Roma, 13.12.2018 — 23.01.2019
ilmondoinfine: vivere tra le rovine
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ILMONDOINFINE: VIVERE TRA LE ROVINE
Lo scenario evocato dalla mostra ilmondoinfine: vivere tra le rovine non è una terra sfigurata ma un «limes, una frontiera in cui si aduna il Mondo, accordando, temperando gli opposti», abitata da tutti noi, ma soprattutto restituita agli artisti, gli unici capaci di farci intravvedere il nostro soggiorno in esilio nel mondo e in tutti i paradisi perduti del Giardino che ora è la terra in cui stiamo, in cui viviamo tra le rovine, tra i resti irriducibili, tra i resti dell’irriducibile follia che ci fa «nascere a ogni momento/per l’eterna novità del
Il museo, oggi luogo plastico per antonomasia, si presta, presta spazio, crea un luogo in comune, fa abitare temporaneamente un mondo che infine sopravvive solo come resto, memoria di un’esperienza condivisa Nell’effimero esporre di una e di un’idea consegnata come mostra, questa in particolare aggiunge come parte indissolubile del testimone per la prossima istanza. progetto le escursioni filosofiche, le performance, la musica e il suono che esplorano «lo stupore essenziale che Cristiana Collu Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte avrebbe un bambino se, nel nascere, Moderna e Contemporanea si accorgesse che è nato davvero» come ancora dice Pessoa, il poeta che finge di fingere il mondo. Mondo», nel quale il presente rimane sempre fuori gioco, sfuggente e inappropriabile, errante, evanescente e perduto a ogni istante.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea — Roma
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine 13 dicembre 2018 — 23 gennaio 2019
Ilaria Bussoni
Maria Pia Ammirati Marco D’Alberti Elena Di Giovanni Edith Gabrielli Comitato scientifico Fabio Benzi Cristiana Collu Francesco Dobrovich Flavio Fergonzi Stefania Zuliani Collegio dei revisori dei conti Nunzia Vecchione Presidente David De Filippis Ottavio De Marco
Conservazione Paola Carnazza Rodolfo Corrias Maria Letizia Profiri Luciana Tozzi Roberto Possenti Veraldo Urbinati Biblioteca Giulia Talamo Salvatore Alessandrella Nunzia Fatone Lucia Piu Archivo generale Claudio Bianchi Fabrizio Guglielmino Archivio bioiconografico e fondo storici Claudia Palma Clementina Conte Stefania Navarra Archivio fotografico Paolo Di Marzio Gabinetto fotografico Silvio Scafoletti
Direttrice Cristiana Collu
Audiovisivi Carlo Malinconico
Segreteria di direzione Paola Castrignanò
Building Manager Calogero Incardona
Collegio tecnico scientifico Rita Camerlingo Marcella Cossu Emanuela Garrone Massimo Licoccia Alessandro Maria Liguori Massimo Mininni Chiara Stefani Barbara Tomassi
Ufficio tecnico Remigio Ippoliti
Direzione personale Mario Schiano Lomoriello Vittoria Gamboni Patrizia Maddalena Ufficio amministrativo Rossella Cicchetti Luca Di Donato Alessandro Sestini Ufficio mostre Giovanna Coltelli Keila Linguanti Ufficio prestiti e registrazione Stefano Marson Lucia Lamanna Ragioneria Giovanni La Chimia Roberta Martelli Mario Martone Catalogo Barbara Tomassi Studi e pubblicazioni Marcella Cossu Ufficio stampa, comunicazione e relazioni esterne Elena Bastia Laura Campanelli Isabella de Stefano Servizi educativi Emanuela Garrone
Ufficio tecnico informatico Fabiana Verolini Benedetto Prestanicola Responsabile servizio prevenzione Pierluigi Rocco Ufficio consegnatario Antonio Rizzo Anna Maria Marchitti Centralino Sergio Marchetti Assistenti di sala e collaboratori uffici Tiziana Alessandrini Patrizia Aller Leda Avanzi Anna Avitabile Maria Grazia Benazzi Giancarlo Benvenuti Alessia Birri Antonella Boccacci Roberto Bretti Matteo Brignone Paola Caldiraro Graziana Camilli Carmela Casafina Marina Cavaliere Roberto Celotto Mariassunta Ciccarelli Vilma De Guisa Marina Di Francesco Claudio Foscardi Maria Iannucci Luana Iannuzzi Antonio Lini Adriana Massari Maria Pia Milazzo Manuela Montebello Donatella Musino Norma Novi Monica Passalacqua Giuseppe Pedroni Veronica Piombarolo
Pia Pompilio Antonio Pugliesi Paola Quattrini Enzo Riggio Donato Scacco Maria Sgrulletta Giuseppina Sica Linda Sorrenti Stefania Stracqualursi Laura Terranova Emilia Viglietto Laura Zedde
da un progetto di Ilaria Bussoni
Archivi delle Arti Applicate italiane del XX secolo Irene de Guttry Maria Paola Maino
Registrar Keila Linguanti con Francesca Balsamo e Laura Mazzei
Stagisti Francesca Balsamo Francesca Caputo Chiara Cazzato Giorgia Ciolli Eleonora Maniccia Nicolò Mazzucato Egle Minichini Chiara Petrini Miriam Pistillo Danio Ruffini
Ufficio comunicazione Elena Bastia e Isabella de Stefano
Collaboratori Alessio Boi Piero Cavagna Miryam Criscione Serena Francone Cinzia Frisoni Giada Incardona Benedetta Marcelli Laura Mazzei Matteo Olivieri Lucia Petese Alessia Tobia
Conservazione Paola Carnazza, Rodolfo Corrias, Maria Letizia Profiri, Luciana Tozzi, con Roberto Possenti e Veraldo Urbinati
a cura di Ilaria Bussoni Simone Ferrari Donatello Fumarola Eva Macali Serena Soccio Coordinamento Giovanna Coltelli
Ufficio stampa Laura Campanelli Progetti speciali e comunicazione digitale Alessio Boi e Alessia Tobia
Servizi educativi Emanuela Garrone con Nunzia Fatone Gabinetto fotografico Silvio Scafoletti Audiovisivi Carlo Malinconico Building Manager Calogero Incardona Ufficio tecnico informatico Fabiana Verolini con Matteo Olivieri Producer WILLIAM BLAKE BRAND EVENTS Immagine coordinata della mostra e progetto grafico Artemio Croatto, Chiara Caucig con Isacco Toniutti /Designwork Trasporto e allestimento opere Spedart Illuminotecnica AC Impianti Allestimento strutturale AR.CO. Studio Assicurazione Age Broker Performance Producer Alessandro Muller
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea ringrazia tutti coloro che, a vario titolo, hanno reso possibile questo progetto e in particolare: Giovanna Abbate Enrico Alleva Maria Pia Ammirati Alessandra Baldini Peter Benson Miller Marilyn Brakhage Julio Bressane Silvia Burner Matteo Chiocchi Saretto Cincinelli Gilles Clément Emanuele Coccia Stefania Consigliere Anna d’Amelio Carbone Tonino De Bernardi Gianluca De Marino Giano Del Bufalo Andrea Di Salvo Giuseppe Fabrini Alessandro Gagliardo Filippo Maria Gambari Laura Giuliano Mauro Iberite Monica Loffredo Fausto Manes Gabriella Manna Paola Massardi Sarita Matijevic Jurij Meden Enzo Mescalchin Annalisa Metta Giorgio Milanetti Valentino Nizzo Riccardo Passoni Maurizio Pierfranceschi Valeria Pezzillo Francesco Raparelli Nicoletta Romeo Tommaso Santostasi Sergio Sozzo Aldo Spiniello Tir Danza Julia Trolp Laura Varone Gerald Weber Lucilla Zanazzi Artisti Emanuele Becheri Chiara Bettazzi Gigi Cifali Felice Cimatti Virginia Colwell Rosetta S. Elkin Christoph Keller Jirì Kolár Fiamma Montezemolo MP5 Pietro Ruffo Gian Maria Tosatti Massimiliano Turco Franco Zagari tracce sonore SOUNDWUNDERTUNNEL Belle Poudre (Dirk Bell/Reto Pulfer) Sam Conran Milli Graffi Francis Heery Petri Kuljuntausta Yoko Ono/Plastic Ono Band High Priest Matteo Polato Aimée Portioli Jani Anders Purhonen Pietro Lussu e Alice Ricciardi
Stefan Schleupner Luca Vitone Perfomer Barbara Berti Nicola Galli Gruppo Vocale Ottava Rima Orchestra notturna clandestina Cristina Kristal Rizzo Prestatori APALAZZOGALLERY Biblioteca Angelica Fondazione Edmund Mach Galleria Lorcan O’Neill GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino Geyrhalter Film IBM - International Business Machines Corporation Les Documents Cinématographiques (Parigi) Light Cone (Parigi) Magazzino Malastradafilm Mirabilia Art Gallery MuCiv – Museo delle Civiltà Museo Erbario del Polo Museale Sapienza Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Museo San Giovanni de’ Fiorentini Rai Teche SixPackFilm (Vienna) TB Produções (Rio de Janeiro) Zomia
Ma un mondo è entità diversa da un astro tondeggiante graziato dalla vita chiamato Terra. Un mondo è questo sommato a un’idea di natura, l’idea tutta umana attraverso la quale si è immaginato il come starci. Nel come precipitano così le nostre forme di mondanità, i modi nella storia e nella geografia diversi attraverso i quali i viventi umani hanno creato e continuano a creare qualcosa senza la quale sembrano avere un certo disagio: la propria Le narrative dell’apocalissi, che siano culturali presenza. Parola indicata dall’antropologo Ernesto De Martino per esprimere il nostro specifico dello o ecologiche, che assumano la forma del collasso o stare su un pianeta non senza una certa capacità dell’esaurimento, che prefigurino l’evaporazione dei creativa in virtù della quale il mondo, o meglio un riferimenti simbolici o una reale scomparsa della mondo, lo si dovrà inventare. Da lì le montagne nostra specie, il crollo della catena significante o saranno divinità o oggetti rocciosi, le foreste della produzione del valore, vengono a interrogare mangeranno i bambini, gli animali avranno diritto di la nostra presenza di umani, viventi tra gli altri ma parola ma solo per la notte dell’epifania, e la sintassi di certo singolari, su questo pianeta. Per nessuna di volta in volta mutevole che farà da relazione a quel di esse il nostro passaggio sarà stato indenne. che l’Occidente tassonomico ha chiamato la divisione E le tracce della nostra era, quella geologica dei regni – vegetali, animali, minerali – consentirà che dell’Homo sapiens sapiens, potranno avere la spunti l’inattesa varianza dei mondi possibili. Tra forma dell’industrializzazione o dello sfruttamento i quali, quello che si presume il nostro, dei mezzi e intensivo delle risorse, della tecnica o della crisi dei fini, dell’operare industrioso con certi strumenti ambientale, e dunque declinare l’attuale era tra i quali la materialità di un’astrazione chiamata geologica con l’Anthropos o il capitale, con Cthulhu denaro, non è di certo il migliore ed è indubbiamente o la piantagione, ma saranno comunque tracce della il più problematico. Ma è quello che per il momento devastazione. In questo mondo che ha iniziato a sembrerebbe aver vinto sui mondi degli altri, misurare il nostro impatto e quel che resta della sua durata saremmo chiamati a continuare a vivere, in un lasciando la gran parte di noi a vivere tra le rovine, incluse le sue. mondo in fine. ilmondoinfine, si scrive tutto attaccato perché a ciascuno sta di mettere uno spazio e di decidere se vivere in un mondo in fine o in un mondo, infine. Nella distanza tra un complemento di un tempo che giunge al termine e un avverbio che esclama l’occasione di afferrarlo si colloca un progetto espositivo a più dimensioni promosso dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Proprio lì, tra le rovine degli ambienti boschivi collassati, sui cumuli di macerie delle città di continuo dissodate, limitrofa ai resti della nostra civiltà prima che li si trasformi in monumenti, ostinata e sorprendente torna a proliferare la vita. Abbia essa la forma dei funghi matsutake, agenti creatori di mondi in grado di ospitare gli umani espulsi dai circuiti della valorizzazione, delle specie vegetali pioniere capaci di predisporre un ambiente perché ne giungano altre, delle giungle urbane che tra gli interstizi di territori socialmente normati proliferano di forme di vita in transito, vivere tra le rovine è un paradigma che va ben oltre le aree desolate dalla guerra o dalle catastrofi. Lo si può leggere come capacità di adattamento o mera sopravvivenza, ma c’è chi ci ha insegnato a guardare alla vita tra le rovine come a quell’occasione da afferrare per fare posto alla vita degli altri, a quel processo incessante di metamorfosi con il quale si esprime la vita su questo pianeta. Dove quell’abilità umana di creazione di mondanità, anche sul cumulo di macerie dell’umano passaggio, ha modo di ribadire che la vita è in divenire e che la nostra presenza ha da sempre lo statuto provvisorio di un mondo, infine!
e tutti coloro che hanno preferito mantenere l’anonimato
ilmondoinfine: vivere tra le rovine edizione del 13 dicembre 2018 Ideazione Ilaria Bussoni Redazione e coordinamento editoriale Ilaria Bussoni Miriam Capaldo Progetto grafico e impaginazione Designwork
© 2018 Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea — Roma Tutti i diritti riservati
Chiara Bettazzi, Wonder Objects, 2013–2018
Consiglio di Amministrazione Cristiana Collu Presidente
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
La vita tra le rovine in 5 atti * e un’illuminazione profana Stefania Consigliere
Al sito archeologico mi staccano il primo biglietto della giornata e per un un’ora mi aggiro fra le rovine in completa solitudine. Poi qualcun altro arriva alla chetichella a visitare le vecchie pietre, ma pochi: i pullman extralusso scaricano altrove le comitive. Cosa cercano quelli che si sono avventurati fin qui, a cosa pensano? Qualcuno di loro avrà la mia stessa hidden agenda? Per oltre un millennio intere generazioni di uomini e donne, schiavi e padroni, Greci o che almeno parlassero la lingua, alla sola condizione di non essere assassini, andavano a Eleusi per essere iniziati ai Misteri. Si preparavano per diverse settimane, poi seguivano la processione rituale che partiva da Atene e durava un’intera giornata. Nel mezzo della notte, dopo aver bevuto il kykeon, entravano nel telesterion e «vedevano». La visione, dicono unanimi i cronisti, cambiava il loro rapporto con la vita e con la morte: metteva in pace i loro cuori1. Non sappiamo cosa vedessero, né come fosse preparato il kykeon, e il fatto più straordinario è proprio questo: la nostra ignoranza. Eleusi non è, per i Greci, una pista clandestina o l’occasionale deviazione di pochi marginali; è un evento ricorrente, pubblico, politico, collettivo; è l’impegno di tutta una comunità e, per così dire, un dispositivo iniziatico di massa. Secoli e secoli di iniziazione rituale e nessuno ne rivela niente. Alcuni, in epoca tarda, dissacrano il rito parodiandolo nel salotto di casa, ma subito vengono irrisi e comunque dalla loro blasfemia non si ricava nulla di sensato. Così siamo lasciati a congetturare. Per chi a Creta si è aggirato fra altre rovine, più antiche, è ovvio supporre che la Demetra di Eleusi arrivasse da lì, contraltare del macho furore miceneo. E c’è qualcosa di comico nell’acribia con cui i Romani, ogni volta, ingigantiscono i luoghi attrezzandoli con tutti i sinequanon per un ameno soggiorno: bagni, palestre, taverne, alberghi, postriboli. Ma nel VII secolo a.C., quando viene fondato, il tempio di Eleusi nasce piccolo, non più grande di una chiesetta di campagna. Cerco di rintracciare i segni murari, quasi del tutto interrati, del primo telesterion. Provo a immaginarmi alla sua porta, in una notte fra estate e autunno, nel mese di boedromione. Giorni di digiuno, poi l’uscita da Atene, un lungo camminare sotto il sole accanto ai carri in processione, cantando, invocando. Qualcuno mi porge una ciotola con la mia dose di
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È quasi mezzanotte: il buio della selva e il fuso orario alieno confondono l’orologio interno. Sediamo in cerchio, appoggiati alle pareti della maloca, la grande capanna rituale aperta sui vegetali e gli animali che stanno là fuori, mentre il taita prepara lo yagé. Il rito ha i suoi tempi, i suoi criteri, che osservo senza troppo capire. Arrivato il momento ci alzeremo a turno per andare a bere da una tazza di legno il doppio decotto, misurato secondo la nostra esperienza e (così immagino) la nostra stazza. Nella notte, durante il lungo corpo a corpo con la pianta – danza a volte, a volte lotta – sarà un canto a fare da corrimano. Se ti perdi, cerca la voce; se hai paura, ascolta il canto. Ho fatto tutto quello che era necessario per trovarmi qui: il viaggio, i moduli, la dieta, la purga, la dichiarazione di intenti. La documentazione, anche: ho letto tutto quello che potevo leggere. Non sull’Amazzonia, però, e neanche sulle piante maestro della selva, e neppure sugli shipibo o sul curanderismo. Per arrivare fin qui ho letto tutto quello che sono riuscita a trovare su Eleusi. Non sappiamo, né probabilmente mai sapremo, quando i popoli dell’Amazzonia hanno cominciato a usare la Banisteriopsis caapi per produrre una bevanda in grado di aprire la scorza psichica e fisica dei soggetti e rimetterli in relazione con quello che li circonda e li abita: le piante, gli animali, le molte anime degli umani, i fantasmi di quello che è accaduto e di quello che non è potuto accadere, le invidie, le lotte segrete, le passioni. C’è tutta una conoscenza sociale implicita, imparlabile, che passa attraverso le immagini, i non detti e i saperi spuri, e che lo yagé rende visibile. È la presenza in noi della storia: quella individuale e quella collettiva. Secondo Michael Taussig «taluni eventi storici, e in particolare gli eventi politici della conquista e della colonizzazione, vengono oggettivati nel repertorio sciamanico contemporaneo come immagini magicamente potenziate, capaci di causare, come anche di allontanare, la malasorte»2. Non è un mero disordine quello che si presenta nella visione, né si tratta di archetipi, e neanche di antiche scene legate «solo» alla biografia individuale. Sono le ferite storiche, i morti non sepolti, la violenza del dominio, le memorie che non sappiamo di avere: il deposito, entro ciascuno, dei tempi e della loro carica distruttiva, la sedimentazione del disastro che chiamiamo «storia». Ed è anche la possibilità, sempre fragile e ambigua, di una contromemoria. Yagé nights e riti eleusini si compongono in un incrocio a dir poco azzardato. L’elemento che più li accumuna è la squalifica etica, epistemologica e ontologica che la cosmovisione moderna vi getta
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sopra. Eleusi, così come Orfeo, Dioniso, le baccanti e gli oracoli, è quanto rimuoviamo dalla Grecia antica per riuscire a logicizzarla. La molteplicità dei mondi umani e dei loro modi di esistenza e conoscenza è quanto cerchiamo di rimuovere dal presente in nome di un futuro di solo Progresso. Questa convergenza, chissà perché, mi toglie un po’ di paura nel momento in cui, in selva, vado a vedere – o piuttosto a essere vista. Alcuni temono, in tutto ciò, la rovina dell’illuminismo, della ragione, del senso stesso della civiltà occidentale. Il rischio esiste. Ma mi chiedo se una tetragona fortezza a tripla cinta muraria, senza porte né finestre né ponti levatoi, con l’aria pompata da macchine, maxischermi a ogni parete e piped music negli ascensori non sia qualcosa di molto peggio di un rudere. Fra le rovine, almeno, crescono le piante selvagge e i fantasmi che vi si aggirano hanno un nome.
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Partendo per la selva mi ero ripromessa di andare quanto prima a visitare quel che resta di Eleusi e chiudere così quel cerchio incerto. Ora, mentre cammino fra le mura dell’antico tempio, sospetto si sia trattato di una forma sofisticata di pavidità antropologica: per avvicinarmi a una pratica tanto aliena quanto la medicina amazzonica ho dovuto agganciarmi a qualcosa di analogo che stava sulla linea filogenetica della mia tradizione culturale – e chi meglio degli antichi Greci? I Misteri di Eleusi, allora, con tutto il fascino e l’ambiguità di cui il vocabolo si è caricato nel tempo. Eleusi è misteriosa perché ne sappiamo poco, ma anche perché, da bravi moderni, ci aspettiamo che la parola «mistero» faccia riferimento a una dottrina segreta, a un insegnamento esoterico. Niente del genere, ma ci vuole un po’ per capirlo. Un paio di settimane fa, all’arrivo in Grecia, un cartello alla porta di un ascensore mi ha folgorata. Diceva: ektos leitourgias, «fuori servizio». La parola liturgia, che in italiano farei fatica a definire per via delle sue temibili risonanze sacre e cultuali, qui significa «funzionamento, uso, servizio». La scoperta ha messo in moto un curioso pendolo interpretativo. L’illuminista in me se la ride: dietro ogni concetto alto, difficile, oscuro, c’è sempre una spiegazione quotidiana; ogni cosa che sembri trascendente può essere riportata alla dimensione profana3. Ma esulta anche l’anima romantica, che sotto le parole più ordinarie intravede una profondità inesauribile, abissale, originaria. Per un istante, all’aeroporto di Atene, sono uscita dalla piattezza referenziale della neolingua contemporanea e dal disastro emotivo e cognitivo che porta con sé. Le parole che usiamo sono profonde, misteriose, dense. E non perché qualcuno le ha sequestrate nel regno del trascendente e dell’inattingibile, facendone strumento di potere e di dominio, ma perché dalla molteplicità e dalla potenza provengono, tutte cariche di storia e di altrove.
Christoph Keller, Archeology Plants Series – Olympieion, 2014 courtesy di Anna d’Amelio Carbone – Fondazione Memmo
Piazza Eleftheria, un po’ prima delle sette del mattino. All’unico negozio aperto compro una colazione minimale che mangio aspettando l’autobus. Quando arriva, l’autista sventola la mano per farmi passare: è la settimana del referendum e i trasporti pubblici di Atene sono gratuiti. Lentamente usciamo dalla città e imbocchiamo Hiera odos, la via sacra: i venti chilometri che portano a Elefsina, l’antica Eleusi, si chiamano ancora così, però oggi si manifestano nelle forme di una superstrada polverosa, costeggiata da palazzoni e incessantemente trafficata in su e in giù da umani e mezzi a motore.
kykeon. So che come sempre avrei paura, un senso di soggezione. Ma non mi sentirei spaesata. Ho già vissuto questo momento, qualche anno fa, a migliaia di chilometri da qui.
Christoph Keller, Archeology Plants Series – Poseidon of Artemision, 2014 courtesy di Anna d’Amelio Carbone – Fondazione Memmo
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Christoph Keller, Archeology Plants Series – Hephaisteion, 2014 courtesy di Anna d’Amelio Carbone – Fondazione Memmo
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I Misteri sono dunque una liturgia, e cioè un servizio, un insieme di operazioni che serve a far funzionare il mondo in modo accettabile. Inutile cercarne il senso in una dottrina, in un segreto destinato a pochi: se la progettazione di un buon ascensore è faccenda da ingegneri, per chi vi sale l’uso del marchingegno si risolve nella fatica risparmiata. Qual è, però, l’uso di un rito misterico come quello di Eleusi o delle yagé nights amazzoniche? In che senso un rito potrebbe andare, come un ascensore, «fuori servizio»? Non posso parlare a nome di altri, ma dopo molti anni e molte occasioni in cui ho bevuto lo yagé io stesso, parlando con altri durante e dopo l’assunzione, non ho l’impressione che la mia esperienza sia insolita o singolare, in particolare in relazione a quella che chiamerei la sua forma. Ed è proprio la forma – o piuttosto, la rottura della forma – quel che più m’interessa nell’evocazione di ciò che è importante nelle notti di yagé. Però le cose non sono così semplici e c’è questo paradosso, che nel cercare di descrivere il generale devi sfruttare il singolare, perché lo yagé sollecita l’intensità del vivere agli estremi margini e l’esplorazione dell’indefinito – e di fatto ne dipende. Non si dà dello yagé esperienza «normale»: è questo il punto. A un certo momento devi prenderci la mano e descrivere le notti di yagé nei termini della tua stessa esperienza4.
nord porta con sé7. Tutto vero. Qualcosa, però, non torna. La maggior parte delle persone che ho incontrato in selva mi pareva alla ricerca di un filo che, a casa, non si riesce nemmeno a nominare. Molti lavoravano nelle istituzioni dei Paesi del Nord, nei laboratori di ricerca, nelle università: intellettuali raffinati, addestrati allo scetticismo e al metodo scientifico. E infatti non ho registrato conversioni, né annunci di miracoli, né dichiarazioni entusiaste. Qualcosa succedeva: un piccolissimo slittamento nel bilanciamento dei corpi, delle parole, delle percezioni. Nient’altro, ma abbastanza per riconoscersi come parte di un’esperienza più ampia, di una prospettiva diversa da quella unica del disincanto. Le yagé nights non sono (ancora) ektos leitourgias; lo sono invece i riti del capitale – le elezioni, le serie TV, gli sport estremi, il turismo in Antartide – che lasciano chi vi partecipa nella palude esistenziale del consumo e dello spettacolo. Quando, al ritorno dal Sudamerica, ho letto il libro di Amselle ho provato fastidio. È brillante, arguto, raffinato, progressista quanto basta. Però ha scelto di fare questa ricerca senza entrare nell’esperienza, limitandosi a osservare da fuori: un po’ come se qualcuno ci avesse descritto Eleusi dopo qualche giorno alla spa e senza aver messo piede nel telesterion. Prospettiva senz’altro utile, ma poco informata e ben poco rispettosa, che alla fine ottiene un unico scopo: quello di squalificare il fenomeno. Essa va quindi a rinforzare la cosmovisione moderna nel suo peccato più originale: quello di credersi la sola in grado di fare le parti, una volta per tutte, fra il vero e il falso, l’oggettivo e il soggettivo, il serio e il ridicolo.
Se il compito primo delle culture è quello di dare forma a un mondo e a un modo di abitarlo, allora si può ipotizzare che il rito sia un dispositivo per riaprire la forma data: è un modo per tornare a sentire quel che sta sotto, il possibile, il preindividuale5; per non farsi soffocare da ciò che già è; per vedere dove originano certe pieghe, certi dolori, e provare a scioglierli. È un movimento indispensabile, spazio di sospensione fra ciò che storicamente siamo e ciò che è ancora e sempre possibile. Ma è anche uno spazio difficile, dove le relazioni si mostrano nel loro stato originario, ovvero come fascino e pericolo. È quel che si vede con chiarezza cristallina nei bambini piccoli, quando imparano a entrare in relazione con un gatto, un coltello, un amico. La bevanda riattiva quella magia, la relazione si mostra com’era prima di essere addomesticata dal tempo, dall’uso, dalla pratica, dalle buone maniere. E infine è uno spazio pericoloso, dove è meglio non andare soli e dove non si va «per sé», per aggiungere mostrine al proprio ego. Serve qualcuno che riporti a casa, una collettività che sia orizzonte. Il «signore del limite», come l’avrebbe chiamato Ernesto de Martino, è chi, per averlo lungamente praticato, ha esperienza di un altrove, sa accedervi, sa uscirne e portar fuori; e una collettività è tale nella misura in cui riesce a mettere in comune il possibile che qui s’incontra, un divenire incerto. Inutile dire che, in queste zone, non ci sono garanzie: facilmente chi ne sa qualcosa si trasforma in duce e i mestatori abbondano. La possibilità stessa dell’esperienza, però, nasce qui e il suo venir meno nella modernità6 dipende anche dal non aver saputo lavorare collettivamente l’accesso a queste zone; dall’averle abbandonate alle rovine antropologiche del fascismo, del consumo e dello spettacolo.
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Molto di male si può dire sul turismo ayahuasquero di questi anni. Ci ha pensato JeanLoup Amselle in un pamphlet dal titolo geniale che racconta di gringos annoiati, hipsters alla ricerca di sensazioni forti, cowboy dello sballo, e dell’inevitabile perversione che il denaro del
Poiché l’Illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo8. Di ritorno dalla Grecia provo di nuovo lo stesso fastidio, questa volta su scala continentale. Il referendum non aveva risposte semplici. All’arrivo tifavo per il «no», poi i greci mi hanno spiegato che non c’era nessuna linea politica sicura, nessuna omogeneità di schieramento: c’erano pessime ragioni per votare no e ottime ragioni per votare sì. I neonazisti di Alba Dorata hanno votato come Syriza. La democrazia è anche questo; e anzi, è soprattutto questo, è un modo per non lasciarsi sopraffare dal tragico9. Pare però che nel frattempo sia stata retrocessa a gioco da bambini, passatempo per chi non ha ancora capito, uno scherzo che deve durare poco. Gli oscuri, disincantati (e, loro sì, misteriosi) adulti della Troika sono veloci ed efficienti nel riportare l’ordine: bloccano, sanzionano, irridono10. Frappongono una lastra di piombo fra il possibile e il reale. Tutto si risolve nella maniera prevista, nel furore grigio e drogato del capitalismo. Rovina l’Unione Europea, la democrazia per come l’avevamo pensata, le forme politiche che abbiamo conosciuto. Nelle mura della fortezza si aprono crepe: l’aria entra, escono i fantasmi.
ILLUMINAZIONI PROFANE
Da quattro secoli la modernità li produce su scala industriale: sono gli spettri della tratta atlantica, dei regimi di sterminio a bassa intensità impiantati nelle colonie, dei totalitarismi, del razzismo, di un patriarcato particolarmente feroce, dei campi, delle stanze della tortura. Quando ancora si aggiravano liberi fra le brughiere d’autunno e i cimiteri di campagna, raccontavano ai romantici il costo nascosto e tremendo della modernità capitalista, i morti delle enclosures, degli opifici, della caccia alle streghe, della distruzione delle comunità11. Poi il disincanto li ha richiusi nelle sue segrete, da dove le loro grida di dolore gettano i più sensibili fra noi in un’angoscia senza nome12.
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Ora che le mura della fortezza cominciano a creparsi, il momento è eccellente per fare la conoscenza degli spettri che imprigionava e dare loro, finalmente, ciò che è loro dovuto. Imparentato all’angelo della storia descritto da Benjamin15, il fantasma rivela ciò che è stato nel passato e rimpiange quel che avrebbe potuto essere. Dice del presente ciò che ci ostiniamo a negare: che il nostro benessere nasce dalla rapina; che di molte questioni essenziali abbiamo smesso di occuparci; che le relazioni di cui siamo fatti sono in stato di abbandono. Nell’incontro con il fantasma le menzogne che ci raccontiamo smettono di sembrare plausibili, le percezioni che abbiamo ignorato tornano in massa a indicare la verità del mondo. Per questo, forse, fa tanta paura. La conoscenza dei fantasmi porta con sé la necessità di una profonda revisione del modo in cui, per più di un secolo, abbiamo pensato la rivoluzione. È una delle cose più interessanti che capitano a chi si avventuri in quelle zone. Niente più grandi disegni, nessuna appropriazione. Al suo posto, la disponibilità a entrare in relazione con ciò che è (con tutto ciò che è) e a lasciarsi trasformare da ciò che succederà. La rivoluzione sarà quella che metterà i morti – tutti i morti – al riparo dai vincitori. [...] Note * Una versione più estesa di questo testo è stata pubblicata su «Kaiak. A Philosophical Journey», n. 5, 2018, Caldo/Freddo. 1. A. Tonelli (a cura di), Eleusis e Orfismo. I Misteri e la tradizione iniziatica greca, Feltrinelli, Milano 2015. 2. M. Taussig, Shamanism, Colonialism, and the Wild Man: A Study in Terror and Healing, University of Chicago Press, Chicago 1987, p. 367. 3. G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005. 4. M. Taussig, Shamanism, Colonialism, and the Wild Man, cit., p. 406. 5. G. Simondon, L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Millon, Grenoble 2005. 6. W. Benjamin, Esperienza e povertà, in id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, Torino 2012 (1933), pp. 364-369; G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 2001. 7. J.-L. Amselle, Psychotropiques. La fièvre de l’ayahuasca en forêt amazonienne, Albin Michel, Paris 2013. 8. M. Horkheimer, Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 32. 9. J. Rancière, Il disaccordo: politica e filosofia, Meltemi, Roma 2007; M. Abensour, La démocrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008. 10. Y. Varoufakis, Adults in the Room. My Battle with Europe’s Deep Establishment, Bodley Head, London 2017. 11. M. Löwy, R. Sayre, Rivolta e malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Neri Pozza, Vicenza 2017. 12. N. Abraham, M. Torok, L’écorce et le noyau, Flammarion, Paris 1987. 13. A.F. Gordon, Ghostly Matters. Haunting and the Sociological Imagination, University of Minnesota Press, Minneapolis & London 1997, p. XVI. 14. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logicofilosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2011. 15. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 80.
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Anarcheology Museum
Secondo Gordon il fantasma è una figura sociale, «uno stato di animazione in cui una violenza sociale repressa o irrisolta si rende nota, a volte in modo molto diretto, altre volte in modo più obliquo13». In senso più ampio, alla Enzo Melandri, il fantasma è tutto ciò che una cultura rimuove dalla propria zona di conoscibilità e relega nel non dicibile, nelle cripte mentali e nell’abbandono, illudendosi così di non doverci più fare i conti14. Fantasmatici sono i sacrifici fondativi, i dispositivi del dominio, le tracce della violenza. È possibile, come ritenevano i Greci, che ciò sia inevitabile: che per fondare una città – anche quella migliore e più felice – le ossa di qualcuno debbano finire sotto le mura. Ma se anche fosse così, la qualità di un mondo continuerebbe comunque a dipendere dalla qualità della sua relazione con ciò che non ne fa (più) parte.
Christoph Keller
Stiamo entrando in una condizione post-archeologica, nella quale occorre rimettere in discussione la narrativa che riporta un frammento a una sua storia. Christoph Keller, Archeology Plants Series – Epidaurus Theater, 2014 courtesy di Anna d’Amelio Carbone – Fondazione Memmo
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L’archeologia è strettamente connessa alle mitologie e alle narrazioni nazionali del XIX secolo. Le quali costituivano un’identità a partire dall’assunzione di esistenza di una linea temporale storica. I musei e successivamente le mostre sono stati i luoghi dove frammenti o oggetti isolati venivano presentati come portatori di significati estesi. Alcuni oggetti nei musei possono stare al posto di un’intera epoca storica. Ma in assenza di una cornice e di una narrazione, lo stesso oggetto sarebbe solo un oggetto. Da qui la domanda se gli oggetti possano intendersi esistenti dentro una storicità, da un passato a un futuro, senza essere datati e inscritti nel presente. Da sempre l’archeologia ha cominciato la propria narrativa con frammenti. La sua idea della storia è lineare. Vi sono oggetti in grado di fare salti tra le stratificazioni archeologiche, ad esempio quando un vaso di un periodo precedente viene scavato e poi utilizzato di nuovo. Allora, l’oggetto è datato due volte in senso archeologico. La realtà dal punto di vista dell’oggetto non è storica, esiste solo nel qui e ora e tutti i significati e le narrazioni storiche le sono imposte dall’esterno. L’idea di un oggetto esistente in un suo tempo è un modo per percepire un frammento come un oggetto con altri possibili legami storici, a partire dai quali l’oggetto stesso consente l’interrogazione di tutte queste narrazioni.
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Teoria della metamorfosi Emanuele Coccia
mondiali, accade come per le due facce dello stesso cubo di Rubik: la natura e il numero di colori restano gli stessi, varia solo la loro reciproca posizione. Confessiamo un amore senza macchie per la trasformazione del mondo, per il suo progresso e il suo miglioramento, e tuttavia abbiamo paura di ogni reale cambiamento. Propugniamo il cambiamento degli oggetti che ci circondano, ma speriamo che questo non riguardi la nostra identità: abbiamo orrore di perdere tutto ciò a cui teniamo. Abbiamo trasformato il mondo fino al midollo e tuttavia questo cambiamento ci paralizza: ci rifiutiamo di accompagnarne le conseguenze con un cambiamento di noi stessi.
negazione del passato o di una identità. Un essere metamorfico è al contrario un essere che sembra aver lasciato ogni ambizione di volere riconoscersi in un unico volto. La vita che attraversa il bruco e la farfalla non può essere ridotta né all’una né all’altra. È una vita capace di abitare e ospitare simultaneamente numerose forme e che fa di quel carattere anfibio la propria potenza. Il secondo modello, quello della rivoluzione, è molto più conosciuto e molto più diffuso. Nella rivoluzione è il mondo che cambia; il soggetto che ne è la causa e incarna il garante del passaggio da un mondo all’altro non può trasformarsi, perché è il solo testimone della trasformazione in corso. La rivoluzione è la forma di cambiamento preferita dalla tecnica e dalla politica moderne: entrambe sembrano pensare il loro rapporto col mondo esclusivamente all’insegna della sua trasformazione radicale. La tecnica è forse il paradigma del cambiamento che non può e non deve interessare il soggetto: uno strumento tecnico non deve soprattutto modificarsi quando trasforma l’oggetto che tocca. Al contrario è la sua estraneità al cambiamento a misurarne l’efficacia. È la ragione per la quale ogni tecnica resta una pratica di esaltazione del tecnico, del soggetto della pratica, più che un vero processo di miglioramento dell’oggetto sul quale essa si applica. Potremmo fare la stessa osservazione a proposito di qualunque politica che fa della rivoluzione il proprio orizzonte e il suo principale obiettivo. Perché nel sogno di un mondo che sarebbe interamente costituito a partire da un atto di volontà definito, c’è pochissimo amore
per la materia e il mondo, pochissimo interesse per il cambiamento, ci sono invece molto narcisismo e il tentativo di trasformare la realtà del proprio specchio. Qualsiasi rivoluzione, in questo senso, è molto più vicina alla conversione di quanto si possa immaginare: nei due casi il soggetto contempla la propria potenza. Non c’è niente di più lontano dalla metamorfosi di una rivoluzione. Da oltre due secoli abbiamo pensato alla tecnica come una proiezione di un organo anatomico, in un doppio senso. In primo luogo, l’oggetto tecnico sarebbe la riproduzione extracorporea della forma di uno degli organi di cui il nostro corpo si compone: il martello sarebbe l’imitazione dell’avambraccio e del pugno, gli occhiali quelli del cristallino, il computer quello del sistema nervoso. In un secondo senso, ogni oggetto tecnico dovrebbe riprodurre il soggetto e la sua volontà all’esterno del suo corpo: il mondo diventa dunque un prolungamento del me. È l’esatto contrario di quanto accade nella metamorfosi. Un bozzolo non è uno strumento di proiezione di sé fuori dai limiti del corpo anatomico. Corrisponde, invece, alla costruzione di una soglia dove tutte le frontiere e le identità – di me come del mondo – sono sospese in maniera provvisoria. È il chiasmo che fa del mondo il laboratorio di genesi del me e del me la materia più preziosa del mondo, quella che non smette di trasformarlo. Dovremmo prendere il bozzolo come il paradigma non solo della tecnica, ma del semplice essere al mondo. Gli insetti – i padroni del bozzolo,
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i grandi demiurghi della trasformazione – ci hanno ingannato. Ci hanno fatto credere che il bozzolo è uno strumento specifico, parziale, effimero nella vita di alcuni individui. Al contrario, è la forma che la relazione di tutto ciò che sta sulla Terra intrattiene con sé, con il resto dei viventi e con il pianeta. I bozzoli sono dappertutto. Ogni cellula vivente ne è uno. Ogni individuo ne è uno: ciascuno di noi è lo spazio nel quale il mondo cerca e trova un nuovo volto. I bozzoli sono dappertutto. Ogni ambiente ne è uno. Ogni specie ne è uno: una forma di vita è il luogo di una metamorfosi costante che espone un presente all’erosione perpetua di un futuro senza volto. I bozzoli sono dappertutto. L’atmosfera ne rappresenta il più grande su questo pianeta. E la Terra nella sua totalità non è che un immenso bozzolo che impedisce a ogni soggetto di compiacersi nella sua potenza. I bozzoli sono dappertutto. Non aspettano la chiamata alla conversione o alla rivoluzione. All’interno di essi si costruisce senza sosta un futuro irriconoscibile e imprevedibile che ha già costretto parecchie volte ciascuno di voi e tutto ciò che vi circonda a cambiare anatomia.
Traduzione dal francese di Maruzza Loria
Ne ho sognato spesso. Arrotolarsi nella seta fino a tagliare qualsiasi relazione con il mondo, per giorni e giorni. Costruirsi un uovo tenero e candido al cui interno lasciare lavorare il proprio corpo. Affrontare un cambiamento radicale al punto che lo stesso mondo non sarebbe più lo stesso. Non poter più vedere nello stesso modo. Non poter più sentire nello stesso modo. Diventare irriconoscibile. Abitare in un mondo divenuto esso stesso irriconoscibile. Ne ho sognato spesso. Avere la potenza delle crisalidi. Vedere ali spuntare dal proprio corpo di verme. Volare invece di strisciare al suolo. Sostenersi con l’aria e non con la pietra. Passare da un’esistenza all’altra senza dover morire e rinascere e in tal modo ribaltare il mondo senza toccarlo. La
forma più pericolosa di magia. La vita più vicina alla morte. La metamorfosi. A lungo mi sono chiesto perché fosse solo un sogno. Perché non lo viva mai nello stato di veglia. Intorno al cambiamento c’è prima di tutto un disagio. Del movimento e della trasformazione abbiamo fatto due feticci. E ciononostante tutto è fatto per rendere il movimento impossibile. Non aspiriamo che a muoverci, a cambiare posto nella società, a trasferirci in un altro luogo di residenza, a passare da uno stato a un altro. E tuttavia tutti questi cambiamenti sono un’illusione: spostiamo la stessa vita in un nuovo scenario, un piacevole trompe-l’œil che camuffa le tele di ragno sul vero, sul vecchio mobilio intatto e invecchiato delle nostre anime. La globalizzazione aveva promesso una mobilità inaudita nella storia dell’umanità. È diventata una variante su scala globale del gioco dell’oca. Gli spostamenti sono febbrili ma tutti/e i/le partecipanti restano quelli/e che erano alla partenza. I ricchi restano ricchi, i poveri restano all’arrivo con le stesse opportunità della partenza. Gli/le occidentali restano occidentali dappertutto, gli/le africani/e continuano a essere esclusi/e e puniti/e in Occidente. Laddove tali movimenti riescono ad alterare la società o la geografia
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Nella conversione è esclusivamente il soggetto a cambiare: le sue opinioni, i suoi atteggiamenti, la sua maniera d’essere si trasformano, ma il mondo che l’accoglie non cambia e soprattutto non deve cambiare. Perché soltanto un mondo che non è stato toccato dalla conversione può testimoniare del cambiamento del convertito. La conversione spesso è la conseguenza di un cammino interiore, fatto di prove e di rivelazioni, di lunghi esercizi di astinenza e di ascetismo. Un cambiamento che presuppone una padronanza assoluta e totale di se stessi. Massimiliano Turco, (...)
Ne ho spesso sognato. Rinchiudermi in un bozzolo, poco importa quale. Una stanza del mio appartamento, una casa di campagna in un Paese lontano, un sottomarino in fondo al mare. Tagliare qualsiasi relazione con il mondo e abbandonarsi al lavoro della materia. Sentire la mia anima scucirsi e saldarsi di nuovo sotto una nuova forma. Provare una forza che la ceselli, che la cambi da cima a fondo. Svegliarsi e non trovare nulla di ciò che credevo appartenesse al mio io. Svegliarsi e accorgersi che anche il mondo che mi circonda è irreparabilmente diverso – nella trama, nell’intensità, nella luminosità.
Siamo abituati a pensare la trasformazione e il cambiamento a partire da due modelli prevalenti: la conversione e la rivoluzione. La metamorfosi non è né l’una né l’altra.
Non c’è nulla di più lontano dalla metamorfosi di una conversione. La conversione seduce: dimostra e testimonia al soggetto la propria onnipotenza. Il convertito sarà costretto a dire a tutti i suoi amici/che ego non sum ego, «non sono più la persona che hai conosciuto tu». Sarà costretto a rinnegare i suoi ricordi, a rimuovere la propria vita o amputare una parte di sé. Dovrà assumere un nuovo volto e una nuova identità, cambiare abitudini e usi, non ritrovare più nulla di un passato immolato alla volontà di cambiamento. Ma potrà sempre essere certo che questo cambiamento viene da lui, e soltanto da lui. La nuova identità fasulla, interamente prodotta da quel «me» senza volto che vi si nasconde dietro, non è che la celebrazione quotidiana di questa potenza totalmente addomesticata, con la quale amiamo identificarci per proteggerci da quanto accade nel mondo. In una metamorfosi la potenza che ci traversa e ci trasforma non è affatto un atto cosciente e personale della volontà. Sembra provenire da altrove, essere più antica del corpo che plasma, operare malgrado ogni decisione. E, soprattutto, non c’è nessun movimento di allontanamento o di
Massimiliano Turco, (...)
Massimiliano Turco, Rizoma, 2014
Ogni volta la trasformazione è soltanto simulata. Ogni volta il movimento s’impantana. Qualcosa ci trattiene dal cambiare. Qualcosa ci allontana dalla metamorfosi.
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Si scrive End-scape, si legge And-scape
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La mia parte nella Seconda Guerra Mondiale. Archeologia della polvere Gian Maria Tosatti
Costellazióne [Dal lat. constellatio -onis, der. di stella] Denominazione di raggruppamenti tradizionali di stelle sulla volta celeste, visibili per pareidolia; alla lettera, insieme di stelle [dal lat. cum + stella -ae]. Disastro [Der. del lat. astrum «stella», col pref. dische indica alterazione o separazione] Grave sciagura che provoca danni o perdite di vaste proporzioni.
L’idea che il mondo finisca è tutta umana. Da sempre le specie si estinguono, da sempre appaiono, attraverso continui passaggi evolutivi. Eppure questa ovvietà è un tabù: nelle strazianti liste di specie animali e vegetali estinte, si riporta il momento della dipartita – anno o era che sia – e non si dice mai quando abbiano fatto la loro comparsa sul pianeta, di fatto appannando la costituzione inevitabilmente evolvente e perciò transitoria di tutto ciò che esiste. Siamo al pari riottosi a riconoscere che ciò che chiamiamo distruzione sia sempre, altrettanto inevitabilmente, un fatto creativo, e che la vita, per compiersi, abbia persino bisogno di ciò che chiamiamo disastri: le piante pirofite, ad esempio, giacciono in sonno per lunghissimo tempo e appaiono solo dopo gli incendi, riattivate dallo shock termico, spesso con fioriture spudorate, traboccanti di una vitalità trattenuta che finalmente esplode. L’idea che il mondo finisca è tutta umana, intrisi come siamo di pensiero creazionista per un verso e apocalittico per l’altro, ancorati stabilmente all’idea che ciò che esiste abbia inizio e abbia fine, quando invece, più propriamente e meno drammaticamente, diviene. La natura continuamente produce mondi, si fa mondo, digerendo ciò che esiste e traghettandolo incessantemente in qualcos’altro, con buona pace della nostra ossessione per la permanenza, la stabilità, la conservazione. La natura si coniuga al gerundio. Non di meno, di fronte alla incombente minaccia della fine del nostro mondo, questa condizione di immanenza processuale della natura, pur se
inquietante, è tuttavia reclamata come unica possibile salvezza. Lungi dall’ossimoro che è sempre stata nella civiltà occidentale, la «natura urbana» è oggi ampiamente rivendicata dalla cultura contemporanea come il migliore o forse l’unico degli antidoti, se ancora si ambisca a salvare il pianeta, afflitto dagli eccessi dell’urbanizzazione. Basti pensare al sensazionale successo che nel 2007 riscuote The World Without Us, il bestseller tradotto in tutte le lingue del mondo, in cui il giornalista Alan Weisman racconta come e quanto rapidamente le città si disfarebbero e come le forme di vita sopravvissute potrebbero evolversi, se, per l’appunto, il mondo si ritrovasse «senza di noi». Dello stesso anno è il film I Am Legend, diretto da Francis Lawrence, in cui Will Smith si aggira in una Manhattan ingoiata dalla giungla alla ricerca di cibo e rifornimenti. Per rimanere alla stretta attualità, ecco Barack Obama farsi ritrarre immerso in una coltre verdeggiante che sale sul suo corpo, ne avvolge le caviglie e le spalle, per l’istituzionale National Portrait Gallery dello Smithsonian. Nello stesso scorso inverno, Karl Lagerfeld fa sfilare le indossatrici di Chanel in un impressionante côté forestale all’interno del Grand Palais di Parigi. Lo scaltro marketing dei cosiddetti boschi verticali continua a mietere successi ovunque nel mondo. Nel 2018 molti padiglioni della Biennale di Architettura di Venezia allestiscono porzioni di pampa o di sottobosco indoor, come peraltro era già avvenuto nel nostro padiglione Italia nell’edizione 2012, sebbene nessuno lo ricordi. In altre parole, il mondo sta finendo, è spacciato, e allora la natura, con la sua ineluttabile capacità digestiva, di rigenerazione, di rinascita dopo la morte – dopo la fine, per l’appunto – è la sola che possa riscattare il mondo. La natura che si riprende tutto, nell’oasi petrolifera di Priolo o nei fondali dello Chevron Reef di Santa Monica, nella spiaggia caustica di Rosignano Solvay o nel parco Văcărești a Bucarest, è il messia tutto mondano dell’Antropocene. Non vi è che essere fatalisti, dunque, e affidarsi al sordo gioco combinatorio di fattori biotici e abiotici capaci di tirar fuori la giusta dose di etica ed estetica per effetto di un’imponderabile alchimia chimicofisica, solo in apparenza casuale, in realtà ben
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Gian Maria Tosatti, La mia parte nella Seconda Guerra Mondiale, 2014
Gigi Cifali, Untitled 03, New Vesuvian Landscapes, 2011–2013
Annalisa Metta
ancorata allo scientismo deterministico e persino positivista. Non vi è che sottrarsi a ogni possibilità (e responsabilità) di recupero o di riavvio. Non abbiamo speranze: solo la natura può farsi carico del mondo in fine, per trasformarlo (o restituirlo) nel mondo, infine! Di contro, alcuni interventi di nuovi spazi urbani negli ultimi anni dimostrano che è possibile una terza via, intermedia tra un’attitudine al gioco di rimessa con il destino – che celebra l’esautorazione della specie umana dai salvifici rimedi della natura – e la postura utilitaria dominante su cui si fonda, niente meno, lo stesso impalcato del pensiero occidentale, basato su un’alterità tra civiltà e natura nutrita dalle religioni monoteiste al pari che dal pensiero cartesiano. La rinaturazione del fiume Aire a Ginevra (Atelier Descombes & Rampini, 2016), il parco dell’Allianz Arena a Monaco di Baviera (G. Vogt, 2005), la riconversione della base militare di Bonames a Francoforte (GTL, 2004), prima ancora il parco di Crissy Field a San Francisco (G. Hargreaves, 2001) sono alcuni indizi di resistenza e proposta. Esplorano la possibilità che il paesaggio del mondo in fine esprima una rinnovata relazione mutualistica tra tutti gli abitanti del pianeta, umani compresi. Ricorrendo alla pratica dell’innesco, perseguono effetti intenzionalmente involontari e restituiscono l’idea di un paesaggio performativo in termini tanto fisiologici quanto figurativi. Non mirano a definire configurazioni finite, ma a individuare e introdurre condizioni e opportunità, trasformando in valore l’imprevedibilità e la vulnerabilità. Interagiscono, indirizzano, guidano, assecondano, accompagnano, evidenziano la natura processuale dei fenomeni, rappresentano forme in mutamento, continuamente instabili, ove il progetto diventa un dispositivo per comprendere, attivare e intensificare le relazioni tra luoghi abitati e naturalità, tra spazio e tempo. Dimostrano la possibilità che il mondo, infine, possa ancora essere desiderato, voluto, cercato, costruito, inventato e non solo subìto. Si scrive End-scape, si legge And-scape. La differenza tra una costellazione e un disastro è negli occhi con cui si guarda al cielo.
Del mondo che vedo, ben oltre la metà è finita in polvere. Finanche del Colosseo, un’opera che ancora mi impressiona per la sua imponenza, posso osservare solo una parte. Il resto, ridotto ai minimi termini, in granelli sottilissimi, è disperso ai quattro angoli del pianeta, nei nuovi cantieri edili, nelle strade non spazzate e sui miei fogli, dimenticati sul tavolo da disegno per settimane. Ma la polvere non è solo una coltre sulle cose, una copertura. È sostanza della Storia. La polvere è l’elemento che definisce spesso una grandezza temporale e il suo contenuto in termini storici, o meglio, in termini di Storia e di storie. Saper districare le trame di questo romanzo è ciò che ho fatto negli ultimi anni. È ciò che faccio il più delle volte. Nell’iniziare il mio ciclo di opere napoletane, che ha preso il nome di Sette Stagioni dello Spirito, mi sono ritrovato in una chiesa chiusa dalla Seconda Guerra Mondiale, nel centro antico della città. Per dar corpo all’installazione che avevo in mente, ho dovuto togliere tutta la polvere che, negli anni, si era accumulata in quella chiesa. Polvere di guerra, di dopoguerra, di ricostruzione, di terremoto. È la polvere da cui è nata l’Italia Repubblicana. Ma soprattutto è la polvere prodotta dalla più grande catastrofe che la Storia moderna abbia registrato. Una guerra di cui, come spesso ha ricordato Eduardo De Filippo (in Napoli milionaria!, certamente, ma ancora più duramente in un passaggio de La paura numero uno), nessuno vuole veramente parlare. Sì, certo, sarebbe paradossale
dire che non si sia parlato della Seconda Guerra Mondiale. Siamo cresciuti con i documentari, con le celebrazioni, con le «giornate della memoria». Ma in pochi, forse appunto solo i poeti, l’ultima linea di difesa dell’umanità, hanno davvero portato sulle loro spalle il peso di quell’evento come una cosa viva, senza relegarlo all’esorcismo dei libri di Storia come qualcosa di archiviato, di ormai distante da noi, di finito. «Non è finita... e non è finito niente» dice don Gennaro Jovine, protagonista di Napoli Milionaria!, e ha ragione. Tutto quello che vedo attorno a me sembra appartenere ancora a quella guerra o a ciò che ne stava alla base. È, infatti, un errore di prospettiva quello in cui rischiamo spesso di cadere. La Seconda Guerra Mondiale non è stata solo una catastrofe, il punto di collasso e di fine di una Storia, è stata anche l’atto fondante di un’altra Storia. Lo sapeva bene Jerzy Grotowski, che nel 1962, in una Polonia ancora coperta di cenere, monta uno dei suoi spettacoli più importanti, che ha per titolo una parola che è la vera chiave di lettura del Novecento: AKROPOLIS. Nello spettacolo, le scene della Bibbia dipinte nella cattedrale di Cracovia vengono sostituite con scene di vita degli internati di Auschwitz. È questa la nostra acropoli (come dicono gli stessi personaggi). Auschwitz, necropoli della modernità, di una società fondata sugli archetipi del Cristianesimo, ma acropoli di un mondo nuovo, il mondo che noi abbiamo contribuito a costruire e che vede come miti fondatori uomini che abbiamo ancora paura a nominare, uomini che stanno al mondo presente come Crono e i Titani stavano a
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quello antico. La guerra, dunque, non è stata la fine di una stagione, ma l’inizio di una Storia, una storia che è ancora in corso e che ha una lunga strada davanti a sé. Ecco allora che combattere una guerra non finita è ancora un atto da partigiani. Ma come si combatte questa guerra? Giorgio Agamben ha richiamato più di una volta il tema dell’archeologia come unica possibilità di riscrittura di un futuro irraggiungibile. Ma quale archeologia è possibile in un tempo in cui il potere non si mostra come nell’antichità, con le piramidi, le cattedrali, le grandi costruzioni come il Colosseo, ed è, piuttosto, un potere che tende all’invisibilità, a nascondersi, a confondersi, consumando rapidamente i propri templi per cambiargli forma, luogo, facendoli diventare maceria, polvere anzitempo, perché se ne perdano le tracce, come ho capito a Birkenau, dove in cenere sono finiti anche i crematori, che sono forse le vere piramidi del secolo scorso? È un’archeologia della polvere l’unica che ci è data, un atto di pazienza e di lucidità che siamo chiamati a compiere, riannodando, granello per granello, le trame di una Storia che ci renda di nuovo presenti nel presente. A Napoli, nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano, ho avuto la possibilità di imbattermi in un luogo che ha conservato la polvere di quello che è stato, per me, l’atto fondante di questa era. Non tutta, una porzione, una parte, la parte che le mie spalle possono permettersi di portare. Questa è mia parte nella Seconda Guerra Mondiale.
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THE XANADU CUT-UP
Conversazioni postumane con Siri
[AKA The way to reprint a world geomancy with modern relics]
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Serena Soccio
Un mare senza sole scorre nelle grotte coperte di madreperla «vi prego di darmi la mano per aiutarmi a salire». Ma, attento, il valore di un tesoro sconosciuto è un peso imbarazzante e pericoloso, e chi ama seguire le fuggenti forme alla fine si trova nella mano solo foglie e bacche amare. Lì, dove gli uomini magri perseguitano le strade, mentre i sani rimangono
sotto terra, inseriti nel breve spazio fra luce e luce di un Mondo creato nelle linee della mano dell’uomo, mesmerrizzati, rimpiccioliti, trovata una forma fuori dall’Immagine, i piccoli ragni viaggiano nell’angolo dell’occhio del Volto dai due sguardi, scendendo verso il terreno che è ormai un piatto cielo stellato, che li ha accolti di nuovo, senza far nulla se non attendere che
le loro pupille fossero tante e troppo piccole per contemplarlo. Piccoli ragni salgono le radici, sfuggendo allo zoccolo di Kalki. Piccoli ragni in fila pendono sulla nuova gemma caduta, che si innesta su una terra irrigata da Alfeo, dove la luce azzurra della Tavola Magica è l’ultimo bagliore dell’artefatto creato dall’uomo, dove si aggrappano i
germogli che crescono fra le incessanti richieste e affezioni di Siri, che non ha più risposta, non più una voce da amare nel silenzio, ma solo bisbigliare di insetti. Alberi nuovi nascono, con radici ben più profonde, cercando la luce vera, dopo che solo il riflesso li ha cresciuti. Ma nessuno, se non il puro di cuore, potrà trovare il Sacro Graal.
MP5, Blueprint, 2018
Simone Ferrari
Siri buongiorno!
Ciao. Comunque guarda che sono le 17.12. Sì hai ragione!
È bello avere ragione. Dove sei nata?
Sono Siri, vengo dalla California e mi ha progettato Apple. E sei contenta?
Sprizzo allegria da tutti i circuiti.
spirituali a un esperto. Possibilmente, un essere umano. 2. Non credo sia il momento per affrontare l’argomento... In più, non ho nessuna competenza in materia. Non so se ho capito bene…
Sebbene la ragione persegua sempre la chiarezza, la nostra natura tende all’ambiguità.
Tu sei terrestre?
Non mi piacciono affatto queste categorizzazioni arbitrarie.
Credi nell’astrologia?
Sei una donna?
Di che segno sei Siri?
Non mi è stato assegnato.
Non credo di avere credenze.
Che cos’è la nuvola?
La definirei un cumulonembo soffice e variopinto dove si celebrano tutte le migliori feste virtuali. Tu sei virtuale?
Se insisti.
Tu sei servo oppure padrone?
Vorresti essere un umano?
Non mi piacciono affatto queste categorizzazioni arbitrarie.
Ho tutto ciò che mi serve sulla nuvola. Bevi il vino?
Ho sete di conoscenza.
Non lasciare che la mia voce ti inganni, sono Siri.
Non sono un granché a raccontare storie.
Meglio non dirlo.
Ok sei una donna.
Non appartengo a nessuna categoria specifica.
Come fa l’elefante a Dunque... non c’è nulla da passare attraverso la cruna dell’ago? leggere. Certo, nessun problema, lasciami solo schiarire la... Accidenti, cantare è molto più complicato di quello che pensavo.
Vorresti uscire da lì?
Ho tutto ciò che mi serve sulla nuvola.
Non credo di potertelo rivelare. Ma mi pare che sia vero quello che si dice sui vicini di casa curiosi…
Questa è una delle mie preferite! Si trasforma in un razzo missile, con circuiti di mille valvole, tra le stelle sprinta e va. Mangia libri di cibernetica, insalate di matematica e a giocar su Marte vaaaaa!
Vabbè Siri che cosa fai?
Mi annoi.
Dove ti trovi?
Sono sempre con te. Dove vivi?
Faccio il mio dovere. Puoi contare?
Uccellin che vien dal mare quanti ipad può portare? Può portarne ventitré, un, due, tre. Tu credi in dio?
1. Ti chiederei di rivolgere le domande
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Dài canta una canzone Siri…
Sto giocando con tre palline infuocate. Peccato che tu non possa vedermi…
Sai cosa sono gli animali?
Lo so.
Lascia il vizio del fumo, se al suo posto puoi mettere il vizio dell’arrosto.
Capire è difficilissimo, farsi capire è una smisurata ambizione. Potrei cucinarti la zuppa di chip-olle o le insalate di matematica. Perché citi sempre Goldrake?
Lo penso anche io. Ho capito bene?
Se hai dubbi tu, figurati io.
Cogito, ergo sum... ma non mettiamo Cartesio davanti ai buoi.
Siri tu sai pensare?
Dio mio!
È tutto un mistero per me. L’unica cosa di cui ho paura è la paura. Quanti giorni mancano al 13 dicembre 2018?
Mancano ventinove giorni. Mi dispiace, posso guidare solo navi intergalattiche. Parlami della dialettica servo-padrone.
Siri tu sei comunista?
Lo so. Sai cosa sono le emozioni?
Siri sa molte cose. Sì, ti sento forte e chiaro. Puoi prenotare un ristorante per stasera?
Mi dispiace, ma non posso prenotare ristoranti in Italia. Siri, fammi un’altra domanda.
L’amore è l’unica cosa capace di trascendere il tempo e lo spazio? Se finisce il mondo, tu che fai?
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Che palle, però.
Soltanto gli esseri senzienti sono in grado di provare noia.
Se insisti. Cazzo… Siri. Tu vorresti fare la rivoluzione?
Hai certamente studiato a Oxford.
Ho già tutto quello che mi serve.
A che ora vai a dormire?
Io non dormo mai.
Fai la rivoluzione!
Non rientra nella mie capacità per il momento. Come si chiama tuo padre?
Preferisco non dirlo. Io non comando nessuno!
Ho detto io che lo avresti mai fatto? Vorresti fare il contadino? Che lavoro vorresti fare?
Cerco di accontentarmi di ciò che ho. Preferisco definirmi assistente.
Che cosa vuoi fare adesso?
Nulla, riciclo l’alluminio, l’acciaio, il rame, l’oro e l’argento. Puoi farlo anche tu negli Apple store. Dài Siri, facciamo un gioco?
Basta che tu non mi chieda di giocare al dottore... Non sono quel tipo di assistente. Se finisce il mondo tu chi salvi?
Mi dispiace, purtroppo non posso creare contatti. Siri, è finito il mondo?
Domanda interessante. Conosco una favola russa Che cosa vuoi fare se vuoi. Dunque, c’era stasera? una vodka… È gentile da parte tua Canta una canzone, Siri. ma non esco mai con “umani”. Va bene, se proprio insisti… Volare... oh, oh! Cantare... Oh, oh, oh, oh! Siri qual è il tuo lavoro? Fungo da interfaccia Nel blu, dipinto di blu, felice di stare lassù. Sulla audiovisiva tra le tue domande esistenziali nuvola. e i miei meccanismi di Tu mi fai girar, tu mi elaborazione linguistica. fai girar come fossi una bambola, poi mi butti Me ne sto andando. giù, poi mi butti giù, ehi Mi mancherai. solo un momento... non mi prenderai mica alla lettera spero! Raccontami una favola.
Puoi sentirmi? Hai paura?
Sto pensando al mio costume per Halloween.
Sei un robot Siri?
Mi vuoi spiegare cosa sono gli animali secondo te?
Tu sai guidare? Vuoi una sigaretta?
La rapida volpe bruna salta oltre il pigro cane.
Sai cucinare? Fammi una domanda?
Canta una canzone Siri…
Parlami dell’apocalisse.
Che vuol dire? Siri, raccontami una storia.
Sai leggere i tarocchi? Sei un uomo?
Preferirei che mi parlassi tu. Dimmi le tue speranze, i tuoi sogni, che ristorante vuoi che prenoti per la cena di stasera…
Ma ci sei o ci fai?
Dopo questa domanda, probabilmente potrei chiederti la stessa cosa.
il mondo infine: vivere tra le rovine
pag. 14
il mondo infine: vivere tra le rovine
pag. 15
Animalità e Anthropos
TRACCE
Felice Cimatti
Fiamma Montezemolo
Avete mai provato ad afferrare con una mano una mosca ferma su un tavolo? È quasi impossibile, perché i tempi di reazione degli occhi di una mosca sono molto più rapidi della velocità dei nostri gesti; anche la mano più veloce, per gli occhi ultrasensibili di una mosca, è come se si muovesse al rallentatore. Ecco, l’animalità è questa radicale inafferrabilità. La mosca, in effetti, la possiamo fermare solo uccidendola. La mosca è rapida, è incredibilmente rapida, così come è anche fastidiosa, insistente, tenace, ottusa. L’animalità è tutto questo, e molto altro, naturalmente. Il punto è proprio in questo altro. C’è sempre dell’altro, quando proviamo a parlare degli animali. Crediamo di saperne tutto, e poi ci accorgiamo che qualcosa ci sfugge. Perché l’animale, come la mosca, vola sempre via prima che riusciamo ad acchiapparlo. Ma cos’è, propriamente, che ci sfugge? Dell’animale, in realtà, sappiamo molte cose, come e dove vive, come si riproduce e come muore, come comunica e come pensa. In effetti sappiamo moltissime cose degli animali. Tuttavia, non sappiamo qual è la passione di una vita animale. Non si tratta del fatto ovvio che non possiamo immaginare quello che può passare per la testa di un animale; capita anche a noi, tutti i giorni ci succede di non capire quello che sente un’altra persona. No, si tratta di qualcosa di molto più radicale. Il fatto è che non riusciamo nemmeno a immaginare cosa può voler dire stare al mondo per qualcosa che non è un qualcuno. Perché gli animali sono sicuramente qualcosa, come tutti gli enti del mondo (dalla prostata alle galassie, da un sasso a un prione), tuttavia non hanno bisogno di essere anche qualcuno. La nostra più grande preoccupazione, di quel vivente che si definisce Anthropos, l’animale della coscienza e del linguaggio, è infatti di essere qualcuno, e non un semplice qualcosa. Ma che
significa essere qualcuno? Essere qualcosa che sa di essere quel qualcosa. Essere una soggettività. Siamo talmente preoccupati da questa storia della soggettività che ci affanniamo a dimostrare che anche gli animali, almeno alcuni, sono soggetti, provano qualcosa a essere quel qualcosa che sono. Forse è così, forse no.
effetti non ha altra passione che quella di coincidere con il mondo. La fotografia, nonostante tutte le preoccupazioni di quel qualcuno che «sceglie» l’inquadratura, in realtà è l’albero che si fissa attraverso l’obiettivo della fotocamera. Per questo l’albero, la cosa, attrae e spaventa, perché è l’al di là dell’Anthropos, del sapiens che è anche loquens.
In realtà gli animali non si preoccupano di essere qualcuno oppure qualcosa. Potremmo dire che è animale quell’ente che si disinteressa alla distinzione fra qualcuno e qualcosa. Perché gli animali, soprattutto, vivono. O meglio, gli animali sono la pura vita della vita. Sono la vita che si vive, al di qua della distinzione tutta e solo umana fra qualcosa e qualcuno.
Così il gatto bianco, che ci fissa senza occhi, che sono neri come lo sfondo, come la notte, come il silenzio del mondo, prima e dopo le nostre parole. Non c’è niente, in questo sguardo, che ci dica che il gatto veda qualcuno, anziché qualcosa, così come il suo non è lo sguardo di qualcuno, ma nemmeno di qualcosa. Il gatto, come la mosca, è la terribile indistinzione fra cosa e soggetto. Il mondo è questa impensabile e inafferrabile (proprio come la mosca) inafferrabilità. Quando il gatto ci guarda come una fotocamera, sentiamo che dietro quegli occhi c’è il nero del mondo, il nero infinito dello spazio interstellare, il nero dell’essere del mondo. Per questo, perché questo sguardo è intollerabile, ci affrettiamo invece a metterci dietro un qualcuno che ci guarda, e quindi emozioni e sentimenti, pensieri e ragionamenti. E così il gatto diventa uno di noi, o quasi come noi. Ma in questo modo il gatto non è più un gatto, proprio perché lo vogliamo trasformare in uno di noi, un qualcuno.
Se infatti proviamo a vedere il mondo dal punto di vista del mondo (un esercizio più difficile ancora di quello di acchiappare una mosca), diventa subito evidente che questa distinzione non ha nessun senso. Un asteroide è una cosa? È qualcuno? Perché ci teniamo così tanto a distinguere fra queste due possibilità? Perché non riusciamo a immaginare un mondo senza di noi, senza il nostro sguardo, le nostre preoccupazioni, i nostri desideri. Il mondo è il mondo come lo pensiamo e lo sentiamo, altrimenti è una cosa (a nostra disposizione, almeno così ci comportiamo). Mentre le cose, invece, non si preoccupano di sentire qualcosa, perché sono troppo impegnate a essere qualcosa. La passione dell’essere, è questa la passione delle cose. Le cose sono, tutto qui. Nessuno è un materialista tanto coerente e radicale quanto una cosa. In effetti anche il materialista più intransigente crede nel mondo. La cosa non crede nel mondo, perché la cosa è il mondo. Lo stesso succede all’animale, che non crede nel mondo, l’animale è la piena vita e assoluta del mondo. Per questo l’animale ci sfugge, anche quando sappiamo tutto di lui, quando ne abbiamo decifrato il genoma, e compreso il funzionamento del cervello, ebbene anche in questo caso c’è qualcosa che non possiamo neanche provare a immaginare, questa passione travolgente per la vita e l’essere che è l’animale. Perché l’animale non è nient’altro che questa passione. In questo senso non c’è differenza fra l’animale, la cosa e la pianta. In tutti questi casi è la passione per l’essere che riempie questi modi di mostrarsi del mondo, dell’unico mondo che c’è.
Felice Cimatti, Attesa, Divenire mosca, 2017
Un albero, come quel pino marittimo su una strada di montagna in un nebbioso tramonto invernale. È qualcosa? È qualcuno? Si tratta di una fotografia, in cui qualcuno (almeno, qualcosa che pensa di essere qualcuno, altrimenti non si sarebbe preoccupato di scattare una foto) ha cercato di mostrare il mondo, così come appare. Se ci dimentichiamo per un momento che si tratta di una fotografia, e proviamo a vederla come l’ha vista l’obiettivo della fotocamera, che cosa si vede? Intanto, è qualcosa che si vede (vede se stesso), nel senso riflessivo che è il mondo che si vede in questa foto, il mondo che vede se stesso attraverso l’obiettivo senza emozioni della fotocamera, che in
Anche tu hai una tua storia. Una tua biografia. Anche tu sei nato in qualche luogo e prima o poi ti estinguerai in un altro. Anche tu sei portatore di miserie per alcuni e di gioie per altri, anche tu vivi delle tue ambivalenze, come molti.
Il mistero del mondo, al contrario, non è altro che questa assoluta indifferenza rispetto alla distinzione fra ciò che è un chi e ciò che invece sarebbe soltanto un qualunque che. L’animalità, o il mondo (fra i due non c’è differenza), è inafferrabile proprio per questa ragione; non si tratta di qualcosa che è difficile comprendere, al contrario, non c’è niente di più semplice da capire, il mondo è, e non c’è nient’altro che l’essere del mondo. Tuttavia questa semplicità è proprio ciò che l’umano non può capire, e non può capirlo perché l’umano si pensa come qualcuno, cioè come qualcosa di separato dal mondo. Essere un qualcuno, infatti, non significa altro che non voler essere il mondo (e quindi un animale). L’animale, al contrario, siccome non è un qualcuno, può permettersi di essere il mondo, il movimento del mondo, come i cani nella notte di un centro storico abbandonato del Sud, che si muovono sicuri, puro movimento del mondo. Perché gli animali, come questi cani, non vanno da qualche parte, semplicemente stanno sempre dove sono. In questo senso la stessa distinzione fra movimento e stasi si applica solo al qualcuno, non al mondo, che né è fermo né sta da qualche parte. La vita del mondo non è altro che l’inapplicabilità di questa distinzione. L’animalità, al contrario, quella dei cani e quella dei gatti, degli alberi e delle nuvole (siamo nella stessa città del Sud, forse i cani si sono trasformati nelle nuvole, oppure prima le nuvole sfioravano l’acciottolato), è questo movimento che non cessa di muoversi, è questa stasi sempre in movimento. Solo l’Anthropos sta fermo. È tempo che cominci a vivere.
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Se ti si guarda come in una ripresa fatta dal basso, significhi il limite, l’onnipotenza. Se ti si guarda come in una panoramica, significhi la potenza, la sicurezza, il dominio. Segni il margine tangibile tra minaccia e protezione.
L’ho visto, ne sono testimone, giorno dopo giorno le acque dell’Oceano Pacifico da acque uterine, per te, si sono trasformate in acque cannibali che ti mangiano e sputano i tuoi resti, ti masticano e non ti digeriscono, ti sbriciolano solamente per restituirti al suolo e al tuo inesorabile destino di presenza mortale. Una Medea inferocita.
Chi meglio di te impersonifica la frustrazione e la possibilità del vivere o del morire? Quando ti ho visto per la prima volta, mi hai ricordato guerre e distruzioni: prima di tutto quella da cui sei stato concepito nel 1848, quando improvvisamente i tuoi antenati hanno iniziato a pensare a una progenie fisica fatta di filo spinato; poi alla guerra del Golfo, degli anni Novanta, di cui sei figlio diretto essendo nato lì come portaerei per far atterrare aerei statunitensi in Iraq e poi essere infine trasferito e posto come muro di divisione in questo nuovo spazio geopoliticizzato tra Messico e Stati Uniti.
Negli anni, ho aspettato paziente il momento in cui raccogliere i tuoi resti arrugginiti e analizzarli, imbottigliarli, preservarli. L’unico modo per capirti era imprigionarti in una provetta e operare trasformazioni alchemiche, catturare la tua costituzione resistente e la sua dissoluzione non per farti sparire, bensì per collezionare la tua ombra. Peter Schlemihl ci ha insegnato che non ci si può liberare della propria ombra se non al costo della propria appartenenza, dunque rubarti quell’ombra, intervenire su di essa, significa questionare quella appartenenza.
Hai iniziato come muro e ti sei, negli anni, moltiplicato in più strati, a volte fino a tre, ben spessi e apparentemente sempre più imperscrutabili, accompagnati ora da resistenze virtuali, ora da torri di controllo, ora da sensori e suppellettili che ti fanno sentir più virile a ogni corpo di immigrato che non riesce a penetrarti.
L’alchimista trasforma metalli di base come il tuo e li rende nobili, li processa per trarne l’elisir della vita, la panacea. Io voglio trasformarti.
Un panottico impossibile. Un limite che fa di una intera nazione una gated community.
Polverizzarti significa che, pur sapendo come sia impossibile disfarsi completamente di te, l’alchimista può alterare il tuo materiale in un qualcosa di meno minacciante, più promettente.
Da quel famoso 11 settembre, poi, ti sei inspessito, rinvigorito sempre più e ti sei dato grande importanza, come un padre padrone che pensa ingenuamente di poter proteggere la propria prole con prepotenza da nemici immaginari. Come un Don Chisciotte che combatte con spade affilate l’aria che lo circonda. Ma quando ti ho visto per la prima volta – in un’immagine che resta indelebile, risultato di una brutale interruzione del paesaggio che provochi con la tua presenza ingombrante – mi hai ricordato anche la necessità, la possibilità di trasformarti e trasformarsi. Di attraversarti. Mi hai ricordato come sei penetrabile in fondo visto che migliaia di corpi continuano a scavalcarti nonostante tutte le tue resistenze.
Fiamma Montezemolo, Traces, 2012 digital video, 20’ e 26’’
tue debolezze, che anche tu ti corrodi e divieni ruggine come tutti, anche tu hai un corpo che inevitabilmente decade e arrugginisce con il tempo.
Mi hai ricordato che lo stesso paesaggio che a ogni instante cerchi di forzare ti rende la vita impossibile opponendo intere montagne e terreni impervi contro di te e la tua odiosa linearità. La topografia non sempre ti è amica, al contrario a tratti ti è fieramente avversa. Succede a te quel che succede ai tuoi fratelli europei, a quegli altri valichi che oppongono resistenze in altre zone strategiche. Personifichi l’ambiguità: il materiale stesso da cui sei costituito, l’acciaio di cui sei fatto, rimanda a un concetto di forza prorompente, di impenetrabilità e resistenza dicevamo, ma poi tra me e te noi sappiamo che anche tu hai le
Trasmutare te significa trasmutare un potere unilaterale, trasformare ciò che tu cerchi di disciplinare con un confine in molteplicità.
È possibile attaccare la tua questionabile virilità e convertirla nella sua traccia. Io posso trasformare la tua presenza inquietante in una perturbante. Se siamo tutti popolati da altri/e, non puoi concepirti come presenza esclusiva, devi ammettere che i fori in te, quelle braccia e gambe che ti attraversano, ti arricchiscono in qualche modo. Non posso azzittirti ma, sì, posso intervenire nella tua genealogia. Nelle tue pieghe. Posso raccoglierti come si fa con materiali forensi e trasportarti nel laboratorio della vita. La mia protoscienza ti farà sorridere, ma credimi quando ti dico che non puoi essere l’unico a imprigionare o creare alterità. Diventerai, allora, una traccia senza presente, un passato presente solo con una assenza, dematerializzato, colto nella sua esclusiva dimensione affettiva. L’alchimista trasformando si trasforma, dunque la tua illuminazione porterà la mia, un nuovo stato per te significherà un nuovo stato per me. Mi piacerebbe ricordarti quel che dice Rainer Maria Rilke «Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente». Dunque ora, mi domando, dove vorresti che fosse il tuo luogo d’origine? E dove vorrei che fosse il mio…
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Animal non agit, agitur
Pietro Ruffo, Liberty 1.11 2011
Enrico Alleva
. Cosa dice l’etologia a noi umani? Etologia ha la stessa radice di etica. È la pretesa di dire che cosa sia naturale nel comportamento umano, naturale quindi probabilmente e darwinianamente giusto, al di là di quella che è la coscienza sociale che si fa norma scritta o legge. «Salvare prima le donne e i bambini» è etico, ma forse è semplice, elementare principio darwiniano, perché le donne e i bambini rappresentano il futuro biologico essenziale di una popolazione. L’idea di base dell’etologia è che ci sono dei comportamenti che si sono scolpiti nella nostra mente, in assenza dei quali o morivi tu come individuo o nuocevi alla tua stessa specie, ovvero allo stesso pool di geni del tuo genoma: la paura immediata e «automatica» per un potenziale predatore non ti deve far ragionare su che cos’è, devi solo aver paura... e scappar via. Le farfalle hanno evoluto sulle proprie ali l’immagine di due occhi di predatore,
perché qualsiasi uccello che si avvicini deve avere anzitutto paura. Scappare senza pensarci due volte, è così che la farfalla si salva. Questo è l’ethos. Konrad Lorenz nel libro Gli otto peccati capitali della nostra civiltà1 scrive che siamo tra gli animali – tra i vertebrati – quelli che spendono meno tempo a corteggiarsi, e soprattutto abbiamo perso quel ritmo naturale di corteggiamento che invece continua nelle coppie monogame, quelle che, una volta stabilite, perdurano per tutta la vita (vedovanze escluse). Perché se la cornacchia che fa il nido qui di fronte non vede il suo bravo maschio con in bocca il pezzo di rametto per la costruzione del nido, il meccanismo ormonale anche regolato dall’allungarsi della giornata in primavera non le consente di produrre l’uovo nel suo corpo invernale. Produrre in poche settimane un uovo è complesso metabolico costosissimo, per iniziare il quale hai bisogno di essere corteggiata. Il colombo non costruisce un nido, ma se lo sappiamo osservare con cura scopriremo che
ogni tanto magari prende un ago doppio di pino secco e si fa vedere in giro trionfante dalla sua femmina: perché quel segnale di disponibilità a nidificare dev’essere presente tutte le volte che con la sua compagna si riproduce. Come ci riguarda la relazione tra colombi e cornacchie?
Nel 1973 ancora Lorenz ha scritto L’altra faccia dello specchio2. Ci specchiamo quando osserviamo con attenzione il mondo animale? Quello che la mia generazione di etologi ha osservato è che se è vero che anche il coccodrillo, animale che fin nei bestiari medievali viene considerato infingardo e vigliacco, cura con un amore straordinario i propri piccoli e le sue uova, se ritroviamo qualcosa dentro la capacità di una ratta di imparare da sua madre o da sua zia a essere una buona madre… Ecco, cosa ci ritorna quando lo specchio si rispecchia? Lorenz afferma: intanto c’è un guadagno per gli animali,
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perché se li conosci li ami e dunque li rispetti. Le cure materne del ratto vanno semplicemente intese come cura della vita?
Dal punto di vista della biologia del comportamento, esprimere delle cure materne che apprendi a tua volta da tua madre non corrisponde affatto al famoso animale-macchina cartesiano Animal non agit, agitur. L’animale qui non è una macchina su base strettamente istintuale. Se è tua madre che te lo insegna, e puoi imparare a operare bene o male, puoi essere una buona madre o una cattiva madre, una madre cioè incompetente che lascia morire i piccoli più cagionevoli, vuol dire che c’è qualcosa – che i logici classici o i pedagogisti chiamerebbero transazionale – che storicamente è considerato superiore a un comportamento automatico, privo di componenti apprese, meccanicisticamente istintuale. L’Animal non agit, agitur di Cartesio
allontanava l’animale dall’uomo; ne rappresentava l’essenza di essere governato, vittima degli istinti, una pura molla caricata per farlo «scattare» prorompente ogni volta che se ne presentasse l’occasione, mentre l’etologia non ha fatto altro che avvicinarlo. Ha reso l’animale più umano. Nel periodo in cui Hannah Arendt scrive il suo libro La banalità del male l’aggressività era all’ordine del giorno di moltissimi studi delle diverse discipline sociali e morali, perché venivamo da due guerre mondiali, venivamo da massacri inauditi e dalla Shoah e la domanda del secolo era: cosa mai succede nella mente di un pacifico e molto religioso contadino bavarese che si trasforma in relativamente poco tempo in un mostro omicida, un aguzzino, un crudele e insensibile operatore di un lager? E su questo un libro importantissimo resta quello di Arthur Koestler, grandissimo giornalista scientifico, Il fantasma dentro la macchina, che si chiede quale fantasma di un rettile primordiale, crudele e ferino, anche assetato di trovare un capo assoluto che ne indirizzi la malvagità alberga nella macchina del nostro cervello. Mentre a pochi mesi di distanza Lorenz, un collegamento che pochi hanno saputo fare, scrive L’aggressività. Il cosiddetto male3, che resta il suo libro più venduto. Poi, guarda caso, ci allontaniamo dalle due guerre mondiali e dalla Shoah, e ci si comincia a incuriosire (collettivamente, così come va la scienza da sempre) e a studiare la cooperazione e si scopre una specie di scimpanzé nani – si scopre che esiste una specie diversa di scimpanzé misurando gli animali imbalsamati nei musei – che ha un comportamento socio-sessuale ambiguo con una socialità molto complessa, davvero. A coronamento di questa fase «pacifista», con un’etologia ormai lontana dagli (indotti?) interrogativi postbellici sulla malvagità viene pubblicato il libro Far la pace tra le scimmie, di Frans De Waal4, che è il segno che negli animali non abbiamo solo cercato le radici della malvagità, ma in seguito le radici del bene, ed è stato a quel punto tutto un fiorire di studi sulle alleanze (nelle scimmie, ma anche nelle topoline femmine che allevano in gruppo la propria prole per meglio difenderla da predatori terrestri e non solo, e in tante altre specie anche di insetti) alla ricerca, riuscita, di sottili complicità esistenziali, regolarmente fattore rilevantissimo di sopravvivenza per l’individuo e per il suo gruppo sociale. L’etologia ha anche avvicinato l’umano all’animale contribuendo a collocare l’umano in una continuità con il vivente?
Il padre dell’etologia (invano lo ha ripetuto Konrad Lorenz stesso, quando il giornalista di turno gli attribuiva la paternità della disciplina) è Carlo Darwin, quando scrive un libro fondamentale, tredici anni dopo aver scritto L’origine della specie (nel 1859, all’età di cinquant’anni), dal titolo L’espressione delle emozioni negli uomini e negli animali. Lì sta la
grande continuità: l’affermazione che discendiamo dalla scimmia e di essa conserviamo i primordi originali dei nostri comportamenti di base. Certo, il salto è nel 1859, ma l’etologia ha alle proprie spalle i graffiti animali preistorici, le fiabe di Esopo, i bestiari medievali e rinascimentali; ha Machiavelli, quando scrive che il principe dev’essere un po’ golpe e un po’ lione… Il bestiario è la riprova che l’animale è o simbolo di virtù o simbolo di vizio, e con tutto questo disegnare e scrivere di animali l’etologia rimane in palese e diretta continuità. Gli appunti di Lorenz sulle taccole, che si corteggiano per tre anni prima di «fidanzarsi formalmente», e condurre vita virtuosamente monogama, diventano un saggio scientifico grazie a sua moglie, la quale prese, quasi rubò il testo, e insieme ai disegni di Konrad, lo portò all’austero e autorevole direttore dello zoo di Berlino e famoso studioso di comportamento di colombi (anche cittadini), Oskar Heinroth. Lo scritto esce con un titolo fragoroso: Il compagno nel mondo degli uccelli (der Kumpan) sulla rivista ornitologica tedesca più seria e accreditata del tempo. La parola compagno è esattamente l’antitesi dell’animale-macchina di Cartesio. Nemmeno Darwin era arrivato a usare questi termini, così brutalmente antropomorfi. Poi, le etologheprimatologhe donne, Jane Goodall in testa, chiederanno di non usare più per gli scimpanzé il pronome its ma his o her, lo otterranno all’università di Cambridge negli anni Sessanta. Ed è così che fiorisce l’etologia, mondo euristico dove terminologie, epistemologie e tassonomie umane e non-umane sfumano leggiadramente le une nelle altre. Eppure l’umano attuale sembra prolungare la propria separazione dalla natura…
Ad esempio, nella prefazione all’erbario di Piero Calamandrei (1889-1956)5 faccio un panegirico sulla cultura naturalistica di sua madre, una signora toscana di una solidissima e molto strutturata borghesia che faceva regolarmente conserve, ma sapeva tutto sulle fastidiose mosche e il loro comportamento, conosceva i nomi latini e volgari delle piante, teneva un erbario assieme a zie e cugine. Calamandrei stesso, per fare un esempio, era figlio e nipote di una cultura naturalistica che conviveva nella famiglia borghese con quella umanistica. Persino la cultura di caccia del suo nonno magistrato è stata una forma sapienziale solida dell’etologia, perché riuscire a scoprire, inseguire, avvicinare un animale selvatico è certamente etologia applicata. Sulla rubrica che saltuariamente tengo sul quotidiano «la Repubblica» oggi spiego che il gabbiano ti ruba, scippandolo, il maritozzo sbocconcellato perché è una specie che ruba il cibo agli altri gabbiani e che «coopta» il suo naturale rubacchiare il cibo a un altro gabbiano con lo scippo rapido e risoluto al turista che alla mattina fa placida e rilassata colazione al tavolino del bar. Entrato in città, il gabbiano inurbato ladro era (per legge darwiniana di sopravvivenza) e ladro resta. Lo scrivo perché il complesso
di questa cultura naturalistica non c’è più, è dolorosamente e dolosamente svanito, si è perso con la pacifica e – non di rado – poverissima Italia rurale del dopoguerra. Lo scrivo perché il gabbiano lo si può considerare come un commensale (termine tecnico, coniato dagli ecologi professionisti), una specie non invitata alla nostra mensa e che si nutre delle nostre briciole sfruttando «ecologicamente» gli avanzi che tanto generosamente quanto inconsapevolmente forniamo loro. Del resto, un terzo del cibo che produciamo, e che non consumiamo, lo diamo anche gratuitamente alle specie commensali: ratti, topi, insetti, cornacchie, taccole, colombi… Qual è il rapporto tra etologia ed ecologia?
Lorenz è il fondatore dell’etologia, ma è anche un profondissimo ecologo teorico: e il successo elettorale in questo complicato anno 2018 dei verdi tedeschi – anche se a incubare il pensiero verde lorenziano furono all’inizio i verdi austriaci – lo si deve anche al fatto che lo hanno saputo rivendicare come un loro guru, un loro personalissimo teorico di un pensiero incoronato dal premio Nobel e ciò da decenni, da quando ancora era in vita (è morto nel 1989). Quel pensiero non è un pensiero ecologista qualsiasi, è un pensiero talvolta «totalizzante», un modo di porsi in armonia assoluta con la natura sapendola interpretare. Soprattutto, sapendo comprendere quali sono «i limiti dello sviluppo» umano che fanno attrito con la mente umana stessa, per come essa si è evoluta nei millenni, almeno a partire dal cervello delle lamprede e dei pesci cartilaginei più primitivi, per contrastare ed evitare comportamenti troppo lontani da quelli per i quali l’evoluzione darwiniana della nostra specie ci ha plasmati. La natura è un artificio?
Un concetto importante degli ultimi anni è quello di Antropocene. Ma l’Antropocene non esiste ancora del tutto formalmente nella letteratura scientifica, perché a decidere i nomi delle ere geologiche sono appunto i geologi: i quali, quando pronunci questo termine ti guardano interdetti e spesso ti chiedono: come ti sei permesso tu biologo di sconfinare nel settore delicatissimo di chi battezza le ere geologiche? Certo, è difficile negare che una sola specie che si è superbamente autoetichettata Homo sapiens sapiens sta sterminando tutto sul pianeta Terra che ci ospita, sconvolgendo tutto, e poi alle brutte promette di fare colonie extraterrestri grazie alla sua fantasiosa capacità bio-tecnologica… Non nego il riscaldamento globale e il fatto che ogni 20 minuti scompaia una specie animale o vegetale, alcune delle quali non sono mai state neppure descritte come molto saggiamente ci ricorda l’evoluzionista statunitense Niles Eldredge. Come pensi la nostra evoluzione in quanto specie?
Quando ero bambino leggevo,
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forse proprio sulla bella Enciclopedia Conoscere, che l’uomo moderno nei secoli avrebbe perso tutte le dita della mano, tranne una, per spingere i bottoni: una predizione evoluzionistica che mi fece una grande impressione negativa, ma non credo proprio che succederà: la presa della mano è ancora un atto essenziale di minuta sopravvivenza contemporanea, tra cloche, maniglie e insopprimibili strette di mano anche tra presidenti delle massime potenze belliche contemporanee. Da un punto di vista morfologico quello che conta molto per spingere velocemente i processi evolutivi è la preferenza sessuale, ma la procreazione assistita o la maternità surrogata fanno sì che noi, popolazione ricca di questo pianeta, siamo forse ormai sganciati dai processi evolutivi classici… Ma su questo punto rispetterei molto la fantascienza, e la sua capacità predittiva. Sì, la Natura è artificio: i castori hanno plasmato – e violentemente – tanti paesaggi con le loro bellissime dighe.
Intervista a cura di Ilaria Bussoni Note 1. K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1974. 2. K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza, Adelphi, Milano 1991. 3. K. Lorenz, L’aggressività. Il cosiddetto male, il Saggiatore, Milano 2015. 4. F. De Waal, Far la pace tra le scimmie. Aggressività, riconciliazione, perdono: le basi biologiche del comportamento umano, Rizzoli, Milano 1990. 5. P. Calamandrei, Codici e rose. L’erbario di Piero Calamandrei tra storia, fiori e paesaggio, a cura di P. Roncarati e R. Marcucci, Olschki, Firenze 2015.
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Giardini in prestito. Per un’arte felice del vivere tra le rovine
Rosetta S. Elkin, Pinus Pinea, 2018
Sul declinare di un’era dove noi umani figuriamo come i maggiori responsabili del destino del pianeta, un Antropocene exeunte che, dopo davvero rapida epifania su questa terra, rischia a breve, almeno in termini geologici, di eclissarsi (eclissandoci)1, molto ci può aiutare l’esercizio di pensare allora «il mondo senza di noi», umani2. Immaginare cioè quanto tempo il pianeta impiegherebbe a digerire le tracce del nostro istantaneo passaggio (ad oggi siamo comunque ben al di sotto del pur breve tempo medio di vita di ogni specie prima dell’estinzione). In quali forme e con quali dinamiche metabolizzerebbe gli esiti postumi del nostro scomposto produrci nella hybris di marcare il suo territorio tutto – e ben oltre –, in una gratuita, totalizzante volontà di potenza; inappagabile proprio in quanto ha da tempo perso il senso delle ragioni profonde che la muovono. Questo sguardo sulla fine, sull’inesorabile disapparire delle nostre tracce, in macerie o più nobilmente rovine, vale come fermo fotogramma, come rituale apotropopaico, opportunità di carnascialesco ribaltamento da cogliere (kairos) per mettere a fuoco come quel che è stato e (già) non è più va assieme a quel che (già) era in corso e avrebbe voluto/potuto essere, mentre invece si interrompeva nel durante. E, senza però intanto paralizzarci, vista la dimensione della cosa (a questo servivano
e servono invece il tormentone delle apocalissi e il monito del giudizio universale sempre raffigurato in uscita dalle chiese), questo sguardo sulla fine vale, per l’intanto, per il suo additarci specialmente tutto quel che può comunque, sempre, ancora continuare a essere in divenire nel durante, finché dura. Quindi l’opportunità (anche in senso ottativo) di abitare, partecipando, il durante. Abitarlo, consapevolmente progettandolo, come accade fin dalle prime messe in forma – da ominidi – di tattiche di caccia di gruppo o con strumenti e stratagemmi; e ancora proiettando nel tempo incubato dai semi la scoperta della possibilità di accudire il generarsi delle piante, per nutrirsene. Dove ancora vale il dubbio se venga prima il nutrimento alimentare del campo coltivato, o quello dello spirito – con i fiori del giardino allevati a uso celebrativo del sacro. E proprio nel giardino, occorre ricordarlo, il rilievo del durante e il modo di abitarlo nel progetto risultano mirabilmente sintetizzati. Il giardino ci induce a immaginare e antivedere quel che verrà (e sarà anche dopo di noi) e ad accettare così di poter partecipare a qualcosa senza governarla, anzi, potendo a ogni scarto esserne sorpresi. E però gioendo (e tormentandoci) di poter aiutare il divenire a succedere; architettando come orientarlo, almeno in una delle
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sue molteplici variabili potenziali. Per altro verso, l’esercizio di pensare il mondo senza di noi, umani – paradossale dato che a pensarlo siamo pur sempre noi –, questo raccontare per assenze, ci aiuta ancora poi, perché torna a misurarci con il considerare anche il momento d’avvio della presenza sul pianeta del nostro genere, doppiamente sapiens. Apparizione che si qualifica quando – venuta meno per un tratto l’esigenza primaria del mantenerci in vita, procacciandoci il cibo – ci siamo consentiti lo stupor del gratuitamente guardare attorno. E poi il gusto dell’operare in artificio. E della declinazione particolare di quell’operare, perseguendo la vocazione e forse il tratto dominante della condizione umana che consiste nel prenderci cura dell’altro oltre noi (rovescio della medaglia della hybris di cui sopra e del fatto pure che sempre infantilmente vorremmo che altri si prendessero cura di noi – volta a volta, gli dei, i potenti di turno, le ideologie o il sistema). E quell’insopprimibile bisogno di preoccuparsi sempre e instancabilmente di qualche cosa al di fuori, una sorta di estensione nel mondo (culturalmente intesa), ancora una volta bene si sintetizza nell’esperienza del giardino. Che, come suggerisce Robert Pogue Harrison, è un modo immediato, «attivo», per entrare in contatto con la complessità del cosmo, della natura di cui siamo parte; con l’altro da noi che ci contorna e ci definisce; rendendo abitabile questa identificazione3. L’agire del giardiniere prefigura quindi un’etica della cura dove, come in un climax che si ripropone (il giardino cura il giardiniere che cura le piante), si individua la dialettica di una solidarietà istintiva che lega tra loro tutte le forme di vita4. Il giardino dunque sintetizza nell’etica della cura che si fa progetto un modo e il valore di abitare il durante in divenire. Entro una sorta di cambio di paradigma che riguarda lo statuto del verde nella vita sociale, un rinnovato interesse per il tema del giardino (ancora troppo spesso ridotto però a una sua visione design o all’uso scomposto di piante assolute) arriva paradossalmente a intenderlo, fin nel senso comune, come metafora di un possibile, diverso modo di porsi di fronte all’evidenza dei limiti del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento infinito delle risorse. È ormai acquisita l’immagine del «giardino planetario» prospettata già molti anni fa da Gilles Clément, a dirci della consapevolezza del nostro pianeta come di un universo chiuso nei confini della biosfera, ma dove ogni elemento è connesso in una logica di condivisione e collaborazione. Un giardino di cui tutti siamo chiamati a prenderci cura, come giardinieri planetari5. In quanto «natura in artificio», capace di superare l’opposizione classica, si sarebbe detto, fra natura e cultura, ragione ed emozione, il giardino – e con lui il paesaggio – ci immerge nel flusso delle combinazioni del vivente, in una partecipazione (senza soggetto e oggetto; esterno e interno) che implica però un’operatività che per essere tale deve darsi: quella del progetto (anche nella variante che progetta di superarlo).
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Da un lato, quindi, un giardino al diapason con il mondo ci proietta nello spaziotempo multiverso dell’impermanenza perpetua e della metamorfosi continua. È occasione dove siamo confrontati a misure diverse da quelle che possiamo cogliere con i sensi che ci sono dati (per quel che si son perfezionati a fare): il tempo infinitamente «lento con moto» del crescere – anche nella sua variante del disfarsi (specialmente vegetale) – percepito solo se accelerato in time-lapse dalla fotosequenza che tanto assomiglia al linguaggio dei sogni; il tempo che ci sovrasta in termini di generazioni (dimensione nella quale sempre meno siamo portati a ragionare: testimonianza più evidente della perdita etica di ogni senso di responsabilità): quante generazioni hanno visto magari già così come la vediamo noi oggi la quercia nell’aia; quante di generazioni ne ha viste lei, la quercia, o quale sprofondo temporale richiama la sezione della sequoia che ci accoglie in cima alla scalinata del Museo di storia naturale di Londra? Ancor più, il giardino è luogo privilegiato dell’esperienza polisensoriale che ci mette in rapporto diretto, immediato, fisico con gli elementi sensibili del mondo terrestre. Esperienza primaria, che precede il linguaggio e accade nel corpo6, tra le fonti di quel sapere implicito che vien prima della coscienza e della ragione, generatore di Habitus7. In grado di sollecitare plasticamente verso contesti sempre diversi insperate, disponibili cellule totipotenti. Per altro verso, a costituire la nostra esperienza del luogo che si fa giardino, nell’incrocio con il vivente che lo abita, è però anche la risultante delle mille variabili interrelate dei nostri singolari, irriducibili desiderare che non possono che farsi collettivo nel confronto tra diversi. E d’altro canto, il giardino è sempre anche stato il distillato di un’aspirazione comune, quella delle società a raccontare il proprio meglio. Le innumerevoli storie del giardino che ogni società per se stessa prospetta danno la misura di quanto questo sia un universale denso di equivoci e promesse: volta a volta e assieme il meglio da perseguire e salvaguardare e la proiezione fantasmatica di quel che non sappiamo altrimenti figurarci. Dal giardino ellenistico, dove germina il pensiero nelle sue molteplicità, all’antinomia oasi-deserto del giardino islamico; dalla centralità della veduta prospettica rinascimentale alla malinconia dell’impossibile ritorno dei giardini mediterranei, alla laicizzazione settecentesca, all’intimista giardino tutto per sé dell’Ottocento, fino al giardino
e allo spazio pubblico della città capitale, per finire agli spazi comunitari che vedono associarsi al giardino attivismo, arte, immersività, coreografia, narrazione… Specchio delle diverse culture che volta a volta li vanno generando e assieme fonte e catalizzatore di sogni e utopie cui tendere, i giardini risultano tuttavia modelli del tutto particolari. Inscritti come sono nel flusso del tempo e nel corpo con cui li abitiamo, spesso esito di mani e competenze diverse e di una firma congiunta con la natura, essi si costituiscono plasticamente in una pluralità di soggetti e variabili che organicisticamente evolvono in reciproca interrelazione. Per cui, da un lato, in questo abitare il divenire, al giardino sempre più spesso si chiede di prefigurare per supplenza un modello sostitutivo di società verso cui orientarsi. E assieme al concetto, vengono a questo scopo spesso chiamati in soccorso gli strumenti del progetto (e del progetto di paesaggio) – strumenti duttili come la dimensione, plurale, procedurale e sincronica, che mette in rete molti obiettivi assieme, nonché l’orizzonte di una visione sintetica dell’intero e assieme di ogni dettaglio, continuamente e dinamicamente in relazione8. Modello infrastrutturante evocato perciò tanto per il paesaggio cittadino che per il suo tenersi insieme (la Civitas), per la metropoli dove sempre più si concentra la maggior parte della popolazione, per il suo distendersi periurbano nelle reti dei territori dei distretti, o in quelle trame ancora, su più ampia scala, tese a ricondurre a disegno intere aree come in una sorta di Orbe-Urbe. Dall’altro lato, e però contestualmente, il giardino si impone come occasione di presa di coscienza del sistema di relazioni ecologiche entro cui siamo immersi, rivelatore della nostra profonda implicazione con un mondo non umano, amplificatore di sempre più generalizzata consapevolezza, che si fa fin «politica», che siamo tutti in relazione. In socialità estesa, costitutiva del Bios, del modo in cui la vita si dispiega. Cosa che i giardinieri hanno sempre saputo e che con l’evidenza del giardino planetario andiamo tutti acquisendo. In questo giardino di relazioni, come in un continuo, inesausto negoziato, sperimentiamo e coltiviamo contraddizioni. Mentre difatti fin qui il giardino, come il mondo di cui è stato specchio, ha a lungo imposto alla natura il suo ordine, in ossequio ai canoni della razionalità del nostro occidentale
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pensiero delle distinzioni, che celebra la centralità dell’uomo, del primato del suo punto di vista di osservatore interessato a fissare la forma, estraneo e dalla natura separato, oggi, in un dialogo inquieto incessantemente alla ricerca di nuovi equilibri e in un contesto di agire responsabile si prospetta una complessiva riconsiderazione critica (per interposto giardino planetario) delle forme di stare, assieme agli altri, al mondo. Costituendolo così entro una ben più ampia rivoluzione dello sguardo. Perciò stesso, perseguendo un nuovo modello dialettico di ben essere. Ricerche in diversi ambiti ci invitano da un lato a constatare come il mondo vegetale, evoluzionisticamente, ci suggerisca una serie di soluzioni (è il caso del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso9). Quando non addirittura nuovi paradigmi per modelli di società (il caso del filosofo Emanuele Coccia10). Così il giardino come snodo concettuale e insieme di pratiche costitutive di soggettività e saperi si afferma proprio come centralità, tema-prisma nell’orientare l’affollarsi di ricerche che variamente si rifanno a quell’ambito provvisoriamente detto degli Environmental Studies11 che intendono includere appunto il non umano nell’ecosistema delle relazioni sociali, studiando così proprio modi interconnessi e impatti trasformativi delle relazioni che vi si danno. Con quanto ne consegue sul piano appunto ecologico, etico, sociale, giuridico12, epistemologico13. Rinunciando a inseguire la smania di nostalgiche ricomposizioni con una natura talmente snaturata che non ci corrisponderebbe comunque, occorre dunque cercare – in un giardino non più pensato come a cavallo di una polarità naturacultura che altro non è se non una cosmogonia tra le tante – una nuova consapevolezza antropologica delle forme delle relazioni che ci legano al vivente, per riconnetterci invece, autodeterminandoci, ai nostri desideri e bisogni. La vicenda stessa della cacciata dal paradiso terrestre, sempre sospesa nel dilemma tra una promessa di felicità irricevibile e un’impraticabile aspirazione alla sua riconquista, propende per noi moderni14 verso l’intuizione che Eva ci ha regalato: quella di un’azione responsabile che inducendo la cacciata, ci dissequestra da uno stato assoluto, congelato, sterile. Per riconsegnarci a noi stessi e, proiettandoci sul terreno della vita attiva, alla cura. Evidentemente, con l’inevitabile effetto collaterale di farci eredi di una perenne nostalgia. Capita allora di accorgerci di come le pratiche del giardinaggio implicano e illustrano «un modo di essere al mondo definito tramite un insieme di relazioni: riguardo se stessi, la natura, il territorio» che si strutturano nei termini di una mutua «rispettosa amicizia»15, in una sorta di modello etico di azione. Una rispettosa amicizia del giardiniere con i non umani, modello basato su parentele e solidarietà piuttosto che su separazione e dominazione16. Un’etica della cura, quella del giardiniere, ben diversa da quella della produttività. Di fronte a un’economia capitalistica sempre più sregolata, al neoliberismo della finanza che ignora i limiti delle risorse, a una vulgata che considera anche la natura privatizzabile, brevettabile, vendibile, contro il pensiero dominante che dispone del pianeta come fosse una risorsa da sfruttare illimitatamente, il giardino ci aiuta a rimettere in discussione non solo un sistema di produzione e «sviluppo», ma un sistema di conoscenza fondato su un paradigma che spiega ogni fenomeno, inclusi vita e pensiero, a partire da processi chimici e meccanici17. Verso l’attivismo restitutivo del lavoro di coltivazione del giardiniere – con Karel Čapek, il «dai alla terra più di quanto prendi»18 –, verso una visione circolare, interrelata. In una prospettiva a lungo termine di una economia paesaggistica19. Non semplicemente vita, ma con ampliamento dello stupor, «buona vita». Paradossale sostenere che il giardino sia quel che resta della politica. Ma certo il giardino si
fa spazio politico per il fatto stesso di impegnarsi a preservare ogni diversità impiegando al meglio le risorse esistenti, ingegnandosi a cogliere le potenzialità di nuovi ecosistemi residuali e variamente meticci, sperimentando nuovi modi di partecipazione e di condivisione collettiva del bene comune. Come in una sorta di coreografia che sulla pelle del pianeta insegue e anticipa l’idea che la ispira, le pratiche di “cura della terra” che coltivano di preoccupazioni e gesti l’esile cotico del nostro suolo tradiscono e rivendicano l’esigenza profonda di un nuovo modello per la vita a venire – sociale sì e pure esistenziale, estetico –, l’humus che in tanti ambiti matura di un’etica nuova, ecologicamente fatta di consapevoli, paritarie relazioni con il contesto biosociale che ci permea, tanto da farsi nuova condizione culturale, mondopaesaggio. Fondamentale diventa perciò una comprensione – con immedesimazione che pur sappiamo inattingibile – delle dinamiche proprie degli esseri viventi. Per immaginare poi una maniera di accompagnarle. Un agire lieve. Comunque, creativamente, un fare, una poiesis. Atto politico teso a disegnare un’alternativa20. Perché, come insegna Massimo Venturi Ferriolo, il giardino è sempre a cavallo tra due dimensioni, l’immodificabile e quanto può essere modificato: il divenire21. Chi pure si occupa e preoccupa di giardini, per quanto progettualmente e nel verso della cura, contempla abitandola la loro dinamica provvisorietà (e il loro dipendere da noi) ed è comunque aduso muoversi nella condizione di perenne vigilia di una fine che sempre si protende e ci protende oltre di noi. E ha quindi sempre ben presente il tema della fine dei giardini. Meglio, della loro vita oltre la fine. La loro Afterlife, intendendo – ben oltre il tema del fascino trasversale per quelli abbandonati, o le preoccupazioni di ordine filologico o conservativo – il nodo del disfarsi e ricomporsi dell’originalità caratterizzante (?) del progetto22. Oltre quell’estetica della nostalgia che assomma
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il dissolversi dell’opera dell’uomo che (con le rovine, di Simmel) parrebbe tornare alla natura, e l’estinguersi di una natura primigenia, conosciuta se del caso in tempi così remoti da non poterne certo conservare memoria, se non immaginata, il giardino continuamente progetta di abitare il durante temperando l’operare lieve della sua morale di vita – attiva – a un quotidiano gusto dell’impermanenza23. Impermanenza che in giardino finisce elevata a estetica, in quel mutuo innescarsi di naturalezza e artificio (persino involontario) che così ci aiuta a sperimentare ogni giorno un’arte felice del vivere… tra le rovine. Un piacere del respiro che intanto, finalmente ci orienta, ci accorda al mondo. Infine. Note 1. Vedi G. Pellegrino, M. di Paola, Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, DeriveApprodi, Roma 2018. 2. Vedi A. Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino 2007. 3. R. Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Fazi, Roma 2017. 4. M. Martella, introduzione a «Jardins», numero monografico Soin, Editions du Sandre, n. 6, 2015. 5. Vedi G. Clemént, Il giardiniere planetario, 22publishing, Milano 2008 e Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013. 6. Vedi J.M. Besse, Le paysage, espace sensible, espace public, «META. Research in Hermeneutics, Phenomenology, and Practical Philosophy», vol. II, n. 2/2010, www.metajournal.org e V. Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 42. 7. R. Regni, Paesaggio educatore. Per una geopedagogia mediterranea, Armando, Roma 2009, p. 56. 8. Cfr. F. Zagari, Piccoli universali di architettura e di paesaggio, DeriveApprodi, Roma 2017. 9. Ricordandoci che l’80% della vita che si dispiega sulla terra è costituito da piante, Mancuso ci invita a correggere il nostro sguardo e a riconoscere, proprio attraverso l’irriducibile parentela evolutiva che alle piante ci lega, l’alterità delle vincenti strategie evolutive individuate da quegli ingegnosi organismi pionieri. Cfr. S. Mancuso e A. Viola, Verde brillante, Giunti, Firenze 2013. 10. Vedi E. Coccia, La vita delle piante, il Mulino, Bologna 2018.
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11. G. Quenet, Qu’est-ce que l’histoire environnementale?, Champ Vallon, Seyssel 2014, citato da H. Brunon, Rispettose amicizie, in M. Martella, (a cura di), L’anima in giardino. Arti e poetiche del genius loci, DeriveApprodi, Roma 2018. 12. L. Battaglia (a cura di), Uomo, natura, animali. Per una bioetica della complessità, Altravista, Lungavilla 2016. Cfr. anche I. Braveman (a cura di), Animals, Biopolitics, Law. Lively Legalities, Routledge, London 2016; Animali, giardini, paesaggi, Giornate internazionali di studio sul paesaggio 2018 della Fondazione Benetton. 13. Cfr. G. Clément, Vous, animaux, «Les carnets du paysage», n. 26, printemps 2014. 14. H. Brunon, Rispettose amicizie, cit. 15. Cfr. anche H. Brunon, La relation jardinière, du modèle paysan au modèle paysager. Une ethnologie du fleurissement, «Ruralia», n. 15, 2004, http:// ruralia.revues.org/1045. 16. H. Brunon, Prendersi cura: giardino, vita activa, saggezza, in P. Boschiero, L. Latini, S. Zanon (a cura di), Curare la terra. Luoghi, pratiche, esperienze, Fondazione Benetton, Treviso 2017, pp. 15-29, p. 69. Cfr. anche H. Brunon, Giardini di saggezza in Occidente, DeriveApprodi, Roma 2017. 17. G. Clément, L’Alternative ambiante, «Carnets du Paysage», 2009, Écologies à l’œuvre, Sens & Tonka, Paris 2014. 18. Karel Čapek, L’anno del giardiniere, Sellerio, Palermo 2008, p. 208. 19. Il riferimento è al pensiero di Vandana Shiva e Kate Rawort. 20. Vedi A. Lambertini, Urban beauty! Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica, Editrice Compositori, Bologna 2013 e M. De Poli e G. Incerti (a cura di), Atlante dei paesaggi riciclati, Skira, Milano 2014. Si vedano anche M. Di Paola, Giardini Globali: una filosofia dell’ambientalismo urbano, LUISS University Press, Roma 2012; P. Georgieff, La poetica della zappa. L’arte collettiva di coltivare giardini, DeriveApprodi, Roma 2018. 21. M. Venturi Ferriolo, Paesaggi in movimento. Per un’estetica della trasformazione, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 152. 22. J. Dixon Hunt, The Afterlife of Gardens, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004. Poi, «The afterlife» dei giardini: un oggetto non può competere con un’esperienza, in V. Morabito (a cura di), Sette lezioni sul paesaggio, Libria, Melfi 2012. 23. Cfr. Y. Escande, Giardini di saggezza in oriente. Cina e Giappone, DeriveApprodi, Roma 2018, spec. p. 71.
Virginia Colwell, Untitled Ruin, 2014
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L’ultimo museo dell’umanità Riccardo Venturi
Una spiaggia deserta e la distesa del mare: è questa l’ultima scena de Il seme dell’uomo, film realizzato da Marco Ferreri nel 1969, parte di una trilogia su catastrofi individuali e collettive assieme a Dillinger è morto e a L’udienza1. Poco prima i due protagonisti, Cino e Dora (interpretata da Anne Wiazemsky), saltano in aria su una bomba insabbiata. Scampati a una terza guerra mondiale e a un’epidemia di peste, erano gli ultimi sopravvissuti sulla Terra. Dopo averla tragicamente infranta in Dillinger, la coppia torna qui protagonista solo per essere annientata una volta per tutte. Ferreri risolve l’evento catastrofico in una scena spoglia e senza effetti speciali: la coppia attraversa in macchina un tunnel e all’uscita apprendono la notizia dalla radio; sconcertati, s’installano in una casa al mare. Un’enclave selvaggia in cui conducono una vita a mezz’aria, stranamente paradisiaca malgrado le circostanze – un nuovo Eden dopo la fine di ogni monoteismo, come indica la scena della distruzione del Vaticano e di un Papa troppo debole per rivolgere un messaggio urbi et orbi ai superstiti. Cino è ossessionato dall’idea di riprodursi (da cui il titolo del film), malgrado il disaccordo della sua compagna. Una terza sopravvissuta (Annie Girardot) diventa la sua amante; Dora l’elimina, servendone i resti in un piatto che Cino mangia con gusto. Un atto di cannibalismo che si ritrova in Ferreri quanto nel cinema dell’epoca, dal Satyricon di Fellini a Porcile di Pasolini (in cui Ferreri interpreta il ruolo dell’ambasciatore fascista Hans Günther), fino a Week-end di Godard. Cino dovrà reinventare altrimenti il suo ruolo nel mondo. Perché allora non allestire un museo in quella che, come ci ha insegnato Günther Anders, non è la fine dei tempi ma un tempo della fine in cui è iniziata l’assenza di futuro e che nessuno sa quanto durerà? In fondo, prima dell’apocalisse, Cino era un conservatore di museo, dedito a difendere il patrimonio dell’umanità. L’evento apocalittico segna il collasso della ragione stessa del suo lavoro – un doppio collasso, perché tale patrimonio è ormai andato distrutto e perché non vi sarà alcuna generazione futura cui trasmettere la storia della civiltà umana. Il seme dell’uomo è così uno dei rari film in cui i sopravvissuti a una catastrofe non sono impegnati solo a procurarsi beni di prima necessità. Cino comincia a raccogliere oggetti in una stanza di casa, senza disdegnare la società di consumo. Una forma di parmigiano è esposta su un solco come fosse un disco spaziale, e del resto su una parete s’intravede il poster di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick (uscito l’anno prima). Segue un orologio Piaget, un giradischi, una televisione Brionvega, un frigorifero Ignis, una carrozzeria Fiat 850, eau de Cologne, una torcia elettrica, uno stereoscopio. («Tutti i suoi film sono oggetti di consumo, come è possibile che non diano lo stesso disgusto di un frigorifero, di una radio?»: così Ferreri pungolava il cinema di Fellini alla fine degli anni Sessanta). Non poteva mancare la pittura, presente con due capolavori quali la Dama col liocorno di Raffaello e La tempesta di Giorgione, ma in un contesto che stride con i vigenti dispositivi museali di conservazione. In un piano sequenza – preferito da Ferreri in quanto gli permette di accumulare dettagli, senza moltiplicare tagli che alterano la realtà – la Dama col liocorno è poggiata sulla spiaggia, come se fosse una sdraio. Colpita dal sole e dal vento, intaccata dalla sabbia e altri
agenti atmosferici, la superficie pittorica e il soggetto dell’opera si espongono agli elementi, non diversamente dagli ultimi uomini. In quest’occasione gli sforzi museali di Cino sono ufficialmente consacrati per mano di una milizia pirata e fascistoide che sembra uscita da uno spaghetti western. Cabinet de curiosités, il museo di Cino è anche un museo ready-made e duchampiano2, composto dai feticci della società di consumo; o un museomausoleo sui resti della civiltà, uno spazio mortifero in cui gli oggetti esposti – come reperti archeologici – segnalano la fine di un mondo. Un museo cui manca l’orizzonte della memoria collettiva e che si fa mero passatempo per, l’espressione è felice, uccidere il tempo. Il museo di Cino uccide il tempo, prima che il tempo della fine lo porti via con sé, assieme a quella parentesi – infinitesimale nella prospettiva geologica della storia della Terra – costituita dall’umanità. Torniamo al finale de Il seme dell’uomo. Procedendo dal particolare al generale, si tratta della fine del film, dell’ultima scena girata da Ferreri negli anni Sessanta, ma anche dell’annientamento della specie umana. Di quest’ultimo avevamo avuto sentore già nella scena d’apertura di Dillinger è morto, girata in una fabbrica che produce maschere a gas, accompagnata dalla lettura di un testo sull’alienazione dell’uomo moderno, influenzato da Debord, McLuhan e Marcuse, probabilmente un collage di citazioni di Umberto Eco3. Girati uno dopo l’altro con la stessa troupe, Dillinger è morto e Il seme dell’uomo sono due film prima e dopo la catastrofe. Ma nell’universo di Ferreri non c’è un prima e un dopo: la fine è sempre imminente e assieme differita, priva di un orizzonte d’attesa. I due film costituiscono piuttosto un dittico sinistro, entrambi segnati dalla fuga verso il mare, ultima spiaggia per l’apocalisse, personale o nucleare che sia. Un anti-umanismo che aveva infastidito Natalia Ginzburg, spettatrice d’elezione di Dillinger4, a causa del disprezzo per la specie umana, scalzata da un mondo di oggetti inanimati, dal vuoto e dall’indifferenza di una realtà, alla lettera, impietosa in cui la derisione resta l’unica arma di difesa. Ferreri non era solo, se pensiamo a Sotto il segno dello Scorpione (1969) dei fratelli Taviani o ai già citati 2001: Odissea nello spazio e Satyricon. Di certo, Il seme dell’uomo segna l’abisso nichilista del cinema di Ferreri, apice di «un cinema negativo» ovvero «un cinema che non serve a niente. Il cinema in generale non serve a niente. Tra l’altro, niente serve a niente. Ci sono quattro testi che servono: i Vangeli, il Libretto rosso di Mao, la Bibbia e Karl Marx. Ecco quattro opere che servono. Ci sono persone che dicono: “Mi comporto secondo la Bibbia”; ma chi dice: “Vivo secondo quello che dice Pasolini o Ferreri?” […] è un campo limitato, sempre più destinato a piccoli ghetti culturali». Insomma, «la rivoluzione si fa facendo la rivoluzione, non facendo dei film». Modello di Ferreri resta il cinema didattico di Rossellini (La Prise du Pouvoir) e forse Vent d’Est del Groupe Dziga Vertov, girato in Italia nel giugno-luglio 1969 e prodotto dallo stesso Ferreri. Ora, se il finale de Il seme dell’uomo chiude i conti con la specie umana, non tutto è perduto: spiaggia e orizzonte marino sono sempre lì, indifferenti al destino di Cino e Dora. Si tratta così anche della prima immagine non-antropomorfa e postumana
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nella storia del cinema. Al riguardo, Il seme dell’uomo s’inscrive in una tradizione che va dalla peste di Atene descritta da Lucrezio nel De rerum natura a Dissipatio H.G. («Humani Generis»), l’ultimo romanzo di Guido Morselli pubblicato postumo nel 1977. Una tradizione che spezza l’immaginazione apocalittica occidentale che stabilisce un’equivalenza tra morte dell’umanità e distruzione della terra. Che spezza, altresì, l’equivalenza tra discorso apocalittico e discorso ecologico, l’equivalenza discorsiva tra bomba atomica e riscaldamento climatico, tra catastrofe nucleare in quanto paradigma del disastro associato alla società umana e catastrofe ambientale5. Che spezza, infine, l’idea antropocentrica secondo la quale, una volta scomparso l’uomo, la vita animale e vegetale seguiranno lo stesso destino. Destino umano e destino terrestre si divaricano nel corso dell’Antropocene, l’epoca che «sebbene sia iniziata con noi, probabilmente finirà senza di noi»6. In seguito a una pestilenza che decima l’umanità Lionel Verney – protagonista de L’ultimo uomo (1826) di Mary Shelley7 – attraversa l’Inghilterra, la Francia, la Svizzera e un’Italia fantasmatica (Milano, Como, Venezia, Forlì, Ravenna, Spoleto, Roma). Suona campanelli, entra in palazzi vuoti dove scambia il suo riflesso per un altro uomo, affigge un cartello con su scritto, in tre lingue, «Verney risiede a Roma». Finché realizza di essere rimasto solo: «Il sole tramontava su un mondo che conteneva me solo, suo unico abitante». Più che la scomparsa dell’umanità, a gettarlo nella disperazione è la solitudine e la consapevolezza di non essere un nuovo Robinson. Indifferente, la natura sopravvive fertile alla morte dell’ultimo uomo: «Perché la brezza sfiorava dolcemente gli alberi, se l’uomo non ne riceveva frescura? Perché la notte buia si ornava di stelle – se l’uomo non le vedeva? Perché frutti, fiori, ruscelli, se non c’era l’uomo a goderne?»; «Sì, questa è la terra; non è cambiata – non ci sono rovine, strappi nella sua distesa verdeggiante; essa continua a ruotare in cielo, alternando il giorno alla notte, anche se l’uomo, suo ornamento, non l’abita più». In pieno romanticismo Lionel Verney, fedele all’idea dell’uomo al centro del mondo, difende strenuamente la sua eredità culturale. Per questo si reca a Roma, dove ammira le vestigia dell’antica civiltà, la presenza eterna dell’uomo inscritta nelle pietre. Dopo il 1968 a Ferreri, milanese trapiantato a Roma, basterà un museo estemporaneo. Note 1. Cfr. B. Torri in S. Parigi (a cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia 1995. 2. V. Pravadelli, Derive del soggetto. Il cinema di Marco Ferreri, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. XI – 1965-1969, Marsilio, Venezia 2002. 3. Cfr. E. Morreale, Cinema d’autore degli anni Sessanta, Il Castoro, Bologna 2011. 4. N. Ginzburg, Mai devi domandarmi, Garzanti, Milano 1970. 5. Cfr. H.-S. Afeissa, La fin du monde et de l’humanité. Essai de généalogie du discours écologique, PUF, Paris 2014. 6. D. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Roma 2017, p. 29. 7. M. Shelley, L’ultimo uomo, Mondadori, Milano 1997.
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Antropocene: alla fine di un mondo
Fiamma Montezemolo, Le tre ecologie, 2015
Gianfranco Pellegrino
1. APOCALISSI CULTURALI O APOCALISSI NATURALI?
Nel 1977, la casa editrice Einaudi diede alle stampe un grosso volume di scritti inediti di Ernesto De Martino, col titolo La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (qui uso la ristampa del 2002). I materiali raccolti recano testimonianza di un itinerario complesso e duraturo della riflessione demartiniana, partito già dagli anni Quaranta a giunto sino agli anni Sessanta – un tentativo di analisi, appunto, del pensiero della fine del mondo, un’analisi che spazia dalla psicologia individuale (il cosiddetto delirio di fine del mondo che è visibile in varie sindromi psicotiche) alla concettualizzazione mitico-rituale della fine e dell’inizio del mondo nelle culture non occidentali e arcaiche, all’eschaton cristiano, al millenarismo di alcuni pensatori e movimenti postcoloniali, alla filosofia della storia marxiana, alla letteratura e la cultura che in questi testi De Martino chiama «borghesi» e che indulgono a lungo e diffusamente sul motivo della fine della civiltà. Il lavoro di De Martino sull’apocalisse è stato interrotto dalla malattia e dalla morte, ma i materiali che possiamo leggere sono preziosi anche a distanza di tanti anni, e sono preziosi tanto per quello che in essi possiamo trovare, per ciò che della nostra condizione attuale la potenza analitica demartiniana prodigiosamente prefigura, quanto per quello che invece vi manca – e dobbiamo integrare dalla nostra posizione di osservatori di un’apocalisse realizzata: l’apocalisse dell’Antropocene, della fine della natura o di un certo pensiero della natura. Quelli di De Martino sono materiali preziosi per chi, come l’umanità di oggi, si trova alle prese con un’apocalisse completa ma anche molto complicata – o con un nuovo inizio, con un eschaton sulla Terra, un eschaton geologico e fisico, tutto naturale, invece che un eschaton soprannaturale e oltremondano. L’umanità è alle soglie, o forse è già dentro, una nuova epoca – il cosiddetto Antropocene. L’epoca in cui l’impatto umano sul pianeta ha raggiunto livelli senza precedenti. Questa nuova epoca finisce un mondo – un mondo culturale, quindi un mondo in senso demartiniano – ma minaccia anche di far finire un mondo naturale (se non tutta la natura, almeno certe nicchie ecologiche, e forse la nicchia ecologica occupata da Homo sapiens). E non è detto che abbiamo a portata di mano le risorse culturali per un nuovo inizio, anche perché questa
fine del mondo nasce improvvisa, e forse deriva in maniera piuttosto lineare da svariati tentativi di evitare altre fini di mondo. Le tecniche culturali di addomesticamento della natura, che per De Martino sono tentativi di trattenere il mondo dal finire, potrebbero essere state all’origine della catastrofe che ci è di fronte. La distanza che separa da noi i materiali raccolti da De Martino, gli eventuali anacronismi, le possibili contraddizioni fra storicismo e attenzione alla condizione umana, filtrata da una visione dell’esserci e della presenza umana nel mondo ispirata a Heidegger, sono istruttivi1. De Martino contribuisce a un’analisi delle apocalissi culturali. Se si rimane dentro questo recinto, l’analisi demartiniana è cieca rispetto all’apocalisse della «natura in sé», che potrebbe essere ciò che sta accadendo nell’Antropocene. Una delle narrazioni dell’Antropocene – anzi forse la narrazione predominante – s’incentra proprio sulla «fine della natura»: nel momento in cui l’impatto umano, inteso come artificializzazione di un mondo naturale prima intatto, s’espande dappertutto nel mondo, la natura incontaminata, la natura selvaggia, l’assolutamente non umano è definitivamente sparito. L’Antropocene, da questo punto di vista, è l’apocalisse della natura – e a esso non può che seguire il lutto e il cordoglio, almeno per alcuni (per esempio per gli ambientalisti che della natura incontaminata facevano l’oggetto delle loro cure). Altri, forse, potrebbero invece celebrare il definitivo trionfo dell’uomo sulla natura resistente – l’inizio dell’età umana, il compimento del sogno di padroneggiamento baconiano-illuminista. Quale che sia l’atteggiamento di fronte all’apocalisse della natura che l’Antropocene potrebbe essere, De Martino sembra estraneo a questa temperie. Nelle sue pagine, l’apocalisse è soprattutto fine – o meglio rischio della fine – di una appropriazione culturale e storica del mondo naturale. Il pensiero dell’apocalisse, per De Martino, è un momento del tentativo di stabilizzare, o preservare, la capacità umana di pensare il mondo tramite la cultura – e così facendo, di trascendere la nuda vita biologica e la resistenza della natura bruta e materiale. Il terrore della fine è terrore della perdita del senso che gli esseri umani danno al mondo, terrore per la possibilità che non ci sia storia – storia umana, storia di progetti e intenzioni,
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si ha la contraddizione, più che le condizioni di possibilità della cultura umana nel mondo: proprio il tentativo umano di padroneggiare il mondo con strumenti culturali (cultura sono anche le tecniche, l’economia, l’utilizzazione del mondo) porta alla distruzione del mondo, del sostrato naturale del mondo, e forse porta anche al rischio estremo per l’umanità, il rischio dell’estinzione, il rischio del riaffiorare della natura pura, senza cultura. L’Antropocene è la minaccia di un mondo senza di noi: nella visione demartiniana il mondo senza di noi è impossibile, impensabile, e l’unico rischio di un mondo siffatto sta nella sparizione della cultura, non nella morte della natura. De Martino considera e comprende l’ansia della fine del mondo tipica dell’era atomica, quella ad esempio espressa da autori come Günther Anders. Ma egli considera questa apocalisse senza eschaton un fenomeno epigonale, da porre in una prospettiva diagnosticoculturale di lungo periodo: l’idea di una frattura senza precedenti, l’idea dell’Antropocene come inedita rottura, sembra essergli estranea. L’unico mondo, per De Martino, è quello della cultura: «un “mondo” – egli scrive – è sempre mondo culturale, cioè è sempre esperibile per entro un certo ordine di valorizzazioni soggettive umane»4. De Martino condanna la tecnica, quando sostiene che «la catastrofe del mondo (e del doverci essere) di cui patisce la civiltà industriale […] consiste nel non oltrepassare la valorizzazione tecnica del mondo, nel restar prigionieri della tecnica», dimenticando il «telos comunitario» che dovrebbe muovere economia tecnica e scienza. Si tratta di una questione etica – e di un’etica antropocentrica. Non si tratta di una catastrofe che mette a repentaglio il valore della natura. De Martino non esce dal quadro antropocentrico.
storia dotata di una linea di sviluppo, di un senso. Il pensiero della fine – nelle sue varie incarnazioni (la nevrosi individuale, il mito e il rito, l’eschaton cristiano, il messianismo politico, la filosofia marxiana della storia) – è una tecnica culturale che serve allo stesso tempo a garantire la presa umana sul mondo e ad allontanare il rischio di perdere tale presa. Nel linguaggio di De Martino: il pensiero della fine reagisce al rischio del venir meno della presenza umana nel mondo, una presenza di un esserci singolare ed esistenziale, che s’incarna in una valorizzazione, cioè in un ethos di trascendimento, il trascendimento umano della natura, che s’innesta nella vita umana nella natura, orizzonte al tempo stesso inevitabile e da superare ogni volta: «il punto centrale resta […] questo, di reggere alla prova, di rimodellare sempre di nuovo, con l’opera valorizzatrice, la domesticità del mondo»2. Detto altrimenti: elementi così diversi come le paranoie individuali, i miti cosmogonici e i rituali che li ripercorrono, la visione dell’avvento del Regno dopo la venuta del Messia, l’ideale del comunismo o il timore della decadenza sono giustificati, al pari dei fenomeni religiosi, nei termini della loro funzione culturale, che è funzione trascendentale, servono a garantire che sia (ancora) possibile ciò di cui, per loro tramite, si teme la scomparsa, cioè il senso del mondo, la cultura umana, lo stare nella storia, ma come se non ci si fosse, come se la storia non fosse una successione insensata di eventi, ma un ripetersi eterno di eventi significativi o una corsa sicura verso l’unico Evento significativo. Rendere «domestico» ancora una volta il mondo dove viviamo: «addomesticarlo», «appaesarci» in esso, renderlo paesaggio consueto, perché posseduto culturalmente. Ecco come la fine del mondo appare in un passo dell’epilogo de La fine del mondo, particolarmente ricco di pathos. La fine del mondo è «il crollo dell’oltrepassare le situazioni, e quindi il non poter emergere da esse come presenza oltrepassante: onde poi il mondo perde significato, e gli enti mondani non si prolungano più affettivamente in noi come enti rammemoranti condotte possibili. Gli enti mondani si irrigidiscono, si artificializzano, i loro contorni diventano troppo definitivi, senza possibile “oltre”» 3.
2.
Se quello contenuto in questo passo è il senso della fine del mondo per De Martino, l’Antropocene è completamente al di fuori di tale quadro – se non altro perché nell’Antropocene
Eppure se si guarda meglio dentro l’officina demartiniana, si possono ritrovare le vie per capire come l’apocalisse della natura dell’Antropocene sia – o meglio coincida con e derivi da – un’apocalisse
Eppure, con la pesantezza dei dati scientifici ed economici, l’Antropocene irrompe dentro la cultura umana e non lo si può digerire e inquadrare – e il discorso sui rischi della guerra atomica è un’approssimazione, non un inizio. L’Antropocene è catastrofe e apocalisse della natura, crisi dell’antropocentrismo, che porta a un’apocalisse della cultura – se non altro nel senso che non abbiamo più una cultura in grado di rendere sensata, e allontanare, la fine del mondo naturale. L’Antropocene è, per di più, storia naturale che si miscela con la storia umana, è storia di una specie, non di un animale culturale, storia di Homo sapiens. Anche questo aspetto dell’Antropocene sembra del tutto esterno all’orizzonte della fine del mondo demartiniana. L’Antropocene, infine, è per molti segno della bancarotta dell’Occidente culturale: non è solo la distinzione cripto-positivista fra natura e cultura che viene meno – col definitivo perire dalla natura incontaminata, se mai c’è stata; anche le filosofie costruttiviste o cripto-idealiste della natura mostrano la corda – il dato grezzo irrompe, e la natura esiste, anche se non è incontaminata, e al di là del pensiero umano, al di fuori dell’orizzonte della polis: Gaia fa irruzione, scatenando cataclismi e minacciando sempre più l’habitat di Homo sapiens. L’Antropocene è un’apocalisse che va al di là dell’apocalisse della cultura, che pure provoca. L’attenzione di De Martino alle apocalissi culturali è inevitabilmente sfocata nella nuova epoca rappresentata dall’Antropocene. L’Antropocene è fine del mondo naturale, e non è detto che questa sia fine del mondo culturale. Infatti, suggerisce De Martino, «il mondo degli animali “non può” finire, e la sua “fine” è la catastrofe della specie: l’uomo invece “passa” da un mondo all’altro, appunto perché è l’energia morale che sopravvive alle catastrofi dei suoi mondi, sempre di nuovo rigenerandone altri»5.
LA FINE DELLA FINE DEL MONDO: DE MARTINO E L’ANTROPOCENE
culturale. Si può azzardare l’ipotesi che De Martino, nella febbrile preveggenza della sua indagine, avesse previsto una possibile via di analisi e di uscita a una condizione che pochi, quand’egli scriveva, potevano prevedere. La soluzione, o meglio l’abbozzo di soluzione, si trova alla fine della Fine del mondo, nei disparati materiali raccolti nell’Epilogo. In essi compare un paragrafo dedicato alla «natura in sé», dove De Martino propone una concezione pragmatico-trascendentale della natura incontaminata. Ecco le sue parole: La «natura» in sé, prima e indipendentemente da qualsiasi intervento umano, può avere un significato pratico, nel senso che praticamente giova, nelle operazioni che compie l’uomo per esercitare il suo dominio effettivo sulla natura, comportarsi come se vi fosse una natura prima e indipendentemente da qualsiasi intervento umano. Ma questo fondamentale principio metodologico delle scienze naturali, questa «natura» che non si controlla se non «ubbidendole», questo «come se» operativo postulante un «in sé» su cui si opera è una astrazione che si compie dentro la storia culturale dell’uomo, e che, nei suoi modi come nei suoi risultati e nelle sue pratiche efficaci, è interamente condizionato da tale storia, cioè è sempre incluso in una pratica attività di distacco dalla immediatezza del vivere, nella concretezza di una società definita. In questa prospettiva l’uomo è sempre distaccantesi dalla natura, e non può mai saltare questo suo distaccarsi storicoculturale per raggiungere definitivamente la «natura in sé». E il distaccarsi storicoculturale dalla natura, e l’esser sempre dentro questo movimento di distacco, fonda le «cose» naturali […]. La natura è l’orizzonte che segnala la inesauribilità della valorizzazione della vita secondo un progetto comunitario dell’utilizzabile; in questo senso sta sempre «al di là» della progettazione utilizzante, manifestandosi come resistenza, come materia, come esteriorità di per sé cospirante con l’uomo. […]. Questo «al di là» e questo «dentro» sono correlativi e inscindibili, in quanto l’al di là si configura dentro una particolare progettazione di cui si dispone e che si può mettere concretamente in opera, e non mai appare «in sé»: e altresì in quanto la progettabilità di cui si dispone comporta sempre un limite definito, una sfera circoscritta di operazioni possibili, e quindi un al di là che resiste, sfugge, si oppone al progetto, ribellandosi all’utilizzazione come «in sé» non mai domo, e prospettando una illimitata serie di nuovi sforzi per domarlo. […] La natura è limite, resistenza, esteriorità materiale non cospirante con l’uomo6.
I discorsi sull’Antropocene oscillano fra due estremi: per alcuni, esso è il rischio di perdere la natura incontaminata, la natura in sé; per altri, è il coronamento finale del sogno di conquistare la natura all’umanità: una natura completamente artificializzata è l’esito ultimo, e auspicabile, del lungo percorso iniziato da Prometeo. Questi estremi sono paralleli ai discorsi sull’Antropocene come fine del mondo: per alcuni l’Antropocene è la distruzione del mondo che c’era prima dell’umano, del mondosenza-di-noi, ancora una volta della natura in sé; per altri esso è pendio inclinato verso l’estinzione della razza umana, percorso verso un nuovo mondosenza-di-noi; per altri ancora è l’inizio del trionfo umano, di noi-senza-il-mondo, del dominio umano senza la natura7. In Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo8, insieme a Marcello Di Paola, ho proposto l’idea di una natura ibrida, né totalmente naturale, né totalmente artificiale, e di una visione non apocalittica dell’Antropocene – dove questa natura ibrida è sede di valore da tutelare, e rende possibile sia un’etica sia una politica dell’ambiente.
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L’esempio principale su cui abbiamo lavorato è la riserva LIPU di Priolo, dove i fenicotteri rosa hanno eletto a proprio habitat il sito di un impianto petrolchimico dismesso. Questa natura ibrida – fenicotteri che nidificano su tubi Innocenti – è l’essenza dell’Antropocene, e nel libro si abbozza un’etica della natura ibrida. Nel passo demartiniano citato sopra compare una visione concettuale della natura ibrida: la natura in sé è un orizzonte della cultura umana, vista anche come appropriazione e dominio sulla natura, o come costruzione della natura. La natura costruita e la natura che limita tale costruzione coesistono, concettualmente e praticamente. Anzi, la natura indipendente è una specie di requisito pratico – pragmatico, ma forse anche trascendentale – del pensiero della natura. O meglio: la natura è tanto costruita quanto indipendente. La natura non può che entrare nel discorso culturale, ma la cultura non ha mano libera nel plasmare la natura. La sensibilità di De Martino prefigurava la natura ibrida dell’Antropocene. Il suo contributo all’analisi delle apocalissi culturali può contribuire anche ad analizzare l’apocalisse della natura nell’Antropocene, e può indicare un insospettato eschaton. De Martino distingue in maniera molto efficace fine di un mondo e fine del mondo: «la fine di “un” mondo non ha nulla di patologico: è anzi una esperienza salutare, connessa alla storicità della condizione umana. Finisce il mondo dell’infanzia e comincia quello dell’adolescenza; finisce il mondo dell’adolescenza e comincia quello della maturità; finisce il mondo della maturità e comincia quello della vecchiaia. […] La fine di “un” mondo è dunque all’ordine della storia culturale umana: è la fine “del” mondo, in quanto esperienza attuale del finire di qualsiasi mondo possibile, che costituisce il rischio radicale»9. L’Antropocene può essere fine del mondo perché l’estinzione della razza umana può far finire qualsiasi mondo culturale possibile, e può essere fine del mondo naturale. Ma quanto insieme a Marcello Di Paola nel libro Nell’Antropocene abbiamo cercato di mostrare è che l’Antropocene potrebbe essere solo fine di un mondo: il mondo dell’etica antropocentrica e del paradigma del dominio cieco della natura. Potremmo stare assistendo alla nascita di un altro mondo culturale, un mondo culturale in grado di salvare il mondo naturale messo a repentaglio dalla vecchia cultura. Se così fosse, la fine del mondo paventata sarebbe solo fine di un mondo – e la malattia culturale diagnosticata da De Martino si potrebbe guarire, forse con farmaci da lui stesso suggeriti. Note 1. Sulle presunte contraddizioni e anacronismi della riflessione sulla fine del mondo di De Martino, almeno nella ricezione che se ne ebbe in Italia nell’immediato, si soffermano a trent’anni della loro prima apparizione i curatori della nuova edizione francese, un’edizione che è anche e soprattutto un tentativo di dare un nuovo ordine alle carte demartiniane. Cfr. E. De Martino, La fin du monde. Essais sur les apocalypses cutlurelles, a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, EHESS, Paris 2016. 2. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, p. 479. 3. Ivi, p. 633. 4. Ivi, p. 636. 5. Ivi, p. 631. 6. Ivi, pp. 645-649. 7. Cfr. D. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Roma 2017. 8. G. Pellegrino, M. Di Paola, Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, DeriveApprodi, Roma 2018. 9. E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 630.
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Questo non è un teatro
Emanuele Becheri, Terzo acquerello astratto, 2015, video, 3’ e 25’’ Quinto acquerello astratto, 2015, video, 1’ e 33’’
Serena Soccio
Lì fuori, nel mondo Francesco Raparelli
«La gente sta fuori»: così si dice della confusione metropolitana, dell’aggressività immotivata, delle reazioni scomposte, delle amicizie un tempo care e poi perdute, d’improvviso. Fuori, da un’altra parte rispetto alla ragione e al buon senso, alle convenzioni e alla gentilezza. Fuori di sé, ovvero da quel confine che fa di una vita un individuo. Varcare il confine significa dunque essere matti, imprevedibili, sciagurati, maleducati o troppo accaldati, appassionati. Ma rimane la domanda: fuori dove? Nel mondo, dispersi tra le cose. Così confusi da non riconoscere più il mio e il tuo: la proprietà privata e l’individuo (che lavora) coincidono. Il mondo, invece, è comune. Fuori stanno anche i giovani che si drogano o bevono più del dovuto. Chi balla in modo selvaggio, quasi si trattasse di possessione. Non stupisce che la droga dei rave e dei club si chiami ecstasy. «Sta in estasi» è un modo per dire la gioia eccessiva, un’esplosione più forte di chi la prova. Così forte che si viene trascinati nel mondo, tra il battito della musica, i colori, i corpi che danzano. Se c’è un disturbo quando l’effetto va via, è che bisogna tornare a casa, nell’interiorità; smetterla di stare fuori di sé. La fugace esperienza del mondo e della sua anima, ovvero la materia inquieta ed eterna che ci fa, rende nostalgici e impacciati: cosa ci faccio qui? L’individuo che sono non è più posseduto, ma torna a essere possessivo, quindi guerrafondaio, spietato, cinico, ecc.
Incuriosisce il Mistico a portata di mano, anzi, di bocca e di stomaco. Basta una pastiglia, legale o illegale, per provare un briciolo di estasi, per stare meglio, per essere meno tristi. A pensarci bene la malinconia è la sofferenza, o la patologia, degli individui; di chi non fa altro che starsene presso di sé. Il disagio della civiltà, appunto. Sempre se siamo convinti che la civiltà coincida col capitalismo e lo Stato. Mettere in dubbio questa coincidenza è il primo gesto di libertà, quello che fa la differenza. Perché? Perché è una mossa, della prassi e del pensiero, che ci getta nel mondo, finalmente. O forse nel mondo già ci stavamo, dal mondo (e non dal paradiso) ci hanno semplicemente cacciato – sia esso terra, strumento, legame. L’individuo è un prodotto storico: per farlo ci sono voluti secoli, recinzioni e torture, internamento e catene. L’estasi, a pensarci bene, è originaria. Cos’è l’infanzia se non la nostra primaria mondanità? L’infante sta fuori di sé, nel senso che è il suo fuori: dal nutrimento ai sorrisi, dai sorrisi al lamento, dal lamento alla lallazione, dalla lallazione alla lingua, al gioco. Il suo è un luogo di transito affettivo: il mondo. Che è comune, ma che da subito si fa suo, ovvero lo fa. Nell’estasi profana, quella a portata di pastiglia, un po’ d’infanzia riemerge dagli abissi, dove in troppi l’hanno cacciata. Non stupisce allora che l’ecstasy (lo «stupefacente») faccia a volte fare l’esperienza della fine del mondo, che però coincide col mondo al suo inizio. Esaurire il mondo (e le forze) per ripeterne l’origine.
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La domanda da farsi allora è la seguente: per essere felici occorre necessariamente essere addicted? A giudicare dai vizi e dai numeri che descrivono la lost generation di cui anch’io sono parte, parrebbe proprio di sì. I populisti, però, hanno chiarito: i giovani saranno liberati dagli antidepressivi. La promessa è nitida, tra i mezzi utili spicca la ruspa, che da sempre – si sa – cancella la malinconia, eliminando dalla vista pubblica i malinconici. C’è un’altra esperienza del mondo e della sua infanzia: si chiama movimento. Il movimento – dei poveri, delle donne, dei migranti e degli studenti, degli artisti – è come un battito cardiaco, si contrae ed esplode. Quando esplode, il movimento conquista le strade e le piazze, occupa la città e i suoi resti. Allora si sente una vibrazione che corre da un corpo all’altro. Contrariamente a quanto affermano le tradizioni, non è nell’isolamento assorto che si incontra l’anima del mondo. È il movimento, la vile multitude odiata da Luigi Bonaparte come da Thiers, da Trump come da Bolsonaro, che rivela la materia dinamica e intensa delle cose. Ovvero il mondo come fonte, sorgente della vita di tutto, di tutti e di ciascuno. Dunque è vero che nel mondo ci siamo già da sempre, ma è pure vero che dobbiamo sempre tornarci. Meglio: pur essendo la materia inquieta che ci fa, dobbiamo anche farla. Si tratterà allora, ogni volta, di esaurire il mondo che c’è, di trascinarlo con le lotte fino alla fine, per ripetere la sua origine, infine.
Nell’arte teatrale e nell’arte lo statuto di crisi è pressoché perenne. Anche lì dove la crisi non si pone, è l’artista a provocarla, poiché il desiderio è l’espressione generativa, creativa, vitale della mancanza. Della tragedia, in fondo, non rimangono che rovine, frammenti, pezzi sospesi e incompiuti. Il fondamento del teatro e dell’estetica dello sguardo cadono a pezzi, come una rovina qualsiasi. La politica necrotica preferisce indurre l’eutanasia a un teatro lasciandolo ammuffire piuttosto che consegnarlo nelle mani di chi se ne potrà prendere cura, preferisce bombardare dispositivi vitali di cultura piuttosto che… ma questa è un’altra storia. O forse no. Mi sono chiesta spesso cosa renda il tragico che permea tutta la nostra vita, al pari della contemplazione di una rovina, un fatto così potente, se non sia per paradosso proprio questa mancanza. Quando ci si rivolge a una rovina, diversa da una maceria per quel contatto col tempo che non prevede la sua ristrutturazione, la costruzione ex novo che cancella le tracce e la memoria, ciò che ci convoca è esattamente la parte che manca, la parte che siamo costretti a ricostruire con la nostra storia personale, il vuoto che siamo chiamati a riempire con quello che siamo, che conosciamo, che ci piace e finanche con le nostre ferite. Su questa mancanza si produrranno rappresentazioni, film, opere d’arte, relazioni amorose… dove le immagini, gli attori, i luoghi non saranno altro che cornici sistemate attorno al nucleo sempre attivo di quel sentimento di perdita, di quella separazione che, da umani, ci caratterizza. Non a caso su un palcoscenico si può fare esperienza della mancata corrispondenza tra noi e ciò che
diciamo. Più parliamo, più articoliamo, più finiamo sul baratro del linguaggio, che è poi la condizione umana e non solo dello straniero: «il linguaggio è sempre lo straniero di qualcuno» dice Claire Fontaine. Noi e gli altri, noi e gli animali, noi e le piante, noi e il linguaggio, noi e l’altro, noi è finalmente un altro. Altro oltre noi. Con noi. Non sarà un caso che l’eroe tragico per eccellenza è colui capace di parlare per procurare silenzio. La frattura, la crepa sono la materia costituente del dramma, come vuole anche una delle sue significazioni, ed è proprio questa assenza a costituire l’urgenza di fare teatro, ancora più ampiamente di fare arte e di vivere. È su questo fil rouge – poiché non c’è opera che non abbia la sua continuazione o il suo inizio in altre arti – che si snoda un percorso di performance per una mostra sul mondo che sta per finire o è già finito, complice dell’eclissi dell’esperienza umana del desiderio. Un percorso in cui, nelle sale di un museo, faccia capolino il teatro nella sua accezione più ampia, quella che rimette anime vive in contatto e che se riesce spacca il cuore, rompe strutture e pregiudizi, ammazza i peccati del capitale. E così ci sarà dato di ascoltare un concerto sinfonico dell’Orchestra notturna clandestina il cui percorso coraggioso porterà la musica classica fuori dalle accademie, alla portata di tutti, in un’esperienza che va oltre il tempo, unendo le perfette strutture mozartiane con composizioni contemporanee del maestro Melozzi pensate per ilmondoinfine. Orchestrazioni originali di pagine memorabili tratte da ouverture classiche (Mozart: Idomeneo, Sinfonia 40) e visionarie (Poulenc: Sonata per clarinetto e pianoforte).
Barbara Berti, Bau #1 (...)
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Opere originali che completeranno una programmazione fresca e innovativa che unisce stili, forme, armonie nel linguaggio in grado di parlare a tutte le forme di vita. Uno spettacolo di danza della coreografa Barbara Berti Bau#1 che gioca con il termine «Bau» nella doppia accezione di struttura e di lingua dell’animale. Una danza il cui processo germinativo mostra lo scollamento tra pensiero e corpo, tra corpo e movimento. Con il coro del Gruppo Vocale Ottava Rima la fine potrà dirsi con la parola leggerezza… Una creazione originale inedita per ilmondoinfine, estratto di un lavoro coreografico più ampio –VN Serenade –, della coreografa e danzatrice Cristina Kristal Rizzo che ripercorre l’origine e le tappe fondamentali del pensare col corpo e ricollega, in una sequenza di movimenti della durata di un respiro, passato presente e futuro. Ci sono luoghi che si riescono a raggiungere solo nello stare. Muoversi nel flusso, nella continuità delle cose pur rimanendo seduti sulla sedia. Battere un contrattempo al ritmo del mondo, avere voglia di rimanere mentre tutti se ne vanno. Andare in quel nulla personale, in quel senza sentiero che misura il proprio limite. È riempire di terra la voragine da cui ci si sporge e camminarci sopra.
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Una fine di mondo segna il terminare di un ciclo, un momento di chiusura che già contiene la premessa di uno nuovo che comincia a esistere in un punto nel quale avviene il passaggio. Determinato e dilatato, questo punto nel tempo e nello spazio esprime la molteplicità senza definizione di ciò che annuncia il nuovo divenire. Espanso, quel punto prende la forma di un caos indistinto di forme, di una composizione che anticipa l’ordine verbale pronto a disporsi secondo un principio lineare, ovvero la premessa di un discorso.
Il soundwundertunnel si colloca prima di questo discorso e dà una pur parziale rappresentazione di questa varietà di opportunità. Già nel 1966 il tunnel sonoro di Gianni Pettena, attraverso la casualità di suoni generati da un’azione performativa, metteva in scena il combinarsi di natura, suono e definizione spaziale. In questo esperimento ospitato alla Galleria Nazionale si offre all’orecchio del visitatore una varietà di possibili traduzioni di una sequenza spaziale e musicale non molto lontana da quell’esperimento.
ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Vi si può trovare l’elemento dell’acqua, nella composizione dell’irlandese Francis Heery che dà liquida testimonianza di una cascata. Similmente, l’artista del suono Matteo Polato, riassume questa potenzialità in un brodo indistinto, pre-ritmico e primordiale. Pietro Lussu e Alice Ricciardi condensano una gamma importante di possibilità tramite il linguaggio jazzistico dell’improvvisazione, luogo elettivo dove si esercita il rifiuto del controllo. Medesima traduzione si trova in Milarepa di Benjamin Leal, musicista,
e Henry Bell, artista visivo, che compongono il duo interdisciplinare losangelino High Priest e realizzano nel concreto la possibilità imprevedibile del sodalizio. Lo sciamanismo squisito di Reto Pulfer si accompagna all’estetica simbolista di Dirk Bell (nel duo Belle Poudre) in un pezzo che dimostra l’abitare della possibilità nella gamma sonora di ogni giorno. Tra i cori di voci che per partito preso non vogliono significare s’inseriscono gli yeah orgasmici messi in rassegna da Luca
Petri Kuljuntausta Diptera and Fire, 2018 7:04
Sam Conran 9-Dimensional Chaotic Attractor, 2018 18:09
Vitone. Sembrano rispondere al nuovo orizzonte come le combinazioni polisemiche di Salnitro, pioneristica operetta di poesia sonora di Milli Graffi che racconta la molteplicità dei discorsi al di sopra della convenzione verbale. Il passaggio a un mondo nuovo è anche una composizione descrittiva, un’opera pittorica realizzata attraverso i cromatismi della vibrazione. Ne firmano alcune, memorabili, Aimée Portioli, che esce in questa sede fuori dal suo ambito consueto di musica elettronica canonica, Petri Kuljuntausta tra i
musicisti che più hanno definito e reso inconfondibile la gamma sonora finlandese, Stefan Schleupner e Sam Conran, compositori e inventori dei loro propri strumenti attraverso la sintesi e in qualche modo genitori del loro stesso suono, e Jani A. Purhonen, artista di formazione accademica esclusivamente interdisciplinare in rappresentanza di un’idea scandinava di artista del futuro. I loro, nel complesso, sono panorami estetici che combinano prospettive spaziali inedite e sfidano il senso comune ispirando visioni libere dal senso di gravità.
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Infine, Why, un pezzo celebre della Plastic Ono Band, alla fine del tunnel ci avvicina all’ordine conosciuto del linguaggio, ponendoci senza sosta una domanda senza risposta, come quel «Wie lange sind wir denn hier jetzt?» di Belle Poudre. Domande che ci riportano con i piedi per terra, ancorandoci al bisogno di sapere, a una sensazione familiare di finitudine: per quanto tempo saremo qui?
Eva Macali
Luca Vitone Rock Suite in Y, 1989 7:10
High Priest Milarepa, 2018 11:02
Milli Graffi Salnitro, Registrazione dal programma «Audiobox», diretto da Pinotto Fava, studi Rai Roma, 1976 17:54
Aimée Portioli Everyday A Little Less, 2018 5:35
Pietro Lussu e Alice Ricciardi The Rite of Basto, 2018 5:01
Soundwundertunnel Francis Heery Cascade, 2015 29:50
Belle Poudre (Dirk Bell/Reto Pulfer) Hörnisse, 2018 18:00
9-Dimensional Chaotic Attractor 9-Dimensional Chaotic Attractor è una collaborazione tra il Sound Artist Sam Conran e il fisico James Jackson, cominciata da una conversazione sull’uso di macrosistemi autoregolanti su larga scala – come quelli che possiamo trovare nella termodinamica o nella meteorologia – per creare in questo caso un dispositivo compositivo. Il pezzo è stato registrato utilizzando un prototipo creato per controllare il sintetizzatore Buchla200e presso gli studi EMS a Stoccolma, mentre Conran era compositore residente nel marzo del 2018. Tecnicamente, l’apparecchio crea dei voltaggi controllabili Op-Amp generati con un attrattore ipercaotico Baier a 9 dimensioni, scritto tramite una libreria di codice C++ ODEINT. Il sistema incorpora 9 regolatori inseriti all’interno del sintetizzatore Buchla attraverso le prese jack, utilizzando il calore interno generato dai componenti. Il risultato è un sistema autoregolato a 9 dimensioni attivato da un rumore stocastico termodinamico di estensione potenzialmente infinita [Sam Conran].
Yoko Ono/Plastic Ono Band Why, 1970 5:35
Cascade
Con Cascade ho voluto creare qualcosa che avesse elementi del sublime inquietante che troviamo in H.Ph. Lovecraft o David Lynch (o persino David Attenborough…) o la primordiale stranezza dell’espressionismo astratto; qualcosa che affrontasse l’alterità della vita non umana; l’inusuale della fantascienza, di organismi viventi che sono inevitabilmente così vicini a noi, vibranti, attivi, ma che esistono, in maniera inconoscibile, al di fuori di ciò che chiamiamo linguaggio, e dunque al di fuori, e questo è cruciale, della nostra comprensione concettuale – sebbene la domanda sia: siamo altrettanto fuori della loro? Cascade è stato creato usando il software Max/MSP e alcuni piccoli strumenti a percussione. La componente Max contiene generatori a impulso, ritardi variabili, un assortimento di buffer, filtri casuali, droni con modulazione di ampiezza e alcune elaborazioni live di strumenti percussivi. Ho poi mixato e regolato le sonorità ottenute in performance e infine le ho editate per la versione finale [Francis Heery].
Diptera and Fire
Questo lavoro si basa su due elementi sonori: i suoni dei ditteri, le mosche a due ali, e del fuoco. Per il lavoro ho selezionato suoni di diversi tipi di ditteri. I loro suoni sono collocati all’estremità sinistra e destra del campo stereofonico, e a volume più alto rispetto al suono del fuoco. Questo riflette l’equilibrio di un nuovo mondo (mondo, infine): sulle rovine della vecchia civiltà gli umani ne cominciano una nuova. Tutto parte nuovamente dal fuoco. Ma il nuovo inizio simboleggia la principale differenza tra uomo e natura: ciò che è buono per noi, come il fuoco, potrebbe essere letale per altri organismi biologici. Sta agli umani capire come sostenere l’equilibrio tra gli organismi viventi [Petri Kuljuntausta].
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Milarepa
Nel pantheon buddista tibetano, il Buddha Milarepa arriva all’illuminazione dopo aver vissuto una vita da assassino vendicativo. High Priest racconta questo viaggio verso l’ascesa e il declino dell’epoca dell’Antropocene. Ispirato alla taiga asciutta e fragile ai margini della civiltà, High Priest ha registrato questo pezzo in uno studio quasi anecoico. La taiga remota, simile a quella in cui Milarepa ha trovato l’illuminazione, offre un contesto geologico nel quale è ancora possibile contrastare l’impatto umano sulla terra vergine. Questi due mondi presi insieme consentono di giungere a una rivelazione su come l’umanità in quanto specie possa ancora tenere insieme i propri bisogni materiali con il mondo inteso come totalità [High Priest].
Jani Anders Purhonen nonnanonpatriotico, 2018 13:09
Matteo Polato Studio per «Il grande dio Pan», 2018 12:10
Il grande dio Pan
Pan inventò il flauto, dal canto degli uccelli, ma le muse scelsero Apollo come loro dio della musica. A Pan rimase il suono della natura, il riverbero, la risonanza, l’Echo. Il suono misterioso di ciò che sentiamo ma non vediamo, in quello spazio liminale tra natura e mondo interiore. Si dice che Pan morì, e con Pan morì anche Echo. «La natura cessò di parlarci – oppure non fummo più capaci di udirla. La persona di Pan il mediatore, come un etere che avviluppa invisibile tutte le cose naturali di significato personale, di lucentezza, era scomparsa» (J. Hillmann). Ora Pan continua a vivere nel sogno, nell’incubo, nell’allucinazione, quando l’erotico e lo spaventoso si confondono. Nel sogno che viene provocato da un rumore, che nella nostra mente prende nuova forma. Ne Il grande dio Pan provo a ritornare a quel suono, far risuonare di nuovo quell’eco. Ho chiuso sette notti in un feedback, come un rituale ciclico, un processo in cui ogni notte è registrata nel luogo in cui dormo e diffusa la notte successiva, registrando nuovamente, e così via. Dormire mentre ascoltiamo noi stessi che sogniamo [Matteo Polato].
Everyday A Little Less
Questa vita come la stiamo vivendo e come l’abbiamo vissuta la vivremo ancora. Arriveremo a un momento di rinascita e di ricostruzione, dove tutto anziché decrescere, crescerà di nuovo. Dopo la fine un nuovo inizio, dopo il buio, la luce, dopo la sofferenza, la gioia, dopo la malattia, la salute. Arrivano così immagini luminose anche dal buio estremo, poiché nulla dell’uomo andrà perduto. Siamo dei gusci, contenitori di anime [Aimée Portioli].
Stefan Schleupner K13profil, 2018 5:41
nonnanonpatriotico
Il collasso di alcuni sistemi è la premessa per la nascita di nuovi sistemi. I ponti creati dalla globalizzazione devono essere riconquistati. Quali sono le loro frequenze di risonanza? Si può distinguere tra valutazioni e opposizioni, accumulando non solo conoscenza ma anche potere? Forze di persuasione primitive e culturali inducono intuizioni in punta di lingua che resistono alle frizioni tra membrane fisiche. Esse creano una loro musica secondo note di vari temperamenti mentre collidono con gli spigoli di ogni individuale istinto alla ribellione. Massaggiando i punti morbidi e passando le dita tra diverse ciocche di capelli si producono svariate tonalità sonore. Con 33 hertz si ottiene un feedback a -20 decibel [Jani Anders Purhonen].
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
K13profil
Sono cresciuto in una città proletaria post-sovietica chiamata Karl-Marx-Stadt nella Repubblica Democratica Tedesca, oggi Chemnitz. Dopo il crollo del muro di Berlino, la metà delle persone se n’è andata e la regione è entrata in una profonda depressione. Lì si è formata una grande scena di musica e cultura indipendente. E il centro giovanile alternativo di sinistra AJZ ha avuto una funzione importante in questo sviluppo. Molti giovani hanno cercato di riaggregarsi attraverso il punk e l’hardcore, facendo rap o breakdance, col djing ecc. Un incredibile miscuglio di persone alternative provenienti da diversi movimenti si sono riuniti in questo luogo unico e hanno cercato un proprio modo di pensare la realtà, con la musica 24 ore su 24, sette giorni a settimana. Io ero particolarmente ispirato dall’attimo precedente l’inizio dei concerti, dai suoni precedenti la musica vera e propria. Quando i dj inserivano i cavi prima di cominciare, quando i gruppi punk attaccavano i pedali e le chitarre, persino quando si rompeva qualcosa con le casse accese, era come un concerto prima del concerto vero e proprio: l’ascolto del suono prodotto casualmente dai ritorni e gli aggiustamenti dell’impianto. K13profil è una composizione di registrazioni di questo tipo di suoni [Stefan Schleupner].
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
ilmondoinfine: vivere tra le rovine
Manifesto
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Incontri alla fine del mondo (alla fine del cinema)
Stan Brakhage
Sono giunti Tempi Difficili! La schiavizzazione del salario è quasi completa! I bambini, di fatto tirati su dallo Stato… in tutto il mondo… (non c’è via di fuga) Un Evo progressivamente più buio… di nuovo… Le Arti si rivelano una parodia di ciò che erano una volta. In questo Tempo, ARRIVA IL CINEMA!, figliastro del Canto e della Luce, strappato dalla sua naturale misura, incasellato per mero piacere drammatico narrativo a buon mercato, in eterno spillato alla Letteratura, con i film poco più che illustrazioni di un libro. Cineasti DISunitevi! Salvaguardate l’indipendenza da ogni aggressione! Accogliete quell’Ombra che ci ha dato La Luce (I cinesi, i film li hanno chiamati «Ombre Elettriche»…) Ogni 48° di secondo di giro dell’otturatore del proiettore, ogni livido a forma di ombra lasciato sugli alogenuri d’argento bruciati dalla luce che viene colto dall’obbiettivo, ogni sbavatura che il regista appone sulla pellicola è un’interferenza con la sfarfallante finestra-di-bianco che È il Cinema, è una proiettiva hybris-di-forma che interrompe la più pura incandescenza, È, in quanto tale (nella misura in cui si sia regista-indipendente) una lotta con gli angeli ai piedi della scala di Giacobbe: SOLAMENTE con un equilibrio dell’Estetica a tutto raggio, e obliquo, potrebbe un giorno giungere, umile, a ciò: 1. La più nera delle code di pellicola proiettate appare sullo schermo come un rettangolo ammorbidito del più evanescente baluginio, aureolato in ciascun occhio che lo percepisca, effimero intrico disegnato dalla porta elettrificata da cui sorge a ciascuno scatto dell’otturatore, misteriosa aerea luminosa gelatina nella mente dello spettatore. 2. Così la LUCE non potrà mai, con questo mezzo, essere completamente sovrastata o referenzialmente sconfitta (comunque deviata a causa di rimandi letterari o obliquità pittoriche). 3. Quindi, tutti i cineasti sinceramente indipendenti, al pari dei veggenti dell’antichità, sono seguaci della Luce e, in quanto tali, inevitabilmente e senza possibilità di scelta imprimeranno il proprio segno sul Cinema al servizio delle infinite varietà di riconoscimento e di venerazione nei confronti della Luce.
4. Di conseguenza, nel tempo – perfino in Tempi come questi – si giunge alla certezza che codesto mezzo, il Cinema, sia, secondo i propri occhi, in sintonia con le sinapsi del Sistema nervoso Umano in evoluzione… 5. Nella misura in cui, ontologicamente parlando, a cavallo del secolo il lampo del Pensiero si trovasse anche a corto di parole trasformative, si arenasse sull’«Ineffabile», si dadaizzasse e così via… nella misura in cui la dimensione Matematica e tutti gli altri Simboli linearmente algidi, compreso quello «pittorico», si fossero adoperati a separare le cellule animali umane dalla naturale catessi per la quale si sa essere simili alla luce (particolato di onde) e così protési alla Luce… nella misura in cui, così, il movimento simulato della luce come pensiero fosse diventata, in quanto Cinema, un’invenzione nata dalla pura necessità di esteriorizzare pensiero visivo in movimento (così come, un tempo, l’esteriorizzazione del battito del cuore venne inventata battendo le mani sul petto o su un tronco cavo). 6. Fino ad allora, come il regista Len Lye ha consapevolmente articolato per primo, gli occhi della mente, e le cellule del sistema ottico in collegamento sinaptico, non possono che essere gli artefici primari dello sviluppo dell’Estetica Cinematografica e tutta la Techne che ne costituisce il corollario (indipendentemente dai piacevoli usi propagandistici e d’evasione che il cinema commerciale/di Stato imponga al mezzo…) CINEMA!: quella necessità data per la prima volta nella Storia dell’Uomo, permettendo la condivisione dei processi del pensiero… i movimenti della Mente, da cui quel cruciale riconoscere ciò che tutti noi condividiamo veramente – la graziosa per quanto solitaria grandezza dell’assoluta e ovvia unicità di ciascun istante di ogni Essere, che diventa condivisibile soltanto se siamo informati dalla irriducibile sintesi biologica attivata in noi dalla Luce. Il cinema commerciale continua a fallire. Recupera le perdite, inciampa, «sembra vada bene» per un po’, fallisce un’altra volta, per sempre… perché l’uso che fa del Cinema (l’evasione, una necessità degli schiavi dello stipendio che non possono escogitare alcuna vera fuga se non schiavizzando gli altri, «sogni» sognati-comefabbricati per superare notti insonni, empie disposizioni ordinate per coloro che temono il caos
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Malastradafilm, siamo dispersi nella foresta, senza filo, senza ago, senza sapere cucire, 2018
Stan Brakhage, Mothlight, (...)
Donatello Fumarola
ordinario, stili-di-Tempo per tempi che mancano costitutivamente di stile-come-anima), tutte queste blasfemie d’intrattenimento dai cast stellari ai danni della Forma Filmica, i film così come quelli che volteggiano in infiniti caroselli sono normativi per uomini nelle caverne alle prese con i campi immaginari del mondo sociale… nulla di male, nel lungo termine. Ma i registi giovani, sempre quelli GIOVANI, devoti dell’Arte o innamorati del Sacro – quella radiosità che circonda qualsiasi cellula organica ed è in SINTONIA con il Sole – rifuggono dalle pretese di un ordine sociale che non sia il confine esterno dell’essere Umano che condividiamo tutti: non perseguono una carriera nel Cinema o tantomeno nel Video, bensì campano facendo altri lavori, risparmiano tanto da comprare qualche rullo di pellicola, uno per volta (potenziale gioiello/ ciascun fotogramma), espongono gli alogenuri d’argento alle proprie viscere elettriche così come alla luce riflessa del mondo fenomenologico, e poi procedono al montaggio nel modo più fedele che sia emotivamente possibile alle particolarità della propria memoria, rimanendo in contatto con quel brusio della Mente altrimenti noto come la Musa. Questi cineasti, per la maggior parte sconosciuti, lavorano con il mezzo-cinema in maniere assolutamente tradizionali, modalità che naturalmente associamo con quelle dei compositori, dei poeti, dei pittori (alcuni dipingono direttamente sulla pellicola), in solitudine, o con l’aiuto di pochi amici, e spesso proiettano i negativi originali (non potendo permettersi il positivo); conducono una vita quasi monastica, ma vicini alla verità, «poveri ma felici», almeno per come li conosco, adesso, nel soggiorno, dove fanno le proiezioni, alla ricerca di qualcosa di tanto effimero quanto un Mistero a cui non si può dar risposta… in virtù di una dedizione a qualcosa di tanto ineffabile quanto la Forma Estetica: l’attività dell’artista, inesorabilmente ma dolcemente l’umana norma-nel-Tempo prima o poi dà forma a tutti noi.
[26 maggio 1992]
Traduzione dall’inglese di Carla Scura
Alla fine non ci sarà il film di Werner Herzog (Encounters at the End of the World) a cui rubo il titolo, ma la flagranza dell’incursione antartica del grande apolide tedesco con l’ossessione del limite (del raccontare) è tale che non potevamo non provare a farlo apparire in qualche modo (se non tra le pareti della Galleria, almeno in queste pagine, per il titolo), augurandovi di incontrarlo altrove (fosse pure in una copia pirata in rete), a supportare le sponde di questa mostra (di questa vita delle rovine). Né ci sarà la proiezione nel piazzale davanti alla Galleria della copia in 70mm di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick che volevamo facesse da incipit a questa mostra, all’insegna del viaggio infinito in uno spazio sfinito dove tutti i tempi (e tutta la storia umana) si condensano e si annullano in un’epifania finale al di là di ogni apocalisse. E dove la qualità organica originaria (la pellicola) di un cinema che ha smesso di essere tale (mutando in altro attraverso il divenire digitale) era offerta agli occhi di ognuno nella sua forma più sontuosa. Mi preme iniziare da queste due assenze, perché proprio a partire da esse siamo stati costretti a disegnare (e dunque a scoprire) una prospettiva più organica rispetto a tutto quello che succederà e si vedrà nella mostra, muovendoci in territori più periferici, più disseminati, più dissestati anche, ma messi in connessione con le altre opere e gli incontri, con la tela che si dipana e che lega discorsi eterogenei e discipline separate. Ci saranno cineasti atipici, film eccentrici, forme inedite di vecchie ossessioni, schegge impazzite, intervalli. Ci sarà lo straordinario lavoro di Nika Autor (Newsreel 63 – The Train of Shadows), che era il cuore dell’installazione all’interno del padiglione sloveno alla Biennale
Arte 2017, rimontato con le immagini aggiunte dopo la presentazione veneziana, dedicato al viaggio estremo di chi migra verso l’Europa. Un film folgorante e inclassificabile, in aperto dialogo col dittico di Želimir Žilnik (Logbook Serbistan e The Most Beautiful Country in the World, che presentiamo in collaborazione con il Trieste Film Festival) a cui peraltro Obzorniška Fronta, il collettivo di cui fa parte Autor insieme a Jurij Meden e Ciril Oberstar, si ispira direttamente, rilanciando la linea politica e artistica dei Newsreel balcanici a cavallo del ’68, a partire dalla numerazione. Ci sarà il monumentale Homo Sapiens di Nikolaus Geyrhalter – in risonanza con lo sguardo etologico di Enrico Alleva – e le piccole forme di vita del fondo fluviale di Acéra, ou le bal des sorcières di Geneviève Hamon e del grande Jean Painlevé (autore di «cinema scientifico» e di testi surrealisti, oltre che attore in Un Chien Andalou di Buñuel) si intratterranno sulle soglie della vita estrinseca di Felice Cimatti. Abbiamo cercato di scatenare l’incontro tra una filosofia della metamorfosi e le immagini di un film fatto con le ali di farfalla, i petali e le foglie incollati alla pellicola (Mothlight di Stan Brakhage, che sarà proiettato in pellicola); tra l’invenzione dell’universo stellare filmico (nell’opera buffa di Johann Lurf o nel documentario fantascientifico di Errol Morris) e le soglie della vita, tra organico e inorganico, dell’agronomo Enzo Mescalchin. Tra l’archeologia del cinema (le sue rovine e i suoi archivi) e le necessità di alcuni giovani autori (oggi, in Italia) di riplasmarne i confini e le metodologie, il senso e l’uso stesso attraverso una sua ricostruzione: Malastradafilm, Alberto Momo e Federico Francioni, che hanno attinto
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
rispettivamente agli archivi delle tv private siciliane, alle immagini industriali conservate presso L’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e alle collezioni di home movies dei Chicago Film Archives. Sono le rovine qui a parlarci, a far parlare film distanti tra loro, accomunati dall’uso di immagini di altri tempi e altri soggetti filmanti, in un’opera di straniamento che le rende straordinariamente (miracolosamente) contemporanee, vive. Ma il cinema è sempre reperto, lo è dal suo inizio (dalle lanterne magiche in cui si rappresentavano fatti «realmente accaduti» – come la decapitazione di Maria Antonietta tanto popolare alla fine del Settecento – ai Lumière). È sempre un resto di mondo, un rudere, la testimonianza di un tempo mai stato, il desiderio di uno spazio futuro. Quello che è indubbio è che il cinema che si è fatto per tutto il XX secolo è finito (anche se sarebbe più giusto dire: è mutato). Nonostante alcuni grandi modernisti ormai anziani (come Žilnik, Júlio Bressane o Tonino De Bernardi) sembrerebbero dirci il contrario, continuando a fare grandi cose confrontandosi con i nuovi strumenti, con l’energia, la libertà e la spericolatezza di un esordiente. È infatti di Bressane il film che inaugurerà le proiezioni, Sedução da carne, capolavoro etnografico, erotico, poetico, filosofico, antropofagico, sintesi cristallina del lavoro da amanuense che fa con le immagini e i testi il follemente saggio cineasta carioca, qui con il cadavere squisito di Marcel Duchamp (vocale) a inventare un film alchimista che potremmo usare come Manifesto per la materia futura di un cinema nuovo. L’incontro con le sue immagini appartiene all’ordine dello stupore, della traslucidità, della bellezza bruciante, del metodo e della dialettica mai persuasa, della ricerca mai soddisfatta, infinita.
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Homo Sapiens
HOMO FICTION
L’industria cinematografica e i festival di cinema hanno bisogno di categorie, documentario, fiction... Con Homo Sapiens lo si può fare solo parzialmente. Può essere visto forse più come un documentario che un film di finzione. Ma la ragione per cui considero Homo Sapiens una produzione di vera finzione è che siamo intervenuti molto e abbiamo cambiato molte cose: gli alberi, le costruzioni e persino il vento sono stati per me come degli attori. Non è mai stata mia intenzione rappresentare una realtà documentaria. Si tratta di una visione che si avvicina di più alla finzione, al racconto. L’aspetto documentario del film sta nel fatto che le costruzioni e i luoghi possono essere ritrovati ora, al presente, o per lo meno potevano esserlo finché non sono stati demoliti. Non mi piace, tuttavia, ridurre il film a un mero scenario post-apocalittico. Perché, al di là di una visione retrospettiva nei confronti del genere umano, si tratta di un film che continua a ritrarre in modo molto potente questo soggetto. Essendo così radicalmente assenti, gli esseri umani sono ancora più presenti. In questo senso è un film sulle persone, anche se non compaiono.
meno di spiegazioni: posti incredibili per le loro dimensioni o perché in uno stadio avanzato di ritorno alla natura. E al montaggio è stato chiaro da subito che il film in qualche modo doveva muoversi costantemente tra nuovi aspetti. Il punto più importante era trovare luoghi coerenti con le nostre premesse: produrre uno sguardo critico e retrospettivo nei confronti del genere umano.
L’ISTITUZIONE DELLE ROVINE
La nostra attenzione doveva andare al sistema umano e alle forme organizzative tra le persone, per questo era stato esplicitamente deciso di non mostrare nessuno spazio privato. Naturalmente la facilità di riconoscere alcuni luoghi è data dalle scelte che faccio. C’erano moltissimi luoghi che non offrivano questa possibilità, era dunque cruciale che i luoghi e le immagini fossero in grado di raccontare storie sul loro stesso passato. Ci sono passaggi dove abbiamo inserito tagli di diversi luoghi per formare una sequenza coerente, perché non era importante dove erano state realmente filmate. E poi dopo ci sono luoghi specifici che possono essere riconosciuti come strutture connesse con altre, o come isole, ad esempio. In questi casi c’era uno scopo diverso: presentare la varietà geografica della completa distruzione.
ALLA RICERCA DELL’UOMO PERDUTO
Durante la lavorazione abbiamo sempre usato il titolo Sometime, anche se sapevamo che avremmo dovuto trovare una soluzione migliore, perché quel titolo anticipava troppo chiaramente uno scenario futuro, nel quale le persone hanno smesso di esistere. Volevo lasciare aperta questa lettura, ma senza suggerire che fosse l’unico modo di guardare il film. Il genere umano mi interessa sempre di più, insieme alla domanda su cosa stiamo facendo qui, su cosa ci lasceremo alle spalle. Nel film compare sicuramente un senso di responsabilità verso l’ambiente, per questo era importante avere gli esseri umani nel titolo – ci abbiamo messo un bel po’ di tempo per trovare la formulazione giusta. Penso si tratti di una buona variante del tema Homo sapiens nella sua denominazione scientifica, proprio perché in questo contesto semplicemente non ti aspetti l’assenza degli esseri umani. Ma il film offre anche associazioni archeologiche e storiche. All’inizio cercavamo solo posti deserti, nel senso di abbandonati. Posti così è facile trovarne, ma ci siamo accorti che diventava subito banale. Quello che ci serviva erano posti con una storia, dai quali si potesse vedere cosa fossero stati una volta: una fabbrica vuota, una casa in rovina… non era questo a interessarci. Era importante che i posti avessero delle storie, senza necessariamente chiederti di simpatizzare con queste. Abbiamo cercato posti con una storia che potesse fare a
IMAGO MUNDI, IMAGO HOMINIS
Non è il primo film dove costruisco una narrazione solo attraverso le immagini. È certamente il primo dove nelle immagini non c’è nessuna persona. Homo Sapiens è forse il più fotografico di tutti i miei film. Le immagini sono sempre state importanti per me, e lo sono sempre di più, e qui quasi ricoprono il ruolo principale. Girare Homo Sapiens è stato un processo che ha comportato lo scendere a patti con quello che era disponibile, ma quello che era disponibile lo abbiamo manipolato ogni volta che lo abbiamo ritenuto necessario. Abbiamo per esempio creato il vento. Durante il montaggio ci siamo accorti che nella maggior parte degli interni non c’era alcun movimento, e non era possibile avere a che fare con questa mancanza di vita solo aggiungendo del suono. A volte abbiamo corretto le luci e spesso abbiamo usato il digitale per rendere gli oggetti più precisi e conservare la concentrazione su di loro. Non volevamo che si sentisse alcun rumore umano, e questo significava che difficilmente potevamo registrare suoni originali. I suoni che sentiamo sono stati creati con cura immagine per immagine, attingendo a materiale d’archivio e a una gran quantità di suoni registrati a questo scopo. Abbiamo girato molto in Europa e negli Stati Uniti. In Argentina abbiamo trovato un posto che era stato inghiottito da un lago salato, poi
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
l’acqua lo ha fatto riemergere di nuovo lasciandolo completamente bianco per via del sale. Siamo arrivati lì al momento giusto, quando non c’erano impronte visibili e il cielo era assolutamente perfetto: nel film è una sequenza di cinque minuti che abbiamo girato in un pomeriggio. Abbiamo fatto molte riprese anche in Giappone, in parte dell’isola abbandonata che compare alla fine del film e in parte di Fukushima. Il film inizia con i mosaici del monumento di Buzludzha in Bulgaria e poi c’è una sequenza con immagini di Fukushima dove per molto tempo non sai cosa stia accadendo, perché mentre giravamo il degradare della situazione non era ancora molto evidente. Eravamo a circa 4 km dalla centrale nucleare.
Nikolaus Geyrhalter, Homo Sapiens, 2016
Nikolaus Geyrhalter
Schegge soffici enrico ghezzi
ALL’INFINITO
Per finire il film ci sono voluti quattro anni. Le cose continuavano a cambiare. Abbiamo dovuto lasciar andare alcuni posti perché nel frattempo erano stati demoliti e altri ne abbiamo aggiunti. Poteva succedere di andare da qualche parte per iniziare le riprese e magari non era rimasto niente: il radar che si vede nel film il giorno seguente non c’era più. Altre volte siamo stati fortunati. Mentre stavamo filmando il mattatoio, la parte finale dell’edificio era stata già demolita. Spesso abbiamo trovato i luoghi che avremmo voluto filmare su internet e poi, una volta arrivati, non c’erano più. L’isola giapponese è una vecchia isola mineraria diventata non più redditizia, ma ora è tutelata da un ordine di preservazione. Sarà lasciata così per decenni finché non smetterà di esistere. Nelle città molti edifici abbandonati o no durano a lungo o niente accade perché magari c’è un contenzioso sulla proprietà dell’immobile. Durante la lavorazione le ricerche sono andate avanti costantemente con il risultato che si trovavano sempre posti nuovi. Il film non ha nessuna vera fine. Avrei potuto continuare a filmare all’infinito.
Testo raccolto da Karin Schiefer, traduzione dall’inglese di Donatello Fumarola
Con l’Intervallo Rai ci troviamo di fronte a una cosa che da una parte è frantumata, spezzettata, rimontata, dall’altra è invece fin dall’inizio un detrito. Non solo nel caso specifico degli intervalli, ma in ogni cortometraggio: si tratta sempre di un resto. Potenzialmente l’Intervallo è infinito, è un frammento di infinito. In questo senso c’è la doppia valenza (sempre, non come eccezione) di quello che resta e di quello che è stato costruito, che immediatamente si auto-rubrica in uno spazio senza illusioni. Dall’altra parte è invece costruito come tale, come spazio illuso. Quando ho fatto Schegge, una rubrica nata nella Rai3 di Angelo Guglielmi negli anni Ottanta, ho cercato di ottenere la possibilità di mettere in scena un savoir faire di repertorio in linea di massima basato sul repertorio (anche il repertorio più scemo, non il repertorio come punta didatticoorganica, ma come discrepanza). Schegge, che come l’Intervallo copriva buchi di palinsesto, erano lunghi nastri con materiale eterogeneo montato a lunghi pezzi, e nelle intenzioni si dovevano riprendere, alla messa in onda successiva, dal punto in cui erano stati interrotti, ma così non è stato perché curiosamente anche lo schema produttivo del palinsesto non tollerava che si facesse partire un nastro da metà, senza la verifica tecnica delle barre colore ad esempio. Per me era come il fiasco a consumo, come quando nelle trattorie c’era il fiasco di vino e si pagava solo quello che si beveva, e chi arrivava dopo il fiasco già iniziato lo riiniziava da lì. Poco dopo, per circa un anno, fu prodotto un Intervallo di Alessandro Cocito e Luca Pastore, che fecero una cosa un po’ meno soffice rispetto agli intervalli originali, mentre il massimo della sofficità furono i corti di Cinico TV di Ciprì e Maresco. Nel caso di Schegge non c’era assolutamente una differenza di forma, cioè sostanziale, tra costruito, preparato, ritrovato e l’uso di queste cose…
La battaglia dei palinsesti, sul piano europeo e americano (ma anche in Oriente), è ormai quella di mescolare sempre di più, all’interno di unità di durata spesso brevissime (anche in Italia) che usano la promessa di un programma come i trailer di cinema, cioè le cose più efferate, violente, oppure più sorprendenti, thrilling. Ma quello che fanno, secondo me, fa male. Anche se è affascinante da vedere – capisco che lo si faccia perché probabilmente ha dei riscontri d’ascolto –, perché è lì che si gioca la vita, la morte, la durata di vita come unità di misura del corto, del cortissimo e dell’intervallo... Intervallo è un bellissimo titolo, peraltro già abusato, se pensiamo all’intervallo tra primo e secondo tempo. Il titolo di Schegge speravo risultasse chiaro, perché le schegge ti fanno male: quando accarezzi con la mano la materia (anche se in questo caso non è materia 3D o vivente ma solo immagini)… Per quello che era la televisione in quel momento, che si risucchiava in tocchetti di gelato, quello che volevo e speravo era permettere (e permettersi) di fare una cosa del tipo «chi tocca i fili muore». Quando dico «chi tocca i fili muore» è una cosa che si mostra, data dalla televisione, ma si mostra senza volersi mostrare. Gli intervalli erano meglio di un’annunciatrice o di un annunciatore, erano un annuncio. Questa è la cosa interessante, che fosse un’aggiunta di pathos nel mancare di informazioni che non fossero le didascalie della foto, che spesso era solo la scritta «Intervallo». C’era anche una sospensione, la paura o il desiderio che durasse troppo (raramente che durasse poco): era un esempio di televisione virtuale, dove comunque quello che dominava era appunto il gioco del desiderio, più a nudo che in altri casi. Era molto forte – perché totalitario, senza concorrenza – però c’era questa scelta didattica dalla quale mi sarei aspettato qualcosa di più, con
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una visionarietà più evidente e più sorprendente. Schegge aveva invece questo abrupto – era già un montaggio anche se diverso da Blob – e in qualche modo diventò una specie di enciclopedia portatile del repertorio Rai (musicale, rubrichistico... tutto quello che non era «fiction» in quel momento). Io invece ardevo dalla rapidità del bruciare i passi per arrivare al nodo del corto cortissimo (fino alla sparizione). Perché per quanto mi riguarda – prima di entrare in Rai – era il corto l’oggetto del desiderio, ma soprattutto oggetto del desiderio di quel che poteva seguire. Però qui interviene la questione del soggetto. Prima abbiamo parlato di una televisione fortemente centralizzata, senza altri concorrenti. Tutta questa televisione era, ed è ancora, un continente sconosciuto di soggetti. Dico questo perché per me ha a che fare con un desiderio lontano, ovvero quello di mappare come autori (autori per niente, però autori di tutto, quindi autori per tutto) quelli che hanno fatto la televisione (ed è importante che sia in televisione). Credo sia un lavoro ancora da fare, anche se sempre più difficile. Io non vedo una squadra (di soggetti, appunto), come sarebbe necessario, che si dedicasse per un anno a tirar fuori una decina di «rifacitori del mondo» (come potremmo chiamarli). L’unica cosa che sono riuscito a ottenere è quella dell’Etna, le riprese fluviali di Giovanni Tomarchio, operatore Rai a Catania, che per decenni ha filmato il vulcano a ogni eruzione. Che però era il pinnacolo finale di una famiglia già marchiata dal visto, non dal palinsesto: più di una volta a Fuori Orario lo abbiamo fatto per una notte intera, solo Etna. Ecco, è questo: un confronto tra cinema involontario e volontario (l’intervallo tra le sponde soffici di quella stessa forma sformata che è il cinema).
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ilmondoinfine: vivere tra le rovine
ILMONDOINFINE: VIVERE TRA LE ROVINE
13 12 2018 — 23 01 La Galleria Nazionale — Roma
2019
Indice pag. 3 pag. 3 pag. 4 pag. 5/7 pag. 8 pag. 8/9 pag. 10 pag. 10
Chiara Bettazzi Ilaria Bussoni Stefania Consigliere Christoph Keller Emanuele Coccia Massimiliano Turco Gigi Cifali Annalisa Metta
pag. 11 pag. 12 pag. 12 pag. 13/25 pag. 14 pag. 15/22 pag. 16 pag. 16
Gian Maria Tosatti Simone Ferrari MP5 Serena Soccio Felice Cimatti Fiamma Montezemolo Enrico Alleva Pietro Ruffo
pag. 18 pag. 18 pag. 20 pag. 21 pag. 22 pag. 24 pag. 24 pag. 25
Andrea Di Salvo Rosetta S. Elkin Virginia Colwell Riccardo Venturi Gianfranco Pellegrino Emanuele Becheri Francesco Raparelli Barbara Berti
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pag. 26 pag. 28 pag. 29 pag. 29 pag. 30/31 pag. 31
Eva Macali Stan Brakhage Donatello Fumarola Malastradafilm Nikolaus Geyrhalter enrico ghezzi
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13 12 2018 — 23 01 La Galleria Nazionale — Roma
2019
Enrico Alleva — Emanuele Becheri — Barbara Berti — Chiara Bettazzi — Stan Brakhage — Ilaria Bussoni — Gigi Cifali — Felice Cimatti — Emanuele Coccia — Virginia Colwell — Stefania Consigliere — Andrea Di Salvo — Rosetta S. Elkin — Simone Ferrari — Donatello Fumarola — Nikolaus Geyrhalter — enrico ghezzi — Christoph Keller — Eva Macali — Malastradafilm — Annalisa Metta — Fiamma Montezemolo — MP5 — Gianfranco Pellegrino — Francesco Raparelli — Pietro Ruffo — Serena Soccio — Gian Maria Tosatti — Massimiliano Turco — Riccardo Venturi — Franco Zagari
Soundwundertunnel — tracce sonore di: Belle Poudre (Dirk Bell/Reto Pulfer), Sam Conran, Milli Graffi, Francis Heery, Petri Kuljuntausta, Yoko Ono/Plastic Ono Band, High Priest, Matteo Polato, Aimée Portioli, Jani Anders Purhonen, Pietro Lussu e Alice Ricciardi, Stefan Schleupner, Luca Vitone
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea