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Labyrinth 4
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Aurora R. Corsini
Bacio immortale
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I edizione: maggio 2011 II edizione: settembre 2011 © 2010 La Corte Comunication Via Paolo Regis 44, Chivasso (To) Tutti i diritti riservati La Corte Editore è un marchio La Corte Comunication Progetto Grafico: La Corte Editore Illustrazione in copertina: Christine Griffin © La Corte Comunication
ISBN 9788896325100 Finito di stampare nel mese di Ottobre 2011 presso lo stabilimento grafico Impressioni Grafiche di Acqui Terme per conto di La Corte Comunication
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A mia sorella, sempre‌
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La strada procedeva in lieve discesa fino a un piccolo piazzale circolare con al centro un pozzo. Dalla voragine scura, più scura della notte senza luna, saliva l’odore marcio dell’acqua stagnante misto alla polvere delle ormai sgretolate pietre secolari, che cadevano a tratti nell’acqua sottostante con tonfi e schizzi. Il tanfo raggiunse le narici frementi di un’ombra alla ricerca di notizie. L’ombra abbandonò la piazza, disgustata da quel sentore di povertà e miseria. Procedeva lentamente, schivando i rigagnoli delle fogne che scorrevano al centro dei vicoli polverosi. Allungava di tanto in tanto una mano, sfiorando con le punte delle dita l’intonaco grigio e scrostato che ricopriva i muri esterni delle abitazioni. Dopo si annusava a lungo le dita, tenendo gli occhi chiusi, accarezzandosi il viso con la polvere che vi si depositava. Respirava attraverso le innumerevoli tracce vitali che avvertiva, assaporando la ricchezza invisibile di quel luogo. Aprendo gli occhi, la visione cambiava totalmente: i vicoli tortuosi erano delimitati da casupole cadenti, da muri diroccati e da cumuli di rocce informi. Non c’era nulla che sembrasse vivo, ovunque si susseguivano baracche a un piano, sporche e maleodoranti. Le costruzioni erano circondate da una pianura polverosa e spoglia, dove da decenni non cresceva niente di verde e rigoglioso. Tutto testimoniava la mancanza d’acqua, come se in quel luogo non fosse mai esistita una sorgente o un rivolo di pioggia non avesse mai bagnato quel terreno. Eppure non era così, c’era stato un tempo in cui verdi foreste popolate di bestie feroci avevano ricoperto la pianura fino a dove l’occhio poteva arrivare, e anche oltre. Un potente e vasto impero governava all’epoca quelle terre, che erano abitate da un popolo numeroso e fiero. “Non come adesso”, mormorò l’ombra tra sé, guardandosi attorno con l’animo gonfio di tristezza. Non c’era più nemmeno dignità in quel popolo ora, cacciati e sottomessi da tutti, costretti a fuggire per sopravvivere, oppure a combattere persino per abitare in quelle baracche fatiscenti. Gli uomini e le loro guerre! Pronti a uccidersi l’un l’altro per qualche chilometro di sassi e polvere, per il predominio sui propri fratelli.
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“Sei ingiusta”, si disse scuotendo il capo. La guerra accompagnava da sempre l’umanità, incapace di accontentarsi del necessario e bramosa di possedere anche il superfluo. Lei stessa aveva contribuito a scatenare una guerra devastante, moltissimo tempo prima, quando il mondo era giovane e gli uomini ingenui. Sulla piana di fronte alla città di Ilio, intere armate si erano gettate nella battaglia invocando a gran voce il suo nome, desiderose di morire per soddisfare i folli desideri dei loro condottieri. “Atena! Atena!”. Le sembrava di sentire ancora gridare quelle innumerevoli voci, perse nel clamore della mischia, tra sangue e sudore. Istintivamente, girò la testa verso quelle urla, lontane centinaia di chilometri e migliaia di anni: perse per sempre nella follia che era stata la guerra di Troia. “Troia”, sussurrò. Così gli uomini chiamavano l’antica Ilio, le cui mura possenti non gettavano più alcuna ombra sulla pianura. Era tornata spesso in quel luogo infausto, ma la vista dei resti portati alla luce dagli archeologi le provocava troppo dolore. Quasi quanto la consapevolezza che niente era più come un tempo, sebbene il ricordo si adagiasse leggero su ciò che i suoi occhi vedevano. Persa nei meandri della memoria, Atena giunse al limite del cono di luce proiettato da un lampione fioco, che ondeggiava appeso a un cavo teso tra due tetti spioventi. Girò la testa per guardarsi intorno, controllando che non ci fosse qualcuno oltre a lei a vagare in quelle stradine desolate e polverose. Infine, fece un passo in avanti e lasciò che la debole luce l’illuminasse. Era una donna alta e slanciata, con lunghi capelli lisci di un biondo tanto chiaro da sembrare bianchi, persino sotto quella luce tenue. Atena alzò il viso verso il cielo, gli occhi chiusi e le braccia larghe, con le dita tese a tastare l’aria intorno. Dondolò il corpo, lasciando che una brezza leggera le scompigliasse i capelli e il lungo vestito. Inspirò quell’aria fresca, portatrice di sensazioni che solamente i suoi sensi particolari riuscivano a percepire. Sentiva scorrere tra le dita correnti di energia calde e vive, alcune più forti di altre, che fremevano sotto il suo tocco e attiravano la sua attenzione in molteplici direzioni contemporaneamente. Lasciò che le onde di calore sfiorassero il suo essere e rimase ferma sotto il lampione. Le assaporò senza farsi travolgere dalla loro intensi10
tà, rifiutandosi di seguirle verso potenziali prede per il suo crescente appetito. Percepì la presenza di molte vite, chiuse in quelle case fatiscenti, intrappolate tra quelle stradine tortuose all’apparenza deserte. Pensò che, in quella notte di caccia e silenzio, l’istinto di sopravvivenza tenesse le persone lontane dal suo percorso e dalle sue mani bramose. Oppure sono solo sfortunata! Una vampata di calore più intensa le bruciò i polpastrelli e la spinse ad aprire gli occhi. Si voltò velocemente e imboccò decisa il vicolo alla sua sinistra. Camminava più spedita ora, seguendo senza ulteriori indugi la traccia che sentiva vibrare tra le dita e lungo le braccia, dritta fino al centro del petto, dove palpitava affrettandole il respiro. La sua ricerca si concluse davanti a una casa priva di finestre, per nulla dissimile dalle altre che la circondavano, grigia e mezza diroccata. Si fermò davanti alla porta chiusa e sospirò, poi la spalancò con un gesto rapido e deciso. Varcò la soglia e si fermò dopo solo un passo, lasciandosi avvolgere dall’oscurità all’interno. Lasciò che gli occhi si abituassero al buio. Era entrata in una stanza molto piccola, con un focolare spento sulla destra e un basso tavolo al centro. Oltre il tavolo c’era un letto addossato alla parete, sopra giaceva una donna seminuda, con un braccio che pendeva inerte oltre il bordo e la testa reclinata verso il muro. Accanto alla donna c’era l’obiettivo della sua lunga ricerca. Con la schiena poggiata alla parete spoglia e lo sguardo rivolto al soffitto, un ragazzo seminudo canticchiava tra sé dondolando la testa, con un braccio appoggiato mollemente su un ginocchio sollevato. “I tuoi gusti non cambiano”. Atena osservò con una smorfia di disapprovazione la donna distesa. Il ragazzo sbuffò, annoiato, poi abbassò lentamente lo sguardo e spalancò gli occhi. Si aprirono due pozze di pura luce e splendore, senza sclera né pupilla, solamente palpitante verde che scintillava nell’oscurità. “C’è bellezza ovunque”, disse, muovendo appena le labbra. “Se la sai cercare con pazienza”. Atena si avvicinò e voltò il viso della donna, avvertendo gli ultimi frammenti di vita disgregarsi sotto la leggera pressione delle sue dita. La fissò per un lungo momento, valutandone la pelle morbida, la bocca carnosa e i tratti marcati. Come sempre suo fratello sceglieva con at-
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tenzione le proprie vittime, avendo cura di saziare sia la fame interiore sia i forti appetiti sessuali che lo muovevano da millenni. “Probabilmente hai eliminato l’unica cosa bella in tutta questa desolazione”. Il ragazzo si alzò in silenzio e raccolse una maglia dal pavimento polveroso, scuotendola con vigore prima di infilarla. Si avviò verso la porta senza degnare di uno sguardo né la donna distesa né la sorella che lo fissava, immobile al centro della piccola stanza. Esitò incerto sulla soglia, voltandosi a guardarla in silenzio negli occhi, splendidi e luminosi come i suoi. Ritrovò se stesso in quello sguardo serio, si specchiò nell’amore severo che la donna nutriva nei suoi confronti e le sorrise, ricambiandola con il proprio slancio impetuoso e sincero. “Perché mi cercavi?”, le chiese brusco, cancellando dal viso quell’istante di complicità. Atena lo seguì all’esterno e si chiuse la porta alle spalle, dimenticando il cadavere che avevano lasciato disteso sul letto. Era abituata a farlo, rassegnata alle attività venatorie del fratello. Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro prima di parlare. “Tisifone è morta. È stata uccisa”.
2 “Uccisa?”. Un sopracciglio biondo si sollevò di scatto. “Non dire sciocchezze. Non esiste nessuno in grado di ammazzare quelli come noi”. “Sapevo che avresti reagito in questo modo”. Spazzò con un piede il suolo polveroso. “Devi credermi, Apollo, ho visto il suo corpo”. Il ragazzo storse il naso nel sentire quel nome antico, con il quale non si identificava da secoli. “Non chiamarmi così!”, esclamò. “Apollo è il dio della poesia di cui narrano i miti, in me non c’è più nulla di lui”. “È il nome che ti ha dato tuo padre! Gli devi maggiore rispetto!”. La rabbia per quel suo comportamento che tanto detestava le fece quasi dimenticare il motivo che l’aveva spinta a cercarlo. “Non iniziare con questa storia”. Avevano già fatto quel discorso migliaia di volte. “Millenni di vita hanno creato me, non Apollo!”. Tacque qualche istante, pensieroso, dopodiché proseguì: ”Puoi chiamarmi Valo adesso, ha un bel suono”. 12
Atena aggrottò la fronte, dubbiosa per l’ennesimo cambio di nome del fratello. Era certa che non sarebbe durato a lungo, come tutti quelli che aveva usato in precedenza. “Valo? Che nome sarebbe?”. “Il mio nuovo nome, per ora. Quando me ne verrà in mente uno migliore lo cambierò”. Valo circondò le spalle di Atena con un braccio e la condusse lungo il vicolo, lontano dalla sua ultima vittima. Nel frattempo, una minuscola parte della sua mente considerava che, molto probabilmente, non sarebbe stata ritrovata tanto presto. Nella sua essenza dolce e gustosa aveva percepito una scarsità di rapporti umani insolita per una giovane e attraente donna. La conosceva bene, avendole succhiato la vita, letteralmente. Insieme all’energia, infatti, aveva assorbito anche la maggior parte delle emozioni generate grazie ad essa. “Sorellina”, scoppiò a ridere, non amando indugiare troppo a lungo sulle proprie vittime, “non dirmi che questa è solo una scusa per avvicinarci al Mediterraneo per l’ennesima volta!”. “Perché scherzi?”. Atena non rideva affatto. “Il mare manca a entrambi, da troppo vaghiamo per queste terre assetate”. Valo rideva sempre più forte, facendo risuonare la voce nella notte silenziosa. Con uno sguardo ammonitore, Atena lo zittì. Le sembrava sacrilego disturbare la quiete, seppure solo apparente, di quel luogo. “E comunque non è una scusa, ho veramente trovato il cadavere di Tisifone. Ero in compagnia di Ermes, lui è rimasto là ad aspettare che tornassi insieme a te”. Con un sospiro esasperato, Valo la invitò a precederlo. “Va bene, portami a vedere il luogo del misfatto”. I due fratelli erano gli unici a camminare sotto la volta stellata, muovendosi veloci senza produrre alcun rumore. Oltrepassarono il confine del centro abitato, inoltrandosi nella distesa sassosa del deserto. Quando le case scomparvero alle loro spalle, si presero per mano e iniziarono a correre, con falcate aggraziate sempre più ampie. In breve tempo le loro figure veloci divennero invisibili, mentre compivano balzi lunghi decine di metri. Sfrecciarono nella notte, percorrendo in un paio d’ore qualche centinaio di chilometri. Il paesaggio mutò sotto i loro piedi e la pianura lasciò gradualmente posto a dolci declivi coperti di alberi. “Siamo quasi arrivati”. Atena rallentò l’andatura e lasciò la sua mano, passandosi le dita tra i capelli scompigliati dalla corsa. 13
“Cosa ti ha spinta fino a qui?”. Si guardò intorno, studiando la foresta intricata che li circondava. “Oggi pomeriggio, quando ti ho salutata, non avevi intenzione di muoverti”. Ammiccò. “Ermes è tornato dalla sua… battuta di caccia e mi ha proposto di fare una passeggiata”. “Una passeggiata?”, esclamò Valo, “È così che chiama attraversare quattro stati?”. Atena inclinò la testa e sorrise. “Non essere geloso, io sono voluta arrivare tanto lontano perché…”, scrollò le spalle, “… non te lo so spiegare. Percepivo un richiamo, un filo di energia affidato al vento in cerca d’aiuto. Penso che fosse l’ultimo sospiro di Tisifone prima della fine”. Valo annuì, si fidava delle sue sensazioni quasi più delle proprie. “Molti dei nostri fratelli sono svaniti prima di lei, cosa ti fa credere che Tisifone sia stata attaccata da qualcosa?”. “Non qualcosa, qualcuno. Attorno al suo involucro abbandonato ho sentito i residui di una presenza. Eccoci, è laggiù”. Atena indicò una costruzione soffocata da una muraglia di rampicanti, addossata a una parete rocciosa. “Apollo, Atena, finalmente”. La voce suadente di Ermes li chiamò dal folto della foresta che circondava la casa. Il profilo affilato di colui che era stato il dio di mercanti e ladri si stagliò nell’oscurità tra gli alberi, i capelli neri stretti in una coda sulla nuca e gli occhi grigio-azzurri ombreggiati da lunghe ciglia. Quando si fermarono di fronte alla porta spalancata li affiancò con passi aggraziati. Atena gli lanciò un’occhiata e sbuffò. “Ha deciso che adesso vuole essere chiamato Valo”. “Valo…”. Ermes alzò un angolo della bocca sottile in quello che per lui equivaleva a un sorriso. “Bel nome”. “Lieto che ti piaccia”. Il sorriso che sbocciò sulle labbra piene di Valo eclissò quello del fratello, nessuno poteva competere con lui in questo. “Se avete finito con i saluti, c’è il corpo di Tisifone che ci aspetta”. Oltrepassarono la porta di legno e si addentrarono nella stanza buia, i loro occhi non avevano bisogno di luci artificiali per distinguere il caos che li circondava. Una catasta di legna era sparpagliata per terra, accanto al camino spento, una poltrona giaceva rovesciata tra i resti di 14
quello che sembrava un tavolo fracassato, la finestra sul fondo era sfondata e i vetri rotti riflettevano la luce della luna, bassa nel cielo notturno. In mezzo a tutto questo, come un mucchietto scomposto di vestiti, giaceva il corpo ormai vuoto di quella che innumerevoli esseri umani avevano temuto con il nome di Tisifone l’erinne. Un groviglio di capelli bianchi incorniciava il suo volto aguzzo, deformato da una smorfia di sofferenza resa ancora più terribile dal vuoto che colmava le orbite, dove fino a poco tempo prima avevano fiammeggiato due occhi rossi. Valo si inginocchiò e le chiuse le palpebre con gentilezza. “Se n’è andata anche lei”. “Ma non senti?”. Atena si strinse nelle braccia. “Non percepisci la rabbia e la paura che aleggiano qui dentro? Tisifone non se n’è andata, qualcuno ha lottato con lei e l’ha uccisa”. Suo fratello la assecondò, reclinò la testa e socchiuse gli occhi, assaporando l’atmosfera di quel luogo. Dopo qualche istante sospirò. “No, Atena, io non sento niente, solo la pace della notte”. “Non c’è pace qui”. Si voltò verso Ermes, che si era tenuto in disparte. “Digli cosa abbiamo sentito quando l’abbiamo trovata, forse a te crederà”. “Atena ha ragione, fratello. Qualche ora fa l’aria era densa di terrore e acredine, come se Tisifone avesse cercato di opporsi strenuamente alla propria morte”. “Non credo che fosse tanto debole da svanire all’improvviso”, mormorò Atena, prossima a lacrime che non avrebbe versato mai. “Come puoi sapere quanta energia le era rimasta?”. Valo scattò in piedi. “Non la incontravamo da… da secoli per quello che mi ricordo”. Atena lo fissò rassegnata, se aveva deciso di assumere quell’atteggiamento stizzito non ci sarebbe stato modo di convincerlo. “Trent’anni fa era a Creta, ci siamo parlate, una notte”. “E in base a una conversazione vecchia di anni tu hai deciso che la sua energia vitale non era giunta alla fine? Che non abbia esaurito le sue ultime forze lanciando per la casa i mobili, forse per sfogare la rabbia? Tisifone è stata creata come divinità della maledizione, non si può certo affermare che fosse un essere equilibrato”. Le posò una mano sulla spalla e addolcì la voce. “So che stai soffrendo, conosco il tuo dolore. Ma Atena, sorella, non lasciare che l’emozione offuschi il tuo 15
giudizio. Se tu smetti di ragionare, che ne sarà di me? Tu sei la bussola su cui regolo il mio viaggio in questo mondo”. Come sempre, la dolcezza del fratello placò l’ansia di Atena, che si abbandonò tra le sue braccia e si lasciò cullare dal suo calore. Immobile al pari di una delle sue statue, Ermes li guardava trarre conforto dal reciproco abbraccio. Nei periodi che trascorrevano insieme, imbattendosi di tanto in tanto gli uni nell’altro, gradiva molto la loro compagnia, memore del periodo dorato della loro passata divinità, eppure ancora non riusciva a comprendere cosa avesse spinto proprio quei due, tra tutti i suoi fratelli e sorelle, a scegliere di condividere l’eternità. La casta e razionale Atena insieme a quel donnaiolo impetuoso di Apollo. Il fatto che quel legame non comprendesse alcuna matrice di natura sessuale era la cosa più incredibile. Quale altro motivo avrebbe potuto spiegarlo? La gamma delle emozioni umane non apparteneva veramente alla loro specie, almeno non secondo quanto sperimentato dallo stesso Ermes nel corso dei millenni. Nella maggior parte dei casi erano gli istinti primari a prevalere in loro. “Cosa preferisci fare del suo corpo?”. Il sussurro di Valo si perse nei capelli della sorella. “Bruciamo tutto, non voglio che un essere umano la possa trovare”. Valo annuì, stimolare la mente di Atena era il modo migliore per farla riprendere. “Come abbiamo fatto con quei due satiri?”. “Quali satiri?”. Ermes era curioso, raccogliere informazioni sui membri rimasti della loro famiglia era il compito che si era assegnato nei secoli. Atena si staccò dal fratello e si lisciò il vestito. “Un paio di mesi fa abbiamo trovato gli involucri di due satiri vicino al Nilo, sembrava che i loro spiriti fossero svaniti da poco”. “In Egitto?”. “Sì, perché?”. “In quello stesso periodo anche Anfitrite è morta, sulle coste del Mar Rosso”, chiuse gli occhi con un sospiro, “Sono stato io a trovarla”. “Anfitrite la nereide?”. Il volto di Atena si scurì nuovamente. “Mi dispiace che se ne sia andata, l’avevamo incontrata qualche volta, più che altro tra le isole della Grecia. Non mi sembrava che si stesse indebolendo, il suo legame con il mare la aiutava a… perdurare”. Non vivere, noi non viviamo. 16
“Continuava a sperare che prima o poi Poseidone uscisse dal suo letargo e tornasse da lei”. Valo scosse la testa con un sospiro. “Quanta bellezza sprecata!”. Atena gli allungò una gomitata al fianco. “Dovresti vergognarti. Anfitrite è morta e tu rimpiangi di non essere riuscito a portartela a letto”. “Non l’avrebbe mai fatto, era fedele al suo sposo”, intervenne Ermes. Atena lo fissò, incuriosita. “La vedevi spesso?”. “Non più di voi, suppongo”, si schernì Ermes. “Cosa volete usare per dar fuoco alla casa?”. Finse di guardarsi intorno, desideroso di cambiare discorso. Il peso inerte del corpo di Anfitrite gli premeva ancora sul petto, come se non fosse passato nemmeno un giorno da quando l’aveva stretto a sé gemendo. Non voleva che i suoi fratelli sapessero fino a che punto fosse stato stretto il suo rapporto con la nereide. “Tre morti nella stessa zona e ora questo”. Atena fissò di nuovo il corpo ai suoi piedi. “I satiri erano due esseri deboli, probabilmente allo stremo delle forze, non ne sono rimaste molte di creature come loro ormai. Anfitrite e Tisifone, però, non erano poi così diverse da noi, sebbene il loro potere non abbia mai eguagliato i nostri”. Valo smise di raccogliere i pezzi di legna e le si avvicinò. “A cosa stai pensando?”. La concentrazione che emanava da Atena frusciava nell’aria, profumandola di un sentimento prossimo alla paura. “Mi domando se non siano delle semplici coincidenze”. Alzò gli occhi con un lampo ceruleo. “Credo che qualcuno li abbia ammazzati”. “A quale scopo?”. Ermes sembrò volerle credere. Valo, invece, scoppiò a ridere. “Non essere paranoica: quale forza al mondo potrebbe mai farci del male? Non dico arrivare a ucciderci, ma persino danneggiare in qualche modo i nostri spiriti sarebbe impossibile per chiunque”. “Escluso uno di noi”, ribatté Atena. Due paia di occhi scintillanti la fissarono, ugualmente scettici. I suoi fratelli non sembravano disposti a darle ragione. “Ha ragione lui, Atena. La nostra unica debolezza è insita nella nostra genesi”. “Volete dirmi che questa serie di morti ravvicinate non vi turba?”. Spalancò le braccia. “Che volete restare da queste parti e aspettare di essere i prossimi?”. “È ovvio che ce ne andremo non appena la casa smetterà di bruciare”. La voce di Valo si fece quasi stridula per l’esasperazione. “Conoscen17
doti, mi darai il tormento finché non saremo arrivati al lato opposto del continente!”. Con un urlo soffocato, Atena si diresse a grandi passi verso la porta e uscì nella notte. Ermes trattenne una risata. “Sembrate una coppia di umani sposati”. Fulminato da uno sguardo smeraldino, si affrettò ad alzare le mani. “Scherzavo, non offenderti”. Valo ricominciò a circondare il corpo di Tisifone con la legna. “Verrai con noi?”. “Credo che tornerò a casa, ma grazie per l’offerta”. “Come preferisci. Suppongo che noi andremo in Grecia. Ce ne staremo là buoni per un po’, finché Atena non si sarà calmata”. Lanciò un’occhiata verso la porta e scosse la testa. “Mi passeresti quella lampada?”. Su un ripiano c’era una vecchia lampada a petrolio, residuo di secoli passati e di abitudini differenti. Ermes la porse al fratello e si scostò, mentre Valo ne spargeva il contenuto sul corpo e in vari punti della stanza. Un fiammifero fu sufficiente a incendiare il tutto. I tre fratelli rimasero in piedi sotto un albero fino all’alba. Osservarono in silenzio il fuoco cancellare i resti di Tisifone e della sua casa, attenti a non farlo propagare oltre i muri di pietra. “Bene”. Ermes gettò la testa all’indietro e inspirò il profumo del giorno imminente. “A questo punto io vi lascio, spero di rincontrarvi in circostanze migliori”. Atena gli posò una mano sulla spalla. “A presto”. Avrebbe preferito abbracciarlo, ma qualcosa nell’atteggiamento di Ermes le aveva sempre suggerito che non gradiva quella forma d’intimità. “Buon viaggio”. Valo chinò la testa in un cenno si saluto. Con un ultimo mezzo sorriso, Ermes schizzò via tra gli alberi e scomparve in poco tempo, lasciandosi dietro una scia di placida energia. “Tu non ti chiedi mai perché non voglia dirci dove abita?”. Valo si voltò verso la sorella e scrollò le spalle. “Nemmeno noi gli abbiamo mai detto dov’è casa nostra”. “Possediamo parecchie abitazioni: in quale dovremmo invitarlo?”. “Sai benissimo a quale mi sto riferendo”. Le cinse le spalle con un braccio. “Ci spostiamo di continuo, ma c’è un’unica dimora che entrambi chiamiamo casa”. 18
Valo aveva ragione, di tutti i posti in cui vivevano o avevano vissuto, ce n’era solamente uno in cui ritornavano regolarmente, però non era lì che Atena aveva intenzione di recarsi in quel momento. “Che direzione preferisci prendere?”. “Dimmelo tu dove desideri andare”, sussurrò Valo, sapendo che sarebbe stata in grado di percepire le sue parole. Parlò in greco, come non faceva da lungo tempo. Era un loro antico vezzo esprimersi nella lingua del paese che li ospitava o, come presumeva in quel caso, li avrebbe presto ospitati. Atena sorrise come risposta e si slanciò nel folto degli alberi, subito seguita dal fratello. Corsero via insieme, come sempre, verso la loro meta lontana.
3 La luce filtrava dalle persiane chiuse: lame sottili che striavano l’armadio di fronte alla finestra e la coperta gettata ai piedi del letto. Penny si allungò e ne tirò un lembo sopra la testa, infastidita dal sole del nuovo giorno. Ogni cosa era quieta all’interno del caldo bozzolo buio che l’avvolgeva. Nel silenzio non esisteva nessuno al mondo, nemmeno lei. Eppure sentiva le gambe sempre più intorpidite per l’immobilità forzata, segno che il suo corpo esisteva ancora. Niente andava come avrebbe dovuto. Come al solito! Penny si concesse di stiracchiare le gambe, poi si arrese alla necessità di muovere anche le braccia e riemerse sbadigliando dal proprio involucro protettivo. Contemplò la polvere che vorticava all’interno della scia luminosa tracciata dai raggi di sole, davanti alla finestra socchiusa. Sembrava incredibile che quei granelli minuscoli fossero sempre lì, invisibili per la maggior parte del tempo al miope occhio umano. Lo specchio appeso alla parete di fronte al letto rifletteva la sua immagine, Penny distolse velocemente lo sguardo. Non voleva incrociare i propri occhi di ghiaccio, spenti e cerchiati da occhiaie profonde. E nemmeno contemplare il viso emaciato o il disastroso taglio di capelli, con pochi riccioli sparsi che spuntavano più lunghi e arruffati. Del resto, molto probabilmente su consiglio del medico, era proprio quello il motivo per il quale suo padre aveva appeso lo specchio. Per 19
metterle davanti la propria immagine devastata e costringerla ad affrontarla ogni giorno. Loro non potevano sapere cosa scatenava veramente in lei quell’oggetto, non potevano perché si rifiutava di parlare con uno psichiatra da mesi. Osservava la lucida superficie di vetro e fantasticava di infrangerlo con un pugno. Non per cancellare ciò che rifletteva, semplicemente per farsi del male. Del male fisico. L’unico motivo che la frenava, ogni qualvolta era colta da questo genere di pensieri, era che sapeva quanto male potesse fare il vetro e, nonostante tutto, non aveva il coraggio di infliggersi ancora un dolore simile. Dei passi al di là della porta la misero in allerta, distogliendola dagli indefiniti progetti autolesionisti. Penny, pronta allo scontro, contrasse tutti i muscoli del corpo, si rannicchiò trattenendo il fiato e fissò la maniglia, certa che si sarebbe mossa di lì a poco. Il rumore cessò, la persona là fuori esitava, forse anche lei tratteneva il respiro. Infine, il ticchettio familiare si allontanò lungo il corridoio e Penny si rilassò, contenta che la madre temesse quell’incontro quanto lei. Guardare le pareti spoglie della camera la calmò. Come sempre quella piccola stanza bianca e anonima, che non le scatenava alcun ricordo indesiderato, l’aiutò ad annullare ogni pensiero. Attorno a lei c’era ben poco, oltre al letto incuneato tra l’armadio e la finestra, solamente pile disordinate di libri, sparse tra la porta e un televisore poggiato sul pavimento. Penny lasciò che la mente vagasse libera. Un suono proveniente dall’esterno catturò la sua attenzione: lo speaker di una radio stava annunciando una canzone, un vecchio successo di musica leggera. Il volume era talmente alto che riusciva a distinguere ogni parola, nonostante sapesse che l’apparecchio fosse ad almeno una decina di metri. Strisciò fuori dal letto e si avvicinò alla finestra, aprendola a metà e sbirciando tra i listelli di legno delle persiane. Come sospettava stava iniziando la guerra mattutina tra le due donne che abitavano negli appartamenti di fronte al suo, nell’ala opposta del condominio, oltre il cortile interno. Due cognate che si odiavano da tutta una vita e che, rimaste vedove quasi in contemporanea, avevano finalmente trovato il modo di infastidirsi senza doversi nemmeno parlare. Una ascoltava la radio, l’altra accendeva la televisione. Dopo iniziava la gara a chi alzava di più il volume.
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Socchiuse le persiane e contemplò la scena ridacchiando: le due donne stavano vicine alle rispettive finestre, talmente concentrate da non badare nemmeno a cosa stessero trasmettendo radio e televisione. Penny era convinta di essere l’unica persona a conoscenza della guerra che si consumava ogni mattina in quella casa. L’appartamento sotto il suo era vuoto, mentre a destra la costruzione terminava, lasciando spazio a un alto cancello chiuso, oltre il quale le case si susseguivano in una confusione multicolore. A sinistra della sua finestra correva un balcone stretto, su cui si affacciavano le altre camere da letto. Appena dopo l’ultima portafinestra del suo appartamento, il balcone faceva una curva ad angolo retto, seguendo la forma a elle del palazzo, e proseguiva lungo la facciata dell’appartamento confinante. Da sempre sua madre si lamentava di questa contiguità, risalente ai tempi in cui ogni stanza che si affacciava sul cortile era abitata da una famiglia diversa, nessuna interessata a delimitare il proprio spazio. Penny pensava che quella lamentela fosse ridicola, dato che l’anziana donna che viveva accanto a loro non usciva mai sul balcone, a malapena camminava fino alle finestre. Questo era il motivo per il quale era certa che nessun altro sentisse quella musica: i suoi genitori non badavano mai a niente e la vicina era praticamente sorda. Da mesi, ormai, la spiava trascinarsi per casa, sempre meno cosciente del mondo che la circondava. Quanto alla donna che viveva a piano terra, sotto l’anziana donna, iniziava a sospettare che fosse un po’ fuori di testa. Era impegnata in una lotta ossessiva contro tutto lo sporco del mondo. Se non sei una macchia sul pavimento, nemmeno si accorge che esisti! Pensare alla vecchia signora distrasse Penny, che non notò quando la vedova di sinistra chiuse la finestra, stabilendo una tregua nella sua guerra privata con la cognata. La musica cessò di colpo e lei aprì quasi del tutto le persiane per sbirciare verso le finestre della vicina, oltre la curva del balcone. Le tendine di pizzo le ostacolavano un po’ la visuale, ma riusciva a distinguere il letto vuoto nella camera e la poltrona nel soggiorno attiguo. Si stupì di non trovare la donna seduta come ogni giorno nella poltrona, con le gambe stese sul tavolino di fronte e lo sguardo puntato verso il televisore nell’angolo. Qualcuno si muoveva nella stanza, troppo veloce per essere la sua vicina: sembrava una donna alta con lunghi capelli chiari. Penny cercò di 21
capire chi fosse, ma le tende le impedivano di vedere con precisione. Distingueva una figura, che sembrava trasportare un voluminoso scatolone. Scorse il gatto della donna sdraiato sulla poltrona, un enorme ammasso di pelo grigio che dormiva arrotolato su se stesso. Conosceva bene quel gatto, lo aveva lasciato entrare dalla portafinestra molte volte, quando ancora dormiva nell’altra camera. Un crampo le strinse lo stomaco non appena pensò alla sua vecchia stanza. Lanciò un’occhiata fugace alla persiana chiusa, l’ultima della parte di balcone che apparteneva alla sua famiglia. “No, no, no!”, sussurrò tra i denti stretti, il corpo scosso da tremiti convulsi. La sua mente vagava libera, non poteva più fermarla. I ricordi si susseguivano rapidi: sorrisi complici, risate e interminabili pomeriggi di compiti scolastici. Tanto tempo prima, quando tutto nel mondo era ancora al posto giusto. “No!”. Si strinse le tempie tra le mani. ”Basta!”. Si accasciò a terra e rimase raggomitolata finché non trovò la forza di strisciare nel letto, nascosta sotto le coperte con le braccia strette attorno alle ginocchia e gli occhi serrati. Respirò a fondo, lasciando che il tremore si affievolisse e cessasse del tutto, abbandonando il suo corpo dolorante. Scacciò ogni pensiero, si concentrò sul muro bianco davanti a lei e ignorò ostinatamente la propria immagine riflessa. “Dovrei romperlo quello specchio”, mormorò, convinta che i sette anni di malasorte non l’avrebbero mai colpita. Peggio di così non poteva comunque andare. Morse il cuscino con gli occhi bagnati da lacrime che non intendeva versare, lieta che nessuno avesse assistito al suo ennesimo crollo. Il padre forse l’avrebbe capita. Le si sarebbe forse avvicinato e avrebbe magari tentato di abbracciarla, nel suo modo timido e dolce. La madre, invece, non avrebbe voluto comprenderla né consolarla, mai. Mia madre… ormai non lo è più! Quel pensiero amaro la rattristò ancora di più. Per la prima volta da quando aveva sposato suo padre, ventuno anni prima, Nadia aveva smesso di comportarsi come una madre vera e propria con lei, che non era veramente figlia sua. All’improvviso, proprio mentre pensava a lei, Nadia spalancò la porta e rimase ferma sulla soglia a fissarla con la mano stretta alla maniglia.
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Penny ricambiò quello sguardo silenzioso. Osservò il suo aspetto impeccabile, le labbra contratte e gli occhi freddi, tesi per lo sforzo di non mostrarle alcun sentimento amichevole. “Non ti alzi nemmeno oggi?” “Non ne vedo il motivo”, ribatté Penny con il medesimo atteggiamento di sfida, sperando che le lacrime a lungo trattenute non sgorgassero proprio in quel momento. Non voleva che la vedesse piangere e pensasse fosse una reazione alla sua ostilità: non le avrebbe mai dato una soddisfazione del genere. Nadia annuì e ruotò lentamente su se stessa, sembrava decisa a uscire e lasciarla in pace. Invece, raddrizzò le spalle e fece un respiro profondo prima di parlare. “Penelope, tu che sei viva getti via la tua vita. Resti chiusa qua dentro, ti rifiuti di tornare all’università”, un tremito le smorzò la voce, “Perché ci fai questo? Non ti è bastato…”. “Fuori!”, l’interruppe Penny, balzando in piedi con i pugni stretti e lo sguardo vitreo. ”Vattene via!”, urlò ancora più forte, mentre le lacrime le bagnavano le guance, indipendenti dalla sua volontà. Nadia la fissò ancora un momento con il viso del tutto privo di espressione, vacuo, come se vedesse qualcuno che non si trovava lì con loro nella stanza. Poi chiuse la porta, lasciandola sola. Le discussioni tra loro si concludevano quasi sempre in quel modo: lei batteva in ritirata e Penny impiegava ore intere per riacquistare il controllo delle proprie emozioni. Penny era consapevole del proprio stato, del fatto che si era rifugiata in quella stanza piccola e anonima per sfuggire ai ricordi e al dolore. Si era chiusa in quel microcosmo protetto e solitario, che si affacciava sul piccolo cortile e sul suo scorcio di bizzarra umanità. Probabilmente i suoi genitori avevano ragione, quando l’accusavano di nascondersi dal mondo, crogiolandosi nel senso di colpa. Ma era giusto così, se ne avesse avuto la forza avrebbe messo fine alla propria vita. Non riuscendoci, aveva scelto quell’esilio volontario. Se lo meritava per quello che aveva fatto, per la colpa di cui si era macchiata. La colpa alla quale non poteva pensare, a meno di non mettere a rischio la propria già precaria salute mentale.
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