Sottopelle - Matthias Graziani

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Underground 5


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MATTHIAS GRAZIANI

SOTTOPELLE


© 2015 La Corte Editoria e Comunicazione Corso Galileo Ferraris 77, Torino Tutti i diritti riservati La Corte Editore è un marchio La Corte Editoria e Comunicazione Progetto Grafico: La Corte Editore Foto di copertina: © Olly / Dollar Photo Club ISBN 9788896325551 Finito di stampare nel mese di febbraio 2016 presso Grafica Veneta. www.matthiasgraziani.com

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A quella ragazza che scrisse “se il destino lo vorrà, ci rincontreremo.” A quel ragazzino che giocava con me in cortile e con cui inventai le prime grandi storie. A Silvia e Alessio

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Sto morendo, cazzo. La ferita è profonda e il sangue scorre sull’asfalto. Se qualcuno non mi soccorre in tempo ci resto secco. Conosco certe ferite. Non credevo potessi avere dei rimpianti. Ho sempre voluto tutto, troppo. Bisogna stare attenti, prima o poi il male ti trova. Alla fine si riduce tutto a questo: il momento del trapasso. Crepare sapendo di aver vissuto bene o crepare sapendo di aver vissuto male. Non ci sono vie di mezzo. Non ci sono patteggi o compromessi. La morte arriva ed è fredda, dura e spietata; non ci sono speranze e non c’è nemmeno un fottutissimo appiglio a cui tenersi. Forse la fede aiuta. Ma non ho mai avuto fede in nulla. Ora me ne rendo conto. Ricordo i discorsi che facevo su Dio, sull’universo, sulla morte, sul cristianesimo, sul buddhismo, sull’islam. Il problema è che facciamo finta di avere fede. Recitiamo. Perché lo fanno tutti. Perché ci fa sentire meglio. Ma questo non aiuta, non ora. Ho sempre avuto la presunzione di essere migliore di altri, credevo di poter cambiare le cose. Predicavo molto bene, ma razzolavo malissimo. Ero bravo a mentire, a recitare la mia parte, perché la vita non è altro che un palcoscenico. Ho tradito, ho ucciso, ho rubato. Ho ceduto così tante volte 7


alle tentazioni che nemmeno lo Spirito Santo riuscirebbe ad assolvere i miei peccati. La reputazione è tutto. È quello che resterà nella memoria delle persone e io ero bravo a recitare. Mi chiamo Adam Strandberg e sto per crepare. L’unica cosa che posso fare è ripensare alla mia vita, cercare di rimettere insieme i pezzi.

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1 27 dicembre 2005. Aeroporto JFK. Un colpo secco, un rumore assordante. Jakob Ivanov riaprì gli occhi. Le pupille si dilatarono. “Sono le 10:37 di sera, ora locale, e la temperatura esterna è di meno 8°C.” Sbuffò, si strofinò gli occhi e guardò fuori dal finestrino. “Per favore rimanete seduti al vostro posto e tenete spenti cellulari e apparecchi elettronici finché l’aereo non è completamente fermo e il segnale delle cinture di sicurezza è stato spento.” Lanciò un’occhiata al signore grasso accanto a lui, che lo stava guardando con aria interrogativa. Era grasso, ma meno di lui e non aveva né la sua pappagorgia né il volto disseminato di cicatrici da acne. Ora sì che non russi più, vero? Coglione. Pensò. Si strofinò i capelli, erano unti e la cute gli prudeva, gli sembravano un nido di insetti vivi. Aveva bisogno di una doccia. Si sentì andare in fiamme, poi rabbrividì violentemente. Che quella puttanella asiatica mi abbia attaccato qualcosa? La spia delle cinture allacciate era ancora accesa, il Boeing però era quasi fermo. Slacciò la cintura di sicurezza e si alzò prima degli altri. Urtò con la pancia il sedile di fronte, un tizio pelato si voltò infastidito. “Scusi.” Sì, va bene, non rispondere, eh! 9


Allungò le braccia e aprì lo sportello superiore. Prese il bagaglio a mano, poi la giacca in pelle e rimase ad attendere in piedi. Eccola che arriva. “Signor Ivanov, la prego di restare seduto finché non saremo completamente fermi.” Asiatica, carina, nel suo completo color bordeaux bordato di oro tipico della Singapore Airlines. In quell’istante il Boeing si fermò e come un’onda si propagò il suono metallico degli ingranaggi delle cinture. La gente iniziò ad alzarsi, Jakob sorrise verso la hostess asiatica, che si era presa cura di lui durante il viaggio. Come al solito aveva avuto attacchi di panico. E ho fatto la figura dell’idiota. La hostess sorrise e comprese che ormai era inutile chiedere alla gente di risedersi. Dopo qualche istante anche il segnale delle cinture si spense. Jakob cercò di farsi strada il più velocemente possibile, ma dopo alcuni passi di fronte a lui si formò la solita coda. Era meglio se stavo seduto e uscivo per ultimo. Voleva arrivare a casa il prima possibile, tirare una riga di coca, farsi una doccia e dormire. Dormire il più possibile. Qualcuno lo spintonò. Si voltò. Un ometto cinese gli arrivava all’altezza della pancia e lo guardava con aria interrogativa. Certo non sei stato tu, muso giallo, peccato che l’angolo della tua borsa mi abbia infilzato la schiena! Stronzo. Jakob si sostenne con la mano sul poggiatesta di un sedile e cercò di mantenere la calma. Si sentiva andare a fuoco. I vestiti erano fradici, incollati sulla pelle e formavano una pellicola aderente che gli bloccava i movimenti. Inspirò con la bocca, profondamente, ma gli sembrò che l’aria fosse diventata irrespirabile. 10


Tolse schifato la mano dal poggiatesta. Ripensò alla prostituta asiatica con cui era stato qualche notte prima a Singapore. Aveva usato il preservativo? Chissà cosa mi ha attaccato quella lì. “Andiamo, cazzo! Andiamo!”, gridò improvvisamente. Non si era controllato, se ne pentì quasi subito. “E stai calmo, ciccione”, disse qualcuno dietro di lui. Jakob lo ignorò. Quando uscì dal Boeing, poco prima di entrare nel tunnel di vetro che lo avrebbe portato nell’aeroporto, l’hostess asiatica lo salutò con un sorriso amichevole. Chissà che idea si è fatta di me. Non riuscì ad arrivare al ritiro bagagli che si precipitò nella toilette. Aveva un urgente bisogno di rinfrescarsi la faccia. Sfilò gli occhiali da vista appoggiandoli sul lavandino. Aprì l’acqua fredda e con le mani si bagnò ripetutamente il volto. Alzò lo sguardo e si osservò allo specchio. Era pallido come un cadavere e le occhiaie erano profonde. Ho bisogno di tirare. Osservò la propria immagine riflessa per alcuni istanti. Giunto al ritiro bagagli aveva il fiatone. Sudava più di prima ed ebbe difficoltà a individuare la propria valigia. Attese, poi quando individuò il suo trolley lo afferrò al volo e si voltò urtando alcune persone, quasi travolse una donna. “Sta bene?”, chiese. “Ha bisogno di aiuto?”. “Levati!” Uscito dal gate si precipitò al bar. Prese una bottiglietta di acqua fresca dal frigorifero, agguantò delle banconote che aveva in tasca e le mise sul bancone. Scolò la bottiglietta rigandosi mento e collo di piccoli sentieri d’acqua. 11


Andò al deposito bagagli. Lanciò duecento dollari sul bancone e andò alla cassetta di sicurezza. Prese la valigetta. Uscì e andò verso il posteggio dei taxi, ma una coda infinita lo fece subito desistere. Si guardò attorno, avrebbe potuto prendere una navetta, ma l’idea di essere di nuovo stretto in mezzo alla gente gli fece venire le palpitazioni. “Va bene, che vadano a fare in culo”, si avviò a passo spedito lungo la strada. Con quello che aveva nella valigetta non avrebbe avuto problemi a trovare un passaggio. Sull’orlo della strada sventolò dei centoni per una decina di minuti, poi si fermò un fuoristrada nero. All’interno un uomo basso a giudicare l’altezza a cui gli arrivava il volante, latinoamericano, capelli neri e una bocca carnosa. “Sono soldi quelli?” “Secondo te cosa cazzo sono?” “Dove devi andare?” “City Island Road. Pelham Bay Park.” “Io non ci vado di là, vado da un’altra parte.” “Hai visto quanti sono?” Jakob Ivanov allargò i bigliettoni come avrebbe fatto con una mano vincente a poker. “Sono un bel po’ di soldi. Non è che finisco nei guai?” “No, è solo un passaggio, Vado di fretta e i taxi sono occupati.” “D’accordo, sali.” Dodici ore dopo il signor Andrey Morozov andò a fare la solita passeggiata con il suo levriero afgano. Quando lo liberò dal guinzaglio il cane fuggì nel boschetto, come amava fare. Non tornò dopo aver fatto i bisogni. Il signor Morozov lo chiamò più volte e infine discese verso il boschetto, sotto la Pelham Bridge. 12


Smirnov era dietro un albero che agitava la coda. Quando il signor Morozov vide spuntare una mano da dietro l’albero quasi gli prese un colpo. Si avvicinò e vide un uomo, piuttosto grosso, con la gola completamente squarciata e un cacciavite conficcato all’altezza della trachea. L’altra mano era tesa in avanti, rigida. E mancavano quattro dita.

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NEW YORK, 2006



2 New York, 5 gennaio 2006. Ricordo uno degli inverni più freddi. In quel periodo c’era l’allarme aviaria in tutto il mondo, al-Qaida attaccò i mezzi pubblici a Londra causando morti e feriti, il parlamento spagnolo approvò una legge consentendo alle coppie omosessuali di sposarsi e di adottare bambini e l’uragano Katrina si abbatté su New Orleans e su tutta la Costa del Golfo degli Stati Uniti. Fu un disastro. Il Dipartimento di polizia di New York era organizzato attorno ad otto Bureaus e io ero nel DB, il Detective Bureau che si occupa di investigare e prevenire crimini. È composto da più divisioni specializzate, tra cui scientifica, persone scomparse, crimini importanti di vario genere come omicidi, vittime speciali e rapine. Inizialmente ero stato assegnato al nono distretto a Manhattan, sezione persone scomparse. Sembrava l’inizio di una grande carriera, ma come certe volte accade, tutto precipita in fretta. In breve tempo mi trovai assegnato ai casi irrisolti, in un ufficio che sembrava una cella e con un capo che non mi sopportava. Anzi, che mi detestava. C’era un tempo in cui sniffavo coca. Non so per quale motivo. Forse perché volevo provare emozioni forti, perché quando ce l’hai nel corpo tutto sembra prendere una forma differente. Il problema è dopo, quando non ne hai più. Quando decisi di smettere di tirare, rubai. Avevo sviato delle indagini in cambio 17


di denaro. Inoltre, le prove schiaccianti nel caso Bigoni, delle foto pedopornografiche, erano magicamente scomparse. Il capo ovviamente sospettava che fossi stato io, la pecora nera, ma non aveva alcuna prova. Ma non era solo quello. Mi avrebbe odiato in ogni caso. Questioni di pelle. Quando stai sul cazzo a un superiore è dura. Io desideravo entrare in azione, usare la mia pistola. Niente. I casi irrisolti mi venivano assegnati puntualmente ed erano sempre quelli più assurdi. In realtà questa sezione non era affatto figa come fanno credere in televisione. Il mio ufficio era nel Queens Police Department ed era nell’interrato, senza finestre, odore di muffa ovunque e con poca luce. Ricordo di aver schiacciato sotto la mia suola almeno una ventina di cimici. Di insetti ovviamente. Anche se non mi sarei stupito di trovare una qualche cimice elettronica incollata sotto la mia sedia. Mi sentivo come Fox Mulder, ma senza una Dana Scully e soprattutto senza un Walter Skinner o casi sovrannaturali, soltanto con un Uomo-che-fuma molto incazzato, il capo Bureau Conn Frass. Afroamericano, nerissimo, alto e col volto rabbioso. Vicino al mio ufficio c’erano i bagni. Così, se lasciavo la porta aperta sentivo la puzza di piscio (per non dire altro) dei miei colleghi. Avevo addirittura stilato una classifica dei più incontinenti. Al primo posto c’era Marcus Hopp, un grassone del secondo piano. Faccia da contabile. Uno di quelli che ti sorridono sempre e poi sono i primi a sparlare di te e a invidiarti per ogni cosa: il modo di vestire, l’aspetto, gli amici, i soldi o una bella moglie. Ricordo il sergente John Reiss, che usciva dai cessi con la toppa ancora aperta. Se la chiudeva uscito dal bagno, guardandomi con quel suo sorrisetto del cazzo stampato sul volto. Giuro che avrei voluto piantargli una matita nel collo e vederlo dissanguare. Il capo gli copriva le spalle ovviamente. Chissà perché poi. Uomo di poca inventiva. 18


Sveglio, ma prevedibile. Probabilmente per questo motivo. Ai capi insicuri non piacciono quelli svegli e scaltri. Preferiscono quelli sottomessivi e prevedibili e io non ero entrambe le cose. Ero stanco e stufo. Ma in quel periodo non sapevo ancora che il cadavere sulla mia scrivania mi avrebbe cambiato la vita.

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