The ghost in love - Il fantasma che si innamorò - Jonathan Carroll

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JONATHAN CARROLL

THE GHOST IN LOVE IL FANTASMA CHE SI INNAMORÒ

traduzione di

DANIELA DI FALCO

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I edizione: ottobre 2013 © 2008 Jonathan Carroll © 2013 La Corte Editoria e Comunicazione Corso Galileo Ferraris 77, Torino Tutti i diritti riservati La Corte Editore è un marchio La Corte Editoria e Comunicazione Titolo originale: The Ghost in Love Traduzione: Daniela Di Falco Progetto Grafico e Manipolazione foto: Gianni La Corte ISBN 9788896325407 Finito di stampare nel mese di Ottobre 2013 presso lo stabilimento grafico Elcograf di Verona per conto di La Corte Editoria e Comunicazione

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Con la mano sul cuore, un profondo inchino a Richard Parks and Joe del Tufo.

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1 Il fantasma era innamorato di una donna che si chiamava German Landis. Un nome così affascinante e inconsueto, che il suo semplice suono gli avrebbe fatto fremere il cuore, se ne avesse avuto uno. Sarebbe arrivata fra meno di un’ora, così si stava affrettando perché tutto fosse pronto. Il fantasma, in cucina, era davvero abile, a volte sublime. Ma se avesse dedicato più tempo o avuto maggiore interesse per l’arte culinaria, sarebbe potuto essere addirittura eccezionale. Dalla sua ampia cuccia in un angolo della cucina, un cane meticcio col pelo nero e avena seguiva con grande interesse la preparazione del pranzo. Quel bastardo era l’unico motivo per cui German Landis sarebbe arrivata lì quel giorno. La donna lo aveva chiamato Pilot, come il cane guida di una poesia a lei particolarmente cara. D’un tratto, avvertendo qualcosa, il fantasma interruppe quel che stava facendo e scrutò il cane, apostrofandolo con un moto di stizza: «Che c’è?». Pilot scosse la testa. «Niente. Ti stavo solo guardando mentre cucini». «Bugiardo. Non è solo questo. So cosa stai pensando, che sono veramente idiota a darmi tanto da fare». Imbarazzato, il cane si girò dall’altra parte e prese a mordicchiarsi furiosamente una delle zampe posteriori. «Non fare così. Guardami. Pensi che io sia fuori di testa, vero?». Pilot non disse nulla e continuò a mordicchiarsi la zampa. «Vero?» «Sì, completamente fuori. Ma penso anche che tu sia molto dolce. Vorrei soltanto che potesse vedere cosa stai facendo per lei». Il fantasma scrollò le spalle con un sospiro rassegnato. «Cucinare mi aiuta. Se tengo occupata la mente avverto meno la frustrazione». «Capisco». 9


«No che non capisci. Come potresti? Sei solo un cane». Il cane alzò gli occhi al cielo. «Idiota». «Quadrupede». Fra loro c’era un rapporto cordiale. Al pari dell’islandese e del finlandese, il “canese” è parlato da pochi. Solo i cani e i defunti capiscono la lingua. Se Pilot aveva voglia di chiacchierare, scambiava una conversazione veloce con il primo canide che gli capitava di incontrare lungo la strada durante una delle sue tre passeggiatine quotidiane; oppure parlava con questo fantasma che, a causa dei loro attriti, era arrivato a conoscere Pilot più di qualsiasi essere a quattro zampe. Non sono poi tanti i fantasmi che si aggirano sulla terra dei vivi, perciò la compagnia reciproca era un conforto per entrambi. «Continuo a chiedermi: dove hai preso il tuo nome?», domandò Pilot. Il fantasma ignorò volutamente la domanda del cane e continuò a preparare il pranzo. Quando gli serviva un ingrediente, chiudeva gli occhi, allungava la mano e dopo un istante ecco che si materializzava nel suo palmo: un lime verde intenso, un pizzico di pepe di Cayenna, oppure uno speciale zafferano dello Sri Lanka. Pilot osservava rapito, mai stanco di assistere a una simile prodezza. «E se immaginassi un elefante? Ti apparirebbe anche lui sul palmo della mano?». Intento a tagliare le cipolle a dadini a una velocità quasi supersonica, il fantasma sogghignò. «Se avessi una mano sufficientemente grande, sì». «E per far apparire un elefante ti basta immaginarlo?» «Oh no, è molto più complicato di così. Quando una persona muore, impara a conoscere la struttura reale delle cose. Non solo l’apparenza o la sensazione che comunicano, ma la loro essenza. Una volta acquisita questa cognizione, è facile creare le cose». Pilot rifletté sulla spiegazione e disse: «Allora perché non ricrei German, semplicemente? Così non dovresti più affliggerti tanto per lei. Ne avresti una tua versione personale, qui e subito». Il fantasma guardò il cane come se avesse appena scoreggiato rumorosamente. «Capirai la stupidità di questo suggerimento dopo che 10


sarai morto». A quindici isolati di distanza, una donna camminava lungo la strada portando una grande lettera “D”. Un’immagine del genere, vista sulle pagine di una rivista o in uno spot pubblicitario, farebbe sorridere e non passerebbe di certo inosservata. La donna aveva un aspetto gradevole ma non memorabile. Il tratto migliore del viso erano gli occhi dalle palpebre pesanti: sensuali, ironici e intelligenti. Per il resto, aveva lineamenti regolari e ben armonizzati, anche se il naso era un po’ piccolo per il suo viso. Ne era consapevole, e spesso se lo toccava con una punta d’imbarazzo quando si sentiva osservata. Quel che la gente ricordava di più di lei, però, non era il naso, ma la sua altezza. Una donna alta quasi un metro e ottanta che portava una grande “D” blu. Le uniche cose che aveva nelle tasche in quel momento erano una chiave, una manciata di biscotti per cani e un’automobilina da corsa Formula Uno. Era stato suo padre a darle quel giocattolo come portafortuna quindici anni prima, quando era partita per il college, e lei credeva sinceramente che possedesse una sorta di magia positiva. Lo aveva sempre portato con sé, custodendolo gelosamente. Ma ora stava per cederlo a qualcuno che amava e detestava allo stesso tempo, perché lui aveva davvero bisogno di ogni aiuto possibile per cambiare il corso della propria vita. Sapeva che lui non credeva in “poteri” o talismani, così aveva deciso di nasconderla nel suo appartamento mentre lui non guardava. Se tutto andava bene, l’aura del piccolo portafortuna sarebbe bastata a sortire l’effetto voluto. Portava i jeans, una felpa grigia con “St. Olaf College” scritto a lettere gialle sul petto e logori scarponi da trekking. Gli scarponi la facevano ancora più alta. Stranamente, l’altezza non le aveva mai creato problemi. Il naso sì, e a volte anche il suo nome. Il nome e il naso, ma l’altezza mai, perché tutti nella sua famiglia erano alti. Era cresciuta in mezzo a un boschetto di alberi biondi. Originari del Midwest, Minnesota, consumavano pasti abbondanti tre volte al giorno. Gli uomini portavano il 45 o il 46 di scarpe, e i piedi delle donne reggevano il confronto. Tutti i nati nella famiglia avevano nomi insoliti. I suoi genitori amavano leggere, soprattutto la Bibbia, i classici della letteratura tedesca e i racconti popolari svedesi, ed era là che avevano racimolato 11


i nomi per i loro figli. Suo fratello era Enos, lei German e sua sorella Pernilla. Non appena la legge glielo aveva consentito, Enos aveva cambiato il proprio nome in Guy e rispondeva solo a quello. Era anche entrato in una punk band chiamata “Insufficienza renale”. Tutte scelte che avevano lasciato i suoi genitori avviliti e senza parole. German Landis, invece, insegnava arte a ragazzini di 12 e 13 anni. La lettera “D” che stava trasportando faceva parte del prossimo compito che avrebbe assegnato loro. Con la sua simpatia e il suo entusiasmo, German era un’ottima insegnante. I ragazzi amavano Ms Landis perché lei, chiaramente, li amava. Sentivano il suo affetto e la sua considerazione appena entravano in classe, ogni giorno, e i colleghi erano sempre lì a fare commenti sulle risate che risuonavano nell’aula di German. Il suo entusiasmo per le creazioni degli studenti era autentico. Su una parete del suo appartamento spiccava una grande bacheca tappezzata di foto Polaroid a testimoniare anni di lavoro dei suoi ragazzi. Spesso trascorreva le serate sfogliando libri d’arte e l’indomani lasciava quei libri sulla scrivania davanti agli studenti, indicando loro particolari illustrazioni che dovevano assolutamente vedere. Certi giorni la classe non lavorava affatto: andavano al museo cittadino per una mostra che non potevano di certo perdersi, o per vedere un film attinente al tema che stavano affrontando in quel momento. A volte restavano semplicemente seduti a conversare su qualcosa che li interessava. Per German erano giornate di intervallo, proficue quanto quelle lavorative. Quando i ragazzi la sottoponevano a lunghi interrogatori sulla sua vita, German raccontava di essere cresciuta nel freddo Minnesota, parlava del suo amore per le corse automobilistiche, per il suo cane Pilot e, fino a poco tempo prima, per il suo ragazzo Ben. Ma ormai gli studenti sapevano che era meglio non fare domande sull’ex ragazzo Ben. Per lei era stato facile innamorarsi, ma anche troncare la relazione appena aveva iniziato a guastarsi. Alcuni uomini (e ce n’erano stati parecchi) pensavano che fosse indice di insensibilità da parte di German, ma si sbagliavano. Semplicemente, German Landis non capiva le persone che si lasciavano deprimere dagli eventi: la vita era troppo interessante per scegliere di soffrire. Sebbene si divertisse un mondo 12


con suo fratello, pensava che fosse stupido passare la propria vita a scrivere canzoni che parlavano solo di cose schifose o ammorbanti. In tutta risposta, un giorno, Guy aveva tracciato uno schizzo della lapide che avrebbe realizzato per lei: un grosso “smile” giallo con su scritto “mi piace essere morta!”. Entrambi non sapevano affatto se le sarebbe piaciuto quando sarebbe arrivata la sua ora, anni più tardi. Ma sicuramente German Landis avrebbe affrontato la morte come una nuova scuola, una nuova relazione o un’altra fase della propria vita: avanti a tutta forza, issando le speranze, gonfiando le vele del cuore di ragionevole ottimismo, certa che gli dei, ovunque lei fosse stata, sarebbero stati fondamentalmente benevoli. Spostando il peso della lettera di metallo da una mano all’altra, storse la bocca al pensiero di quel che sarebbe successo di lì a poco. Negli ultimi tempi, ogni volta che German andava a casa di Ben a prendere Pilot c’era quasi sempre baruffa nell’aria. Litigavano per piccole e grandi cose. A volte queste discussioni si basavano su ragioni valide, ma di solito l’elemento scatenante era il semplice ritrovarsi tutti e due nella stessa stanza. Eppure, persino dopo tutte le cose strane e cattive che lui aveva detto e fatto, dopo pochi secondi che erano insieme, German si sentiva sopraffare da un desiderio impellente di baciarlo e toccarlo e stringergli forte le mani, come aveva fatto in tante occasioni felici prima d’allora. Si erano avuti - si erano trovati, trovati l’un l’altro, e la loro relazione aveva funzionato come nessun altro rapporto che German avesse mai vissuto. Ma adesso la loro relazione era spezzata, ridotta a questo: dividersi un cane con il pensiero che ogni tentativo di comunicazione fra loro avrebbe portato a uno scontro. Una notte, quando ormai stava per lasciare l’appartamento di Ben, German si era seduta nel soggiorno, nuda, stringendosi forte al seno l’automobilina-talismano. Con gli occhi chiusi, aveva mormorato più volte “Ti prego, cambia la situazione. Fa’ che migliori. Ti prego”. Erano stati così innamorati – in egual misura e con la stessa passione. E, come quando incappi in una ragnatela, non è facile staccarsi di dosso i fili di un vero amore che hai appena vissuto. 13


All’inizio del loro rapporto avevano visto L’orribile verità, un film con Cary Grant dove una coppia decide di separarsi ma poi, condividendo la custodia del cagnolino, capisce che l’amore è rimasto immutato e si riconcilia. Il film non era piaciuto né a German né a Ben. Ma adesso era appiccicato sulle pareti delle loro teste come un Post-it fosforescente, perché parte della trama calzava loro a pennello. Adesso avevano contatti solo per via del cane. Entrambi consideravano Pilot come un figlio adottivo e un amico. Ben lo aveva regalato a German al loro terzo appuntamento. Era andato al canile della città e aveva chiesto di vedere il cane che era lì da più tempo. Aveva dovuto ripetere la sua richiesta per tre volte prima di convincere gli inservienti che non era pazzo. L’idea era stata di German, la prima di tante che erano riuscite ad arrivare dritte al cuore di Benjamin Gould. Alcuni giorni prima, infatti, German aveva detto che le sarebbe piaciuto comprare un cane che nessuno voleva. Presto sarebbe andata al canile e, a scatola chiusa, avrebbe preso il cane che vi era stato rinchiuso più a lungo degli altri. «E se fosse brutto e disgustoso?», aveva chiesto Ben tra il serio e il faceto. «E se avesse un pessimo carattere e malattie spaventose?» German aveva ridacchiato. «Lo porterò da un veterinario. Aspetto e malattie non sono un problema. Voglio solo che viva bene gli ultimi anni della sua vita». «E se fosse feroce? O uno che ha il morso facile?». Ben l’aveva tartassata di domande, ma stava scherzando. In realtà era già conquistato dall’idea. Al canile, lo avevano portato a vedere un cane cui avevano affibbiato un nome inequivocabile: Matusalemme. Il cane non aveva nemmeno sollevato la testa dal pavimento quando lo sconosciuto si era fermato a sbirciare dentro la sua gabbia e Ben si era trovato davanti un cane come tanti altri. Se aveva qualche dote particolare, la teneva ben nascosta. Non aveva niente di speciale: né gli occhi espressivi, né l’adorabile esuberanza di un cucciolo. Non mostrava interessi particolari. “Simpatico” non rientrava certo tra gli aggettivi per definirlo. Tutto quel che gli inservienti del canile avevano saputo dire su quello scialbo meticcio si riassumeva in “pulito, tranquillo, mai causato guai”. 14


Non c’era da stupirsi che qualsiasi potenziale padrone lo avesse rifiutato. Ogni particolare lasciava intendere che quel bastardo insignificante non fosse che un buono a nulla. Così, sebbene avesse pochi soldi con sé, Ben Gould aveva comprato Matusalemme, il buono a nulla. Il cane era stato convinto con paziente insistenza a uscire dalla gabbia e a camminare lungo la strada per la prima volta dopo mesi. Non aveva un’aria affatto felice. Ben non poteva sapere che aveva appena acquistato uno scettico, un fatalista convinto che nulla di buono potesse derivare da qualcosa di buono. Al momento dell’adozione, Matusalemme era un cane di mezza età. Aveva avuto una vita difficile, ma non malvagia. Aveva cambiato tre padroni, ma nessuno di essi era stato particolarmente memorabile. Occasionalmente era stato picchiato e preso a calci. E una volta un camion di passaggio l’aveva investito di striscio. Era sopravvissuto però, aveva zoppicato per settimane, ma era sopravvissuto. Così, quando l’aveva preso l’accalappiacani per lui era stato un sollievo: viveva in strada da tre mesi, ormai. Per precedente esperienza non si fidava degli esseri umani, ma era affamato e infreddolito e sapeva che gli umani vi avrebbero posto rimedio. Quel che il cane non sapeva era che, se lo avessero portato nel canile sbagliato, l’avrebbero soppresso di lì a poco. Ma aveva avuto fortuna. In effetti, la sua vita aveva preso una piega migliore nel giorno in cui era entrato in quel particolare rifugio. La struttura era finanziata da una coppia benestante senza figli che amava gli animali più di ogni altra cosa al mondo e andava spesso a visitarli. Di conseguenza, nessuno dei randagi ospiti era mai stato sottoposto a eutanasia. Le gabbie erano sempre calde e pulite in maniera impeccabile. C’era cibo in quantità e persino ossa di cuoio da masticare, che Matusalemme trovava disgustose e puntualmente ignorava. Nei tre mesi successivi non aveva fatto che mangiare, dormire e osservare; un notevole cambio di carriera che gli aveva risparmiato un inverno miserabilmente freddo e nevoso all’aperto. Non sapeva in quale posto fosse finito, ma finché lo nutrivano e lo lasciavano in pace, quella era la casa che faceva per lui. Una delle gioie dell’essere cane è non avere una nozione di “futuro”. Tutto è “adesso”, e se “adesso” è un 15


pavimento caldo e lo stomaco pieno, allora la vita è bella. Chi era quindi quest’uomo che lo tirava per il guinzaglio? Dove stavano andando? Avevano percorso molti isolati in mezzo al biancore accecante della neve. Matusalemme era abbastanza vecchio da sentire il freddo bucargli le ossa e le giunture. A casa – nel tepore del canile – il cane poteva uscire tutte le volte che voleva, ma raramente lo faceva con un tempo così inclemente. «Siamo quasi arrivati», gli disse l’uomo in tono comprensivo. Ma i cani non capiscono il linguaggio umano, perciò non significò nulla per lo sventurato animale. Tutto quel che sapeva era che si sentiva infreddolito e smarrito, e che la vita era diventata di nuovo dura dopo quella piacevole parentesi al rifugio. Mancavano due isolati all’edificio di German Landis quando accadde. Dopo aver guardato a destra e a sinistra, Ben scese dal marciapiede per attraversare la strada. Ma scivolò sulla neve, perse l’equilibrio e per quanto si mise ad agitare le braccia in aria in cerca di un appiglio, cominciò a cadere all’indietro. Allarmato da questo improvviso movimento incontrollato, Matusalemme scartò di lato tirando violentemente il guinzaglio. L’uomo cercò di fermare la propria caduta trattenendo allo stesso tempo il cane per impedirgli di lanciarsi sulla carreggiata ed essere investito da un’auto. Sollecitato simultaneamente in più direzioni, Ben atterrò più brutalmente di quanto avrebbe fatto assecondando la scivolata. La nuca batté sul bordo di pietra del marciapiede con un tonfo sordo, rimbalzò, e batté di nuovo con altrettanta violenza. Doveva aver perso conoscenza per un po’, perché la prima cosa che vide riaprendo gli occhi furono i volti preoccupati di quattro persone, compreso un poliziotto che reggeva il guinzaglio del cane. «Ha aperto gli occhi!». «Sta bene». «Sì, ma non lo toccate. Non muovetelo prima che arrivi l’ambulanza», Fermo in mezzo alla neve, dall’altra parte della strada, il fantasma aveva osservato la scena nello sconcerto più totale. Poi, un momento dopo, era sfrigolato e sfarfallato come un televisore guasto, scompa16


rendo nel nulla. Matusalemme era stato l’unico a vederlo, ma i fantasmi non sono una novità per i cani e così non aveva reagito in alcun modo. Si era limitato ad accucciarsi a terra, scosso da un altro brivido. L’Angelo della Morte aveva guardato il fantasma di Benjamin Gould e scosso la testa. «Cos’altro posso dirti? Sono diventati davvero in gamba». Erano seduti a un tavolo in uno squallido ristorante sull’autostrada vicino a Wallingford, nel Connecticut. A guardarlo bene, l’Angelo della Morte non aveva niente di speciale: quel giorno si era manifestato sotto forma di un piatto di uova e pancetta ormai vuotato, con sbaffi rossi di tuorlo mischiati a briciole di pane. Era mezzanotte e il ristorante era quasi vuoto. La cameriera era uscita a fumare, dividendo una sigaretta con il cuoco. Non aveva fretta di sparecchiare il tavolo. Avendo trovato lì l’Angelo della Morte, il fantasma di Benjamin Gould si era manifestato in forma di una grossa mosca, che si era posata sui resti del tuorlo. Il piatto aveva parlato per primo: «Quando Gould ha sbattuto la testa contro il marciapiede sarebbe dovuto morire. Conosci la procedura – frattura del cranio, emorragia cerebrale e morte. Ma non è andata così. «Per dirla in modo semplice, immagina che un grave virus abbia colpito il nostro sistema di computer. E che subito dopo, nell’intera rete, siano spuntate fuori una serie di anomalie nel funzionamento, che ci hanno fatto capire di essere stati attaccati da un virus. I nostri tecnici sono ora al lavoro per scoprire di cosa si tratta». Non soddisfatto di questa spiegazione, il fantasma/mosca si era messo a passeggiare nervosamente sulle sbavature di uovo che cominciavano a seccarsi sul piatto, imbrattandosi le esili zampette nere di tuorlo giallo e appiccicoso. «Com’è possibile che il Paradiso abbia un virus nel suo sistema di computer? Credevo foste onniscienti». «Lo eravamo finché non è successo questo. Quei tipi all’Inferno stanno diventando sempre più in gamba, non c’è dubbio. Ma non ti preoccupare, troveremo una soluzione. Per il momento, però, il problema sei tu, amico». A queste parole, la mosca aveva smesso di passeggiare e aveva guar17


dato il piatto. «In che senso?» «Non c’è niente che possiamo fare per te finché non avremo aggiustato il guasto. Fino ad allora dovrai restare qui». «A fare cosa?», aveva osato chiedere la mosca stizzita. «Be’, a fare quel che stai facendo, per dirne una. Puoi continuare a svolazzare in giro come una mosca, e poi magari trasformarti in una persona o in una civetta… Cambiare identità può essere molto divertente. E ci sono altre cose piacevoli da fare sulla terra: imparare a fumare, provare diversi tipi di colonia, guardare i film di Carole Lombard…». «Chi è Carole Lombard?» «Lascia perdere», aveva tagliato corto il piatto. Poi aveva borbottato: «Lei è una ragione sufficiente per restare sulla terra». La mosca era rimasta in silenzio, immobile. Il piatto, invece, aveva tentato di cambiare argomento. «Sapevi che Ben Gould ha frequentato la scuola in questa città? Per questo sono qui… Per appurare qualche dettaglio della sua storia». Ma la mosca non era disposta a farsi distrarre. «Quanto ci vorrà? Per quanto tempo dovrò restare qui?» «In tutta onestà, non lo so. Potrebbe volerci un po’. Una volta individuato il virus, dovremo fare un controllo sull’intero sistema», aveva risposto il piatto con leggerezza, sapendo bene di trovarsi su un terreno cedevole. «Un po’ cosa significa… un anno? Un secolo?» «No, no, non così tanto. Il corpo umano è costruito per durare fisicamente settanta, ottanta anni, novanta al massimo. Esistono eccezioni, ma non molte. Direi che Benjamin Gould vivrà per non più di altri cinquanta anni o giù di lì. Ma se fossi in te, nell’attesa andrei a stare da lui. Con una guida oculata, potrebbe evitarsi alcune vite e salire qualche gradino della scala». «Non sono un maestro… sono un fantasma, il suo fantasma. È questo il mio lavoro. Leggi la descrizione delle mansioni». L’Angelo della Morte aveva valutato la risposta e deciso che era ora di arrivare al punto. «D’accordo, allora ascolta bene. Loro hanno deciso…» 18


«Chi ha deciso?». Se il piatto avesse potuto fare una smorfia avrebbe arricciato le labbra in un moto di esasperazione. «Sai bene di cosa sto parlando… non fare il finto tonto. Loro hanno deciso – visto che potrebbe volerci un po’ per risolvere il problema del virus e che tu sei bloccato qui senza averne colpa – di offrirti l’opportunità di tentare qualcosa di mai sperimentato, solo per vedere se funziona. Se riesci a entrare in qualche modo in contatto con Benjamin Gould e ad aiutarlo a essere una persona migliore finché è in vita, non dovrai tornare sulla terra a infestare le case dopo la sua morte. Sappiamo quanto detesti lavorare sul campo, perciò, se riuscirai nell’impresa, in futuro potrai occuparti solo di scartoffie d’ufficio. «Non sappiamo per quanto vivrà, perché la sua morte era stata collegata alla caduta dell’altro giorno. Ora come ora nessuno sa cosa gli riservi il destino. Quindi questo significa che non c’è modo di prevedere se avrai molto tempo per lavorare su di lui o soltanto un po’». Il fantasma era rimasto sinceramente sorpreso da quell’offerta e si era fermato a riflettere su una proposta così intrigante. Stava per domandare: “Se non torno qui a ossessionarlo, cosa dovrò fare in ufficio?”, ma in quel momento la cameriera era arrivata al tavolo, aveva visto la mosca sguazzare nel tuorlo e l’aveva schiacciata con un vecchio giornale. Da qualche parte, nella città interiore di ognuno di noi, c’è un cimitero di persone care. Per quei pochi fortunati, soddisfatti del posto che occupano nella vita e delle persone con cui la vivono, è un luogo per lo più dimenticato. Le lapidi sono sbiadite e rovesciate, l’erba incolta, rovi e fiori selvatici crescono ovunque. Per altre persone, è un luogo dignitoso e ordinato come un cimitero militare, pieno di fiori ben curati e annaffiati, dove i vialetti di ghiaia sono rastrellati con scrupolo. Tutti segni di un posto che viene visitato spesso. Per molti di noi, tuttavia, quel cimitero è un guazzabuglio. Alcuni settori sono trascurati o completamente ignorati. Chi si interessa di quelle lapidi o dei cari sepolti sotto di esse? Stentiamo persino a ricor19


dare i loro nomi. Ma altre tombe sono importanti, che ci piaccia ammetterlo o no. Le visitiamo spesso, a volte troppo spesso, a dire il vero. E non sappiamo mai come ci sentiremo dopo queste visite – a volte più allegri, a volte più tristi. Non si può prevedere come ci sentiremo oggi tornando dentro noi stessi. Ben Gould visitava raramente il suo cimitero. Non perché fosse particolarmente felice o soddisfatto della propria vita, ma perché il passato non aveva mai avuto molta importanza per lui. Se oggi era triste, che differenza faceva se ieri era stato felice? Ogni momento della vita era diverso. In che modo guardare o vivere nel passato poteva realmente aiutarlo a vivere il momento presente, a parte qualche trucchetto di sopravvivenza imparato lungo il cammino? In una delle loro prime, lunghe discussioni, Ben e German Landis si erano trovati in totale disaccordo sul valore del passato. Lei lo amava. Amava guardarlo da tutte le angolazioni, amava sentirlo su di sé come l’ombra densa del mezzogiorno. Ne amava il peso e la statura. Statura? Quale statura? Aveva replicato scetticamente Ben, pensando che German stesse scherzando. Il ricordo del delizioso tramezzino che hai mangiato a pranzo non servirà a toglierti la fame quattro ore più tardi. Al contrario: servirà solo ad aumentarla. Per quel che lo riguardava, il passato non ci è amico. Discutevano e dibattevano, senza che nessuno dei due riuscisse a convincere l’altro di essere in errore. Era diventata una farsa, e alla fine uno scoglio insormontabile nel loro rapporto. Molto più tardi, quando stavano per separarsi, German gli aveva detto tra le lacrime che nel giro di sei mesi Ben avrebbe pensato a lei e alla loro relazione con la stessa frequenza con cui pensava alla sua maestra delle elementari. Ma su questo si era sbagliata al 100%. La grande ironia che teneva prigionieri sia la vita che l’appartamento di Ben Gould era il fatto che Ben vivesse non con uno, ma con due fantasmi, perché anche German Landis lo ossessionava. Andava a letto pensando a lei e ogni mattina, a pochi minuti dal risveglio, ricominciava a pensare a lei. Non poteva farne a meno, maledizione. Era qualcosa che sfuggiva completamente al suo controllo. Il loro rapporto fallito era una zanzara insistente che gli ronzava intorno alla 20


testa, e per quanto agitasse le mani per scacciarla restava sempre lì a tormentarlo. Quella mattina era seduto alla scrivania con lo sguardo fisso sulle proprie mani, quando suonò il campanello della porta. Ben indossava solo le mutande e nient’altro. Sapeva che era lei. Sapeva che sarebbe arrivata da un momento all’altro e aveva scelto deliberatamente di non vestirsi. Negli ultimi incontri con la sua ex ragazza, Ben si era mostrato sempre più distante e scontroso, rendendo ancora più pesante l’atmosfera fra di loro. A volte era talmente sgradevole e imbarazzante che German pensava “oh, lascia che si tenga il cane e scordatelo!”. Così almeno non sarebbe stata più costretta a vederlo. Ma Pilot era suo; Ben lo aveva regalato a lei. Amava quel cane quanto lui. Perché arrendersi solo perché quell’idiota del suo ex le rendeva la vita difficile per cinque minuti quando andava a prendere Pilot? Prima che suonasse il campanello, Ben stava pensando alla prima volta che avevano fatto l’amore. Erano seduti uno accanto all’altra sul letto, intenti a spogliarsi. German indossava una sobria biancheria nera e non sembrava affatto imbarazzata all’idea di doverla togliere. Quando era rimasta in mutandine e reggiseno si era fermata, gli aveva sorriso e aveva detto con la voce più sexy e deliziosamente intrigante che avesse mai sentito: “Continuo?”. Il fantasma sentì il campanello e si mise subito in allarme. Pilot lo guardò, poi si girò verso la camera di Ben. Il tavolo della cucina era stato imbandito con arredi e cibi magnifici. Nel bel mezzo di questa splendida distesa spiccava un sontuoso giglio Stargazer in un elegante vaso di vetro di Murano color lavanda. Non successe nulla. Dalla camera non proveniva alcun suono. Il campanello suonò una seconda volta. «Non vuole aprire la porta?». Pilot fece spallucce. Il fantasma incrociò le braccia, poi le sciolse. Assunse tre espressioni diverse nel giro di otto secondi e alla fine, incapace di restare inerte nell’attesa, uscì dalla cucina e si diresse verso il portone. Finalmente Ben Gould emerse dalla sua camera con atteggiamento polemico e insieme indolente. 21


Il fantasma notò l’uomo in mutande e lo fulminò con lo sguardo. Ancora? Intendeva ancora comportarsi con lei come un ragazzino immaturo? Gould si strofinò gli occhi con i palmi delle mani, inspirò profondamente e aprì la porta. Il fantasma si fermò dietro di lui, stringendo una spatola di metallo nella mano destra. Era talmente su di giri alla vista di German che sbatacchiò l’utensile su-giù-su-giù-su-giù… a incredibile velocità. Grazie a Dio, né lui né lei potevano vederlo. «Ciao». «Ehi». Singole parole pronunciate con voci il più possibile prive di emozioni. «Pilot è pronto a uscire?», chiese German con prudenza. «Certo. Entra». Ben si avviò verso la cucina e German lo seguì. Guardò le natiche sode dentro le mutande sgualcite e chiuse gli occhi disperata. Perché le faceva questo? Si aspettava che lei fosse sconvolta o imbarazzata di vederlo in mutande? Si era dimenticato che lei lo aveva visto nudo, oh, centinaia di volte in passato? German sapeva che odore aveva la sua pelle quando era pulita e quando era sudata. Sapeva come gli piaceva essere toccato e ne conosceva le più intime espressioni. Sapeva come piangeva e cosa lo faceva ridere di gusto. Come gli piaceva il tè e come si illuminava in volto quando, camminando insieme lungo la strada, German gli posava un braccio sulle spalle per mostrare con orgoglio al mondo che lei era la sua compagna e la sua incredibile amante. Vedendo dove erano diretti adesso, il fantasma scomparve dal suo posto vicino al portone e riapparve un istante dopo in cucina. Quando entrarono, li aspettava con le braccia premute lungo i fianchi in tesa anticipazione. Tutto ciò che si potrebbe desiderare per colazione era su quel tavolo. Focaccine ancora calde di forno, confettura di fragole dall’Inghilterra, miele dalle Hawaii, caffè Lavazza (il marchio preferito da German), filetti lucenti di salmone dal nord della Scozia disposti elegantemente su un vassoio e, su un altro, uova alla Benedict preparate ad arte (un’altra passione di German). C’erano anche altri due piatti di uova. Cibi appetitosi coprivano e ornavano ogni angolo del piccolo 22


tavolo rotondo. Sembrava una copertina di Gourmet Magazine. Ogni volta che Ben Gould guardava un programma di cucina alla televisione, anche il fantasma lo seguiva e prendeva appunti. Ogni volta che German veniva a prendere il cane, il fantasma preparava una delle ricette viste in tv o un altro piatto delizioso preso dai numerosi libri di cucina di Ben e lo serviva in tavola in attesa del suo arrivo. Naturalmente German non poteva vedere nulla di tutto questo. Davanti ai suoi occhi c’era solo il piano spoglio del tavolo con un cucchiaio posato da un lato, esattamente dove l’aveva lasciato Ben la sera prima dopo aver aggiunto lo zucchero a una tisana leggera. German guardò a lungo il cucchiaio prima di parlare. Sentì una stretta al cuore. In quei pochi, celestiali momenti di silenzio, il fantasma si illuse che German stesse fissando il tavolo perché aveva visto realmente tutto quel che aveva preparato per lei, perché il fantasma sapeva quanto German amasse gustare una buona colazione. Era il suo pasto preferito nell’arco della giornata. Amava comprare il necessario, prepararlo e mangiarlo. Amava scendere al forno due portoni più in là per prendere croissant caldi e petit pain au chocolat. Ogni volta che entrava nel negozio italiano a comprare il caffè, chiudeva gli occhi felice, concentrandosi sul profumo celestiale dei chicchi appena macinati. Amava il succo di pompelmo, i fichi maturi, le uova con la pancetta, le frittelle di patate con il ketchup. Era cresciuta con le mastodontiche colazioni del Minnesota che sopperivano alle temperature glaciali e ai metri di neve che si accumulavano fuori casa. Come sua madre, German Landis era una cuoca pessima ma piena di entusiasmo, specialmente quando si trattava della colazione. Andava in estasi se vedeva la gente mangiare quanto lei. Tutte cose che il fantasma sapeva perché molte volte si era seduto in quella cucina a osservare, con piacere e desiderio, la donna che organizzava il banchetto mattutino. Era una delle tradizioni che German e Ben avevano stabilito sin dall’inizio del loro rapporto: lei preparava la colazione, Ben tutti gli altri pasti. «Mangi?» «Come?». Ben non era sicuro di aver sentito bene. «Mangi?», ripeté German con maggiore enfasi. 23


La domanda lo colse alla sprovvista. Era da tempo che non gli chiedeva qualcosa di personale. «Sì, certo». «Cosa?» «In che senso, cosa?». German raccolse il cucchiaio e si girò verso Ben. Per raggiungere la posata, aveva infilato la mano nell’eccellente soufflé di sette uova che il fantasma aveva cotto al forno per lei. Era un capolavoro. Ma German non lo vide né lo sentì al tatto, perché i fantasmi cucinano pietanze fantasma che esistono solo nel mondo dei fantasmi. Per quanto i vivi a volte abbiamo percezione di quel mondo, non riescono a occuparne la dimensione. «Cosa mangi?». Ben la guardò e scrollò le spalle come un bambino colto sul fatto. «Roba buona. Cibi salutari». La voce gli gocciolò via dalle labbra. German sapeva che stava mentendo. Non si cucinava mai nulla quando era solo. Mangiava schifezze preconfezionate e beveva tè. Pilot si alzò dalla cuccia e si avviò lentamente verso la donna. Gli piaceva la sensazione di quella mano grande sulla sua testa. Le mani di German erano sempre calde e affettuose. «Salve, signor Cane. È pronto per la passeggiata?». All’improvviso, e con una sensazione che rasentava l’orrore, Ben si rese conto di come sarebbe stato il suo appartamento di lì a pochi minuti, appena German e Pilot fossero usciti e lui fosse rimasto solo senza niente da fare. Probabilmente German aveva programmato una lunga passeggiata con il cane, e alla fine avrebbe portato Pilot a casa sua e avrebbero pranzato insieme. Ben non era mai stato nel suo nuovo appartamento, ma riusciva a immaginarlo. Usando il suo gusto e il suo umorismo, German aveva riempito di vita l’appartamento di Ben con combinazioni di oggetti dai colori vivaci, con le sue collezioni di vecchie cartoline di prestigiatori, artisti del circo e ventriloqui, con automobiline da Formula Uno della Matchbox e lottatori di sumo in miniatura disposti sulle mensole e sui davanzali. La rara bicicletta Hetchens color argento che aveva comprato per quattro soldi al locale mercato delle pulci e restaurato con le 24


proprie mani, e che ora usava per andare ovunque, sarebbe stata sicuramente da qualche parte bene in vista, perché a lei piaceva guardarla. Il comodo divano blu che aveva acquistato mentre stavano insieme, e che aveva portato via quando si era trasferita, lo immaginava invece al centro del suo soggiorno e, con tutta probabilità, ingombro di libri d’arte sia aperti che chiusi. Un’immagine dolcemente familiare che gli fece male al cuore. Il posto di Pilot doveva essere sul divano accanto a lei. Il cane non si sarebbe mosso di lì, a meno che non lo avesse fatto German. E, comunque, il suo nuovo appartamento era certamente luminoso e spazioso, caratteristiche sulle quali aveva sempre insistito: ovunque vivesse, aveva bisogno di luce naturale in abbondanza. Le piaceva spalancare le finestre anche nei giorni più freddi per riempire le stanze di aria fresca. Un’abitudine che aveva fatto impazzire Ben quando abitavamo insieme, ma di cui ora sentiva la mancanza – come per tutte le altre manie di German. Troppo spesso ripensava a German che, nel bel mezzo dell’inverno, sgusciava fuori dal letto per spalancare la finestra e poi correva a infilarsi di nuovo sotto le coperte stringendosi forte a lui e sussurrandogli tenerezze in un orecchio finché non si riaddormentavano. Giorni prima, seduto davanti a una tazza di tè pensando malinconicamente al tempo trascorso insieme, Ben le aveva scritto qualcosa sul tovagliolo di carta di una rosticceria. Sapendo che non l’avrebbe mai letto, era stato sincero: “Mi manchi ogni giorno della mia vita e solo per questo non riuscirò mai a perdonarmi”. «Bene! Io e Pilot faremo meglio ad andare». «Ok». «Te lo riporto domani. Alle due, va bene?» «Sì, perfetto». Stava per aggiungere qualcos’altro ma si trattenne, spostandosi sull’altro lato della cucina per prendere il guinzaglio del cane appeso a un gancio. German tirò fuori la macchinina dalla tasca e la fece scivolare dentro il cassetto del tavolo, richiudendolo senza far rumore. Ben non si era accorto di nulla. Inaspettatamente arrivò un momento in cui, passandosi il guinzaglio, abbassarono entrambi la guardia. Si fissarono con un misto d’a25


more, risentimento e desiderio – immenso. Entrambi si affrettarono a distogliere lo sguardo. Seduto al tavolo, il fantasma aveva osservato l’intera scena. Aveva avvicinato a sé il soufflé malconcio, quasi volesse proteggere la sua bellezza devastata da ulteriori danni. E ora, notando quel rapido scambio di sguardi, il fantasma affondò il viso fino alle orecchie nel soufflé e rimase così mentre i due si salutavano e German usciva dalla cucina. Era ancora immerso nel pasticcio a base di uova quando sentì il portone chiudersi. Ben tornò in cucina, si sedette di fronte al fantasma e puntò lo sguardo nella sua direzione. Alla fine il fantasma sollevò la testa dal soufflé e si accorse che lo stava fissando. Per quanto sapesse di essere invisibile, l’intensità dello sguardo dell’uomo gli risultò penosa. Ben prese il cucchiaino dal tavolo e parve soppesarlo nella mano. In realtà stava cercando di capire se il metallo avesse conservato un po’ del calore di German. D’un tratto scagliò il cucchiaino contro il muro con tutte le proprie forze. La posata rimbalzò sonoramente su diverse superfici prima di atterrare e ruzzolare sul pavimento. Il fantasma nascose di nuovo il viso dentro il soufflé.

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