IL NECROMANE

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UNDERGROUND 1

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Davide Lorenzelli

Il necromane

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Prefazione

Per lungo tempo si è creduto (e in parte ancora si crede) che gli spazi urbani siano quelli che meglio si addicono allo sviluppo dei thriller; allo stesso modo, il cinema hollywoodiano ci ha abituato a pensare che i piccoli villaggi al limitare di antiche foreste siano il territorio ideale per l’horror. Ebbene, in questo suo romanzo d’esordio, Davide Lorenzelli mescola le carte, non solo spostando il thriller nei luoghi dell’horror, ma muovendosi continuamente sul confine tra i due generi, collocando la razionalità di un’inchiesta sullo sfondo di una follia collettiva. L’azione si svolge in un piccolo paese dell’Appennino toscano dove risuonano le voci e le storie che abbiamo imparato ad amare nei romanzi di Guccini e Macchiavelli, o in L’estate torbida di Carlo Lucarelli, ma qui le tinte sono più cupe, i toni più accesi; qui le atmosfere, per fare un paragone con un altro autore italiano, sono quelle del Gotico rurale di Eraldo Baldini. Un delitto, due delitti, tre delitti: all’Arpiola di Mulazzo (il paese è vero, ma ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale) tutto si ingigantisce, tutto si esaspera fino ad assumere contorni grotteschi, irreali. Lorenzelli dipinge un ambiente eccessivo, estremo, a cui è difficile credere; ma, d’altro canto, è difficile credere anche a certi crimini efferati che, negli ultimi anni, hanno macchiato di sangue la provincia italiana; è difficile credere alle lunghe catene di delitti che, nel dopoguerra, hanno gettato nel terrore interi paesi delle nostre montagne. E allora, è proprio nel coraggio di sfidare l’incredibile che questo libro trae la sua forza narrativa. Lorenzelli rinuncia alla tranquillità del verosimile per approdare a ciò che appare 7


impossibile, impossibile come la follia. Eppure la follia, anche quella omicida, è possibile e ad essa dobbiamo credere. Un percorso nella pazzia, in una pazzia contagiosa e mortale, ecco cos’è Il necromane. Per la lettura un solo consiglio: lasciarsi travolgere dal vortice degli eventi, calarsi nell’atmosfera torbida di una piccola comunità sconvolta da una lunga teoria di fatti di sangue, e poi trattenere il respiro fino alla fine, fino allo sconvolgente epilogo.

Alessandro Perissinotto

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Dopo aver scritto e pubblicato questo libro, mi accorgo che la mia parte di lavoro potevo e dovevo definirla un omaggio a Fulci. L’ho detto una volta o due in privato, ora ci tengo a vederlo stampato qui.

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Ogni riferimento a cose, luoghi e persone è puramente casuale e usato esclusivamente a scopi narrativi.

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QUASI ESTATE

L’assassino li sorprese l’uno sull’altra. Erano nudi e stavano facendo l’amore sul pavimento della cappella funeraria. L’assassino conficcò un grosso coltello da caccia nel petto del ragazzo. Lei, confusa, non urlò nemmeno. Strisciando, raggiunse uno dei loculi lungo le pareti di pietra. Intanto l’assassino mosse il coltello nella ferita, avendo cura di spaccare il cuore del ragazzo. Quello buttò sangue dalla bocca e si afflosciò a terra. A quel punto la ragazza si fece coraggio. Si slanciò verso le scale. Un paio di gradini e l’assassino la raggiunse. Le assestò un pugno in pancia e lei si piegò in avanti. Una mano guantata le immobilizzò la nuca e il grosso coltello le incise la gola con precisione. Un unico taglio. Spruzzi potentissimi di sangue finirono ovunque. Dalla gola recisa, le tubature del collo presero ad uscire simili a code di polpo. Il corpo della ragazza piombò sulle scale. Due metri più sotto, quello di lui si muoveva ancora. Con calma, l’assassino leccò la lama del coltello e trascinò i due corpi vicini. L’odore del sangue fluttuava a mezz’aria, coprendo quello del bombice. L’assassino si guardò attorno. Da un loculo sul muro, lo sguardo bidimensionale di una figura con baffi a manubrio e colletto inamidato, lo scrutava come per biasimarlo. Sorrise. Poi salì le scale di pietra che conducevano all’esterno della tomba. Fuori l’aria della sera stemperava il caldo del pomeriggio. Le statue brillavano di luce azzurrina. E i grilli cantavano pacifici.

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MONTANdoN

Il Maresciallo Emanuele Montandòn si risvegliò dopo un breve sonno spezzettato da sogni vagamente pornografici. Lanciò un’occhiata preoccupata alla sveglia. Dalle tapparelle abbassate non filtrava alcuna luce. Il maresciallo bestemmiò a fil di voce, poi si tirò su a sedere. Si sfregò la faccia, in cerca di un alibi per scendere dal divano. Indossava canottiera e mutande bianche. Sentì l’urina premere nelle parti basse. Fece per alzarsi, ma aveva una gamba intorpidita. Montandòn si allungò verso il mobiletto alla sua sinistra, trovò il filo dell’abatjour e risalì al pulsante. Un lucore giallastro. Poi prese il pacchetto di Marlboro e l’accendino. Dopo le prime boccate, un sapore bilioso gli salì in gola. Sputò un grumo marrone di saliva e si massaggiò la gamba addormentata. Un plotone di formiche prese a scorrergli nelle vene. L’uomo se ne rimase a fumare con la gamba piena di formiche. A parte il divano letto e il comodino, la stanza era completamente vuota. Per terra c’erano dei pacchetti di Marlboro accartocciati qua e là. Finita la sigaretta, l’urina si fece più insistente. Allora accese un’altra Marlboro e si alzò. Con le mani premute sull’inguine, raggiunse zoppicando il gabinetto. Anche quell’ambiente non si discostava dal precedente: solo una tazza incrostata, un bidè pieno di peli e una vasca. Montandòn tenne la sigaretta incollata alle labbra. Pisciò ad occhi chiusi. Sentiva le ginocchia ancora molli. Una serie improvvisa di colpi di tosse lo costrinsero a piegarsi dal dolore. Il getto d’urina imbrattò la tazza e il pavimento. Montandòn bestemmiò a voce alta. Una, due, tre volte. Sentiva una fitta al petto che non lo lasciava respirare. “Fitte intercostali”, pensò. Uscì dal gabinetto. Aveva i piedi inzaccherati di piscio. Raggiunse il divano e ci si buttò sopra. Bestemmiò altre due volte, a voce alta. Dal soffitto qualcuno prese a battere con forza. Il maresciallo scrutò in alto. 12


“Vecchia troia”, sibilò. Poi si rabbuiò. Pensò a quanto gli mancasse una televisione. Fino alla settimana prima, il mobiletto alla sua sinistra si trovava di fronte al divano. Sopra c’era un Saba ventotto pollici. Fino alla settimana prima, quell’appartamento non gli era sembrato così vuoto. Il telefono prese a squillare. Lui lo cercò con lo sguardo, non si ricordava nemmeno di averlo. L’apparecchio continuò a squillare per qualche minuto, poi il silenzio ebbe la meglio. Il maresciallo sputò ancora. L’ultima volta che aveva risposto, dall’altra parte c’era l’avvocato di sua moglie. Gli comunicava, con un linguaggio freddo e impersonale, che l’accordo era stato raggiunto. Infatti, un’ora dopo, due facce da vecchi gratta caricarono la mobilia dell’appartamento su un camioncino e sparirono. Montandòn si sfregò il cranio rasato. Sentì i capelli frusciare come carta vetro. Dopo un lungo urlo a pieni polmoni, indossò la divisa e uscì. Dal soffitto qualcuno batté due o tre volte con forza.

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LA CASERMA

Montandòn arrivò alla caserma che era ancora notte. Si sentiva arrabbiato e confuso: aveva dormito due ore in tutto e nella testa sentiva un denso e insistente ronzio. Parcheggiò la 600. Svelto, percorse il cortiletto antistante ed entrò. L’appuntato Pedinotti ronfava sulla panca d’ingresso e sembrava un montone stremato, tant’era grosso e scomposto. Montandòn lo sorpassò, diretto verso il piccolo cucinino in fondo al corridoio. La caserma era silenziosa. A parte le luci nel corridoio, le altre stanze erano buie. Il maresciallo accese il lampadario e cercò nella credenza una moka. Dal piano superiore venne un rumore di passi. Montandòn mise la caffettiera sul fornello e il brigadiere Diotallevi fece il suo ingresso. Aveva la divisa sbottonata sul davanti e i piedi scalzi. “Maresciallo, le ho appena telefonato”, disse passandosi una mano sulla fronte per ricacciare indietro un lungo ciuffo. Montandòn rispose con un grugnito. “Non riuscivo a dormire. Dove sono le tazzine?” “L’antina in basso.” “Da ragazzo dormivo dodici ore filato”, altro grugnito. Rimasero zitti ad aspettare che il caffè venisse su, poi Montandòn lo versò in due tazzine. “Non ha una bella cera”, disse Diotallevi soffiando sul suo. “Tagliati quel ciuffo.” Dal corridoio venne un fracasso improvviso. Voci affannate. Il brigadiere sporse la testa nel corridoio. “Maresciallo, di là c’è il Ricci, sembra agitato.” Montandòn non alzò nemmeno gli occhi dal caffè. “Sarà ubriaco.” Diotallevi sparì nel corridoio. Le voci aumentarono. Lui si accese una Marlboro. La luce al neon del cucinino gli bruciava gli occhi. Le voci si avvicinarono. Tirò un sospiro profondo e sorseggiò il caffè. Il ronzio nella testa aumentò. Ricomparve Diotallevi con l’appuntato Pedinotti. Sembravano agitati. Dietro di loro c’era un uomo robusto. Si chiamava Ricci ed era il proprietario dell’unico bar del paese. Anche lui era agitato. E sudava. “Maresciallo, è capitata una disgrazia”, anticipò Diotallevi. 14


L’uomo si proiettò in avanti, scavalcando i due carabinieri. “Deve venire subito al bar”, gli gridò ad un palmo dalla faccia. Montandòn ne sentiva il fiato guasto. E la puzza. “Era preso. Era così preso”, farfugliò il barista fuori di sé. L’appuntato, ancora più massiccio, intervenne afferrando l’uomo per il colletto della camicia e lo scaraventò contro il muro. Ricci si calmò subito. Poi nel cucinino calò il silenzio, interrotto dal risucchio regolare del maresciallo e del suo caffè. I tre rimasero a fissarlo come si fa con un marziano. Sembravano interdetti. Montandòn finì il caffè e accese un’altra Marlboro. “Da ragazzo dormivo dodici ore filato”, ripeté.

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BAR MANHATTAN

La Campagnola dei carabinieri accostò davanti alla serranda semiabbassata del bar Manhattan. Era ancora buio. Dentro le luci erano accese. Una decina di balordi li guardarono senza dire una parola. Tutti avevano in bocca una sigaretta e l’aria era viziata, irrespirabile. Ricci si staccò dai carabinieri e scivolò dietro il bancone. Subito si versò un bicchiere di vino e lo vuotò con un sorso. Sudava ancora e gli tremavano le mani. “Ci racconti com’è andata”, suggerì Diotallevi. Il barista si versò un altro bicchiere. Dopo averlo trangugiato cercò le parole, ma non trovandole si rimise a bere. Allora si fece avanti un ometto lungo e curvo, con grandi orecchie a forma di orchidea e un viso travagliato dai tic nervosi. Era il geometra Bellocchio. “È di là Maresciallo” e indicò la saletta intercomunicante. Quella del dopolavoro. Montandòn accostò alle labbra una sigaretta stropicciata e appallottolò il pacchetto. Nella saletta attigua, l’aria era ancor più irrespirabile. Un corpo senza testa giaceva ai piedi di un tavolo da biliardo. Il tavolo s’era schiantato al suolo, sbriciolando le quattro gambe, e il corpo era immerso in una pozza di sangue coagulato. Attorno dei pezzi d’osso e materia cerebrale affrescavano il pavimento. “Chi è?” domandò il maresciallo senza interesse. “Giambiasi, il macellaio. La bibbia della stecca. Perlomeno qui dentro”, rispose il geometra. “Lui è il più forte”, confermò uno dei balordi. “Era il più forte”, puntualizzò un altro. “Com’è successo?” Il geometra riprese la parola. Essere al centro dell’attenzione doveva elettrizzarlo parecchio. Anche i tic erano elettrizzati. “Eh, maresciallo, fatalità. Guardi, tiravamo mattina a giocare. Lui era tutto concentrato in un giro alla Biagini. Di colpo s’è chinato per raccogliere qualcosa e il tavolo ha ceduto con uno schianto secco. Subito

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non ce ne siamo accorti, lui era rimasto sotto. Abbiamo provato ad estrarlo, ma non c’era più niente da fare, la testa è una poltiglia. Vede?” A quel punto Diotallevi uscì di corsa. Lo sentirono vomitare. L’appuntato Pedinotti, invece, non batteva ciglio. Contemplava assorto i birilli riversi sul panno del biliardo e sembrava sul punto di cominciare una partita. Montandòn sentì lo sguardo dei balordi concentrasi su di lui. Doveva prendere una decisione. E decidere non era più il suo forte. Grugnì forte. “Chiamate il dottor Caldi.”

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