IL SOLDATO DI ANNIBALE

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ADRIANO PASTERIS

Il soldato di Annibale

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Š 2011 La Corte Comunication Via Paolo Regis 44, Chivasso (To) Tutti i diritti riservati La Corte Editore è un marchio La Corte Comunication Progetto Grafico: La Corte Editore Foto in copertina: CC di Ewen Roberts ISBN 9788896325117 Finito di stampare nel mese di Maggio 2011 presso lo stabilimento grafico Universal Book di Rende (Cs) per conto di La Corte Comunication

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Alla stella che, luminosa pi첫 di ogni altra, mi ha guidato in questo lungo e meraviglioso viaggio

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Prologo

LA FINE DI CARTAGINE Seduto accanto al focolare acceso, avvolto nella solitudine di questa notte dimenticata dalla luna, raccolgo i miei ricordi e, nel fluttuante riverbero delle fiamme, li osservo mentre prendono forma su questo papiro così difficile da riempire. Non sono più colui che pensavo di essere sempre stato. Giunto al limite estremo dell’ultima vecchiaia, una sorte crudele e inverosimile si è abbattuta su di me col furore di una mareggiata estiva ed ha spazzato via le mie certezze, lasciandomi solo con i miei dubbi e le mie paure. Solo con una storia da raccontare. Non sarà facile ricreare ciò che non ho sempre visto con i miei occhi, né ridare forma a colori offuscati dal tempo, né, tanto meno, far risuonare voci soffocate dal silenzio della morte. Eppure sento di doverlo fare, perché so che a questo racconto è affidato il ricordo imperituro di coloro che il vortice del destino ha posto lungo il mio cammino. Finché qualcuno parlerà di loro, essi vivranno e i loro nomi, liberati dall’oblio del tempo, diverranno immortali. Come queste stelle che mi assistono benevole, mute testimoni dell’eternità. Tutto ebbe inizio all’alba di un giorno qualsiasi, uno dei tanti che, nella vita di un vecchio come me, sembrano destinati a passare senza lasciare traccia di sé. La tiepida notte primaverile si dissolveva pigra nell’intenso azzurro del cielo e Cartagine, “la Città Nuova”, tornava a vivere ridestata dal brusio di mille voci indaffarate. Il mare, appena scosso da una lieve brezza, riaccompagnava docile le barche dei pescatori verso il porto. Quando un grido affannato risuonò per i vicoli affollati, la città ebbe un fremito: «I Romani! Stanno arrivando i Romani!» Ci fermammo smarriti a scrutare le sagome delle navi che avanzavano minacciose. Sospinte dal cadenzato ritmo dei vogatori, le triremi raggiunsero il molo e le luccicanti armature dei legionari invasero la spianata del porto. Alcuni ufficiali dagli svolazzanti mantelli color porpora risalirono 7


rapidi verso il palazzo del Consiglio. Gli zoccoli dei loro irrequieti cavalli risuonavano sinistri come il tuono. Seguii la folla che si accalcava silenziosa nella piazza, intimorita dallo sguardo torvo di quei nemici venuti da lontano. Ci chiesero argento e demmo loro tanti sacchi da stipare una nave intera. Ci chiesero armi e consegnammo ogni nostra lancia, ogni nostra spada. Ci chiesero ostaggi e strappammo alle madri in lacrime i migliori giovani della città. Ma quando ci ordinarono di abbandonare le nostre case per distruggerle, insorgemmo. Armati della disperazione di chi lotta per sopravvivere, resistemmo all’assedio per due estenuanti primavere. Poi, un mattino grigio come la lama di una spada, arrivò lui, il console Scipione detto l’Emiliano, e tutte le nostre speranze si dispersero come una manciata di sabbia al vento. Le intorpidite legioni si ridestarono, la loro morsa si fece più serrata e l’orribile spettro della fame si abbatté su di noi mietendo le prime vittime. Penetrarono in città un pomeriggio di pallido sole. La guarnigione aveva venduto il proprio onore per un po’ di pane. Dall’acropoli della Byrsa noi vecchi, con le donne e i bambini, guardavamo gli implacabili nemici che avanzavano lenti lasciandosi alle spalle un’interminabile scia di fuoco e di rovine. Una densa nuvola di fumo e di cenere fece precipitare la città in una notte senza fine, straziata dal crepitante bagliore di fiamme che ardevano senza estinguersi mai. Sedici giorni più tardi, il cuore di Cartagine, “la regina dei mari”, aveva cessato di battere. Il crudele Scipione ordinò allora che cento aratri solcassero le rovine ancora fumanti e che si cospargessero i solchi di sale affinché né il seme dell’erba né l’ombra di una casa potessero mai più crescere su quel suolo maledetto per l’eternità. Quella stessa notte, mentre nessuno badava a me, inutile vecchio disprezzato dai mercanti di schiavi, m’incamminai verso il mare, lungo i vicoli illuminati dal bagliore degli incendi. Ad ogni angolo echeggiavano urla di follia, ai piedi dei muri anneriti giacevano corpi privi di vita ed il sangue scorreva ovunque. Giunto sulla spiaggia mi sedetti e piansi. Perché gli dèi mi avevano risparmiato? Come avrei potuto sopravvivere senza la mia città, simile ad una belva dei boschi? E proprio mentre provavo ad immaginare quanto sarebbe stato dolce dissolversi nell’umido abbraccio del mare, scorsi lei, la più bella fanciulla mai vista prima, avvolta in un lungo mantello pallido come la luna. «Seguimi» sussurrò con tono fermo. «Chi sei?» domandai meravigliato. «Dove mi porti?» 8


Lei, senza dire nulla, mi sorrise e il mio animo, afflitto dagli avvenimenti di quel giorno, improvvisamente si rasserenò. Camminammo a lungo, fino a raggiungere una piccola barca alla deriva in un’insenatura. «Il tuo compito qui si è esaurito» disse, «ed è giunto il momento che tu vada incontro al tuo destino.» «Ma dove posso andare? Sono vecchio, ormai, lo vedi anche tu…» Sorrise ancora e nel suo sguardo scorsi la dolce determinazione di cui brillavano gli occhi di mia madre quando, da bambino, cercavo il suo conforto. Mentre tiravo la barca in acqua, la guardavo dissolversi nell’oscurità lungo il bagnasciuga e sentivo che un giorno l’avrei rivista. Remai con quanta forza mi rimaneva ancora in corpo e alle prime luci del nuovo giorno, stremato dallo sforzo, approdai su una spiaggia dalla sabbia bianca come il sale e fine come la polvere. Fu qui che incontrai per la prima volta quell’uomo, seduto su uno scoglio, il suo scoglio, lo sguardo rivolto lontano, oltre l’orizzonte. Il suo volto, bruciato dal sole ed incorniciato da una lunga barba candida come l’avorio, sembrava aver vinto il tempo. Gli occhi scuri, offuscati da un acquoso velo, gli conferivano l’aspetto di uno spirito. «I Romani hanno distrutto Cartagine!» esclamai col petto ancora ansante. «Sono riuscito a fuggire, ma…» «Benvenuto ad Akra» m’interruppe con voce flebile. «Mi chiamo Gulsa, sono l’ultimo abitante dell’isola e sapevo che questo giorno sarebbe arrivato. Ti ho aspettato a lungo. Abbiamo tante cose di cui parlare e purtroppo non ci resta più molto tempo. Ti racconterò degli anni in cui Roma e Cartagine si contendevano il dominio del mondo e migliaia di giovani vite venivano consumate nell’insaziabile fornace della guerra. La mia storia inizia proprio da questa stessa spiaggia, ottant’anni orsono. A quel tempo io ero un bambino...»

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LIBRO PRIMO

L’OSCURO ORDITO DELLE MOIRE Dall’autunno dell’anno 80 all’autunno dell’anno 76 prima della distruzione di Cartagine

Alla propria sorte nessuno può sfuggire, Non il vile e non il valoroso, Una volta venuto al mondo (Ettore, Iliade)

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Capitolo I

SALAMBAAL Isola di Akra, al largo di Utica Inverno Anno 80 prima della distruzione di Cartagine

Quel mattino il cielo di Akra era livido come il piombo. Un vento gelido e prepotente spingeva le onde contro le scogliere dell’isola sollevando alti spruzzi di schiuma. Accovacciato sulla spiaggia, a pochi passi dalla battigia, il piccolo Gulsa rammendava una rete da pesca logorata dagli anni. Le impetuose raffiche gli sollevavano il mantello e scoprivano un corto chitone di lino sudicio di fuliggine e di unte ditate. Da uno scoglio poco lontano, il vecchio Arish scrutava il mare con gli occhi socchiusi per proteggersi dai turbini di sabbia che gli si levavano contro. «Quando finirà questo vento?» si lamentò il bambino. L’uomo sollevò il mento come a voler annusare l’aria. «È carico di salsedine. Viene da lontano e temo che soffierà ancora per diversi giorni.» Gulsa staccò gli occhi dalla rete e fissò meravigliato il volto rugoso dell’uomo. Nei suoi sogni di bambino, quando fantasticava di avere anch’egli un padre, lo immaginava simile a quel pescatore, capace di risolvere ogni suo dubbio. «Pensi che tornerà mio padre dall’Iberia, Arish?» chiese d’un tratto lasciando cadere a terra la rete. «Tornerà, ma non presto. Tuo padre non è un soldato come tutti gli altri.» «Come fai a saperlo?» Il vecchio socchiuse gli occhi per assecondare lo sforzo della memoria. «Quando undici anni fa la nave inviata da Amilcare Barca venne a prenderlo per portarlo in Iberia, io ero con lui. La riconobbe subito. “Sono le vele della flotta da guerra di Cartagine, quelle” disse incredulo. “Amilcare avrà ancora bisogno di te…” “Sono stato tra i pochi ufficiali a rimanergli fedele dopo la guerra ed egli me ne è riconoscente, ma non immaginavo che mi avrebbe cercato tanto presto.” 13


Così partì alla volta di Gades, in Iberia, per svolgere chissà quale importante incarico. Tu avevi solo tre anni…» «Amilcare Barca era una persona importante, vero?» «Eccome! A quel tempo era lo stratega, il comandante assoluto dell’esercito di Cartagine, voglio dire. Terminata la guerra contro Roma, il Consiglio lo aveva incaricato di portare le truppe in Iberia per riprendere il controllo delle miniere. Bisognava estinguere il debito di guerra con la città latina e l’oro in città cominciava a scarseggiare.» «Allora anche mio padre è una persona importante! Mia madre non me lo ha mai detto…» «A lei manca l’uomo a cui voleva bene. Il pensiero di ciò che egli è non può certo consolarla.» Il pescatore si alzò e prese a recuperare la rete avvolgendosela intorno alle braccia con rapidi movimenti. Il bambino scattò in piedi con un balzo. «Portami in Iberia, Arish, da mio padre!» «Gades è lontana, ragazzo mio, ben oltre le colonne di Eracle-Melqart, a un passo dall’infinito Mare Esterno. Te ne parlai, ricordi?» Gulsa chinò il capo e annuì sconsolato. «Basta un piccolo errore di rotta per essere trascinato dalle correnti verso le terre ignote da cui nessuno ha mai fatto ritorno.» «Ma tu sei un buon marinaio! Lo dici spesso e…» «Devi restare con tua madre, Gulsa. Lei ha bisogno di te. Non fare in modo che debba soffrire ancora.» Il bambino tornò a sedersi. Una malinconia mai provata prima gli attanagliava il cuore. «Gulsaaa!» la voce roca e sofferente di Salambaal risuonò forte nel silenzio del mattino. «Sii madre, arrivo! Sai che cosa ti dico, Arish? Io un giorno andrò in Iberia, da mio padre, e tu e la mamma verrete con me! Piloterò io stesso la nave!» «Sarà ciò che vorranno gli dèi» concluse il vecchio, chinando il capo per nascondere le lacrime che sentiva salirgli agli occhi. «Ma ora vai, vai da tua madre!» Gulsa si lanciò di corsa lungo il ripido sentiero che saliva verso il villaggio. Giunto alla capanna, con il cuore ancora in gola, sospinse delicatamente la porta che si aprì con un lamentoso cigolio. Un debole fascio di luce penetrava a stento attraverso una piccola apertura da cui s’intravedeva il mare. Nell’angolo più buio dell’unica stanza, Salambaal giaceva supina su alcuni tappeti sudici, il capo appena sollevato 14


da un cuscino consunto. Una lunga tunica nera le fasciava l’esile corpo ossuto. «Che c’è, madre?» «Avvicinati, figliolo» disse la donna con un filo di voce. Gulsa s’inginocchiò accanto al giaciglio e, bagnato uno straccio di lino in una brocca d’acqua, prese a inumidirle la fronte e le labbra. Salambaal sorrise ed appoggiò la propria mano tra quelle del figlio. Era la prima volta che Gulsa teneva la mano della madre. Osservò imbarazzato la pelle raggrinzita sotto la quale alcune vene nodose pulsavano esauste. «Lo senti questo odore di pesce andato a male?» Il bambino tirò su col naso come aveva visto fare ad Arish e annuì. «È terribile, non lo sopporto più! Mi ha perseguitata per tutta la vita e non vuol saperne di lasciarmi nemmeno ora.» La donna chiuse gli occhi. Il petto si dibatteva in ansiti sempre più brevi. Un secco colpo di tosse la scosse e a un angolo della bocca comparve un filo di sangue. «Ascolta figliolo» disse schiarendosi la voce. «Promettimi che quando non ci sarò più lascerai quest’isola e che te ne andrai a Cartagine! Là troverai un buon lavoro, guadagnerai e forse un giorno incontrerai anche una ragazza da amare…» Gulsa deglutì a fatica. Non aveva mai pensato che sua madre potesse lasciarlo solo. Sentì crescergli in gola una gran voglia di piangere e le strinse con più forza la mano. «Però stai attento, perché la grande Cartagine sa essere perfida. Non lasciare che t’inghiotta come ha fatto con tuo padre. Tuo padre… Chissà dove sarà ora?» «Papà è un uomo importante…» balbettò Gulsa. «Me lo ha detto Arish.» «Un uomo importante… Se un giorno avrai dei figli, non lasciarli mai soli troppo a lungo. Resta con loro, dedica a loro tutto te stesso, senza risparmiarti, perché non può crescere alcuna pianta senza radici.» «Sì, madre.» «Tuo padre non l’ha capito o forse non ha potuto fare altrimenti.» La donna sospirò affaticata, gli occhi stanchi sembravano sul punto di chiudersi da un momento all’altro. «Cercalo Gulsa e, quando lo avrai trovato, dagli questo» sussurrò porgendogli l’amuleto che teneva appeso al collo, raffigurante il simbolo della dea Tanit. Gulsa lo prese e lo strinse forte nel pugno. 15


«Capirà…» e, voltasi verso la parete annerita dal fumo, Salambaal si assopì.

Gulsa aveva il dono del grande narratore. Con poche parole riusciva a creare atmosfere, a ridare vita ai fantasmi del passato e davanti ai miei occhi ammaliati si ricomponeva un mondo dal quale mi sentivo inspiegabilmente attratto. «Andiamo verso la mia capanna» disse alzandosi dallo scoglio. «Comincia a farsi buio.» C’incamminammo lungo il bagnasciuga accompagnati dalla delicata risacca delle onde della sera. D’un tratto il vecchio, che procedeva appoggiato ad un lungo bastone, si fermò e prese a fissarmi intensamente. «Perché mi guardi così?» «Osservavo i tuoi lineamenti…» «Quando giunsi sull’isola dicesti che mi stavi aspettando. Ma come puoi dire di conoscermi? Io non ti ho mai visto.» «So molte cose di te e conosco il tuo nome.» «Allora devi essere un indovino» ribattei con sarcasmo. «Al momento opportuno ti dimostrerò che non sto mentendo. Ma tu devi avere pazienza e ascoltare con attenzione tutto ciò che ti racconterò, perché…» «…perché?» lo interruppi con stizzita curiosità. «Perché così è scritto.» Lo guardai sorpreso, quasi irritato dal suo tono conclusivo. «Nulla succede per caso. Tutto ciò che avviene ha un suo significato e un giorno lo scoprirai. Non temere.» Camminammo per un po’ in silenzio, poi ci sedemmo sulla carcassa di una vecchia barca a guardare il tramonto. Il disco del sole affondava pigro nella distesa del mare e infuocava il cielo di un abbagliante riverbero rosso sangue. «Non si vede terra all’orizzonte» osservai meravigliato. «E come se oltre questa immensa tavola d’acqua non ci fosse più nulla, come se questo sconfinato azzurro ci tenesse lontani dal mondo, lontani dalla vita…» «Ti sbagli. Il mare avvicina, non allontana. Esso non è infinito come qualcuno pensa e conduce sempre a una terra a cui poter approdare. Ecco, senti questa brezza di tramontana? Viene da lontano, dalle terre dei Celti, i giganti dalla pelle pallida come la luna e gli occhi azzurri come il mare. Fu a loro che pensarono un giorno i tuoi concittadini desiderosi di 16


vendicarsi di Roma e mentre io accudivo gli ultimi giorni di mia madre, Annibale Barca, primogenito del defunto Amilcare, raggiungeva i loro villaggi ai piedi delle Alpi.Âť

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Capitolo II

I CELTI Media valle del Rodano, territorio dei Celti Gesati Autunno

«Ecco, attracca lì, Bomilcare!» esclamò Bostar indicando una radura lungo la riva. Il pilota della zattera puntò la lunga pertica sul fondo del fiume e diresse la pesante imbarcazione verso la terraferma. «Vieni, Annibale. Siamo arrivati. Le guide dei Gesati saranno qui tra breve.» Il giovane Barca guardava incuriosito le torreggianti vette delle Alpi che facevano capolino tra le cime dei larici. «E così queste sono le montagne che Eracle-Melqart avrebbe superato durante una delle sue dodici fatiche… Sosilo me lo ha raccontato centinaia di volte quando ero bambino.» Bostar si sedette su un masso. «Quel buono a nulla di un greco ti ha riempito la testa di inutili storie» bofonchiò scuotendo il capo. «Per fortuna che tuo padre Amilcare, prima di morire, ti ha affidato a me.» Annibale sorrise e legò i due cavalli al tronco di un albero. «Non mi è ancora del tutto chiaro il motivo che ci ha spinti fin quassù, amico mio.» Con un rapido gesto della mano, il capo degli informatori dell’esercito cacciò alcune mosche che gli ronzavano davanti al viso. «Appena giunto in Iberia, quasi dieci anni fa, tuo padre volle che prendessi contatti con le tribù celtiche che vivono a ridosso delle Alpi. Oltre che con i mercenari Gesati, riuscii a stabilire rapporti amichevoli con i Boi e gli Insubri, popolazioni che abitano la pianura del fiume Pado. Dopo estenuanti trattative, riuscii a convincere i principi delle tre tribù ad allearsi contro Roma. Non ti dico quanto ci è costato comprare la fiducia di questi montanari diffidenti. Si sarebbero potuti costruire dieci templi tutti d’oro, per Baal!» «Ne è valsa la pena?» «Sì, se oggi riusciremo a convincerli ad attaccare le legioni stanziate nel nord della penisola italica. Non sarà facile, ma il nostro oro potrebbe risultare ancora una volta determi-nante.» «Altro oro? Ma quanto…» 18


«Non possiamo fare in altro modo, ragazzo» lo interruppe Bostar, sistemandosi la fibbia che teneva chiuso il mantello. «Roma, impegnata nella pianura Padana dalle scorribande dei Celti, non ci darà fastidio per un bel po’ e tu lo sai che abbiamo bisogno di tempo. Te lo ripete spesso anche tuo cognato Asdrubale, lo stratega.» «Tempo, tempo… Quando saremo pronti per batterci con Roma? Il tempo passa e…» «Frena la tua irruenza, giovane leone! Possibile che quella testa quadra di Sosilo non sia riuscito ad infonderti nell’animo nemmeno un briciolo del suo senno spartano? La guerra contro Roma va preparata con cura, senza tralasciare alcun dettaglio. Lo sapeva bene tuo padre che ha dedicato tutta la sua vita a questo piano. Quel giorno verrà, non temere, ma occorre pazienza.» Annibale fece con la mano un gesto di rassegnazione. «Piuttosto» sorrise Bostar, «credo sia giusto informarti che questa sera al villaggio, per la prima volta in vita tua, avrai modo di apprezzare delle bellezze femminili uniche. Niente male, sai, le donne da queste parti. Seni dirompenti, bianchi come l’avorio, cosce lunghe e ben tornite…» «Mi sembra che tu la sappia lunga sulle donne celtiche, vecchia volpe!» «Diciamo che durante i miei viaggi ho avuto modo di apprezzarne qualcuna da molto vicino!» I due scoppiarono in una fragorosa risata. «Bostar, è vero che i Celti combattono nudi?» domandò Annibale fattosi d’un tratto serio. «Sì, lo fanno per dimostrare il proprio coraggio. Considerano la morte sul campo di battaglia come il più eroico degli atti.» «Incredibile! Combattono senza armatura! Ma ti rendi conto che…» Un inatteso scalpitio di zoccoli proveniente dal bosco lo interruppe. Nella radura comparvero le due guide dei Gesati. «Salute, nobile punico.» «Salute a te, cavaliere.» «I miei principi Aneroesto e Concolitano ti stanno aspettando. Sono con loro Atis e Boiorix, signori dei Boi, e Britomarto, re degli Insubri.» «Forza, allora» affermò deciso Bostar salendo a cavallo. «Non possiamo certo far attendere una così insigne compagnia.» «Chi è il giovane?» chiese l’altro cavaliere. «Annibale Barca, figlio del defunto generale Amilcare Barca e comandante della cavalleria di Cartagine in Iberia.» 19


I due lo osservarono con attenzione, poi volsero i cavalli e ripresero il sentiero da cui erano arrivati. Un duplice suono di corno annunciò che le sentinelle dei Gesati avevano avvistato gli ospiti. Il villaggio, fino ad allora assopito nel silenzio delle montagne, si animò all’improvviso e soldati armati di lancia presero a uscire di corsa dalle capanne, seguiti dagli sguardi sospettosi delle donne. Annibale, che cavalcava alle spalle di Bostar, sentiva su di sé gli sguardi di quegli uomini dagli occhi color ghiaccio e avvertiva un certo disagio. «Guarda un po’ a sinistra!» gli urlò Bostar, intento a dispensare saluti con la mano. Due ragazze dalle lunghe trecce bionde lo guardavano di sottecchi e ridevano con discrezione del suo corto chitone, così diverso dalle lunghe bracae di lana indossate dai loro uomini. Aneroesto e Concolitano li attendevano davanti ad una capanna più grande delle altre. «Salute, punico. Gli dèi siano con te» esclamò Aneroesto mentre Bostar scendeva da cavallo. «Salute a te, nobile Aneroesto. Sono onorato di poterti rivedere» e, tirati fuori da una sacca di cuoio due coppie di bracciali d’argento, disse porgendoglieli: «Come vedi, Cartagine non dimentica gli amici.» «La tua città ha riposto bene la sua fiducia. Chi è il ragazzo?» «Sono Annibale Barca, comandante della cavalleria di Cartagine in Iberia, figlio di Amilcare Barca che per primo volle questa nostra amicizia.» «Parli bene la nostra lingua, giovane Barca. Prego, nobili emissari di Cartagine. Accomodatevi.» I due entrarono in un ampio locale illuminato a stento da un focolare nel quale alcuni tizzoni di pino bruciavano sollevando un acre profumo di resina. Atis, Boiorix e Britomarto, seduti su sgabelli al centro della stanza, salutarono i nuovi arrivati con un lieve cenno del capo. Un druido dalla lunga barba bianca entrò con incedere solenne e, avvicinatosi al fuoco, iniziò a rovistare tra i tizzoni con il suo nodoso bastone. «Davanti agli dèi tutti, di tutte le genti qui rappresentate» sentenziò con tono grave, «sia oggi riconfermata l’alleanza tra le tribù dei Gesati, dei Boi, degli Insubri e la città di Cartagine e ricada la maledizione di tutti gli dèi ora invocati su chiunque osi tradire questo sacro vincolo.» Terminate le formule di rito, dopo aver versato sul fuoco alcune gocce di vino da un 20


corno adattato a bicchiere, il druido andò a sistemarsi tra i due rudimentali troni su cui avevano preso posto Aneroesto e Concolitano. «A te la parola, prode Boiorix, che hai voluto questo incontro» affermò austero Aneroesto, avvolgendosi intorno al corpo un lungo mantello di lana a quadri marroni e rossi. «Molte primavere fa, in questo stesso posto e davanti a questi stessi dèi, ci giurammo reciproco aiuto contro Roma. Ora, amici, nel nome di quell’inviolabile patto, vi chiedo di assisterci nella lotta contro questo stesso nemico che minaccia da vicino i nostri villaggi. Molte tribù che vivevano ai margini del nostro territorio sono già state sterminate senza pietà e le loro terre, le terre dei loro padri, oggi sono nella mani di contadini romani!» Il druido, che aveva ascoltato il discorso di Boiorix senza batter ciglio, si piegò verso Aneroesto e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il principe annuì. «Che cosa dice Cartagine?» domandò a Bostar. «Le parole di Boiorix sono un’ulteriore conferma della prepotenza e dell’arroganza di Roma la cui avidità non conosce limiti. La vostra guerra è giusta, amici, ma è mio dovere ricordarvi che combattere Roma significa iniziare una lotta che finirà solo quando uno dei due contendenti sarà annientato. Roma, infatti, combatte sempre e soltanto per la vittoria definitiva e non le importa quanto ciò possa costarle in termini di vite umane. Chiunque le si voglia opporre deve essere pronto a fare altrettanto.» Sull’assemblea calarono alcuni attimi d’imbarazzante silenzio. Nel focolare i tizzoni avevano smesso di crepitare. «I Gesati non temono nulla e sono pronti a tutto» intervenne Concolitano con fare sprezzante. «Aiutare i Boi mi sembra giusto, ma non riesco a comprendere il ruolo della tua città, Bostar. Dici che Roma è un’usurpatrice di terre e io, certo, condivido. Ma Cartagine si è forse comportata diversamente in Iberia? Anch’essa si è impossessata di terre che non le appartenevano, massacrando uomini e donne innocenti. Fammi capire, allora, punico: qual è la differenza tra Roma e Cartagine?» Il capo degli informatori si guardò intorno e notò che gli sguardi di tutti i presenti erano rivolti su di lui. “Maledetto barbaro…” pensò e, mentre si accingeva a replicare sforzandosi di non far trapelare la rabbia che lo aveva pervaso, sentì la mano di Annibale sfiorargli la propria. «Concedetemi l’onore di parlare» chiese con decisione il giovane Barca alzandosi dallo sgabello. «Io non ero presente al vostro primo incontro, valorosi principi, ma mio padre tanto me ne parlò che lo conobbi in ogni 21


suo minimo dettaglio. È come figlio primogenito di Amilcare che vi chiedo la parola.» «Parla ragazzo» sentenziò Aneroesto. «Dunque Concolitano non conosce la differenza tra Roma e Cartagine…» Annibale s’interruppe ed i suoi occhi irrequieti percorsero l’assemblea. «Guardate quell’anfora laggiù: greca, si direbbe dalle fattezze. Vi siete mai chiesti come possa essere arrivata qui? Nessun mercante ellenico si spingerebbe fin quassù, ma un mercante di Cartagine sì.» Il Barca si avvicinò a Concolitano e lo fissò dritto negli occhi. «Ovunque ci sia commercio, principe, là c’è Cartagine. Le navi della mia patria raggiungono le terre più remote da tempo immemore. I nostri marinai conoscono rotte e terre che né tu né io riusciamo a immaginare. Pensi forse che una città tanto ricca, in grado di arruolare i migliori soldati, non sarebbe riuscita a conquistare il mondo se solo l’avesse voluto?» Concolitano strinse le labbra. Il druido squadrava il giovane con aria severa. «E invece, nobili principi, Cartagine non lo ha fatto, perché sa bene che il commercio è proficuo solo con popolazioni libere. Questa è la differenza: Cartagine desidera la libertà, Roma la schiavitù.» Aneroesto lanciò un furtivo sguardo a Concolitano il cui volto tradiva un evidente stato di irritazione. Gli altri principi annuivano convinti. «Non abbiamo altra scelta» riprese il Barca. «Roma pretende che tutto il mondo parli la sua lingua, rispetti le sue leggi e dunque non ci resta che difenderci, lottare per proteggere ciò che ci appartiene. Ecco il motivo per cui Amilcare portò i propri uomini in Iberia, nobile Concolitano: per tornare a sfruttare le ricchezze di quei territori già nostri e saldare il debito di guerra impostoci da Roma. Per comprare la sua pace! Hai ragione, abbiamo ucciso molti uomini, ma oggi la maggioranza di quelle popolazioni vive in pace e prospera sotto la protezione di Cartagine.» «Parli bene, giovane Barca» disse Atis, il più anziano dei presenti. «Nelle tue parole avverto la saggezza e la decisione che furono di tuo padre. I Boi sono con Cartagine.» «Anche gli Insubri» sentenziò Britomarto. «Ed i Gesati saranno al vostro fianco» affermò Aneroesto, attirando su di sé gli sguardi increduli di Concolitano e del druido. «All’ultima luna di primavera valicheremo le Alpi con quindicimila soldati.» «Bene. Allora, se siete tutti d’accordo» intervenne Bostar, «affiderei il comando delle operazioni al nobile Aneroesto.» Tutti assentirono. 22


«Come interverrà Cartagine?» chiese Concolitano con tono gelido. «Oro! Vi darà tanto oro da allestire l’esercito più potente che abbiate mai avuto. E ricordati, valoroso guerriero, che i banchieri di Cartagine sono abituati ad investimenti proficui!» Gli occhi del principe furono attraversati da un breve lampo d’ira. Aneroesto smorzò la tensione con una fragorosa risata. «Non temere, Bostar. Il tuo oro non è mai stato in mani migliori. Forza dunque, si beva alla nostra impresa!» Batté le mani ed una donna entrò con un’anfora di vino rosso. Quando tutti ebbero la propria coppa piena, il principe dei Gesati si alzò dal trono e si avvicinò al focolare. «Che gli dèi ci assistano e ci siano favorevoli!» esclamò e tutti bevvero il vino d’un fiato.

«Bostar! Non dormi ancora, vero?» «No, Annibale. Qualcosa non va?» «Va tutto bene, ma ripensavo ai Celti che combattono senza alcuna protezione… Come può un generale convincere i propri uomini a tanto?» «Tuo padre ti avrebbe risposto che un buon stratega può tutto se ha saputo conquistare il cuore dei propri soldati. Non è difficile portare tanti uomini su un campo di battaglia, ma le battaglie non si vincono con il numero.» Il vecchio si sedette e guardò Annibale che lo ascoltava rivolto su un fianco, la testa sorretta dalla mano. «Altruismo, coraggio, disciplina, ordine... Ecco che cosa ci vuole per vincere, ma ricorda, giovane Barca: non esiste alcuna ricchezza che possa comprare tutto ciò.» Annibale fissava il vuoto ad occhi socchiusi come a scrutare qualcosa d’impercettibile che stava tra lui e Bostar. «Li otterrai dai tuoi uomini solo se saprai parlare ai loro cuori. Allora sì che faranno tutto ciò che chiederai loro: combatteranno nudi se lo vorrai, ti seguiranno fino agli inferi, fino…» «…fin’oltre quelle montagne laggiù!» «Fin’oltre quelle montagne laggiù!» ripeté Bostar tornando a sdraiarsi con le braccia distese lungo i fianchi. Intanto, dall’unica finestra, la splendente falce della luna faceva capolino nel buio fitto della capanna.

«E come andò a finire?» chiesi mentre c’incamminavamo verso la capanna di Gulsa. «Riuscirono i Celti a sconfiggere i Romani?» 23


Il vecchio si fermò e, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, scosse il capo come a scacciare un pensiero molesto. «I soldati di Aneroesto raggiunsero la pianura padana e, travolgendo ogni legione mandata loro incontro, arrivarono a soli quattro giorni di marcia da Roma. La città sembrava ormai sul punto di capitolare, ma il successo inebria, amico mio, e quell’invincibile esercito cadde vittima dell’ingan-nevole fascino della vittoria.» «Vuoi dire che desistettero?» Si limitò ad annuire, sconsolato. «Paghi del bottino ripresero la via di casa rinunciando alla gloria che li attendeva.» Salimmo verso la capanna in silenzio, accompagnati dai nostri ansiti che si facevano più profondi man mano che la strada saliva. Giunti sulla porta ci fermammo a riprendere fiato. «Illusi e sprovveduti» riprese Gulsa con il petto che ancora sobbalzava per lo sforzo. «Non sapevano che Roma non perdona e che, come una belva ferita, sa attendere paziente l’attimo propizio per vendicarsi.» Aprii la porta ed entrammo. Nel camino la brace emetteva intermittenti bagliori rossastri. «Una notte, mentre Aneroesto e i suoi festeggiavano col vino e con la danza, gli implacabili legionari piombarono loro addosso di sorpresa. Un massacro…» Mi avvicinai al braciere e vi gettai alcuni frammenti di corteccia ridestando le fiamme quasi esauste. «Parlami ancora di Annibale…» dissi con lo sguardo fisso sulla brace rovente. «Sì, ti racconterò di lui, dei suoi due fratelli, Asdrubale “il Giovane” e Magone, e di Asdrubale “il Vecchio”, loro cognato e successore di Amilcare. Fu lui a fondare Nuova Cartagine d’Iberia, la città che avrebbe dovuto testimoniare l’egemonia perpetua dei Barca sulla penisola, il simbolo imperituro della loro potenza…»

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