Lakersland Magazine Numero 3

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D N A L S ER

K A L

e n i z a g ma

KOBE BRYANT ELGIN

BAYLOR

THE SPURS OFFENSE

Quando MVP ha 4 lettere

Kobe Bryant raggiunge Bob Petit a quota 4 MVP dell’ASG, in una settimana che lo vede protagonista di una partita delle stelle dal sapore Hollywoodiano, ben più del famoso cortometraggio della Nike, lanciato negli ultimi giorni.

SPECIALE ALL STAR GAME DALLAS MAVERICKS


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EDITORIALE Soltanto poche righe e finalmente potrete iniziare a sfogliare il terzo appuntamento con LakersLand Magazine. Gli impegni, universitari, lavorativi e chi più ne ha più ne metta hanno rallentato il nostro lavoro, ma non hanno avuto la meglio. Nonostante un’attesa più lunga del solito ci siamo ancora. E’ doveroso, in ogni caso, partire da un accenno al momento gialloviola, prima dello sprint di fine regular season. La trasferta ad est dal sapore agrodolce, con i successi di New York e soprattutto Boston, ma anche la debacle di Cleveland e l’All Star Game targato ovest sono gli ultimi episodi di un percorso giunto, per fortuna, ai suoi tre quarti, un lento avvicinamento alla primavera, quando tutti aspettiamo di ritrovare i veri Lakers. Ci aspetta un calendario complicato, fondamentale affrontarlo con la concentrazione giusta per recuperare terreno importante. In una settimana, terribile, voleremo prima a San Antonio, poi a Miami ed infine Dallas: tre sfide da vincere assolutamente per recuperare posizioni determinanti in vista dei playoffs. Infine una panoramica sull’All Star Weekend con un focus particolare sulla magica nottata firmata da Kobe e dalla West Coast: lo Staples Center e Los Angeles sono stati ancora una volta degno teatro per la partita delle Stelle. Insomma non resta che ringraziare tutti per i numerosi complimenti ed assicurare il massimo impegno per questo progetto che speriamo, possa crescere ancora a livello di contenuti e partecipazione. Sperando che non ci sarà in futuro tutta questa attesa per il prossimo numero, non resta che augurare davvero una Buona lettura a tutti, Federico Rainaldi

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SOMMARIO

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LIfe is a rollercoaster di federico rainaldi

What’s goin on mamba? di davide mamome

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games of the month di DAVIDE MAMONE

IL DESTINO DEI MAVS DI GIUSEPPE MAGNIFICO

Numero 3 - Gennaio - Febbraio 2010

SITO INTERNET

MAGAZINE TEAM PER IL NUMERO 2 Alan di Forte - Capo redattore Federico Rainaldi Davide Mamone - Roberto Viarengo Giuseppe Magnifico

www.lakersland-magazine.com www.lakersland.it

Lavoro grafico a cura di Marco Weps Pasqualotto


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ALL STAR GAME RECAP di ROBERTO VIARENGO

TOP OF...

di ROBERTO VIARENGO E GIUSEPPE MAGNIFICO

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ELGIN BAYLOR

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SPURS OFFENSE

Lakersland Magazine è un iniziativa del sito Internet http:// www.lakersland.it con lo scopo di divulgare e raccogliere tutto il materiale in esso contenuto. Pertanto ai sensi della legge 62/2001 non può essere considerato un prodotto editoriale. Lakersland è un magazine dedicato agli appassionati di basket NBA, soprattutto per tifosi e simpatizzanti della famosa squadra losangelena. Contiene resoconti, diari mensili e det-

di ALAN DI FORTE

di GIUSEPPE MAGNIFICO

tagli tecnici per permettere anche all’utente meno inserito nelle logiche della pallacanestro di sentirsi partecipe. Gli articoli e la grafica sono il frutto di notti insonni e di un lavoro meticoloso da parte di tutto il team di lavoro, senza scopo di lucro o retribuzione alcuna, per piacere non rubate. Tutte le immagini e le dichiarazioni appartengono ai rispettivi autori, no copyright infringement intended.


LIFE IS A ROLLERCOASTER... di FEDERICO RAINALDI

“Life is a roller coaster” è il titolo più indicato per indicare i primi due terzi di stagione regolare dei Lakers. I gialloviola, infatti, come al solito stanno vivendo il solito percorso fatto di parecchi dubbi e poche certezze che caratterizza la regular season sulle sponde del Pacifico. A cavallo tra gennaio e febbraio i campioni del mondo si sono approcciati al classico tour dei Grammy’s, dopo le brutte sconfitte casalinghe contro Boston e San Antonio, con una classifica preoccupante che, per la prima volta nell’era Gasol, mai aveva visto Kobe Bryant e compagni così lontani dalla vetta dell’ovest. Praticamente sempre dietro da metà novembre ai sorprendenti Spurs, i Lakers hanno dovuto affrontare le classiche polemiche interne e soprattutto le prime serie voci di trade che vedevano Bynum ed Artest sempre più lontani dalla California. Eppure, almeno in un primo momento, i rumors si sono rivelati uno stimolo in più: al Boston Garden, in pieno tormentone Carmelo Anthony, con i Lakers, per alcuni, miracolosamente iscritti alla caccia al talento ex Syracuse , i Campioni del Mondo per la prima volta si sono dimostrati in grado di centrare una vittoria convincente contro un avversario di peso, anzi contro l’Avversario, grazie soprattutto alle prestazioni convincenti dei più discussi Ron Ron e Andrew. La notte seguente presentava il back to back impegnativo all’ombra dell’Empire State Building, ma guidati dal solito Kobe devastante al cospetto di Spike Lee, i Lakers sono usciti indenni anche dalla trappola chiamata Madison Square Garden.

i cugini di quarto grado dei campioni del mondo. Una squadra svogliata, lenta e disunita che ha toccato il fondo nella notte di Cleveland. Nella città orfana di LBJ i gialloviola sono riusciti a trasformare, per una notte, in eroi gli sgangherati uomini di Byron Scott regalando loro una storia da raccontare ai nipotini. E così nella Los Angeles teatro dell’All Star Game, tra il lusso delle feste dei giocatori e le trattative che hanno visto protagonisti tutti i general manager della Lega, si è parlato ed anche molto della crisi di Gasol e compagni, improvvisamente diventati vecchi ed inadeguati per molti alla difesa del Larry O’Brien Trophy. Sull’onda della critica è finito persino Kobe Bryant, nonostante una prestazione da MVP, il quarto in carriera nella notte delle stelle che non è bastata per far parlare nuovamente qualche suo storico detrattore arrivato a definire “canto del cigno” l’ennesima serata da incorniciare di una magnifica carriera. Il Black Mamba, nel frattempo protagonista anche fuori dal campo con un geniale film sponsorizzato Nike, non ha mancato di mandare i soliti messaggi bellicosi al resto delle star NBA: lui è ancora il migliore e quando conterà per davvero chi vorrà trionfare dovrà comunque passare da Figueroa Street per provare l’assalto al titolo.

Sicuramente tra i più negativi della prima metà della regular season ci sono due dei protagonisti degli scorsi playoffs: da una parte il capitano e leader in pectore della Sprazzi importanti dei veri Lakers; vero, squadra Derek Fisher e dell’altra, l’eroe di ma per pochissimo. Le altre tre partite del gara 7, Ron Artest. Il Pesce a trentasei tour, infatti, hanno visto di nuovo in campo anni suonati sta vivendo la solita stagione 6

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con il freno a mano tirato: si conferma l’anello debole in difesa di una squadra che comunque deve ancora salire di livello anche in questo aspetto, ma anche in attacco “Da Fish” è al di sotto dei suoi standard. Preoccupa ancor di più la questione Artest che, come al solito nella sua carriera, si conferma negativissimo al secondo anno nella stessa squadra. Ron, dal canto suo, tra un tweet ed un altro, continua a non dirsi preoccupato e ad affermare che, quando conterà, sarà prontissimo a fare la differenza. Visto il credito accumulato nella storica gara 7 contro Boston, c’è da dargli fiducia, nonostante al momento la sua testa sia presa più dalla carriera musicale che dalla vita in campo. Terzo problema è anche il rendimento della panchina. Sebbene il recupero di Bynum abbia permesso al miglior Odom della storia di riprendere il ruolo di sesto uomo rivitalizzando con continuità il contributo della second unit, una delle cause delle ultime difficoltà è il calo di rendimento di Shannon Brown e Steve Blake, spenti come il resto dei compagni da gennaio in poi. Sempre più sporadici infatti sono diventati i cambi di ritmo apportati dallo Spiritato, basse le percentuali al tiro dell’ex Maryland, nonostante una comprensione della triangolo sorprendente per uno appena arrivato alla corte del meraviglioso sistema di Tex Winter. Inoltre a peggiorare la sitauzione è arrivata anche la notizia che Theo Ratliff sarà fuori per infortunio fino a fine stagione per un problema al ginocchio che, probabilmente, ne ha compromesso definitivamente la carriera. Per completare il discorso sulle riserve, pare finalmente prontissimo al rientro Matt Barnes, l’ex Bruin operato un mese e mezzo fa, ha bruciato le tappe del rientro e può dimostrarsi una pedina fondamentale dalla panchina, un lusso in grado di fornire minuti importanti di riposo ad Artest, sperando che sia anche uno stimolo in più per Ron Ron.

Kobe e Phil Jackson hanno fissato l’obiettivo per concludere nel migliore dei modi le ultime 25 gare prima dei playoffs. I Lakers al momento occupano il terzo posto ad ovest, con il sesto record complessivo della Lega. Viste le recenti trade e calendario alla mano, i gialloviola devono necessariamente recuperare la seconda posizione nella Western Conference, attualmente nelle mani dei Mavs, sperando che la lotta ad Est continui ad essere serrata con Boston, Miami e Chicago che concretamente potrebbero rallentare ed avere a fine anno un record peggiore di L.A., improbabile, ma non impossibile. Gli Spurs sono troppo lontani, bravi loro ad aver affrontato la migliore stagione regolare della loro storia, mai infatti nell’era Popovich-Duncan i nero argento erano andati così bene; ai playoffs sicuramente la musica potrebbe cambiare, anche se al momento qualsiasi discorso su di loro è prematuro. Cambiare marcia dunque per affrontare al meglio il tour impegnativo di inizio marzo, prima di una serie di partite favorevoli casalinghe che potranno rivelarsi fondamentali per trovare il ritmo giusto e gli automatismi migliori sulla strada per il three peat. I Lakers ci hanno abituato con le loro crisi di identità di metà stagione, Phil Jackson ride al solo pensiero di poter smentire nuovamente tutti dopo aver creato la situazione da punto di non ritorno che poi gli permetterà di spremere al massimo, ancora una volta, un gruppo che, a suo avviso, sarà comunque pronto quando conterà per regalare nuove emozionanti battaglie di playoffs. L’inverno è quasi alle spalle, tutti ci aspettiamo ancora una volta i veri Lakers in versione primavera.

Passata la sbornia per l’All Star Weekend LAKERSLAND magazine

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WHAT’S GOIN’ ON MAMBA? di DAVIDE MAMONE

Classe. Etica lavorativa. Atletismo. Sicurezza nei propri mezzi. Spasmodica voglia di vincere. Ma anche immancabile testardaggine. Arroganza. Egoismo.

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Riassumere Kobe Bryant, cinque anelli NBA, due MVP delle Finals, un MVP di Regular Season, una medaglia Olimpica e molto altro con così pochi termini può sembrare riduttivo; specie se per ognuno di questi si voglia andare in profondità, si voglia scavare per capire meglio la personalità e il personaggio di quello che ad ora è il leader consacrato ed intoccabile dei Los Angeles Lakers. Effettivamente, però, in questi otto termini si può già capire abbastanza di uno dei giocatori più discussi e discutibili dell’intero panorama cestistico americano.

UNA VITA AD L.A.

Ha sbagliato tanto, nella sua carriera, Kobe Bryant; si vedano le sciagurate estati del 2004 e del 2007, terribili cestisticamente parlando per il mondo Lakers, per fare due esempi. Ma ha anche imparato tutto, nei Los Angeles Lakers, durante questi lunghi quattordici anni e mezzo di carriera con quella che più volte ha definito la sua “corazza d’oro”, la maglia gialloviola. Una vita nella gloriosa franchigia Losangelina; un passato che si è evoluto in presente. Panchinaro acerbo e talentuoso prima, titolare inamovibile poi, nei Lakers di Del Harris; secondo violino, con licenze da leader, nei primi Lakers di Shaq e Jackson, quelli che qualche soddisfazione, ad occhio e croce, dovrebbero avergliela data; primo violino, indiscusso e inamovibile, negli ultimi Lakers, quelli che stiamo vivendo con passione e che abbiamo visto cogliere il Repeat. Per diventare leader, ha dovuto passare più e più ostacoli. Una metamorfosi, la più complessa della sua carriera, che l’ha portato ad essere un giocatore maturo, una vera e propria guida cestistica per i compagni; un arco di tempo che l’ha fatto diventare una persona diversa insomma, un giocatore diverso. Certamente non più quel Kobe Bryant che troppo spesso era stato arrogante, viziato e sicuramente testardo. Oggi, sono i Lakers di Kobe Bryant e Phil Jackson e sono dei Lakers vincenti. Per arrivare ad esserlo, lo stesso Kobe ha dovuto capire che da soli non si vince, che puoi avere tutto il talento di que-

sto mondo, ma senza l’aiuto, il supporto e la fiducia incondizionata ai compagni e dei compagni (quando li ha avuti, sia chiaro), non si raggiungono i VERI traguardi che ogni giocatore NBA sogna di poter raggiungere. Ed ora..con due Nba Finals portate a casa, il 24 gialloviola è alla ricerca del Three-Peat, di un sogno che può nuovamente divenire realtà; questa stagione, complessa per vari motivi finora, può essere l’ultima di spicco per un po’ di tempo, visto e considerato che Jackson, dopo quest’anno potrebbe ritirarsi. Come andrà, nessuno può dirlo; la concorrenza è agguerritissima, le difficoltà ci sono e la sensazione è che i Lakers 2011 debbano ancora trovare la quadratura del proprio cerchio. Una certezza c’è, però: il leader di questo gruppo ha raggiunto la propria consapevolezza e sa che ha dei veri compagni al proprio fianco; quei compagni che l’hanno salvato nella sciagurata gara7 contro i Celtics, quei compagni che spessissimo sono stati trascinati da lui. Basta come punto di partenza?

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I PARAGONI CON MJ: VALIDI O NO?

Nell’estate di quindici anni fa, un Kobe Bryant 18enne, con l’atletismo da nero americano e i fondamentali da bianco europeo si affacciava al mondo della NBA, sospinto dai titoloni sui giornali, sospinto da quella volontà collettiva del mondo cestistico americano, di trovare un erede a Michael Jordan. Come potete capire, il peso mediatico su questo giovanotto era abbastanza forte, forse un po’ troppo. Tutt’oggi Kobe è un po’ oscurato da questo paragone, da questa enorme ombra che pesa sulla sua carriera e su ciò che ha fatto, in carriera. Diciamoci la verità; si tratta di un paragone assurdo, troppo grande per tutti, figlio di Jelly Bean compreso. Per quanto il 24 si avvicini ed eguagli, per alcuni aspetti, Michael Jordan (parliamo dell’etica lavorativa, della tecnica individuale, delle movenze e del repertorio offensivo), le carriere tra i due sono state diverse, sin da subito. Proprio perché si tratta di due giocatori assolutamente differenti, nelle loro similitudini. Beh certo, qualcuno si chiederà: ma lui cos’ha fatto per dimostrarci che di questo paragone non gli importava nulla? Domanda assolutamente lecita. Che la sua volontà sia quella di volerlo emulare e che abbia basato ore del suo lavoro prendendo spunto dal giocatore e dall’uomo MJ tutti si sono accorti che sia palese. Ma da qui a dire che l’ha raggiunto, quel giocatorino là, 10

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beh, ce ne passa. Preferiamo evitare di postare i numeri per fare un confronto; come spesso accade, le cifre sono fuorvianti e non permettono una chiara e lucida analisi dei fatti. Non servono quelli, per capire che ad ogni modo Jordan sia stato superiore a Kobe, così come a tutto il resto dei giocatori che hanno calcato il parquet NBA dopo il suo avvento. Basti vedere i fatti, la cattiveria cestistica e la maggiore freddezza che Jordan ha mostrato durante tutte le Finals che ha disputato da leader. Ci sarebbe anche dell’altro, ma ci fermiamo qui e lo facciamo con un monito: godiamoci questo alieno della pallacanestro, non in quanto nuovo Michael Jeffrey Jordan, ma in quanto unico Kobe Bean Bryant.

L’INFINITA RIVALITA’ CON SHAQ

“I got one more than Shaq” con queste parole, Kobe il 18 giugno rispondeva ad una domanda durante la conferenza stampa post gara7 contro i Celtics. In quelle sei parole, dette con ironia per carità, c’è molto di questa rivalità che è e sempre sarà presente nella NBA. Sì, perché la loro fraterna amicizia è sostanzialmente durata soltanto il primo anno di Jackson e il loro rapporto è proseguito con enormi alti&bassi, durante il resto del Three-Peat e oltre. Indubbio che Bryant sia stato nell’ombra di Shaq durante la sua prima parte della sua carriera; indubbio che Kobe sia stato molto più di un semplice secondo violino, durante i primi 5 anni di Jackson ai Lakers, quando il leader era Shaq; altrettanto indubbio, il fatto che Bryant, senza l’ex n°34 non avrebbe vinto nulla nella prima parte della sua carriera, così come quel devastante pivot, senza un giocatore come Kobe, al suo fianco. Parlare della rivalità con Shaq non è per nulla anacronistico; l’oramai pivot con la valigia in mano è ora il centro titolare dei Boston Celtics. La squadra del Massachussets, la rivale di sempre dei gialloviola, anche quest’anno se la giocherà ad alti livelli nella Eastern Conference ed è una possibile antagonista nelle Finals, qualora i Lakers non dovessero fallire nel proprio cammino ad


Ovest. Corsi e ricorsi storici in vista?

IL PRESENTE ED IL FUTURO

Come abbiamo accennato prima, la stagione 2010/11 di Kobe Bryant e compagni sta procedendo con problematiche, difficoltà e sconfitte impreviste. Se siamo sicuri di un futuro innalzamento del livello di gioco, da parte del 24 gialloviola, al momento non ci si può dire certo pienamente soddisfatti della Regular Season del 2 volte MVP delle Finals. Dopo l’ultima pessima esperienza dello scorso anno, quando Bryant ha seriamente rischiato di disputare i Playoffs in condizioni fisiche impresentabili perché spremuto troppo tra ottobre e febbraio, il coaching staff dei Campioni NBA ha deciso di diminuire drasticamente il minutaggio del Capitano dei Lakers. Dopo oltre metà stagione, non ha sostanzialmente mai scollinato oltre i 40’ (se non in un paio d’occasioni) di gioco, né è stato utilizzato troppo in situazioni di back2back. I 33 minuti di media rappresentano l’impiego più basso dalla stagione 97/98 (26 minuti, in quella da Sophomore), ma nonostante ciò Kobe ha spesso giocato male, impreciso dal campo e ancora più passivo del solito rendimento di Regular Season, in difesa. Certo, alcune perle le ha regalate anche quest’anno e in alcuni situazioni è stato lui a trascinare la squadra nei momenti di difficoltà (come nel match contro i Celtics, al Garden, dove è stato assolutamente decisivo nel finale); ma non è, evidentemente, il <i>classic Bryant</i> a cui lo Staples Center e l’intera NBA sono stati sempre abituati. Anche in questa stagione, però, non è mancato nello scrivere una nuova pagina della storia. La notte tra il 3 e il 4 gennaio, in un match contro Detroit vinto 108-83, Kobe Bryant è entrato ufficialmente nella Top Ten della storia della NBA per punti segnati in carriera (superando Dominque Wilkins che era decimo con 26.670 punti), per poi tre giorni dopo circa sorpassare Oscar Robertson al nono posto. Ma come abbiamo detto durante tutto que-

sto speciale, non sono stati solo i numeri personali, le cifre, i premi singoli e i punti segnati a rendere grande Kobe Bryant; sono stati i titoli, il suo percorso, la sua crescita e le sue giocate in momenti importanti e non a renderlo ciò che è ora. Un Leader vero, che compie errori ma che è capace di capirli e migliorare sempre di più, grazie a tutti quei pregi che abbiamo elencato sin dall’inizio di questo articolo (assieme ai difetti, che sono evidenti e che rimarranno nel suo essere Kobe Bryant). Come detto in precedenza, il Capitano gialloviola ha di fronte quello che forse sarà l’ultimo ballo con coach Phil Jackson, colui che tante volte l’ha “bastonato” ma che alla fine l’ha aiutato in quel processo di maturazione, fondamentale per farlo diventare il giocatore che è ora. Come andrà a finire, lo sapremo solo da aprile in poi. Quel che è certo è che Kobe Bryant ha già scritto una grossa fetta di storia NBA e di questo, haters a parte, se ne possono rendere conto tutti.

CIFRE ATTUALI: 25.1 PPG .460 FG% .315 3p% .826 FT% 5.4 RPG 4.8 APG 1.2 SPG 33.9 MPG LAKERSLAND magazine

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Torna l’appuntamento con il nostro GOTM e torna cambiando viso. Non ci concentreremo più sulla preview di uno dei match più importanti del mese, bensì proveremo ad analizzare due partite già giocate, due incontri che hanno dato segnali importanti, all’interno di un contesto di un certo peso. In questo numero, parleremo dei due Rematch delle Finals 2010: Lakers-Celtics, versione Staples Center e versione Td BankNorth Garden.

109- 96 30/11/2011, Staples Center, Los Angeles. Un insieme di individualità contro una squadra rodata, quadrata, pragmatica e atleticamente superiore. Il matinèè giocato tra le mura amiche dei nostri gialloviola non ha certo regalato belle sensazioni ai sostenitori di Los Angeles. I Lakers si sono affidati quasi esclusivamente a Kobe Bryant, nel primo tempo, facendosi trascinare dalle sue giocate e dalla sua leadership; il 24, come spesso è accaduto nelle ultime stagioni, ha risposto presente, dominando avversari e sistemi difensivi e portando i padroni di casa in vantaggio dopo un inizio difficile (all’intervallo, 54-50 L.A.). Nel secondo tempo, però, la solidità dei gialloviola si è frantumata in men che non si dica; 14

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Kobe ha iniziato a perdere lucidità e con lui anche gli altri, sostanzialmente mai in ritmo, hanno perso quel minimo di attività mostrata durante i primi 24’. I Celtics hanno reagito da grandissima squadra e dopo l’intervallo lungo hanno giocato un basket essenziale, corale, cinico; grande intensità in difesa, grande ordine in attacco. Al fianco di un Paul Pierce sostanzialmente perfetto, nell’ultimo periodo sono saliti in cattedra sia Garnett (che ha dominato in lungo e in largo Gasol, 18+13 e appena 3 errori al tiro), sia Ray Allen (21 punti, con 3 triple e 8-12 dal campo). Il risultato finale, numericamente parlando, ha punito eccessivamente L.A., che però ha nettamente meritato la sconfitta. Come vuole la tradizione per la maggior parte dei casi, il primo Rematch delle Finals, va alla squadra che le ha perse.

Le tematiche tattiche

Un Jackson piuttosto scialbo ha assistito al match, come spesso avviene in Regular Season, più in qualità di spettatore non pagante (o pagato, fate voi), che in qualità di coach. L’inizio della partita ha visto riproporre con insistenza, per i Lakers, il pick&roll in transizione secondaria, con coinvolgimento del secondo lungo. Soluzione, questa, che tanto aveva fatto male ai Celtics nelle scorse Finals; soluzione che, però, si è persa con il passare


Le Dichiarazioni post-partita dei minuti, anche a causa di una situazione d’emergenza, in termini di punteggio, che si era già presentata sin dal primo quarto. Soliti errori per la sua squadra: insufficiente il coinvolgimento dei lunghi, con i quali i Lakers avrebbero dovuto avere un vantaggio sulla carta; poco il coinvolgimento emotivo di Ron Artest, difensivamente passivo e in generale dannoso; quasi nulla la prestazione della second unit, con il solo e solito Lamar Odom a dare un minimo di sostegno dalla panchina. Dall’altra parte, Rivers, dopo aver rischiato il colpo grosso in gara7 lo scorso giugno, aveva ancora un paio di sassolini nella scarpa e se li è tolti preparando la partita in maniera sostanzialmente perfetta. L’assenza di Thibodeau come assistant-coach non ha comunque tolto la possibilità ai suoi di difendere bene, con voglia ed intensità e con la solita grande pulizia tattica. Quando poi le soluzioni offensive hanno efficacia con grande continuità, com’è avvenuto allo Staples Center, Boston diventa sostanzialmente infermabile. Rondo è stato, anche in questo caso, il motore dell’attacco dei Celtics e i suoi 16 assists finali (di cui 15 nel secondo tempo) sono sintomo di come molto, nell’economia della squadra, dipenda dalle sue prestazioni. Come detto, oltre ad un perfetto Pierce, le uscite dai blocchi di Allen e un Garnett in versione Playoffs, hanno fatto il resto; il 60% dal campo complessivo, è il modo migliore per attestare l’ottima verve offensiva della squadra del Massachussets.

Un Jackson tra il serio e il faceto, come al solito, si è presentato nel post-partita ai giornalisti, calmo e sereno, come se avesse appena trascorso 20 giorni nel Montana; alle domande relative alle difficoltà incontrate dai suoi giocatori in questa stagione, lo Zen ha risposto con un eloquente: “Ma sono già i Playoffs questi?No, non sono ancora arrivati i Playoffs, mi pare. Sono solo partite di Regular Season, quando sarà il momento ci saremo.” Dall’altra parte, Paul Pierce, che dopo gara2 delle scorse Finals si era fatto scappare un “We ain’t coming back to L.A.”, al termine del match ha detto: “E’certamente tutta un’altra partita rispetto ai Playoffs, ma da quella sconfitta in gara7 questo sarà sempre un match particolarmente emotivo, per noi.” Doc Rivers, vero vincitore strategico di questo incontro ha invece svelato il trucco del trionfo dei suoi Celtics: “Ho detto a Rajon (Rondo, ndr) che è una delle partite più importanti dell’anno, questa; lui ha risposto come volevo rispondesse. Abbiamo discusso di ogni particolare durante ogni time-out ed è sempre stato presente con la testa. Lui è il nostro “pitcher”; ha capito che doveva guidarci e nel secondo tempo l’ha fatto.”

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92 - 86 10/02/11, Td BankNorth Garden, Boston. A meno di 15 giorni di distanza, il calendario mette di nuovo faccia a faccia le due protagoniste delle ultime tre stagioni NBA. Il match si può sostanzialmente dividere in due grandi tronconi. Nel primo tempo, lo scontro tra queste due squadre ha seguito la falsariga tracciata negli ultimi 24’ della partita giocata allo Staples Center; i Celtics, folgorati dal record di Ray Allen (che ha superato, con due piazzati nel primo quarto, Reggie Miller per triple segnate in carriera, salendo in prima posizione di questa speciale classifica) e guidati da un Rondo assolutamente in palla, hanno dominato sotto ogni punto di vista gli uomini di Phil Jackson: intensità, grinta, pulizia e atletismo i quattro punti che hanno sancito l’evidente superiorità dei padroni di casa nei primi 2 periodi. Il secondo tempo, però, ci ha 16

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mostrato una partita totalmente differente. Kobe Bryant, silente sino all’intervallo, si è svegliato, giocando due quarti di incredibile onnipotenza cestistica (chiuderà con 23 punti e 9-17 dal campo); questo, ovviamente, ha portato anche gli altri gialloviola ad entrare in ritmo: Pau Gasol, al contrario del match dello Staples Center, ha dominato su Garnett mentre Bynum, Odom e Shannon Brown hanno saputo coadiuvare in maniera perfetta i due leader dei campioni NBA in carica. Il risultato è quello di un finale punto a punto, nel quale a prendere il proscenio è stato il solito Bryant: nella serata che doveva essere di Allen, il 24 gialloviola ha messo a segno 8 punti pesantissimi negli ultimi 5 minuti, compreso il jumper che ha chiuso la partita e portato i suoi alla vittoria.

Le tematiche tattiche Il game-plan attuato da Jackson è stato totalmente diverso in questo match, rispetto a quello proposto una decina di giorni prima allo Staples Center; poca transizione, molti attacchi a metà campo statici ed esecu-


zione purissima dell’attacco a Triangolo. Il risultato è stato quello di un Kobe ecumenico, di un Gasol spento e di una panchina francamente imbarazzante. Nel secondo tempo, pur restando all’interno del sistema più spesso che in altre occasioni, Kobe ha preso in mano la squadra giocando in maniera totale e dominando la scena. Con un Bryant così, il supporting cast è riuscito a sfruttare al meglio la Triple Post Offense e a ritagliarsi un ruolo importante nel contesto offensivo. Ma la partita ha preso una svolta, grazie soprattutto all’approccio diverso con cui i Lakers si sono presentati in campo; i gialloviola hanno mostrato una diversa intensità e i risultati si sono visti sul campo per gli ultimi due periodi. Altre facce, altro body language, ben altre sequenze difensive, con un Artest finalmente protagonista. I Celtics, al contrario, dopo un primo tempo sostanzialmente perfetto e inattaccabile, hanno avuto la grande colpa di non saper reagire al parziale degli ospiti ad inizio terzo quarto; con il passare dei minuti, Pierce e compagni hanno dato la sensazione di avere idee sempre più confuse e sempre meno concrete. Doc Rivers ha provato a cambiare rotazione, a variare più volte il quintetto, ma non è servito a nulla; Rondo è uscito mentalmente dal parquet, dopo un ottimo primo tempo, mentre Ray Allen, nonostante un maggior numero di schemi chiamati per lui non ha inciso. Il n°20 dei Celtics, dopo un inizio straordinario si è spento via via e il match è sfuggito dalle mani dei padroni di casa, senza quasi che essi se ne fossero accorti.

tità.” Il solito filosofico Phil Jackson si è presentato in sala-stampa nel post-partita. Più concreto Kobe Bryant che ha visto concedere “troppe facili opportunità agli avversari e troppi tiri wide-open”, mentre “nel secondo tempo siamo stati capaci di difendere meglio e di togliere ritmo al loro attacco”. Dall’altra parte, uno sconsolato Ray Allen si è visto rovinare la festa per il suo record e ha descritto così il tiro con cui ha raggiunto Reggie Miller per triple segnate in carriera: “Mi è sembrato andasse tutto al rallentatore. Quando ho preso la palla e ho tirato ho subito provato una buona sensazione, quella che provi quando sai che quella palla andrà a canestro: è stato un momento magico.”

Le dichiarazioni post-partita “Spero saremo sempre così motivati; eravamo 1-6 di record, contro le grandi squadre, prima di questo match e questa vittoria è davvero importante. Siamo competitivi e stiamo ritrovando noi stessi, la nostra idenLAKERSLAND magazine

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Ridi

Ci sono tanti eventi che possono cambiare radicalmente il destino di una franchigia. Una scelta al draft, una trade, una partita. Sono eventi che trasformano una squadra da vincente a perdente, da trionfatrice a umiliata e viceversa, e non è possibile prevedere quali saranno gli effetti di quell’evento dopo anni. Nel caso dei Dallas Mavericks quel momento è probabilmente retrodatabile al 13 giugno 2006. Devin Harris batte Gary Payton dal palleggio e manda a bersaglio il canestro dell’83-71 per i suoi a 8:33 dalla fine della partita. La partita è gara3 delle Finali tra Dallas e Miami, i texani sono in vantaggio già per due partite a zero. Tutti vedono il 3-0 in arrivo, la chiusura della serie e la consacrazione di Nowitzki come MVP. Quella notte però il destino della franchigia svolta inaspettatamente: gli Heat battono i Mavs e da lì non si voltano più indietro: si laureeranno campioni NBA con Wade

scatto o GIUSEP-

MVP a furor di popolo. Dopo una sconfitta così pesante da digerire, la squadra giocò la stagione successiva con una cattiveria inaudita, inanellò una serie da 17 W e due serie da 12, presentandosi ai playoff come la contender numero uno al titolo. Gli spettri di Miami sembravano essere lontani, il clima era quello giusto, l’aspettativa era quella della cavalcata annunciata. E invece, in quella serie di primo turno contro i Warriors che passerà alla storia, Dallas perse la serie e la faccia contro una delle squadre più elettrizzanti di sempre, la Golden State di Baron Davis e Stephen Jackson. Da allora, di anno in anno la banda di Mark Cuban si presenta in regular season con la voglia di riscattarsi, un roster di primo livello e la speranza di riprendersi quello che Wade scippò loro in quel Giugno di quasi 5 anni fa. Quest’anno certo non fa eccezione. Alla partenza la squadra è sana, l’uni-

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co infortunato di lunga data è Roddy B, al secolo Rodrigue Beaubois, fuori per un infortunio al piede (lo terrà fuori fino a febbraio-marzo). Il ritorno di Tyson Chandler in estate in cambio di Dampier sembra donare nuova vita alla squadra sopratutto da un punto di vista difensivo. Se l’anno scorso le penetrazioni avversarie fruttavano canestri facili (basti pensare al massacro di layup subiti contro Parker, Hill e Ginobili al primo turno di playoff perso contro San Antonio), quest’anno il pitturato è cessato di essere terreno di conquista avversario e la difesa è improvvisamente diventata tra le migliori della lega per punti e percentuale dal campo concessi. Il risultato è che dopo due mesi abbondanti di RS Dallas ha un record di 24-5, secondo solo a quello degli Spurs, e una prospettiva che torna ad essere rosea dopo anni di sconfitte ai playoff.. Il destino di una franchigia però cambia in una notte.

Proprio la sera della W numero 24, Nowitzki cade male sul ginocchio destro ed esce dal campo. I medici diagnosticano una distorsione al ginocchio: per rientrare occorrerà quasi un mese. Ma quello che sembrava essere solo un colpo di sfortuna isolato, si dimostra essere solo la prima macchinazione del beffardo destino che si abbatte come un macigno sulla squadre texana solo tre giorni dopo. La sera dell’1 Gennaio si gioca in Wisconsin sul campo di Milwaukee. A metà del primo quarto, Caron Butler salta a rimbalzo, ma qualcosa va storto; Butler urla di dolore, resta a terra qualche minuto, poi riesce a rialzarsi e a guadagnare la via degli spogliatoi sulle proprie gambe. I tifosi che guardandolo camminare con una lieve zoppìa

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tirano un sospiro di sollievo sono presto smentiti dall’amara verità: rottura del tendine rotuleo, riparazione chirurgica necessaria e stagione finita. La notizia è di quelle destabilizzanti per davvero. L’ambiente è scosso da questo autentico terremoto, tanto che Eddie Sefko, cronista dell’area texana particolarmente “dentro” lo spogliatoio dei Mavs, in un intervento seguente l’infortunio dichiara:”L’unico raggio di sole che può arrivare in questo momento è il potenziale che Nowitzki e Beaubois porteranno al loro ritorno”. Phil Jackson e Gregg Popovich non hanno esitato a dichiarare che con questa assenza Dallas, che prima aveva legittime speranze di puntare almeno alla finale di Conference, non possa più essere in corsa e vada depennata dalla lista delle contender. Ma quali sono in questo momento le prospettive per una squadra che deve rinunciare a uno dei suoi punti di riferimento principali?

Rick Carlisle parla chiaro:”La stagione è molto lunga e capita di entrare in serie negative quando si è in difficoltà, e si gioca contro buone squadre, ma noi dobbiamo restare concentrati sulla partita. Dobbiamo vincere le partite con chi abbiamo a disposizione.” Il GM Donn Nelson non ha perso tempo nel fornire al suo head coach il materiale per provare a restare competitivi. La firma del 10 Gennaio dell’ex Cleveland e Minnesota Sasha Pavlovic sembra inizialmente una mossa più dettata dalla disperazione del momento che dal raziocinio, non fosse altro perchè il serbo appariva ormai un progetto fallito in ottica NBA. E invece Pavlovic è riuscito a dare il suo contributo in circa 16 minuti di media di im-


piego come ala piccola titolare, con il picco della prestazione contro i Lakers da 11 punti, prima di essere tagliato in favore di Peja Stojakovic in scambio con il centro Alexis Ajinca, poco utilizzato da Carlisle; anche lui è approdato in Texas con scarse prospettive dopo una serie di problemi fisici e tecnici che ne hanno minato la competitività. Ha trascorso un paio di settimane a recuperare la condizione, poi ha iniziato a vedere il campo all’inizio del mese di Febbraio, fino all’esplosione del 12 Febbraio: 22 punti con 4/6 da 3 contro Houston. Fuoco di paglia, o giocatore ritrovato? “E’ facile giocare con loro – dichiara Peja parlando dei suoi compagni – Riesco ad avere così tanti buoni tiri perchè attirano molta attenzione su di sè”.

Carlisle, nel post-partita di una pesante sconfitta contro Orlando, indica la via per ritornare ad essere competitivi:”Deve cominciare tutto dalla difesa e dai rimbalzi, Non abbiamo scuse.”. Queste dichiarazioni ci dicono che la tensione nello spogliatoio resta alta, nonostante una serie di dodici sconfitte in quindici gare, e che la chiave per tornare in alto in questa stagione è la stessa che li ha portati ai vertici della Western Conference: la difesa. Da questo punto di vista è fondamentale la reazione di Shawn Marion, discreto rimbalzista e difensore molto atletico, eccellente stoppatore, muove discretamente i piedi in difesa. Il problema semmai sta nella sua applicazione mentale che lo rende a volte troppo fiducioso dei suoi mezzi fisici e inficiano la bontà e l’efficacia della sua marcatura. Inoltre l’assenza di un punto di riferimento come Butler può indurre altri giocatori ad aumentare il proprio livello di gioco: è il caso di Deshawn Stevenson, specialista difensivo che dal 2 Gennaio ha messo a segno sei partite consecutive in doppia cifra con una media di 17 punti a sera, o dello stesso Marion, salito in tutte le voci statistiche da quando Carlisle lo ha promosso titolare.

penetrare nel pitturato e di attaccare il canestro quando viene ribaltato il lato della palla. Di fatto senza di lui l’unico penetratore vero rimasto nella squadra è J.J. Barea. Il play/guardia portoricano sa essere a tratti inarrestabile in penetrazione, sopratutto in situazioni di transizione in cui la difesa non è ancora perfettamente schierata. Tuttavia parliamo di un giocatore che per caratteristiche fisiche non può rappresentare una risorsa offensiva a lungo termine. Carlisle per altro non ha mai nascosto il suo amore per lo small ball, e la strutturazione con Barea, Jason Kidd e Beaubois contemporaneamente in campo può fornirgli quella pericolosità in penetrazione attualmente persa. Resta ovvio però che questo quintetto, per quanto sia interessante e possa mettere a segno dei parziali importanti, non può essere la soluzione offensiva all’assenza di Butler. La soluzione potrebbe chiamarsi Jason Terry. Non si può dire infatti che il Jet non sia un penetratore efficace o non sappia essere un punto di riferimento in attacco. Curiosamente però sembra esserlo solo nel quarto quarto. Se si prendono i dati relativi agli ultimi dodici minuti infatti, Terry è nella top10 della lega davanti a grandi nomi quali LeBron o Derrick Rose. Se però si guarda ai restanti tre quarti si osserva un altro giocatore, che prende gli stessi tiri ma li sbaglia, che prova le stesse penetrazioni ma non segna. E’ ovvio che la motivazione di tale trasformazione non possa essere tecnica, ma mentale: se Terry riuscisse ad essere efficace per tutta la partita come lo è nel quarto quarto, i Mavericks potrebbero soffrire di meno e restare ad alti livelli nonostante tutto. La domanda è: ci riusciranno? Tutto lascerebbe pensare che questa stagione ricalcherà le orme di quelle passate: una stagione da 50-55 W, fattore campo guadagnato al primo turno e possibilità di passarlo se accoppiati a una squadra di medio livello. Ma per passare il secondo turno si dovrebbero sconfiggere squadre come Lakers o Spurs, e al momento sono gli stessi Jackson a Popovich a non credere che questo possa succedere. Ma Carlisle, Nowitzki e tutto l’ambiente non ci stanno. Loro vogliono vincere, vogliono allontanare gli spettri del 2006, tornare a lottare per dell’argenteria di lusso, ma in loro in questo momento non crede nessuno. Riusciranno a cambiare il destino della propria franchigia?

Il vero problema che l’ex coach di Indiana deve risolvere è sostituire Butler offensivamente. Ciò che perde è la sua capacità di

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2 E M A G R A T S L AL GO

di ROBERTO VIAREN

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P A C E R 1 1 0 2

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Cala il sipario sull’All Star Game 2011 in una Los Angeles che ha visto protagoniste le sue stelle per tutta la tre giorni. Bryant e Griffin hanno regalato ai loro tifosi grandissime emozioni, specie con la stella giallo-viola che ha ribadito, nel caso in cui ce ne fosse ancora bisogno, di avere ancora in mano le chiavi della citta’ e probabilmente anche della Lega.

Rookie vs Sophomore 148-140

Il primo appuntamento degno di nota per ciò che riguarda l’All Star Weekend, è senza dubbio la sfida tra Rookie e Sophomore, un match che quest’anno, il secondo consecutivo, ha visto padroneggiare le matricole della lega, guidate da due astri nascenti, Wall e Cousins, con Griffin a tenersi caldo per il giorno successivo, pur regalando al pubblico los angeleno qualche perla delle sue. Termina il match con il punteggio di 148 a 140 in favore delle “new entries” Nba. Wall, incoronato giustamente Mvp della serata, ha stabilito il nuovo record di assist in questa competizione, mettendone a referto 22, la maggior parte proprio per il suo ex compagno di Kentucky, DeMarcus Cousins, il quale ha chiuso con 33 punti e 14 rimbalzi.

no quelle di Robert Downey Jr. e altri attori di quel calibro, è straordinario. Amo Los Angeles, amo i Lakers, altri anelli arriveranno presto, vedrete, grazie a tutti”.

Kobe sulla Walk of Fame

Il sabato nell’ASG di L.A. inizia col botto, o meglio, con Kobe ad entrare nella storia per l’ennesima volta, diventando cioè il primo sportivo a lasciare le sue impronte nel cemento davanti il Chinese Theatre nella famosissima Walk Of Fame di Hollywood. “Sono cresciuto insieme a questa città, abbiamo avuto un po’ di alti e bassi, ma ora eccoci qui, con 5 anelli al dito ed altri ancora da conquistare. Sono onorato di tutto questo; le impronte delle mani nel cemento e tutto il resto sono cose che si vedono nei film e non l’avevo immaginato neanche nei miei sogni più strani. Le mie impronte vici24

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All Star Saturday

Le quattro competizioni che riguardano l’All Star Saturday sono iniziate poi, come di rito, con lo Shooting Stars, manifestazione che quest’anno ha visto prevalere la compagine di Atlanta, formata da Steve Smith, Coco Miller e Al Horford. Con lo Skills Challenge poi, la sfida tra playmaker, si è iniziato definitivamente a fare sul serio. Chris Paul, Derrick Rose, John Wall, Stephen Curry e Russel Westbrook si sono sfidati nella singolare competizione che non è stata priva di qualche sorpresa, eliminando subito infatti


i favoritissimi di questa gara e vedendo una combattuta finale tra Curry e Westbrook, con il talento di Golden State ad aggiudicarsi il trofeo dopo una prova quasi perfetta. E’ la volta poi del 3-Point Contest, con Dorel Wright, Kevin Durant, Daniel Gibson, Paul Pierce, James Jones ed il campione in carica Ray Allen. Ad andare in finale sono proprio le due stelle di Boston che devono però inchinarsi a Jones degli Heat, che con 20 punti si aggiudica il titolo. La serata s’infiamma poi con la competizione finale dell’All Star Saturday, ovvero l’attesissimo Slam Dunk Contest, una sessione, questa del 2011, che non ha avuto nulla da invidiare a quelle del passato più recente per cosa ha messo in mostra. DeMar DeRozan, Serge Ibaka, JaVale McGee e Blake Griffin, partono decisamente carichi con gli ultimi due però che dimostrano da subito di avere qualcosa in più, e con McGee addirittura, palesemente accreditato ad insidiare il trono al giocatore dei Clippers. I due duellano con grande determinazione, in un finale piuttosto hollywoodiano poi però, Griffin decide di saltare una macchina sulle note musicali di “I believe I can fly” intonate live da un coro gospel al centro del campo. Davanti ad uno spettacolo del genere, anche se in molti hanno notato una mancanza di originalità nelle schiacciate, seppur fantastiche, di Griffin, non si è potuto non premiare il numero 32 dei Clippers, al quale è andato il premio dell’ultima competizione del sabato.

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All Star Game Western Conference 148 - Eastern Conference 143 Si è poi finalmente giunti alla partitissima della domenica sera, quella delle stelle e su tutte ce ne è stata una che per forza di cose ha iniziato a brillare già dalle presentazioni delle squadre, quella con il numero 24 sulle spalle che ha letteralmente infiammato tutto il suo stadio già soltanto con la sua presenza. Applauditissimo anche l’altro pupillo di L.A., Griffin, sonori invece i fischi per il quartetto di Boston formato da Rondo, Pierce, Allen e Garnett. Il match non ha regalato grandissima intensità per 26

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la sua maggior parte, com’era prevedibile, offrendo però uno spettacolo degno del weekend a livello di giocate individuali, e Kobe ne ha regalate svariate. Nell’ultimo quarto però la musica è cambiata, l’intensità è salita e tutti volevano riuscire a portare a casa il risultato. Vicine nel punteggio le due formazioni si sono contrastate fino nei minuti finali, con LeBron che ha tentato il tutto per tutto per riprendere in mano il match, ma la determinazione dell’Ovest è riuscita a conquistare la vittoria con il punteggio di 148 a 143. Kobe eletto Mvp per la quarta volta, ha messo a


referto 37 punti e 14 rimbalzi. La stella dei Lakers ha pareggiato i conti con Bob Petit, al primo posto della classifica per maggior numero di Mvp vinti in All Star Game, 4 appunto, staccando Jordan, Shaq e Robertson fermi a 3. James, dal canto suo, è diventato il secondo giocatore, dopo Jordan, a mettere a segno una tripla doppia in un ASG, dovendosi però arrendere comunque al 24 che si è anche preoccupato di regalargli un poster di quelli da appendere in camera.

TITOLARI

MIN

FGM-A

3%

Amare Stoudemire

28

11-20

LeBron James

32

10-18

Dwight Howard

21

Dwayne Wade Derrick Rose PANCHINA Kevin Garnett

FT

RO

RD

1-2

6-6

3

3

0-3

9-10

2

10

2-4

0-2

1-2

2

5

20

6-9

0-1

2-2

1

30

5-13

0-1

1-2

1

MIN

FGM-A

3%

FT

8

2-3

0-0

0-0

REB

AST

STL

BLK

TO

PF

PTS

6

2

0

1

1

0

29

12

10

0

0

4

3

29

7

1

1

0

2

4

5

3

4

2

1

0

4

2

14

2

3

5

1

0

1

0

11

RO

RD

REB

AST

STL

BLK

TO

PF

PTS

0

5

5

2

0

1

0

0

4

Ray Allen

17

4-9

2-7

2-2

1

3

4

2

0

0

1

2

12

Joe Johnson

20

4-11

3-9

0-1

1

1

2

2

3

0

0

1

11

Chris Bosh

21

7-10

0-1

0-1

2

3

5

2

0

1

3

0

14

Paul Pierce

11

2-6

1-3

1-2

0

1

1

2

0

0

3

0

6

Al Horford

10

1-3

0-0

0-0

1

2

3

0

0

1

0

2

2

Rajon Rondo

21

3-5

0-0

0-0

2

0

2

8

0

0

2

0

6

57-111

7-29

22-28

16

38

54

38

6

4

21

14

143

MIN

FGM-A

3%

FT

RO

RD

REB

AST

STL

BLK

TO

PF

PTS

Carmelo Anthony

23

4-10

0-1

0-0

3

4

7

2

1

1

2

3

8

Kevin Durant

30

11-23

4-11

8-8

0

3

3

2

2

2

0

3

34

Tim Duncan

12

1-4

0-0

0-0

1

2

3

2

2

0

0

0

2

Kobe Bryant

29

14-26

2-7

7-8

10

4

14

3

3

0

4

2

37

TOTALI

TITOLARI

Chris Paul

29

3-7

2-3

2-2

1

3

4

7

5

0

3

3

10

PANCHINA

MIN

FGM-A

3%

FT

RO

RD

REB

AST

STL

BLK

TO

PF

PTS

Pau Gasol

24

8-13

0-1

1-2

6

1

7

2

0

2

1

3

17

Deron Williams

18

2-7

1-3

0-0

0

1

1

7

1

1

2

0

5

Manu Ginobili

21

2-7

0-3

3-4

1

2

3

5

3

0

2

3

7

Dirk Nowitzki

14

3-8

0-1

0-0

0

5

5

1

1

1

0

0

6

Russell Westbrook

14

6-12

0-1

0-2

3

2

5

2

0

0

0

1

12

Blake Griffin

15

4-6

0-0

0-0

2

3

5

5

0

0

0

0

8

Kevin Love

12

1-3

0-0

0-0

0

4

4

1

0

0

1

0

2

59-126

9-31

21-26

27

34

61

39

18

7

15

18

148

TOTALI

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TOP OF THE EAST

di ROBERTO VIARENGO e GIUSEPPE MAGNIFICO

HAMILTON-KUESTLER: E’ ROTTURA Continua a essere caldo lo spogliatoio dei Detroit Pistons. Il 12 Gennaio, senza che lo staff meico avesse dato alcuna comunicazione, Rip Hamilton non mette quasi più piede in campo (comparsata contro Milwaukee); da allora Kuestler non gli farà giocare più un minuto, con Stuckey promosso guardia titolare e un sorprendente McGrady in posizione di play. “Non mi hanno detto niente, ero davvero sorpreso” dichiara Rip, “Se penso che sia una mancanza di rispetto o di onestà? Beh, ditemelo voi”. Una trade sembra essere all’orizzonte: che sia la fine della carriera di Richard Hamilton ai Pistons?

CAVS IN CADUTA LIBERA

Ad inizio stagione grande entusiasmo riempiva l’aria di Cleveland, le parole di Dan Gilbert in estate avevano infiammato gli animi, nelle prime partite i Cavs erano riusciti anche a mantenere un record positivo (4-3). Poi le cose sono cominciate ad andare storte, i punti più bassi sono stati un 112-57 contro i Lakers che Scott ha definito “imbarazzante” e il tragico record di 26 sconfitte consecutive, record assoluto in NBA e a pari merito con i Tampa Bay Buccaneers dell’NFL. Quando si è interrotta la striscia grazie alla compiacenza dei Clippers, il pubblico di Cleveland è letteralmente esploso, scrollandosi di dosso almeno per una sera l’umiliazione della sconfitta.

LEBRON TWITTA CONTRO I CAVS, POI S’INFORTUNA E MIAMI NE PERDE TRE

Dopo l’umiliazione dei Cavaliers contro i Lakers di Kobe, il loro ex-King, si è lasciato andare in commenti su Twitter in risposta principalmente a quello che il proprietario dei Cavs aveva augurato alla sua ex stella dopo l’addio alla franchigia dell’Ohio da parte del “prescelto”. Il numero 6 di Miami ha così commentato la elle della sua ex squadra: “Pazzesco, il Karma è una p***. E non è bello augurare del male a qualcuno, perché Dio vede tutto...”. La singolarità del fatto però sta che dopo quest’uscita, LeBron si è infortunato alla caviglia sinistra durante il match con i Clippers ed i suoi Heat hanno rimediato una sconfitta dopo le 9 vittorie consecutive appena collezionate, e come se non bastasse, altre due sconfitte sono poi sopraggiunte per Miami contro Denver e Chicago, scaturendo ancora più ilarità tra i tifosi di Cleveland.

Il destino di Melo AnthoNY

“Non so dove giocherò la prossima stagione ma una cosa è certo, voglio andare a New York!”, queste furono le parole di Melo tempo fa e alla fine si sono tramutate in realtà. Con un paio di giorni d’anticipo sulla chiusura del mercato, il talento di Syracuse ha infatti realizzato il suo sogno di giocare nella Grande Mela, vestendo la maglia dei Knicks. A detta di molti, la squadra di Dolan ha dato anche più del dovuto ai Nuggets per assicurarsi Anthony, ma così facendo è riuscita ad affiancare a Stoudemire la stella che cercava da tempo. Nell’affare, oltre a Melo, alla corte di D’Antoni sono arrivati Billups, Anthony Carter, Shelden Williams e Balkman, mentre a Denver sono stati spediti Felton, Chandler, Mozgov, Gallinari, e assegnate inoltre la prima scelta del 2014, la seconda scelta del 2012 e 2013 ed un compenso di 3 milioni di dollari. Arriva a NY (da Minnesota) anche Corey Brewer in cambio di Anthony Randolph e del contratto di Eddy Curry.

SHEED PENSA AD UN RITORNO? IL SUO AGENTE NEGA Secondo Stephen Smith, Rasheed Wallace starebbe pensando ad un clamoroso ritorno in campo dopo il ritiro, questa è la voce circolata a metà gennaio che ha fatto abbastanza notizia, ma che nello stesso tempo è stata anche subito smentita dall’agente del giocatore, Bill Strickland. “Non credo proprio. Al momento non mi ha dato alcuna indicazione che ha voglia di calcare di nuovo i campo. Per ora sta bene come sta”, ha dichiarato Strickland a FanHouse. Quello di Wallace di ritorno farebbe sicuramente rumore e sembra anche che Boston stia spingendo per questo, anche per contrastare ulteriormente la fisicità dell’armata di Miami. Al momento però il tutto sembra davvero impossibile, confermando per Sheed la volontà di chiudere una carriera che in tantissime sfaccettature l’ha visto protagonista. 28

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TOP OF THE WEST ROY SOTTO I FERRI (CHIRURGICI) La stagione di Brandon Roy si complica ulteriormente. Dopo essersi sottoposto a diverse risonanze magnetiche e accertato l’assenza di cartilagine in entrambe le ginocchia, il suo staff medico ha optato per l’operazione in artroscopia allo scopo di ridurre il dolore: la ricostruzione del menisco è stata scartata. I tempi di recupero per questo tipo di intervento oscillano dalle 4 alle 8 settimane, ma visto il passato complicato del giocatore è facile prevedere un rientro posticipato. Del resto il Gm dei Blazers, Richard Cho, dichiara:”Questo è un rimedio solo temporaneo, nulla è permanente”. Nel frattempo, i nostri migliori auguri al giocatore.

Il ritorno di Michael Redd

Dopo poco più di un anno dall’infortunio nella partita contro i Lakers, Michael Redd è finalmente tornato ad allenarsi con i Bucks. La guardia di Milwaukee aveva riportato una rottura del legamento crociato e collaterale del ginocchio sinistro, e a seguito dell’operazione aveva ottenuto dalla società l’autorizzazione per dedicarsi completamente alla riabilitazione nella sua dimora in Ohio. Il giocatore, tornato ad allenarsi in gruppo soltanto il 21 febbraio, avrà bisogno di circa due/tre settimane prima che possa scendere in campo, già poter riassaporare determinate sensazioni è stato davvero molto importante per il cestista statunitense: “Sto bene e questo è uno dei momenti più belli della mia carriera. Tornare sul parquet è stata una sensazione fantastica. Sono nuovo in questa squadra e sono tranquillo, ora è solo questione di migliorare la forma e tornare a giocare. Qualunque cosa dovrò fare, la farò”.

RUMORS SPARSI DALL’NBA

Davvero molte sono state le trade che hanno preso vita nel finale di questo mercato Nba. Dopo quella di Melo, a far clamore è stata sicuramente quella che ha portato Deron Williams ai Nets, consegnando di fatto ai Jazz Favors, Harris e due prime scelte future. Sempre i Nets inoltre hanno mandato ai Warriors Murphy in cambio di Gadzuric. Baron Davis e la prima scelta dei Clippers al prossimo draft (una tra le prime 10) finiscono a Cleveland in cambio di Mo Williams e Jamario Moon. Hinrich ed Armstrong approdano ad Atlanta, con Bibby, Jordan Crawford, Evans e una prima scelta al draft 2011 che finiscono ai Wizards. Scambio corposo anche tra Celtics e Thunder che vede Perkins e Robinson finire ad Oklahoma City e Krstic e Jeff Green a Boston. Scambio anche tra Kings e Hornets con New Orleans che acquista Landry in cambio di Thornton e circa 3 milioni di dollari. I Rockets mandano Battier a Memphis in cambio di Thabeet. Geralde Wallace approda ai Blazers e Aaron Brooks ai Suns.

Arrestato Jack degli Hornets Jarret Jack, play di riserva di New Orleans, è stato arrestato domenica 20 febbraio sulle strade di Atlanta dove, fermato dagli agenti di polizia del posto, ha dovuto rispondere di guida in stato di ebbrezza. Il giocatore degli Hornets, sorpreso ad ondeggiare pericolosamente in strada con la sua autovettura, è stato fermato e portato al comando di zona. Dopo aver dimostrato agli agenti di non riuscire neanche a camminare in linea retta, Jack, tramite il test del palloncino, ha di conseguenza confermato il forte abuso di bevande alcooliche. Rilasciato poi in serata è potuto uscire senza però rilasciare dichiarazioni immediate in merito alla giornata trascorsa in maniera piuttosto “particolare”.

IL LOCKOUT NON E’ INEVITABILE Lo spettro di un possibile lockout per la prossima stagione Nba è sempre più nell’aria ed è un qualcosa che terrorizza non solo i tifosi ma anche tutti gli addetti ai lavori. Pochi giorni fa è tornato sull’argomento il deputy commissioner della NBA, Adam Silver, il quale ha però dichiarato che quella del lock-out non è affatto un’ipotesi inevitabile. Secondo Silver, ci sono buoni margini per risolvere questa situazione e soprattutto c’è tempo, fino appunto al 30 di giugno per far si che le due parti s’incontrino e lavorino insieme per arrivare ad una decisione: “Non vi sono altri appuntamenti fissati tra le due parti al momento, ma continueremo a lavorare, non ha senso arrivare a tale decisione visto la situazione economica del paese il quale non può privarsi di questo spettacolo”.

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ELGIN


BAYLOR di ALAN DI FORTE


“ OGNI VOLTA CHE COMPETI, PROVA PIù FORTE E MIGLIORARE LA TUA ULTIMA PERFORMANCE. NON DARE MAI MENO DEL TUO MEGLIO” - EB

“ Sento spesso la gente parlare delle grandi ali oggi, ma non ne ho viste molte che potessero essere paragonate ad Elgin Baylor” – Jerry West.

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Chissà cosa avrà pensato mentre per l’ultima volta si toglieva le scarpe da basket, mentre si toglieva per sempre quella divisa che lo aveva accompagnato per quattordici anni. Probabilmente non avrà pensato a nulla in quei momenti, avrà fatto tutto in modo naturale, per poi tornare a riflettere con più calma in un secondo momento su cosa significassero quegli istanti per lui. Magari Elgin Baylor ci ha riflettuto solo al primo vero momento di pensione da ex giocatore, magari durante le prime feste natalizie passate in famiglia, e non con i suoi compagni di sempre, che quel 31 ottobre 1971 era l’ultima volta che aveva indossato la sua 22 gialloviola, l’ultima volta negli spogliatoi, l’ultima partita giocata, gli ultimi canestri segnati…Molte persone non sono dotate di talento, faticano ogni giorno per vivere e farlo in pace con se stessi; altri invece sono dotati di talento ma lo sprecano perché non hanno la testa, sono sfortunati, avrebbero bisogno di una guida e non riescono a trovarla o ad ascoltarla; pochi eletti sono dotati di talento, di testa, mezzi ed etica lavorativa. Ma non sono baciati dal destino o, caso più sfortunato, arrivano in leggero ritardo all’appuntamento con esso. È questo il caso, e la storia, di Elgin Baylor, uno dei più grandi giocatori che il basket abbia mai vissuto: completo, forte, rivoluzionario nel suo giocare, quasi fosse stato mandato dal futuro, così avanti per i suoi tempi che forse per questo non è mai riuscito ad essere puntuale in quel già citato incontro col destino. Negli ultimi anni abbiamo sentito il nome di Elgin Baylor, ala classe ’34 da Washington, moltissime volte: ogni volta che noi tifosi dei Lakers assistevamo a qualche impresa di Kobe Bryant, a qualche record battuto, infatti, l’uomo ad essere superato, ad aver fatto tutto già 50 anni fa, era Elgin Baylor, un giocatore al quale, forse in molti non lo sanno, dobbiamo l’esistenza dei Los Angeles Lakers. Prima scelta assoluta del draft del 1958 dei Minneapolis Lakers


(dopo quattro anni a Seattle University) reduci da una stagione da 19 vittorie e sull’orlo della bancarotta, Baylor con le sue prestazioni ha permesso ai Lakers di sopravvivere riportando gente ai botteghini, permettendo così alla franchigia di ottenere i permessi per trasferirsi a Los Angeles due stagioni dopo ed iniziare una storia che oggi conosciamo tutti. Elgin Baylor era un’ala, come detto in precedenza, con caratteristiche assolutamente da precursore sia fisiche che tecniche: potente, atletico, armonioso ed elegante, il tutto unito ad un bagaglio tecnico ai limiti della perfezione, faceva di lui un realizzatore straordinario, tra i più grandi della storia del gioco, e un giocatore sul quale costruire una franchigia per 15 anni, proprio come fecero i Lakers affiancandogli poi dal 1960 anche Jerry West. Per gli almanacchi: record per punti in singola partita di Finale, 61, contro i Celtics nel ’62; 71 punti in una gara, massimo per i Lakers prima degli 81 di Kobe; media in carriera di 27.4, quarta ogni tempo e una stagione a 38.3 punti a partita, la più alta di sempre per un giocatore che non si chiamasse Chamberlain. Purtroppo il destino era in agguato per togliergli soddisfazioni anche dal punto di vista statistico: tutti questi exploit non solo non gli sono mai valsi un titolo di Mvp, ma neanche un titolo di capocannoniere; fosse nato 15 anni dopo Baylor ne avrebbe fatto incetta, ma Elgin ebbe la colpa di vivere nella stessa epoca di Wilt Chamberlain, fagocitatore di ogni tipo di record individuale. I forti Lakers di West e Baylor arrivano in finale sette volte tra il ’59 e il ’69, ma anche qui il destino fece sì che davanti a loro ci fosse la più grande dinastia della storia del basket: i Boston Celtics di Red

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Auerbach e Bill Russell. I Lakers riescono a perdere tutte e sette le volte in ogni modo: da favoriti, da sfavoriti, in sette gare, in quattro, meritando e non meritando di vincere. A nulla serve neanche l’acquisto di Wilt Chamberlain, proprio lui, nel 1968. Il peso degli anni e qualche infortunio iniziò a farsi sentire, nulla però per quei Lakers pesò più della frustrazione causata da tutte quelle finali perse, ma i gialloviola ebbero un’altra occasione nel 1970, questa volta davanti non ci sono più i Celtics, oramai nel dopo Russell, ma i New York Knicks: per Los Angeles è l’ennesima delusione finale, ancora in sette partite, contro dei Knicks menomati nel loro leader Willis Reed. La stagione seguente, 70-’71, Elgin scende in campo solo per due gare, a causa di un infortunio al ginocchio che mette virtualmente fine alla sua carriera, ma che gli dà comun-

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que la voglia di riprovarci la stagione successiva, probabilmente l’ultima occasione per lui e West di vincere il Titolo. I Lakers si sono ringiovaniti, oltre ai soliti vecchi campioni possono contare su Gail Goodrich, fresca guardia da 26 punti a partita quell’anno (primo tra i gialloviola) e sulla scalpitante ala Jim McMillan (che chiuderà a 18.8 ppg). La squadra di coach Sharman zoppica leggermente all’inizio, dopo nove gare ha un record di 6-3, così il coach decide di dare maggior freschezza al quintetto e va a parlare col trentasettenne Baylor, vedendolo in difficoltà tra età, condizione e postumi dell’infortunio: “McMillan è una potenza in crescita, ha bisogno di minuti, partirà lui in quintetto al tuo posto”, la sintesi del discorso dopo la sconfitta con i Warriors del 31 ottobre 1971. Baylor lo comprende ed accetta, ma capisce

che è arrivato il momento di farsi da parte: la sua carriera non merita una stagione da panchinaro, o magari un anello elemosinato solo per farne sfoggio, come successo a molti campioni sul viale del tramonto, visti anche da queste parti. No, Baylor decide di farsi da parte, lo annuncia sul pullman ai compagni e poi scende, per sempre. Il pullman dei Lakers invece imbocca la strada principale verso il destino, ancora lui, subito dopo l’ultima fermata di Elgin: la sua prima partita da ex, una vittoria contro i Bullets, è la prima di una striscia di 33 successi consecutivi, ancora oggi record imbattuto ad ogni livello sportivo professionistico americano. I gialloviola chiuderanno la stagione a 69 vittorie, record battuto solo dai Bulls del ’96, e vinceranno il loro tanto agognato titolo battendo 4-1 in finale i Knicks. Baylor sarà lì, con i


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compagni, negli spogliatoi durante i festeggiamenti, a complimentarsi e a festeggiare con loro il raggiungimento di quel traguardo che con lui era stato solo sfiorato; il proprietario dei Lakers, Jack Kent Cooke, gli darà anche una parte del premio in soldi dei giocatori, ritenendo che quel titolo avrebbero dovuto assaporarlo tutti quelli che lo avevano meritato. E Baylor in quei quattordici anni lo aveva meritato più di chiunque altro, ma era arrivato tardi col destino o, come nella sua ultima stagione, era sceso un attimo prima di incontrarlo. Il fato ebbe per lui, però, in serbo un ultimo scherzo, fa-

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cendogli fare il Gm nella sua amata Los Angeles ma sulla sponda sbagliata, quella dei Clippers, proprio mentre il suo amico e compagno Jerry occupava la stessa carica nei loro Lakers, vincendo titoli su titoli, con Baylor a guardarlo proprio come lo vedeva festeggiare quell’anello di giocatore che a lui è mancato. Una piccola rivincita, ad ogni modo, Baylor se l’è presa nel 2006 vincendo il premio di miglior Gm della lega alla guida dei Clippers, un premio che West a Los Angeles non è mai riuscito a vincere, vedendoselo assegnare nel 2004 per il

suo lavoro a Memphis. Questa è la storia di Elgin Baylor, uno dei più grandi ad aver mai calcato un parquet con un pallone da basket in mano, al quale la storia non ha mai riconosciuto il giusto tributo, probabilmente il più grande a non aver mai vinto un titolo. Per quelli come lui il mondo cinico e frenetico di oggi, affamato di etichette e classificazioni, userebbe un solo attributo: perdente, probabilmente il più grande tra i perdenti. Nulla di più sbagliato: Baylor ha semplicemente sbagliato i tempi, colpa del Destino.


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Name: Elgin Gay Baylor Position: Small Forward Number: 22 Height: 6-5 Weight: 225 lbs. Nickname: Big E, The man with a thousand moves All-Star: 11 times - 1959, 1960, 1961, 1962, 1963, 1964, 1965, 1967, 1968, 1969, 1970 Born: September 16, 1934 in Washington, District of Columbia High-School: Springarn in Washington, District of Columbia College: Seattle University Drafted: by the Minneapolis Lakers, with the 1st pick in the 1st round of the 1958 NBA draft. NBA Teams: Minneapolis Lakers - Los Angeles Lakers - Inducted into Hall of Fame as Player in 1977 - 1959 NBA Rookie of the Year - 1959 NBA All-Star Game MVP - NBA 35th Anniversary Team - NBA’s 50th Anniversary All-Time Team - All-NBA First Team 10 times (1959-65, 67-69) - Holds NBA Finals single-game record for most points with 61 on April 24, 1962 against the Boston Celtics - Scored 71 points (8th highest in history) against the New York Knicks on Nov. 15, 1960 - Retired as NBA’s third all-time leading scorer - Ranked sixth in NBA Finals all-time scoring (26.4 in 44 games) - Ranked seventh in NBA playoffs all-time scoring (27.0 in 134 games) - NBA Executive of the Year (2006) with Los Angeles Clippers. - Scored 40 or more points 87 times in the regular season (4th All-time behind Wilt Chamberlain, Michael Jordan, and Kobe Bryant)

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IL PLAYBOOK OFFENSIVO DEI SAN ANTONIO SPURS Per anni sono stati temuti principalmente per la loro efficientissima e soffocante difesa. Analizziamo però, come anche nella fase offensiva gli “speroni” siano terribilmente efficaci.

di GIUSEPPE MAGNIFICO

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L’approfondimento tattico di questo mese si concentra sulla squadra che un po’ a sorpresa si trova con il miglior record della lega: i San Antonio Spurs di coach Gregg Popovich. Il gruppo è lo stesso degli ultimi anni, l’impianto di gioco resta simile ma Popovich non è un allenatore che ami adagiarsi sugli allori, al contrario, è in grado di adattare il proprio sistema offensivo in base alle contingenze della partita, alle situazioni di falli degli avversari e alle difficoltà tattiche che questi possono mostrare. Questo spiega come mai di partita in partita la percentuale di possessi riservata ad un determinato schema cambi in maniera dinamica.Analizzando i principali movimenti dell’attacco, prima parleremo di pick and roll, poi di Motion Offense, quindi vedremo dei giochi specifici per i singoli attaccanti.

PICK AND ROLL

Gli Spurs possono vantare di avere due dei penetratori più micidiali dell’intera lega, Parker e Ginobili, e uno dei bloccatori tecnicamente migliori, Tim Duncan. Ecco perchè il numero di pick and roll giocati a partita è superiore rispetto alla media delle altre squadre. Ma passiamo ad esaminare nel det-

taglio quest’opzione. Nella prima azione, Ginobili sfrutta il blocco di McDyess. Una delle caratteristiche dell’esecuzione di questo movimento da parte degli Spurs sta nel fatto che i lunghi, dopo aver portato il blocco, restano alti ad una distanza di

5-6 metri dal canestro. Questo, unito al fatto che sul perimetro ci siano tre uomini pericolosi (Hill, Neal e Bonner sono tre eccellenti tiratori da 3 con il 37, 39 e 50%) crea molto spazio per la penetrazione al centro. La penetrazione è tanto più probabile quanto più distante è il lungo che marca McDyess (Gooden) che si stacca lasciando lo spazio a Ginobili per prendere velocità. La difesa a questo punto deve scegliere cosa concedere: se non si chiude al centro, tutto lo spazio

creato dall’attacco permetterà una comoda penetrazione; se si chiude al centro, lascerà spazio ai tiratori e verrà punita. Nell’occasione presentata, Ginobili penetra e scarica per Bonner in guardia, il pallone viene ruotato in angolo per Neal che infila la tripla. Se, viceversa, la difesa decide di non concedere spazio al palleggiatore, ecco quali sono le conseguenze. Nella seconda immagine Brandan Haywood, il marcatore di colui che porta il blocco (Blair) esce nel cosiddetto

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movimento di show per impedire a Parker di avere una linea di penetrazione chiara. Guardiamo con attenzione gli altri tre Spurs, cioè Neal, Hill e Bonner, La loro presenza sul perimetro è ancora una volta molto importante perchè impedisce alla difesa lontano dalla palla di staccarsi troppo dal proprio uomo. Questo comporta che il movimento di

“roll” di Blair non può essere coperto con efficacia senza creare buchi. La coperta è corta: in quest’azione Parker riuscirà a servire Blair, sul quale piomberà l’aiuto di Cardinal dall’angolo; questo lascerà solo Bonner che, ricevendo il pronto scarico di Blair, punirà con la tripla.

Abbiamo analizzato solo due delle tante possibilità che questa giocata apre per l’attacco di San Antonio. I momenti della partita in cui è più utilizzata sono gli ultimi minuti e questo ci dice come Popovich faccia affidamento su di essa, considerandola certamente il mezzo più importante attraverso il quale far canestro. Ma gli Spurs giocano pick and roll spesso e volentieri in transizione (per i motivi che vedremo in seguito), oppure quando si voglia coinvolgere lunghi che si vuol tenere lontani dal canestro (es. Howard,Chandler, Bogut ecc..)

MOTION OFFENSE

La motion offense è un attacco semplice e complesso allo stesso tempo. Impararlo è semplice, eseguirlo con grande efficacia è complesso, perchè un po’ come nella Triple Post Offense, ai giocatori è richiesta una certa capacità di improvvisazione in base alle posizioni in campo. Da questo deriva che le possibilità di gioco derivanti da questo schieramento sono numerose, e se in questa sede ne vengono presentate solo due è per

la volontà di trattare le opzioni più sfruttate dall’attacco degli Spurs. Tenendo bene a mente i concetti chiave di questo attacco (vd. Riquadro alla pagina successiva), esaminiamo qual è lo schieramento tipico. Il pallone viene condotto oltre la metà campo sulla linea laterale, non al centro. Al centro infatti deve esserci il miglior bloccatore della squadra, cioè un lungo. Nella terza imLAKERSLAND magazine

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magine vediamo Duncan al centro che riceve da George Hill e ribalta per Parker. Questi due passaggi sono pressochè obbligatori. A questo punto, la giocata base del playbook prevede che Gary Neal porti un blocco a Bonner. Questo blocco in passato era ampiamente sfruttato

per far tagliare Tim Duncan verso la palla: vedremo poi in seguito perchè questa opzione non viene sfruttata più. Tornando a Neal, il blocco che porta serve più a distrarre il suo difensore che a liberare Bonner. Dopo il blocco, ne riceve uno da Duncan all’altezza della lunetta. L’uscita da questo blocco gli apre tre possibili opzioni: il tiro da fuori; il taglio a ricciolo verso il canestro; il pick and roll con colui che gli ha portato il blocco. Tre soluzioni ugual-

PER GINOBILI

Manu Ginobili resta probabilmente il punto di riferimento principale per l’attacco di Popovich. Come detto, spesso viene coinvolto tramite quel primo movimento “base” di Motion Offense, ol44

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mente pericolose. Gli Spurs utilizzano questo movimento per mettere in ritmo Neal, Jefferson, Hill, e ovviamente Ginobili.

REGOLE PER LA MOTION OFFENSE SPAZIATURE: tre o quatto metri di distanza tra ciascun giocatore PAZIENZA: non palleggiare se non necessario, aspettare i movimenti e servirli MOVIMENTO: tutti i giocatori devono compiere un movimento, sia vicino sia lontano dalla palla

tre che con il pick and roll. Ci sono però una serie di giochi disegnati e giocati apposta per lui e che vengono giocati anche dieci volte a partita se l’argentino è in serata o se è accoppiato a scarsi difen-

sori (o con problemi di falli). Il principale di questi è mostrato nella quarta immagine. L’azione è cominciata come da motion offense: la palla, condotta lateralmente da Hill, è passata al centro a


Blair e da questi sul lato opposto a Neal. Blair e Hill portano due blocchi cosiddetti “stagger”, staccati di un paio di metri uno dall’altro ma posti nella stessa direzione; Ginobili sfrutta i due blocchi ed esce a ricevere. Da questa posizione Ginobili ha ancora una volta tre opzioni: tirare da fuori; penetrare; aspetta-

PER PARKER

Oltre al pick and roll e alla possibilità di uscire dai blocchi nella motion offense, c’è uno schema che gli Spurs utilizzano quasi solo per Tony Parker (talvolta anche per George Hill). Parker, così

re e giocare pick and roll con Blair che si gira e porta un secondo blocco, mentre Hill si allarga nell’angolo per creare spazio.

come nella motion offense, conduce il pallone oltre la metà campo in posizione laterale, dopodichè passa ad un compagno che sia un buon passatore, in posizione centrale. Nell’immagine nu-

mero 5 vediamo come Tony Parker sia pronto a sfruttare tre blocchi: il primo di Duncan, gli altri due da parte di Bonner e Hill sul lato debole. Questa opzione (piuttosto diffusa nell’NBA, viene sfrut-


tata per liberare giocatori come Hamilton o Roy) permette al francese di sfruttare la sua estrema rapidità per seminare l’avversario: nel momento in cui uscirà dal doppio blocco il suo avversario sarà dietro di lui e questo gli consentirà di: prendere l’arresto e tiro; penetrare verso il canestro.

PER DUNCAN

Abbiamo accennato in precedenza uno dei movimenti con cui Duncan veniva coinvolto in passato. Ce n’erano tanti altri ovviamente, il cui scopo era quello di mettere in ritmo un attaccante da 20 punti abbondanti di media. Oggi di quegli schemi non c’è più traccia; Duncan oggi viene coinvolto attraverso

TRANSIZIONE

E’ doveroso richiamare in conclusione uno dei concetti che ha trasformato gli Spurs 2010/2011 da una squadra che ne mette 97 a una che ne mette 105 a sera: l’attacco in transizione. La transizione è diventata ormai un elemento fondamentale di

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due modi principali: il primo è il pick and roll, il secondo è l’isolamento. Questo rientra nel concetto di voler preservare il più possibile il giocatore da un punto di vista fisico e tenerlo riposato per l’azione difensiva; non a caso il caraibico ha il minimo di punti in carriera, ma un rapporto stoppate/minuto

che è il più alto dal 2005. Non va comunque trascurata la pericolosità di un isolamento per Duncan, sia per le sue capacità realizzative, sia per la sua visione di gioco che gli consente di seguire i tagli di tutti i compagni e smarcare con l’assist tiratori sul perimetro.

quest’attacco al punto che uno degli indici utilizzati per determinare il ritmo di gioco impresso da una squadra alla partita, cioè la media del numero dei possessi a partita, vede gli Spurs primi tra le squadre di vertice (a pari merito con i Lakers, anche se

per motivi diversi). Cruciale in questa trasformazione è l’inserimento di George Hill, giocatore di velocità e atletismo non comuni. Vediamo nell’ultima immagine perchè gli Spurs si affidino spesso e volentieri all’attacco in transizione, sopratutto quando il


loro attacco a metà campo è in difficoltà. In questo caso è Tony Parker in palleggio, ma può benissimo trattarsi di Hill o Ginobili. Il vantaggio che ricava San Antonio da questa soluzione sta nella difficoltà della difesa di chiudere la linea di penetrazione mentre sta ancora rientrando nella sua

metà campo. Posto che dal palleggio Parker è in grado di battere agevolmente il suo uomo (Kidd), l’aiuto del centro (Chandler) non può arrivare e dunque quest’azione genera un comodo layup e due punti per l’attacco.

CONCLUSIONI

La scelta di quali strade percorrere tra quelle descritte rientra nel gameplan relativo alla singola partita: certi schemi verranno ignorati per una partita intera, per poi essere sfruttati dieci volte la partita successiva; in certe partite si giocheranno 80 pick and roll, in altre 100; contro avversari lenti si giocheranno 100 possessi, contro squadre carenti nella difesa a metà campo si rallenta il ritmo e se ne giocano 80. Tutto a discrezione di Popovich e del suo staff.

LE CIFRE DELL’ATACCO SPURS PTS

DIFF

FG%

3P%

FT%

APG

103.6

+7.12

47.2

40.1

77.1

23

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