Nr.32 MATTATOIO N°2012

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MATTATOIO N째 2012



MATTATOIO N째2012

LABORATORIO DI NARRAZIONI E ARTI VISIVE


DIRETTORE Massimo Carta VICEDIRETTORE Federica Pasqualetti ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Associazione Culturale A.p.s Lunatici REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Carlotta Fiore, Roberta Gatti, Armando Minuz Silvia Pelizzari, Andrea Rabaglia, Concetto Scuto, Andrea Tinterri RELAZIONI ESTERNE e UFFICIO STAMPA Andrea Rabaglia PROGETTO GRAFICO Simone Pellicelli REALIZZAZIONE GRAFICA Simone Pellicelli con la collaborazione di Kreativehouse STAMPA Pressup - Roma EDITORE Monte Università Parma Editore PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI info@lunatici.net - redazione@lalunaditraverso.it www.lalunaditraverso.com llustrazione d’autore in seconda di copertina: Cristian Grossi, Mattatoio, 2012, mixed media china su carta (biografia a pagina 24)

La Luna di Traverso è sostenuta e realizzata con il contributo dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma

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EDIT di Andrea Tinterri INCIPIT D’AUTORE Watchmen di Alan Moore RACCONTO D’AUTORE My lunar suicide di William Pauley III RACCONTI La caccia di Fabio Emidi La macchina da scrivere di Francesco Liberti La prima domenica di Antonio Chisari Nella metà di luce di Giorgia Bandini & Yann Patrick Martins Scatti di Marcello Freddi Scimmie nella fabbrica dei sogni di Michael Guarneri

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INTERVISTE Francesco Zanot. Critico, curatore, docente Silvia Pareschi, traduttrice

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RECENSIONI

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FIGHT CLUB

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IL NUOVO BANDO

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FUMETTI Tavole di Corrado Civello

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RUBRICHE I cavalieri erranti della letteratura di Federica Pasqualetti

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EDIT Andrea Tinterri

Cos’è, dite? È dove si macellano le bestie, dove noi non le vediamo, dove la carne si ricompone, si riveste e diventa appetibile. È un processo di trasformazione e di ricodifica di un messaggio, occultato alla vista: Tutto bene? Non c’è male, grazie. Mattatoio: per alcune parole la lingua è poco indulgente e questo è uno di quei casi. Non sappiamo se a causa dell’indelebile memoria del luogo o per il suo essere in qualche modo onomatopeica, ma questa parola non nasconde niente: si lascia attraversare dalla forza del braccio o della macchina che batte con ritmo cadenzato, fino alla fine, monotona. Perché è caratteristica delle scritture – immagini o parole – intervenire in quegli spazi intermedi, desertici ma dove succede di tutto, nei quali non si può entrare per controllare che ogni

cosa proceda come dovrebbe ma dove solamente agli addetti ai lavori è consentito metterci le mani, mescolare e continuare a farlo. E cosa succede dentro i grandi magazzini, dentro i “mattatoi”, dentro le mille cose che cambiano la merce all’entrata, che cambiano A in B e C in Z? Che cosa succede dentro un campo di prigionia nella seconda guerra mondiale e cosa succede in una piccola cittadina americana degli anni ’60 e cosa succede in una metropoli italiana nel 2012? Cosa significa bruciare dodici miliardi di euro in un giorno? Cosa succede dalle otto del mattino alle sei di sera a quei dodici miliardi? Cosa succede a chi li ha persi e non sa dove andare? Trasformazioni, ecco cosa succede: si entra nel mattatoio con il pelo ritto sulla pelle e si esce a pezzi, pesati a cm2.

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Yann Patrick Martins, Riot, 2012, fotografia

Yann Patrick Martins è della classe 88. Di natali svizzeri, fa il fotografo a Firenze.


Le crisi, forse, ci sono sempre state, economiche e non: si trascinano via pezzi di vita, d’arte, di storie finite male. Allo stesso modo e nello stesso tempo, quasi correlati, i processi di trasformazione sono sempre esistiti, come i mattatoi, come quegli strani luoghi che fanno diventare un nano da giardino in un principe azzurro con occhi chiari e muscoli tirati. Nulla di nuovo, dunque? Momenti destabilizzanti sempre uguali a se stessi? No, sarebbe banale e fuorviante. Così abbiamo voluto contestualizzare il nostro tempo, abbiamo voluto renderne visibile la data d’appartenenza e la capacità dei numeri di fermare uno spazio di tempo, isolarlo e proteggerlo: portiamo in casa un numero alla volta. 2, 0, 1, 2. Li abbiamo messi qua dentro, tutti insieme, al riparo; li abbiamo appoggiati a terra e ci siamo entrati, cercando le possibili porte d’accesso e i pochi angoli non sorvegliati. Come se fosse un mattatoio, come se fosse uno di quei luoghi in cui si trasformano le cose, come se fosse uno di quei posti dove si bruciano i miliardi. Per attraversare il nostro futuro, abbiamo riletto il tempo e il formato della nostra rivista (un quadrato dove but-

tare l’indispensabile), ridefinito il nostro simbolo (un punto e virgola che ci permette di prenderci una pausa), abbiamo cercato di precisare (precisare è un verbo che delimita e quindi alza la qualità dell’offerta) la nostra idea di linguaggio/linguaggi. Perché la scrittura può fare anche questo: entrare dove tutto viene tramutato o dove tutto viene taciuto; dove tutto viene abbellito, col sangue, con l’inchiostro, col pigmento. E la scrittura può riflettere: è lampo improvviso, sedimentazione ma anche lunga gestazione e proprio per questo può diventare pericolosa, scandalizzare, spaventare, essere necessariamente e volontariamente violenta. Perché nell’attimo prima in cui si aspetta in silenzio di formulare una risposta, capisci che la carne che hai nel piatto puzza ancora d’animale appena ammazzato e che alla domanda – tutto bene? – puoi anche replicare che tutto bene no, non va; che prima sei andato in cucina di nascosto e hai visto che l’animale l’hanno raccolto da terra, che quello che hanno messo nel piatto ti fa schifo e che il servizio è pessimo perché il cameriere, con tutta la sua buona volontà, non riesce a nascondere la sua odiosa faccia da strozzino bastardo.

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Ascanio Kurkumelis, L’uomo albero, 2012

Ascanio Kurkumelis di origini greche, è nato a Parma nel 1985. Finito il liceo, si iscrive al corso di laurea in Beni Artistici all’Università di Parma dove, nel 2009, si laurea con una tesi sul periodo informale del fotografo Nino Migliori, ormai un caro amico da cui assorbire preziosi consigli. Nel 2008 tiene la sua prima personale in una galleria nell’isola di Cefalonia, Valente Voltera, sotto il castello veneziano di S. Giorgio, esponendo disegni e fotografie. Nel 2009 inaugura a Parma una personale nella galleria “Atelier Trentaquattro”. Nel 2010 uno dei suoi lavori viene scelto, premiato ed esposto in occasione della Biennale d’Arte di Roncaglia a S. Felice. Iscritto al corso di laurea magistrale in Storia, critica e organizzazione delle arti e dello spettacolo, vive e studia a Parma.


INCIPIT D’AUTORE

Alan Moore, Watchmen, Cap. 1: A mezzanotte, tutti gli agenti…, 1986, 2012, DC Comics

Diario di Rorschach, 13 ottobre 1985. Dormito tutto il giorno. Sveglia alle 4 e 37. La padrona di casa si lamenta dell’odore. Ha cinque figli di cinque padri diversi. Sicuramente truffa l’assistenza sociale. Presto sarà buio. Sotto di me, questa città terribile urla come un mattatoio pieno di bambini ritardati. New York. Venerdì notte, a New York, è morto un comico. Qualcuno sa perché. Laggiù... qualcuno sa. Il crepuscolo puzza di fornicazione e coscienze sporche. Mi sa che farò un po’ di allenamento. Diario di Rorschach, 13 ottobre 1985. 11:30 P.M. Venerdì notte a New York è morto un comico. Qualcuno l’ha scaraventato da una finestra e quando si è schiantato sul marciapiede, la testa gli è finita nello stomaco. Non importa a nessuno. Importa solo a me. Hanno ragione loro? È tutto inutile? Presto ci sarà la guerra, in milioni moriranno tra le fiamme, moriranno di malattie e miseria. Perchè una sola morte è importante, rispetto a quella di tanti? Perché al mondo ci sono il bene e il male e il male va punito. Anche davanti all’apocalisse non transigo. Ma il castigo lo meritano in tanti... e c’è così poco tempo.

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La Bizarro Fiction è satira, surrealismo, nonsense, grottesco. Senza tabù e senza pudore. Qualche volta sanguinaria, qualche volta scioccante, qualche volta avant-garde, qualche volta rivoluzionaria. Ma sempre fuori di testa. La rivista di riferimento di questo nuovo genere letterario, Bizarro Central, ce lo spiega: Franz Kafka che incontra John Waters, un Dr. Seuss post-apocalittico, Miike Takashi che chiacchiera con William S. Burroughs, un cartone animato giapponese diretto da David Lynch. Bizarro è cult. Piace a Chuck Palahniuk, a Christopher Moore, a William Gibson, a Jonathan Lethem e tanti altri. Ed è la prima volta che viene tradotta in italiano. bizarrocentral.com

William Pauley III è bizzarro. È l’autore della trilogia “Doom Magnetic!”, di “Goddamn Electric Nights” e “The Brothers Crunk” che la rivista “Fangoria” ha definito: «Un perfetto esempio di bizarro fiction... ogni riga è disseminata da fantasiose e selvagge idee.» Passa gran parte della sua vita a cercare le chiavi della sua macchina.

William Pauley III is weird. He is the author of the “Doom Magnetic!” trilogy, “Goddamn Electric Nights”, and “The Brothers Crunk” - which “FANGORIA” magazine called: «A perfect example of bizarro fiction... every line is littered with wild and imaginative ideas.» He spends most of his life looking for his car keys.

Virginia Mori nasce a Cattolica nel 1981. Vive e lavora a Pesaro. Si perfeziona in Illustrazione e Animazione all’Istituto Statale d’Arte di Urbino, esperienza formativa che contribuisce a costruire e consolidare il suo immaginario artistico e che le permette di muovere i primi passi nella realizzazione di corti di animazione tradizionale e nell’illustrazione. Partecipa a diversi eventi artistici in Italia e nel 2009 vince il premio “SRG SSR idee suisse” ad Annecy Call for project (Francia), che le permette di realizzare il corto di animazione “Il gioco del silenzio”, premiato e selezionato in diversi festival internazionali e il premio “Abbaye de Fontevraud” che le permette di lavorare al suo prossimo film nella residenza dell’omonimo centro culturale francese nell’ottobre 2011. Contemporaneamente realizza videoclip musicali ,sigle e illustrazioni. virginiamori.tumblr.com

Virginia Mori was born in Cattolica in 1981. She lives and works in Pesaro. She graduates in Illustration and Animation at the National Art Institute of Urbino, improving her artistic imaginery and starting the realization of traditional animation shortcuts. She takes part to various artistical events in Italy and wins the “SRG SSR idee suisse” prize at Annecy Call for Project, managing to realize the award-winning animation short-cut called “The Game of Silence”, and the “Abbaye de Fontevraud” prize at Annecy Project Competition, which allows her to work on her next movie in the homonymous cultural centre in October 2011. At the same time realizes music videos, jingles and illustrations. virginiamori.tumblr.com


RACCONTO D’AUTORE My Lunar Suicide

William Pauley III - Bizarro Central traduzione di Carlotta Fiore

Seduto sotto la luna gigante, in una notte troppo fredda per appartenere ad agosto, lascio che le mie orecchie affoghino nell’elettricità statica che ho intorno. Le mie cuffie sono sia cuffie che via d’uscita, una via d’uscita da me stesso, anche se solo per pochi minuti. Il rumore si riversa dagli altoparlanti schiumosi e fluisce fulminante nelle profonde pieghe del mio cervello, bruciando i ricordi dall’interno. Non riesco a pensare. Questa è una buona cosa. Quando dico “rumore” voglio dire solo rumore, non musica. Ascolto il suono di lampadine bruciate, formiche in marcia e animali che masticano. La musica non può condurre al silenzio. Non importa

I drown my ears in static, sitting underneath the giant moon on a night that is too cold to belong to August. My headphones serve as both earmuffs and a way out, a way out of myself, even if only for minutes at a time. Noise pours out of the foamy speakers and burrows deep into the folds of my brain, electrocuting, burning memories from the inside out. I cannot think. This is a good thing. When I say noise, I mean just that – noise – no music. I listen to sounds of light bulbs breaking, ants marching, and animals chewing. Music cannot bring silence. No matter how mellow, it cannot bring calm. Only noise. Only noise gets me there.

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quanto sia dolce, non può condurre alla pace. Solo il rumore. Solo il rumore può farlo. Il cellulare vibra nella mia tasca. La persona all’altro capo della linea sta cercando di rovinarmi questo momento, cerca di trascinarmi fuori dal mio blues del terrore in questa fredda notte. Faccio finta che sia giusto così, che sia tutto parte di questa esperienza, l’esperienza di soffocare il mio cervello, di ammazzarmi sotto la bocca aperta in una notte amara di luna piena, facendomi un’overdose in un mare di vibrazioni con l’intero universo come testimone. Ma non sta funzionando. Finora ho solo la nausea. Controllo il telefono. La mia amica Kayla mi ha mandato un messaggio. Dice: «DOVE 6?» Droni elettrici cavalcano i miei timpani mentre leggo il suo messaggio e penso tra me e me come si potrebbe mai rispondere a questa domanda con esattezza. È una buona domanda, non fraintendetemi, ma comunque assolutamente inutile. Io sono qui, è qui che sono. Questo è tutto quello che so. Come si fa a sapere più di così? «Mi sono perso e non capisco perchè esisto, o anche come io possa esistere, e la luna è appesa proprio sopra la mia

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I feel a vibration in my pocket. It’s my cell phone. The person on the other end of the line is trying to kill this moment for me, trying to bring me out of my cold night terror blues. I pretend it’s supposed to happen, that it is all a part of this experience, the experience of suffocating my brain, killing myself under the bitter night’s open mouth of spilling moonlight, overdosing on a field of vibrations with the entire universe as witness. But it’s not working. So far I only feel nauseous. I check my phone. My friend Kayla sent me a text message. It reads, “WHERE R U?” Electric drones straddle my eardrum as I read this and I think to myself how anyone could possibly ever answer that question accurately. It’s a good question, don’t get me wrong, but nonetheless it is absolutely pointless. I am here, that’s where I am. That’s all I know. How could anyone know any more than that? “I am lost and I don’t understand my existence, or even how I exist, and the moon is hanging directly above my head,” I respond. I look up at the sky. It looks like the cold glass wall of an illuminated television


testa», rispondo. Alzo gli occhi al cielo. Sembra il vetro freddo di uno schermo televisivo acceso. Tutto a un tratto anche i miei occhi annegano nell’elettricità statica. Non c’è alcun sollievo, non c’è un rapido e acuto dolore, né una morsa che recide i nervi: solo questo, questo annegamento senza fine. L’elettricità mi riempie la testa, la gonfia, ma non è abbastanza. Non la frantumerà. Ho bisogno di più per fuggire: io sono ancora qui, dentro questo corpo. Ho fatto di tutto tranne inginocchiarmi e pregare di essere portato via, per il mio respiro, di essere rubato dal vuoto, di essere completamente inghiottito dall’infinità del cielo notturno. Sto giocando con il fuoco e sto volontariamente inalando il fumo. Il mio telefono vibra ancora. Kayla dice: «È DIVERTENTE CHE TU ABBIA NOMINATO LA LUNA. È SU TUTTI I NOTIZIARI, STANOTTE.» Cerco di ignorarla, di continuare il mio suicidio lunare, ma penso che quel messaggio sia troppo strano per non rispondere. Tamburello con le dita sulla gamba e penso di gettare il mio telefono nel mare oscuro di erba alta che mi circonda, ma solo per un secondo. Non lo faccio. «Che cosa vuoi dire?», chiedo. Mi seppellisco le mani in tasca, non

screen. The stars look like white noise to me. All in an instant I find that now my eyes are now drowning in static as well as my ears. There is no relief, there is no quick sharp pain or pinch to sever the nerve, only this, this endless drowning. Static fills my head, swells it, but not enough. It won’t break. I need more than this to escape. I am still here, inside this body. I’ve done everything but get down on my knees and beg to be taken away, for my breath to be stolen by the vacuum, to be completely swallowed up by the ever-expanding static of the night sky. I’m playing with fire and purposefully inhaling the smoke. My phone vibrates again. Kayla says, “FUNNY YOU MENTION THE MOON, IT’S ALL OVER THE NEWS TONIGHT.” I try my best to ignore her, to continue with my lunar suicide, but I find the message too strange not to reply. I drum my fingers across my leg and think about tossing my phone out into the dark ocean of tall grass that surrounds me, but only for a second. I refrain. “What do you mean?” I ask. I bury my hands in my pockets, frustrated at the entire universe, myself

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Illustrazione d’autore - Virgina Mori, Problemi di mira, penna su carta


sopporto più l’universo, me compreso. Sento la pressione all’interno cranio, una pressione che può essere curata solo dalla morte. Tutti quelli che conosco mi hanno deluso, anche il mio corpo mi ha tradito. Ho scelto di passare oltre, di vivere la vita nella mia prossima forma, una forma che non debba sopportare tutta questa... pressione, ma non posso farlo da solo. Credetemi, ci ho provato, ma troppe volte ho dimostrato a me stesso di essere un codardo. Sono troppo debole, un completo fallimento. Per tutto il tempo, ogni singola notte, avrei guardato la luna e l’uomo della luna avrebbe sorriso in modo insolito guardando verso di me, con le zampe di gallina ad agganciargli le palpebre. Sarei rimasto seduto in una pozza del mio stesso sangue, di vomito e merda, e la luna sarebbe stata lì a ridere di me e della mia patetica, inutile esistenza. Ora guardo la luna con più rabbia che speranza. Il rumore si gonfia dentro il mio cranio, ma non è abbastanza. Niente è mai abbastanza. Il freddo si conficca nella pelle del mio viso come un migliaio di piccoli aghi. Forse sono intorpidito, ma ancora non è abbastanza. La luna è gigante, luminosa, incombente. Continuo a provocarla, a fissarla con

included. There is a pressure in my skull, a pressure that can only be cured by death. Everyone I know has let me down, even my own body has failed me. I choose to pass on, to live life in my next form, a form without this… pressure, but I can’t do it alone. Believe me, I’ve tried, but time and time again I’ve proved myself to be a coward. I’m too weak, a complete failure. All this time, every single night, failure after failure, I would look up at the moon and the man inside would grin his unusual grin and stare down at me with crows feet clipped to his eyelids. Sitting in a pool of my own blood, vomit, shit, and the moon would just smile, laugh at my pathetic, useless existence. I look up at the moon with more anger now than hope. The noise swells inside my skull, but not enough. Nothing is ever enough. The cold sticks to the skin of my face like a thousand tiny needles. I may be going numb, but again, not enough. The giant moon is full and bright and looming. I continue to taunt it, to stare back at it with eyes that are not only without fear, but completely filled with anger. I cannot see the man inside tonight. I wonder if I ever will again.

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occhi che non sono solo senza paura, ma saturi di rabbia. Non riesco a vedere l’uomo della luna stasera. Mi chiedo se ci riuscirò mai più. Dannata luna, me lo devi. Almeno questo! Dopotutto, è lei la causa principale della mia pressione cranica. Mi ha causato dolore in tutti i miei ventotto anni e tutto quello che ho fatto, per tutto questo tempo, è stato cercare di ignorarla, o – ancor più – di sfuggirle, ma non stanotte. Stanotte finalmente le chiedo di mettere fine alle mie sofferenze. Fallisco, naturalmente. Come tutto il resto in questo maledetto universo, non mi riesce. Le lacrime ora si stanno raccogliendo nell’angolo dei miei occhi. Non sono più in grado di gestire questa pressione. Vorrei poter cadere in ginocchio, spingere un fucile carico fino in fondo alle mie narici e tirare il grilletto, spedire un freddo proiettile di sollievo attraverso il dolore. Un biglietto di sola andata fuori da me stesso, per sempre. Ma io non posso e non voglio. Sono così imperfetto. Il mio cellulare vibra di nuovo. Mi asciugo le lacrime dagli occhi e leggo il messaggio: «Neil Armstrong è morto». Decido di non rispondere, questa volta. Metto il telefono in tasca e mi sdraio sull’erba, continuando a guardare la

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That goddamn moon owes me this – at the very least! After all, it is the primary cause of my cranial pressure. It has given me pain for all my twenty-eight years, and all I’ve done in that time was try to ignore it, or more than that – ran away from it, but not tonight. Tonight I am asking for it to finally put me out of my misery. And it’s failed me, of course. Like everything else in this goddamn universe fails me. Tears are now forming at the corner of my eyes. I can’t handle any more of this pressure. I wish I could fall to my knees, press a loaded blue gun to the end of my nostrils, and pull the trigger back, sending a cold bullet of relief straight through pain. A one way ticket out of myself forever. But I can’t and won’t. So many flaws. My phone vibrates again. I wipe the tears from my eyes and check the screen. It reads, “NEIL ARMSTRONG IS DEAD.” I decide not to respond this time. I put the phone in my pocket and lay down in the grass, continuing to gaze at the moon, but not with anger anymore. I’ve calmed myself down. If it took 43 years for it to finally get to Neil, then I guess I have around 15 more years of this at


luna, ma non più con rabbia. Sono calmo. Se a Neil sono serviti 43 anni per poterci finalmente riuscire, allora ho ancora più o meno 15 anni, immagino. Non è la risposta che stavo cercando, ma è comunque una risposta. Non è una grazia: è una condanna, ma per questo non provo rabbia. A volte sono così perso nei miei guai che dimentico i problemi degli altri. Ci sono altre persone che soffrono, non solo io. Ho bisogno di imparare a essere più paziente, più attento. La luna ha un duro compito. Sono sicuro che ne uccide a decine ogni notte e, non posso giurarlo, ma sarei pronto a scommettere che tutti loro soffrono molto più di me. Devo esserci andato vicino, per vedere l’uomo della luna mentre dall’alto guardava giù verso di me, devo essere stato a portata di mano. Ma lui non è qui stanotte e stanotte è tutto ciò che conta. Mi tolgo le cuffie. Posso aspettare. Tiro fuori il mio telefono e rispondo a Kayla. «Mi chiedo se Neil abbia avuto la possibilità di guardare Apollo negli occhi, stasera, prima di andarsene.» Passano pochi secondi e Kayla risponde. «Dovresti venire qui.» Un po’ della pressione svanisce. Mi alzo in piedi e mi allontano dalla luna.

least. It’s not the answer I was looking for, but it’s an answer nonetheless. It’s not an immediate reprieve of the pressure, it’s a prison sentence. But I’m not angry over it. Sometimes I get so caught up in my own troubles that I forget about the troubles of others. There are other people suffering, not just me. I need to learn to be more patient, more considerate. The moon has a big job. I’m sure it kills dozens on any given night, and I can’t guarantee, but I’d be willing to bet that they all suffered much longer than me. I must have been close, to see the man inside as he stared down at me from above, I must have been within reach in those moments. But he is not here tonight, and tonight is all that matters. I take off my headphones. I can wait. I pull out my phone and write back to Kayla. “I wonder if Neil got the chance to look Apollo in the eye tonight before he went?” After a few seconds pass, Kayla responds. “YOU SHOULD COME OVER.” Some of the pressure fades. I stand up and walk away from the moon.

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01 LA CACCIA

«Perché sei venuto?» gli è stato domandato. «Non sono venuto, sono sempre stato qui» «Perché non te ne vai?». «Non posso separarmi da te».

Fabio Emidi

Come tutti sanno, accadde una domenica, poco prima dell’ora di pranzo. I cacciatori, già mezzi sbronzi, lo avvolsero in fogli di giornale e lo portarono sul piazzale del centro commerciale. La notizia si sparse rapidamente nel quartiere, e dai cassonetti dell’immondizia vennero riesumati scatoloni, pezzi di polistirolo, stracci, tutto ciò che poteva servire ad allestire una specie di enorme pila funeraria, sulla quale poi venne deposto “l’essere”, questo fu il solo appellativo che gli si riuscì a dare, ormai privo di vita, così che tutti potessero vederlo e convincersi che la minaccia era finita. Fornire una descrizione, sia pure sommaria, dell’essere non è facile perché a ognuno appariva in modo leggermente diverso. Si potrebbe dire che non aveva gambe e che le braccia erano corte e sottili, la testa e il tronco sembravano un unico blocco, simile al cono di un megafono, ma di sicuro qualcuno avrebbe detto che non era proprio così. Un fatto interessante è che almeno su un punto tutti erano d’accordo: l’essere era veramente orribile, spettrale, nessuno riusciva a mantenere lo sguardo su di lui per più di pochi secondi. Appena arrivati, ci si gettava verso le prime file, senza tanti complimenti si calpestavano quelli caduti in terra, ci si sgomitava; ma poi, una volta giunti a pochi metri dall’essere, ci si ritraeva inorriditi.

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Illustrazione d’autore - Cristian Grossi, Monstrum Horribilis, 2012, mixed media china su carta


I soli che non sembravano turbati dalla visione dell’essere erano i bambini, i quali addirittura tiravano il braccio ai genitori per arrivare più vicini, al punto che molti dovettero essere presi di peso mentre già si stavano arrampicando sopra la pila di cartoni, rischiando di far crollare tutta la struttura. Cosa avessero in mente non si poteva dire, forse volevano toccare l’essere per vedere se il suo corpo era duro o molle, forse volevano coprirlo, forse per loro era come uno dei tanti pupazzi che si usavano un tempo per giocare, e allora gli avrebbero dato uno di quei nomi buffi come Lucky o Podzo, lo avrebbero preso in braccio e portato con loro a scorrazzare dentro ai carrelli della spesa giù per le rampe del centro commerciale. La verità forse era che ai bambini dispiaceva che l’essere fosse stato ucciso, sebbene nessuno di loro avrebbe saputo spiegarne il motivo. Qualcuno fra gli adulti se ne rese conto e se ne risentì. Quell’essere, che si era preso gioco delle famiglie , spostandosi come un ladro nel cuore della notte, eludendo porte e serrature, strisciando sui tetti, infilandosi nelle colonne di scarico e nei condotti di areazione fino a trovare un varco per entrare nelle camere da letto, aveva avuto ciò che si meritava, nessuno doveva compatirlo, tanto meno i bambini. Non che l’essere avesse mai fatto del male a nessuno, questo bisogna ammetterlo, eppure il turbamento che aveva seminato nel quartiere gli era stato fatale. A nessuno del resto piace ritrovarsi dentro casa qualcuno che ti guarda da una fessura nel muro, come un pesciolino d’argento; ti sembra di sentirlo ridere e ti convinci che sta ridendo di te e dei tuoi sforzi, sebbene non sei nemmeno del tutto sicuro che quel verso leggero, come di vento sulle persiane, sia una risata. «Perché sei venuto?» gli è stato domandato. «Non sono venuto, sono sempre stato qui» ha risposto. «Perché non te ne vai?». «Non posso separarmi da te». Allora rinunci all’idea di catturarlo, dopo aver spento la luce nella camera dei bambini vai a letto, ma non è facile prendere sonno sapendo che c’è lui in casa , magari adesso è proprio dietro lo specchio, quello è uno dei suoi nascondigli preferiti, oppure sotto al letto, il che spiegherebbe anche le monetine che al mattino sono sparse sul pavimento, deve averle trovate nelle tasche dei cappotti oppure fra i cuscini del divano, o in fondo a cassetti che non vengono aperti spesso. Perché gli piace andare a rovistare negli angoli bui della

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casa, fra la polvere e la muffa, prendere vecchi oggetti dimenticati e lasciarli in bella vista. Quello che nessuno si era chiesto era come mai un essere così elusivo, così agile, fosse infine caduto nella trappola (anche grossolana, diciamolo) che gli avevano teso i cacciatori. Per trovare la risposta occorreva che un bambino, sfuggito dai genitori, riuscisse infine a scalare la pila e a sollevare l’essere in aria. Allora un silenzio improvviso calò sulla folla, l’aria stessa sembrò vibrare, perché fu subito chiaro a tutti che quello non era l’essere ma solo la sua pelle, una pelle vuota e flaccida, simile alla muta di un serpente, e che lui doveva essere sgusciato via e diventato qualcos’altro. Difficile dire che cosa era diventato non sapendo nemmeno cosa era prima, eppure nel tornare ammutoliti alle proprie case, dopo essersela presa anche coi cacciatori, gli abitanti del quartiere non potevano far a meno di pensare che ora sarebbe stato anche peggio, che ora, c’era da scommetterci, si sarebbe vendicato.

Fabio Emidi si è laureato in Lettere con una tesi su “Malattie e malati nella Letteratura Italiana Contemporanea”. Vive e risiede a Roma. Cristian Grossi è designer per pubblicità e moda. La ricerca estetica dei suoi progetti risente fortemente della sua formazione scientifica e della sua passione per il Liberty e Deco fondendo rimandi agli affreschi di Galileo Chini, al minimalismo e al modernismo, ai ricordi e all’immaginario della sua infanzia. Il risultato è un tratto essenziale e incerto, sempre in equilibrio tra kitsch ed eleganza formale. I suoi lavori più recenti sono stati esposti al London College of Fashion. www.crixtian.it

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02 LA MACCHINA DA SCRIVERE

La faccia dello scrittore First gli rideva ancora in faccia. Lui lo sapeva. Avrebbe voluto pugnalarla quella faccia… chi sa il perché queste persone di successo con la puzza sotto il naso non lo lasciavano mai tranquillo.

Francesco Liberti

La città era avvolta da un caos di rumori: gli insegnanti della scuola Rogerback facevano entrare nervosamente gli studenti; i cartelloni pubblicitari del circo equestre Konemberg privilegiavano il grande sforzo dell’artista del circo al consenso dei bambini. Hack infilava dentro ai fogli tutto questo, con la sua macchina da scrivere. La sua mente pulsava: forze che lo facevano sentire grande davanti alle cose, ma che lo rendevano anche immensamente piccolo; il passato dietro l’angolo, il presente a fermarlo qui. Tutta la vita gli scorreva davanti: non le grandi occasioni che aveva perso o gli eventi più traumatici che lo insidiavano dall’esterno; alludeva a quella vita fatta di momenti semplici che consistevano, ad esempio, nell’uscire con una ragazza, nel fare quello che tutti gli altri facevano e che anche lui poteva fare. Due cose lo ossessionavano: c’era una cassiera che gli piaceva molto giù, al bar sotto casa sua, quello vicino alla scuola. Hack sognava di invitarla a uscire. Sognava di prendere quello che la vita gli metteva davanti agli occhi, quell’attimo di bellezza del giorno che sconfinava nel silenzio invisibile della notte.

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Poi l’altra: scriveva racconti ed aspettava notizie da un famoso scrittore, H. W. First. Desiderava. Desiderava uscire con la signorina del bar e fargli leggere un suo racconto, pubblicato sulla rivista “Parole” di H. W. First, una periodico per scrittori esordienti. Ma lo scrittore H. W. First gli rideva in faccia. Lui lo sapeva. Anche se non era una cosa reale, che non gli aveva riso in faccia per davvero, tutto questo pulsava nella sua mente: una scintilla nel cervello che lo metteva in contrasto col suo mondo interiore. Scendeva giù dal palazzo e, mentre gli insegnanti entravano a scuola, lui controllava dai fori della buca delle lettere se fosse arrivato qualcosa di nuovo. «C’erano notizie di First? E del racconto che gli avevo mandato?» «Non ancora! Accidenti…» Hack uscì e fece due passi e la signorina del bar, quel giorno, gli fece l’occhiolino. Ma si era fatta sera. E la notte subentrava come un abisso e con esso tutto il suo popolo. Vedeva folletti ovunque. Folletti che si mettevano sulla sua macchina da scrivere e che scrivevano: «Hack ce l’ha fatta! Hack ce l’ha fatta!» I folletti erano magici, i folletti erano Hack: tutto il suo mondo interiore. La sua macchina da scrivere, così, scriveva da sola. I tasti si muovevano velocemente, come i pianoforti fantasma nei vecchi saloon dei film western. Gli arrivarono notizie del suo racconto: «Finalmente! Una cosa era fatta!» Gliel’avrebbero pubblicato. Ma per lui non era tutto qui. Non bastava. La faccia dello scrittore First gli rideva ancora in faccia. Lui lo sapeva. Avrebbe voluto pugnalarla quella faccia… chi sa il perché queste persone di successo con la puzza sotto il naso non lo lasciavano mai tranquillo. Gli cavavano via la sicurezza. Gli portavano via la voce.

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Giovanni Curi, Indifferenza, 2012, ĂŠcoline


Passarono due giorni. Entrò nel bar dove dei tipi lo guardavano strano. Guardavano il “pivello”, guardavano. Lui lo sapeva. Hack però vide quella ragazza, quella che gli piaceva. Cominciò a parlarle. Nell’aria il rumore dei bicchieri che vibravano ad ogni urto, sostenevano i suoi pensieri. «Come ti chiami?» le chiese Hack. «Priscilla. Mi chiamo Priscilla. Ma tutti mi chiamano Scilla». Hack cominciò a parlarle. Guardò il suo orologio, ma le lancette si erano fermate. Tutto quello che c’era nel locale pareva essersi fermato tranne i seni prorompenti e gli occhi scintillanti della ragazza del bar. Hack aveva la macchina appena fuori dal locale. I tizi del bar continuarono a guardarlo in modo strano. «Cos’ho di strano?», si domandava Hack. La sua macchina era una vecchia Rover rossa. «Vuoi uscire a fare un giro in macchina?», le chiese. Priscilla annuì e poco dopo entrò dentro l’auto. Hack si lasciò il rumore dei bicchieri alle spalle, accese la macchina e accelerò. Si lasciò anche la città dietro di sé. S’era fatto tardi ed era di nuovo notte. Ma la notte gli sorrideva. Hack guardava Priscilla e guardava anche First che gli aveva pubblicato il suo racconto Terre Irlandesi nella rivista “Parole”. «Che fai?» gli chiese Priscilla. S’era lasciato i tipi del bar alle spalle. Ma non la faccia di H. W. First che gli rideva dietro. Lui lo sentiva. Priscilla notò per terra sul tappeto consumato della Rover una copia della rivista. «Mi hanno pubblicato un racconto sai?», disse Hack a Priscilla. «Bello! E di che parla?», gli disse Priscilla.

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«Di usanze e tradizioni dell’Irlanda!». La Rover sfrecciava via per la strada come un fulmine, mentre Hack pensava che un’altra cosa era fatta. Era riuscito ad uscire con la ragazza del bar. Ma H. W. First gli rideva in faccia, anche ora che gli avevano pubblicato il racconto. Lui lo sentiva. «Che fai?», gli chiese Priscilla. «Fa davvero caldo! Apro il finestrino. È rotto e ci vuole forza per aprirlo…». Ma Hack mosse la mano, non quella con cui guidava, l’altra. Colpì First in faccia, non una ma sette volte, proprio mentre Priscilla cercava di leggere il suo racconto. Hack s’era lasciato alle spalle i tizi del bar, il rumore dei bicchieri, la faccia odiosa dello scrittore. Hack continuò ad agitare con violenza la mano finché H. W. First smise di ridere. Priscilla ora poteva leggere il suo racconto.

Francesco Liberti si occupa di giornalismo, scrive articoli di musicologia, sociologia e politologia, recensioni letterarie per l’editore Loffredo. Ha scritto “Alchimie napoletane” e pubblicato sul sito www. libriescrittori.com, un romanzo autobiografico dalle forti tinte surrealiste che ripropone con un fedele atto di cronaca la realtà borghese di una famiglia napoletana, con le sue luci, con le sue ombre. Nel 2007 vince il premio letterario “Antologia... si racconta” con il racconto intitolato “La leggenda del Lago delle Fate di Mausen”. Nel 2010 scrive il romanzo “Fofò”, sulle disavventure e l’opera culturale di uno psichiatra napoletano di fama internazionale. Giovanni Curi vive a Pescara. Si è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti (Corso di Pittura) dell’Aquila con una tesi dal titolo “Il Fumetto come mezzo di espressione dalle origini alla Pop Art”. Subito dopo il diploma, ha frequentato un Corso di Grafica Pubblicitaria presso l’Università Europea del Design di Pescara, città in cui ha frequentato anche un Corso triennale presso la Scuola del Fumetto. Ha partecipato a numerosi concorsi: “Omaggio a Tex”, Oscar Comix, 2003, Chieti; “Una fiaba per crescere”, 2003, Associazione CaraSan, Sesto Calende (VA) (I classificato); “La bicicletta d’oro”, 2007, a cura del Centro Antartide; “Il soffio divino negli animali”, 2007, Arca 2000 Onlus; “Il mio mare”, 2007, IV Edizione, Casa Editrice Mandragora e Associazione Cultura e Risorse Onlus; “Il viaggio”, 2007, Edizioni Farnedi; “Marco Pantani”, 2008, Edizioni Farnedi (II classificato); “Il fuoco”, 2009, Proloco Gallarate (VA).

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03 LA PRIMA DOMENICA

Sta iniziando a piovere. Manuel ha detto che la prima domenica di Dicembre, di solito, non piove mai.

Antonio Chisari

«Che significa che non sta andando da nessuna parte?» «Significa che non sto andando da nessuna parte. Esattamente questo.» «Ma avrà almeno una vaga idea di dove ha intenzione di scendere…» «No, gliel’ho già detto. Sono sicuro che quando sarà il momento di scendere lo saprò. E glielo dirò, naturalmente.» «Ma non le interessa sapere dove vado io, almeno?» «No, non è importante.» «Ovviamente se io arriverò a destinazione e lei non avrà ancora deciso, dovrà comunque scendere dalla mia auto.» «Certo, di questo non si preoccupi. Non ho intenzione di dormire sulla sua auto.» Né di rubartela, idiota. «Lo spero bene!» «Sì, stia tranquillo.» «Ma non le interessa proprio sapere dove sto andando?» Ancora? «No, non sono particolarmente curioso.» «Beh, non dico la città, ma almeno quello che sto andando a fare… Potrei essere

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un trafficante d’armi, o magari trasporto droga nel bagagliaio…» Sì, e io sono Babbo Natale. Dai, su… «Scherzo!» Ci ero proprio cascato, infatti! Me la stavo quasi facendo sotto. «Beh se è per questo neanche lei sa chi sono io… Potrei benissimo essere un criminale… Non guarda i film? Ha mai visto The Hitcher?» «No, non l’ho visto. Lei però non ha la faccia da criminale. Lei è un tipo a posto. Si vede. E glielo dice uno che di passaggi a sconosciuti ne ha dati a tanti, e non si è mai sbagliato. Infatti sono ancora vivo. Forse non in grande forma, con qualche acciacco di troppo, ma vivo e vegeto.» «Su, me lo dica.» «Che cosa?» «Dove sta andando.» «Beh se proprio lo vuole sapere…» Beh, sei tu che non vedi l’ora di dirmelo… Perché negarti questo piccolo momento di felicità? «Sì, racconti. Sono tutto orecchie.» «Ok. Però diamoci del tu. Mi rendo conto che ho trent’anni più di lei, probabilmente… Però se…» «Sì, certo. Il tu va benissimo.» Ora parla per favore. Di’ quello che devi dire e basta. «Vado a trovare i miei figli.» Tutto qui? Neanche un’amante, un trapianto di reni, un’eredità da riscuotere? «Ah, i tuoi figli… Perché, vivono tutti insieme?» Magari in un’unica casa enorme? «No, non vivono insieme! Ci riuniamo per stare insieme e ricordare gli anni trascorsi, è una specie di rituale, lo facciamo ormai da quindici anni, da quando è morta mia moglie. È un’occasione speciale, solo noi quattro. Io e loro tre. Nessun altro. Per le festività ognuno sta con le proprie famiglie, sono tutti sposati, io non mi muovo spesso dal paesino in cui abito. Un po’ per pigrizia, e un po’ perché

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Giuseppe MondĂŹ, Lago ambrato, 2010, scatto con Iphone 3GS


mi sento un pesce fuor d’acqua quando passo il Natale con i miei suoceri e tutti i loro parenti. Preferisco passare il Natale a casa mia, da solo, in compagnia di un bicchiere di whisky più vecchio di me. E un libro di mia moglie. Non mi serve altro. Lavoriamo tutti in città diverse, uno dei miei figli deve prendere persino due aerei per raggiungerci. Ci riuniamo sempre la prima domenica di Dicembre. È stata mia moglie a chiedercelo, poco prima di morire. Diceva sempre che la prima domenica di Dicembre è il più bel giorno dell’anno. In effetti ho solo dei bei ricordi di prime domeniche di Dicembre passate al parco, tutti insieme, a fare pic-nic, giocare, ridere. Non ricordo nessuna domenica con la pioggia. «E dove vi riunite?» «Ci ritroviamo sempre nella nostra vecchia casa, non l’abbiamo venduta dopo la morte di mia moglie. Io però non me la sentivo più di viverci, da solo. Così mi sono fatto trasferire da un’altra parte, un paesino piccolo, di montagna. Tra poco andrò in pensione, e mi sono abituato alla tranquillità della montagna. La nostra casa però non la venderemo, almeno per il momento. Ci sono tutti i nostri ricordi, e non vogliamo che diventi la casa di qualcun altro. Non siamo ancora pronti per questo.» «Lo posso capire.» «Non ti ho ancora chiesto come ti chiami…» «Adam.» «Io, Manuel. Molto piacere.» «Manuel, credo che sia il momento.» «Cosa?» «Ho avuto un segnale. Quello che mi suggerisce di scendere. Qui, ora.» «Ma ho detto o fatto qualcosa che non va?» «Assolutamente no.» «Peccato. Va bene, fra meno di trenta minuti arriveremo in città, ti farò scendere lì.» «No, devo scendere adesso.» «Ma siamo nel bel mezzo del nulla!» «Sì, lo so.»

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«Sai che c’è? Magari avresti potuto conoscere i miei figli… Di solito siamo solo noi quattro, ma per stavolta avremmo potuto fare un’eccezione.» «No, non è il caso, grazie.» «Ok, va bene, non voglio insistere.» «Scendo qui, puoi fermarti in quel punto.» «Come preferisci.» «Addio, Manuel. E grazie.» «Addio, Adam.» Manuel. Un uomo come tanti. Chissà cosa sarebbe successo se avessi accettato l’invito e fossi andato con lui nella vecchia casa dei ricordi. Sta iniziando a piovere. Manuel ha detto che la prima domenica di Dicembre, di solito, non piove mai.

Antonio Chisari ha ventiquattro anni. Nel marzo del 2011 ha conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università degli Studi di Catania. Ha poi consolidato la conoscenza della lingua inglese con alcuni mesi di permanenza nella città di Dublino. Da ottobre 2011 a marzo 2012 ha svolto un tirocinio in un’agenzia pubblicitaria a Valencia, in Spagna. Attualmente è alla ricerca di lavoro. Nel frattempo si dedica alla scrittura, proponendo spesso le sue opere in concorsi letterari. Giuseppe Mondì è nato in Maremma nel settembre del 1983 da due genitori giovanissimi e ha trascorso la sua infanzia a Porto Ercole tra i manicaretti di nonna Anna e le gite al mare con nonno Veio. Quando ancora guardava “Bim Bum Bam”, ha cominciato a giocare a tennis prima solo per divertimento, poi in modo agonistico. Affascinato fin da piccino dalla tecnologia, ha battuto parecchio i piedi per ottenere il suo primo computer in regalo per la cresima. Da quel momento crede di non aver mai smesso di digitare, cliccare, navigare. Finito il Liceo scientifico, si è trasferito a Firenze per studiare Giurisprudenza. Qui ha trovato la sua dimensione e ha potuto seguire con costanza le sue passioni... quella per fotografia è nata come un’esigenza naturale. Da allora ha iniziato a divertirsi davvero cercando di racchiudere in uno scatto la sua visione personale di ciò che ammirava. Per lavoro è Content&Community Manager e proprio per questo lo trovate costantemente online su tutti, o quasi, i social network.

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04 NELLA METÀ DI LUCE

Per quale ragione diventai il paziente zero rimane un mistero, quello che è certo è che quando accadde ero vestito come ora: berrettino a forma di castoro e tuta da benzinaio

Giorgia Bandini & Yann Patrick Martins

La cassa dritta del sound system pompa beat nel mio orecchio, il mio solo orecchio. L’altro è fuori uso o furioso da tempo. Sono le sei di mattina e intorno a me una vagonata di zombie sotto acido si dondolano e sbuffano a ritmo. Ho fame e vorrei brucare l’erba come una capra. Mi trascino verso il camper della tribe. Una carota e una birra e non abbiamo più viveri e poi sta musica dimmerda ha scassato le palle. Stacco il generatore. Dobbiamo tornare indietro. Tornare indietro. Adesso. Ma dove? Nei pub pieni di studenti e di campi da calcio, al piscio che profuma di alcool, brucia e si fa rigagnolo nella turca o sulle scarpe, indietro ai tetti con le parabole e i gatti? Ai tanti negozi su cui scendeva poche volte con gran chiasso la saracinesca? Questo ero. Indietro a prima che avessimo paura che fosse un tumore a mangiarci e la neve pareggiasse ciò che era rimasto delle nostre case? La ghiaia scricchiola sotto le ruote larghe del camper. A ogni scoppio del motore un’eco sabbiosa. Ai lati pale eoliche si muovono a sincrono, pezzi di una vecchia giostra. Tea ci ricorda del suo lavoretto come pedalatrice di risciò e di come da quel giorno non apprezzi più le tette grosse a cui, quasi sempre, corrispondevano pesanti culoni. Non avrei mai potuto immaginare tanta saggezza. Siamo vicino

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alla città e Tea non ha paura, lei che avevamo dato già per morta e che da bambini qualcuno diceva che ammazzasse i gatti. Dopo un’ora la strada cambia colore. E rivedo la città. Ai bordi dei palazzi loro, altamente incazzati, e tanti negozi di souvenir ancora aperti. Corpi e lamenti intasano le vie e gli inseguimenti sono lenti e noiosi come un cane che si cerca la coda. Vigliacco avrei preferito che mia sorella mi avesse mangiato un occhio invece dell’orecchio, per essere lì, ma nella metà di buio. Anche loro sono lì. Esseri umani affetti da un morbo che li porta a nutrirsi di altri esseri umani, conseguenza di una politica vegetariana ed ecosostenibile, che alimentò il mercato nero della carne umana. gli animali si erano ammalati. Il mondo si era ammalato. Tuonava l’ordine del giorno dei verdi. Due braccia su una croce, ma quelle di un ladrone. Furono i terremoti e uno strano modo di danzare. Fu il proibizionismo: no carne. E mettemmo i cardigan e gli occhiali da riposo. Ma la fibra spessa di noi uomini non si schiacciò sotto quel peso e ci ammalammo di nuovo, senza redenzione. Sul camper ci siamo noi altri delle tribe, famiglia di reaverini freackettoni che, data la tendenza a cibarci solamente di quello che possiamo produrre non fummo mai infettati. I ripudiati dalla società. Gli isolati nella natura. La malasorte che cammina ci ha risparmiato due dottori, che vivono con noi nella magione e stanno sviluppando un medicinale per debellare il morbo, ma il cui unico successo sono io. Io sulle cui ginocchia ora si addormenta Tea, raggomitolando in un formato, direi, tascabile il suo metro e ottanta di statura. Io, portavoce dei fancazzisti finché la civiltà non si divise tra zombie e zombie del fine settimana. Vengo da una famiglia benestante a consumo giornaliero di carne umana: mangiavo quello che c’era e così mi ammalai. Per quale ragione diventai il paziente zero rimane un mistero, quello che è certo è che quando accadde ero vestito come ora: berrettino a forma di castoro e tuta da benzinaio. Nel cruscotto c’è un’arma, ma se mi sparo ora sono proprio un pigrone del cazzo. Bisogna razziare quello che agli umani non interessa più attenti ad evitare ogni singolo ambulante affamato, non vogliamo uccidere nessuno. Dobbiamo cercare provviste e tornare indietro. Indietro dentro alla città. Indietro? Non ci penso neanche. Andare avanti, invece, è un’altra questione, però strana.

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Fabio Zecchi, Adam Smith, 2011, Gran Bretagna

Yann Patrick Martins, classe 88 e Giorgia Bandini aula 85 sperimentano la scrittura epistolare a quattro mani, partorendo il loro primo racconto transappenninico. Lui, di natali svizzeri, fa il fotografo a Firenze. Lei, di origini parmigiane, la latinista ad Urbino. Le venti dita si incontrano per la prima volta a Vernazza. Fabio Zecchi ferrarese di nascita e di umore, aggiusta televisori rotti e costruisce campi da minigolf in cortile utilizzando ghiaia e quaderni ad anelli. L’avvento del digitale terrestre e la sparizione dei tubi catodici dal mercato lo costringe a peregrinare tra gli autogrill della rete autostradale italiana, dove scrive sui muri “scivola�.

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05 SCATTI

Il sole di luglio batte a picco sulla folla. L’asfalto è un tappeto di carne che cuoce. C’è odore di catrame, benzina e gomma fusa. Nell’aria bollente che distorce le figure le persone sembrano muoversi al rallentatore.

Marcello Freddi

Il mio occhio è il mirino di una fotocamera reflex digitale con messa fuoco automatica: un cono di luce sull’uomo imprigionato nell’auto, il viso rigato di sangue, gli occhi sbarrati. Il sole di luglio batte a picco sulla folla. L’asfalto è un tappeto di carne che cuoce. C’è odore di catrame, benzina e gomma fusa. Nell’aria bollente che distorce le figure le persone sembrano muoversi al rallentatore: i vigili del fuoco che spargono schiuma, i paramedici che si affannano a tamponare le emorragie, la polizia stradale che cerca di fare cordone, la gente che ondeggia ai lati della via, a caccia di una angolazione migliore da catturare col telefonino. L’automobile è accartocciata intorno al lampione. All’interno l’uomo è immobile. Sembra cosciente, tranquillo, come se tutto questo non lo riguardasse davvero. Le braccia di un poliziotto oscurano la mia visuale: «Indietro, perdio! Indietro!» Sposto una ciocca di capelli incollata alla fronte. Il mio occhio è un telaio in lega d’alluminio, colore nero opaco, impugnatura anatomica, un corpo solido e slanciato, un comando a motore in grado di realizzare con una raffica feroce dieci scatti al secondo. La scia di un aereo che passa sulle nostre teste è una rasoiata che taglia in due il cielo.

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Ettore Tomas, Mattatoio, 2012, disegno con elaborazione digitale


Ripasso i miei ultimi scatti. Un travestito negro al tavolo di un bar; capelli raccolti, gambe spigolose accavallate sotto il tavolo, seno imbottito, trucco pesante e sbavato sulle labbra e intorno agli occhi; una sigaretta incenerita che pende dalle labbra; guarda in camera con un sorriso che vuole sembrare maliardo ma risulta triste. Scatto Uno scippatore tossico, accartocciato sul gradino del marciapiede che ha tradito la sua fuga: una lingua di sangue gli cola da un taglio profondo sulla fronte, il viso contratto in un urlo di sofferenza, la borsetta scippata che penzola dall’incavo del gomito, la gente che gli fa il vuoto intorno. Scatto Un gruppo di ragazzini che gioca al centro di un cortile di cemento, tra rottami, cumuli di spazzatura e merde di cane: il mongoloide al centro, rannicchiato, piange mentre gli altri gli mollano sberle, calci e sputi; si scambiano sghignazzi e commenti. Scatto Il vento bollente appiccica gli abiti alla pelle, il sudore mi cola sulla faccia. Sogno una lunga immersione in mare. I paramedici si agitano, gridano, sembrano disperati. L’automobilista vomita getti di sangue. Le urla si fanno più acute e concitate. La folla è in delirio, eccitata, sente l’odore del sangue, di tragedia. I paramedici sono imbrattati di sangue, ne accorrono altri. I pompieri si fanno da parte. La folla si stringe sulla scena. I poliziotti gridano, si sbracciano. Una ragazzina di tredici, al massimo quattordici anni, si stacca dall’orda di corpi sudati ed eccitati. Un paramedico si allontana dalla macchina con le mani tra i capelli, un altro tenta di rianimare l’uomo con la respirazione artificiale. La ragazzina mi vede, mi punta, si avvicina. Nessuno la vede, nessuno la ferma mentre si mette tra me e il rottame dell’auto. I gesti degli ultimi soccorritori si fanno sempre più disperati. Qualcuno bestemmia. Qualcuno piange. Il mio occhio è un mirino con al centro un uomo che sta morendo. La ragazzina sorride, fa l’occhiolino, ancheggia. Mi lancia maliziosi urletti di ri-

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chiamo, entra nel mio cono visivo, porta le mani sui fianchi, si accarezza la gonnellina rossa. Il mio occhio è un mirino. C’è un uomo che sta morendo e una ragazzina di tredici anni che fa le boccacce e mi mostra le mutandine. Scatto

Marcello Freddi è nato nel 1967 a Reggio Emilia, città in cui attualmente vive e lavora come responsabile dell’ufficio legale di un’importante azienda alimentare. Ha pubblicato diversi racconti e recensioni per riviste del settore (“Inchiostro”, “La Luna di Traverso”), nonché per quotidiani locali (“Gazzetta di Reggio”, “Il Giornale di Reggio”). Ha collaborato con il collettivo “Bao’bab” di Giuseppe Caliceti, con cui ha pubblicato diversi racconti editi dal comune di Reggio Emilia. Dopo diversi anni di inattività legati al crescere degli impegni di lavoro, ha scritto “Un Mondo Perfetto”, il suo primo romanzo, ancora in cerca di editore. Ettore Tomas è nato in provincia di Napoli nel 1979 e vive a Sasso Marconi (BO). Dopo una maturità scientifica e una laurea presso l’Accademia di Belle Arti in Decorazione, si è specializzato in Grafica. Dal 2003 partecipa a mostre, concorsi, progetti, Mail Art in Italia e all’estero. Tra le più recenti: nel 2010 presentazione del corto “Micro il circo”, Future Film Festival (Palazzo Re Enzo, Bologna) con il quale ha partecipato al Lucas Film Festival di Francoforte; partecipazione al progetto e al catalogo “4OUR”, The Screamer Company (Austin, Texas); 3° Classificato a Fabbricanti di libri, (Lecce). Nel 2011: mostra personale “Disegni (e non solo)” a cura di Lamberto Caravita (Galleria Arteincontro, Conselice - RA); partecipazione alla manifestazione e catalogo “Use a book” - IV Festival del libro d’artista e delle piccole edizioni, a cura di Elisa Pellacani (Barcellona); partecipazione al progetto ìART=START+î a cura di Ko De Jonge (Middelburg, Olanda); partecipazione a “Poesy” Pavilion Dentrofuoribiennale, a cura di G. Dalio (Venezia) Nel 2012: partecipazione al progetto “Acquario verde: Morte e Rinascita dopo il ghetto” e all’Esposizione internazionale di libri d’artista ispirati a libri della Casa editrice Giuntina (Firenze) a cura di Maddalena Castegnaro ed Enrico Rapinese (Brindisi). Attualmente è impiegato come insegnante di arte e immagine presso una scuola media statale.

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06 SCIMMIE NELLA FABBRICA DEI SOGNI

…il maestro cercava qualcuno che, come me, possedesse un branco di scimmie antropomorfe addestrate alla perfezione (almeno trenta esemplari, piccoli compresi). Ero forse disponibile?

Guarneri Michael

Risposi al quarto squillo del telefono: dall’altro capo del filo un assistente alla produzione mi disse che sia la performance di attori umani in costume che gli effetti speciali digitali si erano rivelati deludenti, “cinematograficamente non credibili e, in ultima istanza, ridicoli”. Quindi il Maestro cercava qualcuno che, come me, possedesse un branco di scimmie antropomorfe addestrate alla perfezione (almeno trenta esemplari, piccoli compresi). Ero forse disponibile? Fissai una cifra e avanzai una serie di richieste che vennero prontamente accettate. Mi misi dunque a disposizione. Il viaggio in nave fu un inferno, ma lasciamo perdere. Arrivato a destinazione erano previste una settimana di riposo e due di lavoro. Trascorsi la settimana “di riposo” cercando di tranquillizzare le scimmie che, comprensibilmente, faticavano ad ambientarsi negli Studios: cinque di loro somatizzarono lo stress, iniziarono a grattarsi furiosamente e a perdere pelo. Cercai invano di incontrare il Maestro per spiegargli la situazione. C’era tuttavia uno stretto collaboratore del Maestro, “persona assolutamente fidata” che ne faceva le veci sul set: mi ascoltò annuendo, poi mi spiegò cosa il Maestro volesse.

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Iniziarono le riprese e andò tutto molto bene, tanto che finimmo tre giorni prima del previsto. Per tutte e due le settimane di lavoro del Maestro nemmeno l’ombra. «Mi raccomando: vada a vedere il film quando esce!» scherzò l’aiuto regista, congedandomi. Ero al bar degli Studios, le scimmie già sulla nave in attesa di salpare verso casa. Io aspettavo l’assegno: secondo i patti mi sarebbe stato consegnato dal Maestro in persona, nel suo ufficio, durante una “colazione informale”. Accanto a me sedeva un tizio che aveva l’aria di essere l’uomo più triste del mondo. Si guardava le mani. Aveva ordinato da bere, ma il barista lo aveva ignorato. Gli chiesi se qualcosa non andasse. «Mia moglie mi ha lasciato...» Cambiai argomento e gli domandai che ruolo avesse nel film. «Ci siamo visti sul set nei giorni scorsi, ma ovviamente non può riconoscermi così. Sa, interpretavo uno dei tapiri» disse. Trasecolai: «Ma... È eccezionale! Come fanno a truccarvi così?» «Non saprei. Roba chimica, pastiglie. Ci addormentiamo uomini e ci svegliamo tapiri. Poi un’iniezione, una dormita e al nostro risveglio siamo di nuovo uomini.» Una segretaria arrivò proprio in quel momento e mi pregò di seguirla. Mi fece accomodare in un’enorme sala d’aspetto dove ammazzai il tempo sfogliando riviste. Dopo circa un’ora la segretaria si ripresentò e mi consegnò un assegno. «Grazie...» dissi «ma, secondo i patti, il Maestro...» «Ha perfettamente ragione. Purtroppo impegni di forza maggiore trattengono il Maestro altrove. Le garantisco però che il Maestro ha visionato i giornalieri ed è estremamente soddisfatto. Ha definito “fon-da-men-ta-le” il suo contributo al film». Mi schermii e diedi tutto il merito alle scimmie. «La ringrazio a nome della produzione e le auguro un buon ritorno a casa». Ebbi il compenso pattuito, più un premio di produzione. Andai a vedere il film e scoprii che nei titoli di coda c’era un refuso nel mio nome.

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Francesca Parenti Brambilla, In.cedere, 2012

Guarneri Michael nasce a Cremona il 27 agosto 1988. Dopo la maturità classica, consegue la laurea triennale all’Università degli Studi di Bologna, diventando dottore in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo con una tesi (folle) sul cinema di Lav Diaz. Studi a parte, dal 2005 collabora alla gestione del Centro Sociale Autogestito “Gastone Dordoni” di Cremona, associazione culturale antifascista e antirazzista. Dall’inizio del 2009 è redattore per www.splattercontainer. com, sito dedicato al cinema di genere per il quale segue i principali festival del cinema in Italia e in Europa. Nell’aprile 2011 ha iniziato a collaborare per la rivista online di cinema “La furia umana”. Francesca Parenti Brambilla è nata nel 1982 a Parma, città dove si laurea in Scienze della Comunicazione nel 2005. Nel 2009 consegue la laurea specialistica in Giornalismo e Cultura Editoriale con una tesi in fotogiornalismo dedicata all’opera del reporter di Magnum Photos, Alex Majoli. Segue il corso di Storia della Fotografia presso l’Università di Parma tenuto dal fotografo Giovanni Chiaramonte e, nel frattempo, frequenta a Milano l’Istituto Italiano di Fotografia, presso cui si diploma nel 2006. In quello stesso anno partecipa all’esposizione fotografica collettiva “Vigevanessitudini”, presso l’Unione del Commercio di Milano. L’anno successivo realizza un vasto progetto fotografico dedicato alla rappresentazione teatrale, seguendo la Compagnia del Teatro di Gualtieri durante la preparazione di uno spettacolo. Tra il 2009 e il 2010 si dedica ad un reportage presso il Centro Cure Palliative di Fidenza (PR), che darà vita al libro fotografico “Stanze di Luce”, Mattioli 1885 Editore e ad un’esposizione fotografica in diversi comuni della provincia. Ha vissuto a Parigi per un periodo di stage presso la prestigiosa agenzia di fotoreporter Magnum Photos. Continua a scrivere e a scattare per diverse testate e prosegue l’inesausto percorso di approfondimento progettuale e personale sulla fotografia. Predilige, e senza dubbio continuerà a farlo, tutto ciò che le permette di trovare “un momento di condivisione autentica” con i luoghi e le persone.

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Corrado Civello (1-3) crede che il suo bisogno di nutrirsi delle emozioni e dell’indescrivibile sensazione di appagamento procurata dal poter esprimere la sua creatività attraverso il disegno, sia del tutto innata. Ha iniziato a disegnare all’età di 8 anni, dopo aver letto il suo primo fumetto, e non ha più smesso: se lo avesse fatto, avrebbe smesso anche di respirare. Ha realizzato svariate storie di generi differenti (dal western al poliziesco, dalla fantascienza all’horror) per piccoli editori che pubblicano albi a fumetti per collezionisti. È Odontotecnico, quindi totalmente autodidatta. Si augura che i suoi disegni possano parlare più di una qualsiasi biografia.

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CORRADO CIVELLO Atrofia della mente 2012, china

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CORRADO CIVELLO Mondi paralleli 2012, china


CORRADO CIVELLO Angeli e demoni 2012, china

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Fabio Zecchi, Lego, 2010, Berlino


MONDOLIBRO I CAVALIERI ERRANTI DELLA LETTERATURA

Federica Pasqualetti

Fare il traduttore è uno dei mestieri editoriali più difficili e impegnativi in assoluto: dal punto di vista contrattuale, scientifico e sociologico. Sensibilità, intuito, maestria nella conoscenza delle lingue scritte e parlate, amore incondizionato per la letteratura. Il traduttore è un giocatore che si fa spazio con la sua carica di passione, su un campo da gioco inflazionato e, forse, anche pieno di buche. È anche quello che, in fondo, ci sbatte sul muso che nonostante l’Italia sia un paese particolarmente esterofilo, le lingue straniere non sono proprio il forte degli Italiani. Quindi chi è il traduttore? Ci affidiamo ad André Lefevre quando negli anni ‘60 diceva che «tradurre è una forma di riscrittura», oppure ci mettiamo un “però” con Pavese, conscio che la ri-creazione divenga una necessità di fronte all’impossibilità fisiologica del traduttore-traditore di perseguire una fedeltà assoluta nel testo. Qualcuno pensa al traduttore-artigiano come colui che trasporta, passandoci attraverso, un «testo da una cultura all’altra», mentre Fruttero & Lucentini ne coglievano, se vogliamo, il lato più difficile: la consapevolezza del traduttore di «considerare il suo massimo trionfo il fatto che il lettore non si accorga di lui». Sul Web se ne parla tantissimo: il traduttore è dunque coautore? Lo mettiamo o non lo mettiamo in copertina? Vogliamo sentire la sua voce quando leggiamo un libro oppure vogliamo che ci faccia capire davvero chi è l’autore e cosa ci voleva dire? Oppure è solo un traghettatore muto di parole, pensieri e mondi altrui? E voi cosa ne pensate? Ditecelo sul Web!

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Fotografia d’autore - Francesco Jodice, WWW, Singapore, R15, 2001 Š Francesco Jodice, per gentile concessione


FRANCESCO ZANOT critico, curatore, docente

Intervista a cura di Andrea Tinterri

Telefono, registro, ricevo immagini; spedisco immagini, carico immagini in rete: circolazione verbale e visiva potenzialmente illimitata. Lo stesso modo in cui questa breve conversazione si è realizzata può essere considerato un esempio di come la diffusione di un’immagine e la ricerca e il fissaggio di un messaggio stiano subendo un cambiamento che ne determina la portata e l’inevitabile influenza (traiettoria). Una riflessione (telefonica) con Francesco Zanot, critico, curatore e docente di Fotografia: brevi sollecitazioni (bisogni, icone, autoscatti), approfondimenti possibili, istantanee d’idee; un punto di partenza per possibili anticorpi ad un immaginario comunicativo (fotografico ma non solo) sempre più allargato e apparentemente democratico.

Inizierei da una riflessione che potremmo definire il punto di partenza della nostra intervista, ossia la morte della fotografia, sancita, come spesso ricordato da Francesco Jodice , negli anni ’80 da Andreas Gursky. Dopo aver fotografato un parcheggio pieno di auto in sosta, da questo paesaggio cancella un’automobile: un tassello del reale. Quindi, implicitamente, definisce l’immagine fotografica come immagine in quanto tale e non più una restituzione fedele della realtà. Cos’è successo dopo questo momento? Non credo che Andreas Gursky abbia rivelato per la prima volta a qualcuno che la fotografia costituisce semplicemente un’interpretazione, una traduzione del reale. È un fatto del quale, naturalmente, si erano già accorti i pio-

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nieri di questa tecnica. Basta pensare a Daguerre che, riprendendo dall’alto un affollato scorcio del Boulevard du Temple a Parigi, si ritrova con l’immagine di una strada completamente deserta (fatta eccezione per un lustrascarpe e il suo cliente) per colpa della scarsa sensibilità del supporto fotografico a sua disposizione. L’importanza del lavoro di Gursky consiste esattamente nel fatto che egli abbia esteso il campo d’indagine della fotografia dai suoi due soggetti tradizionali, gli oggetti che si trovano di fronte all’obiettivo e l’individualità dell’autore che sta dietro, alla fotografia stessa. Per la realizzazione di ogni sua opera Gursky osserva verso tutte e tre queste direzioni in una volta sola. E questa coincidenza ha da subito interessato moltissimo il mondo dell’arte, portando la fotografia al di fuori del suo specifico proprio nel momento in cui si stava occupando di sé, smontandosi pezzo per pezzo. E in Italia? Esiste un dibattito aperto su questi nuovi atteggiamenti visivi? Esiste oggi secondo lei una nuova generazione di fotografi? Se esiste potrebbe fare qualche nome?

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Ovviamente esiste una nuova generazione di artisti italiani che utilizzano la fotografia come linguaggio. E nello specifico esistono alcuni fotografi che, nati fra la metà degli anni ‘60 e l’inizio del decennio successivo, lavorano in questa direzione, riflettendo sul proprio fare. I risultati a cui giungono sono però molto diversi e qualche volta difficili da racchiudere in uno stesso insieme. Penso, soltanto per fare qualche esempio, al lavoro di Francesco Jodice, che per alcuni suoi progetti sfrutta la fotografia in quanto strumento di misurazione; penso ad Armin Linke, impegnato in un’indagine interminabile sul confine fra realtà e finzione nella rappresentazione; oppure penso ancora alle serie di Stefano Graziani, che indaga la capacità narrativa della fotografia mettendo in sequenza immagini apparentemente distanti e inconciliabili. Riflettendo sulla fotografia contemporanea, lei parla spesso di una fotografia ibrida, volutamente ambigua. Come si materializza in concreto questo tipo di atteggiamento e soprattutto quali sono i motivi di fondo che inducono a tale costruzione?


La fotografia sta cambiando e credo si possa individuare nel modello dell’ibridazione la forma attraverso cui questo cambiamento sta avvenendo. L’ibridazione cui faccio riferimento tocca in particolare tre aspetti del linguaggio e della tecnica della fotografia: il sistema dei generi; gli usi e le funzioni della fotografia; il mezzo stesso, vale a dire la macchina fotografica. Innanzitutto i codici di genere smarriscono la propria autorità e migrano oltre i confini della specifica categoria cui appartengono. Il risultato è una sorta di ‘esperanto’ visivo che mette insieme all’occorrenza formule e stili tratti dalla pratica del ritratto, della street photography, del reportage, dell’immagine d’architettura e così via. Lo stesso capita se si considera la fotografia a partire dalle differenti funzioni che assolve: gli elementi distintivi della fotografia scientifica, familiare, pubblicitaria, giornalistica, entrano a far parte del vocabolario di coloro che utilizzano questo mezzo per il proprio fare artistico e, viceversa, le immagini appese ai muri di gallerie e musei influenzano l’utilizzo della fotografia per le funzioni che ho appena elencato. Infine sappiamo bene che il medesimo

processo di trasformazione e contaminazione coinvolge anche lo strumento di questa pratica: con il nuovo millennio l’obiettivo è stato innestato prima di tutto sul corpo del telefono cellulare, contribuendo alla più massiccia diffusione e democratizzazione di questo medium nella storia. Poi la funzione di riprendere immagini fotografiche si è integrata con tutta una serie di altri dispositivi, primi fra tutti i computer, con le webcam e le console di gioco. Tutti questi strumenti costituiscono di fatto degli ibridi fra una macchina fotografica e qualcosa d’altro. Fino a ora abbiamo parlato di una fotografia “colta”, di una fotografia che non possiamo scindere dal tradizionale mondo dell’arte. Mi interesserebbe capire come questo linguaggio dialoghi con un altro tipo di fotografia, ossia con la fotografia quotidiana, fatta con i cellulari e che circola sui social network. Quali sono i punti di contatto, come interagiscono i due linguaggi? Credo che la distanza fra le diverse pratiche della fotografia, per esempio in questo caso fra la fotografia di ricerca e quella popolare, sia sempre

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più ridotta e riguardi ormai soprattutto le intenzioni del fotografo. Per dirla con un termine molto di moda, la differenza sta nel progetto alle spalle di ciascuna immagine o gruppo di immagini. Da un punto di vista tecnico-stilistico, invece, avvicinamenti, sovrapposizioni e prelievi, nell’una e nell’altra direzione, sono sempre più frequenti. In sostanza, direi che ci troviamo in un periodo caratterizzato esattamente dallo scontro o dall’incontro delle diverse pratiche fotografiche, un periodo per questo unico e certamente irripetibile. Passando dall’altra parte, alla fotografia quotidiana e alla sua crescente fortuna, secondo lei quali sono i motivi di un così notevole successo? È una questione di mezzi (prima destinati ad altri scopi) sempre più predisposti ad immagazzinare immagini, o è piuttosto un’esigenza contemporanea? Anche in questo caso credo sia un processo che si svolge in entrambe le direzioni. Noi costruiamo gli strumenti che servono alle nostre esigenze, non c’è dubbio, ma allo stesso tempo gli oggetti che teniamo tra le mani orientano i no-

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stri comportamenti. È quindi naturale che se molti dispositivi con cui abbiamo a che fare incorporano un obiettivo, allora tutti quanti, e non solo chi ha espresso questo bisogno a priori, siamo più portati a fotografare. Da quando ho un iPhone, ogni tanto lo faccio anch’io, che prima non avevo mai comprato una macchina fotografica. Probabilmente oggi parlare di generi sarebbe fuori luogo, poco fa abbiamo riflettuto su un’immagine sempre più ibrida ed ambigua, ma credo sia interessante discutere di ritratto, o meglio di autoritratto. Restando sempre nell’ambito della diffusione di immagini attraverso social network e cellulari, la partecipazione diretta con un’immagine di sé ad un circuito ampio, spesso di utenti che nemmeno si conoscono, è diventata routine quotidiana, una prassi e probabilmente (circostanza assai grave) non ci siamo nemmeno accorti di tale passaggio, ossia del cambiamento della propria intimità, dell’apertura alla nostra immagine. Vorrei conoscere la sua opinione in merito a queste abitudini (anche se presumo non basterebbe un saggio di qualche centinaio di pagine).


Fotografia d’autore - Francesco Jodice, Dubai, T52, 2009 Š Francesco Jodice, per gentile concessione


A proposito della pratica dell’autoritratto, credo che con l’avvento di Internet e dei social network non sia cambiato poi molto per quanto riguarda i comportamenti individuali. Se ci pensiamo, chiunque abbia avuto in mano una macchina fotografica, anche coloro che sono cresciuti con le pellicole e senza computer, si sono sempre fatti qualche autoscatto. Non conosco la motivazione profonda di questo comportamento: forse si tratta di un’espressione narcisistica, forse scaturisce dalla necessità di identificare se stessi con il proprio corpo. Quello che oggi è radicalmente mutato, però, è il circuito all’interno del quale queste immagini vengono veicolate. Il punto è che, se il nostro album di famiglia è stato sostituito dal profilo su Facebook, allora le immagini che vi introduciamo sono visibili da un numero straordinariamente maggiore di osservatori. Ma non si tratta soltanto di un cambiamento quantitativo, bensì soprattutto di un’autentica rivoluzione della qualità dell’osservazione. Fino a qualche anno fa, infatti, la fruizione di un autoritratto avveniva nella maggior parte dei casi in presenza del suo autore. Quando un individuo mostrava questa

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tipologia di fotografie a una cerchia estremamente ristretta di conoscenti, spesso manteneva una parte attiva nel corso della loro osservazione. A questa attività era quindi connesso un rapporto di vicinanza, un confronto. L’utente di Facebook è invece isolato e può godere di queste immagini in completa solitudine. L’equilibrio fra i due termini di questa relazione si sposta tutto dalla sua parte. La rete, allora, non funziona come un supporto per la condivisione di questo materiale, bensì per il suo sfruttamento. Cambiando argomento vorrei ora insistere su alcune considerazioni pratiche a partire dalla nostra pubblicazione, una rivista laboratorio che si occupa di letteratura però aperta anche alla fotografia e all’illustrazione. L’idea su cui poggia è quella dell’esercizio del limite (ogni quattro mesi cambia il tema su cui lavorare). Crede che questo possa essere per un giovane aspirante fotografo un modo corretto per iniziare a pensare alla fotografia? Si può dire che il gesto stesso di fotografare consiste nell’esercizio di una serie di limitazioni. Tutti coloro che uti-


lizzano questo linguaggio, qualunque sia il soggetto che intendono rappresentare, devono sottostare a ciò che la macchina consente loro di fare. Chiunque fotografa sa di non potere restituire il volume degli oggetti che osserva nel mirino, né il loro odore, e neppure i rumori che emettono. Nonostante questo, capita spesso di confondere la realtà con la sua immagine fotografica. Fra i diversi sistemi di rappresentazione del mondo, la fotografia è probabilmente quello che ha saputo eludere meglio i propri limiti. In conclusione alla nostra conversazione: oggi in Italia dove nascono le nuove idee sull’immagine fotografica? Università? Luoghi come il FORMA? Gallerie? Riviste? Blog?

In tutti i luoghi che hai citato e in molti altri ancora. La fotografia, ormai, è nelle mani di tutti, per cui tutti siamo responsabili di quello che è diventata e diventerà. La fotografia, come la realtà che tenta di descrivere, è una costruzione sociale. Basta pensare al fatto che gli aggiornamenti più importanti che recentemente sono avvenuti nell’utilizzo di questo medium sono venuti grazie all’industria, con l’introduzione sul mercato di macchine fotografiche capaci di catturare filmati in alta risoluzione, e ai rivoltosi della ‘primavera araba’, capaci di annientare la retorica del reportage attraverso la realizzazione di immagini che sono allo stesso tempo documenti storici e armi al servizio della rivoluzione.

Francesco Zanot (Milano, 1979), è critico, curatore e docente di fotografia. Ha lavorato a mostre e pubblicazioni con artisti italiani e internazionali, fra cui nell’ultimo anno Olivo Barbieri (Palazzo Ducale, Genova), TakashiHomma (21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa), Alec Soth (Triennale, Milano). Nel 2008 ha curato la mostra “Faces” (Fondazione Ragghianti, Lucca), in cui sono state riunite le opere di alcuni fra i protagonisti più celebri della fotografia di ritratto del Novecento. È autore dei saggi storico-critici per l’opera in 4 volumi “La Fotografia”, edita da Skira, sulla storia, la teoria e la grammatica della fotografia, a cura di Walter Guadagnini e con saggi di storici internazionali fra cui Quentin Bajac, Sandra S. Phillips, ArturPohlmann e altri. Nell’ambito della formazione, dal 2011 è direttore del Master in Photography and Visual Design organizzato da Forma, Fondazione per la Fotografia, in collaborazione con NABA, Nuova Accademia di Belle Arti, di cui è membro del comitato scientifico dal 2006. È inoltre docente di Storia della Fotografia Americana presso l’università IULM di Milano e ha tenuto conferenze e seminari sulla storia e la teoria della fotografia presso importanti istituti di formazione in Italia e all’estero (fra cui la Columbia University di New York, l’American Academy di Roma, l’Università degli Studi di Milano, il Politecnico di Bari). Attualmente è responsabile delle attività didattiche di Forma, Fondazione per la Fotografia, Milano. È associate editor di “Fantom”, rivista trimestrale di fotografia con sede a Milano e New York. Francesco Jodice è nato a Napoli nel 1967. Vive a Milano. La sua ricerca artistica indaga i mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo con particolare attenzione ai nuovi fenomeni di antropologia urbana. I suoi progetti mirano alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitiche proponendo la pratica dell’arte come poetica civile. È docente di Fotografia presso il master di Cinema & New Media della NABA di Milano e presso il master in Photography and Visual Design di Forma, tiene un corso di antropologia urbana visuale presso il Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali della NABA. È stato tra i fondatori dei collettivi “Multiplicity” e “Zapruder”. Ha partecipato alla Documenta, alla Biennale di Venezia, alla Biennale di Sao Paulo, alla Triennale dell’ICP di New York e ha esposto alla Tate Modern, al Castello di Rivoli e al Prado. Tra i progetti principali: l’atlante fotografico di comportamenti sociali e urbani attraverso 50 metropoli “What We Want”, l’archivio di pedinamenti fotografici urbani di persone sconosciute in diverse città del mondo “Secret Traces” e la trilogia di film sulle nuove forme di urbanesimo di autorganizzazione nelle maggiori metropoli mondiali “Citytellers”.

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Viola Mondello, Pianta, 2012, fotografia a colori digitale con elaborazione grafica


SILVIA PARESCHI traduttrice

Intervista a cura di Silvia Pelizzari

Quello del traduttore è un lavoro sottovalutato, complesso, per certi versi nascosto eppure sempre sotto i nostri occhi. Per chi ama leggere non c’è niente di peggio di una brutta (o pessima) traduzione. Abbiamo quindi fatto qualche domanda a Silvia Pareschi, traduttrice italiana, tra gli altri, di Jonathan Franzen, per Einaudi, per provare a indagare tra le pieghe di questo lavoro.

Perché la traduttrice? Perché volevo leggere la grande letteratura russa in lingua originale. E così studiai lingua e letteratura russa, molta letteratura (in italiano) e pochissima lingua, e il russo non lo imparai mai. L’inglese lo conoscevo già, per fortuna, ma dopo la delusione del russo mai imparato mi dimenticai per un po’ del mio vecchio sogno di fare la traduttrice. Provai diversi lavori e misi da parte qualche soldo che mi permise di frequentare il master in tecniche della narrazione della Scuola holden. Così, senza un vero obiettivo in mente, giusto perché mi sembrava un modo interessante per investire i miei risparmi. Durante il primo anno del master frequentai un seminario tenuto dalla grande tradut-

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trice Anna Nadotti. Le cose che diceva e il modo in cui le diceva mi piacquero tanto che decisi di provare a tradurre un racconto inedito e darglielo da leggere, così, giusto per avere il suo parere. Ad Anna la mia traduzione piacque tanto che la girò a una editor dell’Einaudi, che qualche giorno dopo mi chiamò per “parlare di traduzione”. Per poco non svenni dalla sorpresa. La traduzione è ancora estremamente sottovalutata. Si pensa poco alla grande difficoltà del mantenere lo stile di un autore straniero e contemporaneamente tradurre bene. Qual è il più grosso ostacolo ogni volta che inizi a tradurre un romanzo? Dipende dal romanzo, naturalmente. A volte il vero ostacolo è il tempo, perché può capitare che le scadenze vengano decise sulla base del piano editoriale della casa editrice e non sul tempo veramente necessario a tradurre bene un determinato libro. E siccome il mio ossessivo perfezionismo mi impone di non saltare mai neppure un passaggio di quelli che ritengo necessari a tradurre bene un determinato libro, le conseguenze sono state spesso nottate e soprattutto settimane e mesi di lavoro ininterrotto,

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senza neppure un giorno di pausa. Negli ultimi tempi sono diventata più brava a gestire le scadenze, e questo problema mi capita un po’ meno spesso. Quanto l’opera tradotta diventa del traduttore? Penso per esempio a qualche celebre traduzione di Pavese. Può capitare, quando uno scrittore traduce un altro scrittore, che il suo io autoriale prenda il sopravvento. Eppure l’opera tradotta non può mai appartenere fino in fondo al traduttore. Il traduttore è co-autore dell’opera, certo, ma non può appropriarsene, altrimenti verrebbe meno al suo patto di lealtà nei confronti dell’autore. La traduzione è un gioco di equilibrismi, un costante sforzo per riuscire a immedesimarsi nella scrittura altrui senza perdere del tutto la propria individualità. Come lavori solitamente? Hai dei riti? Modalità precise di lavorazione? A volte leggo il libro prima di tradurlo, a volte no. Dipende dalla difficoltà, dalla lunghezza, da quello che mi dice l’istinto. Il lavoro di traduzione comincia poi con una prima stesura “analitica”, nella


quale osservo il testo al microscopio concentrandomi su ogni singola parola ed espressione, con uno sguardo ravvicinato che tralascia almeno in parte lo stile per realizzare un minuzioso lavoro di dissezione del significato. La seconda fase del lavoro è una prima rilettura attenta e minuziosa, effettuata confrontando parola per parola il testo tradotto con l’originale. In questa fase comincio a osservare il testo tradotto come un tutto unico e organico, in cui i vari mattoncini di significato si uniscono per creare una prosa fluida e aderente allo stile dell’autore. La terza fase, possibilmente dopo qualche giorno di distacco, è una rilettura più veloce, nella quale cerco di “sentire” il testo come se fosse stato scritto direttamente in italiano, aggiustando gli stridii dei calchi, eliminando le ridondanze, controllando gli ultimi dubbi. A questo punto il libro passa all’editor/revisore, che dopo un primo giro di correzioni me lo rimanda da controllare. Infine, dopo il confronto e le discussioni con l’editor, il libro viene messo in bozze, e in questa fase effettuo un’altra rilettura, spesso confrontandomi anche con il correttore di bozze, prima di dare la mia approvazione finale.

Quando leggi un libro tradotto c’è una deformazione professionale che ti porta a “godere” meno della narrazione spostando il tuo occhio sulla parte tecnica? Ci sono secondo te pessimi casi di traduzione? Certo, i pessimi casi di traduzione ci sono sempre, purtroppo, soprattutto nei libri pubblicati da editori che tendono al ribasso e pagano poco i traduttori, costringendoli così a lavorare in fretta e male e infischiandosene del risultato mediocre che inevitabilmente ottengono. Quanto alla deformazione professionale, per fortuna riesco a evitarla quando leggo libri tradotti da lingue che non conosco. I libri scritti in inglese (e non quelli scritti in russo, ahimè), li leggo solo in lingua originale, a meno che non siano stati tradotti da traduttori che ammiro, e in quel caso la lettura fatta con occhio “professionale” diventa estremamente piacevole. Tempo fa avevo letto che i traduttori di un autore si scrivono tra di loro per parlare delle difficoltà o di dubbi che incontrano lavorando e per scambiarsi consigli. Avete un rapporto diretto anche con l’autore? Ci racconti qualche aneddoto?

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A me è capitato spesso di avere un rapporto diretto con gli scrittori che ho tradotto, persone molto disponibili e affascinati dalle mie domande, grazie alle quali, mi dicevano, riuscivano a scoprire aspetti della loro opera sui quali non avevano mai riflettuto. Oltre che con Jonathan Franzen, del quale col tempo sono diventata amica, ho avuto scambi molto proficui e amichevoli in particolare con Amy Hempel, Nathan Englander e Julie Otsuka, ma in genere mi capita sempre di scrivere all’autore o all’autrice per chiarire qualche dubbio, domandare un parere su una soluzione o chiedere il permesso di togliere qualcosa che in italiano non avrebbe senso. L’ultima volta che sono stata a New York, di recente, ho invitato a cena Jonathan Franzen e la sua compagna nell’appartamento in cui ero ospite. Non conoscendo bene il quartiere, ho finito per fare la spesa in un supermercato orribilmente caro, pensando, “questo sembra l’Incubo del

Consumo” (per chi non ha letto Le correzioni o non se lo ricorda, l’Incubo del Consumo, in originale The Nightmare of Consumption, era il nome inventato del supermercato orribilmente caro dove Chip ruba un salmone infilandoselo nei calzoni). Durante la cena la compagna di Franzen mi ha chiesto dove avessi fatto la spesa, e nel sentire il nome del supermercato in questione Franzen ha esclamato: “That’s the Nightmare of Consumption!”. Senza saperlo ero finita proprio nel supermercato a cui si era ispirato per la scena del salmone! Insomma, per avere una storia come questa, tutto sommato era valsa la pena di farmi rapinare all’Incubo del Consumo. Per affrontare la traduzione di un libro devi avere letto tutto del suo autore? Dipende da quanto ha scritto! Tutto, sì, se non ha scritto decine di libri. Altrimenti almeno le opere principali.

Silvia Pareschi è nata a Laveno, sul Lago Maggiore. Si è laureata a Bologna, dove ha vissuto per dieci anni, prima di trasferirsi a Torino dove ha frequentato la Scuola Holden nel biennio 1999-2000. Tornata sul lago, ha cominciato a lavorare come traduttrice letteraria. Fra gli autori da lei tradotti ci sono Jonathan Franzen (di cui ha tradotto quasi tutto), Cormac McCarthy, Don DeLillo, Junot Díaz, E.L. Doctorow, Denis Johnson, Amy Hempel, Nathan Englander, Annie Proulx, David Means, T.C. Boyle. Attualmente vive a metà fra l’Italia e San Francisco, dove nel 2011 ha sposato uno scrittore da lei tradotto, Jonathon Keats. Quando è negli Stati Uniti continua a tradurre, e in più insegna l’italiano agli americani. La trovate anche qui: silviapareschi.blogspot.it Viola Mondello è nata a Messina nel1983. La sua ricerca artistica si muove con “Fragile”, un corpo vuoto che attende di essere abitato, uno dei tanti che ha perso la casa nel maremoto che nel 1908 ha distrutto la città di Messina. Dal 2005 comincia il suo studio sui luoghi e sulle abitazioni improntando su di esso la propria produzione artistica. www.premioceleste.it/ViolaMondello

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SLAUGHTERHOUSE-FIVE, Kurt Vonnegut

1969

Billy Pilgrim, protagonista di questo romanzo, è un pellegrino proprio come dice il suo cognome. Viaggia nel tempo e nello spazio. Va in America, in Germania, sul pianeta Trafalmador… Le sue escursioni, però, sono totalmente fuori controllo. Perché Billy è spastico nel tempo, non controlla i suoi movimenti, non sa dove andrà dopo, e le sue gite non sono necessariamente divertenti. Non è cioè, un viaggiatore consapevole. Un secondo prima è in un posto, quello successivo si ritrova da tutt’altra parte. Questa sua schizofrenia spazio-temporale si ripercuote inevitabilmente sulla struttura del romanzo, confusa e stravagante proprio come gli spostamenti di Billy. Ma questa è solo la prima chiave di lettura. Mattatoio N. 5 è ben altro. Pilgrim viene utilizzato come pretesto per scrivere un inno contro la guerra. Il che costituisce la seconda ragione per cui appare così eccentrico alla lettura: È così breve, confuso e stonato […] perché non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Non si pone neppure grandi pretese di verosimiglianza, come magari ci si aspetterebbe da una testimonianza più o meno diretta: È tutto accaduto, più o meno. Le parti sulla guerra, in ogni caso, sono abbastanza vere. Una testimonianza, peraltro, faticosa in termini empatici: Non vi dirò quanto mi è costato, in soldi, tempo e ansietà, questo schifoso libretto. Tanto più che lo stesso autore è consapevole di quanto un’operazione del genere sia rischiosa da certi punti vista. O forse, più che rischiosa, inutile, come sottolineato da questo brano: “Sa cosa rispondo quando uno mi dice che sta scrivendo un libro contro la guerra?” “No. Cosa dice, Harrison Starr?” “Dico: perché non scrive un libro contro i ghiacciai, allora?” Quello che voleva dire, naturalmente, era che ci saranno sempre guerre, che impedire una guerra è facile come fermare un ghiacciaio. E lo penso anch’io. In realtà, Mattatoio N. 5 non è un romanzo. Presenta più le cadenze – conformi alle caratteristiche stravaganti del protagonista – di un poema cavalleresco. O di una canzone del Trecento, il cui refrain è un tic verbale ricorrente con frequenza a dir poco ossessiva: così va la vita. Quasi a indicare un amaro fatalismo, forse una cupamente ironica rassegnazione. O forse una semplice constatazione dei fatti. Perché così va la vita. Enrico Cantino

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GLAMORAMA, Bret Easton Ellis

1998

Victor Ward è un modello aspirante attore che vive alla giornata, forse perché ogni sua giornata è piuttosto impegnativa: donne, droga, uomini, droga. Potreste ricordarvi di lui dai tempi della scuola, quando vi ha spiegato, con metodi discutibili, Le Regole Dell’Attrazione. È cresciuto, ma non è diventato adulto. Un giorno intraprende un viaggio in nave verso l’Europa, alla ricerca della sua ex fidanzata. In questa traversata, che ha l’aspetto di un complesso e adrenalinico conto alla rovescia, cadranno le quinte del glamour e quello che Victor si ritroverà a osservare, coinvolto inaspettatamente in un’azione terroristica, sarà tutto il niente, tutto l’orrore, tutta la violenza, l’assenza di principi a cui ha dedicato la propria esistenza. Come in molti dei romanzi di Ellis, la società descritta in Glamorama (la cui prima edizione statunitense risale al 1998) è una facciata retta da cavi destinati a lacerarsi e gli individui che la popolano sono schiavi di ossessioni figlie di un tempo che non fatichiamo a riconoscere come nostro. Victor Ward, come Patrick Bateman (magistralmente interpretato da Christian Bale nella trasposizione cinematografica di American Psycho), è un uomo caratterizzato dall’incapacità di riconoscere i valori, all’estenuante ricerca della perfezione estetica, intrappolato nella propria immagine e vittima della sua stessa fame di successo. Nonostante in molti sostengano che Lunar Park (romanzo solo apparentemente autobiografico in cui persone e personaggi si incontrano, in cui si mescolano ricordi ed elementi soprannaturali) sia la vetta letteraria più alta finora raggiunta da Bret Easton Ellis, Glamorama è il perfetto compendio di tutta la sua opera. Una denuncia deflagrante che squarcia l’abito dell’intrattenimento, ma forse anche una profezia funesta che ci mostra quello che potrebbe accadere. Quello che ci accadrà, il giorno in cui davanti alla violenza non proveremo più nulla, quando le parole saranno state completamente svuotate. Quando il colore del nostro biglietto da visita sarà l’unica cosa davvero importante. Sempre che quel giorno, nel frattempo, non sia già arrivato. Carlotta Fiore

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NEMESI, Philiph Roth, 2010 Scrivere che Philip Roth è un grande scrittore, equivale a dire che Stanley Kubrick era un grande regista. Troppo banale ammettere la loro grandezza. Intendiamoci: Roth fa con le parole quello che Zidane faceva con la palla. Crea storie dal vestito semplice, ti sembra davvero di spiarle dal buco della serratura, rendendo la lettura uno spasso e i personaggi compagni di vita. Quello che mi ha sempre impressionato in Roth è la sua facilità di raccontare storie, come se fosse quello l’unico modo di scrivere, l’unica finestra da cui guardare quel mondo. Nemesi è probabilmente il suo ultimo romanzo, non ne scriverà più, almeno così ha dichiarato poche settimane fa. Peccato, ma egoisticamente non ne faccio un dramma, ho la fortuna di avere letto soltanto sei dei suoi circa trenta romanzi. Nemesi è ambientato nell’estate del 1944 a Newark. Il giovane e forte Bucky Cantor è un animatore di campi da gioco, rispettato da tutti. I suoi ragazzi lo ammirano come un buon padre. Purtroppo, nonostante la determinazione e il rigore ereditato dai suoi nonni, viene scartato dall’esercito per un problema alla vista. Quella che per molti sarebbe stata una fortuna per lui diventa una vergogna difficile da sopportare. Il protagonista cerca il riscatto dedicando anima e corpo ai suoi ragazzi, fino a quando arriverà una spaventosa epidemia che lo metterà davanti ad una importante scelta. Nemesi è il racconto struggente di un dramma collettivo: non si sofferma a raccontare la guerra che gli Stati Uniti stanno combattendo fuori, ma un’epidemia di polio che colpisce il paese dall’interno e dilaga uccidendo e storpiando ragazzi. Roth costruisce un personaggio (Bucky) napoleonico, un soldato che ha necessità di combattere. E se non possono essere i giapponesi sarà la polio, e poi Dio e infine se stesso. La costruzione del personaggio sembra rispondere ad una legge simbolica: maggiore sarà la sua luce, più denso sarà il buio che farà quando si spegnerà. La cosa che amo di Roth in assoluto è che i suoi libri non riesci a lasciarli a metà, come invece mi capita con altri. Probabilmente con lui è molto più naturale continuare a leggere che smettere. Concetto Scuto

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I GIORNI DELLA VENDEMMIA, regia di Marco Righi, 2012 Un ragazzo (interpretato dal promettente attore Marco D’Agostin) che si innamora di una ragazza, in un casale nella campagna di Reggio Emilia, nell’estate del 1984, proprio nei giorni della vendemmia: un passaggio adolescenziale (quasi archetipico), sesso (sfiorato), un fratello intravisto e tanti tipici dualismi emiliani (fede in Cristo, fede nel Partito, la morte di Berlinguer). Una sceneggiatura che, pur tracciando in una narrazione complessa il passaggio generazionale/affettivo, rimane laconica, raccontando l’indispensabile, precisa nella sua sobrietà. Durante gli ottanta minuti di proiezione sembra succedere poco: brevi episodi che delineano una storia più ampia ma con la sensazione di un movimento rallentato. La narrazione procede, si sviluppa e i protagonisti modificano la loro posizione all’interno dell’intreccio con una naturalezza che frena lo scorrere del racconto. Il regista Marco Righi, in questo modo, cerca d’instaurare un rapporto con l’immagine, dal paesaggio alla figura umana, di lenta riflessione. Si allontana da una sorta di bulimia d’immagini spesso molto utilizzata, da quel bombardamento incessante che rischia di cancellare la memoria del fotogramma, per concentrarsi, invece, su un tempo lungo, lasciando lo spettatore davanti alle immagini qualche secondo in più per scardinare l’abitudine alla sovrabbondanza comunicativa. In questo modo riusciamo a trovare un nuovo paesaggio e un tempo anche biologico maggiormente connesso ad un naturale (primordiale) trauma estivo/adolescenziale. Anche quando il tempo della narrazione subisce un cambiamento (accelerazione incalzata da un suono disturbante) è solo per sottolineare un episodio (generalmente simbolico) che delimita un confine (ideologico/ morale): la morte di Berlinguer, ad esempio anche in questo caso, viene raccontata attraverso un moto corporeo, un aumento di battito, rimarcando così il trauma fisico, non solo dell’uomo pubblico, ma anche della “folla” in una delle ultime partecipazioni politiche di stampo ancora novecentesco. I giorni della vendemmia è, dunque, un film che rispetta l’ambiente che è andato ad occupare ed analizzare (storico ed esistenziale); una pellicola a basso costo, girata in pochi giorni, perché in questo momento c’era bisogno di sapere che è meglio fare una cosa fatta bene che spendere soldi (troppi soldi). Andrea Tinterri

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MEAT IS MURDER, The Smiths, 1985 «Sapete come muoiono gli animali?» È questa la domanda che Morrissey rivolge all’ignaro ascoltatore, magari distratto mentre addenta un hamburger. Lungi dall’essere vegetariano e dal diventarlo completamente, chi scrive riflette, a distanza di quasi trent’anni, su quanto The Moz cantava ancora prima di licenziare il capolavoro The Queen is Dead. Essere artisti implica, in maniera più o meno sotterranea, essere scandalosi. C’è chi lo fa per il gusto di farlo (si pensi alla sguaiata “God Save the Queen” dei Sex Pistols in rapporto con la raffinata “The Queen is Dead”), e chi lo fa per risvegliare coscienze assopite o atrofizzate dal consumismo. Il sonno della ragione genera mostri, per cui è decisamente meglio trovarsi ad ascoltare, nel bel mezzo di un album di (gradevoli) canzonette pop, i lamenti di animali mandati al macello – per profitto, non certo per mera sopravvivenza. La carne che si mangia, ci canta Morrissey, è «morte senza ragione»: « è assassinio.» Altrui vita annientata, per di più con atrocità brutali e agonie strazianti (per chi se la sentisse, la Rete è piena di video in merito). Nulla a che fare con sedani, carote, patate o qualsiasi altro vegetale: per quanto altrettanto ben impacchettata e presentata negli interminabili banchi frigo dei supermercati, la carne ha un costo vivo decisamente smisurato. Senza estremizzare, ma ricordiamocelo: la «fragranza dell’assassinio», in fondo, è il reale gusto della carne. Parola di Morrissey. Il resto del disco? Con i sempre apprezzabili intrecci chitarristici di Johnny Marr a fare da contrappunto, violenza a non finire: scolastica, domestica, psicologica, suicidi, disperazione, solitudine. Perché la vita è un mattatoio. Andrea Rabaglia

«HÖR MIT SCHMERZEN», Einstürzende Neubauten: ascolta con dolore Questa volta non si parla di un solo disco, bensì di un’avventura musicale attiva da oltre trent’anni. Non sempre, per fortuna, “mattatoio” è necessariamente sinonimo di follia e di morte. Una fine – un mattatoio dismesso –, in questo caso rappresenta l’inizio di un’esperienza artistica, per certi versi altrettanto folle; almeno di primo acchito. Prende così vita dall’area dell’Üntergang, un ex-mattatoio berlinese, la sperimentazione rumoristica degli Einstürzende Neubauten.

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Suoni ossessivi, vocalizzi demoniaci, litanie psicotiche, conditi da oppressione sociale, emarginazione, alienazione e autodistruzione, si mescolano ai rumori più disparati: un caotico teatro dadaistaespressionista che mette in scena una follia lucida, apparentemente priva di regole. Si riutilizza ciò che resta, dopo la mattanza perpetrata dalla città dei consumi e postindustriale: ogni scarto diviene un utile strumento di percussione, si tratti di barili di petrolio, blocchi di cemento, tubi e condutture varie, vetri, scarti materici di qualsiasi tipo – persino carne! – o qualunque altra cosa che capiti a tiro. Nel corso del tempo, dai martelli pneumatici e dalle turbine di jet, sul palco si arriverà, dopo lunghi anni di lamenti sonori, a ben più modesti compressori, in una ricerca espressiva mai sopita che, per quanto sui generis, tenderà sempre più verso la forma-canzone. Andrea Rabaglia

UN MERAVIGLIOSO DECLINO, Colapesce, 2012 Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, ha 29 anni e la malinconia di un uomo che ha provato tante cose. Un meraviglioso declino, il suo ultimo lavoro, è un album che non stanca, di quelli che lasci perennemente nell’autoradio e che canti un po’ per liberarti da pesi che faticano ad andarsene, un po’ per piangere pensando a qualcuno a cui non devi. È una poesia delle cose semplici ma al contempo ricercate: una metrica studiatissima (“essere un cantautore per me è una responsabilità dal punto di vista sociale”), ispirazioni internazionali (“mi hanno influenzato le produzioni di gruppi come Fleet Foxes”), il distacco per niente velato dai cantautori italiani più o meno emergenti (“non mi piace Brondi e tutta la sequela di urlatori a flusso di coscienza, e neanche il buonismo dentiano”), e tante collaborazioni. All’album hanno infatti preso parte Alessandro Raina degli Amor Fou, Sara Mazo, ex degli Scisma, Roy Paci, oltre alla collaborazione con Meg, ex 99 posse, in un singolo dal titolo Satellite, che sa di ballata estiva, ma nel senso buono. Dentro a questo album si sentono il caldo e l’afa, un ragazzo con una penna in mano e la valigia sempre pronta. Si sente la sua terra, la Sicilia di quel ragazzo, Colapesce, che nella leggenda l’amava a tal punto da sacrificarsi per lei. Silvia Pelizzari

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FIGHT CLUB a cura di Armando Minuz

Lo scrittore Raul Montanari ci ha cortesemente permesso di ripubblicare sul numero scorso, “Noir”, il suo primo racconto, “Azzurro”. Dopo aver letto la rivista ha spedito questa lettera alla redazione, che con il suo consenso pubblichiamo e alla quale rispondiamo, ringraziandolo per le critiche (costruttive, s’intende), per la sua squisita disponibilità e per l’attenzione che ci ha dedicato. Al di là del singolo caso, poi, vorremmo sapere da voi cosa pensate del meccanismo che regola la Luna di Traverso, che si muove in equilibrio fra testo e illustrazione. Per questo numero del Fight Club si accettano consigli, critiche, insulti, proposte indecenti sulle corrispondenze fra “testo e immagini”. Fatevi sotto. Il fighting prosegue in rete, ed è aperto a tutti. Qui. www.lalunaditraverso.com/category/dibattiti-letterari


Gentile Redazione, sono rimasto perplesso per le due illustrazioni che accompagnano il mio racconto Azzurro, uscito nel numero scorso. L’illustratore, Civello, è molto bravo; ma cosa c’entra quella scena di tortura fra gangster con il poliziotto di Azzurro? Per non parlare della seconda illustrazione, quella con la valigia piena di soldi. Il lettore vede queste immagini tipiche di una certa ambientazione noir da fumetto (di qualità, s’intende); le immagini gli fanno una promessa, che viene disattesa in modo drammatico dalle parole. Lo stile di Azzurro, che dovrebbe essere metafisicoesistenziale, suona impettito, perfino pomposo, accanto a illustrazioni come quelle; è come vedere un film di Buñuel con un soundtrack heavy metal. Io vi avevo avvertito che questo non è un racconto noir, e mi avevate assicurato con molta sensibilità che la vostra idea di noir era più un’idea di nero, di letteratura “negativa”, in cui Azzurro entrava senza problemi. Invece le illustrazioni paiono un tentativo di noirizzare il testo, di forzarlo in un’atmosfera precisa, che però viene smentita in modo stridente dal testo stesso.

Caro Raul, la scelta delle illustrazioni è sempre soggettiva, dunque arbitraria, ma è anche necessaria visto il meccanismo della rivista, che è “a due facce”: racconti, illustrazioni. Il tutto nasce dalla “forma concorso”, dunque scrittori e illustratori spediscono le loro opere su un tema dato. Il passo ulteriore è l’abbinamento del materiale selezionato. Questo non concede la massima libertà, d’altro canto crea spesso nuovi legami, magari forieri di impensate riletture. Come nel caso del tuo racconto, che come dici è un anelito che va oltre quei fucili spianati, o la sala delle torture che campeggia a tutta pagina. Però è anche vero che quegli elementi, brutali, sono lì, in primo piano. Colpa, polizia, stato oppressore, commissario, tortura. Sono parole del racconto, anche se sono il preludio all’uscita “metafisica” di cui parli, una presentazione della crisalide che poi si rivela essere il personaggio, stretto nella sua metamorfosi incompiuta, nel tentativo di oltrepassare quel confine-sfumatura che dal nero (non dal noir) porta all’azzurro. Noi abbiamo voluto buttare in faccia il nero al lettore, per poi fargli scoprire, se vuole e se ne ha le capacità, l’azzurro. E poi chissà, magari a qualcuno di loro piacerà vedere Buñuel con in sottofondo i Korn, no?


NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI, ILLUSTRATORI E FUMETTISTI. La rivista letteraria semestrale “La Luna di Traverso”, edita dalla Casa editrice Monte Università Parma e dall’Associazione Culturale A.p.s. “Lunatici”, condivisa e supportata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma, bandisce per l’edizione n°34: TEMA DEL CONCORSO Quanti mondi si nascondono dietro una sola espressione? qual è la differenza tra umorismo e comicità? Oggi la Luna vi lancia, tra tutte, la sfida più difficile. Indossate il vestito della commedia e suonate al ritmo di una risata. Siate il comico che denuncia, oppure il comico che intrattiene. Siate il comico che smaschera le imperfezioni della società, oppure indossate voi la maschera: scegliete una definizione e fateci ridere. Art. 1 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto a giovani autori operanti nei settori della Narrativa, della Fotografia, dell’Illustrazione e del Fumetto residenti, domiciliati, studenti o lavoratori nel territorio nazionale. Si richiede materiale inedito, in lingua italiana, che non sia stato premiato in altri concorsi o già pubblicato, anche parzialmente, oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è totalmente gratuita. Art. 2 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 6400 battute, spazi inclusi. Fotografie: si ammettono per ogni autore da 1 a 5 fotografie, originali e inedite, in bianco e nero o a colori, dimensioni massime 22x22 cm. È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi. Illustrazioni: si ammettono per ogni autore da 1 a 5 tavole, originali e inedite, in bianco e nero o a colori, del formato di dimensione massima 22x22 cm. È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom,con risoluzione minima 300 dpi. Fumetti: si ammettono un massimo di 2 tavole in bianco e nero o a colori, in cui sviluppare un racconto e realizzarlo con tecnica a libera scelta, del formato di dimensione massima verticale 14x19 cm. È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi. Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore o fumettista si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti (Narrativa, Fotografia, Illustrazione, Fumetto) dovranno essere obbligatoriamente accompagnate da: una breve biografia dell’autore (massimo 800 battute, per evitarne tagli arbitrati) corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Farà fede il timbro postale. Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. I materiali dovranno essere inviati via mail a: lalunaditraverso@gmail.com Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta tradizionale, facendole pervenire al seguente indirizzo: ASSOCIAZIONE CULTURALE APS LUNATICI, via Volturno n°13, 43125, Parma (PR). Art. 3 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato e utilizzato dalla redazione per letture e reading, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata, nemmeno parzialmente, né immessa nella rete Internet. Art. 4 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “La Luna di Traverso”, in formato cartaceo e digitale. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti e materiali già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione redazionale saranno inappellabili. Partecipando all’eventuale selezione, si concede il diritto, a titolo gratuito, di prima edizione delle opere inviate senza avere nulla a pretendere come Diritto d’Autore. Art. 5 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 2 settembre 2013. INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti indirizzi di posta elettronica: lalunaditraverso@gmail.com – info@lunatici.net – redazione@lalunaditraverso.it www.lalunaditraverso.itt | www.lunatici.net

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REDAZIONE Silvia Bia è nata a Parma il 29 febbraio e per questo le piace credere che non invecchierà mai. Giornalista professionista, è sempre in cerca di novità e progetti in cui lanciarsi, a volte anche follemente. Lunatica di nome e di fatto, ama viaggiare, scrivere e adora il Giappone e i manga. Non sa ancora cosa farà da grande. Enrico Cantino, il Segretario fa parte della “Banda Lunatica” da un po’. Ha 47 anni, una laurea in Materie letterarie, un libro nel cassetto (riguardante le tecniche narrative dei cartoni animati giapponesi), un nuovo blog (il primo si è rotto) all’indirizzo abatelunare.tumblr.com e tre o quattro passioni. Non di più, perché preferisce concentrarsi su poche cose per volta. Massimo Carta è nato e vive a Parma. In una vita precedente ha scritto alcune raccolte di racconti, collaborato con quotidiani e riviste locali, letto molto di ciò che poteva trovarsi in forma scritta e ha fondato nel 2001 assieme a pochi coraggiosi, La Luna di Traverso. Carlotta Fiore è nata nell’agosto del 1983. È da sempre innamorata dell’America, specialmente dopo averla incontrata. Combattuta tra l’amore per la scrittura e la passione per la recitazione ha deciso di diventare critica cinematografica. Se si rivelasse la scelta sbagliata ricorrerebbe al piano B: trasformarsi in una cantante country. Roberta Gatti è nata e vive a Parma. Pur collaborando da anni con una rivista letteraria, si trova in imbarazzo ogni volta che si tratta di scrivere. Anche la sua biografia. Laureata in Lingue e Letterature straniere con una tesi su David Garrick, deve essersi montata la testa e insieme a un manipolo di eroi sta tentando di gestire un piccolo teatro di provincia. Armando Minuz è nato a Pieve di Cadore nel 1975. In quell’anno Frank Zappa sciolse i Mothers of Invention e il buon Dio, nella sua infinita misericordia, decise di bilanciare il Karma negativo del mondo destinando il Nobel a Montale e facendo nascere il piccolo Armando. Per il resto non successero grandi cose. Giunto oltre i 30, vanta oggi una laurea in Letteratura Italiana sulla retorica e il comico nelle opere di Luigi Malerba (relatore l’immenso e funambolico Marzio Pieri), collaborazioni con alcune case editrici, alcuni amori e amicizie indimenticabili (molti dei quali consistenti in libri, cd, film). È il chitarrista del miglior gruppo della storia del rock mondiale dopo gli Who. Il miglior gruppo del mondo, davvero. Solo che il mondo non vuole proprio rendersene conto. Federica Pasqualetti, la Vicedirettrice, è nata nel giorno più lungo dell’estate e per questo ha un pessimo carattere. Ha fatto un po’ di cose: l’archeologa, la libraia, la scrittrice. Si occupa di enogastronomia e cucina ma non fa tutorial online. Sopra ogni cosa: B. Vian, A. Jodorowsky, E. Lee Masters, E. Carnevali, W. Shakespeare, H. Selby J., C. Pavese, R. Arenas, R. Carver, L. Ferlinghetti, J. Fante. Nel cuore: F. Kalho, C. Claudel e i Joy Division. Se fosse nata maschio avrebbe fatto il pugile. O il pirata. A volte ha un blog: writing.infraordinario.it Silvia Pelizzari in 29 anni di vita ha capito che quello che conta davvero è la messa in piega. In subordine, la letteratura. Si appassiona alle scrittrici suicide e a certi autori americani contemporanei. Voleva fare la giornalista ma poi i programmi sono cambiati. Ora cerca di leggere tanto e bene, pensarci e rielaborare con parole sue. È una grande sostenitrice del punto e virgola; il suo blog è babbazza.wordpress.com Andrea Rabaglia è nato in contemporanea al Festival “Mattatoio Rock” di Roma. Più precisamente: una settimana esatta prima che Paul Simonon distruggesse il suo Fender Precision sul palco del Palladium di New York, immagine immortalata sulla celebre copertina di London Calling. Laureato in Lettere Moderne, vive e lavora a Parma, ma appena può cerca conforto tra le cime dei monti. Concetto Scuto a 14 anni compra la sua prima telecamera, a 16 anni s’innamora del cinema francese e della letteratura americana. Con il tempo diventa filmaker. Prende una laurea al D.A.M.S. di Bologna in Storia del Cinema. Dal 2011 fa parte della scuola di sceneggiatura di Carlo Lucarelli “Bottega delle Finzioni”. Ha collaborato con la fondazione “Federico Fellini” sullo sviluppo di alcuni suoi soggetti inediti. Lavora come libraio. Andrea Tinterri è laureato in Lettere Moderne, frequenta il corso magistrale in Storia e Critica delle Arti e Spettacolo. Nel 2010 pubblica un racconto sull’antologia “Trenta Secondi di Universo” pubblicata dalla Marcos y Marcos. Ha collaborato con lo CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma. È nel consiglio direttivo di “Monumenta” Associazione culturale per la difesa dei beni culturali e urbanistici di Parma.

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MATTATOIO N° 2012 2012 - Anno 12 - n° 32 - MUP Editore - € 5,00

Registro Tribunale di Parma n°14 del 5/9/2005 Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 da Pressup - Roma.


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