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TESTI Domenico Russo, Andrea Tinterri PROGETTO GRAFICO La Luna di Traverso Il catalogo è pubblicato in occasione della mostra “Inside/Rinascite” di Erjon Nazeraj (26 ottobre - 10 novembre 2013) Spazio Pasubio, Via Pasubio 3/F, Parma A cura di Domenico Russo e Andrea Tinterri Un evento promosso dall’Associazione Culturale aps Lunatici
Questo catalogo è stato realizzato grazie al sostegno e al contributo di Riccardo Righi, che ringraziamo di cuore. L’artista vuole inoltre ringraziare: La Luna di Traverso, Federica Pasqualetti, Domenico Russo, Andrea Tinterri, Giovanni Amoretti, Dimitri Bertolini, i musicisti Matteo Berghenti e Rodolfo Villani, Stefano Peschiera e Cristian Grossi per l’aiuto tecnico nella realizzazione del catalogo, la Galleria Centro Steccata di Parma e tutte le persone che hanno collaborato al progetto. Un ringraziamento speciale va alla sua famiglia per il sostegno e l’aiuto di sempre.
IN COPERTINA L’Alveare di Erjon Nazeraj - fotografia di Giovanni Amoretti, per gentile concessione INTERNO DI COPERTINA Particolare dell’installazione Viaggio all’interno del corpo dell’artista - fotografia di Valentina Scaletti
Tutte le fotografie © Valentina Scaletti Fotografie alle pagine 37, 40-41, 42-43 © Giovanni Amoretti
Erjon Nazeraj
INSIDE | RINASCITE Testi di Domenico Russo | Andrea Tinterri Con la collaborazione di Federica Pasqualetti
senza titolo tecnica mista su carta, 28x21,5 cm 2013
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RINASCERE OLTRE IL CONFINE di Domenico Russo
L
a storia moderna con i suoi sogni disastrosi ed ambiziosi, dovrebbe introdurci facilmente alla comprensione di un aspetto fondamentale: che la migrazione dentro o fuori i confini nazionali è esperienza principale del nostro tempo. Già nel XVI secolo la tratta degli schiavi aveva annunciato l’incredibile spostamento d’uomini di cui l’industrializzazione necessitava. Parlandoci di questa specie di viaggio, Erjon Nazeraj, ci fa capire come la rinascita sia un tipo di frontiera presente in varie forme nella vita di molti individui e che, necessariamente la si debba attraversare se si vuole vivere quanto più integri possibile. Essere oltre il confine non vuol dire semplicemente spostarsi per mare e ritrovarsi in un altrove: si tratta di un vero e proprio capovolgimento dello stesso significato del mondo; vivere e morire tra estranei può risultare a volte meno assurdo che vivere perseguitati dai propri concittadini.1 È anche vero che con la patria natia alle spalle, spinti al cambiamento radicale, si realizza una parte di se stessi altrimenti bloccata in una perenne immobilità. In Anima di Migrante Erjon Nazeraj si ritrae espandendo il color oro sul corpo, proprio lì dove l’immaginazione può collocare figurativamente l’anima. E il cuore rossissimo e un po’ ortaggio, gonfia di sogni l’intrepido migrante che, ora leggero, ora piccola mongolfiera, vuol volare via. L’oro antico conduce la mente alle icone bizantine, ma di sacro c’è solamente il coraggio di chi si lancia con un volo soffice verso un buio fatto di tante speranze e pochi bagagli. Si può affermare con sicurezza che Erjon Nazeraj è un artista in collisione con l’eccesso di ricchezze e la sovrabbondanza di sistemi di comunicazione. In quanto a ciò, sottende al proprio creare una forma complessa contro la semplificazione delle immagini che quotidianamente bombardano le nostre menti. L’apparente aumento di possibilità ci priva di un centro. Questo era 7
la casa dell’infanzia, che nella terra sconosciuta è relegata ad una forma di malinconico ricordo, mentre la nuova dimora diventa un luogo diverso, complesso, non solo un’abitazione ma un posto in cui le vecchie abitudini cercano una romantica concretezza accanto alla nuova vita. Queste abitudini si fondono in un insieme di pratiche quotidiane che offrono al migrante un tipo di permanenza contro l’unificazione industriale, economica e culturale. L’artista avverte con fastidio che la sua identità è messa in pericolo dal “McMondo” e reagisce per salvaguardarla. Così i suoi lavori trascendono i limiti del presente e ci informano sui pericoli. La casa, spesso raffigurata con le gambe di una donna, non è altro che la madre dell’artista, anzi meglio ancora una casamamma, sinergia d’elementi diversi che nella sostanza del pensiero diventano prima un unico simbolo, poi un vero sigillo di memoria. Un terzo elemento, primario nella fusione concettuale, è il materiale di per sé significante e mai una tela, su cui si dipana l’immagine: una carta geografica, la scatola di un medicinale, una borsa di carta… sono suppellettili di cui ci si circonda per adattarsi al nuovo habitat. Tutte le opere della serie Immigrant si presentano positivamente sconosciute alla contemplazione di un pubblico stanziale con tutti i segni della propria emigrazione. La valigia di Immigrant è un take away artistico emblematico che continuamente ripropone se stessa tramite il materiale che la ospita. Un opera pronta per l’espatrio che in un elegante e, forse, inconsapevole rimando al Muro Occidentale di Fabio Mauri, ci dice che le diaspore non sono mai finite. La borsa di carta di Immigrant contiene, invece, i disegni di una barchetta, di una costa e un volto in finto stiacciato ripetuto cinque volte. Il tutto su pagine di vocabolario francese-italiano (la prima lingua parlata da Nazeraj dopo l’albanese). Il viso nella sequenza non è mai identico, come differenti sono le fasi di costruzione ludica della barchetta di carta corrispondenti ai volti. Il gioco dell’infanzia di tutti, fatto anch’esso con le pagine dello stesso vocabolario su cui ci sono i disegni, riproduce i vari stadi del sogno del migrante. In questo sogno la nave dell’addio nasce, si sviluppa, prende forma lentamente e diventa desiderio limpido di chi deve andare. Nell’installazione Immigrant, calchi di una forma per scarpa destra, sottolineano che le migrazioni plasmano dall’interno la modernità, così come le forme 8
NEL MIO CORPO tecnica mista su carta, 25x17,5 cm 2012
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da calzolaio modellano le scarpe. La mancanza del calco sinistro accentua il senso di duplicità in cui si vive quando si emigra, perché l’elemento è comunque percepibile come esistente nella terra d’origine. In altri spazi la stessa installazione (come altre opere di Nazeraj) ha vissuto sviluppandosi in forme diverse: delle porte erano lì ferme a dividere le orme dei migranti per suggerire come potesse essere lacerante, dopo averne oltrepassato la soglia, avvertire una chiusura definitiva alle proprie spalle. All’interno della mostra Inside/Rinascite, permangono i calchi, ma la struttura d’accesso che li divideva è ormai svanita. Si sancisce la perdita dei confini nazionali per lasciar spazio ad un apparente trionfo della multiculturalità. Fattore, questo, relativo e, ad alcuni livelli sociali, illusorio, che la globalizzazione suscita. Tenendo in considerazione l’installazione Immigrant e ben osservando il percorso di Nazeraj, percepiamo anche circostanze che a primo acchito sfuggono. Come, ad esempio, il fatto che egli assorba, di volta in volta e di mostra in mostra, l’ambiente in cui espone e liberi quasi totalmente le opere dal vincolo del creatore. In questo modo, esse, prendono vita, respirano l’aria del luogo in cui si trovano, in questo caso lo spazio post-industriale del Pasubio (Parma) ed insieme all’artista si impregnano della storia dell’ambiente che le circonda, divenendo espressioni pure di libertà. Questo modo di creare, sinuoso e sfacciato, fuoriesce da chi sa quanto la libertà sia dura ad ottenere. Per affrontare il viaggio verso questa conquista, l’uomo che va deve controllare un corredo di sensazioni e dolori, perché come dice Milosz si tratta di «una prova di libertà e questa libertà fa paura. L’esilio distrugge: ma se si resiste alla distruzione si uscirà dalla prova più forti.» Oltre le immagini che invadono la nostra vita, si pongono opere come il Salmone, il Cervello ed il Cuore. Il cuore, con tutte le sue sfaccettature simboliche, organiche, meccaniche ritorna sempre nel lavoro di Nazeraj. Uno di questi (Cuore), pregno di sangue, si ingrandisce sulla cartina di Bologna. Davanti agli occhi ci appare un territorio pulsante, un sistema cardiovascolare e urbano le cui lunghe vie ricongiunte all’organo vitale creano un apparato complesso come quello meccanico del corpo umano. L’artista omaggia la sua prima città italiana ricalcandone l’affetto con elementi ready made presenti agli angoli, come il libretto di lavoro con la prima occupazione dell’artista da poco migrato in Italia e la marca da bollo pagata per oltrepassare 10
il confine. Amplificando la sua capacità di proporre una visione del mondo che va ben oltre il suo fare, Nazeraj ci presenta in questa mostra la maggior parte dei suoi disegni in un’unica installazione che si espande, lungo una parete, come fosse il corpo stesso dell’artista (Viaggio all’interno del corpo dell’artista). Un territorio percorso da un sistema stradale e biologico non privo di vicoli ciechi, vene e sangue, che apre ai nostri occhi uno spazio corporale/ ambientale e sentimentale talmente vasto da avvertirlo simile ad un orizzonte. È lo spazio del riscatto, che testimonia la presenza di un progetto dolce, in grado di creare un linguaggio organizzativo delicato, non autoritario e allo stesso tempo categorico.
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John Berger, E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, Bruno Mondadori, pag. 80
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nature morte ricamo e acquarello su scatole di medicinali, 13x16,5 cm
2013
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RACCONTARE UNA METAMORFOSI di Andrea Tinterri
C
ome affrontare il percorso espositivo della mostra Inside/Rinascite di Erjon Nazeraj? In che modo raccontarlo? Che cosa sono in realtà le opere esposte? Di cosa fanno parte? Immaginate uno di quei manichini anatomici con gli organi che si possono staccare, con la pelle in plastica che si può sollevare per vedere cosa c’è sotto. Pensate che questo manichino sia intero, dalla punta dei piedi all’ultimo capello sulla testa e immaginate di poterlo sezionare, ma non come gli animali sotto formalina di Damien Hirst che restano chiusi nello loro teche: senza nessuna protezione, un corpo libero, un corpo tagliato in due che ancora respira e si trasforma. Ora cercate di immaginare questo corpo disponibile, generosamente concesso allo sguardo altrui, immaginatelo di una dimensione innaturale: un manichino anatomico di un gigante, quasi fosse una fiaba surreale, una porta d’accesso alla disposizione dei vari organi, all’apparato digerente, al fegato, al cuore, al cervello che sembra nascondersi e camuffarsi quasi a dimostrare la propria intelligenza. Un manichino gigante costruito a propria immagine e somiglianza e deliberatamente dimenticato in un luogo disabitato dall’uomo, in uno spazio in cui la natura possa catturarlo, confrontandosi con le sue forme, con i suoi spazi vuoti, con le sue ramificazioni e trasformarlo. Una metamorfosi che ha dato vita ad un corpo, il corpo di Erjon Nazeraj, una struttura calpestabile, all’interno della quale entrare, guardare, capire il posizionamento dei vari organi, e 13
restarci il tempo necessario e sufficiente a comprenderne la storia. Ecco perché il curatore non può toccare e non può intervenire, ecco perché l’unica cosa che ci è concessa è quella di entrare all’interno del luogo espositivo, di entrare all’interno del corpo dell’artista come fosse qualcosa che si può frequentare, all’interno del quale sostare: un manichino anatomico con un nome ed una data di nascita, lasciato aperto ma ancora respirante, in fase di lenta modificazione. Erjon Nazeraj è scultore (laureato all’Accademia di Belle Arti di Bologna), e non perché le sue opere si limitino alla sola scultura, ma perché il suo lavoro è sforzo fisico, è partecipazione emotiva, è autobiografia che non si limita al semplice nozionismo autoreferenziale ma che racconta la Storia contemporanea. Nel 2001 dall’Albania si trasferisce in Italia: solo pochi anni prima erano iniziati gli sbarchi che destabilizzarono l’umore di un Paese assolutamente impreparato ad accogliere un flusso così consistente. E questo spostamento diventa esperienza storica, che si trasforma in scrittura (scultura/disegno/performance), un modo per segnalare e narrare la propria posizione geografica in un tempo ben delimitato. La mostra Inside/Rinascite non è un semplice susseguirsi di opere ma è un’opera unica, è unità, è un corpo: è il modo in cui le diverse scritture sono state digerite dall’artista stesso. La dimostrazione più evidente di questa tesi è un’installazione che occupa un’intera parete della sala espositiva (12 metri di lunghezza): un insieme di disegni/collage costruito con un consistente numero di progetti realizzati in precedenza. In questo caso Nazeraj crea un nuovo disegno, accostando, mischiando, confondendo opere già esistenti; ricodificando tutto, rimasticando quello che era già fatto e risputandolo in una forma inedita. L’installazione idealmente inizia con un autoritratto, un urlo muto perché all’interno della bocca, sotto uno strato di carta, affiorano delle lettere in metallo, una parola censurata: una reminiscenza del Partito Comunista albanese? La speranza di una democrazia occidentale infranta? La situazione contemporanea dell’arte che chiede denaro in cambio d’ascolto? Da quell’interrogativo sospeso inizia il disegno del corpo: matite/sculture/collage: come definire altrimenti le scatole di farmaci, usate dallo stesso autore, che diventano fogli su cui colorare, su cui autoritrarsi o ritrarre parti del proprio 14
spine di rose matita e spine di rosa su carta per diagrammi
2013
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corpo? Oppure, ancora, piccole scatole nere su cui vengono cuciti a mano dei fiori, piccole scatole che sembrano diventare breviari, una preghiera laica verso la natura, da custodire delicatamente. Perché il tema dell’emigrazione, della lontananza dalla propria casa (anche da quella fisica in muratura), la distanza dalla madre e dal padre, non è espressa solamente in maniera diretta - vedremo dopo in che modo - ma si trasforma in una riflessione sul rapporto, quasi archetipico, tra l’Uomo e la Natura. Perché il punto di partenza. probabilmente, non è il corpo dell’artista, la sua distanza con la madre patria, le cicatrici che conserva gelosamente, ma è quanto ci possiamo allontanare dalla natura stessa, quanto possiamo diventare presenze autonome all’interno del Mondo. Nazeraj sembra ricordarci che l’equilibrio tra Uomo e Natura non è qualcosa che dobbiamo ricercare o preservare ma è qualcosa che ci viene imposto, qualcosa con cui dobbiamo fare i conti. Nel momento in cui l’artista racconta la propria migrazione, la propria malattia, la propria guarigione è consapevole che l’autonomia dei gesti, delle azioni, degli accadimenti è molto limitata. Non esiste Dio, ma esiste la Natura che l’artista omaggia (vedi le piccole scatole su cui disegna e cuce vegetali) e, contemporaneamente, rende visibile. Nessuna operazione fisica/intellettuale, nessuno spostamento, nessun cambiamento di Patria è espressione autonoma: nell’ultimo collage che chiude l’installazione un disegno di due piedi viene perforato fisicamente da alcune spine di rose. Non è la reminiscenza di alcun martirio cristiano, ma semplicemente la conferma di una compenetrazione fisica, di un’unità, di un panteismo rivisitato. Ma all’interno del corpo dell’installazione prendono forma anche esperienze vissute come, appunto, quell’emigrazione che diventa storia e quindi carte geografiche su cui l’artista interviene ricodificandone il percorso. Il primo soggiorno stabile di Nazeraj in Italia, dopo una breve permanenza a Milano, fu Bologna, la città dell’Accademia: ecco che la mappa della città diventa un foglio di carta su cui disegnare un cuore umano e incollare il primo libretto di lavoro e una marca da bollo (tassa di confine), a dimostrare il cambiamento non solo personale, ma della città stessa. Una sovrapposizione di piani, quello del reticolato stradale, l’inchiostro del disegno e quei pezzi di carta che sanciscono la legalità del soggiorno, la possibilità di cambiare la città ed abitarla. Ma in un angolo compaiono tre dettagli imprevisti, destabilizzanti, 16
nature morte acquarello, matita e ricamo su cartoncino, 13x8 cm
2013
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che sembrano rimescolare le carte: delle tracce d’oro, dei sottilissimi fogli che delineano un frutto e un’altra mappa immaginaria. Perché? Perché dopo aver insistito sull’idea di cittadinanza fondata su un libretto di lavoro, dopo aver appiccicato una marca da bollo, dopo aver disegnato un cuore scuro, un organo che pesantemente si poggia sulla mappa, intervenire lasciando spazio ad un metallo prezioso, all’oro e al suo colore che sembrano differenziarsi dal cromatismo della carta? Erjon Nazeraj sembra volutamente confondere l’osservatore; è forse la traccia del desiderio di trovare una terra salvifica, la traccia di un cambiamento lasciato in basso, in un angolo ad aspettare l’evoluzione degli eventi? In realtà, credo, sia semplicemente un Problema, ossia un dettaglio che destabilizza la lettura della carta, il punctum su cui concentrarsi ma che non risolve nulla, anzi blocca l’osservatore e lo costringe a soffermarsi maggiormente sulla lettura: un tempo necessario all’esplorazione di un corpo altrui. Credo che anche in quest’opera Nazeraj riveli il suo essere scultore, non per le semplici sovrapposizioni di materia, ma perché, dichiarando la propria appartenenza ad un territorio (la città di Bologna), la propria volontaria permanenza all’interno di uno spazio ben definito, il corpo stesso diventa scultura. È come se ammettesse di aver modificato un luogo con la sua stessa presenza, una scultura mobile, come lo siamo tutti: corpi modificabili che intercettano altre apparizioni, altre manifestazioni urbane. Non è casuale che alcuni disegni, parte integrante dell’installazione, ricordino alcune opere di Louise Bourgeois: un corpo di donna che si trasforma in una casa, un’abitazione materna. In entrambi i casi viene manifestata l’intenzione di creare qualcosa che inizi il suo percorso dall’utero materno, dal liquido amniotico. Ma l’intera installazione credo possa avere dei punti di contatto anche con alcuni lavori di Luca Samaras. Mi riferisco in particolare al progetto Photo Trasformation, realizzato negli anni Settanta, in cui, modificando le Polaroid attraverso cui si autoritraeva, trasformava il proprio corpo: un corpo digerito dalla Storia e risputato fuori lesionato dagli eventi. In questo caso a salvare l’uomo Nazeraj è la Natura stessa. Prima parlavo dell’esposizione come di un manichino anatomico abbandonato in un luogo distante dall’uomo, uno spazio in cui la vegetazione potesse penetrarlo: una 18
respiro penna su carta geografica, 55x43 cm
2013
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natura benigna e necessaria. Samaras restituiva un corpo con i segni del proprio tempo e quindi della Storia, operazione simile a quella di Nazeraj, ma in questo caso interviene una mediazione ulteriore, quella Natura che non può essere esclusa da nessun gesto, da nessuna decisione, da nessuna azione. Quindi l’intero percorso espositivo, l’intero corpo dell’artista poggia su quel delicato equilibrio tra autobiografia che diventa storia collettiva (emigrazione) e la necessità di dichiarare la propria appartenenza alla Natura, una fede nata nel momento stesso dell’abbandono della propria terra, della propria lingua e della propria scrittura. È come se l’artista cercasse nella natura quell’equilibrio perduto, un nuovo utero, una nuova abitazione, quella prima abitazione che è l’unica possibile, l’unica che si ricordi realmente. Questo è confermato da una delle sculture disseminate all’interno dello spazio espositivo: Utero natura. Un fagiolo in piombo che al posto dei semi custodisce piccoli feti, uno scherzo della natura: di chi sono quei figli? Da chi saranno cresciuti? Una metamorfosi in atto, una migrazione che non è solo spostamento fisico da un luogo ad un altro ma creazione di una nuova scrittura, o meglio di una nuova creatura. Lo spettatore assiste ad una inedita negoziazione tra il corpo dell’artista e un mondo vegetale che restituisce organi alterati: un cuore da cui nascono ramificazioni (Rivoluzione), oppure dai cui fuoriescono lunghi aculei d’istrice, un cervello che diventa una culla dentro cui depositare un nido, un altro cervello ancora, ma questa volta sezionato in due parti in modo da evidenziare la sorprendente somiglianza con un ortaggio. Ma è solo all’interno dello spazio del corpo, nello spazio espositivo che succede il miracolo, che la metamorfosi inizia a funzionare, che un cuore diventa un ramo ed altri rami formano un nido sospeso su un cervello in porcellana bianca. A ricordare l’illusorietà della rappresentazione è una scultura in travertino (Orso Polare): un orso polare capovolto, con le zampe all’aria e la testa che poggia a terra. Il simbolo di un rifiuto, di un equilibrio che non è mai esistito. La contaminazione proposta da Nazeraj di un corpo che ambisce a trasformarsi in vegetale, di cuori che non sono solo macchine, ma cortecce su cui possono crescere muffe, funghi, licheni, è puro esercizio cerebrale. Tutto è 20
possibile ma solo all’interno di un manichino anatomico, di un’opera d’arte, dello spazio del sogno. Ed è per questo che il luogo espositivo preserva una sorpresa, un luogo che va cercato ed in cui sostare come fosse una plancia di controllo, facendo attenzione ad ogni meccanismo. Infatti, percorrendo l’intera sala si arriva ad uno spazio raccolto, uno spazio chiuso occupato da un solo altorilievo. Quello che potremmo considerare l’unico cervello del corpo: L’Alveare, con tante piccole celle contenenti dei feti umani, un’altra contaminazione, un altro scherzo della natura. In questo caso, però, non è solo il progetto di un possibile innesto, ma è un omaggio ad una persona di cui si vorrebbe aver cura, che si vorrebbe proteggere. Una persona distante, la cui lontananza è colmabile dal solo pensiero, dalla sola creazione di un dono irripetibile, un gesto mentale, di generosa intelligenza. Anche in questo caso l’opera si divide su due piani distinti ma complementari: da una parte la lontananza da un affetto, dalla propria casa (emigrazione) e dall’altra la dimostrazione di un’unità naturale, di un equilibrio imposto anche se forse inaccettabile. E fuori? Fuori dal corpo? Fuori dalla sala? Dov’è l’illusione e dove finisce? Fuori gli alberi sono alberi, il fegato si gonfia, i polmoni si possono ammalare e lo scultore lavora in fabbrica, ma perché uscire? Perché non continuare ad illudersi e rimanere dentro, protetti dalla realtà ricostruita? Ritorniamo a quei pochi dettagli in oro sulla cartina di Bologna, a quel Problema irrisolto e lasciato in sospeso. Probabilmente era semplicemente il segnale di uno spazio diverso, un luogo sulla mappa isolato dal resto, un luogo in cui rifugiarsi, all’interno del quale descrivere un proprio percorso, una propria carta geografica, qualcosa di immaginario ma reale perché percorribile anche solo con un dito. Ed il corpo dell’artista è questo, il corpo di Erjon Nazeraj è un utero gravido, è un viaggio cerebrale, è quel dettaglio in oro che confonde l’osservatore e lo costringe a fermarsi per qualche secondo in più, qualche secondo in più di salvezza.
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DISEGNI
anima di migrante tecnica mista su borsa di carta, 123x67 cm
2010
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(2) rivoluzione titolo acquerello su borsa di carta, 65x34 cm materiale e dimensione anno 2012
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IMMIGRANT tecnica mista su borsa di carta, 77x57 cm
2010
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IMMIGRANT tecnica mista su borsa di carta, 44x54 cm 2010
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IMMIGRANT tecnica mista su borsa di carta, 78x51 cm
2010
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IMMIGRANT tecnica mista su borsa di carta, 78x51 cm 2010
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MIA MADRE tecnica mista su borsa di carta, 62x42 cm
2011
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VIE RESPIRATORIE tecnica mista su sacchetto dell’aspirapolvere, 21x17,5 cm (fig. 1) e 22x8 cm (fig. 2) 2013
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salmone tecnica mista su carta geografica, 114x100 cm
2009
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cuore tecnica mista su carta geografica, 136x100 cm 2010
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viaggio all’interno del corpo dell’artista installazione, 1200x1200 cm
2013
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SCULTURE
Allotropia ceramica (cervello/nido, cervello/broccolo), 14x12x12 cm ceramica grès (cuore), 14x8,5x5 cm ceramica e aculei di istrice (cuore/istrice pag. 37), 50x50x50 cm
anno 2013
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(6) zemer Terracotta (14x10 cm) anno 2012
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rivoluzione ceramica, 100x50x17 cm
2013
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(1)
utero natura SENZA NOME 105x30x15 cm Sculturapiombo, in piombo (1mx60cm) anno 2013
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(5) L’alveare resina (120x130x50 cm) anno 2011
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l’alveare resina, 113x108x21 cm 2011
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orso polare travertino, 120x65x60 cm
2007
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immigrant Installazione ceramica grès, 1m2 anno 2011 47
I VENTI DELLO IONIO o la genesi di uno scultore Prendo la terra da cui nacqui. Coprendomi di lei mi faccio statua. L’odore rosso di quella creta urla sulla mia pelle. Urla forte rosso, urla forte per me. L’involucro di luce creato si rompe, lentamente. Così inizia la genesi. Crepitando leggeri spasmi.
F. P. 48
BIOGRAFIA Erjon Nazeraj nasce a Fier, Albania nel 1982. Nel 2001 si diploma in scultura al Liceo Artistico Jakov Xoxa di Fier. Nel 2007 si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2008 interviene con l’installazione Upstream sulla facciata di un palazzo di BolognaNel 2011 partecipa alla collettiva Drawings Wall presso la galleria d’arte Paolo Maria Deanesi a Rovereto, alla collettiva di scultura Eat me 2° edizione presso la Galleria San Ludovico di Parma, alla doppia personale Flirt presso la sede dell’Associazione Culturale Made in Art a Parma. Nel 2012, con l’Associazione Culturale Made in Art, espone un’installazion all’evento Arte Accessibile Milano, partecipa con una performance alla seconda edizione di Lat Love Approach Together a Parma con l’Associazione Culturale Lunatici. Facebook.com/erjon.nazeraj
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Questo catalogo sarà disponibile e scaricabile gratuitamente a partire da novembre 2013 anche in formato pdf sul sito www.lalunaditraverso.com Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 Pressup - Roma - Italy ŠAssociazione Culturale Aps Lunatici www.lalunaditraverso.com 50