recente dello stesso gruppo di ricerca sottolinea il ruolo della corteccia cingolata anteriore dorsale (al davanti dell'area supplementare motoria) nei processi di selezione e commutazione. Le funzioni esecutive sono coinvolte nella scelta e nel passaggio da una lingua all'altra (switch), che viene messo in atto ogni volta che si deve accedere ad un elemento lessicale attraverso processi di inibizione dell'etichetta lessicale non pertinente. Questo determina un allenamento intensivo e precoce delle funzioni esecutive, con conseguenti modifiche delle reti neurali (lobo frontale sinistro, striato sinistro, cingolo, ecc.) soprattutto nei bilingui precoci. Ci sono fenomeni di allargamento delle aree funzionali, ma anche di ridotto reclutamento di risorse per alcuni compiti. Vi sono dati consistenti riguardo la migliore performance dei bilingui nelle prove di controllo esecutivo non-verbale e di teoria della mente, con i bilingui che superano i monolingui a cominciare dal primo anno di vita. Dati inconsistenti invece riguardo alla consapevolezza metacognitiva, in cui la performance è influenzata da fattori come la competenza linguistica e la distanza tipologica tra le lingue. In ogni caso l’esperienza con due sistemi linguistici, indipendentemente dalla durata e da quali lingue sono coinvolte, cambia il funzionamento cerebrale. Questo rafforzamento delle funzioni esecutive porta ad una maggiore efficienza dei bilingui in molti test di funzioni esecutive e ad una migliore riserva cognitiva negli anziani bilingui. Uno studio ha anche riportato che l'insorgenza della demenza è posticipata in media di 4 o 5 anni negli anziani bilingui. Il vantaggio dei bilingui nelle funzioni esecutive è anche oggetto di discussioni che ne limitano il ruolo. Una meta-analisi quantitativa ha valutato le basi neurali del processo

neuroscienze

di commutazione linguistica e ha evidenziato la significativa attivazione di almeno otto regioni cerebrali coinvolte nelle funzioni esecutive: giro frontale inferiore sinistro, giro temporale centrale sinistro, giro frontale centrale sinistro, giro precentrale destro, giro temporale superiore destro, area pre - supplementare motoria mediana e nucleo caudato bilaterale. In alcuni studi, anche la rete di "default mode" (la rete che mantiene l'attività cerebrale di base quando non ci stiamo occupano di stimoli esterni) mostra anche una connettività funzionale intrinseca più forte. Il substrato neurobiologico delle funzioni linguistiche è ulteriormente complicato in presenza di disturbi; la meta-analisi di 10 studi ha mostrato nel caso di disturbi del linguaggio anomalie strutturali e funzionali in diverse sedi dell'emisfero sinistro, con una mancanza di coerenza tra i vari studi e una maggiore convergenza sul giro sopramarginale sinistro e sul giro temporale superiore. Le anomalie funzionali del network di lettura riscontrate nei dislessici, in caso di associazione con una storia di ritardo del linguaggio, sono correlate a deficit di attivazione del giro frontale inferiore e mediale. I soggetti dislessici e i soggetti con disturbi del linguaggio differiscono anche nei modelli di connettività tra le varie regioni cerebrali. Tuttavia le differenze nell'attivazione cerebrale in funzione della lingua (inglese vs. cinese) tendono a scomparire nei dislessici. Questo complesso panorama ci da solo un'idea superficiale delle attuali conoscenze sulle basi funzionali del linguaggio, e ancora una volta ci fa meravigliare l'estrema plasticità delle reti neurali che si configurano nel nostro cervello durante lo sviluppo in funzione di una miriade di fattori, dalla genetica all'esperienza ambientale, dalla normalità alla patologia. Bibliografia Abutalebi J., Guidi L., Borsa V., Canini M., Della Rosa P. A., Parris B. A. and Weekes B. S. (2015). Bilingualism provides a neural reserve for aging populations. Neuropsychologia, 69, 201-210.

Andrews E. (2014). Neuroscience and multilingualism. Cambridge University Press. Bhatia T. K., Ritchie W. C. & Wiley J. (Eds.). (2013). The handbook of bilingualism and multilingualism. Chichester: Wiley-Blackwell. Bialystok E., Craik F. I. and Luk G. (2012). Bilingualism: consequences for mind and brain. Trends in cognitive sciences, 16(4), 240-250. Costa A., Sebastián-Gallés N. (2014). How does the bilingual experience sculpt the brain? Nat. Rev. Neurosci. 15, 336–345. Fabbro F. (2001). The bilingual brain: Cerebral representation of languages. Brain and language, 79(2), 211222. García-Pentón L., Fernández García Y., Costello B., Duñabeitia J. A. and Carreiras M. (2016). The neuroanatomy of bilingualism: how to turn a hazy view into the full picture. Language, Cognition and Neuroscience, 31(3), 303-327. Green D. W. and Abutalebi, J. (2016). Language control and the neuroanatomy of bilingualism: in praise of variety. Language, Cognition and Neuroscience, 31(3), 340-344. Krishnan S., Watkins K. E. and Bishop D. V. (2016). Neurobiological basis of language learning difficulties. Trends in cognitive sciences, 20(9), 701-714. Mechelli A., Crinion J. T., Noppeney U., O'doherty J., Ashburner J., Frackowiak R. S. and Price C. J. (2004). Neurolinguistics: structural plasticity in the bilingual brain. Nature, 431(7010), 757. Perani D., Paulesu E., Galles N. S., Dupoux E., Dehaene S., Bettinardi V., ... and Mehler, J. (1998). The bilingual brain. Proficiency and age of acquisition of the second language. Brain: a journal of neurology, 121(10), 1841-1852. Schwieter J. W. (2019). The Handbook of the Neuroscience of Multilingualism. Wiley-Blackwell. Ullman MT (2015) The Declarative/Procedural Model. A Neurobiologically Motivated Theory of First and Second Language. In VanPatten B. and Williams J. (Eds.). Theories in second language acquisition: An introduction. (pp. 135-158), Routledge. Wong B., Yin B. and O’Brien B. (2016). Neurolinguistics: Structure, function, and connectivity in the bilingual brain. BioMed research international, 2016. http:// dx.doi.org/10.1155/2016/7069274

Enrico Ghidoni Neurologo. Ex responsabile Struttura di Neuropsicologia Clinica, Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia; Centro di Neuroscienze Anemos.

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SocietĂ

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IdentitĂ , radici, violenza La lingua come veicolo di una visione particolare del mondo, tra identitĂ e pericoli di violenza

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Anemos

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neuroscienze

di Marco Ruini

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parole chiave. Identità, nazionalismi, relativismo linguistico, globale, locale. Abstract. L'articolo ha una prospettiva critica sulla diversità culturale e linguistica: mette in guardia dalla diversità linguistica e culturale come potenziale fonte di contrapposizione violenta e scontro identitario, anziché di scambio multiculturale. Questo a causa di un uso distorto delle parole, soprattutto in un contesto di comunicazione politica e di connotazione ideologica. Si prefigura, quindi, un equilibrio delicato tra globalizzazione e scontro di identità che può portare a difesa di nazionalismi e localismi. Lo studio e la conoscenza di lingue e culture “altre” può aiutarci a preservare questo equilibrio tra locale e globale.

L

inguaggio e società. Immersi in un linguaggio sempre più semplificato e pragmatico e in un'economia di mercato che pone il profitto come valore supremo, capace di giustificare scelte eticamente discutibili, abbiamo difficoltà a capire quanto la revisione del significato delle parole, “modernizzate”, sia per-

formante e induca a fraintendimenti grossolani tra chi le interpreta in modo antico e lo spirito moderno. Parole come libertà, amicizia, socializzazione, sviluppo, creatività, competenze, etica, politica, ecc. hanno sicuramente una valenza diversa nel discorso di un “sessantottino” o di un nativo digitale. Senza un pensiero profondo e critico, non ci accorgiamo nemmeno di come il linguaggio che cambia modifichi anche il nostro essere e il nostro divenire. Assistiamo allo sviluppo di una visione sempre più egocentrica del nostro rapporto con l’altro, sentimentale o economico che sia, al successo di una società individualista, alla chiusura verso ciò che non riusciamo a controllare col conseguente risorgere di nazionalismi, razzismi, Figura 2.1 - Immagine satirica del sovranismi e disuguagliancoloniasmo europeo. Il motivo della diffusione delle lingue europee nel mondo ze. Se l’alterarsi del linguaggio segua o preceda questa fu la diretta conseguenza del fenomeno coloniale. evoluzione della società è

fonte di discussione. L’esempio della politica tenderebbe a dimostrare che l’utilizzo fuorviante delle parole, il travisamento dei significati che all’inizio può lasciare interdetti, con la ripetizione e con l’abitudine diventa sistema, condiziona i comportamenti e i pensieri. La lingua, e di conseguenza il linguaggio, che ha favorito in ogni luogo l’evoluzione culturale cosiddetta memetica, la grande letteratura, la stesura dei diritti civili e quindi la socialità, da sempre è stata anche mezzo di esclusione e differenziazione e ha favorito violenze e sopraffazioni. Quando cambia il linguaggio, si modificano le persone e la società e siamo alle soglie di una rivoluzione importante del modo di comunicare e di comprendere il mondo. Senza pensare di risolvere queste ambiguità, poniamoci almeno l’intento di parlarne al fine di rimuovere tanti luoghi comuni e utilizzare dubbio e spirito critico per affrontare questo travagliato periodo storico. Il tema dell’evoluzione culturale è stato affrontato, dagli antropologi, in due modi distinti. Il primo porta a credere a un costante progresso, a una sovrapposizione di tasselli che ci ha portato a un livello culturale altissimo rappresentato da questa prospettiva etnocentrica dalla cultura occidentale, europea in primis. Con questi presupposti si analizzano ◄ le varie culture con il linguaggio

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Società

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Figura 2.2 - A fianco

immagini di una tribù africana. Il continente africano è uno degli spazi con il maggior coefficente di "biodiversità" linguistica, per questo è spesso teatro di conflitti che contrappongono gruppi ento-linguistici diversi. La foto è del fotografo giapponese Nagi Yoshida.

◄ e gli strumenti della propria. È inevitabile che ne derivi un confronto e un giudizio di valore iniquo, che parte dai nostri pregiudizi, luoghi comuni e da ciò che ha valore per noi. C’è un secondo modo di vedere le cose, un relativismo culturale secondo cui ogni cultura deve essere compresa in base ai suoi stessi principi.

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Legame tra lingua e cultura. Secondo questa tesi, per capire una cultura occorre calarsi nel suo mondo fisicamente e soprattutto nel suo linguaggio in quanto “è la lingua che interpreta e codifica il mondo, è veicolo di una visione particolare del mondo”. Secondo Sapir (1929) “il modo in cui pensiamo al mondo è influenzato dalla lingua che usiamo”. Esiste quindi uno stretto legame tra lingua e cultura e la prima fornisce i mattoni costitutivi della seconda. Questo relativismo porta anche alla considerazione che non esiste una lingua pura, tutte le lingue sono meticciate, mescolate, inframmiste da gerghi dialettali, da parole recuperate altrove usate con gli stessi significati o in modo diverso. Mikhail Bachtin lo spiega in questo modo: “l’omogeneità linguistica ipotizzata dalla maggior parte dei linguisti, filosofi e filologi è una costruzione ideologi-

ca, storicamente legata allo sviluppo degli Stati Europei (nel ‘700) e agli sforzi di creare un’identità nazionale mediante una lingua nazionale”. Utilizzare una lingua per omologare, assimilare e favorire il controllo politico non è un’idea moderna. Nel passato vi sono stati vari tentativi di globalizzazione riusciti. Pensiamo all’impero Persiano (550-332 a.C.) soppiantato dall’egemonia cultura e militare greca e poi dall’Impero Romano. Esperimenti di convivenza di estesi territori dove erano garantite le peculiarità culturali, religiose, ma veniva imposta la lingua del vincente di turno, uniformante, che alla lunga influenzava e omologava le culture locali rimanendone a sua volta intaccata. Controllo della lingua come mezzo di controllo sociale e politico: prassi antica che risale probabilmente alle prime comunità umane e che noi perpetuiamo senza accorgercene. “La lingua come strumento di omologazione del sentire comune. Nelle dittature ideologiche la lingua è un formidabile strumento di propaganda” (Zagrebelsky). Con la formazione degli Stati-Nazione (le varie unità nazionali, con confini definiti, lingua comune, creazione di radici utili a darsi un’identità precisa e distintiva rispetto alle altre) sono infatti nate le scuole moderne,

con l’intento di uniformare cultura e soprattutto la lingua, calpestando così e facendo scomparire le lingue minori e le culture a loro legate, eliminando il pluralismo culturale e favorendo l’omologazione a una sola cultura. È il problema che oggi si trova ad affrontare la scuola italiana che, strutturata per cancellare le diversità (stessa lingua, stessi programmi, stesse aspettative dal nord al sud) fatica ad adeguarsi alle esigenze e alle politiche educative della nuova società multiculturale e rimane legata a un'idea di inserimento come assimilazione e non a una valorizzazione delle differenze. Se le lingue sono meticciate e hanno influenze reciproche, è inevitabile che anche le culture non siano contenitori stagni, ma il risultato finale di una contaminazione progressiva e continua che risale all’origine dei tempi. Parlare di cultura identitaria ha senso solo relativamente a stati autoritari, conservatori, reazionari, nostalgici. In democrazia le parole identità e cultura non stanno assieme. Per cultura identifichiamo una serie di caratteristiche sociali, cognitive, artistiche, di conoscenze aperte al confronto, contaminate dalle altre culture, in continuo divenire. È egualitaria, sedimentata da processi che si svolgono in vari luoghi e in tempi diversi e che hanno la fortuna di incontrarsi e contaminarsi tanto che di una cultura possiamo spostare sempre più indietro le radici senza più poterne trovare un luogo e un momento di nascita precisi. Per identità s’intendo-


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no caratteristiche distintive, chiuse, non modificabili che, per convenzione, vengono riferite a un momento preciso, a radici costitutive uniche e non contaminate. Identità. Una certa concezione identitaria si rifà ai nazionalismi, ai populismi e porta con sé idee di superiorità, razzismo, muri, porti chiusi. “Alle identità si associa un’idea di esclusività e aggressione” (Gustavo Zagrebelsky, Imparare Democrazia). L’Europa non ha quindi un’identità cristiana o celtica o libertaria, non ha un'identità definita in ambito culturale, ma ha una cultura ricca di specificità, alla quale tutti i paesi hanno contribuito con la propria lingua, con i propri scienziati, letterati, artisti, filosofi, musicisti, viaggiatori e ricercatori. E non sono estranee a essa anche le culture lontane come quella orientale e africana che tanto hanno influenzato la cultura europea tra Ottocento e primo Novecento, arrivate con conquiste, migrazioni o col commercio e presenti nell’immaginario dei popoli europei già molti secoli addietro grazie, ad esempio, ai viaggi lungo la Via della Seta come quello di Marco Polo. Sia le aspirazioni universalistiche, la globalizzazione moderna, che le istanze identitarie dei nazionalismi si portano dietro la questione linguistica e le sue contraddizioni. Se il linguaggio è indubbiamente il principale mezzo per comunicare, trasmettere, avvicinare e unire è nello stesso tempo uno strumento indispensabile a omologare ed eliminare le differenze (rendere tutti uguali non è la stessa cosa di dare a tutti gli stessi diritti e pari opportunità salvaguardando le differenze); se da una parte è attraverso il linguaggio che si possono affrontare e risolvere i conflitti, stimolare la solidarietà e l’equità, dall’altra le lingue sono stati strumenti importanti di esclusione, differenziazione, chiusura e violenza. Nelle prime comunità umane è stato proprio il linguaggio a dividere, differenziare un clan dall’altro, determinare l’appartenenza, definire

neuroscienze

l’alterità e scatenare la violenza competitiva per prevalere in un territorio. Tutte le forme dialettali, i gerghi, le prosodie hanno anche il compito di differenziare una comunità dall’altra e delineare un gruppo, codificare ciò che è diverso sul quale scaricare l’aggressività rinforzando i rapporti della comunità. Le varie nazioni si comportano come grandi clan che garantiscono diritti e privilegi ai propri cittadini differenziandoli da chi è straniero. La lingua è ancora uno strumento di differenziazione ed esclusione mentre, al contempo, è anche il mezzo di trasmissione e conoscenza della propria cultura e di comprensione di quella degli altri. Globalizzazione. Queste ambiguità sono talmente forti che, oggi, il processo di globalizzazione che dovrebbe eliminare confini fisici e culturali, favorire partecipazione e libertà, sta prendendo la strada opposta omologante, condizionante, illiberale con un’unica lingua veicolare, l’inglese. “Ora siamo in un forte squilibrio tra aspirazioni universalistiche e istanze identitarie. In Occidente lo sviluppo delle istanze universalistiche corrisponde alla sistematica eliminazione delle diversità linguistiche e culturali. Si stima che nel 2100 il 95% delle 7000 lingue giunte fino a noi sarà scomparso” (Allovio, Ciabarri, Mangiameli 2018 cfr. bibliografia). La difesa delle realtà locali, della tradizione, delle lingue cosiddette minori si trasforma a sua volta in esaltazione di miti come il nazionalismo e l’autoritarismo con l’esclusione dell’alterità. La globalizzazione liberista, scaduta al servizio dell’economia di mercato e del controllo politico, ha probabilmente portato una reazione uguale e contraria, secondo i principi della fisica, con riscoperta ed esaltazione di localismi e integralismi vari. In entrambi i casi si ha l’indebolimento dei diritti civili. Per Zagrebelsky, come già per Platone, potrebbe anche trattarsi di un difetto insito nei processi democratici che lasciano libertà di parola e di operare

anche a coloro che lavorano contro la democrazia. Di sicuro i processi identitari non lottano solo contro le aberrazioni della globalizzazione, inevitabilmente minano anche i processi di riduzione delle disparità, dei privilegi, delle ingiustizie e impediscono il mescolarsi e contaminarsi delle culture e degli interessi che potrebbero migliorare in modo egualitario il nostro mondo. S. Allovio, L. Ciabarri e G. Mangiameli concludono in Antropologia Culturale: “Non sono mai esistite società chiuse. Tutte le società hanno sempre comunicato, anche nel loro rifiuto di comunicare.” Ciò che le lingue e i linguaggi comunicano non rispetta i confini fisici, travalica la chiusura mentale di chi vorrebbe tornare all’autarchia e ripristinare le leggi razziali, contamina le varie culture e le rende ibride, meticciate, variegate, moderne, attente al nuovo. Culture multiculturali e multilingue che utilizzano le radici comuni non per creare identità chiuse, per mostrare ciò che ci differenzia, ma ciò che ci accomuna. Lo studio e la conoscenza delle lingue e delle culture altrui, un processo quindi relativistico, potrebbe aiutarci a conciliare gli opposti, ad avere uno spirito critico maggiore e a valutare le cose da più punti di vista per farci evitare gli eccessi e i conflitti, salvare le differenze ed evitare standardizzazione e conformismo. Bibliografia

Gustavo Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2017. Id. Sulla lingua del tempo presente. . Einaudi Torino, 2010. Stefano Allovio, Luca Ciabarri, Gaetano Mangiameli , Antropologia culturale, Raffaello Cortina, 2018 Franco Fabbro, Identità culturale e violenza, Bollati Boringhieri , 2018. Marco Ruini. Neurologo e neurochirurgo. Responsabile del Centro Medico Anemos di Reggio Emilia.

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Linguistica

Società

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Quale/i lingua/e per l’Europa qualche riflessione, fra Otto e Novecento, fra idealità e necessità socio-politiche

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Anemos neuroscienze

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parole chiave. multilinguismo; lingue ausiliarie, veicolari; politiche linguistiche; democrazia, ecologia linguistica Abstract. Non è tema secondario quello della "lingua per l’Europa": in un frangente economico e politico tanto infelice quale è quello contemporaneo, un'Unione reale esisterà solo quando saranno stati fatti, per adattare il celebre detto, gli Europei. Una sana cittadinanza europea si fonderà su valori e ideali collettivi, su una cultura partecipata, su una visione del mondo condivisa: intenti che, senza uno strumento comune di comunicazione, difficilmente (per usare un eufemismo) potranno mai realizzarsi. Tanto è fondante il problema linguistico per il Vecchio Continente, che esso appariva già chiaro addirittura alle grandi personalità ottocentesche (da Giuseppe Garibaldi, a Carlo Cattaneo, a Giuseppe Mazzini) fino alle sollecitazioni novecentesche (dal latino all’esperanto, alle differenti proposte dell’inglese, anche pianificato, alla provocazione dell’europanto), in un quadro di riflessioni che porta a sottolineare la natura multilingue e multiculturale della storia del nostro Continente.

U

na lingua comune in Europa? Tanto è fondante il problema linguistico per il Vecchio Continente, che esso appariva chiaro addirittura a chi già iniziò a sognare un’Europa unita ancora prima dei Padri fondatori del Novecento. Noi passiamo la nostra vita a minacciarci continuamente e reciprocamente, mentre che in Europa la grande maggioranza, non solo delle intelligenze, ma degli uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità […] Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato. Chi mai penserebbe a disturbarlo in casa sua? Non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per essere esercitati in esercizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria […]

di Davide Astori e nell’erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed all’ignoranza tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate dall’egoismo del calcolo e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti all’abbruttimento, alla prostituzione dell’anima e della materia.

L’affermazione è di Garibaldi, nel “Memorandum alle potenze europee” del 1860; e magna pars del progetto sociale di pace mondiale e strumento di una nuova spiritualità (di quella, insomma, che egli chiamava "Religione Universale" e che in altri momenti, in particolare a partire dal Congresso per la pace del 1867, rinominerà, con assonanze bruniane, la "Religione del vero") è proprio anche nel sogno di una lingua universale, individuata pure, ulteriore citazione imprescindibile, negli appunti di un progetto di intervento sulla “Unità mondiale” (forse del 1862): E quando un individuo a cui si sia fatta questa interrogazione: a che religione appartenete voi? abbia risposto: io appartengo alla religione di Dio! Credo con ciò egli abbia aderito alla religione Universale buona per tutti e da tutti adottata […] Il modo dunque più indicato ad un’Unità Mondiale e che più coadiuverebbe all’unità religiosa vera, Dio!, sarebbe una lingua Universale. Non è questa idea mia ma vecchia e ne lascio l’esame cronologico a chi vuol incaricarsene.

Tale questione, antica e al contempo immanente, è tanto profondamente sentita, per tornare al nostro Risorgimento, che Carlo Cattaneo vi dedica un intervento sul Politecnico del 1841dal titolo “Sul principo

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Linguistica

Società

◄ istorico delle lingue europee”.

Nasce in questo clima tardo illuminista e fortemente illuminato la coscienza che quella "Pace perpetua" già agognata da Kant (Zum ewigen Frieden, 1795) potrà avere un senso solo nell’Europa unita, in un processo che non potrà non vedere lingue e Weltanschauungen in dialogo per una nuova, armonica e sinergica realtà in fieri. Solo un esempio di tale sensibilità emergente è la sublime intuizione mazziniana (del 1829) “D’una letteratura europea”, in cui - scegliendo in epigrafe l’eloquente ripresa goethiana “Io intravvedo l’aurora d’una letteratura europea: nessuno tra i popoli potrà dirla propria; tutti avranno contribuito a fondarla” - afferma: Gli errori di molti secoli hanno logorata la impronta comune; ma la poesia fu data dal cielo come voce che può ricongiungere i fratelli dispersi. Voi dovete eccitare e diffondere per ogni dove questo spirito di amore; dovete abbattere le barriere che ancora s’oppongono alla concordia: dovete cantare le universali passioni, le verità eterne. Perciò studiate i volumi di tutte le nazioni; chi non ha veduto che una sola letteratura non conosce che una pagina del libro dove si contengono i misteri del genio.

In tale clima culturale si inserisce pienamente, e in totale consonanza, nel filone di riflessione proposto, anche la visione socio-politica e filosofica di Ludwig Zamenhof, il creatore della lingua esperanto e anch’egli quasi “profeta d’Europa”, che vede, nei suoi intenti, profondi contatti con le riflessioni di Cattaneo, appunto, sugli "Stati Uniti d’Europa", che sono poi in linea con la proposta garibaldina (in una lettera a Bismarck del 1872) di esigenza di costituire a Ginevra la sede per un grande arbitrato mondiale fra tutte le nazioni; e parallelamente, con la visione mazziniana della Giovane Europa, e con quella

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sua proposta di Religione civile che è, dalle parole stesse del pensatore, “la più splendida dimostrazione possibile della Legge di Progresso ch’è la vita dell’Umanità e porrebbe la prima pietra della inevitabile invocata Religione futura”. Non è tema secondario, dunque, quello della "lingua per l’Europa": in un frangente economico e politico tanto infelice quale è quello contemporaneo emerge, evidente a tutti, come una Unione reale esisterà solo quando saranno stati fatti, per adattare il celebre detto, i cittadini europei. E una sana cittadinanza democratica si fonda su valori e ideali collettivi, su una cultura partecipata, su una visione del mondo condivisa: intenti che, senza uno strumento comune di comunicazione, difficilmente (per usare un eufemismo) potranno mai realizzarsi. Mentre, a oggi, 28 Paesi (o meglio sarebbe, a questo punto, dire 27) dialogano in 24 lingue ufficiali, sotto l’egida di un motto europeo che, recitando il sogno della “unione nella diversità”, vive l’oggettivo problema della necessità di una lingua veicolare, la diversità linguistica è stata riconosciuta da Pierre Lequiller, già l’11 giugno 2003 (16 anni fa!), come “un soggetto che può essere definito esplosivo per l’Europa”, concetto ribadito, dalle pagine della “Süddeutsche Zeitung” già nel 1° aprile 2005, dall’affermazione di Wilhelm Schönfelder che “nell’UE non c’è tema più sentito delle lingue”. E se qualcuno sorriderà, forse, pensando che di problemi l’Unione ne vive ora di peggiori, si

Figura 3.1 / 3.2 - Ludwik Zamenhof, il creatore della lingua esperanto. Fu anch'egli in linea con le riflessioni del Risorgimento italiano sulla necessità di creare uno stato federale europeo. Nella pagina a fianco Carlo Cattaneo in giovane età, patriota, filosofo, politico, politologo, linguista e scrittore italiano che trattò anche della questione di una lingua europea. consideri che se mai proprio il disinteresse agli aspetti culturali (e quelli linguistici ne sono parte non irrisoria) possa avere contribuito all’empasse che stiamo oggi tutti vivendo sulla nostra pelle. Argomenti di carattere ideale o etico sembrerebbero non interessare particolarmente i cittadini europei, e gli italiani più nello specifico (che


Anemos

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nemmeno si sono accorti - sotto la presidenza Prodi - dell’esclusione, fra le ultime, della loro lingua materna dalla legittimità d’uso nei brevetti), fino a quando non scoprono, a volte per caso, che, dai più recenti studi di Gazzola / Grin 2013: 100,

neuroscienze

EU institutions currently spend around €1.1 billion per year on language services, that is, less than 1% of the budget of EU institutions (€147.2 billion in 2012) and 0.0087% of European GDP (€12,784.1 billion in 2012). As the EU’s population in 2012 was about 503.7 million, the annual per-person expenditure for the current EU language regime can be estimated at €2.2 (€1.7 for translation and €0.5 for interpreting). Suppose however that the cost is spread only over citizens aged 15 or above, on the grounds that a language regime mainly serves people old enough to read and write. Given that the population aged 15 or over was about 408.9 million in 2012, the annual per-person expenditure for the current EU language regime can be estimated at €2.7;

inno, motto, la giornata celebrativa del 9 maggio, il giorno della “Schuman Declaration”), ancora manca, prima di una realtà politica, di una visione comune. Le proposte di possibili soluzioni della questione linguistica dell’Unione sono le più varie: il latino, l’europanto e i diversi riadattamenti di inglese (Basic English, Simlpe English, Globish); sono poi stati nel tempo suggeriti un multilinguismo articolato (trilinguismo Anglo-Franco-Tedesco), un bilinguismo globale (lingua nazionale e lingua internazionale comune - global language - generalmente riconosciuto nell’inglese) e un bilinguismo ecologico (una lingua pianificata ausiliaria come pivot nelle istituzioni e fra i cittadini europei). Ancora vi è la proposta dell’intercomprensione, e qualcuno rilancia con una pasigrafia comune, o addirittura con la proposta d’uso di una lingua segnata. Mentre sempre attuale è la provocazione di Eco della "traduzione" come vera lingua dell’Europa.

e che dunque - se si trovasse una soluzione alla questione - questa disponibilità di denaro potrebbe essere dirottata su ben altre esigenze. Se l’EU ha i suoi simboli (bandiera,

Uniti nella diversità. Il già ricordato motto dell’EU, “United in diversity”, significa che, attraverso l’Unione, gli Europei lavorano uniti, comunitariamente, per la pace e la prosperità

degli Stati membri, e che le molte differenti culture, tradizioni e lingue presenti in Europa sono un valore aggiunto per il Continente. Il contesto ideale è chiaro: L’art. 22 (Cultural, religious and linguistic diversity) della “EU Charter of Fundamental Rights”, adottata nel 2000, richiede all’UE di rispettare la diversità linguistica (The Union shall respect cultural, religious and linguistic diversity), e l’art. 21.1 proibisce la discriminazione basata sulla lingua. Dalla base legale della Regulation No 1/1958 all’Art. 21 del trattato di fondazione dell’Unione, “roles of language policy are promoting and maintaining peace in the EU as a plank of the EU’s cohesion, laying on two fundamental principles: language right as a human right (citizens have a right to their language) and equity in communication (equality of treatment between peoples and individuals). Nel Treaty Establishing a Constitution for Europe 2004, III, II81 è scritto: “Any discrimination based on any ground such as sex, race, colour, ethnic or social origin, genetic features, language, religion or belief, political or any other opinion, membership of a national minority, property, birth, disability, age or sexual orientation shall be prohibited”. E ancora: “While committed to integration at European level, the EU promotes the linguistic and cultural diversity of its peoples. It does so by promoting the teaching and learning of their languages, including minority and regional languages. The EU’s ambitious goal, set out in a new Action Plan, is that as many of its citizens as possible should speak one - and ideally two - languages in addition to their mother tongue. The European Union as an organisation now works with 20 official languages. This is because, in a democracy, the laws it applies must be understandable to all its citizens. There can be no discrimination, for instance, between the way ◄

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Linguistica

Società

◄ people in big and small countries are treated. In their dealings with the EU institutions, all citizens have the right to use their own national language - as do their elected representatives in the European Parliament (from Europe on the move, European Commission - Directorate General Press and Communication, manuscript finalised in July 2004: Many tongues, one family. Languages in the European Union). E nel Trattato di Amsterdam (art.2.11): "Every citizen of the Union may write to any of the institutions or bodies referred to in this Article or in Article 4 in one of the languages mentioned in Article 248 and have an answer in the same language". Accanto al rispetto per l’individuo, l’apertura alla multiculturalità, alla tolleranza e il rispetto per la diversità linguistica sono valori essenziali dell’essere europeo. In seguito al Trattato di Lisbona, sottoscritto dagli stati membri nel dicembre 2007, l’EU si impegna a rispettare la sua ricca diversità culturale e linguistica, garantendo che l’eredità culturale europea sia salvaguardata e accresciuta. Una tale, utopica, situazione vive il

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paradosso fra un’uguaglianza de jure e un pragmatismo de facto, cadendo nella contrapposizione fra lingue ufficiali e lingue di lavoro. In breve, la situazione linguistica dell’EU si riassume nel fatto che, accanto alle lingue ufficiali, l’Europa registra una situazione molto più variegata: segmenti della popolazione del continente parlano lingue regionali minoritarie, di comunità e lingue protette. Questa situazione potrebbe creare - come leggibile nella pagina ufficiale dell’Unione - “not a ‘melting pot’ that reduces difference, but a place where diversity can be celebrated as an asset”, come bene emerge, ad esempio, dalle cosiddette Mannheim-Florence Recommendations, documento relativo alla politica linguistica europea edito dalla European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), fondata a Stoccolma nel 2003 al fine di raccogliere in sinergia accademie che proteggano e regolino le lingue sull’intero territorio europeo, e che suggeriscono che il curriculum di

formazione in ogni paese membro supporti e tuteli il multilinguismo, e che l’EU favorisca una società multiculturale che implichi il multilinguismo, cosicché ogni cittadino europeo possa essere almeno trilingue. Su richiesta dello Haut Conseil de l’Évaluation de l’École di analizzare la situazione e i costi delle politiche linguistiche contemporanee, François Grin, fra i più profondi specialisti di economia e politiche linguistiche viventi, ha prodotto, nel 2005, il documento L’enseignement des langues étrangères comme politique publique, dove illustra tre scenari possibili: «tout-à-l’anglais» (Communication interlinguistique essentiellement en anglais; inégalités en faveur des locuteurs natifs de cette langue; risques accrus d’érosion à terme de la diversité linguistique et culturelle), «plurilinguisme» (Communication interlinguistique en diverses langues européennes, gravitant vers un petit nombre de «grandes» langues, notamment les trois langues privilégiées par hypothèse (anglais-français-

Figura 3.4 - In basso il rapporto tra lingua locale, lingua nazionale e lingua veicolare.

vehicular ◄ language

supranational level

national language ◄

national level

local language ◄

local level


Anemos

Ott-Dic 2019 | anno IX - numero 35

allemand); diversité linguistique et culturelle plus affirmée, mais risque d’instabilité entraînant la nécessité de mesures ciblées pour favoriser les contextes communicationnels en langues non-dominantes, particulièrement en langues autres que l’anglais); «Espéranto» (Communication interlinguistique essentiellement en espéranto; égalité quasi complète entre locuteurs quelle que soit leur langue maternelle). Sulla valutazione di costi e benefici dei tre scenari, Grin conclude: le prevenzioni contro l’esperanto rendono lo scenario 3 (paradossalmente il più auspicabile) almeno a oggi impraticabile; a medio/lungo termine sarebbe dunque da preferire lo scenario 2 (plurilinguismo): anche se non è il preferibile, la riduzione degli ingiusti benefici per i Paesi anglofoni è comunque considerevole; lo scenario 2 presenta rischi di instabilità ed erosione a favore dell’inglese, ciò che costituisce ulteriore argomentazione in favore dello scenario 3. Più recentemente, Gobbo 2004 confida in una situazione di triglossia: un livello locale, secondo il principio della "personalità", dove si possa coltivare qualunque lingua-madre si desideri (regionale, di comunità, etc.); un piano linguistico ufficiale, secondo quello della "territorialità", dove l’appartenenza alla nazione implica la capacità di padroneggiare (almeno) una lingua ufficiale del Paese membro; un piano linguistico veicolare, dove, attraverso la "propedeuticità" di una "Lingua (Franca) pan-europea", si rafforza il senso di appartenenza all’Unione (fino alla creazione di una cittadinanza) e il processo di europeizzazione. Tale rispetto per la lingua in sé, esteso e applicato - giustamente anche all’aspetto ancora troppo trascurato dei dialetti, si presenta così in Bernini 2013, che rielabora, ampliandola, la visione di Federico Gobbo nel modo che segue (in un’ottica "glocal" di estrema modernità, che ulteriormen-

neuroscienze

te sarebbe valorizzata dalla ripresa di un dibattito "sull’Europa delle regioni" prima che "degli Stati"); si veda figura 3.4. Anche recuperare il pensiero delle imponenti Voci europee ricordate in apertura certo aiuterà a inquadrare il tema e a meglio delineare possibili scenari di soluzione. Conforti, nell’attesa che gli Europei prendano coscienza della gravità degli aspetti illustrati e che la politica sappia trovare la forza e il coraggio di proporre soluzioni, la saggezza poetica di uno dei grandi padri culturali del Continente, quel Goethe che ebbe a scrivere: “Wer fremde Sprachen nicht kennt, / weiß nichts von seiner eigenen”. Chi non conosce lingue straniere, nulla sa della propria: anticipazione quasi profetica del valore del multilinguismo e, indirettamente, anche di quelle istanze di democrazia ed ecologia linguistica che vanno sempre più informando l’impegno della contemporaneità, a cui si pongono come imprescindibile, e ineludibile, oggetto di dibattito. Bibliografia Astori, D. 2013. Produrre ‘quasi’ lo stesso effetto (‘Quasi’ un’introduzione), in: D. Astori, a. c. di, Produrre “quasi” lo stesso effetto. Quindici passeggiate nei boschi traduttivi, Bottega del Libro Libreria Editrice, Parma 2013, pp. 5-16 Astori, D. 2016a. De Sargon al Eŭropa Unio: enserĉade de “lingvo por la mondo, in: D. Tekeliová, ed., Per-

Differences in the Age of Globalization: the Example of Cremonese Dialect”. Socialinų mokslų studijos/ Societal Studies 5/1 (2013), 87-100 (on line: http://www.mruni.eu/en/mokslo_darbai/sms/ archyvas/?l=191225). Eco, U. 1993. La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea. Bari: Laterza. Gazzola, M. - Grin, F. 2013. “Is ELF more effective and fair than translation? An evaluation of the EU’s multilingual regime”. International Journal of Applied Linguistics 23/1 (2013), 93-107. Gobbo, F. 2004. Per una politica linguistica ecologica in Europa - Aspetti di prognosi linguistica nell’Unione Europea a venticinque membri. L’Esperanto 35(8): 1-16. Grin, F. 2005. L’enseignement des langues étrangères comme politique publique. Paris: l’Haut Conseil de l’évaluation de l’école (on line: http://cisad.adc.education.fr/hcee/documents/rapport Grin.pdf) Hagège, C. 2000. Halte à la mort des langues. Paris: Odile Jacob. Phillipson, R. 2004. English-Only Europe? Challenging Language Policy. New York: Routledge. Toso F. 2006. Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente. Milano: Baldini Castoldi Dalai editore.

Davide Astori, laurea in lettere indirizzo classico, dottorato in romanistica (Lingua romena, LMu – München), diploma in paleografia (archivio di stato di parma), giornalista (albo della Lombardia), dopo aver insegnato Lingua e cultura ebraica, ‘Lingua araba e Sanscrito è, dal marzo 2015, professore associato del s.s.d. L-Lin/01 presso l’università degli studi di parma, dove è titolare dei corsi di Linguistica generale e Interlinguistica. fra gli interessi primari: indoeuropeistica, lingue in contatto, traduttologia, minoranze e politiche linguistiche.

spectives of language communication in the EU, Constantine the Philosopher University in Nitra / Faculty of Central European Studies, Nitra 2016, pp. 43-49. Astori, D. 2016b. Quale/i lingua/e per l’Europa. Alcune riflessioni tra pianificazione, creatività, economia e diritti linguistici. Bottega del libro editore, Parma Astori, D. 2018. Due passi in Esperantujo. Una breve introduzione alla lingvo internacia, ragionata e con minima crestomazia. Parma: Athenaeum. Astori, D. 2018. Interlinguistica. Parma: Athenaeum Astori, D. 2019. “Sull’ecologia linguistica”, in S. Voce, a cura di, Natura che m’ispiri, Patron, Bologna, in pubblicazione Bernini A. 2013. “Local Languages and Cultural

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Storiografia

Linguistica

Madame de Staël patrona culturale d’Europa Un esempio storico di cultura e cittadinanza europea

App 1

di Filippo Ferrari

parole chiave. Madame de Staël, Europa, lingue, letterature comparate, salotto, Romanticismo. Abstract. Madame de Staël fu una nota animatrice della vita culturale europea. L'articolo restituisce l'essenza della “Baronessa”, personaggio di incredibile cultura, eclettica e cosmopolita, che secondo la prospettiva che qui abbiamo adottato può considerarsi un esempio storico di cittadinanza europea proprio perché seppe cogliere la vicinanza nella diversità delle varie lingue e culture europee. Si traccia dunque il profilo di Madame de Staël attraverso la sua biografia e le sue opere. La traduzione italiana dei brani di De l’Allemagne sono dell’autore dell’articolo Filippo Ferrari.

Quando si impara la prosodia di una lingua, si entra più intimamente nello spirito della nazione che la parla, più che con qualsivoglia genere di studio. Da ciò viene il divertimento nel pronunciare parole straniere: ci si ascolta come se fosse un altro a parlare; ma non c’è nulla di più delicato, di più difficile che la scelta dell’accento: apprendiamo mille volte più agevolmente le arie musicali più complicate che la pronuncia di una sola sillaba. Soltanto un lungo dipanarsi di anni, o le prime impressioni dell’infanzia, possono rendere capaci di imitare questa pronuncia, che appartiene a ciò che c’è di più sottile e di più indefinibile nell’immaginazione e nel carattere nazionale.

L

Madame de Staël, De l’Allemagne, II, IX.

'educazione della baronessa. Risulta difficile realizzare in un breve spazio un ritratto esaustivo della Baronessa delle baronesse. La sua inesauribile curiosità, la sua passione per la politica, la cultura e l’arte, il suo bisogno costante di amare ed essere amata hanno infatti dilatato il tempo

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della sua breve esistenza, quasi a farne il crocevia di una miriade di esistenze. Anche i limiti che vengono tracciati dal titolo di questo intervento non bastano per costruire un argine abbastanza solido da contenere il torrente impetuoso di una vita inimitabile, che si è dipanata lungo le strade dell’intera Europa, che dall’esperienza

Perché non siete - esclamò [Lord Nelvil] della mia stessa religione, della mia stessa patria? La nostra anima e la nostra intelligenza - gli rispose Corinne - non hanno forse la medesima patria? Da: Corinne ou l'Italie (1807), XIX, II


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Anemos neuroscienze

Figura 4.1 - A fianco ritratto di

Madame de Staël, dipinto di MarieÉléonore Godefroid.

ha fatto sgorgare riflessioni, scritti politici e letterari di straordinaria attualità, fondati su una insaziabile curiosità dell’altro e sul bisogno di allargare i confini dello spirito umano e della cultura. Ci muoveremo pertanto nel tentativo di tracciare un profilo “europeo” della Baronessa, affrontando al contempo la sua biografia, imprescindibile per comprendere la sua straordinaria attività speculativa, e le sue opere, in cui si definisce una visione consapevole e organica del mondo, ed una profonda capacità di interpretazione. Vita ed arte ci accompagneranno alla scoperta del contributo di madame de Staël alla fondazione di uno spirito europeo. Il fenomeno Madame de Staël (Germaine Anne Louise Necker, Baronessa di Staë1Holstein, 1766-1817) non avrebbe mai calcato le scene del mondo, non sarebbe mai esistito, senza la presenza di due genitori eccezionali, Jacques Necker (1732-1804) e Suzanne Curchod (1737-94). Jacques Necker non necessità di presentazioni: il ricco banchiere ginevrino è stato infatti uno dei protagonisti della vita politica francese negli anni che hanno preceduto la Rivoluzione ed ha svolto un ruolo cruciale nella gestione dello Stato francese nel primo periodo seguito alla presa della Bastiglia. Il ruolo politico e sociale del padre offre alla giovane Germaine uno straordinario osservatorio sul mondo che la circonda, permettendole di affacciarsi alla politica e di costruire con consapevolezza una visione personale della funzione dello Stato e della necessità di un ordinamento liberale. Fondamentale nella formazione della Baronessa è però la madre. Suzanne Curchod, ex istitutrice imbevuta delle teorie di Rousseau, si dedica “con meticolosità svizzera e intransigenza protestante” (Bendetta Craveri) all’educazione della sua unica figlia. Un’educazione che deve essere all’altezza delle ambizioni di ascesa sociale della famiglia. Infischiandosene della visione di Rousseau, che esorta a intraprendere il processo educativo dopo il compimento del dodicesimo anno del bambino, madame Necker si sforza ◄

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Storiografia

Linguistica

◄ di fare della piccola Germaine

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il suo capolavoro pedagogico, trasformandola fin dalla più tenera età in una biblioteca vivente. Il suo progetto educativo si definisce in un itinerario molto articolato: matematica, teologia, geografia, danza, buone maniere, declamazione e teatro (per cui si avvale del supporto di Mademoiselle Clairon). Centrali in questo complesso sistema divengono la conoscenza della storia e delle lingue antiche e moderne. Anche quando arriverà a manifestare insofferenza verso questo progetto pedagogico libresco ed ossessivo, lasciando emergere la sua naturale vivacità, la giovane donna conserverà una curiosità inestinguibile di conoscere cose e persone, il desiderio di cimentarsi con esperienze culturali nuove e diverse, che la porteranno ad essere pioniera e scopritrice, anticipatrice di tendenze che si manifesteranno nei decenni successivi. Ancora giovanissima “Non cessa di accrescere le sue conoscenze e divora con grandissima avidità tutte le opere che riesce a trovare, passando con facilità e con uguale entusiasmo da Sallustio a Montesquieu, da Dante a Shakespeare, allora quasi sconosciuto in Francia, da Rousseau […] a Macpherson autore delle Poesie di Ossian […] niente le sembra più bello di Clarissa Harlowe…” (Ghislain de Diesbach, Madame de Staël). La giovane figlia dei Necker sperimenta opere poco note o sconosciute di tutti i paesi europei, a cui si accosta in lingua originale. La passione per le lingue, la curiosità rispetto alle loro specificità, si definisce e si consolida in questa fase cruciale della sua formazione. E la accompagnerà sempre. Quando sposa il barone svedese Erik Magnus von Staël-Holstein, anche per sostenere il ruolo di ambasciatore del marito, si accosta alla lingua svedese, che riprenderà nel corso del suo lungo e drammatico esilio per l’Europa. Affascinata dalla cultura, dalla let-

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teratura e dalla filosofia della Germania, che saranno poi oggetto del suo monumentale saggio De l’Allemagne, all’inizio dell’Ottocento inizierà con la consueta tenacia a studiare la lingua tedesca. Il gruppo i Coppet. L’educazione materna è dunque, per la Baronessa, il primo tassello per la costruzione di una sensibilità europea. Il secondo tassello è l’altro imprescindibile luogo di incontro e di scambio della Francia settecentesca: il salotto. Nei salotti parigini il Grand Monde, la nobiltà francese, ha elaborato, tra Sei e Settecento, una raffinata civiltà della conversazione e dello scambio. Arte, letteratura e mondanità, oggetti privilegiati della conversazione, vengono affiancate, nella seconda metà del XVIII secolo, con l’affermarsi della civiltà dei Lumi, da tematiche legate all’attualità politica, alla scienza, all’economia, e da un confronto sulla società che dovrebbe dar forma alla cultura della Ragione. Fin da bambina, in quanto “donna in miniatura”, grazie alla formazione materna che l’ha resa disinvolta nel dialogo e in grado di sostenere una discussione, Germaine influenzata dal clima e dall’atmosfera dei più prestigiosi salotti della capitale del cosmopolitismo, Parigi, luogo di incontro di prestigiosi esponenti del Grand Monde e di intellettuali provenienti da tutta l’Europa. Madame de Staël conosce in particolare, attraverso la madre, assidua frequentatrice, il salotto di Madame de Geoffrin (1699-1777) in rue Saint-Honoré, dove figurano tra gli ospiti Diderot, Rousseau, Montesquieu e D’Alembert, e il salotto di Madame du Deffand (1697-1780), in cui si erano succedute personalità del calibro di Voltaire, D’Alembert, Fontenelle, spesso visitato dall’intellettuale inglese Horace Walpole (noto come autore de Il castello di Otranto). Germaine rifulge nel salotto aperto

dalla madre per sostenere la carriera politica del marito popolato di letterati, economisti, scienziati, filosofi che discutono di agricoltura, economia, politica. Inizialmente ammessa come ascoltatrice, inizierà poi ad essere presenza attiva e vivace. Una volta sposata, aprirà un proprio salotto nell’ambasciata di Svezia, in rue du Bac. Il brio della padrona di casa, arguta e diretta, crea un clima vivace e aperto. La chiarezza cartesiana del suo modo di ragionare, la capacità di analisi e sintesi, l’eleganza espressiva e la passione travolgente con cui argomenta le sue idee fanno di lei un punto di riferimento, e il suo salotto catalizza intellettuali, studiosi ed uomini di Stato, provenienti da tutta Europa. In breve tempo il suo circolo diviene un luogo di elaborazione intellettuale e politica all’insegna del cosmopolitismo, che parte dall’esistente per figurare nuovi scenari politici. La baronessa guarda oltre gli orizzonti nazionali, guarda in particolare all’Inghilterra e aspira ad un sistema liberale e costituzionale. Quando la sua persona e il suo salotto saranno considerati “pericolosi”, prima dalla Rivoluzione poi, soprattutto, da Napoleone, che la condannerà all’esilio, la Baronessa sarà costretta a lasciare la Francia, nel castello dei genitori a Coppet (sul lago di Ginevra) darà vita ad un cenacolo che sarà “laboratorio itinerante” di personalità provenienti da contrade e culture diverse. Il cosiddetto “Gruppo di Coppet”, composto da un manipolo di fedelissimi quali Benjamin Constant, Charles Victor Bonstetten, August Wilhem Schlegel, Jean de Sismondi, ha spesso seguito le peregrinazioni della baronessa, tra Austria, Germania, Russia, mantenendo il proprio quartier generale nel Castello. Oltre ai fedelissimi, hanno soggiornato a Coppet Wilhelm von Humboldt, Camille Jordan, René


Anemos

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de Chateaubriand, George Gordon Byron. L’intellighenzia che resiste alla tirannide napoleonica trova rifugio presso la baronessa. Stendhal definisce il cenacolo di Madame de Staël “gli Stati Generali dell’opinione europea”. Tra i grandi temi trattati dagli intellettuali del gruppo occupano una posizione centrale l’interpretazione della Rivoluzione, il teatro, la letteratura, la libertà, il liberalismo, la storia, l’eredità della Civiltà dei Lumi, l’economia, la religione, il concetto di Europa. Senza definire un programma comune, realizzano l’ideale della libera discussione in un tempo in cui gli spazi di autonomia sono ridotti o annientati, sostenuti dalla consapevolezza della necessità di una visione universale (l’unità culturale europea) e di un confronto fra i retaggi culturali nazionali. Letterature comparate. Lo spirito europeo che permea il cenacolo di Coppet, l’anelito al confronto e all’apertura, anima le principali opere letterarie e critiche che la ba-

neuroscienze

Figura 4.2 - In alto il castello di Coppet dove risiedeva Madame de

Staël e dove si riuniva il suo salotto cosmopolita. ronessa compone prima, durante e dopo l’esilio. Nel saggio De la littérature considerée dans ses rapports avec les institutions sociales (1800), incentrato sull’idea della perfettibilità degli uomini e delle istituzioni, Madame de Staël analizza la storia delle letterature europee applicando ad essa il paradigma filosofico elaborato da Montesquieu della dipendenza razionale tra vicende storiche e principi generali. La Baronessa parte pertanto dall’assunto della reciproca influenza tra arte (e letteratura) ed istituzioni politiche, sociali e religiose. Il suo obiettivo è di far emergere le relazioni che esistono tra letteratura e le istituzioni sociali in ogni secolo e in ogni paese e far conoscere il progresso lento ma costante dell’intelligenza umana, che si arricchisce delle esperienze delle generazioni precedenti, nonostante le vicissitudini della storia. La forma di go-

verno o la religione di un Paese, in questa visione, possono determinare lo sviluppo o il declino della sua letteratura. D’altro canto, in modo speculare, il progresso della letteratura rappresenta la salvaguardia della libertà, perché determina la formazione di una coscienza civile e politica. (cfr. F. Sinopoli, L’Italia e le letterature moderne nel piano di “De la littérature considerée dans ses rapport avec les institutions sociales” di Mme de Staël: un problema storiografico) L’opera si caratterizza per alcuni elementi di notevole originalità: oltre ad essere il primo studio sistematico sul rapporto tra letteratura e società, ha fondato la storia comparata della letteratura europea sull’idea della continuità e dell’aspetto evolutivo dei fenomeni letterari, ha trasposto il principio della relatività delle istituzioni alla letteratura, ha proposto un’ideale rifondazione politica e sociale della ◄

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Storiografia

Linguistica

◄ civiltà europea dopo il Terrore e la tirannia napoleonica. L’Europa non si configura come entità politica, ma come figura epistemologica sovranazionale che attira a sé la storia delle singole nazioni, le quali trovano sviluppo, senso e spazio in un piano progressivo dello spirito umano europeo, polarizzato storicamente e geograficamente tra Nord e Sud. (cfr. F. Sinopoli, L’Italia [...] cit.) Diamo in tal senso la parola alla Baronessa: Jean Jacques Rousseau ha detto che le lingue del Mezzogiorno erano figlie della gloria e le lingue del Nord del bisogno. Italiano e spagnolo sono modulati come un canto armonioso; il francese è eminentemente adatto alla conversazione; i dibattiti parlamentari e l’energia naturale

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Ott-Dic 2019 | anno IX - numero 35 della nazione hanno dato all’inglese qualcosa di espressivo che supplisce alla prosodia della lingua. Il tedesco è molto più filosofico dell’italiano, più poetico del francese per la sua audacia, più predisposto al ritmo dei versi che l’inglese: ma gli rimane ancora una sorta di rigidità che viene forse dal fatto che sia stato raramente utilizzato in società e in pubblico. (De l’Allemagne, II, IX).

Se nel saggio De l’Allemagne Madame de Staël, dopo aver fatto tesoro di vasto bagaglio di conoscenze ed esperienze, dà compiuta organicità al proprio pensiero sul patrimonio linguistico europeo, con De la littérature apre ai Francesi nuove prospettive sulle letterature straniere, in particolare su quella inglese e

quella tedesca, che sembra piena di futuro. Nella sua visione progressiva e perfettibile, la Baronessa identificherà, qualche anno dopo, il cammino filosofico dello spirito umano in quattro fasi: i tempi eroici (il mondo greco), il tempo del patriottismo (l’antichità romana), la cavalleria, che definisce religione guerriera dell’Europa, e infine il tempo dell’amore per la libertà (De l’Allemagne). La letteratura moderna, sul piano storico e sociale, doveva contribuire alla partecipazione attiva alla vita politica del proprio paese, dando corpo a questo amore per la libertà . L’analisi storica e sociale delle letterature di Madame de Staël si confi-

Figura 4.3 - Sotto i frontespizi di due opere di Madame de Staël citate nel testo in edizioni nella prima parte dell'Ottocento


Anemos

Ott-Dic 2019 | anno IX - numero 35

gura pertanto come una piena manifestazione dello spirito europeo formatosi a Coppet, animato dal desiderio di universalismo e dalla ricerca delle specificità nazionali. Le peregrinazioni europee a cui sarà costretta a partire dal 1803, una volta condannata all’esilio, la porteranno a sperimentare concretamente l’Europa e a misurare la sua visione con la realtà. Tra il 1803 e il 1804 sarà in Germania, nel 1808 a Vienna e poi nell’amata Weimar, tra il 1804 e il 1805 in Italia. Raggiungerà infine la Russia, la penisola scandinava e l’Inghilterra. Da questi viaggi scaturiscono due opere fondamentali nella sua produzione: il romanzo Corinne ou l’Italie (1807) e il saggio De l’Allemagne (1810/13). Entrambe le opere rappresentano uno straordinario strumento per la conoscenza della cultura italiana e della cultura tedesca, per allargare gli orizzonti della conoscenza tra i popoli. Le vicende della storia d’amore tra Oswald Nelvil, un gentiluomo inglese, e la bella Corinne, poliedrica intellettuale italiana, sono l’occasione per presentare le specificità delle culture di cui i due innamorati son imbevuti. Le puntuali descrizioni di luoghi e contesti, le acute osservazioni e riflessioni dell’autrice, spesso presentate con la voce di Corinne, suo alterego, forniscono un affresco straordinario dell’Italia, rivelandola al pubblico francese ed europeo, a seguito del grande successo della pubblicazione. De l’Allemagne è un saggio monumentale sulla cultura tedesca, di cui l’autrice manifesta una grande ammirazione. L’opera fornisce una visione complessiva sul territorio, sulle forme di governo, sulla religione, sulla letteratura e sulla filosofia tedesca, secondo la struttura già definita in De la littérature, e rende visibili al mondo figure ancora poco note nel resto dell’Europa, creando curiosità e diffondendo approcci culturali inediti. L’autrice valorizza

neuroscienze

l’originalità del pensiero tedesco, e di conseguenza della letteratura, sdoganata dall’imitazione. Il testo è denso di riflessioni sulla lingua, affrontata in una dimensione comparativa. Attraverso questa opera l’Europa viene a conoscenza delle peculiarità e delle sorprendenti risorse della Germania, e i Tedeschi possono scoprirsi ed identificarsi nelle argute osservazioni sui loro costumi e sulle loro abitudini. Diamo nuovamente la parola alla Baronessa. La semplicità grammaticale è uno dei grandi vantaggi delle lingue moderne: questa semplicità, fondata su principi di logica comune a tutte le nazioni, rende molto facile capirsi; uno studio molto leggero è sufficiente per apprendere l’italiano e l’inglese; ma il tedesco è [complesso] quanto una scienza! Il periodo tedesco aggredisce il pensiero come degli artigli che si aprono e si chiudono per afferrarlo. Una costruzione della frase all’incirca uguale a quella che esiste presso gli antichi vi si è introdotta più facilmente che in qualsiasi altro dialetto europeo; ma le inversioni non si confanno più molto alle lingue moderne. Le terminazioni squillanti delle parole greche e latine facevano sentire quali erano le parole che dovevano legarsi, anche quando erano separate: i segni delle declinazioni presso i Tedeschi sono così sordi che è molto faticoso trovare le parole che dipendono le une dalle altre sotto questi colori uniformi”(De l’Allemagne, II, IX).

Citiamo infine, per chiudere questo breve excursus sullo spirito europeo nella produzione letteraria e critica di Madame de Staël, un breve ma fondamentale contributo alla circolazione delle idee in Europa. Facciamo riferimento al saggio Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, pubblicato sul primo numero della Biblioteca Italiana nel 1816 (la traduzione è di Pietro Giordani).

Anche in questo caso, lasciamo la parola alla Baronessa, con l’incipit del saggio. Trasportare da una ad altra favella le opere eccellenti dell’umano ingegno è il maggior benefizio che far si possa alle lettere; perché sono sì poche le opere perfette, e la invenzione in qualunque genere è tanto rara, che se ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue proprie, sarebbe ognor povera: e il commercio de' pensieri è quello che ha più sicuro profitto.

Il celebre saggio che scatena la polemica classico-romantica e che determina la nascita in Italia di un movimento romantico, invita gli Italiani a guardare oltre le Alpi e ad accostarsi alle letterature straniere attraverso le traduzioni. La nascita nel Romanticismo italiano è figlia dello spirito europeo, della necessità di confrontarsi con quanto avviene al di là degli angusti confini nazionali. Gli Italiani, sosteneva la Baronessa, dovrebbero tradurre le opere di autori inglesi e tedeschi e superare una tradizione classicistica ormai lontana dalla contemporaneità. Ancora una volta la Baronessa, a breve distanza dalla conclusione della sua intensa esistenza, fa aleggiare uno spirito europeo, fondato sul confronto e sulla conoscenza, che imprime una svolta significativa alla storia letteraria italiana. Filippo Ferrari. Dottore di ricerca in Storia presso l'Università di Parma, insegna presso l'Istituto Carrara di Guastalla (RE). Si è occupato di storia del Cristianesimo antico. Si interessa di letteratura e poesia europea e di storia del costume.

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Lingue

Comunicazione

europa senza pagine: anzi no

Linguaggio e dimensione del giornalismo italiano, tra provincialismo e aperture europee

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Anemos

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neuroscienze

di Mattia Mariani

App 1 parole chiave. giornalismo, Europa, sport, musica, esteri, politica.

Abstract. La stampa italiana è sbilanciata verso la politica nazionale. La cronaca politica prevale in tutte le piattaforme di comunicazione giornalistica. Vi sono settori, tuttavia, che fanno dell'approccio internazionale un punto di riferimento: il giornalismo sportivo e la musica. Da un'analisi della stampa europea, invece, pare che le notizie di carattere internazionale abbiano uno spazio e un'importanza maggiore rispetto alla stampa italiana. Il giornalismo italiano, anche in termini di inviati esteri, si è molto ridotto, mentre una prospettiva europea sarebbe necessaria anche in questo settore.

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imensione europea dello sport e dell'intrattenimento. Può succedere che quando si parla di Europa, il pensiero corra all’asse franco-tedesco, agli eurocrati, alle norme che regolano la lunghezza dei cetrioli e alle diversità di velocità tra le nazioni occidentali e quelle orientali. Si tratta sovente di considerazioni piuttosto grossolane, che ignorano un enorme e minuzioso lavoro che Parlamento Europeo e altri organi dell’Unione compiono quotidianamente. Quando invece si parla di Italia, ecco che il pensiero corre “alla mia casa”, “ai miei cari”, “al mio lavoro, ai miei beni , alla mia storia”. È tuttavia abbastanza incomprensibile come non si ricordi che tutto ciò che è in Italia e che è Italia, sia anche in Europa e sia Europa. Questa miope visione è stata fatta propria da buona parte dell’editoria. Oggi sembra che parlare di Europa sia sconveniente e non redditizio mentre sia meglio occuparsi di vicende nazionali e locali. Le dimensioni dell’interesse degli utenti dunque - secondo molti grandi media - non prenderebbero in considerazione il piano continentale. Al di là del giusto o dell’errato, cerchiamo di verificare se tutti i grandi media stiano ragionando nello stesso modo e se davvero non sia redditizio ispezionare la dimensione europea della notizia. C’è un settore del giornalismo che ha nel tempo modificato profondamente la convinzione che la dimensione europea delle notizie non

interessi. È quello sportivo. I grandi quotidiani, ad iniziare dall’italiana Gazzetta dello sport rispetto a 7\8 anni fa dedicano oggi molte pagine al calcio di nazioni diverse dalla propria. La Liga spagnola, la Bundesliga tedesca, la Premier inglese, la Ligue 1 francese sono seguite con inviati, interviste e commenti. Lo stesso dicasi per le tv, private o pubbliche che dir si voglia. Barcellona - Atletico Madrid o Bayern Munchen - Borussia Dortmund o Tottenham - Liverpool sono molto più importanti di Genoa - Udinese, Sassuolo - Empoli, Parma - Cagliari, ecc. Come si dice in gergo “tirano di più”. Il bacino d’utenza che colgono i grandi match “stranieri” è decisamente più rimarchevole di quello colpito da alcune partite della nostra serie A. Non si parli poi delle serie minori (B, C, ecc.) che un tempo trovavano spazio appena dopo i racconti della massima categoria e che oggi invece si perdono con i tabellini soltanto nelle ultime pagine o nei crawl dei telegiornali. Il processo fatto dalla Gazzetta dello sport è stato compiuto anche dall’Equipe, dal Mirror, dalla Marca, da Sky tv e dalle reti private o pubbliche di quasi tutti i paesi europei. Il calcio dunque è una lingua che accomuna e la dimensione locale-nazionale salta in aria di fronte allo strapotere di quella continentale. Lo stesso dicasi per altri sport come l’automobilismo, il motociclismo, il ciclismo, la boxe e da qualche tempo anche il basket. Lo sport non è il solo campo in cui giornali e network abbiano scoperto

l’Europa. Sono entrati ormai da tempo nei teleschermi di tantissime famiglie format che vengono realizzati in Gran Bretagna o in Francia o in Germania o addirittura fuori dall’UE, dove si presentano ristrutturazioni o compravendite di case. Se restassimo al pensiero iniziale che l’Europa non interessa, dovremmo del tutto tralasciare di dare spazio a trasmissioni come “Fratelli in Affari” (realizzata in Canada), o “Prendere o lasciare” o ancora “All for nothing” in cui si reclamizzano case in Cornovaglia o nelle isole spagnole o in costa Azzurra. In questo caso certo ha un peso fondamentale il doppiaggio che consente di superare il problema della lingua. Resta però un fatto: moltissime persone, soprattutto donne, sono interessate a una dimensione del racconto che supera nettamente i confini nazionali. Probabilmente su questo incide la possibilità di vedere abitazioni da sogno e di scoprire che una maniglia, montata in una casa dell’Essex, posso montarla anche nella mia semplicemente perché “mi piace” e dunque io e un abitante dell’Essex non siamo poi così diversi. Un terzo esempio di come la dimensione europea dell’informazione e dell’intrattenimento possa avere presa è l’Eurosong contest. Si tratta di una manifestazione canora che vede in lizza i vincitori di festival nazionali. Per l’Italia vi partecipa solitamente il primo classificato a Sanremo. Nel 2018, questa produzione ha avuto ascolti record in tutti ◄

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Lingue

Comunicazione

◄ i paesi europei. Più di 8 milioni in Germania, più di 7 milioni in Gran Bretagna, Francia e Polonia, più di 6 milioni in Spagna. Dunque anche la musica “tira” a livello europeo. Ovvio che la formula del televoto possa incidere perché spinge a votare per il connazionale, ma non è stato forse così per il festival di Sanremo con cantanti che sono diventati vincitori grazie alle preferenze giunte dai propri luoghi d’origine? L’essenziale è che tutti possano avvicinarsi alla conoscenza di tutti.

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La dimensione locale dell'editoria italiana. Alcuni diranno che un conto sono i gol e le canzonette, altro sono le notizie e le inchieste. Annotiamo tuttavia che il giornale europeo più venduto, la Bild Zeitung, con 2.700.000 copie (settimo al mondo dopo quattro giapponesi, un indiano e un cinese), in prima pagina ha ogni giorno almeno due notizie “non tedesche” e preferibilmente “europee”. Lo stesso dicasi per il Sun, il primo giornale inglese per vendite (2.420.000 copie), conservatore che si è schierato per la Brexit, ma che ogni giorno propone in prima pagina fatti ed eventi che avvengono in altri paesi dell’Unione o del mondo. L’esempio è stato seguito da circa un anno dall’olandese Volkskrant e dal francese Le Monde. In Italia c’è un caso interessante. È quello del quotidiano Avvenire, l’unico ad aver annotato un aumento delle vendite nell’anno 2018 e anche nel primo trimestre del 2019. Questo giornale ha ampliato enormemente ogni giorno lo spazio destinato agli esteri. Forse non sarà l’unica ragione del boom di tirature ma un nesso potrebbe esserci. Non sarà dunque per pigrizia o per scarsità di investimenti che i giornali e i media italiani ritengono “che l’Europa non tiri”? Gli esempi che abbiamo visto suggerirebbero il contrario. C’è senza dubbio un’altra dimensione che attira l’interesse degli utenti. È quella locale. A causa della crisi,

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negli ultimi 5 anni, in Italia 44 tv locali hanno chiuso i battenti. Tuttavia le emittenti che continuano ad andare in onda hanno buoni ascolti. Così dicasi pure per i giornali locali. Il Dolomiten-Alto Adige supera le 40.000 copie quotidiane, la Gazzetta di Parma supera le 25.000, l’Unione Sarda 37.000. Lo stesso fenomeno lo abbiamo in campo televisivo e radiofonico. Realtà come Polar tv in Moravia o le Dauphine liberè in Savoia o radio Gong in Baviera sono gli esempi di come le realtà editoriali locali siano ancora la fonte primaria dell’informazione di molte persone. Negli Stati Uniti sta avanzando il fenomeno delle bridge tv. Sono reti che si occupano di spazi molto ridotti (l’area di un ponte appunto) per raccontare però tutto quanto avviene in quell’ambiente sovente ignorato dagli altri media, quelli che a torto

si reputano “attenti e seri”. Nulla di nuovo sotto il sole. La figura del corrispondente locale è stata per anni una colonna di tanti giornali. Ora, per ragioni contrattualistiche, economiche e a volte ideologiche, si preferisce creare degli impiegati della notizia che lavorano dall’interno delle redazioni riducendo la presenza sui territori e dunque la relativa conoscenza degli stessi. Chi invece continua ad investire sul locale è premiato dal pubblico. Anche per il web il discorso è simile. I gruppi editoriali territoriali, ai media tradizionali, hanno aggiunto da tempo i propri siti che risultano nei territori di azione solitamente i più cliccati. Il lettore-ascoltatore-utente cerca dunque notizie locali perché si sente parte della comunità che viene raccontata. Acquisisce in questo modo una profonda fiducia nella te-

Figura 5.1 - La stampa italiana si caratterizza per una maggiore attenzione sulla realtà nazionale, mentre nelle home page e prime pagine delle maggiori testate europee le informazioni internazionali hanno un rilievo maggiore. Fa eccezione l'informazione sportiva, un settore che gode di un respiro internazionale in tutta Europa.


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stata che sceglie e nei giornalisti che vi lavorano e così accade un fenomeno che troppo spesso, noi operatori dell’informazione, tendiamo ad ignorare. Al giornalista locale si chiede un giudizio, un’interpretazione, un commento su fatti nazionali e internazionali, perché il metterci la faccia non da “lontano” ma da “vicino”, ispira a colui che si collega coi media la certezza che il giornalista non sarà né un impreparato, né un farabutto. È quindi interessante vedere come spesso a piccoli, a volte a grandi, passi le dimensioni dell’interesse che avanzano sono quella locale e quella internazionale. La stampa, che per ragioni politiche o di scarsità di possibilità economiche, continua ad ignorare questo fenomeno sarà destinata a perdere sempre più consensi e dunque incassi. Il giornalismo, se smette di essere tale concentrandosi su alcuni confini e ignorandone altri, lascerà spazio a fonti meno sicure, più vicine all’interesse di qualcuno che a quello della verità e della comunità e creerà dei lettori\ascoltatori\utenti che sosterranno l’inutilità del giornalismo stesso. Talvolta c’è chi chiede un giornalismo asettico. Si sente dire: “il giorna-

lista è colui che deve riportare i fatti e fermarsi a quello”. Si dimentica, forse per colpa dei giornalisti stessi, che il giornalismo si compone di tre grandi strumenti: la notizia, l’intervista e il

neuroscienze

commento. Notizia significa che un fatto viene ritenuto interessante e in grado di produrre discussione. L’intervista, che è fatta di domande con punti interrogativi e di conseguenti risposte, viene realizzata perché si presume che una persona possa generare interesse e discussione. Un commento pone al centro un’idea che il giornalista esprime affinché il lettore possa confrontarsi con essa, facendone dunque scaturire interesse e successive discussioni. Tutto è quindi finalizzato a creare pensiero. Ecco perché senza stampa libera, si dice che c’è gioco facile per la dittatura. Il giornalista quindi è colui che non ha come fine soltanto l’informare ma l’informare affinché la realtà oggetto dell’informazione venga ulteriormente studiata, approfondita, migliorata. Come mai oggi il giornalista è sotto accusa quando esprime un commento? Non è raro sentirsi dire: “Con quale autorità utilizzi un microfono per condizionare il pensiero di molti?” Sicuramente i giornalisti, che hanno scambiato l’arte del commento con quella dell’imbonimento, hanno sbagliato e non hanno ben chiari i fini e i confini del proprio mestiere. Tuttavia è difficilmente comprensibile come lo stesso appunto (“Con quale autorità…”) non venga rivolto a chi scrive sui social network o a chi gestisce blog. Si ritiene che costoro siano liberi e non dipendano da “padroni interessati”. Non si ricorda però che costoro hanno un proprio personale interesse nel pubblicare una foto, una frase o qualsiasi altra cosa. Il giornalista serio è invece colui che ricerca sempre un interesse collettivo nelle righe che scrive o nei minuti in cui è in onda. È infine naturale che laddove le grandi testate (e questo accade soprattutto in Italia come abbiamo visto) rinunciano agli inviati sul campo, lasciano quel campo in mano ad altri pronti a presentare situazioni in modi strumentali a pensieri precostituiti e non finalizza-

ti a suscitare pensiero. In molti paesi europei abbiamo visto come i giornali le tv e i siti vogliano vedere con i propri occhi cosa accade nel mondo. Pensate ad esempio che i giornalisti stranieri stabilmente accreditati presso le istituzioni italiane, sono più di 300. Quelli italiani stabilmente accreditati presso le sedi istituzionali straniere non raggiungono le 80 unità. È vero che a Roma c’è pure il Vaticano e molte testate straniere “prendono due piccioni con una fava”, ma resta il fatto che il giornalismo italiano si è nel tempo reclinato sull’interesse nazionale ignorando che il binomio locale\continentale è invece redditizio. Chi, come abbiamo visto, l’ha percorso, ottiene risultati. Chi lo ignora, continua a parlare di crisi dell’editoria e chiede sostegni. L’Europa non è “ignorabile” se non altro perché siamo europei, pensiamo da europei, agiamo da europei. Torna dunque di moda più che mai la vecchia idea dei padri fondatori: non un'Unione di nazioni, ma di regioni. La storia, anche quella dell’editoria, impone la salvaguardia dei marchi (testate) locali. Sono queste che costituiscono l’Europa. Singolare notare come non esiste ancora un “quotidiano europeo” o una rete o un sito “europeo”. Certamente alla base può esserci la mancanza di una lingua comune, ma una delle ragioni è senza dubbio anche l’incapacità di saper coniugare le attese dei lettori che spaziano dal locale al continentale. È questo uno dei filoni di ricerca più interessanti del giornalismo di questi anni. Bibliografia Roberto Baldassarri, Giornalismo informazione e comunicazione, Marsilio editore. Sergio Splendore, Giornalismo ibrido, Carocci editore. Giorgio Zanchini, Leggere cosa e come. Il giornalismo e l’informazione culturale nell’era della rete, Donzelli editore. Mattia Mariani, Giornalista, direttore dell'emittente televisiva Telereggio.

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Evoluzione

Linguaggio

L’immaginazione collettiva Il linguaggio dell’evoluzione

Int

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di Gian Marco Fulgeri

parole chiave. Evoluzione, linguaggio, internet, ominidi. Abstract. Nell'articolo parte da considerazioni sui mutamenti portati dall'introduzione massiccia della rete internet e dei dispositivi elettronici nella vita sociale e nella comunicazione tra gli individui. Si passa poi ad una sintesi dell'evoluzione umana e degli ominidi che hanno preceduto l'uomo moderno per introdurre alcune considerazioni di carattere evolutivo sul linguaggio umano e sui suoi scenari futuri nell'era digitale.

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Anemos

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U

so della tecnologia. Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo, il pensiero è subito volato a quella bellissima estate del 2004 quando da solo, nell’appartamento di famiglia al mare, scrivevo la mia tesi di laurea: “Comunicazione Mediata dal Computer: Identità e Realtà Virtuale”. Mi sedevo in un terrazzo vista mare, nel quale sono cresciuto, con un pesantissimo laptop ultramoderno: aveva il modem integrato a 56k e il masterizzatore DVD! A 15 anni di distanza, per intenderci, i computer non hanno più modem ma solo connessioni wi-fi e i CD/DVD non esistono più, sostituiti dalle chiavette USB e dallo streaming. Per scrivere la tesi sulle nuove comunicazioni virtuali avevo pile di libri di analisi e controanalisi di questo nuovo fenomeno. Internet non nasceva certo nel 2004, ma iniziava ad emergere allora al “mondo di fuori” - che ad inizio secolo era la parte più grossa - il fenomeno delle comunità virtuali. Come per tutti i fenomeni sociali, quando iniziano le analisi

neuroscienze

“esterne” significa che l’evento ha già una diffusione rilevante e che per gli “interni” è cosa comune e ordinaria. A rivedermi su quel terrazzo 15 anni fa, sembra paradossale che per studiare le comunità virtuali avessi bisogno di così tanti libri cartacei ma al tempo non avrei trovato tutte quelle informazioni in rete. Oggi siamo abituati a poter trovare (quasi) tutto su Internet, dagli articoli scientifici ai tutorial su Youtube per sapere come applicare il silicone al piatto della doccia, ma allora non era così e se Eric Hobsbawm fosse ancora vivo dovremmo suggerirgli di posticipare almeno al 2001 (cioè un decennio più in là) il suo secolo breve. Nella prefazione al suo libro Hobsbawm dice: «Come disse il poeta: T. S. Eliot "il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un'esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo", il Secolo breve è finito in tutti e due i modi». E se posticipassimo il suo Secolo Breve al 2001, con l’attentato alle Torri Gemelle da un lato e la sempre maggiore diffusione di internet e delle sue comunità virtuali dall’altro, potremmo mantenere valida la citazione! Nel 2019 gli smartphone sono talmente comuni che travalicano qualsiasi status sociale; è normale vederli in mano a migranti appena sbarcati così come a Giovanni Ferrero, uno degli uomini più ricchi del pianeta. Internet è alla portata di tutti, le connessioni wi-fi sono sempre più comuni e gratuite e ad esse ci connettiamo sempre più frequentemente, in un hotel, in spiaggia, al ristorante e persino sull’aereo. Quasi tutte le città del mondo occidentale mettono a disposizione connessioni gratuite e uno dei progetti della Comunità Europea è quello di iniziare ad unificarli per permettere ai cittadini di connettersi ovunque con le stesse credenziali. Per contro, abbiamo visto emergere diverse patologie legate all’Internet Addiction Disorder (argomento già trattato per questa rivista qualche anno fa in un articolo dal titolo “Iperconnetti-

vità”), ma un mondo senza Internet sarebbe oggi inimmaginabile. Talmente inconcepibile che alcune invenzioni come le emoticons o l’uso smodato di abbreviazioni, punti esclamativi e puntini di sospensione sono entrati nella nostra quotidianità a tal punto da non farci nemmeno più caso. È probabile che app di Istant Messaging come WhatsApp o Messenger abbiano contribuito a darne una diffusione così ampia ed estesa ad un pubblico molto più vasto dei soli cybernauti, ma c’è un aspetto non proprio chiaro legato a doppio filo tra la tecnologia (e il correlato cambio di passo del nostro linguaggio) e la nostra evoluzione. Evoluzione dell'uomo. Sono sempre stato affascinato dal pensiero di cosa potrebbe trovare un archeologo del 3000 sulla nostra civiltà e delle congetture che farebbe sull’utilizzo di chissà quali strumenti, come un inutilizzabile tablet o un cavetto usb, piuttosto che un walkie-talkie o uno scalda-biberon. Di sicuro, infatti, da qui a 1000 anni una non prevedibile tempesta solare distruggerà tutti i nostri dispositivi elettronici, cancellando in un click ogni archivio digitale. Il lavoro e l’esistenza di molti di noi, basata su un quotidiano lavoro al computer e al salvataggio di importantissimi file, verrà spazzata via e non ne rimarrà traccia. Il nostro archeologo quindi si dovrà basare su casuali ritrovamenti cartacei (come ad esempio la rivista che avete in mano in questo momento) per ricostruire l’esistenza, la quotidianità e il linguaggio del lontano Homo sapiens del 2019, sempre che questa datazione (ossia quella stabilita dal calendario Gregoriano del 1582 rimarrà uno standard anche in futuro. Ad essere onesti, non lo è mai stato in passato e temo che non lo sarà nemmeno in futuro). Può anche darsi che il nostro archeologo non sarà nemmeno un sapiens ma un altro Uomo: in passato eravamo almeno 6 razze umane differenti. Siamo abitua- ◄

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Evoluzione

Linguaggio

ti a pensare a noi come gli unici

◄ umani, perché da diecimila anni

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in qua la nostra è stata in effetti l’unica specie umana in circolazione. Tuttavia, il vero significato della parola “essere umano” è “animale appartenente al genere Homo”, e c’erano molte altre specie di questo genus oltre all’Homo sapiens. Gli umani si evolsero per la prima volta in Africa Orientale circa due milioni e mezzo di anni fa da un precedente genere di primate chiamato Australopithecus, che significa “Scimmia dell’emisfero sud”. Circa due milioni di anni fa, alcuni maschi e femmine di questi umani arcaici lasciarono il loro territorio e cominciarono un viaggio stanziandosi in vaste aree del Nord Africa, dell’Europa e dell’Asia. Poiché nelle foreste nevose dell’Europa settentrionale la sopravvivenza richiedeva qualità differenti rispetto a quelle necessarie per sopravvivere nelle giungle umide dell’Indonesia, le popolazioni degli umani si evolsero in direzioni differenti. Il risultato fu il prodursi di tante specie distinte, a ciascuna delle quali gli scienziati hanno assegnato un pomposo nome latino. In Europa e Asia Occidentale gli umani si evolsero nell’Homo neanderthalensis (“Uomo della Valle di Neander”), e a loro ci si può anche riferire semplicemente con “i Neanderthal”. I Neanderthal, più massicci e muscolosi di noi Sapiens, si adattavano bene al clima freddo nell’Eurasia occidentale dell’era glaciale. Le regioni più orientali dell’Asia erano popolate dall’Homo erectus, che sopravvisse lì per due milioni di anni, il che fa di lui la specie umana durata di più al mondo. Tale record è improbabile che venga infranto dalla nostra stessa specie. È improbabile infatti che l’Homo sapiens sarà in circolazione fra una decina di secoli, per cui quei due milioni di anni paiono davvero al di fuori delle nostre possibilità. Sull’isola di Giava, in Indonesia, viveva l’Homo soloensis, l’“Uomo della Valle di Solo”, che si era ambientato alla vita nei tropici. Su un’altra isola

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indonesiana - la piccola isola di Flores - gli umani arcaici subirono un processo di rimpicciolimento. Erano arrivati a Flores quando il livello del mare era eccezionalmente basso e l’isola era facilmente accessibile dalla terraferma. Quando il mare salì di nuovo, alcuni individui rimasero intrappolati nell’isola, che aveva scarse risorse. Quelli più grandi e grossi, che avevano bisogno di molto cibo, morirono per primi. Meglio se la cavarono i mingherlini. Generazione dopo generazione, la gente di Flores diventò nana. Questa specie unica, nota agli scienziati come Homo floresiensis, raggiungeva l’altezza di un metro e non pesava oltre i 25 kg. Furono capaci comunque di produrre utensili di pietra e occasionalmente riuscirono ad abbattere anche alcuni elefanti presenti nell’isola - anche se, a dire il vero, anche questi ultimi erano di una specie nana. Nel 2010 è stato recuperato un altro fratello perduto quando alcuni scienziati, scavando nella caverna di Denisova in Siberia, scoprirono l’osso fossilizzato di un dito. L’analisi genetica dimostrò che il dito apparteneva a una specie umana fin lì sconosciuta, che ha preso il nome di Homo denisova. Mentre questi umani si evolvevano in Europa e in Asia, l’evoluzione in Africa Orientale non si era fermata. La culla dell’umanità continuò a nutrire numerose specie nuove, come l’Homo rudolfensis (l’“Uomo del Lago Rudolf”), l’Homo ergaster, (l’“Uomo industre”) e infine la nostra stessa specie, che con poca modestia abbiamo chiamato Homo sapiens: l’uomo intelligente, l’uomo che sa. I membri di alcune di queste specie erano di grande corporatura, altri erano nani. Alcuni erano tremendi cacciatori, altri quieti raccoglitori di piante. Alcuni vivevano su un’isola e solo lì, mentre molti altri migravano attraverso i continenti. Ma tutti appartenevano al genere Homo. Erano tutti degli esseri umani.

Discendenza e fusione. Uno sbaglio comune è quello di immaginare queste specie come ordinate in una stretta linea di discendenza, dove l’ergaster determina la venuta dell’erectus, l’erectus determina la venuta del Neanderthal e questi si evolve in quello che siamo noi. Questo modello lineare dà l’erronea impressione che in ogni particolare momento sia solo un tipo di umano a popolare la terra, e che tutte le specie precedenti siano semplicemente modelli più obsoleti di ciò che siamo noi. La verità è che da circa due milioni di anni fa e fino a circa diecimila anni fa, il mondo era la casa, contemporaneamente, di diverse specie umane. Perché mai non dovrebbe essere così? Oggi ci sono molte specie di volpi, di orsi, di maiali. La terra di centomila anni fa era calpestata da almeno sei differenti specie di uomo. A essere speciale - e forse incriminante - è la nostra attuale esclusività, e non il passato dalle molte specie. Nonostante le molte differenze, tutte le specie umane condividono certe caratteristiche distintive. Quella più saliente, è che gli umani hanno cervelli straordinariamente sviluppati rispetto agli altri animali. I mammiferi del peso di 60 kg posseggono in media un cervello di 200 cm3. Il Sapiens moderno sfoggia un cervello che misura in media 1200-1400 cm3. Il cervello del Neanderthal era ancora più grosso. Che l’evoluzione dovesse per forza propendere perché ci fossero cervelli più grandi, a noi può sembrare qualcosa di lapalissiano. Siamo talmente innamorati della nostra elevata intelligenza da presumere che quando si tratta di capacità cerebrale, più se ne ha, meglio è. Ma, se fosse stato così, la famiglia dei felini avrebbe prodotto anche esemplari in grado di fare calcoli. Come mai il genere Homo è il solo, nell’intero mondo animale, ad avere concepito queste poderose macchine del pensiero? Non c’è dubbio che un cervello grosso è un bel peso per il corpo. Non è facile portarselo in giro, specie se è


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inscatolato in un cranio massiccio. E ancora più impegnativo è il problema di alimentarlo. Nell’Homo sapiens il cervello vale circa il 3% del peso corporeo totale, ma consuma il 25% dell’energia del corpo quando questo è in stato di riposo. Gli umani arcaici pagarono il fatto di avere cervelli grandi passando più tempo alla ricerca di cibo. Oggi i nostri grossi cervelli vanno benissimo, perché siamo capaci di produrre automobili e armi che ci consentono di spostarci più velocemente degli scimpanzé ed eventualmente di sparargli da una distanza di sicurezza invece di lottare corpo a corpo. Ma le macchine e i fucili sono fenomeni recenti. Per oltre due milioni di anni i sistemi neuronali umani hanno continuato a crescere ma, a parte qualche coltello di selce e di punte d’osso, avevano ben poco di prezioso da ostentare. Durante quei due milioni di anni, cosa ha spinto l’evoluzione del cervello umano perché diventasse così grande? Francamente, non si sa. E gli umani in quei due milioni d’anni sono rimasti creature deboli e marginali. Gli umani di un milione di anni fa, nonostante i loro grandi cervelli e gli affilati utensili di selce, vivevano nella costante paura dei predatori, raramente cacciavano selvaggina di grossa taglia e vivevano sostanzialmente raccogliendo piante, piluccando insetti, seguendo le piste di piccoli animali e mangiando le carogne di altri carnivori più possenti. E calcolando tutte le specie insieme, tutti gli umani erano circa un milione di esemplari compresa la nostra, l’Homo sapiens, relegata in un angolo dell’Africa. Gli scienziati concordano anche sul fatto che circa settantamila anni fa i Sapiens si sono diffusi dall’Africa Orientale nella Penisola araba e, da lì, si sono distribuiti velocemente nelle più diverse regioni euroasiatiche. Quando l’Homo sapiens approdò in Arabia, numerose parti dell’Eurasia contavano già insediamenti di altri umani. E cosa successe dopo? Esistono due teorie contrapposte. La Teoria della fusione

Figura 6.1 - Immaginari archeologi del futuro potrebbero trovarsi

dvanti a resti di una civiltà muta: tempeste solari, degradazione dei dispositivi, cambiamenti tecnologici, potrebbero far scomparire i resti materiali della nostra civiltà attuale.

parla di attrazione, sesso e mescolanza. Propagandosi per il mondo, gli immigrati africani si congiunsero con altre popolazioni umane, e ciò che siamo oggi è il risultato di questa fusione. Se le cose sono andate in questo modo, vuol dire che gli euroasiatici non sono puri Sapiens ma una mescolanza di Sapiens e Neanderthal. Allo stesso modo, quando i Sapiens raggiunsero l’Asia orientale si incrociarono con i locali Erectus, per cui i cinesi e i coreani sono una mescolanza di Sapiens e di Erectus. Teoria del rimpiazzamento. All’opposto, la Teoria del rimpiazzamento racconta una storia molto diversa, fatta di incompatibilità, revulsione e genocidio. Secondo questa teoria, i Sapiens e altri umani possedevano anatomie differenti, e molto probabilmente differenti consuetudini di accoppiamento e persino differenti odori corporali. Avrebbero avuto scar-

so interesse sessuale, gli uni con gli altri. E anche in caso di accoppiamento non avrebbero avuto figli fertili, perché il divario genetico che separava le due popolazioni era già incolmabile. Le due popolazioni rimasero completamente distinte, e quando i Neanderthal si estinsero, o furono fatti fuori, i loro geni morirono con loro. Secondo questa concezione, i Sapiens rimpiazzarono tutte le precedenti popolazioni umane senza fondersi con esse. Se le cose sono andate così, la discendenza di tutti gli umani contemporanei può esser fatta risalire, in modo esclusivo, all’Africa Orientale di settantamila anni fa. Siamo tutti dei “puri Sapiens”. Negli scorsi decenni, a dettare legge è stata la Teoria del rimpiazzamento ma ciò ebbe termine nel 2010, quando furono pubblicati i risultati di quattro anni di ricerca per mappare il genoma dei Neanderthal. Risultò che una porzione tra l’1 e il 4 % del ◄

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Evoluzione

Linguaggio

◄ DNA umano delle popolazioni

moderne del Medio Oriente e dell’Europa è DNA neanderthaliano. Non è una quantità enorme, ma è pur sempre rilevante. Venne poi mappato il DNA ricavato dal dito fossilizzato proveniente da un Denisova e i risultati dimostrarono che fino al 6% del DNA umano dei moderni malesi e aborigeni australiani è DNA denisovano. Questo non significa però che la Teoria del rimpiazzamento sia completamente sbagliata: poiché i Neanderthal e i Denisova hanno contribuito solo con una piccola quota di DNA al nostro genoma attuale, è impossibile parlare di una “fusione” tra Sapiens e altre specie umane. Benché le differenze tra di esse non siano state così enormi da impedire del tutto una congiunzione fertile, lo furono però abbastanza per rendere molto rari questi contatti. La sopravvivenza dell'Homo sapiens. Come dovremmo quindi intendere le relazioni biologiche tra Sapiens, Neanderthal e Denisova? Chiaramente non erano specie totalmente differenti tra loro come lo sono i cavalli e gli asini. D’altro canto non erano neppure popolazioni differenti della stessa specie, come i bulldog e gli spaniel. Ma se i Neanderthal, i Denisova e altre specie umane non si fusero con i Sapiens, perché sono scomparsi? Una possibilità è che a portarli all’estinzione sia stato l’Homo sapiens. Pensate a un gruppo di Sapiens che arriva in una vallata dei Balcani dove per centinaia di migliaia di anni erano vissuti dei Neanderthal, cosa può succedere? Una delle teorie più accreditate ci dice che la competizione per usufruire delle risorse disponibili sia stata causa di violenze e genocidi. La tolleranza non è una caratteristica dei Sapiens. Che tipo di culture, di società e di strutture politiche sarebbero venute fuori da un mondo in cui fossero coesistite diverse specie umane differenti tra loro? Come si sarebbero sviluppate le fedi religiose? Il libro della Genesi

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avrebbe forse dichiarato che i Neanderthal discendono da Adamo ed Eva, Gesù sarebbe forse morto per i peccati dei Denisova, e il Corano avrebbe forse riservato posti in cielo a tutti gli uomini giusti, a prescindere dalla loro specie? Sarebbero stati in grado, i Neanderthal, di servire nelle legioni romane o nella sterminata burocrazia della Cina imperiale? Negli ultimi diecimila anni l’Homo sapiens si è talmente assuefatto a rappresentare l’unica specie umana da rendere difficile per noi concepire che possano esistere altre possibilità. Noi siamo il compendio della creazione, e tra noi e il resto del regno animale c’è un abisso. Quando Charles Darwin dichiarò che l’Homo sapiens era solo un altro tipo di animale, la gente s’infuriò e ancora oggi molti si rifiutano di crederci. Se i Neanderthal fossero sopravvissuti, continueremmo a pensare di essere creature speciali? Forse questo è esattamente il motivo per cui i nostri antenati hanno eliminato i Neanderthal. C’era troppa familiarità con loro perché si potesse ignorarla, ma anche troppa differenza perché si potesse tollerarla. Fossero o no colpevoli, a cosa si doveva il successo dei Sapiens? Come potemmo insediarci così rapidamente in così numerosi habitat, distanti ed ecologicamente differenti? Come facemmo a relegare nell’oblio tutte le altre specie umane? Perché neppure i forti, intelligenti e temprati Neanderthal riuscirono a sopravvivere al nostro furioso assalto? Il dibattito in merito è ancora in corso. La risposta più probabile è proprio quella che rende possibile il dibattito: l’Homo sapiens conquistò il mondo grazie soprattutto al suo linguaggio unico. Il periodo che va da settantamila fino a circa trentamila anni fa assistette all’invenzione delle imbarcazioni, delle lampade a olio, degli archi, delle frecce e degli aghi, essenziali per cucire gli indumenti che riparavano dal fred-

Figura 7.2 - Nella nostra specie

il linguaggio non ha solo una funzione primaria di segnalazione del cibo, di pericoli, ecc, ma ha anche una forte valenza sociale.

do. I primi oggetti che possono sicuramente essere chiamati oggetti d’arte e di gioielleria risalgono a quest’epoca, così come la prima incontrovertibile testimonianza che esistevano la religione, il commercio e la stratificazione sociale: l’uomo-leone di Stadel. La comparsa di nuovi modi di pensare e di comunicare, costituisce in effetti la Rivoluzione cognitiva ma cosa fu a determinarla non lo sappiamo con precisione. La teoria più diffusa sostiene che accidentali mutazioni genetiche modificarono le circonvoluzioni del cervello dei Sapiens, consentendogli di pensare in forme prima inesistenti, e di comunicare usando nuovi tipi di linguaggio. Come mai questo accadde nel DNA dei Sapiens e non in quello dei Neanderthal? Per quanto ne sappiamo, fu un puro caso. Imposizione del linguaggio. Il nostro linguaggio, naturalmente, non è né il primo né l’unico linguaggio esistente. Ogni animale ha un suo tipo di lin-


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guaggio. Tutti gli insetti, come le api e le formiche, sanno comunicare tra loro e lo fanno in modi sofisticati, informandosi reciprocamente sui posti dove si può trovare cibo. Il cercopiteco verde usa richiami di vario tipo con i quali comunica delle cose. Ma il nostro linguaggio si è evoluto all’interno di piccole comunità, non per segnalare la presenza di cibo o di pericoli esterni ma per condividere informazioni sul mondo sociale. All’essere umano non basta sapere dove sono i leoni o i bisonti, bensì chi, nel loro gruppo, odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione. Il fatto di avere informazioni attendibili riguardo agli individui di cui ci si poteva fidare dette l’opportunità di ampliare i ranghi del gruppo, e i Sapiens poterono sviluppare più stretti e più sofisticati tipi di cooperazione. Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la Rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attenzione! Un leone!”. Grazie alla Rivoluzione cognitiva, l’Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù.” E la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di far-

Anemos neuroscienze

lo collettivamente. Quando da sparpagliate tribù si è passati a regni e imperi, l’importanza di un linguaggio collettivo è diventata pressante e per avere una gestione fluida la Cina imperiale aveva un complesso sistema burocratico gestito da una élite di eunuchi. L’impero romano aveva introdotto la romanizzazione, basata su 4 pilastri: l’adozione di nomi romani, della lingua latina, sostituzione delle proprie leggi con il diritto romano e la diffusione di istituzioni tipicamente romane come le terme, il culto dell’imperatore o i combattimenti gladiatori. Col tempo i vinti si sarebbero sentiti pienamente romani. L’imposizione quindi del proprio linguaggio o del proprio modo di pensare (attraverso il diritto o il culto dei propri miti), facendo balzi in avanti fino al XX secolo, lo ritroviamo anche nella storia più recente con il mito degli Stati Uniti nel blocco occidentale e della Russia in quello comunista. L’importante differenza con il mondo che si sta delineando ora è sempre stato nell’élite di controllo. Fino all’era pre-internet (che potremmo sommariamente portare fino alla fine del XX secolo) ai governi dei singoli paesi era demandato l’equilibrio e la gestione della propria comunità e delle relative forze in gioco. Il mondo era meno globalizzato e si stava seguendo un processo molto più lineare di quello prospettato da Hobsbawm. Anche il linguaggio seguiva l’evoluzione propria della comunità che rappresentava, con alcune influenze (come gli anglicismi qui in Italia) che ad onor del vero ci sono sempre state. Dall’era di Internet abbiamo invece un manipolo di ingegneri, come quelli di Google, Facebook, ecc., che indifferenti alla storia e alla cultura delle diverse comunità (e senza essere stati eletti da nessuno!), controlla e gestisce i dati personali di milioni di individui. Se da un lato questa totale mancanza di privacy può portare a (non così fantasiosi) scenari distopici, dall’altro

crea comunità virtuali trasversali alla nazionalità dei singoli individui con proprie regole e propri linguaggi. Ma non è possibile immaginare come questo evolverà. Per la prima volta nella Storia, non è possibile immaginare come sarà il mondo tra 30 anni: fino alla fine del XX secolo, infatti, potevi non sapere quale forza politica sarebbe stata al governo 30 anni dopo, ma potevi immaginare che le regole della società nella quale vivevi sarebbero rimaste tali, come il lavoro, l’importanza del singolo individuo nella società, ecc. Queste regole sono un'evoluzione del linguaggio iniziato da Sapiens per l’immaginazione collettiva trattata poc’anzi. La religione, le leggi, e tutto quanto non sia tangibile sono parte di questa evoluzione del linguaggio. Di sicuro, la tecnologia (e la bio-tecnologia che sta già entrando nel nostro quotidiano, come il riconoscimento vocale o dell’impronta digitale nel nostro smartphone) sarà protagonista in questo nuovo cammino dell’Uomo. E visto che la tolleranza non è una caratteristica di noi Sapiens, cosa possa emergere da questo connubio non è possibile saperlo, né a livello sociale, né per quanto riguarda l’evoluzione del linguaggio. Possiamo solo fare una fotografia della situazione attuale: ma consiglio di farla stampare, se vogliamo che il nostro archeologo la trovi. Bibliografia

La parte sulla preistoria e la rivoluzione cognitiva è liberamente tratta da Yuval Noah Harari - Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità. Bompiani, 2015.

Gian Marco Fulgeri. Laureato in Filosofia all’Università di Bologna, ha conseguito due Master in Psicologia Clinica e in Marketing Management. Allievo di Enrico Ghidoni e Giacomo Stella, ha pubblicato diversi articoli e condotto ricerche sugli aspetti emotivi e la costruzione dell’identità nella dislessia. Attualmente è manager in una multinazionale ed è consapevole di avere ben più del 4% di gene neanderthaliano nel proprio DNA.

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tradurre o l'estetica del "quasi"

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di Silvia Bruti

parole chiave. Traduzione, cultura, approssimazione, negoziazione, Pinocchio, comunicazione. Abstract. Il testo tratta della natura della traduzione in termini sia interlinguistici (da una lingua ad un'altra), sia in senso più ampio (es. “tradurre” un romanzo in una serie televisiva), perché i presupposti concettuali sono simili in queste due accezioni del tradurre. Importante è il concetto di “equivalenza”, tra testo di partenza e testo di arrivo, e, sulla scorta di Umberto Eco, si può parlare della traduzione come opera di approssimazione, o anche come negoziazione. L'articolo esamina alcuni esempi di traduzione dall'italiano all'inglese de Le Avventure di Pinocchio di C. Collodi. Si riportano, inoltre, esempi di malintesi e problemi traduttivi nell'ambito della comunicazione contemporanea a motivo della mancata conoscenza del contesto culturale di arrivo.

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Anemos

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ella traduzione, e dei traduttori, ci sarà sempre bisogno, nonostante la diffusione dell’inglese come lingua franca della comunicazione globale, l’evoluzione di programmi di traduzione assistita, o, addirittura, le sempre più sofisticate applicazioni automatizzate che traducono simultaneamente e in tempo reale in più lingue. Tuttavia, insieme a questa necessità continueranno a diffondersi e propagarsi una serie di pregiudizi e luoghi comuni cristallizzatisi nel tempo attorno alla professione del traduttore, il famoso “traduttore/traditore”, così come gli altrettanto triti stereotipi sul tradurre, quali la traduzione “bella e infedele” o “brutta e fedele”, eviden-

neuroscienze

temente impregnati da un’ideologia misogina. Tradurre significa condurre da un luogo all’altro e questo movimento si è prestato nel tempo a indicare vari tipi di relazione tra testi appartenenti anche a generi e mezzi diversi: sulla scorta di una fortunata definizione di Jakobson (1959), tradurre non significa soltanto trasporre da una lingua ad un’altra, la cosiddetta traduzione interlinguistica, l’accezione più diffusa, potremmo dire di default, ma anche parafrasare nella stessa lingua, cioè riformulare a scopo divulgativo, o ancora veicolare il messaggio attraverso segni appartenenti a un diverso sistema semiotico (la cosiddetta traduzione intersemiotica). Quest’ultimo tipo trova nella realtà quotidiana un’ampia

gamma di manifestazioni, ad esempio nella trasformazione di un romanzo in serie televisiva (il recentissimo La verità sul caso Harry Quebert), di un testo teatrale in film (si menziona, a titolo esemplificativo, il vasto numero di più o meno fortunati adattamenti cinematografici dal canone shakespeariano) o, ancora, di un poema in graphic novel (si veda l’esempio del Beowul, adattamento dalla più celebre epica anglosassone, pubblicato nel 2015 con disegni di David Rubín e sceneggiatura dello scrittore spagnolo Santiago García). Un altro assunto spesso chiamato in causa è l’impossibilità della traduzione, al contempo limite dichiarato e giustificazione addotta per un’operazione indiscutibilmente comples- ◄

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Linguistica ◄ sa. Per spiegare se una traduzione

sia possibile o meno, è necessario richiamare un altro concetto chiave, l’equivalenza, dinamica (o funzionale) e formale, per dirla con le parole di Eugene Nida (1964, 1969). Il tipo di equivalenza da perseguire non è stabilita a priori, ma occorre valutare di volta in volta se sia cruciale rimanere il più possibile aderenti al testo fonte, ricalcandone le partizioni e l’organizzazione formale, o cercare di assolvere le medesime funzioni, sfruttando un più elevato grado di elasticità, spesso eludendo alcuni vincoli linguistici a favore di una maggiore scorrevolezza e idiomaticità del testo d’arrivo. Il felicissimo titolo di Umberto Eco (2003), “dire quasi la stessa cosa”, rende conto del fatto che un’approssimazione asintotica è senz’altro un concetto che definisce in modo più realistico ciò che accade nel tradurre: molte volte un’aderenza totale al dettato del

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testo fonte non è materialmente possibile, a causa di asimmetrie linguistiche o culturali tra le lingue coinvolte; ma spesso è arduo anche stabilire che cosa sia necessario dire, quale sia la cosa da dire. Nella prefazione al libro menzionato sopra, Eco sottolinea concisamente come tutto si riduca all’“elastic[ità del] quasi”„. Ancora meglio del concetto matematico di approssimazione, che potrebbe far sembrare la traduzione un’operazione oggettiva e meccanica, è più utile parlare di negoziazione, utilizzando un termine usato di frequente negli studi sulla comunicazione, termine che sottintende gli attori e il contesto coinvolti nel tradurre. Ogniqualvolta ci si accinge a tradurre un testo bisognerà considerare tanto il contesto di produzione di partenza quanto quello di arrivo, il contesto di ricezione (anche qui sia dell’opera originale sia della sua traduzione), il

pubblico dei destinatari, i riferimenti culturali presenti e, di conseguenza, la lontananza tra la cultura di partenza e quella di arrivo, e la distanza temporale, ovvero lo iato tra il momento di elaborazione dell’originale e quello della traduzione. In quanto segue passeremo rapidamente in rassegna questi parametri di riferimento attraverso alcuni esempi tratti perlopiù da testi inglesi e italiani, consapevoli che scegliere lingue e culture più lontane avrebbe comportato con tutta probabilità maggiori ostacoli e difficoltà. Prendiamo un testo italiano celeberrimo, uno dei più tradotti al mondo, che vanta traduzioni anche in lingue morte, poco diffuse e artificiali, Le avventure di Pinocchio, romanzo pubblicato in tale forma nel 1883 da Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini. Lorenzini aveva iniziato a scrivere di Pinocchio a puntate, sul Giornale per i bambini, ma, visto il suc-

Figura 8.1 - In basso a sinistra una delle illustrazioni dell'edizione originale di Pinoccio. In centro un'edizione inglese. A fianco un fotogramma del lungometraggio animato Disney. Quest'ultimo, non tiene conto del contesto culturale dell'Italia ottocentesca, e rielabora un Pinocchio rivisitato e addolcito.

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cesso, fu costretto prima a ‘risuscitare’ un Pinocchio quasi morto (l’episodio dell’impiccagione di Pinocchio alla quercia, che diventerà poi il capitolo XV del romanzo) e a proseguirne le avventure, per pubblicare poi l’intera storia in forma di volume. Nell’avvicinarsi a Pinocchio è necessario ricostruire il panorama sociale, letterario e culturale dell’epoca in cui il suo autore scriveva, un’Italia post-unitaria, nella quale era viva la preoccupazione per l’educazione dei giovani e dominava ancora una produzione letteraria di stampo naturalista, rivolta già a un pubblico borghese, e dunque non scevra da spunti moralistici e pedagogici. L’autore, tuttavia, non manca di descrivere in modo autentico, talvolta pungente e ironico, il mondo contadino di Pinocchio, la povertà, la cattiveria, la debolezza, e perfino la bizzarria degli uomini della giustizia, che, anziché proteggere i deboli, spesso li vessa. Come molti critici hanno sottolineato, la fortuna di Pinocchio è dipesa proprio dalla doppia lettura che l’opera autorizza: da un lato è un romanzo di formazione ricco di elementi fantasiosi e avventurosi, sicuramente destinato a lettori più giovani, dall’altro propone un’implacabile sa-

neuroscienze

tira sociale dell’epoca per un pubblico più adulto, interessato al contesto storico-politico italiano (più precisamente toscano) di fine Ottocento. Questa seconda e meno evidente trama è del tutto ignorata nell’adattamento di Disney, per il quale la fiaba educativa diventa centrale, anche se epurata da tutti gli elementi pericolosi e crudeli. Si riporta di seguito un esempio dall’originale e da alcune delle numerosissime traduzioni in lingua inglese. Dal momento che la maggior parte dei personaggi, ad eccezione di pochi, tra i quali la Fata e Mangiafuoco, vive in condizioni di povertà, Collodi spesso rappresenta linguisticamente la felicità o l’opulenza attraverso metafore legate alla sfera del cibo: “E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo: - Come stai, mio caro Lucignolo? - Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano” (capitolo XXXII). Così Lucignolo, l’amico scapestrato di Pinocchio, come lui già avviatosi alla metamorfosi in asino a causa della condotta sconsiderata, finge noncuranza e si dice beato. A parte il toscanismo “cacio”, termine ridondante accanto all’iponimo “parmigiano”, l’espressione connota abbondanza,

attraverso l’allusione alla forma intera e a un alimento ricco, di solito non presente sulle tavole dei contadini. La maggior parte delle traduzioni in inglese, a cominciare dalla prima di Mary Alice Murray (del 1892, rivista nel 1951 da Giovanna Tassinari), che orienta in qualche misura tutte le successive, opta per una traduzione trasparente, molto vicina all’originale. Riporto quella di Murray qui di seguito: And pretending to have noticed nothing he asked him, smiling: ‘How are you, my dear Candlewick?’ ‘Very well, as happy as a mouse in a Parmesan cheese.’ (Murray 1892: 136)

Anche traduzioni più recenti, quali quella dell’americana Carol Della Chiesa (del 1926, ma diffusa in rete attraverso il progetto Gutenberg) e quella attualissima di Gloria Italiano (2007), mantengono l’espressione “parmesan cheese”, per ragioni di fedeltà, naturalmente, ma anche perché il parmigiano è un prodotto alimentare di qualità, conosciuto e apprezzato in ambito anglosassone. Nella traduzione accademica e colta di Ann Lawson Lucas (1996), invece, la traduttrice compie una scelta che ‘avvicina’ il testo ai lettori e sostituisce il formaggio parmigiano con il cheddar, tipico formaggio a pasta dura, di colore variabile dal giallo all’arancione, prodotto originariamente nel Somerset e da lì poi in tutti i paesi anglosassoni. And pretending not to have noticed anything, he asked him, smiling,

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Linguistica ◄

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‘How are you, my dear Candle-wick?’ ‘Fine! Like a mouse in a cheddar cheese.’ (Lawson Lucas 1996: 133)

Una scelta che sicuramente rende il referente evocato dal testo più immediato e quotidiano, ma ci si potrebbe chiedere quanto questo riferimento culturale sia coerente con lo scenario originale dell’Italia di fine Ottocento tratteggiato da Collodi, che, in qualche modo, dovrebbe trasparire anche da una traduzione. Ma passiamo ad esempi più recenti, tratti da ambiti non letterari. Tra l’altro, nell’immaginario collettivo si pensa che il traduttore si cimenti soltanto con testi letterari quando invece la maggior parte dei testi da tradurre sono scientifici, legali, economici, turistici, tecnici, pubblicitari e le attività del traduttore spesso non includono soltanto la traduzione interlinguistica, ma la revisione, la localizzazione, la transcreazione. Questi ultimi due termini si riferiscono alle operazioni di adattamento di un testo alla cultura ricevente, in modo che esso risulti fruibile e rispettoso delle norme culturali, spesso non scritte ma facenti parte dell’enciclopedia dei parlanti. Nell’ambito della pubblicità, molti sono gli errori, da piccole sviste fino a malintesi grossolani e imbarazzanti. La rete riporta un impietoso campionario di inesattezze traduttive, a volte linguistiche, a volte culturali. Un caso tra tanti è quello della compagnia scandinava di elettrodomestici Elettrolux, la quale, nel predisporre la campagna pubblicitaria per il lancio di un aspirapolvere sul mercato americano, elaborò il seguente slogan: “Nothing sucks like an Electrolux.” Chi tradusse cadde nella trappola della polisemia, perché il termine “suck” significa sì ‘succhiare, aspirare’ ma nel suo impiego figurato e slang, tra l’altro diffusissimo nel parlato, vuol dire ‘fa schifo’. Insomma, prendendo a prestito una metafora calcistica, uno sciagurato autogol. In questo caso, dicevamo, un errore imputabile a chi ha tradotto. A volte, tuttavia, ci sono casi di vere e

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proprie lacune lessicali tra una lingua e l’altra: è noto, a partire dagli studi dell’antropologo americano Boas, come la lingua di un popolo ne rifletta lo stile di vita e la cultura. In altre parole, le lingue ‘ritagliano’ in modo diverso il vocabolario sulla base delle esperienze e del contesto. In traduzione non rimane che affidarsi a perifrasi esplicative, funzionali sì, ma certo meno pregnanti e suggestive. Riporto di seguito alcuni esempi, che traggo da un delizioso libro di Ella Frances Sanders, intitolato, per l’appunto, Lost in translation (2014). Il tedesco ha un sostantivo implacabile, Kummerspeck, letteralmente ‘pancetta da stress’, per indicare i chili di troppo da ascriversi alla fame nervosa, quando il cibo deve compensare carenze affettive e attenuare una negatività di fondo. In finlandese poronkusema significa ‘la distanza che una renna può compiere comodamente prima di dover fare una pausa’, una misura che può sembrare imprecisa, ma che è invece definibile intorno ai sette chilometri e mezzo. Non è difficile capire come la necessità di questo sostantivo scaturisca dal paesaggio e dalla realtà delle zone nevose del nord Europa. Delicato e poetico è il sostantivo farsi tiám, che fotografa lo scintillio negli occhi al primo incontro, una specie di raggio di sole che una persona trasmette con lo sguardo. Altrettanto emozionale è il brasiliano cafuné, l’atto di passare dolcemente le dita tra i capelli della persona amata, che tradisce un’intimità profonda e rassicurante. Passando a un caso di transcreazione nel quale i segni linguistici non sono affatto coinvolti, ricordo una sgradevole gaffe occorsa in campo pubblicitario. Il marchio tedesco Puma, produttore di abbigliamento e calzature sportive, nel 2011 lanciò sul mercato una scarpa con i colori della bandiera degli Emirati arabi per celebrarne il quarantesimo anniversario. La reazione nel paese fu tutt’altro che positiva: il gesto fu interpretato come irrispettoso, dal momento che si erano im-

Figura 8.2 - Il fortunato libro

di Umberto Eco sulla traduzione ha avuto il merito di chiarire come l'atto traduttivo non sia un procedimento univoco e preciso, ma un "dire quasi la stessa cosa" Nella pagina accanto il libro di Ella Frances Sanders, Lost in translation, che riporta interessanti esempi ditermini culturalmente specifici e difficilmente traducibili.

piegati i colori della bandiera su una scarpa, oggetto destinato al contatto con il terreno e dunque a coprirsi di fango e sporcizia. O ancora, la grande multinazionale Procter and Gamble, che sbagliò completamente il packaging dei pannolini Pampers per il mercato giapponese, mantenendo sulla confezione l’immagine della cicogna del prodotto destinato al mercato occidentale, trascurando di considera-


Anemos

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neuroscienze

in questo senso esperienza e messa in opera delle differenze.

Bibliografia Borutti, S. Note sull’intraducibile, Repères DoRiF Les voix/voies de la traduction - volet n.1 - coordonné par Laura Santone - octobre 2015, http:// dorif.it/ezine/ezine_printarticle.php?id=252 Della Chiesa, C. The Adventures of Pinocchio, 1926. Eco, U. Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano, 2003. Italiano, G. The adventures of Pinocchio, the puppet, Spring, Caserta 2007. Jakobson, R. On linguistic aspects of translation. In: Brower, Reuben A (a cura di), On Translation, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1959, pp. 232-239. Lawson Lucas, A. The Adventures of Pinocchio, Oxford University Press, Oxford, 1996. Lorenzini, C. Le avventure di Pinocchio, Felice Paggi editore, Firenze, 1883. Murray, M.A. The Adventures of Pinocchio, Fisher Unwin, Londra, 1892. Nida, E. Toward a science of translating with special reference to principles and procedures involved in Bible translating, Leiden, 1964. Nida, E. Science of translation, in Language 45/3 (1969), pp. 483-498. Sanders, E.F. Lost in translation, Square Peg, Londra, 2014 (trad. it. di I. Piperno, Marco y Marcos, Milano).

re se sarebbe stata appropriata. Nel folklore giapponese non c’è nessuna cicogna dietro l’arrivo di un neonato, ma una pesca: una fiaba popolare racconta infatti la nascita di Momotaro da dentro una pesca gigantesca, trovata lungo il fiume da una donna anziana e senza figli. Sostituire la cicogna con la pesca sulla confezione fu sufficiente a rilanciare gli acquisiti. Entrambi i casi attirano l’attenzione sul fatto che, a volte, la mediazione culturale trascende le parole ma i rischi permangono perché è necessario padroneggiare non solo la lingua di un popolo, ma anche le tradizioni, la simbologia, la cultura declinata in tutti i suoi ambiti, dal letterario al popolare. Per concludere queste brevi riflessioni, vorrei sottolineare come l’attività traduttiva, per quanto sempre una

sfida, non comporti necessariamente una perdita, ma un confronto tra lingue (e culture) che può essere un arricchimento. Nelle parole di Silvana Borutti (2005): nella traduzione le lingue si arricchiscono: si scambiano (e si rubano) significati, rompono chiusura e provincialismo e comunicano la propria specifica forza significante, potenziandosi a vicenda e potenziando la propria capacità di ospitare l’altro. In questo senso, tradurre è un’operazione innovativa di attraversamento, trasmissione e metamorfosi, in quella situazione che siamo abituati a chiamare babelica in senso negativo, come confusione, ma che va considerata come l’incontro arricchente delle lingue plurali, e insieme l’assunzione dei limiti di ciascuna. La traduzione è

Silvia Bruti. Dottore di ricerca in Anglistica, è attualmente Professore Associato di Lingua Inglese e Linguistica presso l’Università di Pisa e Direttore del Centro di linguistico dell’Ateneo. I suoi interessi di ricerca includono argomenti quali l’analisi del discorso, la pragmatica (storica), la linguistica dei corpora, la traduzione audiovisiva e la didattica della lingua inglese. Ha pubblicato numerosi lavori in questi ambiti e ha contribuito a conferenze nazionali e internazionali. Si è dedicata in particolare a questioni di pragmatica interculturale e alla traduzione audiovisiva, studiando ad esempio la traduzione di complimenti, le routine di conversazione e i vocativi nei sottotitoli interlinguistici e nel doppiaggio. Tra le sue pubblicazioni più recenti una monografia sulla traduzione della cortesia (2013) e un volume in collaborazione sulla sottotitolazione interlinguistica (2017).

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Glottodidattica

Insegnamento e apprendimento delle lingue un ponte tra culture

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di Carlos Melero

parole chiave. intercultura, gesti, comunicazione, proposizioni. Abstract. L'insegnamento e l'apprendimento di una lingua straniera devono tener conto non solo dellacompentenza linguistica in senso stretto (conoscenza del lessico e della grammatica), ma anche di fattori extralinguistici e culturali che spesso danno significati diversi e creano fraintendimenti. L'articolo analizza alcuni aspetti di questo porsi delle lingue come "ponti" tra cultura (gesti, tono della voce, ecc).

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ntroduzione. Cos’è imparare una lingua? Cos’è insegnare una lingua? Sono due domande sulla stessa realtà che si possono porre diversi soggetti: lo studente che si chiede cosa studiare, il docente che si chiede che cosa insegnare. La risposta alle domande iniziali è complessa e rimandiamo al lavoro di Paolo Balboni Le sfide di Babe-

le (Utet, 2015) per una risposta più dettagliata. Al momento ci può bastare indicare che sapere una lingua è saper comunicare in quella lingua. Questo ci porta a chiederci che cosa sia comunicare, e qui scegliamo una risposta semplice: comunicare è la trasmissione efficace di messaggi. Per raggiungere questa efficacia, dobbiamo capire quali siano le componenti della comunicazione in modo

da poterle poi studiare (se sono uno studente) o insegnare (se sono un docente). Queste componenti vengono indicate nel grafico seguente che illustra il modello di competenza comunicativa. Si veda figura nella pagina a fianco. Il grafico si legge in questo modo: la competenza comunicativa è una realtà mentale che si realizza nel mondo Nella mente abbiamo il sapere la lin-


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gua, che comprende tre grandi competenze: 1- Linguistica: è la capacità di produrre e capire enunciati corretti dal punto di vista fonologico, morfosintattico, testuale e lessicale-semantico. 2 - Extralinguistica: è la capacità di produrre e capire i gesti (cinesica), la distanza interpersonale (prossemica), il valore comunicativo degli oggetti e vestiti (oggettemica e vestemica). 3 - Sociopragmatica e (inter)culturale: la capacità di usare la lingua in contesto (sociale, pragmatico e culturale); dalla mente queste competenze passano al mondo tramite le abilità linguistiche, cioè, il saper fare lingua (leggere, scrivere, ascoltare, parlare); E questa lingua che viene prodotta, viene inserita in un mondo concreto, in un momento concreto, con un obiettivo concreto; vale a dire, la lingua italiana che noi usiamo cambia in base a molti elementi: se parlo con l’amico al bar o con il capo in ufficio, se sono nell’intimità o difronte a 50 persone, si tratta del saper fare con la lingua Di seguito ci concentreremo sulla competenza sociopragmatica e interculturale e come questa viene poi realizzata nel mondo (saper fare con la lingua) per vedere come imparare una lingua straniera implica imparare molte altre cose oltre la morfosintassi e come questo può arricchire la persona.

Problemi nella comunicazione interculturale. Meglio cominciare con un esempio. Immaginiamo di vedere queste due frasi in due lingue che appartengono a culture molto vicine, quali italiano e spagnolo: Vieni a casa mia a prendere un caffè dopo pranzo. Ven a mi casa a tomar un café después de comer. Due frasi che, apparentemente, trasmettono a chi le sente un’idea identica. Ma proviamo a guardale da una prospettiva interculturale. Vieni a casa mia / ven a mi casa: vengono interpretate in modo molto simile, vale a dire, "avvicinati al posto dove io abito”. A prendere un caffè / a tomar un café: qui cominciamo a trovare alcune differenze. Tendenzialmente, nel nord d’Italia, si intende un caffè (e non altro) e, non un caffè qualsiasi, ma quel caffè che di solito si beve subito dopo aver finito di mangiare, dunque, si pranza a casa propria e poi ci si alza e si va a casa dell’amico per prendere il caffè. Di conseguenza, dipende a che ora si pranza in quella zona, si arriverà tra le 13 e le 14:3015:00 a casa dell’amico. Nel sud d’Italia, quando si dice un caffè s’intende (tendenzialmente) non solo il caffè di prima (quello dopo pranzo), ma si intende bere qualcosa assieme, magari anche mangiare, cioè stare un

Competenza linguistica Competenza extralinguistica Competenza sociopragmatica e (inter)culturale

Anemos neuroscienze

Padronanza della abilità Saper "fare" lingua

po’ assieme. Noi spagnoli (l'autore è di origine spagnola, ndr), interpretiamo questo café, proprio in questo secondo senso, cioè, bere o mangiare qualcosa insieme, stare in compagnia. Dopo pranzo / Después de comer: In Spagna, oltre ad intendere un café come viene intenso nel sud d’Italia, intendiamo il después de comer in modo più ampio, vale a dire, si pranza a casa propria, ma si prende anche il caffè di dopo pranzo, ma poi si sistema la cucina, si fanno altre cose e, quando tornano i bambini da scuola (cioè, verso le 17.00) si va a casa dell’amico e si “fa merenda” assieme, si sta in compagnia e i bimbi giocano. Dunque, mentre l’italiano arriva dopo aver pranzato (e dunque, bisogna sapere a che ora si pranza in determinata zona dell’Italia per capire a che ora arriverà il mio ospite), lo spagnolo, dopo aver ricevuto lo stesso identico invito, arriva molto più tardi (cioè, sulle cinque – cinque e mezza). Tenendo questo presente, possiamo pensare a tre situazioni per uno spagnolo che fa questo invito ad un italiano: a) Produce un enunciato completamente corretto dal punto di vista linguistico ma aspetta l’amico alle 17.00 (che poi arriva prima); b) Produce un enunciato non del tutto corretto dal punto di vista linguistico (forse sbaglia la pronuncia, o la forma del verbo) ma attende l’amico all’ora adeguata; ◄

Capacità di agire socialmente con la lingua (saper fare con la lingua)

Figura 9.1 - Modello di competenza comunicativa di Balboni (2012).

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Glottodidattica ◄ c) Produce un enunciato completamente corretto dal punto di vista linguistico e aspetta l’amico all’ora adeguata. L’obiettivo del docente di lingue sarà che il proprio studente raggiunga c), ma tra a) e b), dobbiamo intendere che lo studente b) è stato più efficace comunicativamente (ma meno corretto). Questo è perché entrano in gioco le competenze interculturali, quello che Balboni chiama il software of the mind, cioè, come un messaggio viene poi interpretato culturalmente. Partendo da questo, possiamo poi individuare una serie di possibili problemi comunicativi che sorgono legati alla comunicazione interculturale. Procediamo, dunque, a fare un breve (e non esaustivo) riassunto di alcuni di questi problemi che, di solito, non sono evidenti. Proviamo a fare un po’ di luce sui problemi legati alla lingua, i gesti e posture, gli oggetti e, per ultimo, sui valori culturali. Problemi legati alla lingua. Forse uno dei primi scontri culturali è proprio il suono della lingua, il tono della voce. Nelle culture mediterranee un tono di voce alto è accettabile, anzi, un tono di voce più alto, un sovrapporsi e interrompere l’interlocutore viene interpretato come interesse alla conversazione, partecipazione e/o co-costruzione del discorso. In altre culture, questa stessa situazione viene percepita come irritante, maleducata, come ad esempio, nel nord Europa. Ma queste differenze si vedono già tra nord e sud dell’Italia o della Spagna. Anche la scelta lessicale è culturalmente marcata, dall’uso di terminologia in inglese (tendenzialmente non accettata in Francia o Spagna, e ben accettata in italiano), all’uso di parole che sono socialmente accettabili. Ad esempio, in Italia uno si è fatto male al sedere e non sarebbe accettabile dire culo, mentre in Spagna viene

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tranquillamente usata la parola culo perché percepita come meno volgare. Pensiamo anche a problemi legati alla grammatica, ad esempio, l’uso dell’imperativo: nella cultura inglese è poco usato, di più in quella italiana, ma ancora di più in quella spagnola. In Italia si tende ad usare il condizionale "mi farebbe passare?"; è una frase che si sente normalmente in autobus, mentre in Spagna è più normale sentire ¿Me deja pasar, por favor?. La stessa struttura in Italiano "Mi lascia passare, per favore?" verrà percepita in modo quasi aggressivo, come se chi chiede permesso fosse arrabbiato con me. Possiamo anche pensare all’uso delle comparative, mentre in determinate culture il comparativo di minoranza è accettato, in altre è percepito come non educato come, ad esempio, nell’inglese britannico dove io non sono così alto come Pau Gasol, mentre in Italia sono più basso di Pau Gasol. Questo è applicabile all’uso del futuro, della negazione, al modo di costruire le domande e che cosa si risponde, come si organizza e si costruisce il testo (orale o scritto), ai titoli e appellativi, ecc. Problemi legati ai gesti e posture. I gesti e le posture del corpo trasmettono messaggi. Oltre a quelli connaturali all’essere umano, ci sono moltissimi gesti e posture che sono marcati culturalmente e che vengono interpretati in modo completamente diverso o, semplicemente, non capiti perché non esistono in una cultura diversa. Mettere la palma della mano in su e chiudere le dita a grappolo mentre si muove su e giù, in Italia viene interpretato come un "cosa

Figura 9.1 - Modello di

competenza comunicativa di Balboni (2012). vuoi? / Cosa dici?", mentre lo stesso gesto in Israele e alcuni paesi arabi viene interpretato come "aspetta un attimo!". Ma non solo. Pensate due frasi identiche, ma con gesti diversi (delle mani o del viso), mentre un "Quello lì è furbo" senza gesti viene interpretato in un certo modo, la stessa frase accompagnata da una strizzata d’occhio (o un movimento circolare della mano aperta come se si spingesse l’aria verso di noi e con un cambio della mimica faciale), viene interpretato proprio al contrario, cioè, quello lì è proprio scemotto. Dunque, con questi pochi esempi, si capirà come per raggiungere l’efficacia comunicativa, bisognerà stare molto attenti anche ai gesti e la mimica faciale, non solo per essere più efficaci ma anche per evitare gaffe comunicative dove un gesto accettabile nella mia cultura è interpretato come offensivo in quella del mio interlocutore. Applicabile alle espressioni del viso, il sorriso, lo sguardo, toccare o non


Anemos

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toccare l’interlocutore, la distanza tra gli interlocutori, quando – dove e se baciare l’altro… Problemi legati agli oggetti. Gli oggetti trasmettono messaggi che sono culturalmente marcati, dai gioielli ai fiori, dai vestiti ai bigliettini da visita. Prendiamo quest’ultimo come esempio: nella cultura italiana (ed europea in generale) il bigliettino da visita (oggi molto meno usato di qualche decennio fa) è interpretato come un semplice pezzo di carta dove trovare i contatti di una persona. In altre culture, come quella giapponese, il bigliettino da vista è molto importante, rappresenta la persona che lo ha offerto dunque, quando un giapponese riceve un bigliettino, lo apprezza, lo tratta con cura, lo costudisce vicino al cuore (noi europei non facciamo così e dunque l’orientale si offende profondamente). Ma pensate al significato diverso dei fiori (quando regalare fiori e a chi); che cosa portare a casa dell’ospite che ci ha invitato a cena. Valori culturali. Ciascuno di noi possiede valori culturali di fondo, trasversali e pervasivi ma, molto spesso, che non ci risultano evidenti. Questi valori dettano molte delle nostre mosse comunicative: quanto puntuale essere, rispettare o no un ordine del giorno, la gestione del silenzio, ecc. Vediamo solo un esempio per ragioni di spazio: la gestione del tempo. Nelle culture mediterranee in generale, certe professioni hanno il privilegio di impadronirsi del tempo dei clienti, ad esempio, gli avvocati, i professori universitari o i medici. Per

neuroscienze

la nostra cultura è normale attendere per ore fuori dallo studio del docente universitario per fare un esame o in sala d’attesa del medico. Questo non è così accettato in altre culture (e viene interpretato come una vera e propria mancanza di professionalità). Ma pensiamo anche ai nostri appuntamenti e alla puntualità: il capo di un ufficio arriva più tardi (per non aspettare gli altri) alla riunione. La puntualità è cangiante tra il nord e il sud d’Italia o Spagna e un ritardo di 10 minuti non è ugualmente interpretato a Bolzano o a Napoli. Mentre a Bolzano ci vorrà una spiegazione del ritardo all’interlocutore (causa di forza maggiore), a Napoli per un ritardo di 10 minuti la spiegazione non è nemmeno richiesta. Per un’analisi più dettagliata ed esaustiva, rimandiamo ad un interessantissimo volume di Paolo Balboni e Fabio Caon La comunicazione interculturale (Marsilio, 2015). Un esempio: le preposizioni. Immaginiamo di avere un bicchiere vuoto sul tavolo e una moneta in mano. Lascio cadere la moneta all’interno del bicchiere e vi chiedo dov’è la moneta. La risposta sarà “La moneta è nel bicchiere” (o qualcosa di simile). Senza toccare la moneta, giro il bicchiere e lo lascio sopra il tavolo e ripeto la domanda precedente “dov’è la moneta?”, e adesso la risposta cambia e sarebbe qualcosa di simile a “La moneta è sotto il bicchiere”. Perché abbiamo cambiato la preposizione da in a sotto se la moneta è nello stesso posto? La risposta è che il modo in cui percepiamo il bicchiere è cambiato: se nel primo esempio, concepiamo il bicchiere come qualcosa che serve a contenere (liquido, ma non solo) e di conseguenza è dentro; nel secondo esempio concepiamo il bicchiere come qualcosa che serve a coprire (non più a contenere perché girato e non realizza più quella funzione), e dunque la moneta è sotto (e non più dentro, pur essendo

sempre dentro). Vale a dire, la relazione tra moneta e bicchiere dipende da come concepiamo (o concettualizziamo) moneta e bicchiere. In questo caso, tra italiano e spagnolo non ci sono differenze “la moneta è nel /sotto il bicchiere” / “la moneda está en /bajo el vaso”. Ma il modo in cui concepiamo e osserviamo la realtà può cambiare tra cultura e cultura, e le preposizioni sono un chiaro esempio di come questo succede per quanto riguarda lo spazio. Osserviamo queste frasi in italiano e spagnolo: La foto è sul muro. La foto está en la pared. In italiano lo spazio muro viene visto / percepito / concepito o concettualizzato come tutta la superficie del muro e, dunque, la foto si colloca sopra questa superficie e diciamo SU. In spagnolo, lo stesso spazio “muro / pared” viene però visto / percepito / concepito o concettualizzato non più come la superficie, quanto piuttosto come il perimetro che lo delimita (la linea del bordo) e dunque, per gli ispanofoni la foto è all’interno del muro EN. Cioè, quando una persona impara una nuova lingua, un nuovo sistema culturale, non solo impara nuove regole morfologiche o sintattiche, ma impara anche un nuovo modo di concepire la realtà, impara a vedere la realtà da una nuova prospettiva, amplia e migliora il modo in cui si impadronisce linguisticamente della realtà che lo circonda e non solo per quanto riguarda come si vedono "i muri", ma come capire il tempo, lo spazio, e molto altro.

Carlos Melero. Responsabile del Gruppo di Ricerca DEAL e Vicedirettore del Laboratorio LabCom dell'Università Ca' Foscari Venezia.

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Filosofia del linguaggio

nei confini del linguaggio funzione originaria, funzioni d’uso, comunicazione

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Anemos

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In

neuroscienze

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di Antonio Petrucci

parole chiave. Linguaggio, funzioni del linguaggio, comunicazione, Wittgenstein, Austin. Abstract. Partendo dalle parole bibliche, l'articolo illustra come la funzione del linguaggio originaria di nominare le cose fosse percepita anche dalle culture del passato. Si prosegue con le funzioni d'uso del linguaggio (pragmatica, informativa, ecc.), per poi trattare in particolare dell'aspetto comunicativo del linguaggio, con i suoi paradossi e ostacoli, appoggiandosi anche ad autori della cosiddetta filosofia analitica.

L

a funzione originaria. Mi pare che la funzione fondamentale del linguaggio, quella originaria, che precede tutte le altre - giacché senza di essa le altre non potrebbero esistere - sia il potere che ha il linguaggio di dare un nome alle cose. Questo potere si potrebbe definire denominativo o perfino battesimale ed è espresso bene da un passo del Genesi: “Con un po’ di terra Dio, il Signore, fece tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati. Ognuno di questi animali avrebbe avuto il nome datogli dall’uomo. L’uomo diede dunque un nome a tutti gli animali domestici, a quelli selvatici e agli uccelli” (Gen., 2, 19). Siccome, in un precedente passaggio, Dio ha invitato l’uomo e la donna a “crescere e moltiplicarsi” ma anche a dominare sugli altri viventi, è evidente che la possibilità di “dominare” sia fondata su quella di “denominare” cioè che il linguaggio sia il più potente strumento di dominio. È vero che noi usiamo poco questo potere originario, giacché ognuno di noi trova una lingua già pronta da utilizzare - cioè non la inventa ma la impara (ma questo “imparare” è un continuo “imporre nomi”). In ogni caso, senza questo potere originario del linguaggio non ci sarebbe linguaggio. Dalla funzione battesimale si dipartono tutte le altre funzioni. Per distinguerle da quella originaria

le chiameremo “funzioni d’uso”. Un atto linguistico rimane qualcosa di molto complesso nel quale possono darsi più di una funzione. Inoltre, se cambia il contesto in cui si usa il linguaggio, cambia il linguaggio - cioè il suo significato. Ogni professione, ad esempio, ha il suo “linguaggio specifico”, come d’altra parte ogni gioco. Si deve a Ludwig Wittgenstein la teoria dei giochi linguistici secondo la quale una parola o una frase possono avere senso in un gioco e non averne in un altro. John L. Austin, inoltre, e con lui altri autori, hanno dimostrato quanto sia ricco di tradizione e di storia il cosiddetto “linguaggio ordinario”. Le principali funzioni d’uso. 1. La prima “funzione d’uso” del linguaggio che si presenta alla nostra attenzione - la più semplice, la più spontanea - è quella pragmatica. “Avvicinati, lasciami in pace, passami il sale, ci vediamo alle 4, ecc.”. La funzione pragmatica ha uno scopo immediato: vuole ottenere qualcosa, un oggetto o un’azione o un comportamento; si esprime sotto forma di preghiera (o comunque di richiesta) ma anche come ordine o consiglio. La funzione pragmatica suonerebbe autoritaria se non fosse temperata da formule di cortesia oppure accompagnata da adeguate spiegazioni. Ma, se è accompagnata da spiegazioni, la funzione pragmatica rischia di trasformarsi in funzione informativa. 2. La funzione informativa appare più complessa di quella prag-

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Filosofia del linguaggio ◄ matica: essa va dalla “normale”

conversazione fra amici alla lezione universitaria; ma, più si allontana dalla prima e si avvicina alla seconda, più la funzione informativa svolge una funzione formativa o culturale: trasmette cioè le tecniche e/o i valori di una determinata cultura. Ciò può avvenire da individuo a individuo, da un individuo a un gruppo, da un gruppo a un altro gruppo, da una generazione a un’altra generazione. Con riferimento alle sue modalità, questa funzione potrebbe anche essere definita descrittiva o, meglio ancora, descrittivo-narrativa: la descrizione infatti (di un oggetto, di un volto, ecc.) sembrerebbe subordinata alla narrazione. Se la prima è statica, la seconda è dinamica. Se la prima dice “piove”, la seconda dice “piove da ieri”. Se la descrizione, in senso stretto, si può paragonare a una fotografia, la narrazione si può paragonare a un film. Dalla

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funzione informativa va distinta, a mio avviso, quella argomentativa. 3. Infatti, la funzione argomentativa si presenta come un ragionamento: è condotta da una idea-guida e caratterizzata da uno sviluppo concettuale. Data una tesi, per successivi passaggi, la si porta a una conclusione coerente. C’è da dire, però, che esistono vari tipi di argomentazione e che anche il testo più concettuale ha bisogno di esempi - il che significa che ha bisogno di ricorrere alla funzione culturale e alle sue modalità. Probabilmente gli errori metafisici, se ci sono, sono dovuti a un uso distorto della funzione argomentativa (come segnalavano il “primo” Wittgenstein e il Circolo di Vienna). Ma poi occorre di nuovo ricordare la teoria dei giochi linguistici per la quale un discorso ha un significato nel suo ambito e non fuori di esso.

L’animale-che-parla. Se l’uomo è l’animale-che-parla, se ciò che lo distingue dagli altri animali è la parola, l’analisi del linguaggio, delle sue funzioni, dovrebbe rivelarci non solo qualcosa sul linguaggio, ma anche qualcosa sull’uomo. E infatti, se la funzione pragmatica rivela che l’uomo è un essere materiale, con dei bisogni da soddisfare e dei desideri da perseguire, la funzione argomentativa ci dice che è un essere razionale, capace di analizzare i suoi obiettivi e di perseguirli con un comportamento adeguato. La funzione informativa infine ci rivela che l’uomo è un essere relazionale

Figura 10.1 - Wenzel Peter, Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre (Musei Vaticani). Il raccoto bibblico assegna all'uomo il compito di dare il nome agli animali della Terra.


Anemos

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neuroscienze

Figura 10.2 - John Langshaw

Austin (1911 – 1960) è stato un importante filosofo e linguista inglese (che si rapporta con gli altri uomini), sociale (che vive in gruppi) e culturale (che trasmette il suo sapere alle generazioni successive). L’analisi del linguaggio ci conduce inoltre a una panoramica delle principali attività umane: ad esempio pubblicità, propaganda, e a volte perfino l’educazione, corrispondono al linguaggio pragmatico; le scienze naturali, ma anche quelle storiche, alla funzione informativa; matematica, logica e filosofia a quella argomentativa. L’uso del linguaggio può essere “multiplo” o “cumulativo” e cioè la stessa frase può riunire in sé più funzioni. La frase poi muta secondo il contesto in cui viene pronunciata o secondo il gioco linguistico di cui fa parte. Il che ci induce a continuare le nostre indagini. Le altre funzioni d’uso. Indubbiamente la funzione pragmatica, quella informativa e quella argomentativa sono le funzioni più adoperate del linguaggio; o almeno le più utilizzate nella vita quotidiana. Tuttavia ci sono altre funzioni, meno frequenti, che ora vorrei esaminare: quella metalinguistica, quella ludica e quella estetica. Nella funzione pragmatica del linguaggio ciò che si vuole ottenere è un oggetto o un comportamento, cioè qualcosa che non appartiene al linguaggio. Nella funzione culturale ciò che si vuole è trasmettere un'informazione e per tale ragione si fa riferimento a un oggetto (in presenza dell’oggetto) o al concetto (in assenza dell’oggetto). 1. Quando l’oggetto del linguaggio non è un oggetto, ma il linguaggio stesso studiato come oggetto, stiamo adoperando la funzione metalinguistica. Ed ecco la grammatica, la sin-

tassi, l'etimologia, perfino la filosofia del linguaggio. Ma il linguaggio verbale è anche in grado di studiare linguaggi non verbali, sia spontanei che convenzionali: ad esempio il “linguaggio del corpo” o la segnaletica stradale. Il “meta-linguaggio” può mettere a confronto varie lingue e perfino creare - mescolandole - una lingua artificiale. Può creare una lingua nuova, originale, che non esiste, come pare facciano a volte i bambini quando giocano e come fanno i personaggi in un racconto di William Saroyan (il cui titolo purtroppo non ricordo). Il che, incredibilmente, ci introduce ad un’altra funzione. 2. La funzione ludica è la quinta funzione di cui ci occupiamo, ma è la prima a manifestarsi. Ce la rivelano le lallazioni del bambino, quelle ripetizioni di vocali o di sillabe che non hanno altro fine che il piacere e il divertimento (ma servono a esercitarsi nella lingua). Questa funzione d’altra parte si rivela anche nelle ninne-nanne, usate dall’adulto per addormentare il bambino, o

nelle filastrocche... L’uso della rima e dei ritmi dati dagli accenti è sempre fondamentale. Il senso delle filastrocche è spesso il non-senso giacché ciò che conta è il suono. Quando il bambino impara a parlare, come è facile intuire, le parole non sono più suoni, ma cose. Perciò per i bambini, come per i primitivi, la parola è magica e ha un potere “convocativo” cioè può fare apparire le cose. (Se ciò non apparisse ancora come un gioco, si dovrebbe trattare il “potere convocativo” come un’altra funzione d’uso. Ma poi ben presto il potere convocativo diventa un semplice “potere evocativo”). 3. Via via che le parole “si staccano” dalle cose, cioè acquistano una loro autonomia, la funzione che abbiamo definito ludica diventa una funzione estetica. Naturalmente conserva il piacere, ma soprattutto cerca la bellezza, cioè la perfezione del linguaggio. Siamo così arrivati a parlare della poesia - quella forma d’espressione nella quale la parola assume un valore assoluto. ◄

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Filosofia del linguaggio

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◄ Si potrebbe anche sostenere Figura che la funzione originaria, che abbiamo definita denominativa o battesimale, sia da ricondursi alla poesia - o vicino ad essa. Infatti l’atto denominativo è un atto creativo per eccellenza e in ciò somiglia all’espressione poetica. Si intende poi che la poesia può battezzare le cose del mondo, ma anche le cose di un altro mondo - cioè creare un mondo che non c’è e trattarlo come se ci fosse. Infine, la funzione estetica può benissimo essere utilizzata per fini d’informazione culturale. Si pensi che le prime espressioni letterarie sono sempre o quasi sempre poetiche. Accontentiamoci dei risultati raggiunti e cerchiamo di procedere. Il discorso sulle funzioni del linguaggio lascia aperte, infatti, alcune questioni interessanti. Ad esempio, perché il linguaggio viene a volte frainteso? Che rapporto c’è fra linguaggio e comunicazione?

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Linguaggio e comunicazione. Il linguaggio ha una “funzione d’uso” se c’è qualcuno che parla e qualcuno che ascolta. Prendiamo ad esempio A e B. A vuole comunicare qualcosa a B e, per farlo, usa il linguaggio o ancora meglio un codice linguistico - un insieme di suoni o segni forniti di significato - che presuppone noto a B (v. Jakobson). B, però, può essere un individuo, ma può essere anche un gruppo o addirittura una folla. Naturalmente le modalità della comunicazione da parte di A cambieranno: cioè A dovrà adeguare il suo linguaggio alla situazione e curarsi delle interferenze che potrebbero verificarsi. Ciò è più evidente se A è un insegnante o un oratore, ma può verificarsi in tutte le situazioni. La controprova di qualsiasi comunicazione è il feed-back cioè la risposta di B. Se la comunicazione è riuscita, e il feed-back è positivo, B, che era il destinatario di un messaggio, si trasforma in emittente e trasforma A in

10.3 - Ludwig Wittgenstein è uno dei più noti filosofi del Novecento. Fu soprattutto un logico e un linguista; paradossalmente il cosiddetto "primo" Wittgenstein contribuì ad ispirare la cosiddetta filosofia analitica, mentre il "secondo" Wittgenstein fu preso a modello dalla fillosofia continentale. Si tratta di due approcci: il primo più formalizzato, il secondo incline ad usare un linguaggio più metaforico e discorsivo. destinatario: allora la comunicazione diventa bilaterale cioè un dialogo, un reciproco scambio di informazioni. Esistono però casi di mancata comunicazione o di falsa comunicazione ed è di questo che ora vogliamo occuparci. Casi di mancata e di falsa comunicazione. Il primo caso - quello della mancata comunicazione - è il più ovvio: se A mi parla in tedesco e io non comprendo questa lingua, difficilmente il linguaggio assolverà la sua funzione - quale che sia. Però si verifica qualcosa di simile se A è un insegnante che tiene una lezione e B è un gruppo-classe che non possiede i pre-requisiti, cioè le conoscenze necessarie a comprendere la lezione. In entrambi i casi (di più nel secondo), si potrà parlare di carenza da parte di B, ma anche di mancata accortezza da parte di A. Chi adopera il linguaggio - in funzione pragmatica, informativa, ecc. - dovrebbe sempre verificare che B comprenda il codice da lui adoperato. Ora possiamo accennare anche a tre casi di “falsa comunicazione”: la bugia, l’equivoco e l’errore. Si tratta in effetti di casi molto diversi: la bugia è la conseguenza di una volontà ingannatrice di A; l’equivoco è la conseguenza di un difetto di B; l’errore è la conseguenza di un codice sbagliato.

Per quanto riguarda la bugia, dobbiamo rassegnarci all’idea che il linguaggio, che ci sembrava nato per la verità, possa invece servire a nasconderla. Ma poi bisogna anche ammettere che a volte, nella vita, è necessario mentire e che non sempre la bugia è il maggior male possibile. Come che sia, è possibile smascherare il bugiardo? C’è chi pensa di sì,


Anemos

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neuroscienze

giacché, se con le parole si può mentire, non si può mentire con il corpo. È il corpo che racconta e quindi comunica quella verità che le parole nascondono. L’errore si può imputare a B (e in genere si fa così), ma è più probabile che esso dipenda, invece, da un codice inadeguato. I messaggi dovrebbero essere “economici ed efficaci” e non lunghi e dispersivi - come dicono Grice, Bruner e altri - ma spesso non è così e la conseguenza è la scarsa comprensione di B. Ci sono inoltre comunicazioni “bloccate” che si ripetono all’infinito senza mutazioni o adattamenti per via di un errore iniziale che si è trasformato in un circolo vizioso. È famoso il caso della moglie chiacchierona e del marito “musone”: lei dice di parlare sempre perché lui tace e lui dice di tacere sempre perché lei parla e non gli dà la possibilità di aprire bocca. Per sbloccare la situazione bisognerebbe che A e B modificassero il loro atteggiamento e chiarissero le loro modalità di comunicazione; ma bisogna ammettere che questi casi, ormai sclerotizzati, sono difficili da risolvere. L’equivoco è ancora più interessante. Esso è dovuto ad un'interpretazione sbagliata di B o addirittura a un suo pregiudizio verso A o verso ciò che sta dicendo. Si pensi al caso di uno studente che reputa una materia “noiosa” o inutile e il professore “antipatico”. Egli equivoca sul senso delle

parole che ascolta perché non vuole ammettere che l’insegnante stia dicendo cose interessanti. L’equivoco, insomma, più dell’errore, sposta la nostra attenzione sul destinatario del linguaggio. È in buona fede? È accecato dall'ideologia? È disposto ad accettare una verità (o una semplice opinione) diversa dalla sua?

Bibliografia L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi 1974 H. Hanh, O. Neurath, R. Carnap, La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, Laterza 1979 R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli 2002 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1999 J. L. Austin, Saggi filosofici, Guerini e associati 1990 J. Bruner, Verso una teoria dell’istruzione, Armando 1972 H. P. Grice, Logica e conversazione, Saggi su intenzione, significato e comunicazione, Il Mulino 1993.

Antonio Petrucci. Storico della filosofia. Giornalista, ha collaborato con varie testate, occupandosi prevalentemente (ma non soltanto) del settore cultura.

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Psicologia

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EMOZIONI, AFFETTIVITà E LINGUAGGIO

linguaggio come veicolo di stati interiori In

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parole chiave. Linguaggio, emozioni, comunicazione, Jung. Abstract. L'atto del parlare trasmette anche emozioni e sentimenti che influiscono sia sul significato delle parole dette, sia sul modo in cui esse vengono percepite dall’interlocutore. La consapevolezza e la libertà di espressione delle emozioni e dei sentimenti che comunichiamo quando parliamo, possono avere molta rilevanza nel facilitare nuove relazioni e nel migliorare rapporti già esistenti. Si analizza la questione in vari contesti comunicativi.

E

motività e linguaggio. Quando si parla non si comunica solo un pensiero, si trasmettono anche emozioni e sentimenti che influiscono sia sul significato delle parole dette, sia sul modo in cui esse vengono percepite dall’interlocutore. A scuola, ad esempio, tutti ricordiamo insegnanti noiosi, che ci facevano sbadigliare e altri che tenevano viva la nostra attenzione perché ci trasmettevano, assieme alle parole, la passione per le materie che insegnavano.

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di Giorgio Giorgi


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Il linguaggio può veicolare a tal punto le emozioni, che la stessa parola può avere significati opposti in base al tono usato (“ti mangerei” può essere detto con amore dolcissimo oppure con rabbia estrema). Le parole possono anche trasmettere emozioni diverse per il raggiungimento del medesimo fine: chi vuole esercitare il proprio potere sull’altro, ad esempio, può essere duro o accattivante in base alle strategie emozionali che ritiene più efficaci, generando timore nell’altro per sottometterlo o, al contrario, blandendolo per manipolarlo attraverso una falsa dolcezza

Anemos neuroscienze

Emozioni e comprensione. Le emozioni trasmesse attraverso il linguaggio influiscono anche sulla comprensione di ciò che viene detto. Se qualcuno parla in modo formale, disinteressato, senza passione per ciò che sta comunicando, è molto probabile che in poco tempo farà svanire l'interesse e l'attenzione degli ascoltatori per ciò che sta dicendo. La consapevolezza e la libertà di espressione delle emozioni e dei sentimenti che comunichiamo quando parliamo, possono avere molta rilevanza nel facilitare nuove relazioni e nel migliorare rapporti già esistenti. I bambini, quando si incontrano tra loro in un parchetto,

spesso non hanno bisogno di tante parole: "Vuoi giocare con me? Facciamo questo gioco? Posso giocare anch'io?". L’emozione gioiosa connessa alla voglia di giocare insieme si manifesta con poche parole, mentre i bambini timidi faticano a trovare le parole giuste perchè non riescono a trovare il coraggio di esprimere liberamente i propri desideri. L’eccesso di razionalizzazione non aiuta la comprensione reciproca; pensiamo a quelle coppie che sono in crisi e che passano ore a parlare dei loro problemi, a volte anche nottate intere, cercando di far comprendere all’altro i propri punti di vista, senza riuscire minimamente a migliorare la situazione, anzi peggiorandola, perché entrambi si sfiniscono senza risultati. Le parole a volte sono inutili, perché il problema spesso non sta nel chiarire meglio le proprie idee, ma nell’essere più consapevoli dei propri e degli altrui sentimenti; in quei casi nemmeno le parole più precise e significative o i ragionamenti più corretti, possono modificare la scontentezza, la noia, l'insoddisfazione creatasi nella relazione affettiva. Quando invece due persone si innamorano, le parole che vengono dette non hanno molta importanza in sè, perché entrambi desiderano stare con l'altro e non c'è bisogno di tante parole! Se poi la relazione continua e si approfondisce la conoscenza dell’altro, ci si troverà a diventare sempre più consapevoli che il suo linguaggio, come il suo modo di pensare e di essere è a volte diverso dal nostro, come è giusto che sia, visto che non esistono due persone identiche in tutto e per tutto. Se la diversità dell’altro non viene nel suo complesso accettata emotivamente, si darà luogo alla ripetizione continua degli stessi litigi, senza mai trovare una soluzione. Ci sono coppie che vanno avanti tutta una vita a battibeccare sempre sullo stesso problema con le medesime parole perchè uno dei due o entrambi pretendono in ◄

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Psicologia ◄ continuazione che l’altro cambi in ciò che non può o non riesce a cambiare.

Competenza emozionale. Sia nella relazione con noi stessi che con gli altri, dovremmo essere il più possibile consci delle componenti emozionali che sono presenti, che non dovrebbero mai essere troppo separate da quelle cognitive, per integrare così una relazione consapevole e completa. C.G.Jung si occupò del rapporto tra emozioni e linguaggio fin dall’inizio della sua attività di studio e di lavoro come psichiatra: nei primi anni del ‘900 creò il test delle associazioni verbali, che consisteva nel dire, una alla volta, una serie di parole ai suoi pazienti, chiedendo loro di rispondere a ciascun vocabolo con la prima parola che veniva loro in mente, cronometrandone il tempo di reazione. Grazie a questo test, egli riuscì a dimostrare che molto spesso, quando il paziente non rispondeva affatto,

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oppure rispondeva dopo un tempo significativamente più lungo della media, oppure dava risposte non appropriate, la parola era andata a toccare un tema che per lui era emozionalmente problematico. Jung definì questo tema psichico disturbante col nome di “complesso”, usando un termine che non era mai stato usato prima in psicodinamica e che avrebbe in seguito avuto un grande successo, fino ai nostri giorni. Sulla base di questi esperimenti, Jung affermò che il complesso, a causa del suo contenuto energetico emotivo, influenza non solo la nostra psiche, ma anche il nostro linguaggio. L’emotività legata a ciascun complesso si manifesta con un particolare “tono affettivo” che accompagna sempre la volontà, l’intelletto, il pensiero e l’azione. Ad esempio, se incontro per strada un vecchio

amico, diceva Jung, nel mio cervello si forma immediatamente la sua immagine, che è composta di tre elementi: la percezione sensoriale, quella intellettuale (ricordi, giudizi, ecc.) e il tono affettivo. Il complesso, che ha sempre una specifica valenza e tonalità affettiva, ha un’energia autonoma nella psiche di un individuo e influisce sul suo comportamento, soprattutto se egli non se ne rende conto. Il complesso materno, ad esempio, che si costituisce in noi sulla base del rapporto che abbiamo avuto con nostra madre, può essere positivo, se la simbiosi dei primi mesi di vita ha lasciato il posto gradualmente a un nostro consapevole distacco dalla madre, che ci ha permesso di diventare adulti autonomi e sufficientemente coscienti della nostra individualità più autentica. Ma se le cose

Figura 11.1 Il sentirsi apprezzato nella propria autenticità, aiuta

l'individuo a diventare consapevole di tutte le sue migliori e più vere capacità relazionali affettive e a usare un linguaggio adeguato alle situazioni. L'emotività sviluppata influisce sul tipo di linguaggio usato.


Anemos

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non sono andate bene e siamo rimasti talmente legati alla madre, da sentire il bisogno continuo e profondo della sua vicinanza e del suo amore, avremo un complesso materno negativo e sarà difficile che quando un uomo affetto da tale complesso dirà “ti amo” a una donna, dia a queste parole lo stesso valore che gli dà un uomo che non ha con la madre un rapporto ancora così infantile e viscerale. Allora quel “ti amo” diventerà piuttosto un ti amo, ma accanto a te o addirittura prima di te, amo mia mamma che ha bisogno di me e della quale anch’io ho quotidianamente bisogno. La stessa cosa vale per il complesso paterno negativo di una donna che dicendo “ti amo” dirà ad un uomo: ti amo, ma come il mio papà non c’è e non ci sarà mai nessuno… Il filtro delle emozioni. Le emozioni e i sentimenti, quindi, pur non partecipando al linguaggio nè a livello sintattico né semantico, possiedono comunque un dinamismo che influisce sull’espressività del linguaggio, come un filtro colorato modifica il risultato finale di una fotografia o di un video. Questa riflessione riguarda in modo particolare il dialogo nella relazione tra psicoterapeuta e paziente, che avviene non solo a livello razionale, ma anche a livello di emozioni e sentimenti. Nello svolgimento delle

neuroscienze

sedute è necessario che lo psicoterapeuta sia ben consapevole delle emozioni e dei sentimenti propri e del paziente e della loro dinamica, se vuole aiutarlo non solo nella parte cognitiva, ma anche in quella emotivo-affettiva. Se il linguaggio usato in psicoterapia ha anche una consapevole valenza affettiva, permette al paziente di sperimentare una relazione nuova, spesso mai vissuta prima, orientata a favorire la crescita della sua conoscenza di sé, della propria voglia di crescere e di superare i nodi esistenziali e relazionali che lo affliggono. Sentirsi davvero accolto, benvoluto, apprezzato nella propria autenticità, non giudicato, sentire la fiducia nelle proprie capacità di riuscire a superare i propri problemi, lo aiuta a diventare consapevole di tutte le sue migliori e più vere capacità relazionali affettive e a usare un linguaggio adeguato alle situazioni. Il linguaggio diventa quindi un tramite, un mezzo, attraverso il quale, le emozioni vere e i sentimenti possono essere espressi nel modo migliore in base alle situazioni che volta per volta vengono vissute. Per dirla in termini junghiani, il complesso materno o paterno negativo, viene superato attraverso l’esperienza di un rapporto di tipo genitoriale (un particolare tipo di transfert) orientato e finalizzato alla propria crescita,

differenziazione e individuazione. Per questo motivo uno psicoterapeuta non dovrebbe accettare qualsiasi persona gli si presenti come paziente, ma solo quelli coi quali sente di avere qualcosa di importante in comune, quelli che sente di essere felice di cercare di aiutare, quelli che sente che se lo meritano dopo tutte le sofferenze che hanno vissuto nella loro vita, quelli per i quali sente un senso di vicinanza umana. La psicoterapia attraverso il linguaggio si può quindi colorare di emotività e di affettività. Il terapeuta e il paziente possono avere la sensazione di essere davvero sopra alla stessa barca, di lavorare insieme per uno scopo comune e questa è una soddisfazione per entrambi, mentre il fallimento della relazione terapeutica è una sconfitta che necessariamente genera sofferenza per entrambi. In conclusione, credo che prendersi cura dell’aspetto emotivo-affettivo del linguaggio sia fondamentale se si vogliono creare e migliorare relazioni improntate ad una sempre maggiore conoscenza e rispetto di sé e degli altri, realizzando comunicazioni e rapporti consapevoli, chiari ed efficaci.

Giorgio Giorgi. Psicologo psicoterapeuta. Analista di formazione junghiana. Socio del CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica) e dello IAAP (International Association for Analytical Psychology).

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APPROFONDIMENTI ♦ arte, archeologia, società

Un linguaggio universale e la sua rimozione la danza, le cattedrali, il labirinto R/Np 1

di Armando Chierici

parole chiave. Linguaggio, danza, laborinto. Abstract. La danza è un vero linguaggio, come dimostra l'esigenza di un pubblico. Non è un fatto puramente umano, si presenta anche nel regno animale. L'articolo analizza in varie epoche e forme di rappresentazione artistica, la danza come linguaggio, anche rituale oggi scomparso (persino nel cristianesimo cattolico). La danza, dopo l'epoca illuminista, come linguaggio di ritualità fisica è scomparso.

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el suo affidarsi alla fisicità, la danza è un linguaggio comune a molte società animali, compresa quella umana, in cui è mezzo di espressione semplice e antico, efficace e comprensibile aldilà delle barriere linguistiche. La danza è un vero linguaggio, come dimostra tra l'altro il fatto che – in tutto il mondo animale – essa presupponga la presenza di un “pubblico” e/o di individui che coagiscano, in un dialogo (la danza di coppia) o in un coro (la danza di gruppo, che in latino è “chorea”). Nel genere umano la danza si raffina con l’evolversi dell’animale-uomo:

dapprima scandita dal suono dei passi o del batter le mani, si dota infine di specifiche musiche strumentali e si fraziona in generi specializzandosi in molteplici ambiti di comunicazione: l’uomo conosce la danza di corteggiamento come altri animali (evocativo il doppio significato dello spagnolo “flamenco”), ma evolve altre danze, caricate di altri segnali, con danze collettive che rinsaldano i legami di un gruppo, che distinguono un gruppo, che dichiarano le intenzioni di un gruppo, come esplicito in un fossile vivente, la haka dei Maori. Fossile vivente: nel genere umano, con il perfezionarsi di altri linguaggi,

la danza ha visto sempre più limitarsi le proprie competenze nel comunicare. Il corteggiamento, l'identità di un gruppo, la sua unione o il suo scontro con altri gruppi, il rapporto con il sacro, hanno via via utilizzato altre ritualità, altri linguaggi specifici, finendo col relegare la danza ai momenti di svago, facendola divenire un evento folklorico o una forma d'arte, quindi limitandone o addirittura facendone dimenticare la valenza di linguaggio, l'intento comunicativo e socializzante. Del lungo periodo in cui la danza era un diffuso linguaggio rimangono però dei fossili, viventi o recuperabili risalendo al momento in cui


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il fossile è stato sepolto dal tempo, dal cambiare dei mezzi di espressione e – con essi – della nostra percezione verso un gesto che consideriamo ormai quasi unicamente dal lato estetico. è noto come la sfera del rito religioso sia quella più lenta a cambiare linguaggi e forme; così - come spesso accade nella società occidentale - è la Chiesa che ci offre un tramite tra mondo antico e mondo moderno sia per una danza, sia per un rito, sia per un’immagine: l'immagine che è il logo di Anemos. Procediamo con ordine: il restauro ottocentesco delle grandi cattedrali gotiche francesi (Chartres, Amiens, Auxerre, Sens) ha riscontrato la presenza - occultato sotto una pavimentazione “moderna” - di un grande disegno labirintico intarsiato sul pavimento dell'intera navata centrale. Tale labirinto, ripristinato nelle sue forme, viene oggi percorso dai fedeli come occasione di ricerca interiore. Non era precisamente questo l'uso medievale: il disegno traccia sì un percorso, ma non un soliloquio, bensì un percorso di danza corale, una coreografia le cui fasi ci sono descritte da un documento francese del 1396: la sera di Pasqua il vescovo entra nel labirinto tenendo tra le mani una sfera lucente che gli è offerta da un neobattezzato (all’epoca erano battezzati gli adulti); dichiara che al centro del labirinto è il demonio, e nel labirinto avanza con passi scanditi dal ritmo ternario del canto intonato da un coro; intorno al labirinto un cerchio di fedeli e/o canonici si muove in tondo con uguale ritmo, tenendosi per mano. Al termine del canto il vescovo è ormai al centro del labirinto: ostenta la sfera, dichiara che la morte è stata sconfitta, il coro intona l'Alleluja e la sfera è passata ai fedeli in tondo, infine è portata all'altare. Con il vento razionalista dell'illuminismo tale pratica viene completamente rimossa, tanto da venir cancellata la coreografia dai pavimenti; così si perde completamente la memoria di questo clero dan-

neuroscienze

zante, e ho avuto personalmente modo di riscontrare come oggi la chiesa non sembri del tutto disposta a riconoscere la realtà storica di questo rito. Ma esistono documenti, e nel medioevo le scuole delle cattedrali inglesi, tedesche, francesi e italiane fanno esplicito cenno a tali choreae, comparate alla danza delle anime, all'armonia neoplatonica delle sfere, alla danza dei pianeti intorno alla Terra (espliciti Jean Beleth nel 1165, Siccardo da Cremona nel 1215, Guillaume d'Auxerre nel 1231, Durand de la Mende nel 1296). Già allora il percorso labirintico è consapevolmente associato al mito di Teseo, Arianna e il Minotauro. E Teseo riceve all'ingresso del labirinto due “sfere”: una palla di filo - il “filo di Arianna” da utilizzare per non perdersi, l'altra di argilla con cui sconfigge il Minotauro, al centro del labirinto, come al centro del labirinto delle cattedrali una sfera sconfigge il demonio. Teseo salva dal Minotauro sette coppie di giovani ateniesi, fanciulle e fanciulli, con essi esegue una danza in tondo, labirintica, a ricordo dell’impresa; ce la ricorda Callimaco: Teseo e i fanciulli, fuggiti dalla curva sinuosità del labirinto, circondarono con un cerchio di danze l'altare. Un vaso greco del VI sec. a.C., il Cratere François, ci mostra tali giovani tenersi mano nella mano. Sulle valenze simboliche del mito antico come del rito medioevale è impossibile qui riassumere i contenuti di un dibattito ancora aperto, è comunque evidente che l’una e l’altra danza propongano un per-

corso insidioso, salvifico e corale, ed è probabilmente per questo che il mondo cristiano ha prelevato direttamente dall’antichità pagana tale ritualità, facendola sopravvivere fino alla prima età moderna. Ecco dunque che la chiesa vivifica con il suoi documenti un fossile che attinge direttamente ai più antichi miti classici, e ripete probabilmente le forme cultuali di tali miti. Coreografie disegnate, anche a terra, per condurre gruppi danzanti o comunque in movimento sono attestate nell'antichità, e attestate sono, anche nel folklore moderno, danze della corda, con la corda: è il filo di Arianna, che serve alla schiera dei danzatori per mantenere la fila nei movimenti sinuosi come ancora possiamo vedere in danze greche, ove il filo è sostituito da fazzoletti o dal tenersi per mano. E questa corda la ritroviamo nell’affresco del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti a Siena: è quasi nascosta, ma la tengono al centro di una doppia fila tutti i maggiorenti della città che si muovono così insieme, sotto lo sguardo della Concordia, il cui nome deriva dal latino “cum cordis”, parola in cui il latino medievale sente sia “cuore” che “corda”: una consonanza di cuori che si avvera nel muoversi concordi, grazie a una corda. C'è di più: collegi sacerdotali danzanti al canto sono noti nell'antichità, tra essi quello, importantissimo e antico, dei Salii romani, il cui nome è in rapporto con una radice sal/sul riferita al “saltare” ritmato, al danzare, come ci ricorda Ovidio: iam dederat Salii a saltu nomina duc-

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APPROFONDIMENTI ♦ arte, archeologia, società

Figure - In alto Chartres, cattedrale, navata centrale. Oinochoe della

Tragliatella; Oinochoe della Tragliatella, decorazione graffita; nella pagina precedente: Ambrogio Lorenzetti, affresco del Buongoverno, particolare.

◄ ta armaque et ad certos verba

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canenda modos. E il ritmo dei Salii era il tripudium, ternario come quello delle danze labirintiche delle cattedrali. C'è di più: il vescovo è detto ancor oggi presule, in latino, “praesul”. Prae-sul si forma ancora sulla radice sal/sul: il presule è colui che conduce la danza, colui che danza per primo, come nelle danze di fila del folklore greco c'è un maestro della danza, un corifeo, che conduce la fila di danzatori che, tenendosi per mano o a un fazzoletto, lo seguono con percorsi sinuosi. E costui è assistito da una persona accanto, uno stretto collaboratore che nel latino ha lasciato una parola importante: console. “Con-sul” è colui che danza insieme, e colui che danza fuori dalla fila, da solo, ha lasciato pure un’importante traccia nel vocabolario antico come in quello moderno, è l'exul: l'esule, ex-sul, colui che danza fuori dal gruppo. Manca però la prova che il percorso labirintico nella forma in cui ci appare nelle cattedrali sia quello della danza corale di Teseo. Ci aiuta la decorazione di una brocchetta etrusca del VII sec. a.C., l’oinochoe della Tragliatella: qui una schiera di armati danzanti è in rapporto a un labirinto identico a quello che conosciamo, accanto una figura maschile riceve da una figura femminile

due sfere. Nel graffito ci sono anche cavalieri, e nel labirinto è graffita una parola che probabilmente lo identifica: “truia”. Sappiamo da fonti antiche più tarde, tra cui Virgilio, che a Roma giovani a cavallo eseguivano una complessa cerimonia dal percorso labirintico, tracciato sul terreno nel Campo Marzio: il lusus Troiae. Il nome – soprattutto sulla suggestione di Virgilio - è stato messo in relazione con Troia e con l'arrivo nel Lazio di Enea, ma la parola ha un indubbio rapporto con gli antichi verbi latini amptruare/redamptruare, con cui si indicava il movimento di danza dei Salii. Il mondo particolarmente conservativo del culto ha fatto sopravvivere una danza e il suo linguaggio per millenni, di tale linguaggio sono sopravvissute immagini (il labirinto) e parole (presule, console, esule) che oggi non percepiamo più nel loro significato originale perché altri linguaggi, meno fisici e più mentali, hanno sostituito quel modo di esprimersi, tanto che riproporne oggi la sua ritualità fisica in una cattedrale ci sconcerta. Del mondo passato, dei linguaggi passati, spesso ci rimangono solo le parole: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Bibliografia J. Demaray, Dante and the Book of the Cosmos, in Transaction of the American Philosophical Society, LXXVII, 1987, p. 70 ss. M. Eisenberg, Performing the Passion: Music, Ritual, and the Eastertide Labyrinth, in Trans, Revista transcultural de Música, 13, 2009, p. 1 ss. A. Cherici, Otium erat quodam die Romae in foro, in Annali della Fondazione per il Museo “Claudio Faina” XVII, 2010, p. 201 ss. A. Cherici, Artisti, committenti e fruitori: il caso della danza, e altri spunti, in Annali della Fondazione per il Museo “Claudio Faina” XXI, 2014, p. 433 ss. Ph. Knäble, L'harmonie des sphéres et la danse dans le contexte clérical au Moyen Age, in Mèdiévales 66, 2014, p. 65 ss. Armando Cherici. Dottore di Ricerca in Archeologia Italica, abilitato all'insegnamento universitario di Etruscologia, ha tenuto conferenze e seminari presso le Università di Parigi – Sorbona, Nantes, Lione, Tübingen, presso la Scuola di Specializzazione in Archeologia dell'Università di Firenze nonché presso l'École Normale Supérieure di Francia. Ha collaborato al Lexicon der Antike “Neue Pauly”, al Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, al Thesaurus Cultus et Rituum Antiquorum, ai manuali Handbook of Etruscology (de Gruyter, Berlin-Boston) e The Etruscan World ( Routledge, London, in stampa). E' membro del Deutsches Archääologisches Institut, dell'Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici, dell'Accademia Etrusca di Cortona. Suoi articoli compaiono nelle riviste scientifiche del settore e sono reperibili in https://independent.academia.edu/ Acherici. E' stato Primo Rettore della Fraternita dei Laici di Arezzo ed Assessore alla Cultura del Comune di Arezzo. In Casentino segue il progetto didattico “Armanduk in Casentino” che l'azienza Miniconf offre da un decennio alle scuole della vallata.


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neuroscienze

Se il male è banale,

l'integralismo è semplice Realtà e linguaggio

App 2

di Luca Balugani

parole chiave. Integralismo, dogmatismo, linguaggio, scissione, ambivalenza. Abstract. Nei primi anni di vita del bambino si assiste alla nascita del suo Io psicologico, in una oscillazione continua che cerca un equilibrio tra lontananza e vicinanza, autonomia e dipendenza, dalla figura materna. Durante questo processo il bambino definisce il Sé rispetto all’oggetto e arriva al superamento della scissione tra rappresentazioni buone e rappresentazioni cattive di soggetto e oggetto. Questo tipo di rappresentazione potrebbe polarizzarsi in maniera netta, dividendo le persone in buone e/o cattive, ma più facilmente il soggetto oscilla e passa dall’una all’altra. Ciò ha ripercussioni anche sul linguaggio, che rispecchierà questo modo di affrontare la realtà: si farà così sintetico e sincopato.

S

cissione. Quando Otto Kernberg, nella seconda metà del secolo scorso, si è messo a studiare la personalità borderline (quella che a suo avviso era una vera e propria “struttura” e non semplicemente un disturbo di personalità), ha individuato un sistema difensivo ben preciso alla base della psicodinamica in oggetto: la scissione. E si è rifatto agli studi di una delle prime psicoanaliste donne, Margaret Mahler, per spiegare dal punto di vista evolutivo come potesse avvenire un blocco tale da provocare l’insorgenza dell’organizzazione borderline di personalità. L’autrice ungherese aveva identificato il compito evolutivo della prima parte della vita nei concetti di individuazione e separazione: il neonato nasce anzitutto biologicamente, ma non si concepisce come individuo staccato dalla madre, con la quale vive una relazione simbiotica dopo una prima fase autistica. I primi anni di vita servono proprio a distanziarsi da lei, perché possa nascere un Io psicologico, salvo poi essere in grado di riavvicinarsi alla figura materna. Si tratta allora di una oscillazione che cerca un equilibrio tra lontananza e vicinanza, autonomia e dipendenza. Kernberg integra questa visione con quella freudiana, che pone (si sa) al centro il conflit-

to edipico; ma ben prima di questo tema evolutivo, Kernberg riconosce che ci sono almeno due passaggi da compiere: l’individuazione del Sé rispetto all’oggetto e il superamento della scissione tra rappresentazioni buone e rappresentazioni cattive di soggetto e oggetto. Tralasciando la prima questione (il cui fallimento conduce per l’autore alla psicosi), perdiamo qualche istante sulla seconda andando a definire cosa si intenda con “oggetto”. È tradizione ormai affermata, anche se forse deplorevole, che nella letteratura psicoanalitica il termine oggetto venga usato per indicare la persona. Nonostante le connotazioni in qualche modo peggiorative del termine oggetto, ne manterremo […] l’uso per motivi di coerenza e di chiarezza […]. Detto nella maniera più semplice, la teoria delle relazioni oggettuali implica la trasformazione delle relazioni interpersonali in rappresentazioni interiorizzate di relazioni. Con Gabbard, allora, continuiamo a chiamarli “oggetti”, nel senso che le persone in quanto tali continuano ad appartenere al piano di realtà, ma vengono interiorizzate dal soggetto attraverso una loro rappresentazione. In altre parole, il nostro mondo interiore è abitato non dalle persone in carne ed ossa, ma dall’idea (cognitiva e pure affettiva) che ci

siamo fatti di loro. Ora, vi è una fase nella quale il bambino non riesce a coniugare le rappresentazioni oggettuali buone con quelle cattive: l’altro cioè appare come totalmente buono o totalmente cattivo. Buono o cattivo? Questo tipo di rappresentazione potrebbe polarizzarsi in maniera netta, dividendo le persone in buone e/o cattive; ma più facilmente il soggetto oscilla e passa dall’una all’altra. L’altra persona, quindi, può divenire alternativamente buona o cattiva; ma anche il soggetto stesso può subire la medesima sorte: abbiamo allora il bambino che si auto-biasima per essere stato cattivo e qualche tempo dopo si elogia da sé per essere stato particolarmente obbediente. Questa altalena è fondamentalmente normale nel bambino, ma risulta alquanto problematica nel caso in cui permanesse in una persona adulta: in tal caso, la persona non riuscirebbe a coniugare in sé le due immagini, trovandosi perciò scissa. Se così stanno le cose, non ci sarà nemmeno spazio per la nascita del Super-Io e dunque il conflitto edipico non sarà alla portata della struttura psichica della persona. Ecco come Kernberg motiva l’organizzazione borderline come più primitiva della nevrosi. Questo excursus ha l’utilità di

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APPROFONDIMENTI ♦ arte, archeologia, società

◄ mostrarci come il meccanismo

della scissione si presenti come un metodo per fare economia: tenere unito il lato bello e il lato criticabile di sé o di un’altra persona, reggere l’ambivalenza risulta alquanto dispendioso dal punto di vista delle energie psichiche e comporta una certa tenuta psichica. Al contrario, è molto più semplice, anche se evolutivamente più primitivo, dividere con nettezza il bianco dal nero, impedirsi di vivere colori diversi e spesso pure sfumati. L’ambivalenza genera molta più incertezza. In tal senso possiamo capire, spostandoci su un livello sociale, come integralismo e dogmatismo si muovono di pari passo; e, si badi bene, può esserci un dogmatismo integralista anche quando si parla di fenomeni deviati. Il mondo mafioso vive di dogmi, liquida le altre forme di pensiero come insensate, si radica in verità incrollabili… L’integralismo è un sistema semplice, un pensiero dogmatico, che descrive la realtà con affermazioni semplificate. Ciò accade sia dal punto di vista del ragionamento che da quello del linguaggio. Lo slogan è efficace non tanto dal punto di vista mnemonico, ma da quello intellettuale: è più semplice da ricordare solo perché è più facile da comprendere. Esattamente come il bambino si trova avvantaggiato se si deve descrivere come bravo o cattivo, invece di cercare di mettere a fuoco quali siano i suoi pregi e quali i difetti. Perché di fatto la scissione può virare sia verso il versante narcisistico (non ci sono difetti) così come verso quello depressivo (non ci sono pregi); in maniera analoga, gli integralismi possono essere tanto masochistici come persecutori. Resta il fatto che descrivono la realtà in un modo binario e dunque semplificato.

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Uso del linguaggio. Chiaramente anche il linguaggio rispecchierà questo modo di affrontare la realtà: si farà sintetico e sincopato. Su L’Espresso il gesuita Antonio Spadaro ha scritto qualche mese fa (agosto 2019): “Chi fa più caso alla sintassi della domanda su Google? Il punto interrogativo è ormai fuori

uso. Viviamo nel regime delle risposte automatiche. Chi poi è alla ricerca di un consenso, sia esso pubblicitario o elettorale, tende a lanciare messaggi facendoli sempre passare come risposte alle «domande della gente»”. I grandi “ismi” che hanno governato (o sono al governo) vivono di slogan semplificatori, veicolando l’idea che esistono soluzioni semplici a domande complesse. Rispetto alla suddivisione classica dei poteri secondo Montesqieu, oggi se ne dovrebbero aggiungere almeno due: quello economico e quello mediatico. Ed è proprio questo secondo che consente di comprare e far comprare, vendere e far vendere prodotti, servizi, rapporti, cultura, voti, amici, nemici, idee. Solo con i media è possibile informare e disinformare, fare e disfare alleanze, spostare consensi, creare e smantellare fortune, gratificare amici e distruggere nemici […]. La coerenza non è una virtù: tutto può essere affermato e ritrattato, compreso il codice semantico con cui si esibisce la propria mercanzia politica […]. L’orizzonte temporale da stampare nell’inconscio collettivo del popolo, troppo legato al passato, non è il futuro ma il presente, dove a dominare non è il duraturo ma l’effimero, non la riflessione ma il vitalismo, non è la carenza di cose ma il loro eccesso, non è l’immortalità delle realizzazioni ma l’immortalità del despota. Se questa analisi è corretta, viene da chiedersi se l’integralismo non sia in realtà pervasivo di molte aree: sia esso religioso (terrorismo e teocon), politico (sovranismo e populismo), economico (mercificazione di ogni cosa), sociologico (si veda il succitato esempio dei social). Il linguaggio si fa estremamente asciutto e immediato, al fine di veicolare concetti semplici che affermano soluzioni rapide a problemi complessi. In tal senso, la riflessione personale e la filosofia, l’ermeneutica e lo studio non hanno ragione d’esistere più di un qualunque altro hobby. Del resto, il mondo religioso ci insegna che l’altra faccia dell’integralismo è il fondamentalismo. Questo modo di intendere la rivelazione divina (o le Sacre Scritture, per le religioni

che le possiedono) rimanda ad una lettura che nega l’esistenza di altri testi, di altri punti di vista, di altre pagine di storia scritte da credenti di diverse tradizioni. E cammina di pari passo con una logica di “duri e puri”, in cui non prevalgono tanto le certezze dei credenti quanto piuttosto l’affermazione di un modo di vivere la propria fede contro gli altri. Anche in questo caso non è difficile rintracciare uno stretto legame con la scissione di cui si è parlato sopra. L’integralismo viene superato nella capacità simbolica, quella che appunto “mette insieme” come etimologicamente il sostantivo “simbolo” esprime. La realtà non è il simbolo, che contiene in sé una modalità espressiva del divino e allo stesso tempo un suo nascondimento (il pane dell’Eucaristia e il corpo di Cristo) quando non addirittura una sua diminuzione (la statua rispetto al santo): il credente sa di vivere solo parzialmente ciò che crede, perché nemmeno è in grado di abbracciarlo; e sa di avere molto da imparare dall’altro. In un secondo tempo, però, anche il simbolo comincia a stare stretto, perché se ne sente tutta la provvisorietà. E, non a caso, la mistica si fa afasica, stadio in cui le parole tendono a scomparire: è l’esatto contrario di un linguaggio semplificato, perché è l’impossibilità di trovare le parole adeguate. Un po’ come se l’itinerario del credente partisse dalla chiarezza integralista del disegno in bianco e nero, attraversasse la fase del dipinto colorato per poi tornare alla tela bianca, che si frappone tra il credente e il sole, per poterne sostenere in silenzio la luminosità. Itinerario che non è tuttavia detto che si compia in ogni fedele e che a volte rimane ad un livello così semplificato da farsi integralista.

Luca Balugani. Dopo alcuni anni di sacerdozio, ha studiato psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana, in Roma. Iscritto all’Albo degli psicologi e psicoterapeuti, è docente di psicologia in diversi Istituti Superiori legati alla formazione e alle Scienze Religiose.


iniziative culturali

idee per respirare

L

Spazio pubblico di dibattito sulle neuroscienze

a libreria Punto Einaudi di Reggio Emilia, il Centro di Neuroscienze Anemos e la Clessidra, editori del periodico divulgativo scientifico "Neuroscienze Anemos” presentano una nuova iniziativa che si svolgerà mensilmente, a partire dal 5 ottobre, nei locali della libreria in via Emilia 22, a Reggio Emilia. Nel solco della tradizione culturale della casa editrice torinese, che dall’anno della sua fondazione (era il 1933) ad oggi, è stata uno dei principali laboratori della rinascita intellettuale, morale e politica del nostro paese, ed è da sempre attenta a valorizzare il meglio della produzione scientifica, storica, filosofica, artistica e letteraria internazionale e nazionale, e a partire dalla vocazione di “Neuroscienze Anemos”, intesa a realizzare occasioni di dialogo, incroci, punti di convergenza tra discipline diverse nell’ambito della ricerca contemporanea (dalle neuroscienze e dai saperi biomedici alle scienze umane, sociali e morali), è nata l’idea di creare, nella nostra città, uno spazio di dibattito regolare e permanente. In occasione della pubblicazione dei nuovi numeri della rivista, che esce con cadenza trimestrale, ha carattere monografico ed è a disposizione dei lettori

a titolo gratuito, verrà organizzato un incontro di presentazione dell'ultimo numero e di una serie di libri sull'argomento presenti nel catalogo della casa editrice Einaudi. Il secondo mercoledì di ogni mese si terranno incontri di discussione sul tema, aperti a tutti. Le motivazioni che ci hanno spinto a mettere in cantiere l’iniziativa possono essere riassunte semplicemente dicendo che, in un tempo in cui le idee, il pensiero rigoroso, la ricerca scientifica e la passione politico-culturale sembrano sempre più essere oscurate e rimosse dallo spazio pubblico, per lasciare il posto a polemiche sterili e sviluppate in un linguaggio banale e grossolano, ad invettive rozze e avvilenti, alla proliferazione di slogan rudimentali che non recano la traccia di alcuna autentica riflessione e rivelano una tragica (e insieme grottesca) assenza di conoscenza, ci pare importante far esistere luoghi, occasioni, momenti, in cui il lavoro (e anche la fatica) del concetto, la ricerca e la problematizzazione delle idee e dei saperi che pure, negli ambiti riservati della ricerca avanzata, stanno sorgendo e sviluppandosi, vengano riconosciuti e possano circolare, essere portati a conoscenza di tutti, arricchire il pensiero e, osiamo dire, la condotta di chiunque.

Siamo infatti stretti entro una drammatica contraddizione: da una parte le scienze e la ricerca teorica stanno realizzando sviluppi immensi, forieri di trasformazioni destinate a cambiare, presto, il corso della storia delle nostre società e delle nostre stesse vite (si pensi ai progressi dell’intelligenza artificiale, della genomica, delle conoscenze – e delle correlate possibilità di intervento – sul cervello, e così via); dall’altro, la discussione e il dibattito pubblici su tutto ciò, e conseguentemente la possibilità di parlarne, formarsene un’idea più possibile approfondita e rigorosa, partecipare alla deliberazione collettiva e alle scelte politiche e morali al riguardo, sono letteralmente rese impossibili dal tenore di un discorso pubblico desolante e fuorviante, come se anche in ambito culturale trovasse una strana e inquietante nuova attualità la vecchia legge di Gresham, "la moneta cattiva scaccia quella buona". Ebbene, è proprio a combattere una simile tendenza e a tentare di uscire da tale contraddizione che, nel nostro piccolo, vorremmo dedicare la nostra iniziativa. Per informazioni: Punto Einaudi Via Emilia A S. Pietro, 22, 42121 Reggio Emilia RE 0522 086052

Di cosa parleremo in breve? "Neuroscienze Anemos" parte da una prospettiva neuroscientifica ma avvia una riflessione interdisciplinare che collega scienze della natura, scienze sociali e discipline umanistiche. Dalla neurobiologia, passando per la sociologia, la letteratura, la linguistica, la filosofia e così via.


Gli Editori

centro di neuroscienze Anemos Direttore sanitario: dr. Marco Ruini

I

l Centro di Neuroscienze Anemos si trova a Reggio Emilia, in via M. Ruini 6. Centro polispecialistico, si caratterizza per la presenza di diversi professionisti dell'area neurologica, neurochirurgica, psichiatrica, psicologica. Oltre all'area degli ambulatori, la sede del centro dispone di spazi dedicati alle iniziative culturali, con aule e aree riunione. Tra i vari campi d’attività accennati: ♦ Organizzazione convegni, seminari e corsi multidisciplinari sul tema delle neuroscienze in collaborazione con La Clessidra (vedi testo sotto). Pubblicazione della rivista «Neuroscienze Anemos». ♦ “Libri Anemos”. Attività editoriale con la Casa Editrice New Magazine con una collana di Neuroscienze e una collana di Narrativa e Poesia ♦ Biblioteca di Neuroscienze Anemos ♦ Promozione e valorizzazione di giovani artisti

Marino Iotti

♦ Iniziative di volontariato sociale

www.anemoscns.it

La Clessidra Direzione editoriale: Davide Donadio, Tommy Manfredini

N

ell’autunno del 2010 è nato il progetto «Neuroscienze Anemos», trimestrale interdisciplinare per l'integrazione tra le neuroscienze e le altre discipline. Il periodico di divulgazione scientifica, distribuito gratuitamente nelle biblioteche pubbliche delle province di Reggio Emilia e Mantova e in altri circuiti distributivi, si sviluppa dalla collaborazione con La Clessidra. a Clessidra è un'azienda che si occupa di editoria, comunicazione, marketing, eventi culturali e formazione; Nata in un contesto di associazionismo nel 2004, si costituisce come azienda nel 2006. Ha sede a Reggiolo, RE.

L

www.clessidraeditrice.it

https://www.facebook.com/LaClessidraEditrice

La Clessidra Editrice. Redazione editrice e della rivista: via XXV aprile, 33 - 42046 Reggiolo (RE) tel. 0522 210183


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