Il Fuoco della Fenice

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Luca Azzolini

Il Fuoco della Fenice

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A Chiara Guidarini, Antonia Romagnoli, Francesco Falconi, e Stefano Romagna. PerchĂŠ ognuno di loro, ciascuno a modo suo, ha fatto, fa e farĂ parte di questo romanzo. L. A.

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Prologo Parla Twil «A volte mi fermo e penso…» volte mi fermo e penso a quando la mia vita si è trasformata in una leggenda. Non lo ricordo con esattezza. Forse nemmeno lo desidero. È un pensiero come tanti, passeggero. Dura solo un istante. Un battito di cuore e nulla di più. A volte nemmeno ci bado. Ma ci sono giorni – giorni come questo – in cui proprio la testa non ne vuole sapere, e macina pensieri senza sosta. È allora che mi chiedo: quando una leggenda diventa tale? E io? Quando lo sono diventata? Non lo so. In tutta onestà, non lo so. Forse lo sono sempre stata e non me ne sono mai accorta. O forse c’è stato un istante preciso in cui tutto è cambiato, ma ora mi sfugge.

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Un battito d’ali Occhi dorati. Un frammento di sole. No, non so dirlo con esattezza. E a dire il vero non so più cosa sia reale e cosa no. Il sole è un immenso dio dorato che di giorno riempie il cielo e che di notte tinge di rosso la volta del firmamento. La terra è uno sterile deserto dove vivere è difficile per tutti, non solo per me. No, non sono una maga, come dicono alcuni. Nemmeno una strega o una dea caduta: ma un’orfana. Ecco, questo è quanto. Questo è tutto. E qui, ai margini del deserto, in riva all’unico oceano rimasto sulla faccia della terra, posso provare a sentirmi libera. La desolazione devo lasciarla alle spalle e con essa il rimorso di aver fatto qualcosa di sbagliato, di aver dato un dolore a qualcuno. 9


Non sarà facile. Dovrò provarci.

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ATTO I

IL SANGUE DELLA FENICE

Noi siamo i figli di un unico dio. Il sole, la luna, il buio, il vento, stanno ascoltando che cosa abbiamo da dire. Anonimo

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Capitolo 1 «Alla luce del tramonto…» lla luce del tramonto la cittadina di Sabbiescure era solo uno sgangherato profilo di case e lamiere arrugginite, ombre nere nel rosso senza fine del deserto. Non c’era molto altro da vedere nella parte meridionale del mondo conosciuto. La terra si riduceva a poco più di un ammasso di baracche fatiscenti che a fatica reggevano gli assalti del tempo. Polvere. Polvere e rocce. Uno dei tanti luoghi dimenticati da Dio, dove un vento quieto alzava a ogni ora del giorno e della notte la sabbia in piccoli vortici sottili. Granelli fastidiosi che s’intrufolavano dappertutto e pungevano il viso, graffiavano il corpo, lasciando i segni del loro passaggio. Ma in quel momento alla donna non importava. Era solo un puntino bianco nell’immensità rossa. Uno svolazzare di veli candidi che pochi avrebbero notato fra tutto quel rosso. Nulla più che una forma indistinta. Eppure, sembrava che attorno a lei il vento soffiasse con foga maggiore e che il sole indugiasse più a lungo. Il suo nome era Ehlara. Un nome antico. Un nome un tempo, forse, nobile, ma ora sventurato. Con affanno, la donna arrancava per il deserto quasi fuggisse da qualcosa. Di tanto in tanto si voltava indietro. Scrutava le baracche di scura lamiera. Si segnava la fronte a scacciare una qualche maledizione che soltanto lei poteva percepire. Nessuno. C’erano solo la sabbia, il vento e il sole a seguirla. Il sole, già, una macchia indistinta amaranto e oro fissa alla base del cielo, che tingeva ogni cosa di un mesto scarlatto. Nessuno a inseguirla. Nessuno a supplicarla di tornare indietro. Nessuno a minacciarla di farlo con la forza. Forse non sarebbe servito a nulla. Forse avrebbe fatto meglio a chinare il capo e ad accettare in silenzio il suo ruolo nel mondo. Forse…

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Qualcosa si mosse vicino al suo petto, interrompendo il corso vorticoso di quei pensieri. Cauta, la donna mosse un lembo di stoffa chiara che l’avvolgeva stretta, guardò il fagotto che riposava contro il suo petto e tornò a spostarsi per il deserto. Una duna. Cinque. Dieci. Il Deserto Meridionale era sempre lo stesso: soffice sabbia cremisi, vento caldo, ombre blu e viola che preannunciavano la notte imminente. Una notte fredda e senza luna. «In questo momento» disse con un po’ d’affanno, «può darsi che non ti sembri la cosa più giusta da fare, ma devi credermi: lo è. Un giorno capirai, ne sono certa. Dove stiamo andando troverò un mondo intero da regalarti, un mondo migliore tutto per te.» Sorrise al vento. Ma non parlava al vento. Parlava alla piccola creatura che aveva con sé, avvolta nell’abito chiaro, protetta dalla sabbia, dal sole, dal cielo che sembrava incombere su di loro pronto a inghiottirle. La piccola ciangottò qualche parola. Solo qualche frase storpiata da una voce non ancora pronta a proferire concetti articolati. Poi appoggiò la testolina ricciuta contro la spalla di Ehlara. Si era riaddormentata. Forse non aveva udito. Forse, entrambe, avevano ancora una speranza. La donna mentì a se stessa e continuò la sua fuga premendo una mano contro il volto della piccola. Voleva essere una carezza, ma allora perché tremava? Non volle darsi risposte. Arrancò per il deserto. Oltrepassò altre dune. Sabbiescure era ormai soltanto un ricordo. Un mondo nuovo la attendeva. E se fosse stato migliore o peggiore di quello che lasciava lo avrebbe scoperto soltanto col tempo. Però di una cosa era certa, assolutamente certa: il passato l’avrebbe inseguita ovunque si fosse nascosta… *** «Come posso fare questo a mia figlia?» Ehlara alzò la voce come non aveva mai fatto prima in vita sua. La lampadina sopra le sua testa ondeggiò gettando aloni scuri sulle pareti di lamiera. 14


«Mia madre… Mia madre è morta in modo orribile!» gridò. «E io morirò allo stesso modo, è il nostro destino. Il destino della nostra stirpe, lo so!» S’inginocchiò con trasporto e nel farlo afferrò una mano spessa a callosa. «Ma ti prego, ti scongiuro: ascoltami. Non posso permettere che accada anche a mia figlia. Non puoi volere questo. Devi aiutarmi. E’ troppo giovane per portare un simile peso…» «Nessuno è troppo giovane.» Una voce maschile, profonda e gentile, echeggiò tra le grigie lamiere della casa ai bordi del villaggio. Sabbiescure dormiva. La notte era placida e il vento solo un sussurro raschiante. «La Predicatrice sa ogni cosa», continuò l’uomo. «Lo sai. La Predicatrice è certa…» «Lo era anche in passato… di mia madre», lo interruppe Ehlara. «Tua madre non è tua figlia. Destini diversi, storie diverse.» Un tremore impercettibile gli spezzò la voce impedendogli di parlare. La donna si scostò nervosa. Passò una mano fra i lunghi capelli rossi allontanandoli dal viso. Le dita, gelide, tremavano un po’. «Non puoi…» «È così.» «No, no!» esclamò con un tono di voce tra il triste e il disperato, che non ammetteva repliche. «Non puoi dire sul serio! Io ho paura. Mi capisci? Ho paura» sillabò. «Già due volte sono riuscita a scampare di stretta misura alla morte. Ma presto o tardi mi prenderanno. E mi uccideranno. Quei fanatici non si fermeranno davanti a nulla. Ma quel giorno…» esitò «…quel giorno voglio che mia figlia non sia con me. Dovrà essere al sicuro!» L’uomo, un vecchio curvo per l’età, con i capelli grigi e lo sguardo gentile, la fissò amareggiato. «E credi che “al sicuro” sia qui con me?» Si agitò un po’ sullo sgabello di legno scuro. Uno dei pochi arredi di quella abitazione, assieme a un tavolo, un letto, e una vecchia credenza. «Credi che non abbia provato a proteggere ciò che avevo di più caro dalla loro follia? Credi che non rimpianga ogni secondo in cui respiro? Io vedo fiamme. Io vedo cenere. Sempre.» «Papà…» «No, Ehlara.» Quelle parole erano un grido carico di disperazione. 15


Per un momento il silenzio bruciò fra loro come un ferro rovente. «Tua madre… è morta. E non ho potuto fare nulla per impedirlo.» Lo sguardo di entrambi andò al moncherino scuro che l’uomo aveva al posto della mano sinistra. L’arto era bruciato assieme alla madre di Ehlara. «Nulla» ripeté il vecchio. «Lo rimpiangerò per sempre, Ehlara. E tua figlia, per quanto io voglia il suo bene più di ogni altra cosa, qui non sarà mai al sicuro. Né qui, né altrove. Mai.» Dal giaciglio su cui Ehlara aveva adagiato la bambina si levò un pianto acuto. La donna lo raggiunse. Scostò le coperte e si specchiò in uno sguardo arrossato dalle lacrime. Uno sguardo identico al suo. Identico a quello di sua madre. Occhi color dell’oro appena fuso, cerchiati di rosso. Veri e propri frammenti di sole al crepuscolo. «Io devo salvarla» disse soltanto. L’abbracciò forte e la cullò un poco. Poi la adagiò nuovamente sul letto, susurrandole parole gentili. «Buona, stai buona piccina. Non temere. Ci sono qua io con te.» «Ehlara…» «La salverò», chiosò irremovibile. «E come?» Fissò suo padre. «La porterò lontano.» L’uomo assunse un’espressione accigliata. Rughe e vecchie cicatrici si contrassero su quel viso scavato dagli orrori del tempo. «E dove?» chiese. «Ovunque. Se io non posso proteggerla», disse Ehlara fissando la bambina, «e se tu non la vuoi qui con te, troverò un’altra soluzione.» «Non ho detto che non la voglio qui…» «Già, ma hai detto che non puoi, o non vuoi, fare nulla per lei. È la stessa cosa. Io devo ugualmente trovare un’altra soluzione. Non la lascerò alla Predicatrice. Non la lascerò al suo destino.» L’uomo si portò l’unica mano che gli era rimasta al viso. Sua figlia lasciò che si abbandonasse a quel dolore per qualche istante, e non disse nulla. Sapeva bene a cosa stava pensando. A sua madre. 16


A tutto quel dispiacere. A quel vuoto. «La Grande Metropoli» disse d’un tratto il vecchio, serio. Ehlara rimase in ascolto. «Non ti resta che la Metropoli. Ragionare con i fanatici è impossibile, Ehlara. Ragione e giustizia non sempre vanno a braccetto. E a dire il vero, i fanatici non vanno a braccetto con nessuna delle due. Per loro siete delle Prescelte, come lo era la mia povera Mirage. E per loro esiste solo una strada da percorrere: la via delle fiamme e della cenere.» «E questa non sarà la via di mia figlia. Non lo permetterò mai.» «E tu?» Quella domanda aleggiò per un po’ nell’aria secca del Deserto Meridionale. Il vento si era alzato. Ora la sabbia sbatteva contro le lamiere in modo insistente, graffiando ogni cosa. «Io devo proteggere mia figlia, solo questo» rispose Ehlara. Ma quella non era la risposta che suo padre avrebbe voluto sentire. «Non…» L’uomo si schiarì la voce d’improvviso arrochita. «Non posso perderti.» Poi si asciugò una grossa lacrima col dorso della mano. «Non posso perdere anche te, Ehlara, non credo che…» «Papà», Ehlara gli tornò accanto. Gli strinse il volto fra le mani, e questa volta era una stretta diversa, carica di un sentimento nuovo. Un addio. «Papà, ascolta. Potrei continuare a nascondermi qui, o altrove, ed essere al sicuro. Forse per sempre. Forse solo per pochissimo tempo. Ma se devo morire, e so che prima o poi mi raggiungeranno, allora sarà per una mia decisone. Una mia libera scelta. Una decisone che darà a mia figlia un futuro diverso dal mio. Un futuro che non sia fatto di fiamme e cenere.» «Ma…» «Niente ma» lo interruppe, carezzandogli il viso. «A quel punto potranno anche uccidermi. Potranno fare di me ciò che vorranno, perché saprò lei al sicuro. Questo mi basterà.» La carezza si trasformò in un bacio sulla fronte. «E ora, papà, dimmi addio, e dammi la tua benedizione. Per me e per mia figlia. Perché immagino che questa sia l’ultima volta che ci incontriamo.» L’uomo si commosse e gli occhi cerulei si riempirono di tante lacrime trattenute. «Le hai dato un nome?» domandò soltanto. Ehlara scosse il capo. 17


«Non lo farai?» «Non lo farò» decise lei. Poi tornò da sua figlia. La prese in braccio e la cullò a lungo, ascoltando il suono del vento all’esterno della piccola abitazione. Occhi d’oro rosso, occhi di sole, si specchiarono in altri occhi di sole. «Non le serve un nome» decretò. «Per ciò che dovrò fare, questa è la soluzione migliore. Vero piccina?» Sorrise. Un sorriso rassegnato, stanco. «Sì, è la soluzione migliore per lei.»

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Capitolo 2 «Vetro, cemento e fumo nero» etro, cemento e fumo nero. La Grande Metropoli era un groviglio tentacolare di strade e palazzi. Un budello senza fine e senza direzioni. Oltre il deserto che l’abbracciava come un tenero compagno, la città era l’unica altra presenza degna di nota rimasta al mondo. Si era estesa nei secoli. Era cresciuta come un organismo vivente. Si era nutrita dell’ultima vita presente sul pianeta e ora giganteggiava come un’obesa creatura dalle opulente e sfatte forme. Di notte il suo scintillante profilo di palazzi, abitazioni e casupole splendeva anche a grande distanza di luci al neon e insegne multicolori. Un immenso faro nelle tenebre che tutto sembrava avvolgere con la sua luce. Nel centro, i grossi palazzi del potere, signorili, squadrati e impeccabili, si ergevano in una meravigliosa fusione di vetro e metallo che raggiungeva vette impensabili, capaci di dare il capogiro. Nella periferia, ai confini con i deserti che l’accerchiavano, si trovavano invece case dimesse, vecchie baracche di lamiera, ricoveri di fortuna, antichi palazzi fatiscenti e tante piccole locande. Quello scenario lo aveva abbandonato circa due settimane prima. Ora, la figura si muoveva confondendosi fra la folla e le mura grigie. Non era ancora giunta in prossimità del grande cuore pulsante della Metropoli, e non ci sarebbe mai arrivata. La sua meta era un’altra. Attenta a dove metteva i piedi, sempre avvolta in quell’abito bianco che da circa un mese non si levava, si spostava rasentando il perimetro dei palazzi. Passo dopo passo fendeva i vapori della città e le ombre con cui questa si ammantava. Col cappuccio calato in viso, la donna cercava di percorrere vie ben illuminate e piene di gente. Non era semplice. Non a quell’ora del pomeriggio e in quella stagione. La notte calava rapida d’inverno. Il cielo quel giorno era di un grigio antracite e l’aria fredda e pungente: una sicura promessa di neve. Alla base del cielo, che spuntava di tanto in

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tanto fra i palazzi, una linea rossa ricordava a tutti che il tramonto era prossimo. Un tramonto che nessuno avrebbe visto, ma che tutti potevano immaginare: imponente, scarlatto, tremendo come sempre. L’ombra avanzò fra i palazzi. Di tanto in tanto si fermava a osservare i passanti che frettolosi cercavano riparo nelle loro abitazioni. Si guardava attorno. Fissava il fagotto che stringeva al petto, il suo tesoro più prezioso, e riprendeva a camminare. Testa bassa. Passo svelto. Solo un frusciare di veli che non tenevano caldo. La donna scansava i mendicanti e gli accattoni senza fissarli. Se andava a sbattere conto qualcuno non chiedeva scusa, ma accelerava il passo per mettere a tacere chiunque. Non voleva essere riconosciuta. Loro erano lì. Non sapeva dove, non sapeva come l’avessero trovata, ma erano lì. Lo sentiva. Si fermò ancora. Passi per la strada. Si voltò. Nessuno. Nessuno che fosse un pericolo per lei e per la sua bambina. Tirò un lungo sospiro carico di sollievo. La città la spaventava, era così. Nelle ultime ore del giorno assumeva sempre uno strano aspetto sonnolento. Un volto che alla donna non piaceva affatto. Una saracinesca che si chiudeva, veicoli che sfrecciavano a grande velocità, uomini e donne che rientravano nei loro alloggi, le ultime grida dei bambini prima che qualcuno li richiamasse all’ordine. E presto, a parte qualche povero clochard, nelle strade della Grande Metropoli non rimaneva più nessuno. Scendeva il buio. Si alzava una nebbia incolore e si assopivano i suoni. Tutto moriva. O così le sembrava. Ma non era sempre stato a quel modo. I vecchi ricordavano di un tempo in cui la città era sempre in movimento, frenetica a ogni ora del giorno e della notte. Anni, forse secoli, in cui quell’ammasso di costruzioni dall’aspetto gelido era il luogo più caotico e vitale di tutto il pianeta, pieno di gente fino a tarda notte, o all’alba. Locali, negozi, case d’appuntamenti, 20


luoghi in cui divertirsi, in cui vivere e sentirsi normali. Un tempo diverso da quello in cui si trovavano ora, forse un tempo migliore. Lei però non l’aveva mai conosciuto un periodo simile. E non voleva conoscerlo. Una sola cosa le interessava: vivere al meglio nel suo tempo, per dare una possibilità a sua figlia. E con quella consapevolezza nel cuore, riprese a camminare. Ehlara trovò ciò che cercava dopo un’altra mezzora di svolte fra vie ombrose e tetre rientranze. Una via. Nient’altro che una ennesima via da imboccare. Solo che, questa volta, sapeva dove l’avrebbe condotta. La città del resto taceva. Non le dava alcun indizio. Era una formidabile nemica, diabolica addirittura; o forse, più semplicemente, una matrigna che si disinteressava di una figlia bisognosa. Ehlara non lo capiva. Ai crocicchi delle strade non restava più nessuno. Il cielo era gravido di nubi, il rosso dell’orizzonte era diventato una striscia violacea simile a un livido. I primi fiocchi di neve iniziarono a precipitare quasi per caso, lenti, proprio in quel preciso istante. E la città ancora una volta cambiò aspetto. La donna riprese ad avere paura. Ora i palazzi erano neri colossi con occhi di vetro. Nessuno stava dietro quelle finestre. Non una luce era accesa. E come avrebbe potuto essere diversamente? La luce, bene prezioso quanto raro, era solo per chi abitava la zona centrale della Grande Metropoli. Solo i potenti avevano diritto alla luce anche di notte. Solo gli appartenenti a quella civiltà che ancora agognava definirsi come tale si ornavano di quel lusso. Gli altri… be’, che gli altri si arrangiassero come meglio potevano. Che morissero, poco importava. Qualcuno moriva e qualcuno nasceva. Anzi, più di uno. La popolazione era in costante aumento. La città si espandeva sempre di più, ma di baracche fatiscenti, fra vapori miasmatici e zone sempre più malfamate. Malfamate come quell’angolo di mondo in cui Ehlara era precipitata. L’eco dei suoi passi era l’unico suono possibile, assieme al respiro. 21


La neve cadeva lenta, ma non attaccava al suolo. Si scioglieva subito sporcandosi di nero. La strada era diventata un’unica pozzanghera traslucida che rifletteva il biancore del cielo. Ancora qualche passo. Strinse la piccina a sé, forte. Non aveva un nome perché così aveva deciso, e così aveva detto a suo padre. Per certi versi era anche vero, ma per altri no. In cuor suo Ehlara l’aveva battezzata col nome più bello possibile, o almeno così era per lei. Solo che non osava pronunciarlo ad alta voce, aveva troppa paura. Paura che qualcuno la sentisse. Che qualcuno capisse… Un’ombra. Si fermò, lasciandosi sfuggire un grido. Un suono soffocato che l’eco non raccolse. Rimase a mezz’aria e si attutì in uno sbuffo bianco, in condensa, che il cadere della neve portò via con sé. Ma era soltanto un grosso gatto nero che fuggì al riparo di alcuni bidoni delle immondizie. Nulla di più. La neve sembrava averlo cancellato non solo alla vista di Ehlara, ma dalla faccia stessa della terra. È solo un gatto, coraggio! Svoltò in un vicolo buio e poi ancora in un altro vicolo, questa volta nei pressi di un’inferriata alta tre metri: ferro e cemento. Un portone. Sì, ci siamo! Vi si appoggiò. Spinse. Non era chiuso. Se lo era immaginato, ma per un istante aveva temuto che qualcosa potesse andare storto. Lo spalancò. Entrò. Lo richiuse rapida alle proprie spalle e tirò un brevissimo sospiro di sollievo. Sì, era giunta a destinazione. Una grossa insegna faceva bello sfoggiò di sé su di un palazzo grigio e incolore, mentre una decina di gradini di pietra scura conducevano a un’entrata altrettanto scura. Il cortile, lì attorno, era ampio e pieno di ghiaia bianca e sottile. Due alberi scheletrici e due pini erano tutto ciò che poteva definirsi “parco”, o “area verde”, riservata a quel palazzo imponente. 22


Grosse finestre di vetro fissavano Ehlara, simili a occhi senza palpebre in una notte fredda. Il palazzo imponente svettava per molti piani. Erano alti, sfuggenti, seriosi. Erano troppi, forse una decina, forse di più, e si ergevano con una maestosità che la donna non credeva possibile. Non voleva crederlo possibile e questo perché sapeva cos’era quella costruzione. Tornò con lo sguardo alla scritta sopra l’uscio. Lesse. Lo fece ancora, una terza volta, quasi a esorcizzare quel nome. Collegio degli Innocenti. Un orfanotrofio in verità. Un centro chiamato “collegio” per rendere meno cruda la verità che racchiudeva: ragazzi abbandonati, sbandati, soli. Reietti della società. Esserini senza speranza raccolti dal buon cuore di qualcuno che si era fatto da sé, e che ora voleva insegnare ad altri come crescere con sani principi. Questo sperava Ehlara in cuor suo. Questa la storia che si raccontava per rendere il suo abbandono un po’ più umano. Ma non ci riusciva. Si sentiva sporca. Così scostò i veli dell’abito e guardò sua figlia. Cosa stava facendo? Come poteva farlo? Non poteva abbandonarla. Non ci sarebbe mai riuscita. Mille coltelli sembravano dilaniarle il cuore. Eppure sapeva che sarebbe arrivato quel momento, si era preparata, se lo era ripetuto decine, centinaia di volte che era l’unica cosa giusta da fare: ma non era servito a nulla. Niente di tutto quello che aveva fatto poteva rendere quell’atto meno straziante, meno sporco. Persino sua madre non l’aveva abbandonata. Sua madre l’aveva tenuta con sé. Ricordava ancora le parole di Mirage. Ricordava ciò che le aveva detto. Che l’avrebbe protetta da ogni bruttura sulla faccia della terra, perché era questo che doveva fare una madre: aiutare, consolare, proteggere. Già, e ora dove sei? Ora che ho bisogno di te, dove sei finita? Distrutta dalla follia dei fanatici e dalle deliranti visioni di un potere senza forma… No, mia figlia no. E, raccogliendo tutte le forze, si decise. In cuor suo sapeva che era la cosa giusta. Ehlara si spostava per la Grande Metropoli con sguardo assente. 23


La neve iniziava a gelare al suolo. L’alba era ancora lontana, ma non l’avrebbe vista sorgere, non quel giorno. Lo sentiva nelle ossa. Il buio era diverso dal solito, meno denso. Il biancore della neve cercava di diradarlo ma inutilmente. Una lotta impari, senza vinti né vincitori. Una lotta eterna, un po’ come quella della sua stirpe contro i fanatici. E i fanatici, lei lo sapeva, ci sarebbero stati sempre. Gente come lei, come suo nonno, sua madre e ora come sua figlia, ci sarebbero stati sempre. Era destino che fosse così e al destino non si può porre rimedio. Al destino non si può dir nulla. Svoltò in un vicolo buio. Un’ombra la seguì. Lei svoltò ancora, immersa nella neve che cadeva lenta. I fiocchi vorticavano grossi e bianchi, tante ali di farfalla strappate e sparse al vento. Si fermò. Ehlara si guardò alle spalle. L’ombra attese. La neve parve fermarsi a mezz’aria, ghiacciata dallo sguardo di un Dio indagatore. Quel giorno, lo capiva, il grande sole dorato non sarebbe sorto. Riprese a camminare e l’ombra con lei. Svoltò ancora. L’ombra la seguì. No! Ehlara sentì il cuore smettere di battere: davanti a lei c’era un vicolo cieco. Era finita in un dannato vicolo cieco. Si voltò di scatto e il respiro le si mozzò in gola. Era perduta. Tornò sui suoi passi, ma questa volta non c’era solo un’ombra ad attenderla oltre il solito angolo buio. Prima arrivarono i canti. Poi le vesti e i cappucci neri. Poi occhi rossi. Tanti. Riprese a correre. Il fiato della donna si condensava in spirali bianche che si mescolava alla neve. Sbatté i pugni contro porte e saracinesche sempre chiuse. «Aiuto!» gridò. «Aiuto!» chiamò ancora, ma nessuno rispose. Fu solo per puro caso se trovò una rampa di scale esterna a un anonimo edificio di pietra e metallo. La salì rapida. I canti erano sempre dietro di lei. Arrivò su di un pianerottolo, ma era un’altra via senza uscita. Con occhi terrorizzati, Ehlara si guardò attorno. Vide che una finestra le chiudeva 24


l’unica via di fuga possibile. Non ci pensò due volte: la sfondò con un calcio, e incurante dei vetri rotti si gettò all’interno del palazzo. Si guardò attorno con aria smarrita. Doveva esserci qualcuno in quel dannato edificio. «Aiuto! Aiutatemi, vi prego! Vi scongiuro! Qualcuno mi aiuti!» Nessuno rispose. Riprese a correre, e questa volta lungo scure scale interne di un anonimo palazzo. Era difficile muoversi nel buio più completo, ma la forza della disperazione la spingeva oltre ogni limite. I fanatici erano dietro di lei, solo questo contava. Non la perdevano di vista e la seguivano quasi senza fretta. Il suo destino sembrava segnato. D’improvviso le scale finirono. Una porta. Dio, fa’ che… Era aperta. Sì! Neve. Ehlara sentì mancarle il fiato. Si affacciò su di uno spiano immacolato, spazzato dalla neve. Aveva raggiunto la sommità dell’edificio. Era sul tetto. La Grande Metropoli si stendeva davanti a lei come un gigante sonnolento. Il freddo era pungente e il vento le sferzava il viso con insistenza, scompigliandole i capelli. Lontano, il cuore del centro abitato sembrava una perla di luce bianca avvolta da una sterminata coltre di tenebre. La neve invece non smetteva di cadere, quasi volesse nascondere ogni cosa. È finita… Ehlara gridò qualcosa, mentre alle sue spalle il canto dei suoi inseguitori raggiungeva l’apice. Non c’era più tempo. La donna frugò in una tasca del proprio abito. Cercò. Trovò. Estrasse. Infine, il freddo bacio di un lungo pugnale la raggiunse: unica nota calda in una fredda notte d’inverno. Ed Ehlara si spense così, col calore nel cuore e col gelo sulla pelle. La neve cadde e la ricoprì, mentre i fanatici cantavano ancora, frugando sotto i suoi abiti. Erano confusi. Arrabbiati. Niente, non avevano trovato niente. Sorrise. Ehlara aveva sempre più freddo, la vita l’abbandonava, ma sorrise perché di una cosa era felice: non avevano avuto lei, e non avevano avuto sua figlia. 25


Aveva vinto. Il loro segreto, il loro dono, la loro maledizione, era al sicuro.

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Capitolo 3 La Predicatrice «Il buio senza forma…» l buio senza forma venne rischiarato tutto d’un tratto. Il gracchiare di pesanti saracinesche metalliche che si sollevavano lente sovrastò ogni altro suono. Piccole luci al neon si accesero quasi al contempo, tanto da avere ancora più luce. Una sfrontata abbondanza che se ne fregava di tutto e di tutti. Le lampadine occhieggiarono un po’, fremettero quasi avessero l’idea di spegnersi, ma non lo fecero. E un chiarore azzurrino e freddo si stabilizzò tutt’attorno. In fondo, era soltanto l’alba.

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Io sono il tuo Dio, luce e calore, fiamma nel cuore… I Seguaci entrarono cantando appena fu loro concesso. Il pavimento era a specchio e rifletteva le loro immagini distorte. Un ticchettio insistente invase l’aria. Passi, decine e decine di passi. Sebbene fossero abili sicari, sapienti in ogni arte della sopravvivenza, là dentro quegli uomini e quelle donne erano peggio di bimbi sperduti. Ed era giusto così, si dicevano. Perché era impossibile non sentirsi messi a nudo nel Tempio della Predicatrice. Là, fra quelle mura, si trovava il luogo in cui anche gli emarginati si potevano sentire a casa. Il luogo in cui tutti, se credevano nel Verbo della Predicatrice e nel Sommo Dio di tutti i tempi, erano bene accetti. Quello era il luogo in cui chiunque, a qualsiasi razza o estrazione sociale appartenesse, poteva avere fiducia in qualcosa di migliore. Era una missione. 27


Loro l’avevano abbracciata. La loro guida spirituale li istruiva per questo e preparava la venuta di un’epoca d’oro, d’oro come il loro Dio. Dalle fiamme, alla luce, alla cenere… Lunghi soprabiti neri si confusero nei bagliori delle luci al neon. Li avvolgevano come le fasce di un tetro sudario ed erano l’emblema del loro ordine. Guanti, stivali e cappucci dello stesso identico colore coprivano quei corpi come una tonaca copriva il monaco. Abiti in pelle, eleganti, comodi per ogni evenienza e per ogni incarico. Su tutto, all’altezza del cuore, ben centrato sul petto, stava un grosso occhio dipinto di rosso: una pupilla spalancata sul mondo che sembrava osservare gli ambienti del grande palazzo cittadino in cui erano confluiti dopo la loro ultima missione notturna. Sei la fiamma che arde possente, sei la luce che ridona la vita, sei la cenere che nutre la terra… Erano in tutto una mezza dozzina, uomini e donne, e anche qualche ragazzino. Nella stanza smisurata e piena dell’eco dei loro canti, le loro figure ammantate sembravano perdersi come tanti granelli di polvere nel vento. Avanzarono. Grossi schermi al plasma ricoprivano le pareti di sinistra e di destra. Vetrate immense, sulla facciata di fronte a quella da cui erano entrati, lasciavano invece scorgere un panorama da mozzare il fiato. La Grande Metropoli si stava svegliando. Lenta, intorpidita, con una fatica incredibile stiracchiava le tentacolari braccia verso il sole. Sembrava sempre sul punto di cedere, ma di continuo, giorno dopo giorno, essa si svegliava. Nella zona centrale, fra i grandi palazzi del potere, la luce e l’elettricità coloravano ogni cosa di tinte sgargianti: giallo oro, blu elettrico, verde acido… e rosso, un rosso accecante e violento. 28


Sangue. Oro.

Sole. I Seguaci smisero di cantare. S’inginocchiarono rapidi, e in seguito si abbandonarono lunghi distesi sul pavimento di pietra traslucida. «Il sole» ripeté la stessa identica voce di prima. Un suono secco, lontano e pieno di estasi. Quella parola era carica di un sentimento profondo. Proveniva da una figura minuta che stava di fronte alle vetrate. Era difficile scorgerla in tutta quella immensità, e quasi si perdeva nella luce intensa del primo mattino. Teneva le braccia alzate, rigide, ben spalancate davanti a sé. Le palme delle mani rivolte verso le vetrate, il viso levato al cielo, anche se coperto da un cappuccio e da una lunga stola di lamina d’argento. Si voltò. I Seguaci smisero di fissarla sprofondando il capo nel pavimento. La mantellina ondeggiò verso di loro. Oltrepassò una scrivania dal ripiano di vetro e si avviluppò all’aria in strane spirali multicolori. La Predicatrice teneva un’adunanza quel giorno. Era stata programmata da tempo; necessaria, anche se qualcosa fosse andato storto. Coprì quella non indifferente distanza con molti passi cadenzati. Sembravano scandire lo scorrere del tempo come il ticchettio di un orologio. Lo stillicidio dell’acqua che scava e spezza la roccia. Un passo, due. Ancora. Sempre. Avevano qualcosa di ipnotico. Non aveva fretta, e si fermò a poca distanza dal capo missione. «Sole», disse ancora. La donna non rispose. Si levò il cappuccio in segno di estremo rispetto. Lo fece lentamente. Poi lo lasciò cadere e tornò ad appoggiare i palmi delle mani a terra. Una cascata di capelli lisci e corvini si sparse al suolo. Non doveva avere nemmeno trent’anni. La donna tacque e attese paziente. Non alzò mai gli occhi verso la Predicatrice. Non era permesso fissarla in viso se lei per prima non lo autorizzava. E nella stragrande maggioranza dei casi, se anche l’autorizzava, aveva sempre il cappuccio a coprirle i lineamenti del volto. Ovviamente, quello non era uno di quei casi.

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«Ti sento turbata.» La voce della Predicatrice si abbatté sull’altra come vento su di un falò. «Sei tornata a mani vuote, Alyath?» «Perdonate, Eminenza.» La donna si appiattì al suolo, tentando di prostrarsi oltre ogni limite. «Chiedo umilmente scusa.» «Cosa? “Perdonate… Eminenza?”» La Predicatrice scimmiottò quelle scuse con scarsa ironia. Fece qualche altro passo verso la donna stesa al suolo. «“Chiedo umilmente scusa?” Alyath…» si interruppe infastidita. «Ti prego, Alyath, vuoi rammentami cosa ti avevo ordinato? Vuoi rammentare a tutti qual era la tua missione?» L’altra non osò muovere un muscolo. Lo stesso i Seguaci al suo seguito. «Sì, Eminenza.» La donna deglutì alla ricerca delle parole, che dovevano essere le più convincenti possibili. «Scovare, pedinare, e condurre al vostro cospetto l’elpha e la sua progenie… In nome del Sommo Sole, perché potessero percorrere la via delle fiamme e della cenere. Un’offerta… Un tributo per una nuova e luminosa età.» Silenzio. «Avevi ben chiaro cosa ti chiedevo?» «Sì, Eminenza.» «Avevi con te i migliori Seguaci?» «Sì, Eminenza.» «Sul serio, Alyath?» «Sì, Eminenza.» La Predicatrice si curvò un poco, per fissare la capo spedizione. L’altra, forse presa alla sprovvista da quel gesto inusuale, commise l’errore più ovvio: alzare il capo da terra e volgerlo alla sua signora. Non completò il movimento. Riuscì appena a intravedere un abito di aderente lamina argentata, che uno stivale dello stesso identico materiale le si piantò in viso. Alyath percepì appena il labbro inferiore spaccarsi e il sapore del sangue in bocca. Poi la testa venne premuta al suolo. «Mi hai deluso, Alyath.» La Predicatrice sfregava lo stivale sulla guancia dell’altra. Lentamente. Più volte. Nessuno dei presenti si mosse o disse nulla. «Per… perdono…» 30


La donna annaspò alla ricerca d’aria, combattuta tra il senso di sopravvivenza e l’estremo, maniacale rispetto per la Somma Sacerdotessa. Il piede della Predicatrice sempre piantato in volto, proprio sulla guancia, premeva verso il pavimento. «Che delusione, Alyath…» «Perdono! Perdono!» gridò. Poi pianse. Lacrime rabbiose e amare, che nulla avevano a che fare con la sofferenza o con la paura. Ciò che le dava più fastidio era aver fallito. Non le interessava della punizione che certamente sarebbe sopraggiunta, ma della macchia con la quale la propria fede si era sporcata. Alyath lo interpretava come un segno, un segno che il Dio di tutte le cose era scontento, oltremodo scontento del suo operato. «Eminenza… datemi la…» annaspò «la possibilità di rimediare…» «Rimediare?» La Predicatrice fece quella domanda senza levare il piede dal capo della donna. «E come? Cosa vorresti fare, tu?» «Io…» «Tu, cosa?» «Qualsiasi cosa, Eminenza» ansimò. «Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa…» Un silenzio irreale scese nella grande sala del Tempio che ora splendeva luminosa. La Predicatrice parve valutare quelle parole. Sollevò il piede quasi fosse stata la cosa più naturale al mondo. Il sole alle sue spalle era oramai alto: un disco dorato di immane estensione e splendore. «Qualsiasi cosa?» tornò a chiedere la Predicatrice, trasfigurata dalla luce del mattino. Una muta domanda sostava nella voce della Sacerdotessa. L’abito di lamina metallica rifletteva i raggi del sole simile a un immenso gioiello sfaccettato, e la faceva sembrare essa stessa una dea caduta in terra. «Qualsiasi cosa», ripeté. «Sì, Eminenza.» La Predicatrice puntò una mano verso un monitor. «Avvio» disse. Questo si accese. «Attico» ordinò secca. «Ingrandisci. Ancora. Ancora. Stop.» La predicatrice guardò con disprezzo la donna stesa al suolo. «Osserva, Alyath.» 31


Questa alzò cauta il capo scostando i lunghi capelli scuri dal viso. Portò una mano al labbro spaccato e sentì l’odore del sangue. Fu solo un istante. I suoi occhi si piantarono nel monitor e lì restarono. «Abbiamo perso una grande occasione, oggi» iniziò col dire la Predicatrice. «Enorme, direi. E la colpa di questo è soltanto tua, Alyath. Ti ritengo diretta responsabile di tutto. Il prossimo ciclo verrà a maturazione tra oltre un decennio. Un decennio» ripeté infastidita. «Credevo tu fossi la migliore…» «…non potevo prevedere, Eminenza, che la donna si sarebbe uccisa.» La Predicatrice si voltò rapida a fissarla. «Tu dovevi prevedere tutto!» gridò. «Sì, Eminenza. Perdonate, Eminenza. Avete ragione. L’errore è stato mio.» Affondò il viso nel pavimento e deglutì piano. Il monitor invece tremolò. Un’immagine prese il posto della precedente dopo una serie di graffianti interferenze elettriche. Alcuni dei Seguaci sollevarono il capo e si segnarono. Non Alyath. «Il progetto deve andare avanti.» La Predicatrice fremeva. «La bambina era con lei, non è così?» «Sì, Eminenza.» «L’ha portata nella Grande Metropoli?» «Sì, Eminenza.» La Predicatrice sospirò. Un sospiro lungo e insofferente. «Non può essere lontana» concluse. «Deve essersene sbarazzata da qualche parte. Ma dove? Sempre nei dintorni della Grande Metropoli?» «È probabile, Eminenza.» Alyath alzò nuovamente il capo. Si fece cauta, specie per ciò che doveva dire. «Non sarà semplice, Eminenza. La città inghiotte vorace, e tutto scompare. Insaziabile. Molti nostri nemici sono nascosti nel ventre della Metropoli, e credo…» «Io voglio quella dannata bambina», sillabò la Somma Sacerdotessa. «Sarà fatto.» «Su questo ci puoi giurare, Alyath. Solo che non sarai tu a occupartene.» «Ma, Eminenza!» «Le prossime missioni, Alyath, le affiderò ad altri. E per quanto mi riguarda tu non ne condurrai più nessuna. Ci siamo intese?» La Predicatrice 32


si volse ai tanti Seguaci stesi al suolo e rigida frugò fra di loro con lo sguardo. «Shemhazai…», chiamò secca. Un essere gigantesco, alto il doppio di Alyath, sollevò il capo. Lentamente si tolse il cappuccio nero e senza fissare la Predicatrice, disse: «Sì, Eminenza.» Era alto più di tre metri. Un colosso della razza dei Nephilim. Braccia titaniche, gambe solide, occhi completamente neri come quelli degli insetti notturni. «Guardami, Shemhazai.» Gli fece cenno di levarsi in piedi. Lui eseguì. «Affido a te il comando dei Seguaci. Mi aspetto grandi cose, non mi deludere.» Il Nephilim fece un inchino, goffo per via della statura estrema. «La ringrazio, Eminenza» aggiunse all’inchino. Alyath fremeva. «Per prima cosa, ti prego di liberare questa sala dal putridume che la infetta. Il Sommo Dio di tutti i tempi non merita un tale affronto. Mi raccomando, Shemhazai, esigo un lavoro accurato. Un lavoro che deterga l’onta che abbiamo subito oggi.» «Con sommo piacere, Eminenza.» Alyath si sentì sollevare dal pavimento. Un braccio del Nephilim le si strinse alla vita e una mano le reclinò all’indietro il capo. Non emise alcun suono. La Predicatrice la fissò un’ultima volta. «Alyath, non credere che la morte possa bastare», soggiunse. «Quello che abbiamo perso oggi è incalcolabile. Incalcolabile come il tuo affetto per ciò che hai di più caro. Ma non temere, ci tornerà utile a suo tempo. E ci ripagherà della perdita subita.» Una scintilla carica di comprensione attraversò le iridi della donna. Avrebbe potuto accettare tutto, ma non quello. «Addio, Alyath.» L’altra non fece in tempo a dire nulla. Non gridò nemmeno. Il Nephilim le aveva già spezzato il collo.

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