Roma, 18.03 — 05.05.2019
Ragione e Sentimento
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Domenico Morelli, Studio di figura, dettaglio, 1874 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Antonio Allegretti, Giacomo Balla, Emanuele Becheri, Vanessa Beecroft, Émile-Antoine Bourdelle, Vincenzo Camuccini, Niccolò Cannicci, Natale Carta, Adalberto Cencetti, Guglielmo Ciardi, Antonio Ciseri, Tranquillo Cremona, Lorenzo Delleani, Marianna Dionigi, Giovanni Dupré, Francesco Fabj-Altini, Giacomo Favretto, Pietro Galli, Giacomo Grosso, Frederic Leighton, Étienne-Jules Marey, Georges Demenÿ, Girolamo Masini, Paolo Meoni, Domenico Morelli, Giovanni Muzzioli, Filiberto Petiti, Alessandro Piangiamore, Francesco Podesti, Barbara Probst, Medardo Rosso, Cesare Tallone, Scipione Vannutelli, Antonietta Raphaël Mafai, Vincenzo Vela
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foto © Inga Knölke
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Questa mostra non mette in campo una dicotomia e un potenziale conflitto ma evoca una complessità che si compone anche nelle lacune del percorso di opere che attraversano il tempo della Collezione della Galleria, intrecciando storie singolari, corali e speculari. Mette in campo un racconto per omissioni e per fugaci rimandi, del secolo lungo della modernità, guardato come un incendio visto da lontano, le cui braci sono ancora vive e capaci di scintillare. Il “senso e la sensibilità” affondano le loro radici in un’origine comune allontanando qualsiasi
semplificazione, ma legando per sempre la capacità di discernere a quella di sentire, come se fosse impossibile pensare il mondo l’uno senza l’altro. E così è di fatto. Come la sintesi di un romanzo, la mostra si concentra in un gioco strategico di linguaggio espresso e di silenzio, strumenti sovversivi che intendono presentare in absentia tutto quello che non può essere raccontato. Chi guarda deve leggere fra le righe e ricordare ciò che sa, desiderare di sapere ma anche risvegliare un importante immaginario che attraversa storia, letteratura e arte. Un equilibrio strategico
Cristiana Collu Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Domenico Morelli Studio di figura 1874 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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che a partire dal romanzo citato nel titolo mette in campo una sceneggiatura contemporanea usando il discorso indiretto libero, così peculiare della scrittura di Jane Austen, una donna del diciottesimo secolo che ha usato la parola femminile come un’arma più potente della tradizionale artiglieria maschile per vincere sul tempo. Un tempo out of joint che dice che nulla è mai (veramente) finito, e che come futuro di quel passato ci fa scoprire cosa c’è dopo la parola fine e come passato del nostro futuro continua a porci la stessa domanda.
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Natale Carta Bacco e Arianna 1840 ca. © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Francesco Podesti Il trionfo di Venere (L’incontro di Venere e Anfitrite) 1854 ca. © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Marianna Dionigi L’Aniene presso Tivoli 1798 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Marianna Dionigi Paesaggio 1798 ca. © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Guglielmo Ciardi Messidoro 1883 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Uno sguardo all’indietro Franco Rella
«Il faut être absolument moderne», così scriveva Arthur Rimbaud nel 1871, affermando che per questo è necessario «un lungo e ragionato sregolamento di tutti i sensi». Rimbaud partiva dunque dalla sua modernità per profetizzare la nostra modernità, in quanto un’affermazione così perentoria prescinde da un tempo e da una durata. È una affermazione che si coniuga come un aoristo. Da dove partiva Rimbaud? Ricordiamo che Charles Baudelaire concludeva la sua analisi dell’arte esposta al Salon 1846 esaltando «L’eroismo della vita moderna», i suoi personaggi portatori di una bellezza «nuova e particolare», che girano con i vestiti di tutti i giorni, e anche il nudo da sempre dominante nella pittura si dà ora sulla scena della vita quotidiana. «Questa è la bellezza moderna». Qui e nel Pittore della vita moderna del 1861 Baudelaire elabora il concetto di moderno, ripreso come abbiamo visto da Rimbaud, non come una categoria di classificazione storica, ma come una modalità di analisi, una vera e propria ermeneutica del presente. Già il romanticismo aveva messo sulla scena artistica individui, soggetti, portatori di una propria sensibilità, di un proprio sentimento, che apriva un nuovo
accesso alla natura e al mondo. È una rivoluzione. Infatti Georg Friedrich Hegel reagisce aprendo nella Fenomenologia dello spirito una vera e propria battaglia contro «l’incomposto fermentare» della soggettività romantica. Il singolo soggetto non ha alcuna pertinenza conoscitiva, che spetta soltanto a ciò che può essere ricondotto all’interno del concetto, dentro l’astrazione delle sue maglie. Ma intanto nell’arte figurativa abitavano donne, uomini, cose. Non si rompe soltanto ogni rapporto con l’Accademia, ma si giunge a denunciare il “patto mimetico”, che ha retto da Platone in poi ogni teoria e pratica artistica. Michel Foucault analizza in questo senso il quadro di René Magritte Trahison des images, che rappresenta una pipa con la legenda: «Ceci n'est pas une pipe». Il quadro di Magritte è del 1928-29, ma la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, che “non sono fiori” è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento. George Steiner data questa “rivoluzione”, che secondo lui definisce il moderno in quanto tale, agli anni Settanta del XIX secolo. Sono gli anni in cui esplode la filosofia di Nietzsche, che rovescia il tavolo della filosofia, affermando che accanto
Filiberto Petiti Un torrente 1890 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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alla ragione ragionante c’è la ragione del corpo. L’io, come avevano già intuito i romantici, è complesso: è un ich e un es contemporaneamente, un “io” e un “esso”, come dirà in modo definitivo Sigmund Freud. Il più grande critico del XX secolo, Walter Benjamin, ha abitato a lungo nell’Ottocento. Pensava che soltanto stabilendo un rapporto tra il nostro presente e il passato si sarebbe aperta una chance per salvare il “tempo perduto”. Questo ci avrebbe messo nella condizione di tendere verso un nostro futuro. Questo è anche un compito: «A noi, come a ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto». Non è facile attivare questa debole forza messianica, compiere questo atto di liberazione, come scrive Benjamin nelle tesi Sul concetto di storia. Certo non è possibile se scriviamo la storia in una omogenea teoria del prima e del dopo. Bisogna «passare a contrappelo la storia» per scoprire e far interagire con il presente in cui siamo, in cui stiamo, tutti i presenti passati. Friedrich Schlegel, un romantico, aveva detto che il vero storico è «un profeta che guarda all’indietro»: guarda all’indietro per dire il futuro.
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Adalberto Cencetti Ignara mali 1893
foto © Inga Knölke
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Giacomo Balla La fila per l’agnello 1942 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Barbara Probst Exposure #104: N.Y.C., Vanderbilt & Lafayette Avenues, 01,13,13, 9:50 a.m. 2013 2013 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Giacomo Favretto El Liston 1884 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Pietro Galli Apollo 1838
Paolo Meoni Nature morte 2017
Vincenzo Camuccini La morte di Cesare 1804 – 1805
Courtesy l’artista e Galleria Die Mauer, Prato
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Deposito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica
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Dilemma di una dicotomia Massimo Mininni
Ragione e sentimento è un romanzo moderno per la sua capacità di presentare il conflitto tra due diverse condizioni psicologiche: la Ragione, rappresentata dalla maggiore delle sorelle Dashwood, Elinor, e il Sentimento, incarnato da Marianne, la seconda. Jane Austen riesce ad analizzare e descrivere con insolita acutezza il dissidio tra queste opposte istanze e attitudini caratteriali, raccontando una realtà in cui l’individuo è sottoposto alle regole dettate da convenzioni sociali. L’attualità del romanzo era stata già riconosciuta da Virginia Woolf, che vedeva nell’autrice «la più perfetta artista tra le donne, la scrittrice i cui libri sono tutti immortali» (nell’articolo Jane Austen, pubblicato su «The Common Reader», First Series, 1923). Come espressioni specificamente afferenti alla sfera della mente o all’anima dell’uomo, la ragione e il sentimento sono facoltà esercitate contestualmente dall’artista nel corso del proprio agire.Queste hanno attraversato, anche se con modalità diverse, tutta l’arte dell’Ottocento e del Novecento, segnando rotture e riprese, prevalendo alcune volte la prima sulla seconda, o viceversa, ma mai l’una ha azzerato l’altra.
Il dipingere, il fotografare, lo scolpire, mettono in atto la ragione e il sentimento come due aspetti indissolubili: l’artista prova delle emozioni, ma le controlla, non se ne lascia travolgere, risponde invece in modo consapevole, ovvero le gestisce, utilizzandole per orientare il proprio operare al servizio dell’arte, della propria crescita emotiva e intellettiva. È appunto intorno a queste due caratteristiche dell’essere umano che si articola il confronto tra le varie opere esposte nella mostra, nella quale sono messi in relazione artisti appartenenti a epoche diverse e distanti nel pensiero ma accomunati dall’affinità nel sentimento. La fila per l’agnello, realizzato da Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958) durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale (1942), raffigura la coda di persone che si formava davanti ai negozi di generi alimentari di via Montello a Roma per procurarsi del cibo, che in quegli anni scarseggiava. La scena è vista dall’alto delle finestre dell’abitazione dell’artista. Il soggetto riprende i temi sociali che Balla aveva già trattato all’inizio della sua carriera
artistica. La composizione, che rappresenta una strada con i palazzi raffigurati a “volo d’uccello”, ha un taglio fotografico colto e maturo, è senza dubbio uno dei più suggestivi paesaggi urbani da lui realizzati. Il dipinto, di notevole forza espressiva, è impostato sulla grande diagonale della strada e sull’intensa vibrazione cromatica degli edifici. L’immagine nel suo insieme è attraversata da una anticipazione del “neorealismo”, corrente che qualche anno dopo si imporrà in Italia nella letteratura, nel cinema e nell’arte in genere. Già nella scelta della materia prima, la terracotta, Emanuele Becheri (Prato, 1973) ha saputo distinguersi scegliendo un materiale tradizionalmente utilizzato per le fasi intermedie del processo scultoreo – i cosiddetti bozzetti. Per Becheri la terracotta è la materia che meglio ferma il valore estetico e poetico della scultura. Proprio sulla relazione di queste due componenti sono realizzate le sue due opere, Testa e Satiro, 2017.
Emanuele Becheri Testa 2017
Emanuele Becheri Satiro 2017
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La sua particolare predilezione per questa materia si deve proprio alla capacità che la terracotta ha di catturare e riflettere la luce che vi si posa. È un materiale duttile, che riceve l’impronta dell’artista e si piega al suo tocco. È semplice ottenere sbalzi o profondità tali per cui la forma non sembra mai chiudersi completamente in se stessa e, se non guardate con attenzione o da lontano, le sue opere sembrano sculture di pura astrazione.
Le due fotografie di Vanessa Beecroft (Genova, 1969) Susanne e Tine, 1996, indagano l’identità del genere umano. Spingendosi nel profondo dello spirito antropico, l’artista realizza ritratti fortemente caratterizzati. Nel costruire le immagini si ispira di volta in volta alle opere pittoriche dei grandi maestri del passato, ma il risultato finale che la Beecroft elabora è quello di un ritratto molto personale e contemporaneo: una contaminazione di forme e caratteri in cui i rimandi alla pittura o alla scultura “storica” si mescolano sapientemente a nuove idee, imponendoci diversi canoni di bellezza estremamente attuali. «Questi ritratti in polaroid, scattati in modo estemporaneo durante le mie
performance, hanno sempre il pensiero rivolto alla ritrattistica rinascimentale e mentre fotografo penso anche a Vogue e ai fotografi di moda per informare il mio modo di fotografare». I personaggi raffigurati, nella loro staticità, trasmettono un intimismo che rispecchia un tormento esistenziale davanti a cui lo spettatore non può che provare un intenso sentimento.
fortemente con lo scuro, il tratto lineare evidenzia lo sfumato, l’à plat si impone sulla profondità prospettica, la molteplicità del dettaglio sull’unità visiva e così via. Meoni ci costringe dunque a una visione antitetica alle intrinseche espressioni del sentimento, in cui non è privilegiato un punto davvero a fuoco ma una visione allargata.
Nei lavori fotografici realizzati in bianco e nero da Paolo Meoni (Prato, 1967), Nature morte, 2017, scopriamo un “segno” fortemente personale dato da una sensibilità tutta nuova nel restituirci immagini di nature morte. Il vigoroso controluce, i forti primi piani, il dinamismo dell’immagine atemporale sono gli elementi cardine del soggetto espresso in forma di “fotografia pittorica”.
La cera di Roma è una serie costituita da lavori di grandi dimensioni ottenuti da Alessandro Piangiamore (Enna, 1976) fondendo residui di candele recuperati in diverse chiese della Capitale o dalle abitazioni di amici e conoscenti. Mescolando tramite il calore i materiali acquisiti da situazioni e provenienze diverse, le opere assumono una fisionomia e una colorazione del tutto casuali e una geografia formale dai contorni indefiniti. Appoggiate alla parete come una sorta di lapidi profumate e screziate, le opere sono un ibrido tra scultura e pittura in grado di innescare imprevedibili sentimenti e associazioni mentali. «La cera di Roma – dichiara Piangiamore – è un titolo che mira a evocare un’origine del materiale costitutivo delle opere in questione, ovvero residui di candele raccolte nella città nella quale da un po’ di anni vivo. È un titolo
Nel suo lavoro, Paolo Meoni cerca di piegare e superare i limiti che la tecnica fotografica impone, provando a renderla capace di raccontare ed esprimere ciò che l’artista ha in mente, volendo trasmetterci non tanto l’immagine di un soggetto reale quanto piuttosto un’immagine onirica. Le fotografie di Meoni sono soggetti melodrammatici, il chiaro contrasta
Antonio Ciseri Giovinetto nudo esanime 1853
Lorenzo Delleani Imminente luna 1882
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che non intende fornire un significato, piuttosto spero contribuisca a favorire una visione altra, inaspettata […]. Quando ho iniziato a realizzare questo tipo di opere, non avevo contemplato il ruolo che il colore avrebbe esercitato, pensavo solamente a come ridare senso a del materiale fortemente caratterizzato da un punto di vista simbolico. Mi sono subito reso conto che l’aspetto formale più legato alla cromia non era facilmente gestibile all’interno del mio processo. Certamente anche la scelta della loro collocazione nello spazio, molto più vicina a quella classica dell’opera bidimensionale, contribuisce ad accentuarne l’ambiguità, rendendo labile il confine tra pittura e scultura».
ma prese contemporaneamente usando un sincronizzatore di scatto. «Tutte le immagini di una serie presentano diverse vedute dello stesso luogo o un evento nello stesso momento». Mentre la fotografia tradizionale orienta lo spettatore a visualizzare una singola immagine, le sequenze della Probst includono prospettive multiple di un singolo momento. Le sue fotografie portano gli spettatori a sperimentare un cambiamento nel tempo, a valutare la loro presenza nello spazio fisico fotografato. Il suo lavoro non tiene conto della fotografia come “momento decisivo”, fa invece riferimento alla pratica del cinema, che utilizza varie telecamere per creare movimento e spazialità.
Per Barbara Probst (Monaco, 1964) è la fotografia l’arte che unisce percezione, esperienza e ragione.
Lasciamo descrivere alla stessa Antonietta Raphaël (Kovno, Lituania, 1895 – Roma, 1975) la sua scultura Missione segreta, del 1965. «Stamattina ho visitato, con il mio falegname, diversi depositi di legnami per cercare il palissandro (un legno africano) per scolpire un gruppo di due figure. Dopo aver visitato diversi depositi, l’abbiamo trovato finalmente, ma il prezzo è molto alto: 270 mila lire un metro quadro! È un azzardo terribile, ma lo farò. Il bozzetto l’ho modellato nel 1946, a Genova certe volte lo
Per realizzare la serie dei quattro lavori fotografici esposti – Exposure #104: N.Y.C., Vanderbilt & Lafayette Avenues, 01.13.13, 9:50 a.m., 2013 – l’artista impiega ogni volta ben dodici macchine fotografiche, posizionate su cavalletti disposti intorno al medesimo soggetto. In questo modo riesce a fotografare da molteplici punti di vista, scattando immagini separate
Scipione Vannutelli Ritratto di giovinetta 1890
Alessandro Piangiamore Le XXX sorelle (se Roma non brucia) 2016
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vedo in sogno, realizzato in palissandro. Lo chiamo “il segreto”, ma una di queste figure la modificherò». Roma, 5 settembre 1959: «di tanto in tanto osservo Patrizio diminuire il blocco di palissandro, che diventerà il gruppo di Venere e Cupido. Il titolo è convenzionale, ma la scultura spero che sia bella! …». Roma, 14 dicembre 1959: «il gruppo Confidenza, per non chiamarlo Venere e Cupido, è un’altra cosa. Sono molto gelosa di questo gruppo, non vorrei che il bozzatore gli metta le mani. Lo finirò da sola». Roma 19 aprile 1963: «continuo a scolpire il legno Venere e Cupido, temo di voler normalizzare la figura di lei, opulenta e sensuale. Bisogna che mi controlli molto. Meglio lasciarla indefinita, piuttosto che definirla troppo» (da Antonietta Raphaël. Catalogo generale della scultura, a cura di G. Appella, Allemandi, Torino 2016, p. 93). Un’opera dal modellato tormentato, in cui l’artista rivela un carattere singolare, una forza e una potenza espressiva che svelano una straordinaria tensione, caratteristica delle sue ultime sculture.
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Medardo Rosso Bambino alle cucine economiche 1892 – 1893 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Marianna Dionigi L’Aniene presso Tivoli 1798
foto © Inga Knölke
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Vanessa Beecroft Susanne 1996
Vanessa Beecroft Tine 1996
Marianna Dionigi Paesaggio 1798 ca.
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Guglielmo Ciardi Messidoro 1883 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Antonietta Raphaël Mafai Missione segreta 1965 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Ragione e Sentimento. Un percorso attraverso le collezioni del XIX secolo della Galleria Nazionale Chiara Stefani
Cesare Tallone Ritratto della figlia Irene 1897
Vincenzo Vela Le vittime del lavoro 1896
© Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Per quanto il suo primo direttore, Francesco Jacovacci, auspicasse che la Galleria Nazionale dovesse possedere «tutte le opere d’ogni artista o per lo meno le principali di ciascun di essi», per offrire anche a fini didattici una panoramica della storia dell’arte, la formazione delle collezioni non ha potuto perseguire esattamente questo obiettivo. Costituitasi inizialmente sulla base degli acquisti dello Stato all’Esposizione Nazionale del 1883 prima, e quindi grazie a quelli derivanti dall’Esposizione Universale del 1911, nonché da successivi lasciti e donazioni, per quanto riguarda l’Ottocento la collezione della Galleria Nazionale presenta un maggior numero di opere relative alla seconda metà del secolo, piuttosto che alla prima. A tale lacuna cercò già di supplire il Regio Decreto del 7 marzo 1912, il cui primo articolo recitava: «La Galleria nazionale di arte moderna, istituita in Roma, raccoglierà opere in pittura, scultura, disegno e incisione, senza distinzione di genere e di maniera, degli artisti fioriti dal principio del secolo decimonono in avanti e di quelli viventi». In effetti, dal primo ordinamento nella sede di valle Giulia, conosciuto attraverso la guida di Piero Piroli (1917), si evince una certa disomogeneità all’interno degli accostamenti relativi alle varie scuole regionali e spesso la prossimità di artisti italiani e stranieri. Ma il confronto con le espressioni artistiche d’Oltralpe sarebbe diventato un punto critico dolente nell’apprezzamento dell’arte dell’Ottocento, rispetto al quale già la Storia dell’arte contemporanea italiana di Luigi Callari (1909) aveva segnalato la necessità di rivendicare l’importanza dell’arte nazionale, ben prima che Emilio Cecchi nella Pittura italiana dell’Ottocento (1926), seguito poi da Enrico Somaré nella Storia dei pittori italiani dell’Ottocento (1928), spostasse l’attenzione sulle scuole regionali, valorizzandone le capacità di recupero del Rinascimento e dell’arte dei primitivi. Nel frattempo, la critica letteraria rifiutava il complesso immaginario ottocentesco. Se Filippo Marinetti si opponeva a tutto quello che era per lui il bric-à-brac romantico, lo stesso anno Aldo Palazzeschi, ne Il controdolore (1913), manifestava in questi termini la sua dichiarazione di poetica: «Si è fino alla nausea fatto del vieto romanticismo sopra le sventure umane; le deformità del corpo, le malattie, le passioni, la miseria, la vecchiaia, i cataclismi, le carestie, furono ritenute sciagure tutte da bagnare di pianto. Se esse fossero state un tantino approfondite, noi le avremmo già come le fonti più vive della nostra allegrezza. Nulla fu creato con malinconia, ricordatelo bene; nulla è triste profondamente, tutto è gioioso».
Sono gli anni in cui il giovane Roberto Longhi scrive la Breve ma veridica storia della pittura italiana destinata agli studenti dei licei Tasso e Visconti: un excursus che dai mosaicisti romani terminava significativamente con la pittura caravaggesca. Più tardi, all’interno del saggio Carlo Carrà (1937), egli avrebbe tracciato dell’arte del XIX secolo italiano un’immagine dura a morire: «Quella loro minutezza mentale, quello spicinìo di aneddoti fuciniani, quelle maniere da erboristi innamorati, da garibaldini in congedo illimitato, da allevatori di piantine nane, da guardiani di ciuchini in pelliccia (e non, come Giotto, di pecore tosate) rifrangono, è vero, l’Ottocento, ma all’infinito della noja, come dentro una specchiera in frantumi…». Integrate nel percorso di Time is Out of Joint, e presentate nel Salone Centrale, le opere selezionate riflettono l’entità e la fisionomia composita delle collezioni della Galleria Nazionale il cui allestimento, fino alla fine del secolo scorso, era suddiviso tra Otto e Novecento. Ma una così rigida distinzione ha ancora una sua ragione d’essere? Accostando dipinti e sculture diversamente proposti nelle precedenti occasioni, dimenticando un modello evoluzionistico dei fenomeni storicoartistici e una distinzione per scuole regionali o movimenti, la mostra intende suggerire, senza pretese di esaustività, l’immagine di un secolo – l’Ottocento – lontano dalle generalizzazioni spesso omologanti di tanta storiografia novecentesca. Le anticipazioni, i ritardi, le battute d’arresto, gli scarti improvvisi sollecitano, con la forza della loro eloquenza, più di una riflessione. All’estremità di una parete che accomuna le pennellate pre-simboliste di una potente veduta notturna sul Po di Lorenzo Delleani (Imminente luna, 1882), i riflessi cangianti e grigio-violacei del sontuoso abito in seta del Ritratto di giovinetta (1890) di Scipione Vannutelli, e l’opacità delle cere votive disciolte da Alessandro Piangiamore [Le XXX sorelle (se Roma non brucia), 2016], il Ritratto della figlia Irene di Cesare Tallone (1897) si impone con la sua magniloquenza, contraddetta dallo sguardo incerto della bambina. Colta di sotto in su, davanti a un fondale di legno dorato intagliato e carta da parati – già in uso per altri ritratti, fra i quali quello della Regina Margherita (Torino, Palazzo Chiablese; 1890) che diede notorietà all’artista –, la piccola Irene fasciata nell’abito della prima comunione sembra presagire il breve futuro che la attende. Ma allo sguardo dello spettatore si impone mentalmente un’immagine di oltre trent’anni prima: quella della bella Joanna Hiffernan, modella di James Abbott McNeill Whistler, ritratta nel suo celebre Sinfonia in bianco, ritratto n. 1 (Washington, National
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Gallery of Art, 1862). Accanto al Bambino alle cucine economiche (1892-1893) di Medardo Rosso, che con la piccola Irene condivide un’insicurezza dovuta a ben altra condizione sociale, i due volti dei macro ritratti fotografici Susanne e Tine (1996) di Vanessa Beecroft, nella loro attonita fissità sembrano ricordare la paura suscitata nel XIX secolo dalle lunghe pose davanti alla camera oscura. Guardandoli, ci si ricorda delle penetranti annotazioni che l’anziano Roland Barthes avrebbe scritto, nel 1979, sulla fotografia: «Posando davanti all’obbiettivo (cioè: sapendo di posare, anche solo fugacemente), non rischio poi tanto (almeno per il momento). È evidente che la mia esistenza mi è data dal fotografo solo metaforicamente. Ma questa dipendenza ha un bell’essere immaginaria (essa è anzi Immaginario puro): io la vivo nell’angoscia di una filiazione incerta: un’immagine – la mia immagine – sta per nascere: come sarò? avrò l’aspetto d’un individuo antipatico o quello d’un “tipo in gamba”? Ah, se solo potessi “riuscire” sulla carta come sulla tela d’un quadro classico, con un’espressione nobile, un’aria pensosa, intelligente, ecc.! Insomma, se solo potessi essere “dipinto” (da Tiziano) e “disegnato” (da Clouet)!». Prima dello strumento fotografico – e quasi suo antecedente – era esistita la camera lucida, spesso utilizzata dai paesaggisti per fissare su carta da ricalco (carta lucida) gli scenari naturali destinati ad essere successivamente trasposti su tela. Nei due dipinti esposti (L’Aniene presso Tivoli e Paesaggio, 1798 ca.) la pittrice romana Marianna Dionigi riflette quanto determinante fosse in Italia il peso del retaggio della cultura pittorica francese, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in materia di paesaggio. Certo, Roma non poteva prescindere dal passaggio nell’Urbe di due maestri seicenteschi – Claude Gellée, detto Le Lorrain, e Nicolas Poussin – oltre che dalla presenza delle opere del genero di quest’ultimo, Gaspard Dughet detto Il Pussino. È nel corso dell’Ottocento che la ricezione e la fortuna del paesaggio classico seicentesco, grazie al veicolo della tecnica incisoria, raggiungono senza alcun dubbio il loro apice e la memoria dei cieli dorati di Claude, soffusi da calde tonalità rosa-aranciate, impronta la visione anche dei pittori stranieri in Italia. Basti pensare a Joseph Mallord William Turner che nel proprio testamento pretese che alcuni dei propri dipinti fossero esposti a fianco di paesaggi del Lorrain, alla National Gallery di Londra. Se la Dionigi si inserisce, mutatis mutandis, all’interno di questa tradizione pittorica, la sua opera Precetti Elementari sulla Pittura de’ Paesi (Roma, 1816) è il tardivo prodotto della conoscenza della normativa accademica francese in materia di paesaggio e, in particolare, del testo datato 1800 di Pierre-Henri de Valenciennes: Élements de Perspective
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Pratique à l’usage des artistes, Suivis De Réflexions et Conseils à un Elève sur la Peinture et particulièrement sur le genre du Paysage. Rispetto a tali precedenti, per capire quale salto di visione si operasse in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, sarà necessario valutare opere quali Messidoro (1883) di Guglielmo Ciardi, il cui sguardo sulla campagna trevigiana – non più in posizione frontale, come nei dipinti di Marianna Dionigi, ma da un punto di osservazione rialzato come quello della finestra della propria abitazione presso Quinto sul Sile – dilata la scatola prospettica rinascimentale verso gli orizzonti ormai accessibili al nuovo medium fotografico. Anche Niccolò Cannicci – abbandonato il più consueto repertorio di motivi legati alla vita agreste e schiarita la sua tavolozza – percorrendo la marina di Cecina nell’ora meridiana sembra cogliere un’istantanea, nella sintesi di Estate (1896): lo indica il taglio della visuale e le figure di bambini che escono dai margini della composizione. Il riverbero della luce solare e lo specchiarsi delle figure nell’acqua sono tradotti in pennellate rapide e frante, tali
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da lasciar percepire la tela sottostante, preparata con un color sabbia. Sorge spontaneo il rimando alla pittura di Joaquín Sorolla y Bastida, che nello stesso 1896 esponeva alla Festa dell’Arte e dei Fiori di Firenze e che di lì a poco avrebbe dipinto Triste herencia (Valencia, Bancaja; 1899): un bozzetto di collezione privata per questa sua ultima tela presenta tre figure di bambini che giocano in acqua, molto simili a quelle di Cannicci. Già la cultura illuminista aveva sostenuto l’efficacia dei bagni di mare per la salute, e se l’industrializzazione consentì alla borghesia di raggiungere più agevolmente, grazie al treno, alcune mete balneari o termali (tra le prime Brighton e Bath in Gran Bretagna, poi Deauville in Francia e Viareggio), anche la villeggiatura in montagna cominciò a conoscere – nel corso dell’Ottocento – una crescente fortuna all’interno di una fascia più elitaria di viaggiatori. Quando nel 1889 Giacomo Grosso dipinge Carola Reduzzi, moglie dello scultore omonimo, su un fondale dipinto di montagna, probabilmente sistemato in quello che era «senza dubbio il più elegante e confortevole degli studi di Torino», come
Giovanni Muzzioli Al tempio di Bacco 1881 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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scriveva Enrico Thovez su La Stampa nel 1904, il fascino sublime delle vette aveva perso ormai buona parte del suo potere di attrazione. Lo dimostra ugualmente Filiberto Petiti, anch’egli piemontese, che si trasferì a Roma nel 1875 e aderì al sodalizio de I XXV della Campagna Romana. Quando infatti egli dipinge Un torrente (1890), il ricordo delle alture conosciute da giovane sfuma in lontananza e il soggetto del dipinto diventa un qualsiasi corso d’acqua che non incute più alcun terrore, semplicemente scrutato nelle diverse tonalità dei suoi ciottoli. Se già nel corso del Settecento la natura diventa l’alternativa in cui rifugiarsi per la borghesia inurbata – quella de Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni (1761) –, la città come luogo di eccessiva concentrazione della folla e anche, paradossalmente, quale esperienza di estrema solitudine – si pensi al dipinto omonimo di Mario Sironi (1925-26), esposto in un’altra sala della Galleria – resta un tema di riflessione ancora attuale. Giacomo Balla, tornato alla figurazione dopo la parentesi futurista, coglie dall’alto della sua abitazione romana l’angolo di incrocio
Ragione e Sentimento
Antonio Allegretti Eva dopo il peccato 1881
foto © Inga Knölke
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Frederic Leighton Atleta che lotta con un pitone 1877 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Giacomo Grosso Signora in aperta campagna 1889
Tranquillo Cremona Fanciulla malata 1877
Paolo Meoni Nature morte 2017
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Courtesy l’artista e Galleria Die Mauer, Prato
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tra via Oslavia e via Montello, in un istante di pioggia in La fila per l’agnello (1942), in modo simile a quanto già aveva fatto Gustave Caillebotte, nell’inquadratura di Boulevard Haussmann, effet de neige (Museé du château de Flers, 1879-81). Anche Giacomo Favretto isola, ne El Liston (1884), un segmento urbano: quello della Piazza di Venezia antistante la loggetta del Sansovino, frequentata da figure in abito settecentesco per fare da pendant a una tela coeva, rimasta sul cavalletto dello studio del pittore alla sua morte (El Liston moderno): una scena di passeggio cittadino in abiti moderni. Ma la figura di bambino al centro del dipinto, in un costume celeste di tono tiepolesco, sembra dialogare intimamente con la quotidianità del pittore: si volge verso lo spettatore, astratto dal commercio mondano degli adulti, e sembra preannunciare, nel volto quasi sfuocato, quella dolorosa malattia agli occhi che di lì a poco porterà l’artista alla morte. È il medesimo effetto di immagine sgranata quello che persegue Tranquillo Cremona nella sua Fanciulla malata (1877): un volto esanime che emerge da un fondo indistinto trattato con pochi
colori a olio, simulando la pastosità del gessetto su carta. Attraverso il ritratto della nipote del collezionista milanese Giovanni Torelli, morta nello stesso anno, Cremona indagava il tema della malattia, che al pari dell’alcool e della droga, accomunava una fascia giovanile ai margini del progresso preindustriale, descritta da Cletto Arrighi nell’introduzione al romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862). Erano ormai lontani i tempi in cui l’artista si trovava pienamente inserito in un sicuro contesto accademico, al quale alludono in mostra i dipinti di Vincenzo Camuccini (La morte di Cesare, 18041805), Natale Carta (Bacco e Arianna, 1840 ca.) e Francesco Podesti (Il trionfo di Venere, 1854 ca.), tutti frutto di importanti commissioni. Nell’austero impianto spaziale de La morte di Cesare, il dipinto che precede la tela dello stesso soggetto di maggiori dimensioni conservata al Museo di Capodimonte, le braccia alzate dei senatori scandiscono un concitato teatro delle passioni che risponde in modo diverso alla sinteticità del modello davidiano (Le Serment des Horaces, Museo del Louvre), esposto a Roma nello studio dell’artista,
Niccolò Cannicci Estate 1896 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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prima che al Salon parigino del 1785: opera sulla quale dimostra di aver riflettuto, molti anni dopo, anche Giovanni Dupré nella Saffo (1857-61). Una decina di anni circa separano Il trionfo di Venere (1854 ca.) di Francesco Podesti dalla stessa raffigurazione della dea, nata dalle spume del mare, dipinta da Alexandre Cabanel, esposta al Salon di Parigi del 1863 ed entrata nella collezione di Napoleone III (ora al Museo d’Orsay). Al suo confronto la coeva Olympia di Édouard Manet, pur essendo un dipinto che rimedita anch’esso opere precedenti, può forse apparire più moderna. Ma probabilmente è giunto il momento di valutare le opere che solo superficialmente possono apparire anticipatrici o ritardatarie all’interno di un contesto globale più ampio, del quale spesso ci sfuggono ancora troppi tasselli.
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foto © Inga Knölke
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Opere in mostra Antonio Allegretti Eva dopo il peccato 1881
Vanessa Beecroft Susanne 1996
Niccolò Cannicci Estate 1896
Antonio Ciseri Giovinetto nudo esanime 1853
Lorenzo Delleani Imminente luna 1882
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Giacomo Balla La fila per l’agnello 1942
Vanessa Beecroft Tine 1996
Natale Carta Bacco e Arianna 1840 ca.
Tranquillo Cremona Fanciulla malata 1877
Marianna Dionigi L’Aniene presso Tivoli 1798
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Emanuele Becheri Testa 2017
Émile-Antoine Bourdelle Ercole Saettante 1909
Adalberto Cencetti Ignara mali 1893
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Emanuele Becheri Satiro 2017
Vincenzo Camuccini La morte di Cesare 1804 – 1805
Guglielmo Ciardi Messidoro 1883
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Marianna Dionigi Paesaggio 1798 ca.
Giacomo Grosso Signora in aperta campagna 1889
Paolo Meoni Nature morte 2017
Scipione Vannutelli Ritratto di giovinetta 1890
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Courtesy l’artista e Galleria Die Mauer, Prato
Francesco Podesti Il trionfo di Venere (L’incontro di Venere e Anfitrite) 1854 ca.
Giovanni Dupré Saffo 1857 – 1861
Frederic Leighton Atleta che lotta con un pitone 1877
Domenico Morelli Studio di figura 1874
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Francesco Fabj-Altini Susanna 1894 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Giacomo Favretto El Liston 1884 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Pietro Galli Apollo 1838 Deposito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica
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Étienne-Jules Marey e Georges Demenÿ Un saut à la perche 1892 – 1893 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Girolamo Masini Fabiola 1868 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Giovanni Muzzioli Al tempio di Bacco 1881 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Barbara Probst Exposure #104: N.Y.C., Vanderbilt & Lafayette Avenues, 01,13,13, 9:50 a.m. 2013 2013 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Filiberto Petiti Un torrente 1890
Medardo Rosso Bambino alle cucine economiche 1892 – 1893
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Alessandro Piangiamore Le XXX sorelle (se Roma non brucia) 2016
Cesare Tallone Ritratto della figlia Irene 1897
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Antonietta Raphaël Mafai Missione segreta 1965 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Vincenzo Vela Le vittime del lavoro 1896 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Ragione e Sentimento
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea — Roma
Consiglio di Amministrazione Cristiana Collu Presidente Maria Pia Ammirati Marco D’Alberti Elena Di Giovanni Edith Gabrielli Comitato scientifico Fabio Benzi Francesco Dobrovich Flavio Fergonzi Stefania Zuliani
Ragione e Sentimento 18 marzo — 5 maggio 2019
Direttrice Cristiana Collu Segreteria di direzione Paola Castrignanò Collegio tecnico scientifico Rita Camerlingo Marcella Cossu Emanuela Garrone Massimo Licoccia Alessandro Maria Liguori Valeria Lupo Massimo Mininni Chiara Stefani
Collegio dei revisori dei conti Nunzia Vecchione Presidente
Direzione personale Mario Schiano Lomoriello Vittoria Gamboni Patrizia Maddalena
Maurizio Ferri Arturo Siniscalchi
Ufficio amministrativo Rossella Cicchetti Luca Di Donato Alessandro Sestini Ufficio mostre Giovanna Coltelli Keila Linguanti Ufficio prestiti e registrazione Stefano Marson Lucia Lamanna
Archivio bioiconografico e fondo storici Claudia Palma Clementina Conte Stefania Navarra Archivi delle Arti Applicate italiane del XX secolo Irene de Guttry Maria Paola Maino Gabriella Tarquini Archivio fotografico Paolo Di Marzio Gabinetto fotografico Silvio Scafoletti Audiovisivi Carlo Malinconico Building Manager Calogero Incardona Ufficio tecnico Remigio Ippoliti Ufficio tecnico informatico Fabiana Verolini Benedetto Prestanicola Responsabile servizio prevenzione Pierluigi Rocco
Ragioneria Giovanni La Chimia Roberta Martelli Mario Martone
Ufficio consegnatario Antonio Rizzo Anna Maria Marchitti
Studi e pubblicazioni Marcella Cossu
Centralino Sergio Marchetti
Ufficio stampa, comunicazione e relazioni esterne Elena Bastia Laura Campanelli Isabella de Stefano
Assistenti di sala e collaboratori uffici Tiziana Alessandrini Patrizia Aller Leda Avanzi Anna Avitabile Maria Grazia Benazzi Giancarlo Benvenuti Alessia Birri Antonella Boccacci Roberto Bretti Matteo Brignone Paola Caldiraro Graziana Camilli Carmela Casafina Marina Cavaliere Roberto Celotto Mariassunta Ciccarelli Vilma De Guisa Marina Di Francesco Claudio Foscardi Maria Iannucci Luana Iannuzzi Antonio Lini Adriana Massari Maria Pia Milazzo Manuela Montebello
Servizi educativi Emanuela Garrone Conservazione Paola Carnazza Rodolfo Corrias Maria Letizia Profiri Luciana Tozzi Roberto Possenti Veraldo Urbinati Biblioteca Giulia Talamo Salvatore Alessandrella Nunzia Fatone Lucia Piu Archivo generale Claudio Bianchi Fabrizio Guglielmino
Donatella Musino Norma Novi Monica Passalacqua Giuseppe Pedroni Veronica Piombarolo Pia Pompilio Antonio Pugliesi Paola Quattrini Enzo Riggio Donato Scacco Maria Sgrulletta Giuseppina Sica Linda Sorrenti Stefania Stracqualursi Laura Terranova Emilia Viglietto Laura Zedde Stagisti Francesca Balsamo Fabiana Cecamore Claudia Cerere Giorgia Ciolli Giulia Giambrone Sara Guidi Sara Leone Egle Minichini Giacomo Nicolò Collaboratori Caterina Antonaci Alessio Boi Luca Caianiello Piero Cavagna Miryam Criscione Cinzia Frisoni Giada Incardona Benedetta Marcelli Filippo Mariotti Laura Mazzei Matteo Olivieri Lucia Petese Alessia Tobia
Cura Chiara Stefani Massimo Mininni
Ragione e Sentimento edizione del 18 marzo 2019
Coordinamento Stefano Marson Registrar Lucia Lamanna
Ideazione Cristiana Collu
Ufficio Mostre Giovanna Coltelli Keila Linguanti
Autori Massimo Mininni Franco Rella Chiara Stefani
Segreteria di Direzione Paola Castrignanò Ufficio comunicazione Elena Bastia Isabella de Stefano con Giulia Giambrone, Sara Guidi e Sara Leone
Redazione Miriam Capaldo Progetto grafico e impaginazione Designwork
Ufficio stampa Laura Campanelli con Fabiana Cecamore Progetti speciali e comunicazione digitale Alessio Boi Alessia Tobia Conservazione Paola Carnazza Rodolfo Corrias Maria Letizia Profiri Luciana Tozzi con Roberto Possenti e Veraldo Urbinati Gabinetto fotografico Silvio Scafoletti Archivio fotografico Paolo Di Marzio Biblioteca Giulia Talamo Nunzia Fatone Audiovisivi Carlo Malinconico Immagine coordinata della mostra e progetto grafico Artemio Croatto e Chiara Caucig / Designwork Traduzioni in inglese Studio Intra Movimentazione e allestimento opere Artiamo Group con Quadra S.r.l. Illuminotecnica AC Impianti
Émile-Antoine Bourdelle, Ercole Saettante, 1909 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Si ringraziano tutti coloro che hanno reso possibile questo progetto.
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