generAzione rivista, anno VI, num XXIII, gennaio febbraio 2013 - TRASH!

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Bimestrale di autoproduzione anno VI _ numero XXIII _ gennaio / febbraio 2013


«Abbiamo la Terra non in eredità dai genitori, ma in affitto dai figli».

Proverbio Indiano

«L’immondizia non è solamente quella che si vede essere bianco non è esattamente essere candido».

Niccolò Fabi, Sedici modi di dire verde

[ri-fiù-to] s.m.: Eliminazione di qualcosa perché inutilizzabile o dannoso, scarto; (spec. pl.) residuo inutilizzabile di lavorazioni, processi organici ecc.; spazzatura, immondizia: r. industriali, tossici; frugare in mezzo ai r. Delinquente o persona emarginata: un r. della società, sec. XIV I rifiuti sono loro o siamo noi? Pensiamoci, raccogliamo e… condividiamo il nostro cammino di carta. E come disse il cestino… «Io mi rifiuto!»


TRASH!

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i diamo un compito da svolgere nei prossimi cinque giorni: guardatevi intorno mentre camminate per strada, nei luoghi che frequentate e in cui vivete, provando a contare i rifiuti che trovate. E poi? E poi ci sono due possibilità. O li raccogliete e li gettate nei primi raccoglitori di differenziata oppure, beh… li lasciate lì dove li avete trovati e, chissà, qualcuno prima o poi li raccoglierà? Quanto ci occupa l’immondizia nella nostra giornata? Cosa significa per noi essere immersi nei rifiuti e non sapere come gestirli? Quanti di noi si preoccupano di raccoglierli e differenziarli? Ma in fondo, perché dobbiamo differenziarli? Chi sono loro per essere così importanti nelle nostre preoccupanti e quotidiane difficoltà? Ci siamo mai fermati a riflettere sulla quantità di rifiuti che eliminiamo ogni giorno? E il percorso che tutto ciò fa? Svanisce nel nulla con un puf o ci vuole impegno per gestirlo e usarlo consapevolmente? C’è chi con pigrizia o chi con molta fretta sta immergendo la propria casa, le proprie città di immondizia: in fondo, stiamo soffocando i luoghi in cui viviamo, l’aria che respiriamo e i paesaggi che ammiriamo. Gettiamo cartacce nelle strade che calpestiamo, bottiglie di vetro nei mari in cui nuotiamo. Ci stiamo uccidendo da soli perché non sappiamo rispettare noi stessi. E poi gli altri, l’ambiente, gli animali. generAzione rivista


♦ Le sane abitudini di Diana Osti................................8 ♦ Favola metropolitana di Beatrice Orlandini...................11 ♦ Avventure di una cacca di Alessia Bruni...........................16 ♦ La Jeep nera, una manciata di terra rossa e quei pantaloncini troppo corti di Chiara Baldin.........................20

ommari

♦ Domande di Iris Karafillidis..........................5


Domande di Iris Karafillidis

5 «Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda». Italo Calvino, Le città invisibili

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Iris Karafillidis

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o smesso di credere ai telegiornali da quando non capivo la differenza tra i suoni indistinti di Pingu e il belare continuo di Ferrara. E ho smesso di credere ai documentari di National Geographic quando ho capito che lo sguardo di una tigre che difende il suo cucciolo è molto più ‘umano’ di quello di una madre che porta la propria figlia a un concorso di Little Miss America. Alla fine, è tutto Schifo. Sono diventato quello che i miei compagni hanno definito un uaglione menefreghista, uno di quelli che un po’ pensa solo ai fatti suoi e un po’ non vuole saperne nulla del resto. Ma proprio nulla, quel nulla confortante e accogliente, che ti fa sentire al sicuro dallo Schifo. Alla fine, quassù, sul Vomero, si sta pure bene. Le case sono enormi, le vie pulite, il panorama meraviglioso. Tutti conoscono le mazzette che danno per togliere la munnezza dai viali. Tutti lo sanno, nessuno lo dice, ma tutti lo sanno. Perché in questo quartiere vive la gente della Napoli Bène, la gente con le ville da milioni, le feste da miglia-

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ia, i vestiti da centinaia, la munnezza da miliardi. Ho imparato che ciò che non-sai non può nuocerti, perché tanto sisa che le cose non vanno bene, si-sa che c’è il globalwormqualcosa, si-sa che ci fregano, si-sa che l’onestà non abita più dalle nostre parti. Si-sa. E se tutti lo sanno, perché farsi altre domande? Ho smesso di farmi domande. Suppergiù, dal duemilaotto. O forse dal 2010, perché la prima volta io a Berlusconi e a Bertolaso credevo pure. Insomma, dicevano che avrebbero rimesso la città (la città poi, il centro marittimo ecco) a posto. Ripulita in pochi giorni. Dove avrebbero messo le montagne di rifiuti, in che modo le avrebbero trasportate, con quali soldi le avrebbero eliminate non lo dicevano. Perché farsi domande? Nel 2010 invece, ho chiuso gli occhi. Davvero, realmente, niente metafore da letteratura. Ho chiuso gli occhi mentre andavo a Sorrento, sulla Circumvesuviana. Ho chiuso gli occhi tra Torre Annunziata e Castellammare di Stabia. La città era più o meno vivibile,


niente di diverso dai normali cassonetti straboccanti e dalla puzza onnipresente, andando alla stazione. Ma ci si era abituati, anche noi che abitavamo lassù, che se ‘scendevi’ verso il Centro, dovevi stare attento a dove mettevi i piedi, dovevi fare gli slalom tra i sacchetti. Ma si-sa che allo Schifo ci si abitua, per inerzia, lentamente ma inesorabilmente lo Schifo diventa schifo. E poi “eh, ca’ ci vuo’ fare?”. Perché farsi domande? Invece, in provincia c’era ancora il Caos. Lo vedevo, mi sfrecciava davanti tra scheletri di case abbandonati e cortili fatiscenti, era ovunque, non c’era nemmeno bisogno di cercarlo. Erano le risposte alle domande di Berlusconi, se la vetrina stava meglio il retro era in putrefazione. Ho visto due neri che raccoglievano le lastre di metallo, in una discarica lungo i binari. Non era un documentario. Era Castellammare. Poi, ho chiuso gli occhi e ho acceso l’iPod. Alla fin fine, non è così insostenibile, questa leggerezza dell’essere.

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Le sane Abitudini di Diana Osti

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«...a te, acqua calda e zucchero». ccomi qua. Da tempo non ripetevo più questo gesto: uscire nottetempo in pigiama imbardata di tutto punto in preda a un imperativo famelico, un es muss sein kunderiano, suscitando ilarità nel vicinato, in primis nel kebabbaro che alle prese con la chiusura della

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sua attività e della sua lunga giornata si fa beffe della mia concupiscenza. Attraverso l’isolato armata di tessera sanitaria e banconota da cinque euro, arrivo già pronta al distributore sperando che non si verifichi l’incubo di ogni fumatore: la macchinetta inceppata. Per fortuna va tutto liscio.


Diana Osti Prelevo il mio pacchetto di Marlboro dalla buchetta delle meraviglie, con un gesto impeccabile ed esperto. Ripercorro la strada della vergogna, apro il portone, entro in casa e mi accendo la mia sigaretta. Checché se ne dica, riprendere a fumare è una cosa fantastica: è come riprendere a fare l’amore con un uomo di cui sei sempre stata innamorata, il maschio alfa dei tuoi sogni, sempre lì pronto a soddisfarti, che era partito per un lungo viaggio e ora è ritornato nel pieno della sua prestanza munito di un’ulteriore carica erotica. È uno sballo. Apro la finestra per fare uscire la puzza: la mia coinquilina non fuma e cerco di coprire i miei misfatti il più possibile. Anche se so di essere come quei gatti che si nascondono sotto al letto con la coda fuori pensando di non essere visti. Un po’ mi mancavano, queste sane abitudini: quelle che nessun nonfumatore capirà mai, rispetterà mai, si farà mai una ragione. Mentre sento lo spiffero della finestra contrastare con il tepore dell’ambiente casalingo, ripenso a come sono arrivata fin qui. Due settimane fa ero ospite da un’a-

mica, o meglio rifugiata, per via di problemi con i miei precedenti coabitanti consumatori di sigarette alternative. Per aiutarmi a fuggire dalla maleodorante situazione, Isabella mi offrì coperte e lenzuola pulite, una stanza che prima era di suo figlio, uno spazzolino da denti e tanta, genuina e autentica compagnia. In quei giorni stava ritinteggiando il soggiorno e la casa era occupata da un altro silenzioso ospite: Alex, il tuttofare filippino, in cui Isabella riponeva molta fiducia ma che infine, data la sua scarsa altezza che gli causava non pochi problemi nella fase di tinteggio del tetto, tracciò delle linee un po’ a caso sui bordi del soffitto, che forse rimarranno a lungo, ricordandoci sempre quelle giornate. Il quotidiano era scandito dai nostri pranzi e cene insieme, che ci riunivano tra i suoi impegni e il mio studio. Era piacevole conversare e raccontarci delle nostre esperienze. Io più che altro ascoltavo, felice di poter godere dell’amicizia di una donna più grande. Finito il pasto sparecchiavamo e ogni volta si poneva di fronte a noi il dilemma delle cartacce. Isabella, come quasi tutti i torinesi,

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Diana Osti pratica la raccolta differenziata. Lava i vasetti di yogurt, che spesso trovavo sul suo secchiaio dopo la colazione. Divide et impera. La carta alla carta, la plastica alla plastica, il vetro al vetro. Ma c’era un mistero che aleggiava attorno alle cartacce delle merendine ai cereali Kellogg’s: non si capiva di che materiale fossero fatte. Non era possibile differenziarle. Erano sfuggenti, arcane, fatte di una lega extraterrestre. Così finivano, con grande disappunto della mia amica che ancora non si dà pace, nel magma dell’indifferenziato. Cercammo di capire in tutti i modi dove buttarle: sulla confezione non c’era scritto nulla. Non riuscimmo nemmeno a interpretare gli enigmatici segni con l’omino che buttava la carta nel pattume: era solo un pattume. Di grazia. Sono molto grata a Isabella per la sua ospitalità, perché in quei giorni, che dovevo preparare gli esami, ho potuto stare lontana dal fumo di marijuana che mi annebbiava la mente e vivere nel pieno rispetto dell’altro. In pace e senza sigarette: ero ancora quella-che-aveva-smesso. Poi, non so cosa è successo. Probabilmente il caos, il trasloco,

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l’ansia e la tensione dei rapporti mi hanno fatto sentire la mancanza dell’amico tabacco. A volte si fuma perché ci si sente soli. Ma se fosse possibile togliere a se stessi una piccola cosa per venire incontro agli altri, forse non ci sarebbe bisogno di scappare di puzza in puzza. Invece di vivere ognuno solo nella sua puzza, ostinato e caparbio, nel grande magma dell’indifferenziato, si potrebbero inventare soluzioni alternative. Sarà sempre sperimentare il disgusto il motore dei nostri miglioramenti? Una cosa che nasce pulita deve per forza sporcarsi, o può avere diritto di esistere? Dire solidarietà è out, o diventa in solo quando la mischi con il reggae? Questo mi chiedo e ancora non so rispondermi, mentre mi domando, a questo punto, dove si buttino i mozziconi.

Tu ed io non siamo che una sola cosa. Non posso farti del male senza ferirmi. Gandhi


Favola

Metropolitana

di Beatrice Orlandini

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«Mi scusi sa,» dice Lucio Lucertola, «non sono mica d’accordo. Ci sono dei delitti elementari nel patto sociale, anche se ormai li consideriamo lussi. Le faccio un esempio: lei respira, no?» Il Topo è costretto ad ammettere questa sua debolezza. «Allora lei sa che, in qualità di vecchi, il massimo di aria buona e verde che ci è consentito è il giardinetto, in comproprietà coi cani, e il vaso di gerani, nostra Amazzonia. Le città non ci amano, le periferie ci ammorbano, le campagne ci lascian soli. Molti di noi, invece che comprarsi la villa in riviera, amano investire in quartini di vino. Nostra sola soddisfazione è vendicarci dell’ambiente bronchitico e ostile deturpandolo con scracci. Eppure, più si invecchia, più si ha bisogno di ossigeno...» Stefano Benni, Comici spaventati guerrieri

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Beatrice Orlandini

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’era una volta,

dietro le veneziane abbassate di finestre troppo grandi per vedere fuori i tetti e le grate sotto un cielo troppo sporco, una città-come-tante-altre senza mare e con tanto asfalto, senza orizzonte e con tante luci luccicanti nei riflessi delle pozzanghere per le strade truci sudice di pioggia e notte dove passano i passi di persone che si guardano i piedi e piove mentre passano e passano, e casa è semplicemente un posto che hanno visto più spesso del resto. Non si appartiene ai mozziconi di sigaretta lasciati a spegnersi sul ciglio grigio dei burroni (i marciapiedi crepati da un po’ d’erba impertinente), i mozziconi che Pollicino metropolitano lasciava dietro di sé come briciole di pane che brucia e bruciano anche le briciole di aria rimastegli pure dentro i polmoni neri d’inchiostro nero come il buco nero dei pensieri che gli stracciano il sonno. E allora inquiniamoceli questi polmoni che è dove sta la tristezza e col catrame sciogliamoceli

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Beatrice Orlandini i sogni neri d’inchiostro nero: Pollicino metropolitano si incatrama di fumi il respiro per distruggere ciò che lo distrugge, il più nero manda il nero in frantumi. Nero come l’inchiostro dei fiumi dagli occhi di Cenerentola metropolitana che piange e si gratta via le lacrime gli sbagli di una speranza troppo grande troppo ingenua perché Realtà non la imbavagli, e si dipingeva gli occhi con la matita tossica perché è meglio raschiare via le lacrime bagagli di un cuore avvelenato di solitudine piuttosto che lasciare che la luce entri dagli spiragli. Rifiuti sull’asfalto, mare senza onde rifiuti i mozziconi di Pollicino, e la tristezza rifiuti i suoi polmoni e gli incubi che nasconde, rifiuti i fazzoletti di Cenerentola, e la dolcezza rifiuti le emozioni troppo, troppo profonde. La Bella Addormentata nella metropoli si svegliava ogni mattina nel terrore e nel sudore e nella disperazione: odori spaventevoli di gas la facevano scappare di casa ogni giorno tra grida atroci, e soprattutto disdicevoli. «Nessuna fuga di gas signora, non capiamo perché ci chiama in lacrime ogni mattina: dagli altri condomini mai alcun reclamo, si metta tranquilla e non faccia la cretina». Dicevano che la Bella Addormentata avesse una tal paura di morire ch’era uscita pazza come pochi, ma c’è chi ha messo in giro la voce importuna che forse la puzza che sentiva non era di morte

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Beatrice Orlandini

ma di ossigeno, e la paura che la prendeva ognuna di quelle mattine era invece proprio di vita. Ma tanto chi se la ricorda piÚ adesso la pazza che aveva terrore del gas? La misero in un manicomio malmesso e la Bella Addormentata metropolitana ci rimase fino al suo decesso, rifiutata come i mozziconi o i polmoni o le gomme o i fazzoletti o le emozioni. Lungo le strade zampetta un passerotto innamorato e cerca la sua Biancaneve, si è fatto un nido in un cassonetto e il tempo passa e lui invecchia e il bosco metropolitano gli ha ingrigito lo zuccotto col suo alito roboante e fumoso, e fosco come il colore di acqua e melma del fiume metropolitano che dondola maldisposto in mezzo ai suoi due argini artificiali

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portando con sé il carico deposto dalle fabbriche di chissà quanti chilometri fa. Oggi insieme ai frigoriferi fluttua anche un uomo che forse prima fu ranocchio: dopo i frigoriferi e le cassapanche il fiume è sempre più sporco di umanità. La città-come-tante-altre culla i suoi personaggi (ostaggi?) come in un sogno o come in una favola, e ci si chiede dove sia finita la metà dei messaggi che riempirebbe i significati e che è stata gettata via, dove sia finita la metà della vita senza bendaggi che si era buttata nel pattume del non riciclo, dove sia finita la metà degli alberi dei miraggi segati in due che prima sostenevano il cielo, che così vicino alle bocche delle ciminiere non si era mai visto così sporco.

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Avventure Di una cacca di Alessia Bruni

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uesta storia non ha un luogo e uno spazio ben preciso: in ogni città e in ogni paese esistono delle persone che raccolgono la cacca del proprio amico a quattro zampe e altre no. Il problema nasce con quest’ultima categoria di persone. Perché, infatti, raccogliere la defezione canina dal suolo pubblico è importante?

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Ma perché nessuno, in casa propria, ha voglia di fare lo slalom tra cacche e cacche.... Ma non solo. Ci siamo messi nei panni di una cacca? Del terrore che prova tutte le volte che le suole delle nostre scarpe la sovrastano e a volte la schiacciano irrimediabilmente mutando i suoi connotati? Proseguite la lettura e avrete un punto di vista del tutto nuovo!


Alessia Bruni Camminando per le strade di una città con tranquillità, senza fretta, è piacevole scorgere le stranezze delle persone. Gente vestita molto bene, truccata e profumata con fragranze acquistate in profumeria, che raccontava di quanti sacrifici facevano per arrivare alla fine del mese; studenti in preda a crisi di panico per un esame imminente, o ragazzi sorridenti e felici perché quel giorno erano riusciti a scampare all’interrogazione di latino; innamorati che si baciano sotto i portici, incuranti degli sguardi di rimprovero che lanciano loro gli adulti che passano loro accanto. E lì, su un lato del marciapiede, si trova lei, che aspetta il piede della prima persona che, persa nei suoi pensieri, non guarda dove mette i piedi. Per arrivare lì, lei, ne ha fatta tanta di strada. Prima di essere abbandonata là, in mezzo al traffico e alle persone che non la degnano di uno sguardo, è passata attraverso un lungo e arzigogolato percorso interno. Tutto nacque una mattina in cui Lulù mangiò a pranzo con il suo padrone. Alla stessa ora del suo padrone, cioè. Lulù mangiò nella sua ciotola il suo pastone, mentre la coppia

che la accudiva gustava un prelibato risotto al curry e arrosto di tofu con insalata. La coppia era vegetariana e anche la cagnolina era stata svezzata con prodotti biologici e privi di qualunque residuo animale. A Lulù quella pappa piaceva molto. Era gustosa, leggera e le permetteva di correre per i prati dei giardinetti per sfuggire ai maschi che volevano conoscerla meglio. Lulù, un giorno di festa, di quelli in cui i padroni si svegliavano senza sveglia, vide i padroni agghindarsi maggiormente del solito: finalmente la donna aveva convinto il marito a portarla fuori la domenica pomeriggio. Truccata, profumata e vestita bene, come il marito, si accinse a chiudere la casa. Il marito mise il guinzaglio a Lulù e uscirono tutti e tre. Che bello, avevano portato anche lei! Scodinzolava di gioia la piccola Lulù al pensiero di rivedere il giardinetto, i suoi amici, e poi le piaceva camminare tranquillamente al fianco del suo padrone. Camminando camminando, però, a un certo punto Lulù avvertì una brutta sensazione: qualcosa spingeva dentro di lei.

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Alessia Bruni Guardò i padroni a più riprese, cercando il loro sguardo. A un certo punto, finalmente quello della padrona incrociò il suo. Evidentemente, anche se di specie diversa, tra appartenenti allo stesso genere ci si capiva sempre meglio. «Caro, mi sa che Lulù ha da fare la cacchina. Hai portato il necessario?» «Pensavo lo avessi tu nella tua borsa». «Ma no, caro, io ho la borsa della domenica, non ci sta qui dentro. Prendevi tu Lulù e tutto il resto». «Ma cosa cavolo ci metti in quella borsa? Possibile che non ci sta un piccolo attrezzo?! Sempre tutto io devo fa’ per ‘sto cane!» «Cosa, scusa? Ti devo ricordare che la pappa la compro sempre io? Mi carico ogni settimana di borse, borsoni e borsette come un mulo e questo è il ringraziamento?!?» «Cara, andiamo... ci guardano tutti...» «E CHE CI GUARDINO!! Non hanno mai visto litigare una coppia? Loro non litigano mai? Noi dobbiamo parlare...» Eccole qui. Le due parole più temute dall’intero genere maschile umano. La mia padrona è buona e dolce, si dà un sacco da fare ma

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quando suo marito la fa arrabbiare... è la fine. Lei aveva capito che cosa mi stava succedendo: dovevo trovare un posto tranquillo dove poter fermarmi... Qui no, qui no... Ecco! Qui hanno già fatto in precedenza, è proprio il posto giusto! Ora mi posiziono... Non tirare, padrone, aspetta un attimo! «No, Lulù, non qui! Aspetta che arriviamo a casa, la farai sul balcone, nel tuo posticino!! Per favore!!!» No, padrone. Non posso, devo lasciarla qui. È questo il momento. «Non tirarla, adesso. Faremo finta di niente, in fondo nessuno ci vede». Oh, grazie, mamma. Ecco, è qui. Ecco uscito il primo ospite indesiderato. Ce n’è ancora. Un altro... eccolo lì, bello, lungo e scuro. Sto bene, ora. E così, eccomi qui. Su questa strada, effettivamente, quando sono arrivata non c’era nessuno. Ma ora c’è un sacco di gente. È lunedì, tutti vanno al lavoro, sono di fretta. E io ho paura. Paura di finire sotto le suole di qualcuno. Paura che qualche bocca mi assaggi e mi divori. E che ripeta in eterno il viaggio che ho fatto prima di arrivare fino a qui. C’è musica, la gente


Alessia Bruni porta con sé buste con firme diverse. Sento tanti odori diversi, tanti suoni che si mescolano insieme... Stanotte invece c’era solo silenzio e sentivo un po’ freddo... Era buio, invece ora ci sono mille luci, insieme alle persone. Le scarpe di tutti mi scansano, alcuni in modo autonomo, altri invece vengono spostati da chi hanno accanto, magari ridendo... Eppure io non dovrei stare lì: oltre al fatto che esistono delle figure professionali che dovrebbero occuparsi di tenere pulite le strade, ogni cittadino che decide di arricchire la famiglia con un animale a quattro zampe deve portare con sé paletta e sacchetto per evitare sgradevoli incontri tra me e sconosciute suole di scarpa. Comunque, sono lì, non posso muovermi, e tremo al solo pensiero che qualcuno mi faccia del male. Eccola lì. La scarpa incriminata. È marrone, come me. È la scarpa di un uomo. Grande, pesante. Mi prende in pieno. Una parte di me si attacca alla suola. Una parte molto grande, resta sul pavimento solo una piccola traccia. Il proprietario della scarpa non si accorge di me per un po’ di tempo. Quando entra in un

locale, però, guardando per terra, mi vede e comincia a rivolgermi delle parole poco carine. Prova in tutti i modi a liberarsi di me sfregando con la scarpa per terra. Una, due e tre volte... Vuole a tutti i costi liberarsi di me, ma io ho paura, voglio restare attaccata alla scarpa. Alla fine si siede, toglie la scarpa dove sono attaccata e pulisce la suola definitivamente. Mi butta dentro un buco bianco con dentro l’acqua. E lì, finalmente, comincia il nuovo viaggio. Il viaggio che tutte le cacche meritano di fare.

«Ogni civiltà ha la spazzatura che si merita». Georges Duhamel, Querelles de famille, 1932

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La Jeep nera,

Una manciata di terra rossa e quei pantaloncini troppo corti di Chiara Baldin

20 ÂŤMontagna e montagna non si incontreranno mai, ma uomo e uomo un giorno si incontrerannoÂť. Antico proverbio angolano

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S

ono troppo corti. Insomma, mettono in mostra le gambe in toto e anche i peletti sulle ginocchia non depilate. Questo il pensiero costante nella prima giornata attraverso le strade afose e bollenti di Luanda, capitale dell’Angola (Africa centro-occidentale). In un Paese dove nessuna garanzia è assicurata alla gente, neanche la sopravvivenza fino al giorno successivo, io mi sto preoccupando delle mie gambe nude. Col caldo che fa, soprattutto! Sono rinchiusa in una scatola enorme e alta, chiamata Jeep. Io la chiamo moscapreta. Non vi ero mai salita prima. Una fessura mi sparaflasha aria condizionata: dentro l’astronave ci sono 19 gradi e io sto congelando. Fuori, il mondo… un mondo incandescente, colmo di toni vivi addosso a tante sfumature color cioccolato. In alto un cielo azzurro vivido, in basso la terra rossa e accesa. Il motorista, Francisco, ha negli occhi scuri e profondi tutta l’Africa. Li vedo dallo specchietto retrovisore e sembrano quelli di una gazzella sempre all’erta, pronta a scappare e fuggire al transito impazzito di Luanda.

Chiara Baldin Il mio sguardo passa attraverso i vetri sfumati e arriva a una serie di volti. Li scruto. Di tutte le età. Quanti bambini in strada! Mai visti così tanti e tutti insieme. Quei volti raccontano la stanchezza di un altro giorno cominciato all’alba, carico di merci sulla testa, tra le mani e dietro la schiena. Parlano di fame, rabbia, precarietà e diffidenza. Sentimenti maturati con i trent’anni di guerra civile, da poco conclusa. Un male finito col tempo, ma ancora vivo nella memoria e nelle coscienze. Scatto immagini con gli occhi, in silenzio, e proseguiamo. Il transito di Luanda non ha regole. Anzi, una ce l’ha: vince il più forte. E se non imbrogli, sei un burro (stupido, asino). Samba, il tratto che costeggia l’oceano, è un autentico paradosso. L’ho ribattezzato “la frana di rifiuti”: da un lato è disegnata una collina di spazzatura, in cima alla quale si erge una baraccopoli. Su montagne di immondizia putrefatta si rincorrono decine di bambini. A pochi metri, la collina è ingabbiata da reti di contenimento oltre le quali si intravede un’enorme villa e un giardino lussureggiante. Molto verde e senza bambini che corrono.

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Chiara Baldin

Giù dalla collina, lungo tutto il tratto di strada che costeggia “la frana di rifiuti” si vedono imponenti cartelloni volti a pubblicizzare una campagna di sensibilizzazione contro il lixo. Caratteri cubitali e colorati che invitano a non gettare la spazzatura per terra, spiegano come fare la raccolta differenziata, dove gettarla, e tanto altro. Pausa di riflessione. Altro giro, altra corsa. La Ilha di Luanda è una lingua di sabbia, baracche e, per chi se lo può permettere, vita notturna. Alle nove di mattina sto già immergendo i piedi nella polvere gialla. Ricardo mi

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avverte: «Guarda sempre dove cammini». E io, che questa frase la conosco da quando sono piccola, ‘ovviamente’ cammino senza guardare cosa calpesto. Mi giro e… una valle di lattine Cuca (la birra angolana) e bottiglie di vetro sulla sabbia mi sta fissando. Sbotto e guardo il mare. L’acqua sembra pulita e calda, da lontano. Da molto lontano. Intingo i piedi e incontro sacchi di plastica, resti di qualunque materiale, pezzi di vetro che galleggiano. Le onde sono violente. I bambini numerosi in quelle spiagge. Basta un’onda a sbattere con forza sulla testa di un bimbo e il vetro ci si conficca dentro.


Lascia ferite e cicatrici. Tuttavia lì, a quanto pare, sembra che le persone convivano senza accorgersi di essere sommerse da spazzatura. C’è chi prova a raccogliere il lixo dalle strade e dalle spiagge, alle sette e trenta di mattina. Alle dieci la situazione è peggiorata e si calpesta di tutto. E i quattromilionidichilogrammi di lixo prodotti quotidianamente dagli angolani dove vanno a finire? Bruciati. E qualcuno è consapevole della quantità di inquinamento che questi chilogrammi provocano? E la sensibilizzazione in radio e in tv qual-

cuno la ascolta? Ma perché dappertutto scrivono, pubblicizzano e gli angolani non migliorano la situazione? Forse c’è qualcosa che manca in questa sensibilizzazione? Qualcosa che ancora non sanno e che nessuno ha mai spiegato loro? Sono venuti a colonizzarli, hanno voluto ‘civilizzarli’ e hanno dimenticato di parlare, spiegare e ascoltarli? Sono alcune delle domande che mi pongo il primo giorno a Luanda. E mi dimentico completamente dei pantaloncini vertiginosi che svestono le mie gambe. Pallide.

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Bimestrale di autoproduzione anno VI _ numero XXIII _ gennaio / febbraio 2013 Comitato di Redazione: Diana Osti, Chiara Baldin, Iuri Moscardi e Clara Ramazzotti. Le immagini nella rivista appartengono a: Copertina: Mattia Provezza pag. 5/7/8: Fabio Bertolini pag. 11/16: Andrea Checcucci pag. 14/15: Beatrice Orlandini pag. 20/22/23: Chiara Baldin Impaginazione e grafiche: Johnny Regazzoli

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