D N A L S ER
K A L
e n i z a g ma
SHANNON BROWN
MIAMI & SPURS
BIG GAME JAMES
LA PACKLINE DEFENSE
THE HEAT
Ci siamo. Non è più Pacino contro De Niro. La sfida one-on-one più attesa di ogni anno. Lo scontro tra due campioni, tra una dinastia conclamata e una che vuole nascere.
LO STAPLES È TROPPO LONTANO PER TE? SEGUI www.lakersland.it PER RESPIRARE ARIA DI LOS ANGELES E DI LAKERS.
EDITORIALE Con negli occhi la “scintillante” prova casalinga dei Lakers contro gli Wizards, iniziamo a scrivere questo editoriale con lo scopo di introdurvi al secondo numero di Lakersland Magazine. La prova offerta contro Wall & co. è la classica partita da regular season dei Lakers, che sciupano un agile vantaggio in abbondante doppia cifra con disarmante facilità, finendo poi col complicarsi la vita da soli, una caratteristica che purtroppo nelle ultime partite si è accentuata di molto. Avevamo lasciato i gialloviola in grande marcia, concentrati e volenterosi. È bastato un nulla per far cambiare le cose: sono arrivate quattro sconfitte in fila, prestazioni sconcertanti soprattutto dal punto di vista della concentrazione, facendo così saltare fuori diversi problemi, dall’assenza di Bynum, ai troppi minuti di Gasol, a Jackson che non allena. Insomma i soliti tormentoni Lakers da regular season, che ci accompagnano da anni e ai quali forse si dovrebbe prestare attenzione il giusto, consci che non si inizia a giocare da un momento all’altro come se si accendesse una spina, ma anche che questa squadra non ha mai fallito gli appuntamenti importanti da aprile in poi. I Lakers bisogna prenderli così, senza fare troppi drammi se vediamo qualche contender con un record migliore, anche se ci dà fastidio (ve lo dice uno che vorrebbe vincerle tutte ed 82 e quando si perde si fa sempre venire i venti minuti). Venendo ad argomenti che ci riguardano più da vicino, vogliamo ringraziare tutti voi per i complimenti ricevuti dopo il primo numero e per tutte le critiche positive e propositive che ci avete scritto. Tutto questo ci spinge ovviamente ad andare avanti con maggiore impegno e profitto, sperando di offrirvi di volta in volta un prodotto migliore. A tal proposito ci scusiamo per il ritardo nell’uscita del primo numero, essendo alla prima uscita non avevamo ben calcolato i tempi necessari. Ci piacerebbe dire che non accadrà sicuramente mai più, ma a volte le cose da fare sono molte, così come gli impegni che vanno oltre questa rivista, dove tutti collaborano per pura passione senza altri scopi; così ci limitiamo a dire che ci impegneremo a far sì che ciò non accada mai più. In questo numero troverete grande risalto per la sfida di Natale contro gli Heat, probabilmente una delle sfide di regular season più attese degli ultimi anni, anche se i nostri nelle gare del 25 dicembre non sono mai andati molto bene, affrontando spesso la partita come, appunto, un normale match di regular season. Proprio per il contenuto di questo mese, ci siamo impegnati per far sì che la rivista uscisse puntuale il 24, un numero che con la redazione non abbiamo certo scelto a caso, sperando possa essere una volta di più beneagurante.
IL CAPO REDATTORE Alan di Forte
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SOMMARIO
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Appunti a conclusione del primo mese di Regular Season...
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IL TIRATORE CON LE ALI SHANNON BROWN
di federico rainaldi
di MARCO RAGUZZONI
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GAME OF THE MONTH di DAVIDE MAMONE & MARCO RAGUZZONI
SPURS ARE BACk
DI GIUSEPPE MAGNIFICO
Numero 2 - Dicembre 2010. SITO INTERNET www.lakersland-magazine.com www.lakersland.it
MAGAZINE TEAM PER IL NUMERO 2 Alan di Forte - Capo redattore Marco “Magic” Raguzzoni Piero Trimarchi - Federico Rainaldi Davide Mamone - Roberto Viarengo Giuseppe Magnifico Lavoro grafico a cura di Marco Weps Pasqualotto
22 28 30 40 Lakersland Magazine è un iniziativa del sito Internet http:// www.lakersland.it con lo scopo di divulgare e raccogliere tutto il materiale in esso contenuto. Pertanto ai sensi della legge 62/2001 non può essere considerato un prodotto editoriale. Lakersland è un magazine dedicato agli appassionati di basket NBA, soprattutto per tifosi e simpatizzanti della famosa squadra losangelena. Contiene resoconti, diari mensili e det-
MIAMI:BEST OR BLUFF di ROBERTO VIARENGO
TOP OF...
di ROBERTO VIARENGO E GIUSEPPE MAGNIFICO
BIG GAME JAMES di Piero trimarchi
PACKLINE DEFENSE
di GIUSEPPE MAGNIFICO
tagli tecnici per permettere anche all’utente meno inserito nelle logiche della pallacanestro di sentirsi partecipe. Gli articoli e la grafica sono il frutto di notti insonni e di un lavoro meticoloso da parte di tutto il team di lavoro, senza scopo di lucro o retribuzione alcuna, per piacere non rubate. Tutte le immagini e le dichiarazioni appartengono ai rispettivi autori, no copyright infringement intended.
Appunti a conclusione del SECONDO mese di Regular Season... di FEDERICO RAINALDI
Analizzare la seconda parte di novembre e la prima metà del mese di dicembre in casa Lakers desterebbe non poche preoccupazioni decontestualizzandolo dal classico andamento “Jacksoniano” della regular season. Dopo l’ottima partenza con otto W, sono arrivate tante sconfitte 7 a fronte di 10 successi ( in data 15/12/2010 )che hanno relegato i Lakers, al momento, al terzo posto della Western Conference con il quarto record di tutta la Lega. Calendario alla mano, numeri troppo deludenti rispetto alle attese ed anche agli anni scorsi. Mai infatti, nell’era Gasol, i Lakers avevano perso 4 partite consecutive, come quest’anno, e soprattutto mai avevano lasciato la vetta dell’Ovest. Le ragioni di questa frenata sono molteplici. Incominciamo con la solita svogliatezza che caratterizza l’approccio alle sfide di regular season contro avversarie modeste, soprattutto dell’altra conference, che destano esclusivamente noia nei giocatori gialloviola abituati, storicamente, a dare il meglio di loro con le spalle al muro e nelle partite classiche da non ritorno: dicembre, sfortuna nostra, non presenta ancora questo tipo di match , ecco che intensità ed applicazione sono spesso ridotte ai minimi termini. Nonostante la pochezza di alcuni avversarie, Indiana o Houston su tutti, talvolta cercare di “accendere” soltanto per un quarto di gioco può non bastare per portare a casa la W, soprattutto se poi si concede, a turno, la classica serata di gloria del giocatore dell’altra squadra. Secondo motivo, ma non di meno importante, affiora la prima stanchezza nelle gambe dei lunghi gialloviola, chiamati agli straordinari dall’assenza di Bynum e costretti ad un minutaggio da playoffs già a novembre. Senza il suo centro titolare, Phil Jackson è stato costretto a rinunciare alla classica rotazione a 3 lunghi, che costituisce una delle frecce più efficaci ed acuminate della faretra lacustre. Il coach, andando contro tutti i suoi dogmi, aggiungendo all’assenza di Bynum quella forzata di Ratliff fermato ai box pure lui da problemi fisici, ha dovuto promuovere a ruolo di terzo lungo Caracter, mettendo in luce tutti i 6
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limiti del rookie ed esponendolo, purtroppo, anche a brutte figure, mentre forse avrebbe giovato maggiormente una sua parentesi in DLeague. La coperta sotto canestro dunque si è dimostrata parecchio corta ed il rendimento dei giocatori, Pau Gasol su tutti, è andato calando. Le cifre del catalano, MVP del primo mese, lo dimostrano, il suo rendimento nelle ultime 10 partite è andato evidentemente calando, 15 punti di media con 10 rimbalzi, con un picco negativo al tiro 36% nelle 6 gare a partire dalla sconfitta di Memphis per finire con quella di Chicago. Lamar Odom, invece, è forse la nota più positiva dell’inizio di regular season. Tornato in quintetto, il 7 si è dovuto improvvisare persino centro in questo scorcio, ricoprendo il ruolo già avuto in estate con la nazionale americana. Mai forse come in questo mese e mezzo l’aggettivo costante è appropriato per descrivere l’andamento di Lamarvelous. Con il rientro di Andrew Bynum, Odom tornerà, magari non da subito, a ricoprire il ruolo di panchinaro cinque stelle extralusso con il compito di dare tanta difesa alla second unit ed il campio di ritmo alle partite. Dal suo rientro tra le riserve sicuramente ne trarranno giovamento le 3 “B”: Shannon Brown, Matt Barnes e Steve Blake, apparsi un po’ sottotono dopo l’ottimo inizio, insieme con Odom formeranno un quartetto assolutamente invidiabile ed in grado di gestire, se non incrementare, quanto lo starting five do-
vrà costruire nei primi quarti delle partite. Un altro, insolito, campanello d’allarme arriva dall’esecuzione offensiva. Spaziature praticamente inesistenti ed una triangolo eseguita molto male hanno causato un repentino crollo dei punti messi a referto dai Lakers. Se nelle prime partite infatti, i gialloviola scollinavano con estrema comodità sopra i 110 punti, in 7 delle ultime 10 gare giocate i campioni del mondo non hanno superato nemmeno quota 100: davvero troppo poco per una squadra che dispone, sulla carta, di soluzioni infinite. Problemi al tiro che nascono come detto da una cattiva esecuzione e troppo spesso da soluzioni frutto dell’improvvisazione dei singoli: ci fosse ancora stabilmente Tex Winter dietro la panchina di Jackson ci sarebbero parecchi cerchietti con il pennarello rosso per bocciare i possessi offensivi dei Lakers. Cattivo momento in attacco che si riflette in primo luogo sul record lontano dallo Staples Center dove i Lakers hanno prodotto un timido 8-5, maturando troppe sconfitte, fa rabbrividire il confronto con l’8-1 di Spurs e Mavs, temporaneamente padroni della Western Conference. Il messaggio criptico di Phil Jackson, all’indomani della L di Chicago non si è fatto attendere, “Stiamo giocando davvero male e sono preoccupato dell’apporto dei ragazzi”, il commento di mister undici anelli, “ma nonostante la mia preoccupazione credo che nessuno di noi perderà ore di sonno”. Insomma tutto il coach Zen che conosciamo, invece di premere il bottone del panico, stimola i suoi ragazzi in attesa di una reazione. I Lakers sono all’interno di un momento di transizione nel corso di una stagione infinita, sono in attesa. Con impazienza i gialloviola aspettano il rientro di Andrew Bynum ( avvenuto nella notte a Washington ), sperando che sia davvero la volta buona per vedere il centro, sul quale tanto hanno investito, in campo senza alcun tipo di problemi fisici, quegli stessi che ne hanno rallentato l’esplosione ai vertici dei lunghi della Lega. Attesa per il ritorno in campo pure del veterano Theo Ratliff, ma soprattutto attesa degli stimoli giusti sulla strada del 3 peat. Sicuramente un forte impulso arriverà dalla sfida di Natale con i tanto chiacchierati Heat, partiti in sordina e poi in grado di rialzarsi e conquistare in un paio di settimane i vertici
della Eastern Conference con la complicità di un calendario non irresistibile. Il 25 dicembre i Lakers dovranno evitare di ripetere la pessima figura dello scorso anno, quando Lebron James ed i suoi Cavs maramaldeggiarono allo Staples Center facendo perdere la pazienza ai tifosi di casa. La sfida contro Miami rappresenterà il vero trampolino di lancio per i Lakers all’interno di una stagione che entrerà nel vivo nei mesi di gennaio e febbraio quando, con il roster si spera al completo, i gialloviola dovranno conquistarsi la vetta della conference, e non solo, per prepararsi al meglio alla difesa dell’anello in primavera. Non vestirà più l’uniforme gialloviola Sasha Vujacic. Il protagonista dei due liberi decisivi di gara 7 con i Celtics, infatti, è stato ceduto nella notte ai New Jersey Nets consentendo un risparmio di circa 9 milioni al dottor Jerry Buss, con una trade exception del valore di 5 milioni di dollari della quale i Lakers potranno servirsi sul mercato nel caso di impellenti necessità. Se ne va dunque uno tra i giocatori più chiacchierati della storia recente dei Lakers, un fantasma prima della stagione 2007/08, poi una certezza dalla panchina nella cavalcata fino alle Finals perse con Boston. In quella estate Vujacic ottenne un triennale, forse troppo remunerativo, le sue prestazioni non sono state mai più su quei livelli. A Sasha vanno i migliori auguri per il suo proseguo della carriera con l’auspicio che con un maggiore minutaggio potrà ritrovarsi, insieme con l’altro ex Laker Jordan Farmar. Benvenuto invece al nuovo arrivato Joe Smith, prima scelta del draft 1995, veterano alla ricerca del suo primo anello, ulteriore polizza per preservare i lunghi dei Lakers in vista dei playoffs.
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“IL TIRATORE CON LE ALI” di MARCO RAGUZZONI
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PREDESTINATO. Shannon Brown da Maywood era uno di quelli, faceva parte di quell’elitè di giocatori liceali sui quali viene già scritta la carriera prima del suo inizio, quelli che non dovranno mai soffrire e ai quali il compagno di banco al liceo cercherà di rimanere agganciato per avere la speranza di una vita migliore. Uno che era cresciuto da tifoso dei Bulls perchè “se vieni da li, hai Michael Jordan nel sangue”. La classe 1985 di liceali comprendeva ragazzi come Chris Paul, Luol Deng, LaMarcus Aldridge e Joakim Noah, gente che aveva scelto il college anche se il futuro al piano di sopra era assicurato, oppure altri che avevano tentato la via più breve: Dwight Howard, Al Jefferson, Josh Smith ai quali la fortuna non poteva di certo voltare le spalle o altri come Bassy Telfair, JR Smith e Shaun Livingston che per ragioni diverse non sono mai arrivati dove il loro talento faceva presumere. Shannon Brown faceva parte di quel ristretto numero: Mr. Illinois e McDonald’s All America erano i suoi biglietti da visita.
7 FEBBRAIO 2009. Los Angeles Lakers trade Vladimir Radmanovic to Charlotte Bobcats for Adam Morrison and filler. Per molti tifosi dei losangelini quel giorno fu la fine di un incubo, i giallo-viola che con una mossa di mercato si liberavano dei servigi e del contrattone del Cadetto Spaziale e ricevevano in cambio Adam Morrison, giocatore al quale un anno prima il parquet dello Staples strappò dalle mani (e dal ginocchio) una più che dignitosa carriera Nba. Il Filler, quello che “riempe” la trade, che arriva per pareggiare i salari dello scambio era Shannon Brown. L’ex promessa liceale, che dopo due opache stagioni a Michigan State si rimise sulla mappa Nba nell’anno da junior e quella volta non ci pensò un attimo a fare il grande salto perchè “mentre lui faticava al college gli altri che avevano tentato la via più breve ce l’avevano fatta”. La Nba però non fu
la stessa cosa, Cleveland, Chicago, Charlotte: 74 partite Nba in 3 anni e mezzo condite da 3 discese all’inferno in D-League. Troppo poco ball handling per fare il play, troppo poco tiro per fare la guardia, buono solo per la gara delle schiacciate. Lo scouting di Shannon non lasciava speranze e la carriera ai Lakers sembrava già segnata prima di iniziare: il suo 24-83 dall’arco in carriera (28,9%) e le sue difficoltà nell’esprimersi come passatore lo escludevano a priori dalle rotazioni. Lui non ce l’aveva fatta, Lui era il FILLER e nessuno si ricorda mai del filler.
DEFENSE. Phil Jackson, non troppo morbido con i nuovi arrivati soprattutto in corso di stagione “Perchè per comprendere la triangolo ci vogliono mesi, anni...” vede nei Lakers 2008-09 una squadra con lacune in difensive e poca fisicità e ritrova in Shannon un defensive stopper che per qualche minuto può mette la museruola alle guardie ed ai play avversari. Inizia così il ritorno in Paradiso di Shannon Brown. Allenamento dopo allenamento, partita dopo partita si conquista la fiducia dei compagni e nei playoff 2009 il suo minutaggio cresce a 13 minuti a sera, il 48% dall’arco (12-25) unito a tanta difesa aiutano i giallo-viola a tornare sul tetto del mondo. I Lakers, convinti del suo potenziale e che l’ex promessa liceale avesse solo smarrito la retta via, gli offrono un contratto di 1 anno con opzione per il secondo. E’ l’ultima occasione per ridare a se stesso e al suo compagno di banco la vita che aveva sempre sognato.
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23 NOVEMBRE 2010. Lakers-Bulls. 21 punti 5-10 da 3 punti in 28 minuti di gioco. Un anno e mezzo dopo, il brutto anatroccolo è diventato un cigno, in mezzo ci sono 2 titoli Nba, una gara della schiacciate (perchè volare per lui non è mai stato un problema), una fiducia ritrovata, il rispetto dei compagni, della Nba e tante ore il palestra a lavorare sui propri difetti, quelli per i quali nessuno credeva più in lui. L’uomo da Michigan State però rimane con i piedi per terra e anche di fronte ad una prestazione decisiva contro la sua ex squadra non si scompone più di tanto - “Io voglio sempre giocare bene contro il posto da cui vengo” e prosegue “Sono cresciuto guardando i Bulls. Ero un tifoso dei Bulls. Ho solo fatto quello che mi chiede il coach, segnare quando sono libero.” e continua “Sono molto più paziente e leggo meglio dove stà andando la partita e cerco di sfruttare le situazioni che mi propone la difesa avversaria”. Lo stesso Kobe Bryant non ha mancato di sottolineare i suoi miglioramenti -”E’ un grande tiratore, quando lui è libero lo vedo e aspetto che arrivino gli avversari per passargliela, non penso sia solo caldo, lui è un gran tiratore e se è libero so che metterà il tiro…” . Il giudizio e la fiducia che il numero 24 ripone in lui è un investitura ufficiale e lo stesso Phil Jackson ad inizio stagione aveva più volte sottolineato l’etica lavorativa di Brown. Le cifre in questo inizio di stagione sono impressionanti: 10,8 punti in 19,1 minuti col il 45,5% da 3 punti con 3,5 tentativi dall’arco a partita dopo un terzo di stagione. Mr. Illinois, il McDonald’s All America è tornato e probabilmente siamo solo all’inizio della scalata. Nel 18-7 di inizio stagione, dove i Lakers avevano inizialmente impressionato addetti ai lavori ed avversari per poi avere una piccola ricaduta che ha ridimensiona10
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to il giudiziosui giallo-viola, c’è tanto Shannon Brown, il talento dell’ex Michigan State stà risultando decisivo nelle rotazioni di coach Jackson e soprattutto le sue qualità stanno permettendo per la prima volta a Bryant di tirare il fiato senza che la sua squadra risenta della sua mancanza. Oggi Kobe è al minimo in carriera come minuti giocati da quando è uno starter, solo 33 minuti a gara e questo anche perché la sua riserva garantisce minuti di qualità.
THREEPEAT. Ora per Shannon si aprono nuovi scenari, le sue qualità difensive, la sua capacità di volare unite la sua efficacia da fuori ne fanno un role player di estrema importanza per la scalata dei Lakers al Threepeat ed onestamente nessuno poteva immaginare un impatto simile. Le possibilità di ripetersi, unite alle difficoltà iniziali degli Heat, ne fanno dei giallo-viola la più seria candidata al titolo e il gap con gli avversari, anche dopo “The Decison”, pare essere aumentata. Oggi più che mai i Lakers se lo tengono stretto, adesso nei finali di partita ogni tanto Jackson chiama il suo numero e gli chiede di aiutare Kobe a vincere le partite. Non male per uno che nella migliore ipotesi era destinato a mangiare pizza o spaghetti in una qualche squadra sperduta nella A2 italiana.
FUTURO. I Lakers hanno grattato a fondo e sotto la scorza grezza sono riusciti a trovare l’oro, quel ragazzo del Michigan che dopo gli errori di gioventù ha dimostrato di saper scegliere. In estate Knicks e Bulls si erano fatti vivi con contratti molto più remunerativi, quei contratti che ti “sistemano per la vita”, ma lui ha tenuto duro ed è rimasto da chi aveva creduto in lui e da chi gli ha ridato la Nba, ha capito che per completarsi al meglio Jackson e i Lakers erano la scelta giusta perchè per emergere con i migliori devi tirare fuori tutto quello che hai dentro. Oggi lo ritroviamo con un ruolo importante nella miglior squadra del globo e non sappiamo dire dove potrà arrivare perchè i miglioramenti fatti in soli 21 mesi fanno capire quanto margine abbia ancora questo ragazzo. Gli avversari sono avvertiti: la second unit ribattezzata ad inizio stagione da Phil Jackson “The Renegades” ha un’arma in più al suo arco: Shannon Brown da Maywood, classe 1985.
LE SUE CIFRE ATTUALI 10.3 18.7 47.4% 44.8% 92.1%
pts min FG% 3p% FT%
IL CONTRATTO 2.200.000 $ 2.400.000 $
193 cm 95 kg 44.5
inches of
Vertical leap
(Player Option)
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Nella torrida estate cestistica di L.A. del 2004, i Los Angeles Lakers, dopo la cocente delusione maturata alle Finals contro Detroit, salutarono Shaquille O’Neal coinvolgendolo nella oramai celebre trade con Miami, dalla quale arrivarono Lamar Odom, Caron Butler e il rimpianto contrattone (…) di Brian Grant, puntando su Kobe Bryant come leader del futuro. In quella stagione (e nelle due successive), l’NBA nel match di Natale propose un succulento Lakers-Heat; succulento, non tanto per la partita in sé, quanto per la sfida nella sfida Kobe vs Shaq. In quei Christmas Matches, la squadra dell’MVP delle scorse due Finals, però, non riuscì a digerire il panettone, anzi; arrivarono tre sconfitte, in Florida. Quattro anni dopo, Los Angeles Lakers e Miami Heat tornano ad affrontarsi nel giorno di Natale, per il match centrale della giornata/ nottata NBA. Da una parte, Kobe Bryant e la sua squadra, composta da un gruppo centrale maturo, rodato ed esperto; dall’altra, Wade, con le valige in mano sino ai primi giorni di giugno, ha, invece, potuto vivere un sogno, quest’estate, rimanendo in quel di Miami e vedendosi affiancato da due dei Free Agent più succulenti che potessero esserci: Lebron James e Chris Bosh. Dopo aver analizzato il match contro una squadra ostica della Eastern Conference come quella dei Chicago Bulls, apprestiamoci, quindi, ad entrare nell’ottica di quella che sarà una partita intensa, che dovrebbe rappresentare lo scontro tra la dinastia del presente e quella (in teoria) del futuro (?).
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From L.A. 2 vittorie e 4 sconfitte. E’ questo il bilancio degli ultimi 6 ‘Christmas Match’ disputati dai Campioni NBA in carica. Una tradizione diciamo poco positiva, che lo scorso anno, a causa di uno dei giocatori che sarà protagonista anche di questo match di Natale, Lebron James, è stata portata avanti nella disfatta casalinga dei Los Angeles Lakers, subita dai Cleveland Cavaliers. I Lakers arrivano a questo appuntamento con un Andrew Bynum in più, rientrato dopo i 4 mesi di decorso post-operatorio e con un tour in trasferta disputato in maniera comunque positiva, nonostante il livello degli avversari non permetta più concrete possibilità di analisi. Una squadra in fiducia, insomma, che si sta godendo la crescita di uno dei giocatori più esplosivi a roster: Shannon Brown. L’ex Bobcats, dalla panchina, sta permettendo a Kobe di rifiatare senza alcuna problematica (il 24 non ha mai giocato così poco, negli ultimi 10 anni in carriera) e a Jackson di poter contare su una più che discreta fonte di punti e difesa. Inoltre, per secondo, ma non di minore importanza (anzi), ricordiamo Lamar Odom: il prodotto di Rhode Island ha spiazzato sostanzialmente tutti, disputando un primo terzo di stagione straordinario, fatto di doppie-doppie, di partite solide su ambo i lati del campo, di match giocati in scioltezza spiegando basket ad avversari e compagni, di incontri in cui ha mostrato movenze da guardia, nel solito corpaccione di oltre 2 metri. Insomma, l’Odom che vorremmo (e potremmo, se aves-
se testa) sempre vedere. Al suo fianco, dal ritorno di Bynum, un rivitalizzato Pau Gasol, che dopo un vistoso calo avuto attorno ai primi di dicembre, pare aver recuperato lo smalto che ci ha permesso di giungere a 3 Finals in 3 stagioni. Insomma, sembra tutto pronto. Da calendario, i Lakers avranno ben 3 giorni di pausa; la preparerà tatticamente, almeno questa, Jackson?
From Miami Parlavamo prima, in sede di presentazione, di dinastia del futuro. Ecco, va detto che questo parolone è stato accostato un po’ troppo spesso e con troppa facilità dal 99,9% dei media americani, quest’estate. Che le basi ci siano, è ovvio; quando a roster si hanno giocatori dal devastante potenziale cestistico come Wade e Lebron James, non si può non sognare. Però, insomma, in questo primo scorcio di stagione, in questi 2 mesi iniziali, la squadra di Spolestra non ha confermato quelle che erano le enormi aspettative estive. Novembre è stato un mese clamorosamente complesso, fatto di sconfitte inspiegabili (Indiana in casa), di pesanti batoste dal punto di vista tattico (le due contro Boston), di difficoltà nel mostrare quel minimo di solidità che dovrebbe essere quasi scontato per un gruppo come quello degli Heat (contro Orlando e Dallas, ad esempio). Molti, i fattori di queste difficoltà. Sul forum Lakersland.it, i Miami Heat e le loro sorprendenti sconfitte hanno dato innumerevoli spunti di riflessione e di discussione. La domanda ricorrente era: perché tante complicazioni? Beh, innanzitutto va detto che, nella storia dell’NBA, tolta l’eccezione di Michael Jeffrey Jordan, nessuna squadra ha potuto vincere un titolo, senza un lungo di grande importanza. A Miami, di lunghi di questo tipo, effettivamente non se ne vede nemmeno l’ombra: Ilgauskas, arrivato in qualità di Lebron’s Friend, ha un repertorio offensivo tipico dei 4 perimetrali, nonostante l’altezza; Bosh non è un 5, né un lungo con gli attributi necessari per contrastare avversari di calibro elevato nel suo ruolo; Haslem, fuori a lungo per un infor-
tunio, è un 4 di grandioso spessore difensivo, ma tutto fuorchè il classico centro dominante. Poi, comunque, si deve considerare il fatto che questo è un gruppo nuovo, composto da due accentratori offensivi come i due leader che lo compongono e guidato da un coach che, abituato a guidare una Fiat Panda, si è trovato in mano le chiavi di un Ferrari e a dover gestire una situazione più grande di lui. Nonostante le difficoltà iniziali dovute a tutti questi motivi, gli Heat di Wade e Lebron hanno disputato un mese di dicembre ottimo, che li ha visti protagonisti con un’ottima fila di vittorie consecutive. Quindi, mai sottovalutare un roster come questo, soprattutto se inizia a trovare coesione e fiducia; un gruppo che ha enorme potenziale e che arriverà ai Playoffs ad occhi chiusi. E si sa...i Playoffs sono tutt’altro basket.
Keys of the Match Carenza nel reparto lunghi degli Heat Ne abbiamo già accennato l’importanza nella parte riguardante la squadra della Florida. Miami necessita di un lungo che possa quantomeno limitare gli avversari nel pitturato; nonostante qualche timido segnale difensivo da parte di Bosh, questa squadra soffre particolarmente questo aspetto tattico (Okafor, Millsap, Chandler, Shaq, Garnett sono stati solo alcuni a beneficiare, da avversari, di questa lacuna). C’è miglior squadra dei Lakers per impensierire gli Heat dal punto di vista dei lunghi? Ancor di più ora, che è rientrato Bynum, si direbbe di no, sulla carta. Dare tanto, e bene, la palla sotto in post-basso ai due lunghi sarà assolutamente fondamentale per i gialloviola, che dovranno prendere le misure con le proposte difensive offerte da Spoelestra e dovranno capire come e quanto attaccare nel pitturato. Ron Artest ad inizio stagione, in un’intervista affermò: “Io prendo Lebron. Kobe si prende Wade. E Pau Bosh. Alla fine deciderà Andrew Bynum: se sarà sano, non ci può battere nessuno.” Insomma, vedremo… Gestione dei ritmi e utilizzo della transizione primaria E’ ovvio. Una squadra con Lebron James e LAKERSLAND magazine
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Dwyane Wade, nel momento in cui la si lascia attaccare liberamente in campo aperto, diviene davvero letale, infermabile. Non si tratta, ovviamente, di una transizione alla “Seven second or less”, tipica delle squadre di D’Antoni; non è un sistema, un modo di interpretare il basket, che porta la squadra a prendere tiri piazzati puliti il prima possibile. Nel caso degli Heat, è proprio la più normale delle transizioni, che non si pongono all’interno di un dato sistema offensivo, con dei movimenti fissi da rispettare; tante volte, specie nel mese di dicembre, si è visto il duo WadeJames attaccare in 2vs1 o in 2vs0, dopo una palla recuperata. Già abituati dall’esperienza Olimpionica, i due principali interpreti di questa squadra, riescono ad inquadrarsi alla perfezione in questa situazione, più di ogni altro giocatore nella Lega, forse. I gialloviola, insomma, dovranno tenere per bene in mano i ritmi del gioco, favorendo l’attacco a metà campo e giocando, quindi, una partita sui 90-95 punti; niente tiri forzati in transizione, se non strettamente necessario, sarà l’ordine da seguire per rischiare di meno.
Phil Jackson vs Spoelestra 11 anelli. Due Three-Peat contro i Bulls d’oro di Jordan. Un Three-Peat che ha riportato in alto Los Angeles. Un Repeat che ha resuscitato, ancora una volta la città degli Angeli. Capace di allenare ed insegnare basket&filosofia a squadre diverse, a gruppi differenti e ad ogni tipologia di giocatore. Questo è Phil Jackson. Nel suo libro Basket&Zen, che si riferisce so16
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stanzialmente all’esperienza con Chicago, scrive questo nell’introduzione: “Nel basket, come nella vita, la vera gioia deriva dall’essere totalmente presente in ogni momento, non solo quando le cose vanno bene.” Da questa frase, si può capire tanto dell’interpretazione che Jackson fa del basket e di quello che lui vuole immettere in tutti i suoi discepoli. I mind Games che architetta durante tutta la Regular Season non sono altro che messaggi, più o meno subliminali, che manda ai giocatori, con lo scopo di insegnar loro qualcosa, di farli arrivare ad una riflessione da lui voluta, soprattutto nei momenti di difficoltà. Anche per questa partita, che magari non preparerà al meglio tatticamente parlando, ne avrà sicuramente pensati, di mind Games. Il tutto, grazie alla sua focalizzazione filosofica del gioco. Dall’altra parte, beh..il sogno di molti sarebbe stato quello di vedere Pat Riley sulla panchina della futura dinastia e di poter godere nuovamente dello scontro tra due guru della storia del gioco. Troviamo, invece, Spoelestra, comunque ottimo allenatore NBA, bravo nel dare un’identità alla squadra che si è trovato in mano l’anno scorso; fin qui, bravo a mantenere a galla un gruppo difficile, che porta continue insidie. Non ha esperienza, in confronto a Jackson, ma dal canto suo ha tutta una carriera davanti e le indubbie capacità nel riconoscere le varie situazioni tattiche e le sfumature di esse, all’ interno di una partita come quella di Natale.
In conclusione a questo speciale, non possiamo esserci dimenticati, ovviamente, dei 3 giocatori principali che scenderanno in campo il 25 sera. Kobe Bryant, Dwayne Wade, Lebron James. La storia di cui parliamo si può raccontare attraverso un lungo filo logico, tenuto in piedi da due avvenimenti importanti: il Draft 1996 e il Draft 2003. Nel primo, in quella calda giornata estiva di fine giugno, alla numero 13 venne scelto tal Kobe Bryant, giovincello acerbo e colmo di potenziale appena uscito dal Liceo. Nel secondo, rispettivamente ai numeri 1 e 5, furono chiamati tali Lebron James, altro liceale dal potenziale d’oro e dal futuro roseo e Dwayne Wade, fenomeno rimpianto a Marquette e guardia dall’atletismo spaventoso,
specie se relazionato all’altezza. In questi due fili narrativi, si intreccia parte della storia recente di questa Lega. Sì, perché nel primo, quel ragazzino dal padre pazzo, Kobe Bryant, è diventato uno dei giocatori più devastanti della Lega, uno dei pochi che, seppur con netto ed evidente distacco, può essere degno di un lontano paragone con il principale dei sovrani NBA, Michael Jordan. Quel Kobe Bryant, che a 7-8 anni sfidava i 30enni colleghi del babbo in Legadue e dava spettacolo negli intervalli delle partite a Rieti e Reggio Calabria, è oggi al centro della storia della gloriosa franchigia dei Los Angeles Lakers. Vincendo prima come secondo violino di lusso (quel primo Three-Peat); rischiando poi di rovinare completamente la sua immagine in gialloviola a causa della sua eccessiva sfrontatezza e presunzione e di finire dalla parte sbagliata della storia (leggasi stagione 2003/04 e le due estati d’inferno 2004 e 2007); tornando, grazie a parecchi sforzi necessari per imparare a diventare leader vero e proprio, a vincere e a giocare ai livelli che più gli competono, le Finals (ecco qui, il Repeat). Oggi, Kobe Bryant è un leader vero e proprio; che sbaglia come sbagliano tutti i leader, ma che è capace anche di tornare sull’ errore con umiltà, con abnegazione e con la volontà di diventare ancora più forte. Con la solita etica lavorativa. Con l’aggressività agonistica e la voglia di vincere, di migliorare se stesso da sempre insita in lui. Ma, nella nostra storia, abbiamo anche parlato di altri due ragazzini. Partiamo da quello scelto per primo, Lebron James. Colui che ha fatto tornare alla luce una città cestisticamente morta e sepolta; colui che tutti, ancor prima del suo primo passo sui parquet NBA, hanno additato come il Prescelto, per fare la storia della NBA. Pressione su pressione, aspettative su aspettative. Troppe, forse. Sì, perché Lebron
James, dopo 7 anni di carriera non ha ancora vinto nulla; non solo per colpe sue, ovvio, ma lui ha messo del suo, facendosi trascinare via dai paroloni che la stampa gli ha sempre accostato. Dopo continui fallimenti a Cleveland, città in cui ha mostrato, a tratti, tutta la sua onnipotenza da singolo individualista, ecco in estate il passaggio a Miami. Nella squadra di quel Dwayne Wade… Ah già, il fenomeno di Marquette. Anche lui, capace di ridare entusiasmo ad una città che cestisticamente parlando ne aveva perso da troppo tempo. Al contrario di Lebron, però, ha sempre ricevuto meno attenzioni e, quindi, meno pressioni. Questo, aggiunto alle classiche componenti d’annata (la panchina guidata da Riley,l’ultimo grido di Jason Williams, i Playoffs d’oro di Posey ed Haslem, il duo Mourning-Shaq a dare man forte nel pitturato..), ma soprattutto al suo imperiale talento, gli ha permesso di vincere quell’anello, nel 2006, al termine di una serie Jordanesca contro i Dallas Mavericks. Da lì in poi stagioni senza Playoffs, giocatori mediocri attorno a lui, esperimenti mal riusciti ed infortuni fastidiosi; insomma, un’ombra troppo grande e durata per troppo tempo. Sarà questo l’anno giusto per il riscatto? Beh, lo vedremo a giugno, quando sulla carta, queste due squadre hanno il potenziale e le possibilità di incontrarsi di nuovo. Intanto godiamoci questo succulento antipasto e lo spettacolo offertoci da questi 3 giocatori.
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SPURS ARE BACK Li davano per spacciati, vecchi e senza futuro: si sbagliavano di GIUSEPPE MAGNIFICO
In un anno possono succedere tante cose. Può succedere che Wade passi dal giocare con Quentin Richardson e Jermaine O’Neal a LeBron James e Chris Bosh. Può succedere che Blake Griffin passi dall’essere uno dei tanti lunghi con problemi fisici che rischiano di essere presto dimenticati al diventare una delle più dominanti power forward della lega. Può succedere anche che una squadra praticamente identica rispetto all’anno scorso possa ritrovarsi dopo un mese e mezzo di regular season, da un modestissimo 13-10 (15 dicembre 2009) ad un sontuoso 21-3 (15 dicembre 2010). Eppure, dando un’occhiata al roster, non ci sono novità di rilievo. Sembrano sempre i soliti Spurs, con i big 3 Parker, Ginobili e Duncan, insieme ad un gruppo di giovani e veterani, sostanzialmente lo stesso che scendeva in campo il 15 dicembre dell’anno passato perdendo e subendo 116 punti dai Suns. STABILITY IS THE KEY Per spiegare le chiavi della rinascita degli Spurs, giova partire da un dato statistico interessante. L’anno scorso dopo 23 gare erano stati provati ben 8 starting lineup diversi, per un totale di addirittura 11 giocatori diversi a contendersi almeno un posto in quintetto. Quest’anno San Antonio parte con lo stesso quintetto dall’inizio dell’anno, senza neanche un cambiamento in corsa, un piccolo infortunio o una scelta tecnica alternativa.
anche dopo risultati poco soddisfacenti, è spesso vista come una debolezza, sopratutto da un certo tipo di giornalisti iper-critici o da culture differenti in cui il minimo errore non viene perdonato (ogni riferimento alla moda italiana di mettere in discussione allenatori e giocatori dopo due sconfitte consecutive è puramente voluto). In Texas invece, nonostante l’umiliante sweep subito dai Suns negli scorsi playoff, l’estate è stata piuttosto tranquilla. Lasciato andar via Bogans, diretto a Chicago, sono arrivati Gary Neal, James Anderson e Tiago Splitter dal draft, mentre McDyess è stato convinto a restare ancora per un anno prima di ufficializzare il suo ritiro. Mentre altre squadre rivoluzionavano, o pianificavano di farlo, il proprio roster (Jazz, Bulls, Suns, Heat gli esempi più illustri), gli Spurs si riunivano al training camp quasi con lo stesso volto dell’anno passato, i big 3 confermati (il solo Parker è stato al centro di voci di mercato, create forse al solo scopo di aumentare il suo valore di mercato), Gregg Popovich sempre al centro delle operazioni. In un anno in cui tante squadre faticano per trovare il proprio equilibrio e perdono partite nel tentativo di ottenerlo, avere un gruppo che si conosce alla perfezione e che è per la prima volta dopo anni perfettamente sano, fa tutta la differenza del mondo.
La stabilità e la voglia di restare con lo stesso gruppo,
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SPURS’ BIG THREE... Tim Duncan ha recentemente giocato la sua millesima partita in carriera, ma per certi versi ha ancora la voglia di un ragazzino. Quando i giornalisti gli hanno chiesto un commento su questa “statistic milestone”, TD ha risposto: “Non lo sapevo, e avrei preferito non saperlo. Vorrei aver giocato solo dieci partite e averne davanti altre mille”. Da molto tempo il caraibico è considerato essere nella parabola discendente della sua carriera, eppure quest’anno in campo al centro dell’area degli Spurs non sembra affatto di vedere un vecchietto, anzi, piuttosto a sorpresa, Duncan è alla migliore stagione come rapporto stoppate/minuto sin dal 2005, anno dell’ultimo titolo. No, non è improvvisamente ringiovanito: è solo l’esempio più brillante della gestione del sistema Spurs. Nonostante il giocatore insista per giocare (“Sarò insopportabile in panchina, gli darò talmente tanto fastidio -a Popovich, ndT- che dovrà mettermi dentro per forza, è quello il mio obiettivo”) Popovich lo sta costringendo al minimo di minuti in carriera, 28.8, e gli effetti si vedono. Non è necessario che Duncan prenda 20 tiri, o che domini a rimbalzo come in passato; quello che più conta è forse quello che è meno evidente da un tabellino: le rotazioni difensive. Sgravato da obblighi offensivi (minimo in carriera per tiri tentati e segnati, sia liberi sia da 2), può dedicare la maggior parte delle sue energie a chiudere le linee di penetrazione avversarie. E se da un lato non ha più l’esplosività fisica di un tempo, con gli anni ha certamente acquistato un senso della posizione che non ha eguali tra i suoi pari ruolo. Questa consapevolezza, unita al minutaggio contenuto, gli consente di tornare a dare un contributo alla squadra che negli ultimi anni sembrava essere decisamente in calo, un contributo che consente di rivedere a tratti quella difesa di squadra che era quasi leggendaria ai tempi di Mario Elie o Bruce Bowen, e che oggi in alcune partite è tornata a essere tra le più difficili da battere.
non brillare quest’anno. Anche lui però sta smentendo gli scettici, tanto in attacco quanto in difesa, dove è al massimo di palle rubate in carriera.
Sembravano in calo anche le quotazioni degli altri due membri dei big 3, Tony Parker e Manu Ginobili. Il primo in particolare è stata un’incognita per gran parte dell’estate e della pre-season. Da una parte i dubbi sul suo rinnovo contrattuale, arrivato solo il 30 di Ottobre, non prima di vagliare tutte le possibilità e far tremare i polsi ai tifosi texani quando si parlava di un possibile approdo ai Knicks. Dall’altra parte, di non poco conto, le vicende personali che lo hanno visto allontanarsi dalla moglie, Eva Longoria, celeberrima attrice. Sebbene voci recenti indichino che i due possano essere vicini ad una inaspettata riconciliazione, era legittimo pensare che il francese potesse soffrire di questa situazione e
...AND THE REST OF THEM Mai quanto quest’anno però è ingeneroso dire che San Antonio è solo big 3. Negli States è molto apprezzata una statistica, il cosiddetto plus/minus. Per quanto questa possa essere di difficile interpretazione, può risultare utile per ricavare alcuni trend da commentare. Nel caso della franchigia neroargento, il dato interessante che emerge dividendo il plus/minus complessivo per la media dei minuti in campo è che i primi 4 non sono, come ci si aspetterebbe, i big 3 + Richard Jefferson, ma sono: Duncan, Parker, Matt Bonner e George Hill. Già, Bonner e Hill. Due signori nessuno fino a un paio d’anni fa, oggi alla migliore stagione in carriera dall’ar-
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Per Ginobili invece è tutta un’altra questione. Dopo averlo fatto giocare gran parte della sua carriera come sesto uomo, coach Popovich lo ha finalmente lanciato in quintetto dall’inizio, e l’argentino di Bahìa Blanca sta decisamente ripagando. Magari non è sempre efficace al tiro, ci sono serate in cui sembra abbastanza spento, ma quando la partita si decide negli ultimi minuti diventa improvvisamente e invariabilmente decisivo. Due partite consecutive, contro Milwaukee e Denver, sono state vinte dagli Speroni con un tiro di Ginobili allo scadere, due W che hanno contribuito ad allungare quella che è stata la migliore partenza per la franchigia in termini di vittorie e una delle più significative degli ultimi dieci anni.
co, (Bonner è addirittura sopra il 50%), statistica condivisa anche da Richard Jefferson, anche lui rilanciatosi dopo un paio di stagioni abbastanza buie. Tutti e tre hanno lavorato sodo in estate, passando le giornate ad allenare il proprio tiro, a farlo diventare sempre più efficace, più affidabile. Il sistema offensivo degli Spurs glielo richiede. Il gioco di Popovich infatti, al di là della contingenza dei singoli schemi, è basato su alcuni concetti cardine sui quali vale la pena soffermarsi per chiarire alcuni concetti. Innanzitutto, il pallone non deve essere mai fermo su un lato. Il ribaltamento, i movimenti sul lato debole, i tagli da e verso il canestro sono fondamentali per far muovere la difesa avversaria e metterla in difficoltà. Quando si tratta di concludere, molto spesso ci si affida ad un pick and roll, ma se il p&r è giocato dopo un paio di ribaltamenti mette in maggiore difficoltà una difesa che è stata costretta a muoversi e ruotare già da diversi secondi. Del resto quando gli interpreti del pick and roll finale sono due dei big 3 (Ginobili e Parker sono penetratori eccellenti, Duncan piazza blocchi di cemento armato) le possibilità di arrivare al ferro sono tante. Ma per arrivare al ferro è necessario che sia applicato un secondo concetto cardine. Ne parla Gary Neal, rookie 26enne che tira il 41.7% da 3:”Il nostro lavoro qui è di aiutare le stelle, se possiamo stare in campo e permettere a Tony o Manu di avere più spazio per penetrare e creare gioco, abbiamo fatto il nostro lavoro”. Popovich non chiede al supporting cast di stare fuori dall’area dei 3 secondi per liberare lo spazio; chiede loro espressamente di tirare ogni volta che hanno spazio. In base a questa lettura, è facile capire come mai Bonner risulti essere più decisivo di un Dajuan Blair, un McDyess o uno Splitter (per ora relegato ai garbage time e poco altro). Avere un’ala forte che porta via il proprio difensore dal pitturato permette ai penetratori di attaccare più liberamente, avendo solo il Centro di cui preoccuparsi. Il Centro avversario, sapendo di essere poco aiutabile dall’ala forte, quando difende sul pick and roll resta qualche passo indietro, concedendo l’arresto e tiro al palleggiatore. Se invece avanza di qualche passo, viene battuto in penetrazione, e Parker e Ginobili hanno segnato (e continueranno a segnare) tonnellate di punti in questo modo. Magari Bonner a rimbalzo e in difesa sarà anche impresentabile, ma fin quando la sua presenza in campo è così utile all’attacco, Popovich esita a privarsene, almeno finchè la front-
line avversaria non lo costringe diversamente. Il discorso che vale per Bonner vale anche per Jefferson. Il compito offensivo di RJ è sostanzialmente lo stesso che aveva Bruce Bowen: rappresentare una minaccia dall’angolo. L’angolo opposto a quello in cui si trova la palla è tradizionalmente la posizione nel campo su cui la difesa ha più difficoltà ad arrivare in caso di penetra e scarica. L’ala piccola deve tirare ogni volta che ha spazio per mettere pressione alla difesa, per costringerla a scelte imbarazzanti: affolliamo il pitturato contro le penetrazioni oppure stiamo più attenti a chiudere sul perimetro? L’anno scorso Jefferson tirò il 31% scarso dal perimetro: una minaccia molto relativa. “Cercavo di giocare come avevo sempre fatto, –dice Jefferson a proposito del suo primo deludente anno in neroargento- ricevendo e palleggiando, cercando linee di penetrazione, ma non ottenevo gli stessi risultati in questo attacco”. Ci ha messo una stagione, ma alla fine ha capito il suo ruolo nel sistema Spurs, ed è per questo che mentre gli altri andavano in vacanza a rilassare mente e corpo, RJ passava l’estate in palestra a tirare, tirare e tirare. I risultati sono lì da vedere, al di là della fredda statistica, è diventato un giocatore che la difesa deve temere quando viene ribaltato il pallone in angolo e lui si trova con un paio di metri di spazio. Questo va a tutto vantaggio di chi gioca il pick and roll. Dicevamo dei concetti cardine dell’attacco degli Spurs, ne resta un altro da approfondire, il cosiddetto concetto del “good to great”, “da buono a ottimo”. “Se tu hai un buon tiro, il prossimo compagno al quale la passerai avrà un ottimo tiro”, ama recitare Popovich ai suoi giocatori durante gli allenamenti e durante i time out. I compagni devono avere estrema fiducia fra di loro, una fiducia che non si può costruire sul mercato ma solo restando un gruppo stabile negli anni, in cui i nuovi arrivati si inseriscono serenamente. Questa fiducia gli consente di passare tiri buoni, con un paio di metri di spazio, per consentire ad un compagno di tentarne uno con tre metri di spazio. Non ci sono egoismi, non ci sono “buchi neri”, non possono essercene. Giocare insieme porta alla vittoria, ne sono consapevoli i big 3 come ne è consapevole tutto il supporting cast: dipendono ciascuno uno dall’altro, lo scopo di ognuno dev’essere quello di far giocare il meglio possibile i propri compagni, non sé stessi. Dove possano arrivare i San Antonio Spurs è difficile saperlo con certezza. Se però c’è una squadra che ha fatto di tutto per migliorare i singoli aspetti del proprio gioco durante l’estate, è stata proprio la franchigia texana, sia da un punto di vista fisico sia da un punto di vista tecnico. Finchè Popovich riuscirà a schierare sempre lo stesso quintetto e il supporting cast continuerà ad essere affidabile e aggressivo come lo è ora, il cielo è l’unico limite degli Speroni, almeno fino a Maggio e alle finali di Conference. Per altro, non dimentichiamo che il 2011 è un anno dispari.
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MIAMI HEAT: THE BEST OR THE BLUFF ? di ROBERTO VIARENGO
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Come interrogativo da porsi probabilmente è esagerato, ma in tutti e due i casi c’è comunque da riflettere. L’ipotesi che gli Heat siano i migliori, sarà valutabile forse soltanto a giugno e quella che siano un bluff altrettanto, c’è da dire però che la partenza di Miami in questa stagione ha iniziato a far sorgere più di qualche dubbio tra i diversi addetti ai lavori. Dopo un’estate a dir poco inimmaginabile, nella quale oltre che il super criticato James, sono arrivati in Florida anche Bosh e altri giocatori di livello, la partenza in stagione della franchigia di South Beach è stata quantomeno inaspettata. Già nella prima giornata è arrivata la prima sconfitta, contro quei Celtics sicuramente sottovalutati in estate, ma che sono stati in grado di rovinare l’esordio stagionale della nuova triade.
Dopo i proclami estivi, dove la parola sconfitta non voleva neanche esser presa in considerazione, e durante la presentazione di Bosh e LeBeron, nella quale proprio l’ex Cavs garantì ai suoi
nuovi tifosi ben 8 titoli negli anni a seguire, tutto ci si poteva aspettare tranne che una partenza stagionale del genere, con numerose sconfitte, spesso inattese come ad esempio quelle contro Memphis ed Indiana, volte principalmente a minare un equilibrio di squadra tutto ancora da inventare.
Non c’è dubbio che il potenziale a disposizione di Spoelstra è indiscusso, ma per vincere bisogna prima di tutto essere una squadra con la esse maiuscola e quasi sempre, gli individualismi non bastano. La stampa è sicuramente un mezzo molto pericoloso in situazioni del genere, in grado di amplificare entusiasmi eccessivi ma nello stesso tempo anche di far sorgere malumori interni, come ad esempio il fatto, ormai noto, relativo alla prima discussione a distanza tra James e il suo coach, subito dopo la seconda sconfitta contro Boston, quella in cui il numero sei degli Heat, sembrava accusasse il suo allenatore di utilizzare lui e Wade con un minutaggio eccessivo, non permettendogli di rendere al meglio. Discussione rientrata in brevissimi tempi con LeBron che accuLAKERSLAND magazine
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sava poi i giornalisti appunto di riportare cose non vere e alterare le sue parole. Che qualcosa ci fosse però tra l’ex Cleveland e Spoelstra è risultato un dato di fatto nella successiva sconfitta di Miami contro Dallas. Durante un timeout, al rientro in panchina, il numero sei degli Heat ha volutamente cercato lo scontro con il suo coach, “regalandogli” una spallata che non ha fatto altro che amplificare i malumori all’interno di uno spogliatoio ancora alla ricerca dell’equilibrio giusto.
e James su tutte infatti, rende curiosi, ma anche molto provocatori, i vari addetti ai lavori che si dividono tra chi vede nella coppia il futuro di questa lega e chi, sempre nei due, vede quello che potrebbe essere uno dei motivi per cui le pareti dell’American Airliness Arena potrebbero restare orfane di stendardi vari anche quest’anno. Come già detto, in estate, gli Heat erano visti come una squadra imbattibile, formidabile in ogni reparto, dove giocatori hanno fatto il possibile, a livello retributivo, per arrivare. Il fatto è che anche problemi d’infortunio sono giunti in Florida. Haslem ad esempio, dopo un’annata decisamente no che ha visto la morte della madre prima, e l’arresto del giocatore per possesso di marijuana poi, ha subito un grave infortunio ai legamenti del piede, operazione per il cestista e probabile stagione finita, si è quindi corsi subito ai ripari con la firma di Dampier. Anche Miller, considerato una riserva di lusso, è fermo da inizio stagione per un infortunio alla mano. Una panchina di fatto non ben amalgamata, ed in alcuni casi, rivelatasi anche non all’altezza, ha quindi contribuito ad una partenza degli Heat piuttosto “strana”, perlomeno rispetto a quella che tutti si aspettavano.
Proprio dopo la sconfitta con i Mavs però, per Miami potrebbe essere cambiata qualcosa. Il faccia a faccia esclusivamente tra i giocatori, voluto da loro stessi, sembra sia servito a qualcosa, da li in poi infatti, una bella serie di vittorie per Wade e compagni. Dal canto suo Spoelstra, volutamente tenuto fuori dallo spogliatoio durante la “reunion”, resta comunque il primo a rischiare il posto, A questi problemi, bisogna poi aggiungere nel caso in cui le cose dovessero di nuovo quelli di natura prettamente tattica. In molti infatti criticano vera e propria mancanza prendere una piega sbagliata. di organizzazione da parte di Miami, che in Sicuramente non è una stagione faci- attacco ad esempio, si muoverebbe a livelle per gli Heat, ovvero quelli con tutti i ri- lo quasi confusionale, per certi versi, danflettori puntati addosso, e i primi nemici che do solo libero sfogo al grandissimo talento devono affrontare sono proprio loro stessi, dei big three, e che in difesa raccoglierebbe per dimostrare con i fatti sul campo, tutte le i frutti di questa disorganizzazione di base, belle parole e situazioni idilliache espresse subendo passivamente il gioco avversario in più di qualche situazione. al di fuori in precedenza. Situazioni di leadership varie, sono le preoccupazioni principali per chi le sorti di Miami hanno a cuore. La convivenza tra Wade 24
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Per alcuni invece, il problema principale è solo legato all’allenatore, e la critica reciproca a distanza tra Spoelstra e Phil Jackson, ne è la dimostrazione, con il tecnico giallo-viola che ai primi segnali di maretta in casa Heat, vi si è saputo inserire verbalmente con maestria, volgendo tutte le sue attenzioni sul coach di Miami, il quale ovviamente non ha gradito i discorsi di inadeguatezza al ruolo di coach di una squadra del genere, che gli sono stati rivolti. Grandissima e scontatissima attesa c’è ora per il match di Natale, dove gli Heat affronteranno i campioni del mondo in carica, e lo faranno ad L.A. davanti a tutto il pubblico gialloviola, carico ed ansioso di rivedere l’ennesimo duello Kobe-LeBron, ma soprattutto la sfida tra due squadre che in moltissimi sperano di rivedere anche a giugno, quando cioè le parole di una o dell’altra franchigia, si saranno tramutate in fatti, con Spurs e Celtics su tutti permettendo, quando cioè l’America si potrebbe dividere nuovamente in due, non solo identificandosi nell’una o nell’altra squadra, ma anche raggruppata semplicemente in Kobe Lovers contro Kobe Haters, o in un’altra chiave di lettura, LeBron Lovers contro LeBron Haters.
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TOP OF THE EAST
di ROBERTO VIARENGO e GIUSEPPE MAGNIFICO
TERREMOTO MAGIC Rivoluzione ad Orlando la sera del 17 Dicembre, due maxi-trade sconvolgono il roster dei Magic e gli equilibri della Eastern Conference. Prima Rashard Lewis viene spedito a Washington in cambio di Gilbert Arenas, poi Carter, Gortat e Pietrus vengono impacchettati destinazione Phoenix Suns, in cambio del trio Jason Richardson-Turkoglu-Earl Clark. E non è finita, dal momento che il GM Otis Smith vorrebbe cedere uno tra Redick e Nelson per prendere un buon centro che faccia da backup ad Howard. Se questi movimenti siano stati geniali o fallimentari solo il tempo saprà dirlo.
I KNICKS ALLA RIBALTA Se i New York Knicks sono la sorpresa di questo mese nella Eastern Conference, buona parte del merito va ad Amar’e Stoudemire. 13 vittorie in 14 partite, otto consecutive, li rilanciano dopo un inizio molto stentato. Nella striscia di 8 W Stoudemire si rende protagonista di 8 trentelli consecutivi, record di franchigia, tirando almeno il 60% dal campo. Amar’e, il miglior realizzatore della lega nel quarto quarto, con 8.0 punti negli ultimi dodici minuti, dichiara: “Il limite è il cielo. Dipende solo da noi e da quanto miglioriamo”. L’arrivo di Melo, per altro, non guasterebbe.
CHI TORNA E CHI RESTA FUORI
Con il ritorno di Boozer, i Bulls sembravano essere sulla via giusta per trovare stabilità e cementare un gruppo che vuole puntare in alto. Proprio mentre l’ex Utah Jazz iniziava ad ingranare, mettendo prestazioni anche da 22+18, una brutta tegola si abbatte su coach Thibodeau e il suo staff: Joakim Noah sarà fuori da 8 a 10 settimane per riparare un legamento del pollice della mano destra. L’operazione è avvenuta il 16 Dicembre, è perfettamente riuscita, ma lascia un grosso amaro in bocca per i tifosi dell’Illiinois: per vedere i veri Bulls bisognerà aspettare l’All Star Break.
ALTI E BASSI PER IL MAGO Agrodolce il mese di Dicembre per Andrea Bargnani. Dolce perchè il Mago sta diventando sempre più efficace come prima opzione offensiva per i suoi Raptors: 21 punti e 7 rimbalzi di media sono cifre da All-Star. Da incorniciare la prestazione al Madison Square Garden, dove nel derby italiano con Gallinari, Bargnani ha brillato con 41 punti, 7 rodman e 6 assist. Sul più bello però il suo ginocchio sinistro inizia a fare le bizze. Si gonfia, si infiamma, lo costringe fuori un paio di partite, compresa quella con i Lakers. La situazione è ancora da valutare, si spera non sia nulla di grave.
DOVE SARA’ IL FUTURO DI IGUODALA? Sono sempre più numerose le voci che vedono una partenza di Andre Iguodala dai 76ers. Nonostante la smentita del club di Philadephia di mettere il giocatore in vendita, club che avrebbe detto solo di interessarsi ad un eventuale valore dei suoi giocatori sul mercato e nulla più, sono diverse le squadre che iniziano a mostrare interesse per il numero 9 di Phila. L’ex Arizona ha un contrato di 56 milioni di dollari che andrà in scadenza tra 4 anni. Le piste più accese sembrano comunque quella di Cleveland, specie dopo il vuoto lasciato in estate da LeBron, con una squadra ancora abbastanza carente anche nel ruolo di ala piccola, e potenzialmente quella di New York, con i Knicks che, pur considerando sempre Anthony la priorità assoluta, vedrebbero in Iguodala un’ipotetica valida soluzione alternativa da praticare nel continuo tentativo di Walsh di rinforzare il suo roster.
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TOP OF THE WEST 1000 DI QUESTI GIORNI Il 10 dicembre è una data da ricordare per George Karl: i suoi Denver Nuggets gli regalano la 1000esima vittoria in carriera. Per due volte il 59enne allenatore ha visto il traguardo sfuggirgli dalle mani, con due L consecutive che lo hanno tenuto bloccato a 999 W. Poi però, i Raptors si fanno da parte e consentono a Karl di raggiungere Larry Brown, Phil Jackson, Sloan, Riley, Wilkens e Don Nelson nella ristretta cerchia dei “millenari”. Un traguardo che in qualche modo colora un anno difficile in cui ha dovuto combattere (e sconfiggere) il cancro. 1000 di questi giorni!
DALLAS CON IL PILOTA AUTOMATICO I Dallas Mavericks sono senza dubbio un’altra bella sorpresa di questo inizio di stagione Nba. La franchigia texana sembra davvero aver inserito il pilota automatico, inanellando una serie rilevante di vittorie consecutive che le stanno permettendo di lottare per i vertici della classifica. Il club di coach Carlisle sembra davvero inarrestabile e l’equilibrio trovato tra Kidd, Nowitzki e Butler appare senza dubbio quello ideale per far togliere più di qualche soddisfazione a Cuban, specie perché coadiuvato a dovere dal buon operato delle seconde linee. E’ ancora presto ovviamente per dire dove potrà arrivare questa squadra, fatto sta che le vittorie contro Spurs, Heat e Jazz hanno dato parecchio morale ad un gruppo che vuole arrivare lontano.
GLI HORNETS IN MANO ALLA LEGA Dopo il dietrofront di Gary Chouest, attuale socio di minoranza del club, per rilevare la franchigia degli Hornets da George Shinn, proprietario e fondatore della società, da diverso tempo intenzionato a venderla, la lega Nba ha deciso di intervenire nel salvataggio della squadra, investendo circa 300 milioni di dollari, per garantire agli Hornets stabilità e fondi in attesa che si faccia avanti un nuovo proprietario. Le istituzioni dello stato della Lousiana e di New Orleans nel frattempo, stanno facendo già il possibile per ricercare qualcuno interessato all’acquisto, nonostante il rapporto tra la squadra e la città di appartenenza sia sempre stato abbastanza complesso, aspetto facilmente verificabile nel dato che vede maggior affluenza di pubblico sostenitore di Paul e compagni, nelle partite in trasferta, piuttosto che in quelle giocate in casa.
FINALMENTE BLAKE GRIFFIN
Dopo un anno di attesa, causa infortunio, i tifosi dei Clippers, ma anche tutti gli amanti di questo sport, possono finalmente gustarsi le imprese di Blake Griffin. Il prodotto di Oklahoma ha già iniziato ad impressionare tutti per la sua devastante potenza fisica, ma anche per il fatto di essersi fatto trovare pronto al mondo Nba dopo il suo sfortunatissimo primo anno. Come già fatto in Ncaa (secondo per doppie doppie in una stagione, 30, solo a David Robison, 31), sta gettando le basi per un’ottima carriera anche tra i professionisti, le qualità ci sono. Onnipresente a rimbalzo, così come nella top ten delle schiacciate settimanale, sta dando nuova linfa vitale a tutti i suoi sostenitori, sicurezza ai compagni di squadra, ottime prospettive future al suo stile di gioco in continua crescita (e per forza di cose migliorabile in molti aspetti), e filo da torcere a chiunque voglia puntare al titolo di Rookie dell’anno.
RODMAN TORNA IN RADIO A MODO SUO Dennis Rodman, ex stella dei Bulls, noto non solo per la sua grandezza nel pitturato, ma anche per tutte le situazioni piuttosto pittoresche fuori dal campo, torna a far parlare di sé. Lo scorso novembre, l’ex giocatore Nba, ha chiamato una trasmissione radiofonica di Miami, la Jorge Sedano Show, durante la quale si stava affrontando un discorso sulla crisi degli Heat, apparentemente per dire la sua sull’argomento. In pochi secondi però è diventato lui stesso il protagonista assoluto del programma, e non poteva essere diversamente, quando cioè, incalzato dal conduttore a spiegare cosa stesse facendo, sentiti i rumori di sottofondo della telefonata, ha fatto intendere al conduttore stesso e a tutti i radioascoltatori, che era impegnato in un rapporto sessuale, lasciando di fatto tutti a dir poco allibiti. LAKERSLAND magazine
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“BIG GAME” JAMES di PIERO TRIMARCHI
Infanzia & Primi Canestri
Ala piccola di 2.05 con doti atletiche fuori dal comune, letale in campo aperto, capace di elevare il livello nei playoff e di rendere al meglio sotto pressione. No, non e’ l’identikit di un obiettivo di mercato gialloviola, e’ il profilo di uno dei 50 giocatori piu’ forti della storia NBA, con il quale inauguriamo la rubrica che ci accompagnera’ in questa offseason: lui è “Big Game James” Worthy.
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James Ager Worthy e’ nato il 27 Febbraio 1961 a Gastonia, nel North Carolina. Inizio’ a praticare lo sport grazie al quale raggiungera’ fama e notorieta’ a 4 anni, nonostante lui stesso, durante la cerimonia di induzione nella Basketball Hall OF Fame, disse che ai tempi “odiava il basket”. I genitori credevano nella buona educazione e nel duro lavoro, ma i problemi economici resero difficile il mantenimento delle carriere universitarie dei figli. James decise cosi’ di impegnarsi nel raggiungere la borsa di studio per aiutare la famiglia “Era l’unico motivo per il quale volevo giocare a basket”. Nell’ultimo anno di liceo faceva ormai notizia nelle prime pagine locali. Alto ma terribilmente agile e veloce, offensivamente inarrestabile, vittoria dopo vittoria ormai parecchi atenei tenevano sott’occhio il talento della Ashbrook High School.
“quando la partita e’ importante, sai di poter contare su James Worthy”
COLLEGE E TITOLO NCAA James decise di rimanere vicino alla famiglia, accasandosi alla UNC - University of North Carolina. “Coach Dean Smith parlo’ ai miei genitori promettendo 2 cose: avrei seguito le lezioni e sarei andato in chiesa. Sapevo gia’ di aver fatto la scelta giusta.” Durante la prima stagione con la maglia dei Tar Heels si infortuno’ seriamente alla caviglia, saltando 14 partite. I medici dovettero impiantargli 2 viti per riparare il danno. James inizio’ a preoccuparsi di non poter riuscire a tornare a giocare ai livelli a cui era abituato. La sue paure vennero spazzate via nell’anno da sophomore: con 14.2 punti e 8.4 rimbalzi di media, guido’ North Carolina alle finali, dove perse pero’ contro Indiana. Nel 1982, nel suo anno da junior, UNC poteva annoverare tra le sue fila anche Sam Perkins ed un tale Michael Jeffrey Jordan. I Tar Heels conquistarono il titolo NCAA, e nella famosa finale contro Georgetown di Pat Ewing, quella del canestro vincente di MJ, Worthy chiuse con una steal nell’ultimo possesso e con 28 punti grazie ad un 13-17 dal campo. “Quando si giocava una partita importante i suoi occhi diventavano piu’ grandi”, racconta un ex-membro dello staff tecnico di North Carolina. James e’ ormai pronto a passare tra i pro; decide di lasciare UNC dopo il terzo anno e si dichiara eleggibile per il Draft NBA.
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Il Salto in NBA Nel Draft dell’82 i campioni in carica dei Lakers possono scegliere per primi, grazie alla trade di un paio di stagioni precedenti, nella quale Jerry West spedi’ a Cleveland Don Ford ed una futura prima scelta per Butch Lee ed una prima scelta dei Cavs. Ai tempi l’operazione sembro’ essenzialmente uno swap tra giocatori di secondo piano, ma col senno di poi fini’ col regalare ai gialloviola una pedina fondamentale per la nascita’ dello showtime: i Lakers non esitarono e scelsero James Worthy con il pick #1. I Lakers di Pat Riley, Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar avevano in ala piccola Jamaal Wilkes, e Worthy dovette aspettare in silenzio il suo turno. “Sapevamo fosse gia’ pronto per ritagliarsi uno spazio importante, ma la cosa che apprezzamo di piu’ fu il suo modo di inserirsi e di tenere la bocca chiusa senza lamentarsi in quei momenti” disse 32
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Magic. “Non si esaltava dopo I Lakers arrivarono in finale una vittoria, non si deprimeva ma dovettero cedere ai Sixers dopo una sconfitta. Era men- di Dr. J e Moses Malone. talmente preparato.” Nella sua stagione da rookie non ebbe difficolta’ ad esibire la sua versatilita’. Chiuse con 13.4 punti a partita ed il .579 dal campo (tuttora record poer un rookie gialloviola), fu inserito nell’All Rookie Team. Per Jerry West era impossibile accoppiarsi difensivamente “Mettevi un uomo piu’ piccolo e ti portava spalle a canestro. Provavi con uno piu’ alto e fisico, e ti batteva sul primo passo” Oltre alla sua classica Liberty Statue e al suo perfetto finger roll, era una delle migliori ale piccole spalle a canestro, con una spin move ed un turnaround jumphot che lo rendevano un enigma per le difese avversarie. La sua prima stagione in NBA si chiuse anticipatamente per via di una frattura alla tibia sinistra.
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La nascita di “Big Game James” Nella stagione 1983-84 James conquista piano piano il posto in quintetto, alzando la sua media punti a 14.5. E’ nei playoff che pero’ l’ex Tar Heel inizia a mostrare anche tra i pro di vivere per le partite importanti, incrementando l’apporto offensivo a quasi 18 ppg. I Lakers dominano i playoff ad Ovest arrivarono in finale, dove ad aspettarli ci sono i Celtics. Nel finale di gara2, un errore su rimessa di Worthy regala il pareggio a Boston, che vincera quella partita in overtime, e la serie in gara-7 dopo 2 supplementari. L’apporto del #42 cresce nella stagione successiva. Dopo un infortunio all’occhio occorso nel mese di marzo, Worthy inizia ad indossare un paio di occhiali, che lo accompagneranno fino al termine della sua carriera cestistica. I Lakers 84-85 sono una squadra in missione. In finale la rivincita con gli odiati verdi e’ servita. Gara-1 verra’ ricordata come il “Memorial Day Massacre”: i Celtics si portano sull’1-0 grazie ad una vittoria per 148114. “Prima di gara-2 Worthy ci ricordo’ che non stavamo giocando da Lakers” -Michael CooperC’era bisogno di un grande James Worthy, e lui non si fece pregare: chiudendo la serie contro Boston con 23.7 ppg. Giocando da veri Lakers, il titolo torno’ in California; “E’ l’anello al quale sono piu’ affezionato” dice James. 34
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“Quando il palcoscenico e’ piu’ grande, quando la partita e’ importante, sai di poter contare su James Worthy” -Pat RileyDal 1958 al 1969, i gialloviola hanno affrontato in finale i Celtics 7 volte, perdendole tutte. Vincendo il titolo nell’85 Worthy e soci diventarono eroi, nella citta’ degli angeli. Nel 1986 il ragazzo della Carolina del Nord fa ufficialmente ingresso nell’elite NBA, partecipando al suo primo All Star Game. Prendera’ parte alla partita delle stelle per 7 stagioni consecutive. La sfida infinita contro i verdi continua: i Celtics vincono il titolo, ma nell’87 l’anello torna a Los Angeles. Worthy e’ ormai una stella. Nella finale dell’88 contro i Bad Boys di Detroit, la serie arriva alla decisiva gara-7. Quale momento migliore per regalarsi la prima tripla doppia in carriera? 36 punti, 16 rimbalzi e 10 assist a fine match e secondo titolo NBA personale; Chick Hearn rende tributo all’MVP delle finali coniando per lui il soprannome “Big Game James”. I Pistons si presero la rivincita vincendo il titolo nel 1989; Worthy e compagni tornarono in finale nel 1991 contro i Chicago Bulls, ma l’era del’ex compagno di universita’ Michael Jordan stava per cominciare.
Dopo il ritiro di Magic nel novembre dell’81, Big Game James gioco’ per altre 3 stagioni ma fu rallentato da continui infortuni che privarono l’ex Tar Heel dell’esplosivita’ che lo aveva contraddistinto fin dai tempi del liceo. Worthy annuncio’ il ritiro nel novembre del 1994, dopo aver ammesso di avere “perso l’amore per il gioco”; il 54.4% dal campo in carriera in postseason sta a testimoniare, se ce ne fosse bisogno, di quanto fosse uomo da grandi partite.
RICONOSCIMENTI Nel 1995 la sua jersey #42 viene ritirata, e l’anno dopo l’NBA lo elegge tra i migliori 50 giocatori ad avere mai calcato il parquet nella lega americana di basket. Nel 2003 l’induzione alla Basketball Hall Of Fame. “E’ un onore, e non era neanche un mio obiettivo..Ho giocato a basket per evitare ai miei genitori di lavorare cosi’ duramente” Nel farlo, e’ diventato una leggenda.
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Full Name: James Ager Worthy Born: 2/27/61 in Gastonia, N.C. High School: Ashbrook (Gastonia, N.C.) College: North Carolina Drafted by: Los Angeles Lakers, 1982 (first overall) Height: 6-9; Weight: 225 lbs. Nickname: Big Game James Honors: Elected to Naismith Memorial Basketball Hall of Fame (2003); NBA champion (1985, ‘87, ‘88); NBA Finals MVP (1988); All-NBA Third Team (1990, ‘91); All-Rookie Team (1983); Seven-time NBA AllStar (1986-92); One of 50 Greatest Players in NBA History (1996). Los Angeles Lakers: Regular Season 12 Seasons 926 gp 32.4 min 5.1 rebs 3.0 asts 1.1 stls 0.6 blks 17.6 pts Los Angeles Lakers: Playoff 13 apparizioni Playoff 143 gp 5.2 rebs 3.2 ast 21.1 pts 7 ASG disputati 10,6 pts - 1,3 ast - 3,7 rebs in 20,3 minuti McDonald’s All American (1979) Campione NCAA (1982) NCAA AP All-America Second Team (1982) NCAA Final Four Most Outstanding Player (1982) 3 volte campione NBA (1985, 1987, 1988) NBA Finals MVP (1988) NBA All-Rookie First Team (1983) 2 volte All-NBA Third Team (1990, 1991) 7 volte NBA All-Star (1986, 1987, 1988, 1989, 1990, 1991, 1992)
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I SEGRETI DELLA PACKLINE DEFENSE Alla scoperta del sistema difensivo dei Boston Celtics di GIUSEPPE MAGNIFICO
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“L’attacco vende i biglietti, la difesa vince le partite” è un vecchio adagio che può essere applicato ugualmente a tutti gli sport di squadra. Tutte le squadre che vogliono puntare al titolo non possono fare affidamento esclusivo sul proprio attacco, ma devono basare le loro vittorie su un sistema difensivo che sia solido e affidabile. L’analisi di oggi verte sul sistema più noto degli ultimi anni, quella “pack line defense” che è stata portata alla ribalta da Tom Thibodeau ai Boston Celtics quando, nell’estate del 2007, l’attuale allenatore dei Chicago Bulls fu personalmente scelto da Doc Rivers per curare la difesa di una squadra costruita per vincere.
La pack line defense è basata su una serie di concetti validi contro ogni attacco, alcuni di immediata comprensione e validi per la maggior parte delle difese, altri invece peculiari di questo sistema e di nessun altro. Il primo concetto fondamentale è sintetizzabile in quello “stop the ball” che tante volte abbiamo sentito urlare da Rivers ai suoi giocatori durante i time out. La pressione sulla palla deve essere massima, al punto da costringere il palleggiatore a indietreggiare e ad avere una visione poco chiara dei movimenti dei compagni. L’uomo in difesa non deve concedere un lato particolare all’attacco (non deve mandare verso il fondo, o verso il centro, come fanno altre difese), deve semplicemente impedire al suo uomo di avere il tempo di ragionare a lungo sulle sue azioni. Immaginate la pressione che può mettere un giocatore dalle braccia lunghe come Rondo, o dai piedi molto rapidi come Nate Robinson. In ogni caso a tutti è richiesto ugualmente di pressare la palla, tanto ai piccoli quanto alle ali e persino ai lunghi. Pressare molto la palla ha però i suoi inconvenienti, il principale dei quali è una maggiore probabilità di essere battuti dal palleggio. E’ inevitabile: più vicini si sta all’attaccante, più lenti si è a girarsi e inseguirlo se questi ci batte sul primo passo; al contrario, se si sta più lontani si riesce meglio a seguirlo e impedirgli la penetrazione. Ma questi sono discorsi che sono validi solo per un’idea di difesa 1 contro 1. In campo si è sempre 5 contro 5, il che significa che essere battuti dal palleggio non è una sconfitta irreparabile. Prima di continuare, è necessario introdurre il concetto di pack line. La pack line è una linea immaginaria all’interno della quale devono stare i difensori lontani dalla palla, localizzata orientativamente un paio di metri all’interno della linea da 3. Anche gli uomini che marcano le guardie immediatamente vicine alla palla devono adeguarsi a questa posizione, rinunciando quindi all’idea (molto comune) di anticipare il passaggio e impedire la ricezione sul perimetro. Torniamo alla pressione sulla palla. Se la pressione è elevata, dicevamo, da un lato si riesce a togliere ritmo e possibilità di tiro o di passaggio all’attaccante, dall’altro è più facile essere battuti sul primo passo. Ciò che viene insegnato al difensore sulla palla è di avere fiducia nell’aiutodei compagni. Se la difesa è all’interno della pack line, qualsiasi penetrazione potrà essere intercettata, o quanto meno rallentata, dalla difesa. Nella seconda immagine è infatti chiaro come anche un penetratore eccezionale come LeBron, pur avendo battuto il suo uomo, si trova costretto a fermarsi e tornare indietro. La posizione chiave è quella di Ray Allen: non resta vicino al tiratore
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sul perimetro ma si porta all’interno della linea per chiudere a priori ogni idea di ingresso nel pitturato da parte di James. La peculiarità di questo sistema infatti sta nel fatto che i giocatori non devono “aiutare” sul penetratore, in quanto sono già in posizione di aiuto: questo consente loro di arrivare più in fretta, di prendere posizione più efficacemente e consentire un ostacolo fisico reale, e non potenziale, per la penetrazione. Questo però espone a un problema fondamentale: se non c’è pressione sul perimetro, se la difesa è così pronta a chiudere al centro, come fa a proteggersi contro il tiro da fuori? Da quanto abbiamo appena detto, sarebbe naturale evincere che questo sistema difensivo sia tra i migliori come punti concessi nel pitturato, ma tra i peggiori come % da 3 concessa agli avversari. Eppure, guardando le statistiche di questi anni, emerge un dato paradossale: i Celtics chiudono la prima stagione con Thibodeau come Defensive Coach al primo posto per % da 3 degli avversari (un magro 31%). Da allora sono sempre ai vertici di questa speciale classifica, pur con gli alti e bassi inevitabili per una squadra che tende a gestire le energie fisiche durante il corso di una stagione. Come si spiega questa tendenza? Si spiega con un’espressione gergale: “to explode out”, letteralmente “esplodere fuori”. Nella terza immagine, la difesa si adegua come di consueto sulla penetrazione di un altro grande protagonista di questo fondamentale, Derrick Rose. Ray Allen, dall’angolo, è ancora una volta all’interno della pack line. Il suo uomo però è Kyle Korver, uno dei tiratori più temibili dell’intera lega; lasciarlo solo è apparentemente una follia. Ma è questa forse la più grande forza di questa difesa, ciò che la rende davvero speciale: i cosiddetti closeout, le chiusure sul perimetro. I difensori sono istruiti a rispondere con la massima reattività allo scarico sul perimetro: nel fotogramma catturato, la palla sta per essere rilasciata dalle mani di Rose, ma guardate le gambe di Allen, sono già pronte ad “esplodere fuori”. Riuscire contemporaneamente a chiudere la linea di penetrazione ed essere così reattivi a chiudere sullo scarico è la chiave del successo di questo sistema; persino un tiratore come Korver non può segnare questo tiro apparentemente comodo. Il tempo che la palla arrivi in angolo e Allen è già pronto per uscire con le braccia alte e deviare il tiro, come evidente dall’immagine 4. Man mano che il difensore prende confidenza, può arrivare a porre trappole contro il penetratore: fingere di chiudere al centro solo per farlo rallentare, salvo poi uscire fuori, d’istinto, scommettendo sul momento in cui l’uomo con la palla, convinto di essere ormai chiuso, scarica la palla al
tiratore. L’attaccante perde punti di riferimento e va in confusione: gli sembra che qualsiasi scelta egli prenda, la difesa lo riesca ad anticipare e chiudere.
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Questi principi difensivi permettono a Boston di potersi adattare contro ogni tipo di attacco, modellandosi in base a ciò che si vuole ottenere. Nell’immagine 5 c’è un esempio tratto dalle scorse finali. Garnett marca Gasol “davanti” impedendogli di ricevere in post basso. Lo scopo di questa giocata non è solo impedire una ricezione comoda al catalano per impedirgli di attaccare uno contro uno, ma anche impedire il corretto funzionamento della TPO dei Lakers, rallentandone il ritmo. Il passaggio lob infatti è impossibile, se si tiene conto della pressione sulla palla (di Pierce, con le braccia alte) e della possibilità di Perkins sul lato debole di ruotare sotto canestro. D’altronde questo è valido contro i Lakers e il loro attacco; non lo è ad esempio contro l’attacco di Orlando, decisamente più prevedibile. In quel caso la ricezione statica di Howard in post basso è di gradimento alla difesa, in quanto Perkins riesce a difendere in single coverage costringendo Superman a percentuali molto basse dal campo quando parte spalle a canestro.
La pack line defense si adatta particolarmente bene anche contro il pick and roll. Nell’immagine 6 Noah ha portato un blocco per Rose e sta tagliando verso il pitturato. La difesa decide di raddoppiare la palla per togliere a Rose ogni opzione: l’aiuto di Shaq in questo senso è molto “ingombrante”. Shaq non ha paura di lasciare solo il proprio uomo, perchè ha fiducia nel sistema difensivo. Infatti gli altri tre Celtics, posizionati dentro la pack line, possono chiudere su Noah (Garnett si oppone al primo taglio, Allen e Pierce sono pronti in seconda battuta) e rendere inefficace l’azione offensiva avversaria. Quando infatti la palla viene passata a Boozer in lunetta la difesa ha già recuperato tutte le posizioni.
Si potrebbe andare avanti virtualmente all’infinito ad analizzare tutte le possibili letture della difesa in base a ciò che si vuole negare all’attacco. Fatto sta che il sistema difensivo che ha portato i Celtics al titolo del 2008 e alla finale del 2010 è tra i più solidi e versatili possibili: nessun attacco si può dire sicuro di poter battere una difesa così.
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A I T I V I it . R D C N IS A L S R E K A L
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