a cura di Saretto Cincinelli
In una lettera del 1943, Hilla Rebay scriveva a Frank Lloyd Wright: «Voglio un tempio dello spirito, un monumento!». Al museo ci troviamo dunque dentro un tempio dello spirito, un monumento abitato da opere in mostra che a loro volta rappresentano altrettanti templi temporanei, effimeri in cui accogliere lo spirito, il genio, l’anima di quelle opere. L’anima ha un peso, pochi grammi pare, e quando abbandona un corpo non è ancora chiaro dove vada a rifugiarsi, forse rimane semplicemente ad aleggiare «nell’aria croccante». Monumentum, la mostra che La Galleria dedica a Robert Morris immaginata con lui prima della sua scomparsa, è suo malgrado anche una commemorazione, un omaggio postumo. Non solo, però. Una parola così stratificata ci permette infatti di dire molto di più anche in relazione a Roma, alla città monumentale per antonomasia. Proprio in virtù della sua complessa etimologia, il termine “monumento” veicola un universo di significati, sorta di nube semiotica, che nel nostro caso risulta essere particolarmente pertinente. Dal “monumento” al “monumentum” (documento e testo artistico insieme, luogo del valore e non solo della rappresentazione), al “momento” (inteso nella sua dimensione effimera), al “momentum” (l’istante decisivo dell’impulso, nell’accezione inglese). Un istante che è anche un’acme, quella raggiungibile finanche in tarda età se la tensione a essere autentici, a essere se stessi, e non come qualcuno vorrebbe che fossimo, viene preservata. Morris si è definito una volta con la parola “unavailable”. Sono certa che nemmeno “untaggable” gli dispiacesse. Cristiana Collu Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Saretto Cincinelli
Il complesso e multiforme itinerario nell’arte contemporanea di Robert Morris si è concluso, improvvisamente, mentre il progetto di questa mostra era ancora in corso. L’originaria idea espositiva, concordata nelle sue grandi linee con l’artista, non muoveva dall’intento di realizzare una mostra antologica ma dalla volontà di installare in un unico grande ambiente, il salone centrale della Galleria, due sorprendenti cicli scultorei: Boustrophedons e MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS, ancora inediti in Europa. L’improvvisa scomparsa dell’artista non ha modificato in nulla il progetto originario, se non per l’aggiunta di un doveroso e tempestivo omaggio postumo: l’installazione di un grande feltro, Untitled, 1976, nel contesto di Time is Out of Joint 1. Ad accomunare le figure delle due serie, al di là di ogni elemento tematico e figurativo e di ogni richiamo, più o meno diretto, a opere dei maestri del passato, è il ricorso al procedimento fondante dell’impronta. Scaturendo entrambe dalla procedura del calco, le due serie gettano, inoltre, un’inedita luce sul concetto di simulacro da molti considerato figura principe della cosiddetta postmodernità.
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È proprio nella duplicazione apparentemente meccanica e priva di stile dell’impronta, nella sua ostinata resistenza a risolversi totalmente in oggetto estetico, che paradossalmente può essere rintracciato il paradigma di opere come MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS e Boustrophedons che, in accordo con la messa in discussione post-strutturalista del soggetto, pongono la questione dell’arte abbandonando le rassicuranti e tradizionali nozioni di Autore, Opera, Significato, riscoprendo, al di là dell’estetica romantico-modernista, alcuni tratti del sublime di matrice kantiana. Apparentemente niente sembra più diretto della realizzazione delle figure delle due serie ma se osserviamo più da presso la loro genesi ci rendiamo conto che essa riposa, invece, su un’insanabile differita: il qui e ora dell’impronta richiama, infatti, come un’eco, il là e allora del suo prodursi, ciò implica uno scarto, un ritardo, minimo ma irredimibile nella realizzazione. L’opera si rivela, così, il risultato di un gesto duplice, il prodotto di un processo che, attraverso il suo stesso divenire, pone in cortocircuito due fasi diverse ma necessariamente complementari di un’unica operazione. Sovvertendo la tradizionale gerarchia che, nella pratica scultorea, vuole la mano subordinata all’occhio e l’occhio all’idea, Morris non modella direttamente la materia ma si limita a predisporre in una posa desiderata un modello-matrice di forma umana e, successivamente, a stendere su quest’ultimo la tela, come un sudario, per strapparne poi la sindone con un sapiente lavoro di contatto. La tela imbevuta di resina epossidica trasparente, essiccandosi, diviene progressivamente autoportante. Durante questo processo il modello-matrice viene rimosso. L’artista incorpora così nell’opera un vuoto, una béance costitutiva che diviene un peculiare tratto distintivo: non sarà più possibile contemplare queste figure senza pensare alla loro stessa genesi, separandole cioè dal gesto che le ha fatte apparire. L’impronta si fa qui memoria non della cosa ma del suo mancare a sé stessa: raffigurazione indiretta che volge le spalle alla rappresentazione per divenire vestigio di ciò che non è più o di ciò che non è ancora.
Le sindoni tridimensionali di Morris ci restituiscono la traccia di una figura, lavorata dalla dissomiglianza, che fa implodere ogni illusionismo referenziale, una figura che non percepiamo più se non tramite il suo negativo: attraverso quel non a cui, la pur irriducibile singolarità di ogni impronta, necessariamente rinvia. Differenza tra ciò che resta e ciò che è, l’impronta mostra il paradossale apparire di qualcosa nella sua stessa sparizione, proprio per questo le “figure” di Boustrophedons e MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS più che dal mondo paiono venire al mondo, dissolvendosi, come apparizioni che impediscono all’identità dell’opera di richiudersi compiutamente in sé. Richiamando una latenza più che una referenza, esse mostrano l’oscillazione con cui il raffigurato rinvia nella raffigurazione all’altro dal raffigurato, vale a dire alla pura virtualità di raffigurazione che accompagna, come il suo orlo di nulla, ogni figura determinata. Con il ricorso alla sindone, Morris celebra una scultura indiretta, che elabora il lutto di una presenza assente tramite la concreta presentazione di un’assenza.
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1 Opera installata nella primavera del 2019, resterà visibile per tutto il periodo della personale di Morris nella sala del museo che ospita Ercole e Lica di Canova, 32 mq di mare circa di Pascali, Grande composizione A con nero, rosso, grigio, giallo e blu di Mondrian, Superficie bianca di Castellani, La caduta
di Iperione (Second Voyage to Italy) di Twombly, Monument for V. Tatlin di Flavin, Spoglia d’oro su spine di acacia di Penone e, attualmente, anche forget me (not), after otti oerger, 2017 di Fernanda Fragateiro.
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Robert Morris: Dark Passage Pepe Karmel
[…] Robert Morris è soprattutto noto per essere uno dei padri fondatori del Minimalismo. Negli anni ’60, rifiutò ogni dinamismo, soggettività ed espressività per la stasi, l’impersonalità e l’inespressività. Scioccante risulta quindi l’incontro con la sua ultima produzione qui in mostra. […] La mostra delle costruzioni geometriche essenziali alla Green Gallery di New York (16 dicembre 1964 – 9 gennaio 1965), in concomitanza con la sua partecipazione alla mostra collettiva Shape and Structure alla Tibor de Nagy, ha segnato un momento decisivo per il Minimalismo. La critica d’arte Barbara Rose notò allora l’emergenza di un nuovo tipo di “oggetto scultura” sintetizzato dall’opera di Morris e di Donald Judd. «Qualsiasi testimonianza di carattere personale è accuratamente eliminata» scrisse «così come ogni riferimento a stati psicologici o a forme naturali». Un altro critico, Max Kozloff, riassunse la nuova sensibilità nella formula «estetica della sterilità». […] Dal 1967, il lavoro di Morris è andato simultaneamente evolvendosi in due diverse direzioni. Le sue costruzioni cubiche aperte, assemblate a partire da lamiere di acciaio o reti espanse, suggerivano spazi architettonici, abitazioni accoglienti o minacciosi imprigionamenti. I lavori in feltro segnarono l’inizio dell’impiego di materiali tessili che lo avrebbe condotto, quasi cinquant’anni dopo, ai MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS e ai Boustrophedons di questa mostra. Morris prese grossi scampoli di feltro industriale, li tagliò in campioni e schemi geometrici, appendendoli alle pareti o semplicemente ammucchiandoli sul pavimento. Il motivo geometrico originale svaniva o risultava distorto dall’interazione della forza di gravità con il peso e la rigidità del feltro. […] In occasione di una sua visita a Roma negli anni ’70, Morris fu profondamente colpito dal sepolcro di papa Alessandro VII (1671-78), opera del Bernini, con la drammatica figura della morte rappresentata come uno scheletro dorato la cui mano levata stringe una clessidra. L’artista parafrasò direttamente tale
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figura nell’installazione First Study for a View from a Corner of Orion (Day) del 1980. Da allora nella sua produzione cominciò ad apparire regolarmente un linguaggio esplicitamente figurato. Ossa e scheletri erano motivi ricorrenti nei disegni e nei rilievi hydrocal in cui Morris utilizzava vortici barocchi di fuoco e fumo per evocare la minaccia della guerra nucleare. […] La rappresentazione figurata divenne ancora più importante nei disegni di Investigations che Morris iniziò a realizzare nel 1990. Riflettendo sulla storia dell’arte – e più in generale sulla storia – Morris assemblò immagini fotografiche delle proprie opere (dipinti e sculture degli anni precedenti) con eventi chiave della storia del XX secolo. Invece di usare un fotomontaggio convenzionale, conferì un aspetto unitario alle immagini eterogenee ridisegnando ognuna di queste con un tratteggio denso e riuscendo in tal modo a imporre una stessa consistenza al disegno preso nel suo insieme, pur preservando le caratteristiche visive dei materiali di partenza. È in questo contesto che l’immaginario di Francisco Goya appare per la prima volta nei suoi lavori, nei quali acquisirà importanza crescente.
si nascondono la crudeltà e la violenza del conflitto e della repressione sociale, politica e religiosa. La combinazione ricorrente di figure erette e altre rivolte a terra in MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS risale a Column di Morris del 1961, con il suo drammatico contrasto di orientamenti verticali e orizzontali. Ancora una volta, Morris ricorda allo spettatore la polarità dell’esistenza umana: l’alternanza e coesistenza di veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte. Altri gruppi della serie, con figure dolenti in piedi o sedute vicino ad altre giacenti, sembrano altrettante Pietà laiche. […]
Uno di questi lavori, Dunce I Dunce II, comprende due figure — una verticale, l’altra reclinata — con alti cappelli a punta simili a quelli delle miserabili vittime nelle incisioni di Francisco Goya sull’Inquisizione spagnola. Mentre il dinamismo dei drappeggi richiama Bernini, la cruda geometria dei cappelli conici ricorda che, dietro la bellezza della storia dell’arte,
Nella serie Boustrophedons, del 2018, Morris abbandona il lino per la fibra di carbonio: un materiale estremamente leggero e resistente utilizzato per le auto da corsa e per gli aerei più avanzati. Immersa in resina epossidica, la superficie ruvida della fibra di carbonio diventa lucida e minacciosa, lo stesso tessuto di cui l’industria cinematografica contemporanea riveste i propri supereroi e supercriminali. Il titolo della serie, Boustrophedons, deriva dall’andamento della scrittura nelle prime tavolette greche, in cui una riga è scritta da sinistra a destra e la successiva da destra a sinistra, come un bue (bous) che ara un campo, e gira (strophos) alla fine di un solco per poi tornare nella direzione opposta. Il processo di fusione delle figure in mostra (trentotto in tutto) costituisce per Morris un’unica lavorazione continua e interminabile. I titoli delle singole opere provengono da classici del cinema noir della fine degli anni ’40, i cui protagonisti cercano una strada tra la Scilla del desiderio e la Cariddi dell’avidità, mentre la morte in veste di Nemesi li segue per colpirli a caso.In Out of the Past l’incontro tra spettatore e oggetto, che sembrava così liberatorio negli anni ’60, diventa un incubo ad occhi aperti. Gli spettri fluttuanti aleggiano attorno allo spettatore, schernendolo con terribili profezie. Gli spettri di Morris sono ispirati alla raccolta di disegni di Goya Streghe e vecchie. […]
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Tralasciando la straordinaria varietà di opere realizzate negli anni ’90 e 2000, arriviamo ai MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS del 2014-2015. Morris crea le figure di questo ciclo drappeggiando del lino imbevuto di resina attorno a manichini. Sfilando in seguito questi ultimi, rimangono soltanto drappeggi vuoti e rigidi come pelli secche dopo la muta dei serpenti, esoscheletri chitinosi di insetti o sudari usati per avvolgere corpi defunti. Da qui il titolo della serie.
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Le singole figure di The Big Sleep ricordano le immagini tradizionali del Cristo sepolto, visto sia di profilo, come nel Cristo morto di Hans Holbein conservato al Kunstmuseum di Basilea, che di scorcio, come nel Cristo morto di Andrea Mantegna custodito all’interno della Pinacoteca di Brera. […] Tuttavia, la moltiplicazione delle figure distese in The Big Sleep non sembra avere antecedenti nella storia dell’arte. Disposti in fila o distribuiti casualmente lungo il pavimento, i corpi a malapena nascosti richiamano quelle fotografie da prima pagina in cui sono raffigurate vittime di guerre civili o di esecuzioni extragiudiziali, troppo numerose per essere allocate nell’obitorio locale. Criss-Cross, che evoca un campo di battaglia pietroso disseminato di corpi di combattenti, non prende a modello i maestri del passato. Tuttavia, l’orientamento multidirezionale delle figure e il modo in cui queste sono trasferite dal pavimento alla parete ricordano l’all over painting di Jackson Pollock. Certo, i corpi iperrealistici di Criss-Cross sono molto diversi dalle curve astratte e avvolgenti che di tanto in tanto emergono dalla trama di Pollock, e Criss-Cross non è un campo visivo astratto bensì il teatro di una carneficina. E tuttavia, questa scena cruda potrebbe non essere così estranea all’immaginario latente dell’Espressionismo Astratto. Il disegno War di Pollock del 1947 raffigura un analogo campo di corpi ammassati, con sulla destra la figura crocifissa che monta la guardia.
esperienza fenomenologica. Ogni elemento di questa – il corpo, l’oggetto e lo spazio – si è infatti rivelato radicato nella storia e incomprensibile senza quest’ultima. Sebbene si sia tentati di usare il termine “postmoderno” per descrivere la svolta successiva della sua carriera, il lavoro di Morris implica il rifiuto dell’asserzione postmoderna secondo cui viviamo in un “mondo di immagini” distaccate dalle reali fondamenta della storia. Le immagini dei disegni, dei dipinti e delle sue sculture ci riportano direttamente alla landa flagellata dalla tempesta di un Re Lear. L’ultima produzione dell’artista impone un’inversione di marcia alla storia. Invece di estrarre l’“essenza” dei primi stili figurativi, dimostra come anche la scultura più riduttiva punti dritto all’arte tradizionale, e in particolare a scultori come Lehmbruck e Rodin. Il lavoro di Morris è il prodotto della nostra epoca violenta, proprio come le sculture di Lehmbruck e Rodin sono state il prodotto del loro tempo. Invece di ridurre il drappeggio a un gioco astratto di curve (come nel lavoro in feltro del 1967), Morris scopre l’originario Zeitgeist dell’arte moderna nella Spagna di Goya, stordita dalla restaurazione borbonica. «La storia è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi», afferma Stephen Dedalus di Joyce. Ma per svegliarci dalla storia dobbiamo prima ricordarla.
Nel corso di una carriera durata oltre cinquant’anni, Morris ha messo in discussione i presupposti fondamentali del Modernismo e del Post-modernismo. Negli anni ’60, respingendo l’ortodossia formalista che definiva il Modernismo come ricerca di un’esperienza puramente ottica, Morris e i suoi compagni minimalisti insistevano sul fatto che il compito dell’arte contemporanea è quello di evocare l’esperienza del corpo nella sua interazione con materiali e spazi reali. Tuttavia, Morris iniziò presto a mettere in discussione la purezza di tale
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La promessa mancata Federico Ferrari
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Le sculture che Robert Morris realizzò negli ultimi anni della sua vita, e che sono ora in mostra a Roma, ricordano le sculture di Niccolò dell’Arca, non foss’altro che per una vicinanza cromatica e per la potente centralità del ruolo delle vesti e dei drappeggi. I due cicli furono originariamente esposti nel 2015 (MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS) e nel 2017 (Boustrophedons) presso la Galleria Castelli di New York. Morris aveva ottantaquattro anni quando espose le sue prime opere in lino imbevuto di resina, nelle quali, in modo inequivocabile, il centro della scena è occupato dalla morte. Non sorprende, ovviamente, che un artista di quell’età abbia rivolto la propria attenzione a questo soggetto. Quando, infatti, un essere umano varca la soglia della maturità – e questa soglia può essere posizionata diversamente da individuo a individuo –, quasi ineluttabilmente, subentra un pensiero dominante che, a seconda dei casi, diviene ossessivo o latente: il pensiero della morte appare prepotentemente nella sua enigmaticità. Se, negli anni della giovinezza, lo slancio vitale spinge verso la ricerca di dimensioni ulteriori del possibile, in tutte le sue sfumature – sfumature che, nel caso di Morris, andarono dalla performatività alla più potente e fredda astrazione minimalista –, relegando la presenza della morte in una dimensione che si pone al di là della propria esperienza vitale del mondo, con la maturità la sua inquietante presenza irrompe nel quotidiano esistere. La morte non è più semplicemente posta nell’aldilà ma si muove nel qui e ora. Senza tregua, la morte si insinua nelle giornate; nella luce crepuscolare che ogni ricordo assume; nello svanire delle certezze che avevano guidato le nostre scelte; nella corruzione e nel decadimento del corpo. Improvvisamente, il pensiero della morte diventa un’ombra inseparabile dalla nostra vita. La morte instaura un processo speculare alla vita, diventa quasi la scansione ritmica di un va e vieni nel quale il pensiero gira su se stesso, spesso sfinendosi. Continuamente, noi passiamo dalla vita alla morte, in ogni cosa vediamo questo passaggio. La sola certezza che abbiamo di essere vivi è che questo cammino dalla vita alla morte sia bustrofedico, cioè vi sia sempre un ritorno, un ripercorrere i propri passi, alla maniera dell’aratro trainato dal bue che – aprendo solchi, ferite, squarci – rende fertile la terra per
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mezzo di un percorso che punta in una direzione e poi raddoppia, a ritroso, nel senso opposto. Il pensiero della morte diviene questo movimento ritmico, di andata e ritorno, attraverso cui la vita riconosce il proprio doppio e il proprio sempre nuovo senso o non-senso. Le figure che Robert Morris presenta nelle due serie Boustrophedons e MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS sono manifestazioni di questa tonalità emotiva fondamentale, di questa incombenza della morte, della sua enigmatica presenza. Morris, a dispetto dell’immagine più diffusa e stereotipata di esponente di un’arte minimale, astratta e di totale rottura con ciò che l’ha preceduta, è stato uno degli artisti del secondo Novecento che più ha riflettuto e più è entrato in dialogo con la tradizione artistica antecedente. Inevitabile era, quindi, per lui, il confronto con i temi e i soggetti portanti di questa tradizione. E, ovviamente, con il soggetto più ricorrente di tutta l’arte occidentale: la morte. Le figure che costituiscono l’umanità di questo ciclo morrisiano sono state realizzate utilizzando manichini sui quali sono stati posti i drappeggi, imbevuti di resina. I manichini sono stati poi rimossi, dando vita, una volta ricomposti i drappeggi, a esseri senza corpo; esseri di cui è rimasta solo la traccia di un corpo ormai assente, rimosso. In un certo senso, queste opere di Morris parlano, in primo luogo, di una rimozione del corpo. Una rimozione, naturalmente, anche in senso psicanalitico. Il corpo è il grande rimosso della nostra civiltà. E, ancor più, il corpo morto. Quali siano le ragioni di questa rimozione è, chiaramente, domanda che si presta a molteplici risposte. Non ultima credo sia quella attesa escatologica frustrata sulla quale si fonda l’Occidente nella sua anima messianica. Il corpo morto è la prova inconfutabile del non mantenimento della promessa. L’Occidente si fonda su questa promessa, la vittoria sulla morte e la resurrezione dei corpi. Una volta rotto il patto sancito dalla promessa dell’avvento del Regno, il solo modo per non sprofondare nella disperazione, testimoniata dai volti delle figure di Niccolò dell’Arca, è allora rimuovere il testimone di questo fallimento, il corpo, non solo il corpo di Cristo ma il corpo dell’umanità mortale. E questo mostra Morris: una civiltà ossessionata dalla morte e che rimuove il corpo morto, lasciando solo un simulacro di morte, una morte virtuale,
immateriale, inumana. I panni di lino di Morris sono, in fondo, dei sudari. Estremi resti simbolici di veroniche sulle quali non è impresso nessun volto. Resta solo il volume di un corpo, svanito e non risorto. Il ciclo di Morris è un’interrogazione su questo assentarsi o scomparire del corpo. In un’opera come Keep It To Yourself (2014-2015), chiaramente ispirata al Cristo morto (1475-1478 ca.) del Mantegna, questa rimozione appare evidente anche nelle sue conseguenze psicologiche e individuali. L’assenza del corpo del Cristo, che nel quadro del Mantegna si concentra in modo geniale sui piedi posti in primo piano, così come nel venir meno del volto corrugato e straziato della Vergine ai piedi di Gesù, lascia lo spettatore abbandonato a se stesso, costretto a “tenersi per sé” l’angoscia del venir meno della vita (mentre nel quadro del Mantegna l’angoscia veniva, in qualche modo, riassorbita in una dimensione di empatia che si instaurava nel va e vieni tra i piedi del morto e lo sguardo della madre). La visione straziante del corpo va rimossa, affinché la morte sia negata. Non si vede più nulla, si distoglie lo sguardo da ciò che lo immobilizza. Morris aveva già utilizzato l’iconografia del Cristo morto del Mantegna in un suo encausto su alluminio del 1989, dal titolo Prohibition’s End or the Death of Dutch Schultz […], opera che rientrava in un più ampio sentire, tutto incentrato su una riflessione sulla morte e sulla sua disumanizzazione, che vedeva la luce agli albori degli anni Ottanta e trovava in opere come l’installazione Jornada del Muerto (1981), che evoca i cavalieri dell’Apocalisse, o la produzione degli Hydrocal Works (dal 1982), bassorilievi consistenti in frammenti corporei, o, ancora, nel cupo ciclo di disegni di Firestorm (1982) elementi di un fenomenologia della morte tra le più significative del secondo dopoguerra. Eppure, in queste ultime opere, in opere come She Never Knew Him (2014-2015), dove al fianco di una figura femminile giace un’altrettantoinidentificabile figura di bambino, o What Did You Expect (2014-2015), dove il compianto del morto rasenta la tragicità di una mancanza di appigli: appare la pura angoscia, il corpo scompare. Proprio quel corpo che, unanimemente, la critica riconosce come uno dei temi portanti e più presenti nell’opera di Morris, fin dalle sue prime prassi performative.
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Per almeno due decenni mi sono rifiutato di tenere discorsi e quando ogni tanto mi è stato richiesto di farne, ho inviato un documento che ho in archivio. Fino ad oggi ha funzionato per tenermi alla larga. Eccolo qui:
Robert Morris A Few Thoughts on Bombs, Tennis, Free Will, Agency Reduction, the Museum, Dust Storms, and Labyrinths in «Critical Inquiry», 41, n. 2 (Winter 2015), pp. 289-311
NON DISPONIBILE
Non voglio parlare dell’arte che ho realizzato mezzo secolo fa. Il Minimalismo non ha bisogno di sentirlo da me. Non voglio parlare dell’arte che ho fatto ieri. L’arte contemporanea fa già abbastanza baccano senza di me. Non voglio essere ripreso nel mio studio mentre fingo di lavorare. Non voglio partecipare a messe in scena di conversazioni sull’arte (la mia o quella altrui, passata o presente) che altro non sono che faticose performance dissimulate. Non voglio essere intervistato da curatori, critici, direttori artistici, teorici, studiosi di estetica, esteti, professori, collezionisti, galleristi, intenditori di cultura, giornalisti o storici dell’arte sulle mie influenze, sugli artisti che preferisco, gli artisti che disprezzo, gli artisti passati, gli artisti contemporanei, gli artisti futuri […] Tanto tempo fa ho preso l’abitudine, mai più abbandonata, di annotare invece che di parlare. È possibile che io sia stato indotto a fare arte perché parlare ed essere al cospetto di altre persone non erano obbligatori. Non voglio che mi si chiedano le ragioni per cui non ho lavorato secondo un unico stile, o quelle di una qualunque delle opere d’arte che ho realizzato (la ragione è che non ci sono ragioni nell’arte). Non voglio rispondere alle domande sul perché ho usato compensato, feltro, vapore, sporcizia, grasso, piombo, cera, soldi, alberi, fotografie, elettroencefalogrammi, caldo e freddo, stratificazioni, esplosioni, nudità, suono, linguaggio o perché ho disegnato a occhi chiusi. Non voglio raccontare aneddoti sul mio passato o storie sulle persone con cui sono stato intimo. Le persone a cui devo molto o lo hanno saputo o non lo sapranno mai perché adesso è troppo tardi. Non voglio documentare punti di partenza, punti di svolta, punti alti, punti bassi, punti buoni, punti cattivi, battute di arresto, interruzioni felici, rotture fallimentari, punti di rottura, vicoli ciechi, passi avanti o crisi. Non voglio parlare dei miei metodi, processi, operazioni mancate, coincidenze, errori, insuccessi, intoppi, disastri, ossessioni, colpi di fortuna, colpi di sfortuna, cicatrici, insicurezze, disabilità, fobie, fissazioni o insonnie per via di cartelloni che non avrei mai dovuto fare […] Non voglio che mi sia fatto un ritratto. Ognuno usa l’altro per i propri scopi, e sono felice di essere solo materiale per qualcun altro fintanto che posso esercitare il mio diritto di rimanere in silenzio, immobile, possibilmente armato, e a una distanza di diversi chilometri. Tuttavia mi ritrovo qui e a parlare.
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Biografia di Robert Morris
Robert Morris nasce a Kansas City, Missouri, nel 1931. Studia ingegneria all’Università del Kansas. In seguito, in Oregon, si dedica allo studio della filosofia e della psicologia. Nel 1959 si trasferisce a San Francisco, dove si consacrerà al teatro e alla danza di improvvisazione. Nel 1960 va a New York. Qui conosce John Cage, Marcel Duchamp, Jasper Johns, La Monte Young. A New York, crea le sue prime sculture su larga scala e svolge un ruolo centrale nella creazione della Minimal Art, movimento emerso nei primi anni Sessanta intorno alla Green Gallery. Nel 1967 crea i suoi primi feltri, che saranno esposti alla Leo Castelli Gallery nel 1968. Su «Artforum», pubblica il saggio Anti Form. Le opere di questo periodo, come Untitled (Scatter Piece), riflettono il suo interesse per l’esplorazione del concetto di “indeterminatezza” in relazione alla pratica artistica, che si traduce anche nell’utilizzo di materiali non rigidi, come in Steam (“vapore”). Nel 1969 la Corcoran Gallery organizza una sua retrospettiva, che viene poi portata al Detroit Institute of Art e al Whitney Museum of American Art di New York. Una successiva retrospettiva è allestita alla Tate di Londra nel 1971. Nel 1994 il Guggenheim Museum di New York ospita un’altra grande retrospettiva, poi esposta al Centre Pompidou di Parigi. Le sue opere sono incluse nelle collezioni dei principali musei di tutto il mondo. Tra questi: il Museum of Modern Art di New York; The Art Institute di Chicago; la National Gallery of Art di Washington; il Centre Pompidou di Parigi; la Tate Modern di Londra.
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Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea — Roma
Consiglio di Amministrazione Cristiana Collu Presidente Maria Pia Ammirati Elena Di Giovanni Edith Gabrielli Comitato scientifico Fabio Benzi Francesco Dobrovich Flavio Fergonzi Stefania Zuliani Collegio dei revisori dei conti Nunzia Vecchione Presidente Maurizio Ferri Arturo Siniscalchi
Robert Morris. Monumentum 2015 — 2018 15.10.2019 — 12.01.2020
Direttrice Cristiana Collu Segreteria di direzione Paola Castrignanò Collegio tecnico scientifico Rita Camerlingo Marcella Cossu Emanuela Garrone Massimo Licoccia Alessandro Maria Liguori Valeria Lupo Massimo Mininni Chiara Stefani Direzione personale Mario Schiano Lomoriello Vittoria Gamboni Patrizia Maddalena Ufficio amministrativo Rossella Cicchetti Luca Di Donato Alessandro Sestini Ufficio mostre Giovanna Coltelli Keila Linguanti Ufficio prestiti e registrazione Stefano Marson Lucia Lamanna Ragioneria Giovanni La Chimia Roberta Martelli Mario Martone Studi e pubblicazioni Marcella Cossu Ufficio stampa, comunicazione e relazioni esterne Elena Bastia Laura Campanelli Isabella de Stefano Servizi educativi Emanuela Garrone Conservazione Paola Carnazza Rodolfo Corrias Maria Letizia Profiri Luciana Tozzi Roberto Possenti Veraldo Urbinati Biblioteca Giulia Talamo Salvatore Alessandrella Lucia Piu
Archivo generale Claudio Bianchi Fabrizio Guglielmino Archivio bioiconografico e fondo storici Claudia Palma Clementina Conte Stefania Navarra Archivi delle Arti Applicate italiane del XX secolo Irene de Guttry Maria Paola Maino Gabriella Tarquini Archivio fotografico Nunzia Fatone Paolo Di Marzio Gabinetto fotografico Silvio Scafoletti Audiovisivi Carlo Malinconico Building Manager Calogero Incardona Ufficio tecnico Remigio Ippoliti Ufficio tecnico informatico Fabiana Verolini Benedetto Prestanicola Responsabile servizio prevenzione Alessandro Bernoni Ufficio consegnatario Laura Terranova Anna Maria Marchitti Centralino Sergio Marchetti
a cura di Saretto Cincinelli
Assistenti di sala e collaboratori uffici Tiziana Alessandrini Leda Avanzi Anna Avitabile Maria Grazia Benazzi Giancarlo Benvenuti Alessia Birri Antonella Boccacci Roberto Bretti Paola Caldiraro Graziana Camilli Carmela Casafina Marina Cavaliere Lia Celona Roberto Celotto Mariassunta Ciccarelli Vilma De Guisa Marina Di Francesco Claudio Foscardi Maria Iannucci Adriana Massari Maria Pia Milazzo Donatella Musino Norma Novi Monica Passalacqua Giuseppe Pedroni Veronica Piombarolo Pia Pompilio Antonio Pugliesi Paola Quattrini Enzo Riggio Danilo Santella Donato Scacco Maria Sgrulletta Giuseppina Sica Linda Sorrenti Stefania Stracqualursi Emilia Viglietto Laura Zedde
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Direttrice Cristiana Collu Coordinamento Giovanna Coltelli Registrar ufficio mostre Keila Linguanti con Laura Mazzei Ufficio comunicazione Elena Bastia Isabella de Stefano Ufficio stampa Laura Campanelli Progetti speciali e comunicazione digitale Alessio Boi Alessia Tobia Building Manager Calogero Incardona Conservazione Paola Carnazza Rodolfo Corrias Maria Letizia Profiri Luciana Tozzi con Roberto Possenti e Veraldo Urbinati
Collaboratori Alessio Boi Piero Cavagna Giada Incardona Benedetta Marcelli Filippo Mariotti Laura Mazzei Matteo Olivieri Alessia Tobia Stagisti Ilaria Bettucci Barbara Inpiso Gloria Mignini Egle Minichini Viviana Prisco Valeria Puzzo
Ufficio prestiti e registrazione Lucia Lamanna Stefano Marson Gabinetto fotografico Silvio Scafoletti
Con il patrocinio di
Audiovisivi Carlo Malinconico Progettazione grafica e immagine coordinata della mostra Designwork Illuminotecnica AC Impianti Trasporto opere Arterìa Masterpiece International
Allestimento opere Arterìa De Masi Assicurazione Genser Insurance
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea ringrazia tutti coloro che, a vario titolo, hanno reso possibile questo progetto e in particolare: Estate of Robert Morris e Castelli Gallery, New York Si ringrazia inoltre: Lucile Morris Barbara Castelli e tutti coloro che hanno preferito mantenere l’anonimato.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea — Roma
Robert Morris. Monumentum 2015 — 2018 edizione del 15 ottobre 2019
Ideazione Cristiana Collu Autori Saretto Cincinelli Federico Ferrari Pepe Karmel Robert Morris Redazione Miriam Capaldo Progetto grafico e impaginazione Designwork
Una versione estesa di questi testi sarà pubblicata nel catalogo della mostra Robert Morris. Monumentum 2015 — 2018, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2019
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