1
2
1
3
4
Giovanni De Vecchis
EATING FLOWERS
5
6
Ai miei cari, Loredana e Furio, che sono tutta la mia vita.
7
Ogni riferimento a cose, luoghi e persone è puramente casuale e usato esclusivamente a scopi narrativi.
8
Partout où j’ai voulu dormir, Partout où j’ai voulu mourir, Partout où j’ai touché la terre, Sur ma route est venu s’asseoir, Un malheureux vetu de noir, Qui me ressemblait comme un frère. De Musset
Giovedì, 14 agosto 2003
1 Una nebbia fumosa e acre avvolgeva la città. Per tutta la mattina, un paio di Canadair si erano alternati tra il mare e i monti cercando di arginare un grosso incendio divampato nella notte sulle alture intorno all’abitato. Dietro i fumi dei pochi focolai rimasti accesi, si udiva il rombo dell’elicottero della Protezione Civile che perlustrava lento le colline nere, rese calve dalla furia del fuoco. Pasquale aveva appena finito il suo orario all’officina e per quindici giorni non ci sarebbe più tornato, erano cominciate le ferie estive. In sella al suo Runner truccato sfrecciava lungo la circonvallazione a mare, quando sentì qualcosa ficcarsi nel suo orecchio sinistro. Era una mosca. Frenò di colpo e si accostò al marciapiede. Tolse in fretta il casco e imprecando si schiaffeggiò l’orecchio con violenza, fino a non sentire più il fastidioso ronzio dell’insetto che era riuscito a scappare. Pasquale aveva due grosse sventole e guarda caso c’era sempre un qualcosa che ci finiva dentro. Al Convitto i compagni lo chiamavano Jumbo. Arrivato ai margini della città vecchia, un semaforo rosso lo costrinse a fermarsi. Dopo essersi guardato intorno alla ricerca di qualche Vigile, diede un colpo d’acceleratore e salì con un balzo sul marciapiede per poi infilarsi in un ombroso carruggio dei quartieri dell’angiporto.
9
Il termometro segnava sempre trentaquattro gradi nonostante fossero le cinque del pomeriggio. Le previsioni non indicavano inversioni di tendenza e i giornali annunciavano che sarebbe stata l’estate più calda del secolo. Dalle finestre facevano capolino qua e là facce insonni, distrutte dalla prospettiva di passare in bianco chissà quante altre notti ancora. Nel malandato centro storico la notte era quasi infernale, perché le case sputavano fuori tutto il calore accumulato durante il giorno. All’angolo con Vico Camelie, dinanzi ad una pescheria, una coppia d’impiegati guardava indecisa se acquistare o meno le ultime acciughe rimaste sopra un letto di ghiaccio ormai sciolto. Pasquale gli passò veloce alle spalle sfiorandogli le borse e mentre si allontanava divertito, sentì le loro stanche imprecazioni perdersi nella canicola pomeridiana. Svoltò ancora a sinistra e a destra evitando sacchetti di spazzatura e mucchi di bottiglie di birra, consumate durante la notte dai sudamericani insonni. I vicoli si erano fatti sempre più stretti, bui ed intricati: era la parte più malfamata di Genova. Con una mano si tolse il caschetto godendosi l’aria tra i capelli. Giunto sotto un piccolo portone, appoggiò lo scooter al muro e tirò fuori, da sotto la sella, un pacco avvolto in un sacchetto di plastica. Sul lato sinistro dell’entrata una donna grassa con i capelli ossigenati, era seduta su una sedia da cucina di legno. Stava sistemando su un piccolo banchetto, sostenuto da due cartoni vuoti, delle sigarette di contrabbando, dei rasoietti di plastica blu e dei profilattici. “Ciao Carmela”, salutò Pasquale sorridendo. “‘N’ata vota ccà?!” la donna con un vocione profondo e rauco da sigarette, gli face segno con le mani di andarsene. “Dammi un pacchetto di Camel. C’e Giannino?” indicò il portone con la testa. “Guagliò, nun da’retta, vattenne!” “Non ti preoccupare”, rispose Pasquale con piglio sicuro. Carmela l’afferrò dietro la testa e se lo tirò in mezzo al suo grande seno sudato. “Tien’ a ‘vocca che t’puzza ancora ‘e latte, piccerè.” Il ragazzo rimase per un momento immobile in mezzo a quelle tette materne, poi ci soffiò contro emettendo una sonora pernacchia prima di liberarsi dalla stretta. Prese dal banchetto le sigarette e salutò in modo 10
scanzonato la donna, avviandosi verso il piccolo portone dove all’entrata incrociò una coppia vociante di giovani prostitute africane. Le ragazze, durante il giorno, erano sempre acqua e sapone senza quello spesso trucco bianco usato nella notte. Carmela aveva fatto la professione per tanti anni, ora si era ritirata per raggiunti limiti d’età, però era rimasta nel campo: si arrangiava vendendo sigarette di contrabbando, profilattici e caramelle di menta. Pasquale diede loro un’ultima occhiata, ed entrò nel portone
2 Un odore di muffa pervadeva il buio magazzino, numerosi scatoloni di materiale hi-fi e altre casse di merce d’ogni genere affollavano il pavimento sudicio. Un televisore a cristalli liquidi, appeso al muro sotto un crocefisso, trasmetteva l’ennesima telenovela. Pasquale era fermo in piedi davanti ad un grosso tavolo, dietro il quale stava un uomo sulla cinquantina, grasso da far paura. Era Giannino l'usuraio. Un piccolo e massiccio Bouledogue francese nero, chiazzato di bianco sul torace, era seduto per terra al suo fianco. Aveva le orecchie dritte come quelle di un pipistrello e lo fissava con due occhi curiosi che spuntavano vividi dalla fronte bombata. I movimenti dell’uomo erano lenti e precisi e la sua voce tradiva la scaltrezza di un vero figlio di puttana. Dal lato un ventilatore spazzava l'aria ferma del locale. “Duecentocinquanta.” Pasquale estrasse dal sacchetto di plastica un servizio di vecchie posate, una piccola zuccheriera d’argento, un Rolex in acciaio e una manciata di gioielli. Giannino guardò con sufficienza la merce senza muoversi. Il ragazzo intuì il gioco al ribasso dell’uomo, ma tentò lo stesso, anche se sapeva che sarebbe stato inutile. Con aria seccata prese l’orologio e glielo rigirò sotto il naso. “È un Submariner. Non ha neanche una riga. Scalami duecento e va bene così.”
11
L'usuraio tirò fuori dal cassetto dei cioccolatini, ne prese uno e lo offrì a Pasquale, che rifiutò con un cenno della testa. L'uomo sorrise, scartò il cioccolatino e se lo mise in bocca. “Cento per tutto, se no fila.” Nella cavità impastata di cioccolato, brillava tra la saliva marrone un incisivo d'oro. Pasquale sbatté l’orologio sul tavolo, si aspettava almeno centocinquanta euro per quella merce. Non era giusto. Le tempie iniziarono a pulsargli veloci e i lineamenti si corrucciarono sul viso che avvampava dalla rabbia. Giannino vedendolo paonazzo e furioso, rise in modo sguaiato. “Sei un ladro.” “Senti chi parla.” L'usuraio continuò a ridere. Prese un altro cioccolatino dalla scatola e si alzò lento, a fatica dalla sua poltrona, si avvicinò a Pasquale e gli mise la mano fra i capelli all'altezza della nuca. “Potresti scalare di più se tu lo volessi…” Quelle dita sudate e grosse, come dei wurstel appena usciti da un bollitore, provocarono nel ragazzo un senso di ribrezzo. Avrebbe voluto dargli un calcio nelle palle fino a fargliele salire in gola, ma si trattenne. Doveva stare calmo, se si fosse lasciato andare al suo istinto, l’uomo lo avrebbe fatto di certo pestare a sangue dai suoi. In realtà, quello che Pasquale temeva di più, non erano le botte ma il fatto che l’uomo gli avrebbe preso lo scooter per ritenersi soddisfatto del debito. Questo non lo avrebbe sopportato. In quel momento la moto rappresentava tutto quello che voleva. Questi pensieri diedero tregua alla sua rabbia e il sangue lasciò piano piano spazio alla lucidità. Non era giusto, ma ora non poteva farci nulla. Prese con calma la mano dell’usuraio e, guardandolo fisso negli occhi, gliela allontanò, giurando a se stesso che prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare. “Vanno bene i cento.” Pasquale gettò sul tavolo il mazzo di chiavi. Giannino rise ancora, tornò alla poltrona e nel sedersi emise una sonora scoreggia. Da un cassetto tirò fuori una grossa rubrica, consumata e straripante di foglietti, la aprì all'altezza della lettera P e annotò la cifra, poi la rimise dentro insieme alle chiavi. Pasquale sapeva che l’uomo gli avrebbe consegnato un nuovo indirizzo e un altro mazzo di chiavi e non sopportava di essere obbligato a rubare. Non che avesse remore morali, ma se lo faceva doveva essere lui a deciderlo. 12
Gli piaceva, infatti, quella sensazione particolare, quella stretta allo stomaco provocata dall’adrenalina nel momento del pericolo. La stessa che sentiva quando affrontava a manetta le curve, durante le gare di velocità con il suo Runner truccato. Il ragazzo aveva iniziato a rubare all’età di sette anni, arraffando per fame nei supermercati: biscotti, merendine e succhi di frutta. All’epoca viveva con sua madre Anna, in un quartiere dormitorio sulle alture di Prà. Le lavatrici. Così erano state ribattezzate dai genovesi, questo blocco di case color cemento, per via dei grossi oblò che ne caratterizzavano la vista dalla strada costiera. Questa avveniristica lavanderia in muratura grigia era l’ennesimo parto di un’architettura creativa per migliorare l’edilizia popolare. In realtà ciò che era migliorato, era la rendita di quelli che avevano lavorato al progetto, ci avevano guadagnato tutti fuorché quelli che ci abitavano. L’edificio era stato costruito con materiali scadenti e il Comune, nell’assegnare le case, non aveva cercato di amalgamare le famiglie in modo differenziato, le aveva invece attribuite per gruppi omogenei di reddito creando, in alcuni casi, dei veri e propri ghetti-dormitorio. A Prà, nelle serre sulle colline di fronte al mare, si coltivava il miglior basilico per fare il Pesto e nelle Lavatrici, si coltivava la miglior delinquenza della città.
3 Sullo sfondo del porto antico, le auto scorrevano veloci lungo la sopraelevata che dalla Foce portava alla Lanterna. L’atmosfera fumosa era quasi del tutto scomparsa, lasciando un ricordo di cenere chiara sulla città. Dabbasso, alcuni turisti giapponesi accaldati, salivano lenti e incolonnati per la via che conduceva dal Duomo di San Lorenzo al Palazzo Ducale. Le voci di una discussione echeggiavano da dentro la Vineria Bernardo. Il locale era una vecchia mescita di vino degli anni sessanta situata in via di San Bernardo. Il proprietario era Arturo Savasta, un uomo sui quaranta dall'aspetto rassicurante. Un uomo che, se osservato con attenzione, lasciava però trasparire, dietro all’ironia del suo sguardo, un vago senso di malinconia. Due vuoti serbatoi vinari in cemento sovrastavano nell’entrata 13
il lungo bancone ad arco in formica verdolina. Arturo aveva mantenuto l’aspetto circolare del locale che all’epoca era stato ricavato da una grossa cisterna medioevale dell’acqua, una di quelle che servivano da vaso comunicante per la zona dell’angiporto genovese. Aveva eliminato la mescita al bicchiere e lasciato le vecchie scaffalature di legno che correvano ricurve sugli alti muri di mattoni. Aveva poi sistemato le bottiglie sulle mensole secondo un suo particolare ordine: erano suddivise per famiglie di profumi. Solo il pavimento era stato rifatto con al centro un mosaico raffigurante un grosso fiore rosso. “Te lo dico io perché non va bene.” “Perché?” “Perché ci mettono dentro i trucioli o qualche estratto, e voilà! Il gioco è fatto.” Due uomini, in piedi sul lato esterno del bancone, stavano discutendo. Enrico e Pino, erano due sommelier che di solito praticavano la vineria prima di recarsi al loro ristorante. Arturo li ascoltava in silenzio, mentre da sopra una scaletta sistemava sullo scaffale degli Erbacei e Vegetali le ultime bottiglie di un Sauvignon francese arrivate in mattinata. D’estate si vendevano soprattutto bianchi e quelli della zona del Sancerre erano tra i più richiesti dai palati raffinati. “La colpa è degli americani, bevono qualsiasi cosa, basta che sappia di legno”, concluse Enrico, con una punta di ironico disprezzo. “Sì va bene, ma non è tutto così, ci sono anche dei bei prodotti, fatti bene”, ribattè Pino scuotendo appena il capo. “Non discuto, ma io preferisco le botti grosse, almeno non sa tutto di vaniglia e poi il troppo stroppia, adesso fanno anche il limoncello bariccato.” “Baricca oggi, baricca domani e poi finiamo tutti dietro le barricate”, fece Arturo scendendo la scaletta e raccogliendo i cartoni vuoti da terra. I due lo guardarono con aria perplessa. “Dai scherzavo, non fate quella faccia!” “Questa l’ho già sentita, ma era un po’ diversa: il ne faut pas faire des barriques mais des barricades. L’ha scritta Mascarello sulle sue etichette
14
di Barolo attribuendola a un immaginario Robespierre contadino”, osservò Enrico con aria saccente. “E io che pensavo di aver fatto una bella battuta.” Il suono del campanello della porta d’entrata annunciò l’arrivo di Maria e della piccola Ambra. “Ciao Arturo, te la posso lasciare mezz’oretta?” Maria venne avanti tenendo per mano la bambina. “Ciao Ambra.” “Ciao, ce li hai ancora i tappi?” “Sì che li ho, e tu l’hai portata la colla?” la bambina annuì con la testa lanciandogli uno sguardo furbetto. Da dietro la schiena tirò fuori la mano nella quale teneva già stretto lo stick di colla. “Mi devi anche finire la storia dell’anguria e del bambino.” “Dove ero arrivato?”, le chiese Arturo con il capo inclinato a sinistra. “Che il bambino era stato regalato al re dal mercante di schiavi”, rispose veloce la piccola. “Ambra! Fai la brava e non dare fastidio ad Arturo. La mamma torna subito, va a fare le pulizie alla banca e viene”, si raccomandò la donna con voce ferma ma amorevole avviandosi verso l’uscita. Maria era rimasta improvvisamente vedova a trent’anni con una figlia di quattro da crescere. Il marito era morto in un incidente sul lavoro, un muletto lo aveva schiacciato mentre stava scaricando una portacontainer in una notte piovosa. Tanta solidarietà ma nessun indennizzo serio da parte del Terminalista. La colpa dell’incidente era stata attribuita alla disattenzione del carrellista. Peccato solo che il capro espiatorio fosse al suo secondo turno consecutivo, che nei nuovi Distripark portuali non ci fossero più regole e che il cottimo fosse diventato ormai all’ordine del giorno. Maria, che non aveva neanche i soldi per vivere, non aveva intentato alcuna causa. In fondo era una donna del popolo e di questioni legali non ne capiva molto. Si era rimboccata le maniche e aveva trovato lavoro come donna delle pulizie. Il campanello della porta tornò a suonare, segnalando l’arrivo di un giovane yuppie. La camicia dal collo alto doppio bottone, il nodo della cravatta ampio e il vestito sartoriale stile Vecchia Genova, con la manica corta 15
e avvitato sui fianchi, conferivano al commercialista un aspetto steccato, quasi da marionetta. “Buonasera, cercavo una bottiglia di vino rosso passato in barrique”, chiese il giovane con aria atteggiante. Arturo gli fece cenno con la mano di aspettare, stava dando i tappi ad Ambra. “Eccone un’altro, il classico tipo che oltre ad avere un legno nel culo, se lo beve anche”, commentò sottovoce Enrico. L’uomo che era arrivato dritto al bancone, si girò verso i due sommelier. “Permette, Enrico Tronchetti, sommelier professionista”, si fece avanti tendendo la mano all’uomo. Il giovane contraccambiò sospettoso il saluto, poi vedendo il taste vin d’oro appuntato sulla giacca di Enrico, accennò un sorriso a labbra strette. “Ho ascoltato per caso la sua richiesta, mi permetta di consigliarle il Legnaia 97’, cru il Bacco, Tenuta il Truciolo di San Giminiano, un rosso toscano molto particolare con delicate sensazioni fruttate e floreali che si fondono con armonia a note vanigliate e di leggera tostatura dolce, in un insieme di finezza ed eleganza che persiste nel palato per molto tempo con sfumature di liquirizia ed eucalipto.” Il giovane che, come aveva ben intuito Enrico, non era un intenditore ma un parvenu alla moda, rimase sopraffatto da tanta cultura ma cercò comunque di darsi un tono. “Me lo consiglia?” “Giovanotto!… A occhi chiusi.” Arturo e Pino che avevano ascoltato la conversazione si trattennero dal ridere. L’amico non si chiamava Tronchetti ma Parodi e il Legnaia 97’, cru il Bacco, Tenuta il Truciolo di San Giminiano, era pura invenzione. Enrico era un mattacchione e non sopportava i commercialisti. “Mi spiace ma il Legnaia l’abbiamo finito”, disse Arturo avvicinandosi. “Se vuole un buon rosso toscano passato in legno piccolo le consiglierei questo.” Arturo prese dallo scaffale degli Speziati una bottiglia di rosso di Bolgheri. Il commercialista guardò Enrico in cerca di conferme, ormai era diventato il suo sommelier di fiducia. Enrico si rese conto dagli occhi di
16
Arturo che non poteva continuare a giocare e con un sorriso rassicurante, che nascondeva un ghigno divertito, gli fece un cenno affermativo.
4 Il ghiacciolo gli scolò sulla mano. Pasquale leccò subito il gelato impedendo la caduta di un’altra goccia collosa, poi lo passò dall’altra parte e si pulì sui jeans guardandosi le unghie nere macchiate dall’olio dei motori. La sensazione di ribrezzo, provocatagli dalle mani di Giannino, non lo aveva ancora del tutto abbandonato. Doveva ad ogni costo finire di pagare il debito. Non gli mancava molto, ma qualunque cosa rubasse, anche se di buon valore, l’uomo la stimava poco e niente costringendolo a rubare ancora. Diede ancora una succhiata al ghiacciolo che scolorì, lasciando un alone di ghiaccio bianco contornato di rosso fragola. Senza un’apparente curiosità, alzò la testa verso due finestre che si trovavano al terzo piano di un vecchio edificio dell'ottocento dalle facciate ormai spente. I pochi affreschi rimasti ai fianchi di una meridiana logora e le finestre basse al primo e all'ultimo piano, lasciavano intuire che doveva essere stata un’abitazione nobiliare. L’ombra della meridiana segnava più o meno le sei del pomeriggio. Pasquale infilò la mano in tasca dove trovò le chiavi e il biglietto che gli aveva dato l’usuraio, li strinse per un attimo come a rassicurarsi che fossero ancora lì. Poi tirò fuori il pezzo di carta e ripassò il nome e l’indirizzo, diede l’ultimo morso al ghiacciolo e scese dallo scooter con lo stecco tra i denti. Gli piaceva succhiare quel sapore di legno bianco fino all’ultimo. Attraversò la strada e svoltò l’angolo arrivando di fronte all’entrata del palazzo. Schizzò lontano il bastoncino con l’indice e iniziò a scorrere i nomi sui citofoni fino a che non trovò quello che gli interessava. Era il numero 12 A.SAVASTA. Pasquale entrò nella piccola latteria all’angolo dell’edificio, la procedura era sempre la stessa, doveva telefonare per vedere se l’appartamento era vuoto. “Posso fare una telefonata?” chiese al barista. 17
L’uomo che stava sciacquando delle tazzine, fece un cenno d’assenso con la testa. Il ragazzo si avvicinò all'apparecchio appeso al muro, prese in mano l'elenco del telefono e iniziò a cercare “esse… esse… San… Sat… Sattero, Sattovito… ma che cazzo di nomi, Savastano… Savasta Arturo, eccolo.” Infilò la scheda magnetica nell’apparecchio e compose il numero, dopo qualche squillo si udì la voce registrata di una segreteria telefonica. “Sono momentaneamente assente, lasciate un messaggio dopo il bip e sarete richiamati al mio ritorno… BIIIP.” Nella latteria si udì lo sbuffo della macchina del caffè. Pasquale attese ancora qualche secondo, poi riagganciò la cornetta e si avviò verso l'uscita.
5 Era giunta ormai l’ora della chiusura. Arturo e Enrico stavano sistemando vicino all’uscita due cartoni di Sauvignon da portare al ristorante dell’amico. Per il vicolo, la gente, sfatta dal caldo, ritornava verso casa con le borse cariche della spesa per la festa di mezz’estate. Una gente varia e variopinta. Da qualche tempo i vicoli genovesi erano tornati ad essere multietnici e non a causa dell’attività portuale, com’era successo negli anni sessanta. In quegli anni, infatti, in via Prè si potevano incontrare marinai di tutte le nazionalità alla ricerca, durante le poche ore di sbarco, di bagasce e bevute, sempre tallonati dalle terzine della Militar Police che perlustravano i numerosi locali a luci soffuse della parallela via Gramsci. Oggi erano gli inarrestabili flussi migratori a far sì che nei vicoli si potessero ascoltare fino a nove dialetti africani, per non parlare dei colombiani, ecuadoriani, costaricani e dei cinesi che negli ultimi tempi avevano preso il posto dei nord africani, acquistando in contanti a quasi il doppio del loro valore una serie infinita di negozi dove vendevano, confezionavano, mangiavano e dormivano stipati come silenziose formiche. Arturo aveva già spento le luci del locale quando arrivò, zoppicando a passo svelto, Elena Giusti. “Scusi per l’ora ma non ce l’ho fatta a fare prima.” “Non si preoccupi, stasera ho anticipato un po’ per una consegna”, la rassicurò Arturo. 18
“Il Gewurtztraminer che aspettava è arrivato, se le interessa è arrivato anche dell’ottimo Sauvignon francese”, indicò i cartoni vicino ai piedi di Enrico. Arturo riaccese i faretti sopra la sezione degli Eterei e dei Tostati e si avviò dietro il bancone. Elena si guardò attorno, incuriosita dalla strana atmosfera creata nella vineria dall’illuminazione parziale. Arturo notò il suo interesse. Prese il Gewurtztraminer dai Fruttati e il Sauvignon dagli Erbacei e Vegetali, li incartò e accese il fornello della ceralacca. Elena, sentendo l’odore della Cera di Spagna salire nell' aria, si voltò. “Ma no, lasci così, tanto è per me.” “Ho già finito.” Arturo appose il sigillo della Vineria sul pacchetto che rappresentava lo stesso fiore rosso che era disegnato a mosaico sul pavimento del locale. “Che buono l’odore della cera lacca, mi ricorda mia nonna quando spediva i pacchi di caramelle ai miei cuginetti.” Arturo, si avvicinò con le bottiglie in mano, non conosceva quell’aroma, ne tanto meno poteva sentirlo, un incidente all’età di dodici anni, gli aveva offeso per sempre il senso dell’olfatto. Da allora il suo naso non aveva più sentito nulla e anche quando mangiava, le pietanze non gli riportavano più nessun gusto, ma solo sensazioni approssimative. “È uno dei miei preferiti”, mentì. “Pensi che in alcuni rossi invecchiati si percepisce nettamente fra gli altri sentori.” “Davvero!?” esclamò stupita Elena, mentre tirava fuori, dalla sua cartella di pelle nera, il portafogli. “Le ho messo dentro anche una bottiglia di quel Sauvignon, così l’assaggia.” “Va bene, grazie. Quanto le devo?” “Lasci, poi ci aggiustiamo ho già chiuso la cassa.” Arturo le diede le bottiglie e proprio nel momento in cui la donna gli stava più vicino iniziò a prudergli il naso. Elena salutò i due e si allontanò zoppicante. Enrico aveva scrutato con attenzione la donna. Il Sommelier era un uomo curioso, criticone e sferzante nei giudizi, ma, a queste caratteristiche, non proprio positive, ne affiancava una che ristabiliva un certo equilibrio 19
complessivo: era sincero, diceva pane al pane e vino al vino e soprattutto senza mai farsi scrupolo di chi lo ascoltasse. “L’ho già vista da queste parti. Viene spesso?” “Un paio di volte alla settimana, deve essere un architetto o qualcosa del genere”, ipotizzò Arturo passandosi il palmo della mano sul naso per allontanare il prurito che ancora continuava. “Hai visto come zoppica?” “Avrà avuto un incidente”, rimandò Arturo distratto. “Già… un po’ smilza, ma carina e con un buon profumo.” “Senti, prendi le bottiglie e lascia stare i profumi delle donne, che hai già difficoltà con quelli del vino”, lo punzecchiò Arturo alzando da terra un cartone. “Uh! Uh! Non dicevo per quello, mi sembra che tu negli ultimi tempi…” Enrico, fece un gesto con la mano, sottintendendo il fatto che l’amico era da un po’ che non stava con una donna. Arturo non gli fece finire la frase, gli piazzò in braccio le bottiglie e lo spinse fuori. Quelli erano solamente affari suoi. Eppure le parole di Enrico sulla donna continuavano a tornargli alla mente. Arturo provò ad immaginare che tipo di profumo potesse usare. Tutte le volte che l’aveva vista era vestita di nero, i capelli biondi a coprire i begli occhi scuri in un’acconciatura come quella di Daryl Hannah in Blade Runner. La cartella in cuoio nero, tipo architetto, era sempre la stessa. Mai una borsetta o qualche accessorio femminile, forse solo due orecchini d’oro bianco e brillanti. Socievole ma riservata al tempo stesso. Un tipo così, avrebbe potuto scegliere un profumo secco, agrumato, deciso come il nero dei suoi vestiti, o forse anche un muschiato leggero, come leggeri i suoi capelli coprivano il nero umido dei suoi occhi. Ma, da qualche parte, intuì che ci doveva essere un attacco, una pungenza, scintillante come i cerchietti che portava ai lobi. Enrico aveva sentito quella pungenza e Arturo, pur non potendo percepire nulla, lo aveva avvertito dal pizzicore al naso, che si era in qualche modo scosso dal suo torpore. Un accadimento singolare che gli era successo solo quella volta con la fioraia di Bangkok. Profumo, donna, odore, il profumo di una donna, di tutte le donne. Nella sua testa le parole rimbalzavano. Cercò il ricordo di una sensazione 20
olfattiva, ma ben presto la ricerca si esaurì, lasciando solo quello che aveva letto a proposito dei feromoni odorosi che secernono le ghiandole degli amanti durante l’innamoramento. Forse era per quello che non aveva mai incontrato una donna di cui innamorarsi. Non sentendo gli odori, i suoi feromoni non rispondevano alle sollecitazioni di quelli femminili. Chissà, forse era davvero così. Finalmente, però, gli arrivò un ricordo odoroso, era quello di sua madre quando era piccolo, prima dell’incidente al naso. Le sue mani, sapevano di varechina, il suo collo era un misto di crema da giorno andante e di un profumo agrumato molto in voga ai quei tempi il Gold Medal, che suo padre le aveva regalato per Natale. Ricordò anche che i suoi fazzoletti sapevano di mimosa, per l’abitudine che lei aveva di mettere i piccoli fiorellini gialli nei cassetti fra la biancheria. Con la testa immersa in quegli unici ricordi profumati, Arturo infilò le chiavi nel portone del palazzo e salì verso casa. Non poteva sapere che qualcuno, soltanto poco prima, si era interessato proprio al suo appartamento.
21