Periodico telematico quadrimestrale a carattere tecnico-scientifico di Psicologia con sede a Chieti in Via Vicoli, 11
Direttore Responsabile: Michele Mezzanotte Proprietario: Valentina Marroni Editore: Ass. L'Anima Fa Arte Web Master: Matteo Colangeli Curatore: Valeria Marroni Iscrizione al Tribunale di Chieti n.6
La collaborazione è aperta a tutti gli studiosi. Gli eventuali articoli (max 20000 caratteri spazi inclusi) e i libri per le recensioni vanno inviati alla redazione: info@animafaarte.it
Immagine in Copertina: Jasper Johns Figure Zero, 1959 Encaustic and collage on canvas
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Rivista di Psicologia Quadrimestrale www.animafaarte.it N.0 Settembre 2012
INDICE EDITORIALE, p.3
• Piero Di Prinzio HYBRIS E SECOLARIZZAZIONE NEL NIBELUNGENLIED (PRIMA PARTE), P. 5
• Michele Mezzanotte E DIO CREO' L'UOMO A SUO ODIO E SOMIGLIANZA P. 13
• Gianpio Colarossi LA SPERANZA DELLA PRIMA DONNA P. 19
• Paolo Battaglia LA NECESSITA' DI DEFINIRE LA CREATIVITA' P. 23
• Monica Isabella Ventura L'ESSENZA DEL CORPO P. 27
• Barbara Cipolla L’ARTETERAPEUTA NEI LABORATORI DI ARTE TERAPIA DI GRUPPO PER BAMBINI P. 31
• Valentina Marroni, Michele Mezzanotte INTERVISTA A CLAUDIO WIDMANN P. 37
C
C on questo editoriale "zero" introduco i lettori al numero prototipo della rivista di psicologia "L'Anima Fa Arte". Innanzitutto un ringraziamento doveroso è dedicato agli scrittori "zero" che hanno appoggiato questo numero "zero" e ai lettori "zero" che si accingeranno a leggerlo. "L'Anima Fa Arte" sembra un titolo un pò strano per una rivista di psicologia, tuttavia proverò a descriverlo meglio. Tutto è nato tempo fa quando io e la dott.ssa Valentina Marroni decidemmo di provare e provarci in una serie di interviste psicologiche ad artisti. grazie all'opportunità dataci da Magda Tirabassi nella sua rivista culturale "Il Risveglio di Ebe". Il titolo che ne uscì fuori fu "L'Anima Fa Arte". In questa rubrica ci siamo trovati immersi in toto nella profonda dinamica della psiche, ovvero nella sua potenza (etimologia di dinamico). Abbiamo assaggiato le alte maree e le secche bonaccie che, a capriccio, ci si mostravano davanti agli occhi, specchi dell'anima. Un'esperienza indimenticabile che ci ha portato a intitolare la nostra rivista "L'Anima Fa Arte". Approfondiamo insieme, brevemente per quanto possibile, i concetti di "anima", "arte" e "fare". È un lavoro quanto meno titanico poichè sono millenni che l'uomo prova a discutere di anima e di arte senza tuttavia arrivare ad una verità, perlomeno toccando di volta in volta conclusioni valide parzialmente e in quel dato tempo: verità assolute in relazione ad un tempo e uno spazio. L'anima è, in maniera più generale possibile, l'energia vitale che percorre l'uomo, senza addentrarci in discorsi causalistici o finalistici. L'arte, invece, è sicuramente un mezzo attraverso cui l'anima si esprime ed è espressa sia in attivo che in passivo. Il fare è un produrre, un operare (opus alchemicus), un attivarsi dell'anima che si concretizza con l'arte e nello stesso tempo è portavoce della prima. Un ouroboros di energie che possiamo solo vivere appieno facendo psicologia, facendo anima in onore della bellissima fanciulla alata : Psiche. La psicologia vive nell'arte, ovvero in quell' "ar" che, etimologicamente, vale per "andare verso",
"protendere", "mettersi in moto", "muoversi verso qualcosa". Il movimentoi diviene esso stesso un mezzo per amare ed odiare l'anima, per assaporarla e farsi assaporare. La psicologia nacque come un movimento, ovvero un'arte, come ci suggerivano anche i padri della psicoanalisi; ma fu anche una novità, e di novità parlava: sorprendeva, sconvolgeva, faceva discutere, ammaliava e faceva innamorare e odiare, viveva. Col tempo la psicologia si è iniziata a cristallizzare, cercandosi in standardizzazioni e medicalizzazioni: parzializzandosi. La psicologia oggi ha sicuramente perso sorpresa e movimento. Così col passare degli anni vediamo sorgere nuovi concetti, nuove disposizioni e nuove patologie per spiegare l'anima/psiche dell'uomo. Pian piano, oso dire che, la psicologia si è ammalata nella fissazione della patologia. Permettiamoci ora, noi addetti ai lavori, un piccolo gioco di proiezioni. Una persona che cerca patologie ovunque è patologica in quanto proietta negli altri la sua patologia. La psicologia è patologica. Ovvero ha preso come linguaggio (logos) prediletto il pathos (la sofferenza), cercando di fissarlo. Un pathos fissato ha ben poco di pathos. Infatti nell'antica grecia, due erano le energie principali che muovevano l'anima dell'uomo: il pathos e il logos. Nel termine patologia vi sono tutti e due, un'enantiodromia che permette il senso psicologico della vita. Purtroppo oggi la psicologia, dati i tempi positivisti e scientifici, si è adagiata sul logos dell'anima tralasciando il pathos. Tutti i propositi iniziali sono andati via via morendo e scomparendo. Si sono spenti nel tempo. Com'è tipico dell'uomo e delle sue difese, si è cercato di normalizzare e di mettere a tacere il pathos, tenendo tutto sotto controllo e spiegando ogni "moto" dell'anima, ogni sua arte. Incasellamenti, etiche ed etichette per controllare una dinamica psichica. Ed eccoci finalmente arrivati al nostro numero "zero". Lo zero nasce storicamente con i babilonesi, che lo segnavano attraverso due cunei
Editoriale inclinati, dall'esigenza di riempire spazi vuoti. Con il passare dei millenni ha assunto un valore fortissimo, tanto che è diventato quasi impossibile spiegarlo in poche righe e ci vorrebbero trattati capaci di ripercorrere tutto il vuoto dell'umanità. Vediamo, arrivati a questo punto, un moto di energia provocata dal movimento teso a riempire spazi vuoti, domande, quesiti, dubbi. Ora, una piccola domanda: il simbolo della psiche e dell'anima non è forse il cerchio, molto simile alla rappresentazione numerica dello zero? Ricordiamo le descrizioni alchemiche, in cui l'anima dell'uomo che parte da un caos e da un vuoto primordiale, giunge alla sua pietra filosofale, per poi accorgersi che bisognerà morire e ricominciare dall'inizio. Perfino nella mitologia scinetifica l'universo è spiegato in questo moto di amplificazione, analisi e separazione, fino alla conjunctio e al collasso. L'anima è ciclica e circolare come uno zero, simbolo perfetto per indicare la "dynamis" della psiche. Sia prima che dopo il numero zero c'è tutto un mondo da scoprire, in negativo e in positivo: da dove viene e dove è diretto. Ed è questo l'augurio che faccio a questo numero "zero", chiamandolo anche numero "anima"; una rivista d'anima e d'arte che guarda ai suoi predecessori per andare verso un futuro di riflessioni; una rivista tesa a farsi amare e farsi odiare; una rivista tesa al movimento dell'anima, ad ascoltarlo ed attuarlo; una rivista di psicologia e di pato-logia psichica, che accolga pathos e logos. Prima di addentrarvi in questa lettura vi presento brevemente gli scritti e gli scrittori di questo numero. Iniziando a sfogliare troviamo l'articolo del dott. Piero Di Prinzio, che individua nel Nibelungelied il principio della Hybris, il principio della menzogna. È la prima parte di un lavoro psicologico complesso e completo che avremo l'onore di ospitare nella nostra rivista: l'ingresso della menzogna nella storia dell'uomo. Continuando la lettura, il dott. Michele Mezzanotte presenterà il principio universale dell'Odio. Viaggiando attraverso romanzi, miti e filosofie, butteremo un occhio psicologico su questo principio e sull'utilità analitica che preserva. E' con esemplare intuizione e creatività che il dott. Gianpio Colarossi ci conduce nella psiche e nei
suoi aspetti di finzione attraverso il mito di Pandora: la sciagura degli uomini? Speranza, finzione e femminile si intrecceranno nelle parole dello psicologo. Il dott.Paolo Battaglia ci introduce e chiarisce il concetto di creatività, procedendo attraverso diversi pensatori storici, per approdare all'applicazione terapeutica della creatività. La psicoterapia diventa un veicolo maieutico di espressione creativa, vettore di conoscenza psicologica e non solo. In seguito troveremo una proposta di lettura psicologica da parte della dott.ssa Monica Isabella Ventura che ci apre all'approccio bioenergetico, con il quale si va alla ricerca dell'immagine di massima espressione di libertà del corpo: l'essenza del corpo. Proseguendo incontreremo l'articolo della dott.ssa Barbara Cipolla che descrive la pratica e l'esperienza arteterapeutica in laboratori con i bambini. Infine, il dott. Michele Mezzanotte insieme alla dott.ssa Valentina Marroni, hanno incontrato per "L'anima Fa Arte" il dott. Claudio Widmann che parlerà di psicologia, e non solo, attraverso una gustosa intervista per immagini. A questo punto vi auguro una buona lettura, ringraziandovi per aver dato fiducia a queste pagine psicologiche che con umiltà si presenteranno a voi come pubblico lettore e partecipante. Michele Mezzanotte
i personaggi principali della Canzone dei Nibelunghi trovano la loro origine nella mitologia norrena: Sigfrido, Brunilde e Crimilde sono presenti nella saga dei Völsungar e nell’Edda poetica con i nomi di Sigurðr, Brynhildr o Sigrdrifa e Grimhildr.1 Il Nibelungenlied è un’opera unitaria, scritta in medio alto tedesco, di autore ignoto, ma probabilmente austriaco, redatta all’inizio del XIII secolo. In essa sono presenti motivi epico-eroici e cortese-cavallereschi, calati caratteristicamente in un contesto storico, secolarizzato. Il movimento verso il Sud (Sigurðr e Sigfrido, entrambi viaggiano verso Sud2), dall’epoca vichinga al medioevo, si accompagna alla cristianizzazione, al passaggio dal tempo mitico a quello storico, all’avvento dell’uomo odisseico, l’uomo mai sazio, che non si accontenta, che calcola e differisce: in una parola all’ingresso della menzogna nel tempo dell’uomo. Possiamo a ragione considerare la canzone dei Nibelunghi una metafora calzante del tempo moderno e del tempo attuale, in cui i ruoli di potere e di privilegio non sono assegnati per merito. Non da Dike, la giustizia, ma da Hýbris, l’arroganza, la tracotanza, la prevaricazione, la superbia e l’orgoglio, la dismisura e l’eccesso. Nel mondo greco la Hýbris configurava anche un reato specifico, il cui movente non era la necessità o l’utile, ma il superfluo. La Hýbris realizza in chi se ne macchia una colpa che non si estingue, che si radica nella stirpe ben oltre il confine dell’individuo colpevole, perché fonda una costruzione, per quanto imponente, per quanto magnifica, su una debolezza iniziale, su una base inesistente: l’atto iniziale è la mancanza di verità. Se, per dirla con Solone, la Hýbris è figlia di
Coros, la sazietà, il voler di più di ciò che è già sufficiente, abbandonare la sufficienza della verità per una alternativa che appare superiore alla sufficienza, e quindi alla verità stessa, rompe un’armonia divina e attiva Némesis, senza porle limiti di tempo o di spazio. I Burgundi di Worms sul Reno, il re Ghunter (Gundecario), Attila, Teodorico sono tutti personaggi storici: la stessa strage (20.000 Burgundi) che segna la fine del primo regno dei Burgundi è effettivamente avvenuta per mano degli Unni, arruolati dal generale Flavio Ezio, nel 437. I discendenti della casa di Gundecario si vendicheranno di Attila nella battaglia dei campi catalaunici nel 451. Nella mitologia norrena Hýbris non è ancora manifesta. Lo stesso Loki, il dio più malvagio, non mente: nella celebre Invettiva3, le accuse che l’Asi rivolge agli altri convitati sono tutte fondate. E Loki anche altrove, e fino alla fine, si assume ogni volta la responsabilità della propria malvagità, se di malvagità si può parlare. A nessuno tace il rischio connesso al possesso dell’oro, più tardi conosciuto come l’oro dei Nibelunghi o del Reno. È stranamente lo stesso liquido umore di serpente che bagna sia Sigfrido che Loki, sangue nel primo caso e veleno nel secondo, fonte di invulnerabilità per il primo e di eterno bruciante tormento per il secondo4. I nove mondi di Yggdrasill sono un immenso antro di Circe dove il confine tra uomo e animale è così permeabile e temporaneo da essere di fatto inesistente e la forma manifesta dell’essere è sempre finalistica e non sostanziale. L’altro, il resto, se c’è, si configura in modo estemporaneo e mai definitivo: tutto si svolge in effetti su un piano di parità, espressione permanente del potere unificante del mito; e i ruoli si assumono con contratti a termine, dettati dalle necessità contingenti delle trame da rappresentare.
Piero Di Prinzio Gli attori sono eclettici e versatili e chi oggi interpreta il nemico, bene domani può vestire il ruolo dell’alleato, senza scandalo, senza mostruosità. Nessun atto si sottrae al compenso che gli spetta o al risarcimento che gli è dovuto; che sia per gioco, per caso o per scelta, la responsabilità dell’atto è definitiva. Ogni atto è finale e irrevocabile; umile, ingenuo, crudele, sempre impeccabile e fiero. È il regno della magia seidr5 incontrastato dominio del femminile, mutevole e permanente ad un tempo. Mondo ricco di sorgenti, in cui l’equazione occhio, ninfa, sorgente, conoscenza, serpente, già attestata nel mondo greco ed ebraico, è continuamente ribadita6. Nel Nibelungenlied, e siamo ormai nell’ambito della letteratura medievale tedesca del XIII secolo, l’ultima dichiarazione non ibrida la fa Sigfrido, appena arrivato a Worms, a Gunther. E da qui inizia definitivamente il tempo dell’esteriorità, dei bei vestiti, dell’etichetta cortese, dell’oro e del calcolo politico. Tempo della Hýbris e dell’errore di sistema che in essa si annida, che prelude inevitabilmente alla catastrofe, all’arresto del sistema stesso. Poiché Hýbris e menzogna si equivalgono nell’escludere verità e giustizia. Poiché dietro la menzogna non c’è l’Intento castanediano7, non c’è la megin8 vichinga. Così si palesa Sigfrido, forte dei soli dodici cavalieri del suo seguito, per la prima volta al cospetto di Gunther re dei Burgundi: « La mia testa ed il mio onore do in pegno di ciò. Se voi siete così valoroso come si dice, allora io non domando se uno è simpatico o no, voglio prendervi quello che vi appartiene. Terra e castelli sottoporrò alla mia spada »9. Sigfrido non è più l’orfano allevato da un nano10 in una bottega di fabbro, ma è il giovanissimo, appena armato cavaliere, principe di Xanten, figlio del re Siegmund e della regina Sieglinde. Xanten e Worms sono due città entrambe sul Reno, la prima a Nord e la seconda a Sud sulla riva destra; sullo stesso fiume, così noto per il suo oro e per la maledizione a quell’oro vincolata. L’antefatto eddico11: Sigfrido appartiene alla stirpe dei Völsungar , che ha origine da uno dei figli di Odino (figlio non incluso tra gli dèi maggiori né tra quelli minori, piuttosto incarnazione di una sua qualità) il cui nome, Sigi (vittorioso), è attributo dello stesso Odino. La
stirpe inizia con un crimine meritevole di espulsione: Sigi si macchia d’infamia uccidendo per invidia uno schiavo.12 Accompagnatolo fuori dal paese, Odino gli procura una nave da guerra e Sigi inizia una brillante carriera di pirata o di Vichingo, che è lo stesso. Il figlio di Sigi, Rerir, eredita dal padre il titolo di re, terre e ricchezze ma non riesce ad avere a sua volta un figlio dalla donna che ha sposato. Odino interviene inviandogli a mezzo di una Valchiria, figlia del gigante HrÍmnir, una mela13: mangiatala la moglie di Rerir rimane incinta, ma la gravidanza va per le lunghe, nove inverni addirittura, fino a quando la donna, perso anche il marito, decide di farsi estrarre il figlio dall’utero. Il bambino nasce tanto cresciuto da poter baciare la madre morente: il suo nome è Völsungr, da cui verrà denominata la stirpe. Völsungr sposa la valchiria figlia di HrÍmnir ed insieme hanno undici figli. I primi due sono gemelli: un maschio, Sigmundr, e una femmina, Signý. Nella casa di re Völsungr cresceva un grande melo, il tronco nell’atrio e la chioma fiorita, fuori, sul tetto: era chiamato il tronco dei bambini. La sera del matrimonio di Signý uno sconosciuto, cieco da un occhio, coperto da un grande mantello, si presentò alla festa e infisse fino all’elsa una spada nel tronco dei bambini: l’avrebbe avuta in dono solo chi fosse stato capace di estrarla dal tronco. Lo sconosciuto era Odino e mai una spada migliore di quella era stata forgiata. Tutti provarono ad estrarla, solo Sigmundr ci riuscì. Il re Siggeir, marito di Signý, offrì tre volte il peso in oro della spada per averla, ma Sigmundr rifiutò. Quando in seguito Völsungr ed i suoi figli si recarono nel regno di Siggeir a far visita a Signý, Siggeir uccise in combattimento Völsungr e prese prigionieri i suoi figli; li espose nella foresta ed ogni notte una vecchia lupa ne divorò uno, tutti tranne Sigmundr che si salvò grazie ad un espediente di Signý. Con l’aiuto della sorella, Sigmundr sopravvive nascosto nella foresta. Ha addirittura un figlio da lei14, e padre e figlio restano nella foresta sotto sembianza di lupi. Consumata la vendetta sulla casa di Siggeir, e rientrato in possesso della spada, Sigmundr, dopo alterne vicende di battaglie e di amori contesi, di
Hybris e secolarizzazione nel Nibelungenlied veleni e tradimenti, si sposa, resta vedovo, perde il figlio e finalmente si reca a Sud. A Sud, nel paese dei Franchi, Sigmundr sposa HjördÍs, figlia del re Eylimi. Ma alla donna aspira anche il figlio di re Hundingr, che raccoglie un esercito e muove contro Sigmundr. Sigmundr, benché vecchio, non si sottrae allo scontro. In battaglia lo contrasta un uomo con un occhio solo, coperto da un cappello cadente ed da un mantello: la spada di Sigmundr si spezza colpendo la lancia dello sconosciuto. È la fine per Sigmundr. Il figlio di Hundingr però non riesce a trovare HjördÍs, che si è nascosta travestita da schiava nella foresta; si convince di aver sterminato l’intera stirpe dei Völsungar. Nella notte HjördÍs si reca sul campo di battaglia alla ricerca di Sigmundr. Il marito morente le dice di aver perso il favore di Odino e le raccomanda di conservare i due pezzi della spada per il loro figlio, che essa porta nel ventre. Morto Sigmundr, HjördÍs continua a nascondersi nella foresta come schiava fuggitiva. Ma un Elfo soccorritore15 la riconosce e la sposa. Il figlio di Sigmundr ebbe nome Sigurðr e fu affidato al nano Reginn10 fabbro di Hjálprekr che lo allevò. Sigurðr-Sigfrido ebbe da Odino il cavallo Grani figlio di Sleipnir16 e Reginn gli riforgiò la spada di Sigmundr a cui venne dato il nome di Gramr. Reginn inoltre raccontò a Sigfrido la vicenda del tesoro del nano Andvari17 e lo indusse ad impossessarsene. Dopo aver vendicato il padre sterminando i figli di Hundingr, Sigfrido affronta, come promesso a Regin, il serpente Fáfnir17. La strategia proposta da Regin consiste nello scavare una buca da cui Sigurðr potrà colpire il drago al ventre mentre questo striscia per recarsi a bere. Tuttavia Odino consiglia a Sigfrido di scavare più di una buca per non affogare nel sangue del serpente. In una versione del mito il sangue di Fáfnir morente bagna tutto il corpo di Sigfrido rendendolo invulnerabile tranne in un punto tra le scapole, accidentalmente coperto da una foglia di tiglio: in quel punto lo colpirà per ucciderlo Hagen di Tronje nel Canto dei Nibelunghi. In un’altra versione Sigurðr cuoce per Reginn il cuore di Fáfnir, lo saggia col dito per accertarsi dell’avvenuta cottura, si scotta e si porta il dito alla bocca: il contatto del sangue del serpente con le
labbra lo rende in grado di intendere il linguaggio degli uccelli. Da due cinciallegre apprende così che Reginn ha intenzione di ucciderlo per impossessarsi del tesoro e vendicare contemporaneamente Fáfnir di cui è fratello. Sigurðr decapita Reginn, mangia il cuore di Fáfnir, ne beve il sangue e si appropria del tesoro dei Nani, nonostante lo stesso Fáfnir morente gli avesse raccomandato di non farlo, mettendolo in guardia per la maledizione associata. Sigurðr si dirige a Sud. Arrivato alla Collina della cerva vede sulla sommità una gran luce come di un fuoco alto fino al cielo. Circondato da un bastione di scudi, nella luce giace un guerriero in armatura. Sigurðr gli toglie l’elmo e si accorge che è una donna18 è la valchiria Brunilde (SigrdrÍfa) dormiente19. Con la spada Gramr Sigfrido fende l’armatura della valchiria e Brunilde si sveglia. Così un destino fissato in tempi remoti si compie: i due si scambiano promessa d’amore. Brunilde gli offre la coppa del ricordo, su cui sono incise le rune20, con la conoscenza21. Sigfrido continua il suo viaggio verso Sud fino alla casa del potente re Heimir. A questo punto il racconto si fa poco organizzabile per il fenomeno noto della duplicazione dei modelli e l’adozione di schemi alternativi22 della mitologia norrena e per quella caratteristica tipica del mito, e dei sogni, che non rispetta e non si attiene alla successione logica o temporale. Heimir è cognato di Brunilde che qui Sigfrido sembra incontrare per la prima volta e di cui si innamora, a cui giura di nuovo eterno amore e a cui dona l’anello di Andvari. Tappa immediatamente successiva del viaggio di Sigfrido è il paese dei Nibelunghi, il popolo della nebbia: re Gjúki, sua moglie la maga Crimilde ( Grímhildr: valchiria mascherata ), i loro figli Gunnar, Högni, Gothormr e la figlia Goðrún. Goðrún fa sogni angosciosi23 e si reca da Brunilde perché li interpreti: la valchiria preannuncia a Goðrún il tragico destino24 che attende tutti loro. Goðrún non può non rendersi conto dell’amore che Brunilde porta a Sigfrido. Crimilde, sebbene altrettanto consapevole dell’amore che lega Sigfrido e Brunilde, ritiene vantaggioso per la casa di Gjúki che Sigfrido sposi sua figlia Goðrún: è la nascita della Hýbris. Somministra dunque a Sigfrido la bevanda
Piero Di Prinzio
dell’oblio: Sigfrido dimentica Brunilde e sposa Goðrún25 Non soddisfatta Crimilde consiglia al figlio Gunnar di chiedere in moglie Brunilde. Ma per avere Brunilde bisogna superare il bastione di fuoco che ne circonda la casa. Il cavallo di Gunnar indietreggia davanti alle fiamme. Gunnar allora chiede a Sigfrido di prestargli Grani, ma anche il cavallo di Sigfrido, non riconoscendo in chi lo monta il legittimo padrone, si rifiuta di attraversare le fiamme. Gunnar a questo punto chiede a Sigfrido di travestirsi e di spacciarsi per lui e in questo modo ottenergli in moglie Brunilde. Grani non ha, ora che porta Sigfrido, difficoltà ad attraversare il bastione di fiamme. A Brunilde Sigfrido dice di essere Gunnar: Brunilde e Sigfrido passano tre notti insieme. Congedandosi, Sigfrido riprende a Brunilde l’anello di Andvari. Alquanto oscuro al riguardo è il particolare della spada Gramr posta nel letto tra i due amanti26. Sembrerebbe un modo per evitare i rapporti sessuali, ma l’episodio di Áslaug27 pare escluderlo. Brunilde è tenuta a sposare solo chi è stato capace di varcare il bastione di fiamme: deve dunque seguire Gunnar. In seguito ad una disputa, tipicamente femminile, su chi sia il migliore tra i loro mariti, Goðrún, per vantare la superiorità del valore di Sigfrido rispetto a Gunnar, rivela a Brunilde l’inganno di cui è stata vittima: le mostra a riprova l’anello di Andvari ora in suo possesso. Brunilde ammutolisce. Si chiude sempre più nel suo dolore e medita vendetta, nonostante i tentativi consolatori di Goðrún e le spiegazioni di Sigfrido. Convince Gunnar ad uccidere Sigfrido: dell’omicidio si incarica il fratellastro Gothormr, non vincolato a Sigfrido da giuramenti di fedeltà. Al terzo tentativo Gothormr trafigge Sigfrido addormentato trapassando corpo e letto con la spada. Sigfrido ha giusto le forze per tagliarlo in due con Gramr. Alla morte di Sigfrido, le coppe nella sala vibrano, le oche starnazzano e Brunilde vomita veleno. Brunilde veste l’armaturra e si trafigge con la spada: sulla stessa pira bruciano i corpi di Brunilde, Sigfrido, Gothormr e di Sigmundr, figlio piccolo di Sigfrido e Goðrún. Goðrún sconvolta dal dolore fugge, vaga nelle foreste e infine si rifugia in Danimarca. Quando scoprono dove si trova, i familiari la recuperano e
Crimilde le somministra la bevanda dell’oblio28. Successivamnete, contro la propria volontà, sposa Attila e va a vivere con lui, sottomettendosi a quello che Crimilde dichiara destino24. Attila, detto nel mito fratello di Brunilde, medita di impadronirsi del tesoro di Sigfrido, ora proprietà dei Nibelunghi29. Fa anche al riguardo un sogno premonitore di sciagura, a cui però Goðrún da consapevolmente diverso significato. Per realizzare il suo scopo Attila invita alla sua corte Gunnar ed i suoi. Goðrún al corrente delle intenzioni del marito cerca di avvisare i fratelli inviando loro delle rune ed un anello a cui ha legato un pelo di lupo. Il messaggero falsifica le rune. I Nibelunghi sono messi in allarme dal pelo di lupo, ma il messaggero li tranquillizza mostrando le rune. La moglie di uno dei Nibelunghi fa un sogno premonitore e un’altra si rende conto della falsificazione delle rune. Benché avvisati, Gunnar e Högni partono ugualmente accettando il destino24. Giunti che sono, Attila dichiara apertamente la sua volontà. Gunnar gli dice che non avrà comunque il tesoro, ormai nascosto sotto le acque del Reno. Nella battaglia che segue, Goðrún in armi combatte a fianco dei fratelli. Catturati, ad Högni viene strappato il cuore e Gunnar viene buttato legato in una fossa piena di serpenti30. Goðrún non accetta da Attila compensi per la morte dei fratelli; vuole solo vendetta. La sua vendetta è terribile: ella uccide i due figli avuti da Attila. Con i loro teschi fa realizzare delle coppe con cui serve al marito il sangue dei bambini mischiato al vino, mentre gli offre da mangiare i loro cuori spacciandoli per carne di vitello. Nottetempo, mentre Attila dorme, Goðrún e il figlio di Högni lo trafiggono con la spada e danno fuoco alla reggia uccidendo tutti i suoi abitanti. Goðrún cerca a sua volta la morte buttandosi in mare, ma i flutti la trasportano nella terra di re Jónakr che la sposa e con il quale genera tre figli ed alleva anche una figlia avuta da Sigfrido, Svanhildr31. Anche questa nuova stirpe ha comunque un tragico destino di congiure e vendette: Svanhildr viene giustiziata fatta calpestare da cavalli32, i figli maschi lapidati per consiglio dello stesso Odino. Dopo la morte di Goðrún resta della stirpe solo Áslaug27, figlia di Brunilde e Sigfrido. L’oro dei Nibelunghi, già di Andvari e di Sigfrido, è adesso
Hybris e secolarizzazione nel Nibelungenlied
l’oro del Reno. La canzone dei Nibelunghi: Sigfrido, giovane principe di Xanten, si reca a Sud nel paese dei Burgundi, per ottenere in moglie la bellissima Crimilde, figlia della regina Ute33 e del re Dankwart. A causa della morte di Dankwart, Crimilde è sotto la tutela del fratello Gunther che ha ereditato il regno insieme ai fratelli Gernot e Giselher. A corte è presente anche Hagen di Tronje, personaggio chiave della saga, il cui unico tratto caratteriale tipico degli eroi eddici è la sottomissione consapevole al destino: per tutto il resto Hagen è uomo fin troppo moderno, calcolatore e cinico, assuefatto all’equazione denaro potere. Lungimirante ed aggressivo, riemerge dalla sua falsità per l’ostina fedeltà ai suoi principi, discutibili o meno che siano e per il coraggio, sempre che l’avversario non sia Sigfrido34. Il poema si apre con un sogno di Crimilde, come è avvenuto per Goðrún: essa sogna che un falco35 da lei con amore allevato viene, davanti ai suoi occhi e con suo grande strazio, sbranato da due aquile. Il sogno viene interpretato dalla regina Ute secondo la simbologia cortese: il falco è lo sposo futuro di Crimilde a rischio di morte violenta e prematura. Valori fondamentali nel dipanarsi del lungo racconto che segue, noiosamente ribaditi, sono la regola cortese, il rispetto ossessivo dei cerimoniali e delle gerarchie, ma soprattutto l’importanza della ricchezza: dallo sfoggio di preziosi vestiti, ricche armature, feste interminabili e grandiose, cortei chilometrici, il mondo cortese riconosce e attribuisce l’importanza dell’altro. L’oro, nel rapporto sociale, anche e soprattutto quando è donato, sancisce il ruolo, relega chi il dono riceve nella posizione del vassallo. Ed è proprio forse il baricentro della dignità così spostato sull’esteriore che rende necessario dimostrare continuamente il valore individuale con i tornei cavallereschi, messi in scena ad ogni occasione, dalle prime luci dell’alba. La generosità è valore sociale proprio nel momento in cui umilia e sottomette. E la donna, valutata fondamentalmente per la bellezza, per quanto protetta dalla regola cortese, resta nuda proprietà. Crimilde dichiara ad Hagen il suo pentimento quasi proporzionale ai lividi che Sigfrido, l’eroe senza macchia, le ha procurato su tutto il corpo dopo l’alterco poco educato con Brunilde.
E Brunilde alla fine è l’unica donna nel poema ad essere pesata e temuta per un valore che non sia solo la bellezza, ma anche forza e coraggio; quando non è definita strega o essere demoniaco nel momento in cui non si riesce a sottometterla o si ha paura di farlo. Sigfrido è bello, ricco, il più ricco di tutti grazie al tesoro dei Nibelunghi36, ma fondamentalmente è un ingenuo e generoso adolescente, impetuoso e forte ma alla fine non ancora autonomo: Gunther e Hagen, navigati mercanti, lo castigheranno, non sazi di tutti i servizi da lui a loro generosamente resi. La Hýbris è inizialmente di Sigfrido che, sebbene preceduto dalla fama del suo valore, non rivendica Crimilde in virtù di esso, ma preferisce riceverla in compenso del suo servizio non sempre onesto. Bibliografia e note 1 Le fonti relative alla saga sono innumerevoli. Per una loro elencazione si rimanda a G. C. Isnardi, I Miti Nordici, Longanesi, Milano 1991, pag. 400 2 Nella mitologia norrena il Sud è il luogo del fuoco, del calore e della luce, il luogo degli eroi solari (Sigfrido è detto uomo del sud) e della conoscenza per loro mediata dalle Valchirie. In Castaneda, don Juan, e con lui i nativi americani, definisce il Sud come il luogo da cui tutti veniamo e a cui tutti facciamo ritorno. A Castaneda che gli chiede cosa gli accadrà nel giorno della morte, don Juan risponde che tre corvi verranno a prenderlo: quattro corvi allora voleranno verso Sud. Sigfrido, nella canzone dei Nibelunghi, incontra la morte in un suo viaggio a Sud. 3 L’invettiva di Loki: il Lokasenna. Ottenuto il grande calderone per la birra, gli dèi si riuniscono per un grande banchetto: sono tutti presenti, dèi ed elfi, tranne Thor. I troppi elogi rivolti ai servitori suscitano l’invidia di Loki che ne uccide uno e viene scacciato dal convito. Rientrato di forza, Loki inizia ad insultare ad uno ad uno tutti i presenti. A nulla valgono i molti tentativi, più o meno ipocriti, dei presenti, evidentemente consapevoli della fondatezza delle accuse di Loki, per ridurlo al silenzio. Solo il ritorno di Thor, che indifferente alla sua parte di insulti, è pronto a ricorrere al suo martello, convince Loki a darsi alla fuga. Si rifugerà sotto forma di salmone nella cascata di Franangr.
Piero Di Prinzio
4 Il supplizio di Loki. Nonostante sia stato utile e risolutore per gli dèi in tantissime occasioni, Loki supera il segno quando induce il dio cieco Hodr a colpire con un ramo di vischio Baldr, il più amato dagli dèi e dagli uomini, causandone la morte. Il dolore e la furia punitiva di tutti gli dèi lo costringono nuovamente a rifugiarsi nella cascata di Fanangr trasformato in salmone. Muniti di una rete gli dèi, dopo vari tentativi, lo pescano e Thor lo afferra per la coda. Condotto in una grotta Loki viene legato su tre massi aguzzi, con le budella di uno dei figli. La gigantessa Skadi gli appende sulla testa un serpente velenoso il cui veleno gli gocciola continuamente sul viso procurandogli grande tormento. Solo la moglie Sigyn gli resta accanto sostenendo sotto il gocciolio del veleno un recipiente: quando però questo è pieno, è costretta ad andarlo a svuotare ed il veleno cade sul volto di Loki che si agita terribilmente causando i terremoti. Così incatenato, resterà fino alla fine dei tempi, quando parteciperà alla battaglia finale. 5 La magia seidr. Il termine seidr in norreno è connesso etimologicamente al concetto di legare, affine dunque ai nostri affascinare, fascinazione, legature d’amore ecc. Introdotta fra gli Asi dalle dee Vani ed in particolare da Freyja è magia di carattere estatico e per indurre la trance si serve di strumenti musicali ritmici o di funghi allucinogeni. Ha forte connotazione sessuale, fino all’oscenità. E’ appannaggio pressoché esclusivo delle donne di cui riflette il carattere. In Castaneda, don Juan afferma al riguardo della Datura inoxia che la pianta ha carattere femminile, è possessiva e gelosa e predilige stregoni maschi violenti e passionali; più volte ribadisce che le donne sono naturalmente avvantaggiate nella magia ed è per questo motivo che nei gruppi di stregoni (anche la magia seidr è pratica di gruppo) le donne devono essere il doppio dei maschi. Sono molto significative alcune coincidenze concettuali tra la cultura vichinga e quella dei nativi americani, come per il sognare. Alcune assonanze (cognates) linguistiche poi sono sorprendenti: in lingua Dakota la notissima acqua di fuoco è detta minnieWakan, acqua sacra, acqua magica e in norreno il termine minnisveig ( in realtà è veig: bevanda inebriante; mentre magica bevanda è più propriamente gambamsumbl ) indica la sacra bevanda del ricordo. 6 In ebraico, come in accadico, il termine ‘ayn indica sia l’occhio che la sorgente, mentre la radice NHS è comune alle parole serpente e conoscenza.
7 L’Intento nelle opere di Castaneda è la forza creatrice diffusa e sottesa all’intero universo. Riconoscendolo e cavalcandolo, misero guscio di noce su un’onda immane, il mago o più esattamente l’uomo di conoscenza può compiere, agli occhi del profano in prima persona, imprese al di là di ogni immaginazione. 8 Megin insieme a mattr nella magia nordica indica la forza e l’essenza ultima da cui dipende la validità di un’azione. Il motto degli Uomini senza dio – credere nella propria forza (mattr) e nel proprio potere (megin) – somiglia molto alla raccomandazione di don Juan, maestro di Castaneda: il guerriero confida sempre nel proprio potere, piccolo o grande che sia. Ed è quel confiteor che addita e indica con veemenza la parola che per i cristiani è più vicina come significato a intento e megin: Fede, quella fede che è in grado di smuovere le montagne e di compiere i miracoli. 9 Per la Canzone dei Nibelunghi ci atterremo al testo I Nibelunghi a cura di G. V. Amoretti, UTET, TEA 1991 10 Regin, Fafnir e Otr sono nani figli di Hreidmarr. Otr che vive nella cascata Andvarafors (cascata di Andvari) sotto forma di lontra, un giorno ha catturato un salmone e lo sta mangiando ad occhi chiusi. Loki che si trova a passare da quelle parti insieme ad Odino e a Henir, lo sorprende e inconsapevole lo uccide, contento di aver catturato in un colpo solo una lontra e un salmone. I tre dèi chiedono ospitalità per la notte proprio a Hreidmarr e declinano la sua offerta di cibo mostrando le due prede. Scoperta così l’uccisione del familiare, Hreidmarr, Regin e Fafnir catturano gli dèi e impongono loro come riscatto tutto l’oro necessario a riempire e coprire interamente la pelle della lontra. Loki viene inviato a procurarsi l’oro. Il dio prende in prestito da Ran, moglie di Hegir, la rete con cui la gigantessa pesca gli annegati e torna alla cascata. Intende catturare il nano Andvari che lì vive sotto forma di luccio e che possiede un enorme tesoro, di cui fa parte anche un anello che gli permette di accrescerlo indefinitivamente. Andvari pescato è costretto per aver salva la vita a cedere tutto il suo tesoro. Prega però Loki di lasciargli l’anello che gli permetterebbe di ricostruirlo. Al rifiuto di Loki, Andvari maledice l’oro e l’anello e da quel momento essi diventano fonte di rovina per chiunque li possieda. Loki consegna l’anello a Odino. Con l’oro riempiono e
Hybris e secolarizzazione nel Nibelungenlied
ricoprono la pelle di lontra. Ne rimane scoperto solo un baffo: Hreidmarr pretende che anche quello sia rivestito d’oro e Odino lo copre con l’anello. Loki avverte Hreidmarr della maledizione. Regin e Fafnir chiedono al padre una parte del tesoro e al suo rifiuto lo uccidono. Regin chiede al fratello di dividere, ma Fafnir lo minaccia di morte e fugge con l’oro e l’anello: si rifugia in una tana sul monte piana dei detriti dove trasformato in serpente vigila sul tesoro. 11 Per l’antefatto eddico e per le nozioni di mitologia norrena in generale ci siamo attenuti principalmente a G. C. Isnardi, I Miti Nordici, Longanesi, Milano 1991 12 Anche Loki si macchia di una infamia analoga, uccidendo un servitore, come riportato nel Lokasenna, suscitando l’ira e lo sdegno degli dèi. Abusare di un sottoposto o comunque di un essere inerme tanto più se totalmente dipendente, è considerata colpa particolarmente vile e infamante, meritevole di espulsione dal consesso civile. Ai nostri giorni il carattere ignominoso dei reati di viltà è silenziato, in particolare per quel che riguarda gli atti di abuso e di crudeltà nei confronti degli animali. 13 Particolare importanza riveste la mela nella mitologia norrena: custodite dalla dea Idunn, le mele assicurano agli dèi l’eterna giovinezza. Nella mitologia anglo sassone l’isola di Avalon è l’isola dei meli. Nella casa di Volsungr cresce un melo chiamato il tronco dei bambini. Sigurdr è definito melo dell’assemblea delle corazze. La mela è associata alla conoscenza ed alla prosperità. Almeno in un caso la morte è detta mela di Hel, la sovrana del mondo degli inferi ( si pensi alla mela di Grimilde e Biancaneve). 14 I Matrimoni endogamici erano la norma tra gli dèi Vani. 15 Il vichingo Álfr ( elfo ), figlio di re Hjálprekr ( potente nell’aiutare ). 16 Sleipnir è il cavallo ad otto zampe di Odino, nato da Loki e dal cavallo Svadilferi appartenente al gigante che doveva ricostruire le mura di Asgardr. Loki si trasformò in cavalla per distrarre Svadilferi dal suo lavoro ed impedire al gigante di terminare nei tempi stabiliti l’opera (gli era stata promessa Freyja se l’avesse finito prima dell’estate): il piano ebbe successo, Svadilferi inseguì tutta la notte la cavalla, il gigante perse il compenso e la vita ad opera di Thor, e Loki partorì Sleipnir.
17 Vedi nota 10 18 Si pensi ad Achille e Pentesilea come ad una sorta di mito rovesciato. O anche al bacio del principe azzurro che risveglia Biancaneve. 19 Le Valchirie, figlie adottive di Odino, abitano ad oriente della Valhalla dove ha dimora anche il vischio. Brunilde è stata addormentata da Odino con la spina del sopore. L’antefatto: in casa del barbaro Hunding viveva nella miserevole condizione di schiava la bella Siglinda. Sosteneva il tetto dell’abitazione un frassino, nel cui tronco Odino in persona aveva infisso, nel giorno stesso in cui la fanciulla fu venduta come schiava, una spada portentosa che nessuno riusciva ad estrarre. Capitò ospite di Hunding il giovane eroe Sigmund protetto di Odino. Innamoratosi di Siglinda, Sigmund fuggì con lei dopo aver estratto la spada. Hunding li inseguì. Tradire le leggi dell’ospitalità era reato imperdonabile: Odino dovette imporre alla valchiria Brunilde (Sigrdrifa) di non proteggere Sigmud nello scontro con Hunding. La valchiria, commossa dall’amore dei due fuggitivi, disobbedì proteggendo con il suo scudo Sigmund dagli assalti di Hunding. Odino intervenne personalmente spezzando la spada di Sigmud, favorendo così la vittoria di Hunding che l’uccise. Brunilde raccolse i frammenti della spada di Sigmund e fuggì nella foresta con Siglinda, incinta di Sigmund. L’ira di Odino raggiunse la valchiria: la condannò a perdere l’immortalità e a dormire sulla vetta di un monte fino al giorno in cui un uomo l’avrebbe risvegliata e fatta sua sposa. Appellatasi alla clemenza del padre, Brunilde ottenne solo che a risvegliarla non fosse un uomo comune ma un eroe , l’unico capace di attraversare il bastione di fuoco che proteggeva il suo sonno. Siglinda accolta nella dimora del nano Mime, fratello di Alberico, partorì il figlio di Sigmund e morì. Al bambino venne dato il nome di Sigurd che venne allevato nella fucina del nano. Da questo momento il mito è sovrapponibile, con varianti insignificanti, a quello della saga dei Volsungar che già conosciamo: Mime e Regin sono la stessa persona. 20 Il termine runa è connesso ai concetti di segreto, mistero e di bisbiglio, sussurro. Mai nelle lingue germaniche runa ha avuto il significato di carattere o lettera. Sono entità grafiche magiche che racchiudono megin, nel bene e nel male, appartenenti all’origine dei tempi. Si trovano incise sulla coppa della bevanda del ricordo, su
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quella della bevanda dell’oblio e inoltre su zoccoli, orecchie e becchi di cavalli, lupi, e altri animali mitici. 21 Interessante il concetto di conoscenza e ricordo nella mitologia norrena: la conoscenza appartiene ai primordi della creazione. Non a caso i giganti, i primi a comparire, solo connessi alla conoscenza e alle sorgenti. Dunque acquisire la conoscenza è in qualche modo ricordare, ritornare ad uno stato antecedente dell’essere. 22 D. Novacco, a cura di, Dei, Eroi e Cavalieri dell’età medievale, G. Casini Editore, Roma 1976 23 Il sogno ha un ruolo fondamentale nella mitologia norrena. Il sogno è lo stato naturale che permette anche a chi non ha doti magiche di accedere ad altri livelli di consapevolezza, ad altri mondi incluso quello dei morti, e di riportarne previsioni e indicazioni. Il verbo dreima, sognare, è transitivo: il sognato è soggetto e il sognatore oggetto. 24 Più volte nella mitologia norrena, gli dèi o gli uomini accettano il destino come scelta consapevole, nonostante il suo carattere avverso o fatale. 25 Goðrún e Crimilde è probabile che siano in realtà una sola persona. 26 La spada di Artù Excalibur compare tra i corpi di Lancillotto Ginevra addormentati nella foresta. 27 Brunilde, per seguire Gunnar, affida al re Heimir la figlia Áslaug (luce degli dèi) avuta da Sigfrifdo. 28 La gelida bevanda dell’oblio: dal sapore disgustoso ha tra gli ingredienti una spiga, un serpente, acqua di mare ghiacciata, sangue di animali sacrificati. Viene servita in una coppa su cui sono incise rune rosse. 29 Caratteristica dei nibelunghi era il colore dei capelli tipicamente di un nero corvino. 30 Addormenta suonando un arpa con gli alluci tutti i serpenti tranne una vipera che lo uccide penetrandogli nello sterno. 31 Valchiria in aspetto di cigno. 32 Fu necessario coprirle la testa, perché i cavalli indietreggiavano davanti allo sguardo acuto della fanciulla, ereditato dallo stesso Sigfrido. 33 Curioso il fatto che Walt Disney per la regina Grimilde di Biancaneve sembra essersi ispirato alla statua della margravia Uta degli Askani di Ballenstedt, situata nel duomo di Naumburg in Sassonia (XIII secolo), moglie del principe Ekkehard II di Messein, considerata modello di
nobiltà germanica, sfuggita al rogo dopo aver subito un processo per stregoneria e vissuta nel XII secolo, icona femminile della tradizione teutonica. 34 Dopo aver colpito alle spalle Sigfrido, Hagen fugge nonostante l’avversario sia ferito a morte. 35 Il falco nella mitologia norrena simboleggia l’individuo nel periodo di iniziazione che porta un giovane adolescente a diventare uomo, a raggiungere la piena consapevolezza e la coscienza di sé. Ha valore di coraggio e sincerità. Guerrieri vichinghi scelti e giovanissimi, chiamati falchi, conducevano una dura vita austera e disciplinata. Al femminile, si ricorda che le dee Frigg e Freyja potevano assumere forma di falco. 36 Il tesoro non è più quello di Andvari, ma del nano Alberico, del popolo della montagna, i Nibelunghi, vinto e assoggettato da Sigfrido.
Peter von Cornelius - Hagen versenkt den Nibelungenhort 1859 Piero Di Prinzio: Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1981, nel 1993 ha ottenuto il riconoscimento dell'attività psicoterapeutica (Legge 18.2.89 n.56). Dal 2003 al 2005 ha insegnato, in qualità di Docente a Contratto, Antropologia Culturale nel Corso di Laurea Specialistica in Psicologia Dinamica e Clinica della Personalità, presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di L’aquila. Dal 2009 è titolare dell’insegnamento di Antropologia Culturale, Mitologia e Religioni presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia ATANOR ad indirizzo Analitico di L’Aquila, riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Svolge dal 1982 come libero professionista in Chieti l'attività di Psicoterapeuta
N el corso della storia del pensiero e delle emozioni umane, l'Odio ha avuto un ruolo da attore protagonista. In questa piccola dissertazione sull'Odio apriremo la nostra visione ad un Odio filosofico, un Odio mitico e un Odio simbolico: in sintesi un Odio Psicologico. Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza, in questo caso, a suo Odio e somiglianza. L'Odio prenderà vita attraverso Empedocle di Agrigento, Philipp Mainlander, attraverso Ulisse e i suoi viaggi, Stige e la sua sozzura. Inoltre, vedremo come ogni relazione analitica tra pazienti e terapeuti si apre con un doppio atto d'Odio. Iniziamo leggendo di Empedocle di Agrigento del quale sono rimasti, nel corso della storia, numerosi frammenti derivanti dalle sue opere: "Sulla natura" e "Carme lustrale". In questi narra di spiriti i quali, a causa delle loro colpe, si incarnano nei corpi mortali: piante e animali. Empedocle nella sua trattazione afferra i concetti di Amore e Odio e ne fa dei principi generatori e distruttori al tempo stesso. "Duplice dunque è la nascita, duplice è la morte delle cose mortali. La riunione di tutte le cose ne genera e distrugge una; l'altra invece si produce e si dissipa quando di nuovo si disgiungono." 1 L'amore crea e distrugge, e anche l'odio crea e distrugge al tempo stesso. Stupenda è l'affermazione di Empedocle: "duplice dunque è la nascita, duplice è la morte delle cose mortali". Essa ci suggerisce che ogni immagine può avere una doppia nascita e una doppia morte: una nascita d'odio e una nascita d'amore; una morte d'odio e una morte d'amore. Lui stesso all'età di sessant'anni si distrusse gettandosi all'interno del cratere dell'Etna: si suicidò. L'azione dell'odio e dell'amore così come descritta
da Empedocle di Agrigento, è anche uno dei temi fondamentali della "mitologia scientifica" contemporanea. Il famoso Big Bang non è nient'altro che l'espressione fisica della teoria di Empedocle. Da uno sfero, attraverso l'azione dell'Odio, inizia la separazione delle parti fino a che non ritorna tutto in uno sfero ad alternanze temporali cicliche: sfero-separazione, sferoseparazione. Vediamo l'eterno agire di queste forze primigenie che uniscono e separano, creano e distruggono. Proseguiamo dunque, attraverso questo percorso scientifico-speculativo, analizzando un altro pensiero: parliamo ora di un filosofo il quale desiderava che il suo nome andasse dimenticato col passare degli anni, perciò si firmava diversamente come Philipp Mainlander. È con un atto d'Odio che Dio decise di creare il mondo, e non come facilmente pensiamo con un atto d'amore. Sentiamo le parole del filosofo: "Noi sappiamo che, questa semplice unità, Dio, frantumandosi nel mondo, scomparve del tutto e tramontò; in seguito sappiamo che il mondo sorto da Dio, proprio a causa della sua origine da una semplice unità, si trova senza eccezioni in una connessione dinamica e, perciò, in collegamento; sappiamo che il movimento che si riproduce dall'attività delle singole essenze è il destino; infine, che l'unità precosmica è esistita. L'esistenza è il sottile filo che getta un ponte sull'abisso fra la regione dell'immanente e quella del trascendente, e ad esso, per prima cosa, dobbiamo prestare attenzione. La semplice unità esistette: su di essa non possiamo predicare di più in nessun modo. Di quale genere, di quale essere fosse questa esistenza ci è totalmente nascosto. Volendo stabilire però la cosa più prossima, noi dovremmo
Michele Mezzanotte ricorrere ancora alla negazione e affermare che essa non ha alcuna somiglianza con un qualche essere a noi conosciuto, poichè tutto l'essere che noi conosciamo è essere in movimento, è un divenire, mentre la semplice unità era priva di movimento, nell'assoluta quiete. Il suo essere era sovressere." 2 Mainlander sostiene che Dio per creare il mondo, con tutti i viventi che lo popolano, si suicidò; quindi si distrusse e attraverso questo atto d'Odio creativo, generò il mondo, destinato a proseguire in atti di disgregazione. Un'esplosione divina, un Big Bang che creò l'universo e i suoi pianeti. "Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo" 2 "Ma questa semplice unità è divenuta; non è più. Mutata la sua essenza, essa si è frantumata completamente e totalmente verso il mondo del molteplice. Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo." 2 "L'esplosione fu l'azione di una semplice unità, la sua prima ed ultima azione, la sua singola azione. Ogni volontà del presente conserva essenza e movimento in questa unica azione e perciò tutto si connette reciprocamente come un ingranaggio nel mondo." 2 A questo punto risulta facile collegare l'Odio empedocleo con il Suicidio di Mainlander: atti ditruttivi che creano vita. L'inconscio individuale nella psicologia non è nient'altro che un ingranaggio di una più vasta macchina: l'inconscio collettivo. L'unità primaria, che possiamo chiamare nella nostra cultura Dio (inconscio collettivo), si è esibita in un enorme atto d'Odio e di separazione. Si è suicidata, usando l'espressione del filosofo tedesco. Grazie a questa azione creativa hanno preso vita gli individui e le loro singolarità, immerse sempre in un collettivo. Ha preso vita il "molteplice". Come vedremo più tardi in questo articolo, ha preso vita un uomo dal "molteplice ingegno". Il suicidio ci conduce alla vita, secondo Mainlander, infatti, un archetipo fondamentale che ci muove fin dalla nostra creazione è il suicidio, ovvero la morte. Mainlander vide bene: Dio si suicidò e la sua morte fu la vita del mondo. L'archetipo del Dio mainlanderiano si ripete
coattivamente dall'alba dei tempi e noi siamo alla ricerca della morte: una vita per la morte; e questo è molto psicologico. Secondo Hillman, infatti, la domanda del fare anima è: "che cosa sommuovono nella mia anima questo evento, questa cosa, questo attimo? Cosa significano per la mia morte?". 3 Il filosofo tedesco storicizzò il suo pensiero suicidandosi letteralmente e concretamente alla fine del suo scritto. Il fine della vita è la morte. Morte come suicidio e atto creativo. Una morte fisica e psicologica. Una morte trasfromativa. Ricordiamo fonti psicologiche come Freud, Sabina Spierlein e Adler che parlavano di "Morte e Thanatos" come motori fondanti della psiche. Nel setting analitico sono molti gli atti d'Odio e di Suicidio che devono entrare in scena. Nell'analisi odiamo e amiamo, ci suicidiamo e commettiamo omicidi psichici. Ogni omicidio di un personaggio psichico è un suicidio personale, perchè riferito a una nostra parte d'anima. Prendiamo ad esempio i sogni in cui incontriamo personaggi morti, uccisi. Sono atti d'Odio, di distruzione appunto. Tutti quei personaggi sono nostri personaggi. Se sogno di uccidere mia madre, è l'immagine di mia madre che ho ucciso, per cui ho commesso un atto d'Odio verso me stesso, ovvero un suicidio. Questo suicidio dà vita ad altri immaginari, apre nuove prospettive e trasforma. Possiamo affermare che uno dei passaggi fondamentali dell'analisi è il suicidio, la morte intesa sia da un punto di vista d'odio, sia da un punto di vista d'amore. Molti pazienti entrano in analisi perchè non sanno morire. Non sanno suicidarsi: l'analisi è un processo che ci aiuta a suicidarci, a ritirare le nostre proiezioni, a uccidere il mondo amandolo e odiandolo. Cerchiamo di approfodnire ancora di più il concetto d'Odio. Si riconduce Odio alla radice ad con il significato di rodere, ma anche al greco odoys, Dente, Dolore; e al latino edo, Mangiare, che darebbe il senso di rodimento interno, dolore interno. 4 Il rodimento e il dolore interno sono sicuramente riconducibili ad una Nigredo alchemica, una nera energia fortissima, un marasma e un sommovimento di emozioni che ci agisce dall'interno del nostro stomaco e che ci percorre in tutta la sua potenza caotica ed ingestibile.
E Dio creò l'uomo a suo odio e somiglianza Possiamo notare una curiosa somiglianza alle sensazioni di innamoramento, e da questo possiamo capire la forte vicinanza tra le due energie. Quando l'Odio si impossessa di noi ci "sentiamo esplodere". Quindi l'Odio ci avvolge attraverso una situazione nigredica oscura, in cui inziamo a coltivare nuove immagini e il caos ci pervade. Quando si attiva l'Odio dentro di noi, sentiamo una pulsione a dover fare qualcosa, un'energia che ci suggersice un movimento verso qualcuno o qualcosa, un movimento molto forte come se fosse impellente: a quel punto desideriamo la distruzione, il suicidio. Tuttavia non è un suicidio-distruzione fine a se stesso, ma finalizzato a creare nuove opportunità e possibilità. Una distruzione che libera il rodimento interno e il dolore marasmatico. Un'immagine psichica distrutta, genera altre migliaia di immagini, altri pezzi psichici che vagano e vanno ricondotti all'origine, per permettergli di vivere e di acquisire nuova energia. È un quadro generale del processo analitico di scioglimento; di scomposizione di un tutto in elementi semplici. Un desiderio di suicidio come desiderio di trasformazione. "Musa, quell'uom di multiforme ingegno Dimmi, che molto errò, poiché ebbe a terra Gittate d'Ilion le sacre torri... " 5 Il nome Odisseo significa etimologicamente odiare. Così disse Autolico suo nonno: “Nel corso della mia vita mi sono messo in urto con molti principi e chiamerò dunque mio nipote Odisseo, che significa l'odioso, perché sarà la vittima delle mie antiche inimicizie. Tuttavia semmai salirà al monte Parnaso per rimproverarmi, gli cederò parte dei miei possedimenti e placherò la sua ira” Autolico collega il suo mettersi in urto con molti principi con il nome Odisseo, ovvero questo suo agire lo chiama Odio. L'Odio durante la vita gli ha permesso di urtare verso un principio. La parola principio significa che vi è una causa-prima, un principio appunto, e urtandolo Autolico compie un tentativo di Odio: un'operazione di creazione di fattori multipli. Partendo da un principio quindi, lo si può sposare (amare), o lo si può metter in discussione odiandolo e generando altre piccole unità di principio.
Odisseo sarà il portavoce di tutto questo grazie al suo "molteplice ingegno". Autolico, è stato in vita un uomo che ha sempre odiato, quindi, ha sempre creato milioni di possibilità senza amarne neanche una. Odisseo, il nipote, ha la croce di queste "multiformi" suddivisioni e passerà la vita viaggiandone attraverso, per cercare di tornare al principio, allo sfero primordiale: a casa sua, da sua moglie e suo figlio. Ma per farlo dovrà passare per eventi multiformi e userà il suo multiforme ingegno per affrontarli. Abbiamo visto che l'Odio a cui si riferisce Autolico può avere una duplice valenza: una in cui è Odisseo stesso ad essere protagonista e soggetto; la seconda in cui è oggetto dell'Odio. Ora chiediamoci il perchè di tutto questo astio nei confronti dell'uomo dal "multiforme ingegno". Ulisse indica nella mitologia la scomparsa dell'eroe per antonomasia, ovvero di tutte quelle figure mitologiche, come ad esempio Ercole, che vengono sostituite da un altro modo di rapportarsi alla realtà: più ermetico e più multiforme (infattti Odisseo è anche diretto discendente di Hermes). Ergo, una caduta del complesso dell'Io (ricordiamo la figura dell'eroe in James Hillman). Nuovamente possiamo osservare una distruzione di uno sfero (Io), che genera un multiforme ingegno: un "universo psichico" fatto di pianeti, dei, patologie; un suicidio dell'Io. Narrami o musa, dell'uomo dall'agile mente, che tanto vagò, dopo che distrusse la sacra città di Troia "Odisseo, uomo che distrusse la città di Troia, e vagò per vent'anni per trovare la strada di casa e riunirsi alla famiglia." Ponendo sul teatro psichico questa storia, scopriremo un atto psichico ouroborico, un atto d'eterno ritorno. Dopo un lungo periodo di stagnamento, nel quale greci e troiani si affrontavano in campo aperto, Ulisse pone finalmente termine alla guerra attraverso una intuizione: il cavallo di Troia. Odisseo compie un atto d'Odio distruggendo Troia, creando così i suoi vent'anni successivi, nei quali si confronta con il suo atto d'Odio nella separazione di svariati nuclei psicologici (i suoi molteplici viaggi), nei quali affina il suo ingegno. Alla fine come in un tipico copione ouroborico di odio e amore, Ulisse riesce a tornare a casa e unirsi al suo sfero famigliare.
Michele Mezzanotte
L'Odio è una atto di grandi energie, infatti viene iniziato dal cavallo di Troia, simbolo di grande forza ed energia psichica, che dà la fine ad un principio costituito (Troia), inziando così diversi altri pincipi: Enea che fonderà Roma, o Ulisse che parte per i suoi viaggi, e le narrazione degli altri "ritorni" alla fine della guerra. A questo punto c'è un altra prospettiva mitologica da prendere in considerazione: il punto di vista di un fiume infernale che ci apre al secondo atto d'Odio presente all'inizio di un'analisi. In un tempo e in un luogo ormai lontani, c'erano cinque Fiumi immersi nelle profondità dell'Ade, fino a toccare i confini del Tartaro. Fiumi che proteggevano, bruciavano, ghiacciavano, rubavano ricordi nitidamente offuscati. Cinque nomi per cinque fiumi: Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte, Lete. Lete è il fiume del mito platonico di Ur, il mito della rinascita dopo la morte, della scelta del Daimon, l'angelo che seguirà ognuno di noi durante il suo cammino nelle fantasie terrene. Flegetonte, o Piriflegetonte (nome più arcaico), è il fiume del mito della palude ignea e del fiume psichico che brucia parricidi e matricidi, rende inaccessibile il meandro più oscuro della psiche: il tartaro. L' Acheronte è il fiume dalle amare acque, per punizione del divino Zeus, che segna la mitologia del passaggio tra vita e morte, tra mondo notturno e mondo diurno. Cocito è affluente dell'Acheronte, dove le anime prive di oboli (energie psichiche), erano costrette a vagare come ombre lungo le sue rive. E infine il fiume che ci interessa in questo mythos: Styx (Stige, Odio) con la sua palude, la sua sozzura e il suo odio. Stige (in greco antico Styx), ha diverse funzioni nella fantastica storia umana: innanzitutto veniva chiamato dagli Dei a testimone dei loro giuramenti inviolabili, pena un anno in coma e nove anni lontano dai simposi, senza poter gustare del divino nettare ambrosiano; inoltre le acque di questo gelido fiume erano in grado di donare l'immortalità, come capitò all'eroico Achille e non solo. Stige come suggellatore di patti divini, come d'altronde accade in analisi con il patto iniziale. L'analisi dunque inzia con un doppio atto d'odio: il primo è distruttivo o suicidante, il secondo è il patto analitico tra terapeuta e paziente, nel quale si
pongono i termini e le regole analitiche inviolabili e predeterminate, regole a cui non si può venir meno, pena la fine dell'analisi e non solo. Nel nostro temenos analitico è possibile e doveroso invocare la potenza creativa e distruttrice dell'Odio al fine di sommuovere energie, per esempio: le libere associazioni sono un atto d'odio, un suicidio analitico, un partire da uno sfero inizale per abbandonarsi ad altre immagini che nascono dalla sua distruzione e analisi. Lo stesso James Hillman considera il lavoro con le immagini come un atto di Stige: "Inoltre questo lavoro formativo dell'immaginazione è sempre allo stesso tempo distruttivo, deformativo. Per accedere al mondo infero bisogna necessariamente attraversare Stige, superare l'ostacolo della sua odiosa freddezza. Che è inevitabile e non può essere sentimentalizzata. Ogni gesto nel mondo notturno, se è giusto, uccide ciò che tocca. Ci troviamo di fronte a densità, luoghi di violenta resistenza, che si possono penetrare con l'intuizione, un'intuizione che sconvolge e comunica un senso di morte. Il lavoro sui sogni è arduo da compiere per il terapeuta e arduo da accettare per il paziente. Ed è qualcosa che non sembra possibile fare da soli. Forse perchè non è mai possibile vedere dove si è inconsci; ma più probabilmente perchè esiste in noi una resistenza di fondo che si oppone alla distruzione che il lavoro onirico comporta: l'uccisione degli attaccamenti e il disvelamento di profondità immutabili. La regina del mondo infero è Persefone e il suo nome significa: "portatrice di distruzione".6 L'Odio è solo un punto di partenza: apre l'analisi ai viaggi di Odisseo; apre l'analisi ai figli di Stige e la rivoluzione che condussero insieme a Zeus nei confronti del principio generatore Saturno. Conseguentemente l'Odio viene ad essere un'energia fondamentale nei processi di cambiamento e di apertura. Il Suicidio-Odio abbatte lo sfero e crea nuove individaulità dando energia vitale ai suoi figli. L'analisi si apre attraverso un doppio atto d'Odio. Il primo atto è un suicidio analitico, come abbiamo visto in precedenza: il suicidio del pronome indefinito Io. Vi sono in un'analisi atti d'Odio e atti d'Amore, tuttavia parte tutto da un suicidio. Il paziente uccide il suo Io non-paziente, uccide il
E Dio creò l'uomo a suo odio e somiglianza
suo non-essere paziente, introducendosi nelle migliaia di immagini che lo possiedono, e viaggiando odisseicamente attraverso le sue parti e componenti: si apre al multiforme ingegno e al mondo infero. Il nostro obiettivo attraverso l'analisi è la morte, come la morte è l'obiettivo della vita. Entriamo in analisi per morire, per suicidarci. L'archetipo mainlanderiano del Dio che si suicida e crea la vita è un archetipo che vive a pieno l'analisi e le sue storie. Nel contempo bisogna tessere storie, bisogna amare i pezzi che sono venuti fuori dalla distruzione odiosa, bisogna ricomporre e filare i pezzi che si sono suicidati. Il secondo atto d'Odio è il patto analitico con cui paziente e terapeuta cominciano il viaggio psichico. Vi è, oggi, un moto d'Odio nei confronti della psicologia, un tentativo di distruzione. Guardando questo processo dall'ottica di questo articolo comprendiamo facilmente il perchè: la psicologia per creare compie un tentato suicidio ai danni del mondo, attiva l'archetipo del Dio di Mainlander, ci conduce alla morte; l'analisi in un certo senso
uccide, odia ed ama. Odiando attiva contemporaneamente le proiezioni di Odio verso di essa. Purtroppo però per creare vita c'è bisogno di un iniziale suicidio, di un Odio iniziatico, un Big Bang che ci apra le porte ai viaggi odisseici e nuove galassie. Solo la psicologia può reggere un peso simile, solo lei ha la forza di fungere da capro espiatorio per i peccati degli altri. Solo lei può caricarsi del suicidio collettivo che porterà a nuova vita, alla morte e alla rigenerazione di un nuovo ciclo. E se come abbiamo detto all'inzio, Dio creò l'uomo a suo odio e somgilianza, un giorno ci alzeremo e ci guarderemo nello specchio di Dioniso: in quel momento vedendoci capiremo che tutto ciò che abbimo odiato nella vita, siamo profondamente noi.
Michele Mezzanotte
Bibliografia e note 1. E. Zeller, R. Mondolfo 1. a cura di Antonio Capizzi, Empedocle, Atomisti, Anassagora. Firenze : La nuova Italia, 1969 2. Fabio Ciracì, Verso l'assoluto nulla – La filosofia della redenzione di Philipp Mainlander, Lecce, 2006 3. Hillman James, Psicologia Archetipica, in vol.5 enciclopedia del novecento, ist. Enciclopedia italiana, 1981 4. Anna Maria Carassiti, Dizionario Etimologico, Gulliver Libri, Genova, 1997 5. Omero, Odissea, Rusconi Libri Srl, Roma, 2005 6. James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Adelphi, 2003
Michele Mezzanotte (Chieti): Psicologo - Psicoterapeuta in formazione, iscritto all'albo dei giornalisti e degli psicologi. Presidente dell'associazione culturale e di volontariato psicologico "L'Anima Fa Arte". Direttore Scientifico della rivista psicologica "L'Anima Fa Arte". Autore di diverse pubblicazioni psicologiche. Lavora nel suo studio privato a Chieti e nella clinica psichiatrica riabilitativa "Il Quadrifoglio".
La Traversée du Styx, illustrazione di Gustave Doré, 1861
C on il presente articolo mi propongo di trattare il tema della finzione prendendo in considerazione il mito di Pandora “la ricca di doni”. “Pandora è, in un mito esiodeo, la prima donna. Fu creata da Efesto e Atena, aiutati da tutti gli dei per ordine di Zeus. Ognuno la adornò di una qualità; ella ricevette la bellezza, la grazia, l’abilità manuale, la persuasione ecc. Ma Ermes mise nel suo seno la menzogna e la furbizia. Efesto l’aveva modellata ad immagine delle dee immortali, e Zeus la destinava alla punizione della razza umana, alla quale Prometeo aveva appena dato il fuoco divino. Fu il regalo che tutti gli dei offrirono agli uomini per loro sventura”1. “ <Io farò dono agli uomini, dice Zeus, di un male nel quale tutti, in fondo al cuore, si compiaceranno nel circondare d’amore la loro stessa disgrazia>. Così dice e scoppia a ridere, il padre degli dei e degli uomini e comanda all’illustre Efesto di bagnare d’acqua un po di terra e subito di metterci la voce e le forze di un essere umano e di formarne all’immagine delle dee immortali, un bel corpo piacevole di vergine”2. “ Quando la fanciulla fu pronta, avvolta in splendide vesti e coronata di un velo sormontato da una corona nella quale Efesto stesso aveva forgiato raffinatissime figure di animali, fu mandata, sulla terra, dal re Epimeteo (colui che pensa dopo, che ragiona solo con il senno di poi), fratello di Prometeo (da tutti chiamato il “previdente”, perché mai nessuna delle sua azioni era avventata, ma tutto ciò che faceva derivava da un calcolo meticoloso). Epimeteo ne rimase incantato e accolse immediatamente il dono, dimenticando la raccomandazione di Prometeo, che gli aveva proibito di accettare qualsiasi regalo che provenisse dagli dei, per timore che da esso potesse derivare qualche male per gli uomini. Troppo tardi Epimeteo si accorse dell’errore compiuto. Pandora aveva portato con se un grande
vaso, donatole da Zeus, nel quale erano contenute tutte le sciagure che possono toccare a un mortale, e quando fu giunta presso Epimeteo, afferrata dalla curiosità che Ermes le aveva impresso, ne sollevò il coperchio: tutti i mali si diffusero allora per il mondo, uscendo incalzanti dal recipiente. Solo la speranza rimase prigioniera nel vaso, che pandora fu veloce a richiudere, per volere di Zeus”3. “Pandora rappresenta l’origine dei mali dell’umanità: essi vengono dalla donna, secondo questo mito, ed essa è stata modellata per ordine di Zeus come punizione per la disobbedienza di Prometeo che aveva rubato il fuoco del cielo per darlo agli uomini. Secondo la leggenda di Pandora l’uomo ha ricevuto i benefici del fuoco , opponendosi agli dei e ai misfatti della donna suo malgrado. La donna è il prezzo del fuoco”4. “Per l’origine dell’uomo è più corretto parlare di metamorfosi piuttosto che di creazione: egli infatti non viene prodotto dal nulla, ma è fabbricato dalla materia esistente, manipolata dagli dei in modo da
Gianpio Colarossi trasformarla, appunto come una metamorfosi, in qualcosa d’altro. La mitologia greca attribuisce la creazione dell’uomo agli interventi degli dei, che lo crearono, sotto terra, utilizzando la terra e il fuoco e affidando poi a Prometeo e a Epimeteo l’incarico di fornirlo delle necessarie qualità. Secondo questa versione del mito … Epimeteo, il <doppio> in negativo di Prometeo, fece le parti di tali qualità, ma le assegnò in modo squilibrato fra le varie creature, al punto che, per compensare l’uomo, rimasto spoglio di tutto, Prometeo dovette rubare per lui il fuoco e la tecnica di cui erano depositari Atena ed Efesto: in tal modo gli uomini divennero, a differenza di tutti gli animali, partecipi della natura divina”5. “Nel mito l’origine dell’uomo è distinta da quella della donna. Esiodo racconta che la creazione della donna fu voluta da Zeus come punizione per il furto del fuoco compiuto da Prometeo (il benefattore del genere umano). … La modalità della creazione è la stessa di quella dell’uomo (la trasformazione della terra e dell’acqua in un corpo animato), ma il risultato, la splendida creatura di nome Pandora, si rivela una <sciagura per gli uomini che si nutrono di pane>, un <arduo inganno fatale> “6. Il mito su riportato ci espone come la creazione della donna sia considerata un inganno fatale per punire gli uomini che posseggono il fuoco e la tecnica divini. La donna (il femminile) è stata creata dagli dei per punire l’uomo (il maschile) in quanto possessore del fuoco divino. La donna, Pandora, è portatrice di un vaso, un inganno per il maschile, contenente tutti i mali, tutte le sciagure che possono toccare a un mortale. La donna è un inganno fatale per il maschile. Il vaso di Pandora venne aperto e tutto ciò che vi era dentro (complessi psichici) ne uscì e si disperse per il mondo divenendo un inganno per il maschile (complesso dell’Io); all’interno vi rimase solo la speranza, personificata dalla dea Elpis (uno dei tanti complessi psichici) . Quanto detto può essere inteso come una irruzione di complessi psichici nel complesso dell’Io; in seguito all’apertura del vaso (il femminile, lo Yin) il complesso dell’Io viene invaso (invasare significa anche mettere in un vaso; ciò in termini psicologici significa una regressione del maschile Yang, nel femminile Yin) da contenuti inconsci, come avviene nella psicosi. Il complesso dell’Io invasato trova paralleli: nel
mito di Giona (Giona nel ventre della balena); nel Cristo crocifisso; nella favola di pinocchio; nel “mito del corso del sole” di Frobenius , ecc. “Oltre alla vagina, qualsiasi contenitore, qualsiasi forma cava, che può andare dalla conchiglia alla grotta, alludono alle parti sessuali della donna. (…) i cinesi definirebbero come yin queste immagini”7. Ora, in base al mito, la speranza viene considerata un male rinchiuso in un vaso. “Il vaso alchemico e il vaso ermetico rappresentano sempre il luogo in cui si operano la meraviglie; sono il seno materno, l’utero in cui si forma una nuova vita. Donde la credenza che il vaso contenga il segreto della metafora”8. Il vaso, simbolo del femminile, simboleggia l’inconscio. L’inconscio è ciò che non è noto alla coscienza dell’Io. L’inconscio può comunicare i suoi contenuti al complesso dell’Io attraverso: falsi ricordi, lapsus, atti mancati, allucinazioni ecc. che sono tutti inganni (eclissi di sole) o tutte metafore che minano le certezze dell’Io (il fuoco divino) nel bene e nel male. Il DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, simbolicamente, potrebbe essere considerato come una descrizione di una parte di quei mali contenuti nel vaso che Pandora, per ordine di Zeus, portò sulla terra per punire l’uomo, il maschile, per il possesso del fuoco divino (le certezze del complesso dell’Io). La parola inganno è sinonimo sia di illusione che di finzione. I nostri sensi possono illuderci, ingannarci, dando vita ad una falsa raffigurazione che viene creduta realtà. L’illusione è una falsa configurazione del reale secondo cui si attribuisce consistenza alle proprie speranze. La finzione è la materia prima di cui è composta la speranza ed è il prezzo che l’uomo deve pagare per il possesso del rubato fuoco divino. La finzione agisce tramite la speranza, la finzione è, forse, la speranza stessa; è quel “velo di Maya” che tinge di proiezioni (di complessi, di dei) la realtà esterna. La finzione, donando consistenza alle nostre speranze, vuole fare intendere al complesso dell’Io che la gestione degli eventi psichici passati, presenti e futuri, non è stata, non è e non sarà completamente sotto il suo controllo. Nella speranza non si ha controllo sugli eventi a venire; l’Io può sperare che gli avvenimenti futuri prendano una determinata piega, ma di ciò non ne possiede la certezza (il fuoco divino). Il concetto di finzione, in quanto sinonimo di
La speranza della prima donna
illusione, può essere associato a ciò che, nella filosofia indiana, viene chiamato “Velo di Maya”. Il “velo di maya” è inteso come l’illusione che vela la realtà delle cose nella loro essenza autentica. Il velo di maya può essere inteso come il velo della speranza, il velo della finzione. “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge il volto dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente.” La dea della speranza era spesso raffigurata con un giglio in mano. “Il giglio rappresenta anche il cedere alla volontà di Dio; cioè alla Provvidenza che sopperisce ai bisogni dei suoi eletti: <Osservate come crescono i gigli nel campo; non lavorano e non filano>; abbandonato nelle mani di Dio, il giglio è adornato meglio di Salomone in tutta la sua gloria; è il simbolo dell’abbandono mistico alla grazia di Dio”9. Un maschile, un Io, che si affida alla speranza (che si abbandona alla grazie di Dio) è, sostanzialmente, un individuo le cui certezze sono state minate. In base ad uno dei Catechismi della Chiesa Cattolica “la speranza è definita come l’attesa della benedizione divina e della beata visione di Dio” e anche come “il timore di offendere l’amore di Dio e di provocare il castigo”. Sono definiti “peccati contro la speranza” la disperazione (che equivale alla cessazione dell’onnipotenza di Dio) e la presunzione (con la quale si presume di potersi salvare senza Dio, o, viceversa, senza una personale conversione). Ne consegue che per il cristiano la speranza equivale alla certezza della divina Misericordia che si orienta verso il peccatore convertito. Per il cristiano (e quindi per colui che si trova in possesso di una visione monoteistica della psiche), credente in un unico Dio, la speranza equivale alla certezza della misericordia divina. Precedentemente, abbiamo affermato che i mali contenuti nel vaso di Pandora hanno minato proprio le certezze dell’Io; abbiamo inoltre affermato che la speranza è definita un male. Perché la speranza, e quindi la finzione, viene considerata un male? A volte si dire “avevo perso la speranza ma poi è
successo che …” “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente, … Lasciate ogni speranza voi che entrate”; queste parole lesse Dante Alighieri nella sommità della porta del suo Inferno. Cristo nel tormento della crocifissione (cioè il maschile invaso dai mali della prima donna) guardando il cielo si chiedeva perché Dio (Fuoco divino, le certezze del complesso dell’Io) lo aveva abbandonato. Cristo aveva perso la speranza perché il complesso dell’Io (Dio) lo aveva abbandonato, e noi sappiamo che la speranza (quindi la finzione) appartiene al complesso dell’Io. Il Cristo risorto è simbolo del raggiungimento del “Se” da parte di un Io che aveva perso la speranza. Forse la speranza della prima donna, la finzione, è un male per una psiche monoteistica (che crede in un solo Dio, in un solo complesso, quello dell’Io, personificato dal fuoco divino) che si trova in uno stato sofferente; forse alla perdita della speranza consegue una visione politeistica della psiche che potrebbe permettere il raggiungimento del regno dei cieli, il “Se”.
Bibliografia e note 1. Grimal, P., Enciclopedia della Mitologia, 1987, Paideia Editrice, Brescia, 2009, p. 478. 2. Chevalier, J., Gheerbrant A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001, vol. 2, p. 182. 3. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 2, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006, pp. 221-222 4. Chevalier, J., Gheerbrant A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001, vol. 2, p. 182. 5. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 1, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006, p. 335. 6. Idem, pp. 335-336. 7. De la rocheterie, J., Il corpo nei sogni, 1984, Bompiani, Milano, 2001, pp. 242-243. 8. Chevalier, J., Gheerbrant A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001, vol. 2, p. 9. Chevalier, J., Gheerbrant A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001, vol. 1, p. 508.
Gianpio Colarossi (Rocca di Mezzo, AQ): psicologo, psicoterapeuta in formazione al quarto anno del Corso quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Psicoterapia Atanor dell’Aquila. Nel maggio 2007 è nominato Cultore della materia MPSI01 Psicologia Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi dell’Aquila. Nel dicembre 2007 è nominato Cultore della materia Elementi di Psicoterapia di Gruppo MPSI07 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila. Tra le sue pubblicazioni figurano "Anima e sangue" (Pescara, Samizdar, 2005), "L’alba del soldato" (Impronte, n°10 anno IV), "Per mezzo di una pietra l’Aquila tornerà a volare" (quaderni di psicologia archetipica, n°1 anno 2009), "Il canto del balbuziente e la tartaruga canora" (www.risvegliodiebe.it), "La maschera del tormento" (www.risvegliodiebe.it).
Renè Magritte, La boîte de Pandore, 1951
I
I l termine “creatività” ha da sempre subito variazioni di significato nel linguaggio quotidiano, arrivando a prendere delle accezioni che variano notevolmente a seconda della cultura e del periodo storico. L'uso estremamente comune della parola creatività pone problemi e imbarazzo, Melucci, rilevando un'interessante trasformazione nell'uso di tale termine nota infatti che: “La parola creatività compare nei dizionari alla fine del secolo scorso, ma rimane confinata al linguaggio degli specialisti”.1Lo stesso autore fa notare allo stesso modo che oggi la parola creatività e l'aggettivo creativo ricorrono di sovente nell'uso non specialistico della conversazione quotidiana: “Il discorso dei media riflette e alimenta questa diffusione parlando ormai di creatività in cucina, in giardino, nell'abbigliamento, nei rapporti di coppia, nell'educazione dei figli, nel lavoro e nel tempo libero”.2 Ma a ben vedere l'imbarazzo resta anche quando ci limitiamo all'utilizzo che ne fanno gli specialisti, infatti nel descrivere la creatività e nell'analizzare i processi psicologici che la sostengono e la esplicitano, ci si può riferire o al pensiero creativo o alla persona creativa. È evidente che la ricerca psicologica è ricchissima di “sfaccettature” e di “angolature” con cui è possibile affrontare anche uno solo di questi temi. Il dizionario UTET ne offre una duplice definizione: come capacità, facoltà, attitudine a creare e come attività, operosità dinamica, forza costruttiva.3 Mentre il dizionario Garzanti la definisce come la capacità di creare, di inventare con libera fantasia.4 Creare era in origine un'azione che poteva vedere come sola causa incondizionata Dio: “Che l'uomo potesse essere creativo nel pensiero e nell'azione era considerato blasfemo fino a qualche secolo fa”.5Le diverse culture, infatti, reagirono al fare degli artisti in modi differenti; così, ad esempio, si
ha da una parte l'atteggiamento di diffidenza e quasi disprezzo del mondo greco e romano, in cui “l'opera dei pittori e degli scultori in quanto lavoro manuale, [...] era lasciato, in un'economia schiavistica ai membri della classe servile”,6o comunque si riteneva, su influsso dell'estetica platonica, che l'arte potesse “fornire solo un vago riflesso della vera essenza della realtà, le idee, che essa tenta di riprodurre, per così dire, di seconda mano”.7Ben diversa la glorificazione del genio nell'età rinascimentale, in cui “l'artista fu personalmente onorato come un essere divino”.8James Hillman il padre della psicologia archetipica ci da una data ben precisa, il 1803, quale l'anno in cui l'uomo moderno iniziò ad usare il termine creativo, nel senso di produttivo, Hillman ci indica una data così precisa perché si sta riferendo alla morte di Dio, tanto decantata da Nietzsche.9 Attualmente, si tende ad attribuire a tutti gli individui la capacità di produrre atti creativi, imprevedibili e originali; ed esistono corsi e pubblicazioni il cui intento formativo è di svilupparli e moltiplicarli. Le tecniche sono molteplici così come lo sono gli approcci e le definizioni; ma la creatività non è più blasfema, o eccezionale, non sfida più la collera divina, anzi è patrimonio molteplice che viene cercato e sviluppato al fine di una miglior economia individuale e sociale. La creatività è perciò sempre più oggetto di formazione, infatti le pubblicazioni e le scuole prolificano oggi più che mai. Due sono i presupposti culturali comuni a queste pubblicazioni e scuole: il primo è che la creatività è considerata una qualità presente in tutti, il secondo è che tale qualità può essere migliorata e sviluppata. Creare fa parte della quotidianità della vita degli individui. La molteplicità della nozione di
Paolo Battaglia creatività riguarda dunque anche il campo formativo. Nei luoghi di esercizio della creatività “socialmente riconosciuta” come tale (scuole di teatro, musica, di realizzazione artistica e poetica, di ricerca e invenzione) la messa in atto di un'arte, di una tecnica o scienza è favorita dalle qualità creative individuali o collettive. La creatività è dunque un concetto complesso da definire per la sua stessa natura dinamica e non si presta ad una definizione razionale in quanto trascende quei processi di pensiero induttivodeduttivo cui siamo quotidianamente abituati a fare riferimento. Un momento creativo mostra l’aspetto vitale del pensiero, quello, appunto, con cui un uomo può creare. Carotenuto inserisce tutti nella sua digressione sulla personalità creativa: “Una caratteristica della personalità creativa è il desiderio insaziabile di conoscere e di esplorare, unitamente al senso di meraviglia che accompagna ogni scoperta. II pensiero di Platone ci ha indotto a riflettere sul fatto che la meraviglia è la radice della conoscenza, la causa prima che muove il desiderio di sapere, che attiva il bisogno di indagine e di approfondimento. E’ proprio in virtù della meraviglia che gli uomini cominciarono ad ammirare la creazione e che sorsero i primi interrogativi intorno alla natura e alla vita. Possiamo considerarla un'emozione primaria, essenziale, che fonda la ricerca e il dubbio: e uno stupore estasiato che non si arrende al mistero, ma anzi è tentato di svelarlo. E’ facile coniugare questa emozione primaria alla nozione di creatività psicologica: gli interrogativi che la contemplazione delle cose sollecita si traducono nello sforzo dell'uomo di comprendere il mondo, di crearne una personale immagine e, grazie ad essa, una rinnovata visione di se stesso”.10 Si può dunque ritenere la creatività come un energia che ci spinge verso la conoscenza del mondo interno e del mondo esterno, in questo senso è legata alla crescita delle nostre conoscenze, alla quale segue inevitabilmente una rigenerata immagine interiore della realtà. L'impossibilità di dare una risposta all'esistenziale domanda sulla Creazione ha spinto l'uomo a cercare una risposta nella sua qualità creatrice ecco perché per Carotenuto è l'emozione primaria che ci spinge verso la conoscenza. Il potenziale maieutico e gnoseologico della creatività ci viene sottolineato
anche da G. Bateson il quale afferma chiaramente che: “la Creatività è l'infinita capacità di conoscere, è un potere della psiche per riuscire a concentrare in ogni particolare una visione del tutto”.11 La creatività, a volte, è legata ad uno sguardo innocente e puro simile a quello di un bambino, e consiste nel proporsi come problematico ciò che per gli altri è naturale e chiaro, come nel caso del pendolo di Galileo o della mela di Newton. Le psicologie del profondo ci invitano ad adottare lo stesso sguardo. Per creatività s’intende qui, lo sviluppo di qualcosa che prima non c’era, di nuovo, di inaspettato, inizialmente forse non logico, ma mai irreale o delirante, spesso luminoso, vicino all’idea di Dio. Il nuovo per manifestarsi esige anche un fluire del tempo e la capacità di saper ascoltare tale fluire. É il permanente non-essere-ancora che costituisce la vera trascendenza dell'uomo. Jung afferma in Psicologia e Alchimia che “ogni atto di presa di coscienza è un atto creativo”12. L'immagine divenendo azione per mezzo del corpo, trova cosi la modalità di esprimersi e permettere una crescita personale, che diviene dunque legata ad un equilibrio psichico (quello che si instaura quando nessuna immagine è inflazionata, ma quando tutte trovano una loro espressione), nonché ad una maggiore conoscenza delle immagini che creando, agendo, si lasciano descrivere. Cercando un'altra prospettiva ci sorge un interrogativo. “Quale maggiore opera creativa di quella di un individuo che desidera liberarsi degli orpelli che lo mantengono prigioniero dei suoi immaginari inesplorati, impedendogli di evolvere?” La risposta ci giunge anche da Nietzsche “La fantasia con la quale il prigioniero cerca mezzi per liberarsi, il suo sangue freddo e la sua tenacia nell’utilizzare ogni minimo vantaggio, possono insegnare a quali mezzi ricorra a volte la natura per produrre il genio (una parola che prego di intendere senza nessun sapore mitologico o religioso): essa lo richiude in carcere ed eccita all’estremo il suo desiderio di liberarsi”13. Dunque la creatività spezza le catene che chiudono i cancelli del mondo infero; è questa, una progettualità insita nella natura. Se la natura non creasse una simile tensione esisterebbe solo una stasi cosmica e non un dinamico divenire. La pratica terapeutica essendo un fare, un creare essa stessa, ridefinisce la progettualità della natura
La creatività come terapia
descritta dal prigioniero di Nietzsche in un progetto di vita che dona senso all'esistenza La psicoterapia è dunque una delle massime espressioni della creatività, più precisamente è il luogo dove in assenza di limitazioni avviene il più bell’incontro tra creatività ed immaginazione. Il creare immagini è la sintesi di tutto. Infatti volendo studiare il rapporto che c’è tra creatività ed immaginazione si arriva persino a comprendere in modo semplice ciò che gli psicanalisti intendo quando ci illustrano le mitologie e le religioni come savie letture psicologiche. Guardando l’etimologia sia del termine “creatività” che del termine “immagine” emerge lo storico dualismo tra Dio e Demonio. È curioso riscontrare che l’etimo “immaginazione” contiene tra le varie derivazioni anche il vocabolo latino “mimaginem”14, cioè imitazione. La mitologia narra che l'imitazione sia una caratteristica del Diavolo che è appunto l'antitesi di Dio, il Creatore, equivale a dire che la capacità immaginativa è l'ombra della capacità creativa e per questo ne segue ogni passo (ogni fase). In un racconto di Fernando Pessoa, intitolato “L’ora del Diavolo”, l'inferenza appena fatta viene esplicitata egregiamente, in quanto il Signore delle Tenebre viene rappresentato come il Signore dell’Immaginazione, della Notte e del Sogno. Nel racconto il Diavolo e una signora dialogano; qui di seguito verrà citato un passo a nostro avviso emblematico: “Ma, insomma, Lei chi è? Perché è così mascherato?” “Rispondo, con una sola risposta, alle sue due domande: non sono mascherato”. “Come?”. “Signora, io sono il Diavolo. Si, sono il Diavolo. Ma non mi tema e non trasalisca”. E in un batter d’occhi di terrore estremo, in cui affiorava un piacere nuovo, ella riconobbe, all’improvviso, che era vero. “Sono proprio il Diavolo. Non si spaventi, però, perché sono il Diavolo, per l’appunto, e perciò non faccio male ... Stia dunque tranquilla. Corrompo, certo, perché faccio immaginare ... Sono il Dio dell’Immaginazione, perduto perché non creo. E’ grazie a me che, bambina, hai sognato quei sogni che sembrano giochi; è grazie a me che, già donna, la notte hai potuto abbracciare i principi e i dominatori che dormono al fondo di quei sogni. Sono lo Spirito che crea senza creare, la cui voce è fumo, e la cui anima è un errore. Dio mi ha creato perché io lo imitassi, di notte. Lui è il Sole, io sono la Luna. La mia luce si libra su tutto ciò che è
futile o finito, fuoco fatuo, sponde del fiume, paludi e ombre ... Quando, nei lunghi pomeriggi caldi, sognavi tanto da sognare di sognare, non hai visto passare, nel fondo dei tuoi sogni, una figura velata e rapida, quella che ti avrebbe dato tutta la felicità, quella che ti avrebbe baciato indefinitamente? Ero io. Sono io. Sono colui che hai sempre cercato e che mai potrai trovare. Forse, nel fondo immenso dell’abisso, Dio stesso mi cerca, affinché io lo completi, ma la maledizione del Dio Più Vecchio – il Saturno di Geova – aleggia su di lui e su di me, ci separa, quando avrebbe dovuto unirci, affinché la vita e ciò che desideriamo da lei fossero una cosa sola. L’anello che usi e ami, l’allegria di un pensiero vago, il sentirti bene di fronte allo specchio in cui ti guardi – non illuderti: non sei tu, sono io. Sono io che lego bene tutti i lacci con cui le cose si decorano, che dispongo esattamente i colori con cui le cose si adornano. Di tutto quanto non vale la pena di essere io faccio il mio dominio e il mio impero, signore assoluto dell’interstizio e dell’intermedio, di ciò che nella vita non è vita. Come la notte è il mio regno, il sogno è il mio dominio. Ciò che non ha peso né misura – questo è mio.”15 Quello che la pratica psicoterapeutica insegna può esser letto come un “cercarsi”, un incontro tra la capacità immaginifica e la creatività, proprio come il Signore dell'Immaginazione cerca il Dio creativo per completarsi. L'analisi diviene il luogo in cui “L'incontro ha il sapore della magia, un mistero pieno di aspettative, un'attesa di un dio buono di cui nutrirsi”16 Se con la Creatività, l'archetipo trova un canale per comunicarsi all'esterno, allora con l'Immaginazione possiamo percorrere lo stesso canale a ritroso. E' lo stesso movimento di cui parla Donfrancesco in riferimento al mito alchemico “la psiche realizza il proprio movimento stendendo l’immaginazione, con la liberazione di fantasie rimaste imprigionate nella materia, cioè nelle diverse concretizzazioni o, come Hillman direbbe, nei diversi letteralismi”.17 La pratica terapeutica evidenzia la inscindibile connessione tra capacità creativa ed immaginazione. Nel “tirare le somme”, si può giungere alla conclusione che ogni psicoterapia a prescindere dal modello teorico a cui si riferisce, esprime le sue potenzialità maieutiche grazie all'utilizzo che fa dell'istinto creativo. Quindi se ne può
Paolo Battaglia concludere che tutta la discussione fatta in questo testo è tesa a dimostrare che la Creatività è un vettore di conoscenza delle profondità psichiche, e che in quanto tale un lavoro psicoterapeutico volto alla conoscenza psichica non può esimersi dall'utilizzare e dal lavorare con il cliente su e con l'istinto creativo. Un discernere sulla creatività e sulla psiche per quanto esaustivo non sarà mai definitivo, perché la creatività sarà sempre un’azione che si rinnova continuamente, in quanto, parafrasando Eraclito, i confini dell’anima, nel suo andare, non potranno essere scoperti, neppure percorrendo tutte le strade: così profonda è l’espressione che le appartiene.
Bibliografia e note 1. MELUCCI A., Creatività: miti, discorsi, processi, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 11 2. IBIDEM copertina posteriore 3. Grande dizionario della lingua Italiana, UTET, III vol., Torino, 1964. 4. Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, GARZANTI, 1987. 5. BENDINM, Creatività, come sbloccarla, stimolarla e viverla, Arnoldo Mondadori, Milano, 1990, p. 13. 6. KRIS E., KURZ O., La leggenda dell'artista, Ed. Boringhieri, Torino, 1980, p. 38. 7. IBIDEM., pp.38-39 8. IBIDEM., pp. 47 9. J. HILLMAN, // mito dell'analisi, Milano, Ed. Adelphi, 1979 p. 46. 10. ALDO CAROTENUTO http://www.eue.it/aipa/web_rivista/pdf2/571998Vit alita_negativo/cap09_Distruzionecaos.pdf, Roma 11. BATESON G., Verso un'ecologia della mente, Milano 1977, Ed. Adelphi. 12. JUNG CARL G., Psicologia e alchimia, Torino, Ed. Bollati Boringhieri, 1981, p. 29. 13. NIETZSCHE F.,Opere IX “Umano troppo umano” 1876-1878, pp. 166 14. KRIS E., KURZ O., La leggenda dell'artista, Ed. Boringhieri, Torino, 1980, p. 47 15. LOPEZ TERESA R., Opere di Pessoa, 3ª Ed. Passigli, 1998 pp. 64 16. J. HILLMAN, Il mito dell'analisi, Milano, Ed. Adelphi, 1979 p. 108 17. DONFRANCESCO, F., James Hillman e il
mondo immaginale. In: Psicologia analitica contemporanea a cura di Carlo Trombetta, Milano, Ed. Bompiani, 1982
Paolo Battaglia (Avezzano): psicologo e psicoterapeuta in formazione presso la Scuola di Psicoterapia "Atanor" ad indirizzo Junghiano-Analitico-Archetipico; già collaboratore pressso la rivista di cronaca e cultura Site.it; è autore dell'articolo: “Tra psicologia e politica: L’importanza dell’archetipo della Grande Madre” contenuto nel testo universitario “Quaderni di Psicologia ArchetipicaTerremoto”n°0
S
S e dovessimo cercare un’immagine che più di ogni altra regala una massima libertà di espressione da tensioni, da costrizioni, da condizionamenti è di certo quella di un bambino in fase evolutiva preverbale, che agiti e muova in maniera assolutamente scoordinata ogni parte del proprio corpo. Nell’idea che ognuno di noi conserva nelle sue conoscenze, una volta attivata questa immagine, saremo in grado di ricreare cognitivamente il pensiero, il ricordo di un bambino molto piccolo che riesce contemporaneamente a muovere braccia e gambe in direzioni diverse muovendo la testa ed emettendo vocalizzazioni anch’esse senza senso. Il torace appare pieno di aria, la pancia si gonfia ad ogni respiro e questo respiro è talmente pieno e forte da permettere di emettere suoni, da muovere arti, dirigere i canali sensoriali nelle diverse direzioni. Il bambino in questo modo dimostra vita, energia libera, fluidità nelle diverse parti che lo compongono, che compongono la sua vita, il suo essere vivente. Cosa accade quando nel mentre di questo gioco magico noi, osservatori, alziamo la voce dicendo NO!, mantenendo un’espressione ferma? Il bambino nella maggior parte dei casi, si blocca, ferma il suo gioco e dirige la sua attenzione verso di noi, verso la fonte di provenienza della voce, il respiro rimane nel torace ed il torace appare bloccato nel suo essere gonfio, è in apnea, è preoccupato, qualcosa ha interrotto il movimento libero della sua energia: siamo stati noi. Nel caso di questo esempio, ho reso rapidamente l’idea delle modalità di apprendimento che si manifestano dell’infante e delle sue reazioni ad una stimolazione forte, possiamo riferire questo tipo di comportamento reattivo non solo nel caso di questo esempio ma in molte altre situazioni. In una delle sue interviste Shore conferma l’idea di
comunicazione non verbale trasmessa in maniera specifica attraverso le espressioni del volto, la prosodia, la gestualità1. La relazione diretta dell’infante con la sua figura di riferimento crea una “trasmissione dati” continua, fatta da attenzione dedicata ai piccoli gesti, alle espressività impercettibili che con il tempo forgeranno i nostri figli come i nostri più attenti conoscitori, coloro che senza l’utilizzo delle parole hanno raccolto informazioni su di noi verso canali alternativi a quello verbale. Le acquisizioni che si apprendono nei primi periodi di vita, per mezzo dell’espressività, del tono, dei gesti, creeranno il meccanismo attraverso cui le esperienze di relazione oggettuale vengono trasmesse e codificate. Le incongruenze tra il tono della voce e l’espressività del volto, se presentate con
Monica Isabella Ventura frequenza, assolveranno la funzione corporea del trauma, per cui la reazione sarebbe quella del “NO” di poco fa, l’unica differenza è la visibilità della reazione che in questo secondo esempio apparrà di certo più tardiva. Queste comunicazioni psicobiologiche non verbali intersoggettive vengono utilizzate durante tutto il corso della vita. A dimostrazione della precocità dello sviluppo delle competenze non verbali c’è il fatto che il cervello destro (emisfero cerebrale destro) matura più precocemente in un periodo critico dell’infanzia umana, antecedente alla maturazione delle aree di Broca e Wernicke presenti nel cervello sinistro.1 Tornando quindi alla descrizione dell’esperienza di paura affermo come, quando la paura è molto grande, ad esempio in una condizione di terrore, il corpo si paralizza, diventa impossibilitato al movimento, o per contro fuggirebbe in maniera rapida e quasi irrazionale, come apparirebbe ovvio dall’attivazione istantanea del sistema vegetativo, ma, nel caso di bambini molto piccoli questa azione sarebbe impossibile. Nel mondo naturale quando una preda è paralizzata dal terrore e non può fuggire questa viene uccisa.2 Le azioni che si possono ottenere in reazione ad una forte paura o ad una sensazione di paura perseverante sono varie, prima tra tutte l’irrigidimento del corpo, i movimenti diventano controllati, attenti alla minaccia, e la muscolatura perde le caratteristiche della naturalezza di cui sopra, mutando le caratteristiche in senso ipertonico o ipotonico. Di seguito a questo primo agito “muscolare” ne possono seguire altri diversi, come avviene per il condizionamento della volontà, un modo utilizzato inconsapevolmente per creare la comprensione ad un evento incomprensibile, modalità che porrebbe le basi per la creazione di uno stato di dissociazione tra realtà ed attività di protezione del sè . L’azione esterna a noi ha quindi interrotto questo corpo pulsante di energia, quella comunicazione intima e personale con noi stessi, modificando lo sviluppo muscolare in favore di una struttura corporea protettiva. Non solo nel respiro, usato come esempio, ma nelle gambe, nelle braccia, a volte si avvertono delle tensioni muscolari al livello della gola, del collo, dei trapezi e via andando. Ogni muscolo del
nostro corpo ha una funzione ed ogni funzione ricopre un obbiettivo; ogni muscolo protegge una funzione deficitaria e la va a supportare, creando un sostegno rigido che riduce la funzionalità e la fluidità del movimento. Si osservano reazioni di abbandono alla paura, dove la muscolatura appare flaccida, senza tono, in quel caso possiamo dire di aver avuto una “paura da morire”, la reazione è quella del completo abbandono alla volontà esterna. Ogni muscolo nasce e sviluppa le sue potenzialità in supporto dell’organo unitario, l’uomo. A causa di questi irrigidimenti, conseguenti a traumi di vario genere, si rompe una comunicazione diretta tra sé e sé, tra il corpo e l’essere questo corpo, si interrompe un discorso privato, per dirigere l’attenzione lontano dal proprio sentirsi, in favore di un oggetto diverso, una persona, un suono, una situazione. Questo movimento protettivo, perpetrato nel tempo conduce verso un nuovo apprendimento, una modalità di interazione verso sé e verso gli altri che condizionerà la relazione con gli affetti più prossimi, il sentimento delle emozioni, delle percezioni. In poche parole la nostra energia viene dirottata altrove, lontano da noi dal nostro spazio privato, dalle emozioni vere, e verrà convogliata nel controllo di noi stessi e dell’altro, o peggio in un mondo di fantasia, parallelo alla realtà troppo frustrante da tollerare. La salute è uno stato fluido, in contrasto con la nevrosi che è una condizione strutturata.(A. Lowen, 1985) Il distacco dal nostro sentire a volte diventa talmente ampio da invadere spazi affettivi, lavorativi, di relazione, rendendo palese il disagio all’altro che osserva, per cui si potrebbe avvertire nel tempo il bisogno di recuperare una condizione di benessere, e solo in età matura, consapevolmente, davanti ad una scelta, davanti ad un bisogno insoddisfatto, inizia a farsi largo la possibilità di intraprendere un percorso di terapia. La terapia è il viaggio più significativo della propria vita che conduce, attraverso i BLOCCHI energetici, a comprendere cosa, come e perché siamo quell’essere perfetto che ognuno di noi è diventato. Ogni persona è un corpo, un fisico che parla e racconta la propria storia. I blocchi energetici furono trattati principalmente
L'essenza del corpo
da W. Reich nel 1933, ma la prima consapevolezza fu derivante dalle acquisizioni del metodo psicanalitico.3 Lo sviluppo di queste prime idee di progresso in senso corporeo, trovarono spazio attraverso l’integrazione ad un punto di vista psico-biologico che riprendesse le acquisizioni originali integrandole a nuove consapevolezze, nuove intuizioni, manifestando le reazioni corporee come non altro che delle difese attivate al livello corporeo. Queste difese seguono in tandem le difese prettamente psicologiche e possono agire simultaneamente alle altre attivandosi attorno al primo anno di vita, proseguendo durante il secondo e continuando fino al terzo. Sembra che le difese corporee aiutino a reprimere le emozioni non volute, ricordi dolorosi, desideri proibiti, minacce avvertite dal contatto con l’altro, forme di eccitazione e attivazione non desiderate realmente o in apparenza.4 L’approccio Bioenergetico consente di ascoltare e vedere, grazie ad un doppio canale, la variazione dell’energia libera che ogni corpo dovrebbe avere nelle sue esperienze di vita, per condurre verso il recupero di un’armonia nuova, libera da condizionamenti sociali, ambientali, ricreando un equilibrio tra il SE’ cognitivo e quello corporeo. La costrizione subita dai condizionamenti ed introiettata in se’ conduce verso il timore di presentarsi per quello che si è intimamente. Il vero IO viene nascosto meticolosamente nelle viscere di noi stessi, protetto dalla paura, dalla vergogna, dal bisogno e potrebbe essere visto per mezzo dell’utilizzo di quella che venne definita una tecnica “morbida”, centrata su una crescita graduale del cambiamento corporeo ed affettivo piuttosto che su progressi improvvisi, in modo da offrire il tempo di accettazione del nuovo modo. Lo sforzo che viene quotidianamente speso per mantenere alte le barriere protettive del nostro IO verrà convogliato altrove, l’energia mobilitata verrà direzionata verso nuovi scopi ed il corpo avvertirà un senso di leggerezza che era completamente dimenticato, liberando se stessi dalla sensazione di sforzo.
Bibliografia e note 1. Allan N. Schore, La regolazione degli stati affettivi e la riparazione del SE’ , Astrolabio 2008 2. Alexander Lowen, Arrendersi al corpo, il processo dell’analisi bioenergetica, Astrolabio 1994, p 173.174.175 3. Gorge Dowing, Il corpo e la parola, Astrolabio 1995, p 194.199 4. Alexander Lowen, Il Linguaggio del Corpo, Universale Economica Feltrinelli 2006 - Alexander e Lesile Lowen, Espansione ed integrazione del corpo in Bioenergetica, Astrolabio 1979 - Gianfranco Ravaglia- Alberto Torre, Tema caratteriale il percorso della terapia, Melusina Editrice 1992 - Alexander Lowen, Bioenergetica, Universale Economica Feltrinelli 2007
Monica Isabella Ventura, Psicologo, formato in psicoterapia Bioenergetica. Esperto in Disaster Management. Presidente dell’Ass.ne di volontariato P.E.A.Psicologia dell’Emergenza Abruzzo Psicologo dell’Ass.ne Onlus DIVERUGUALI
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“Q ual è la fonte della nostra prima sofferenza? L’aver esitato a parlare. L’aver accumulato pensieri muti dentro di noi” ci ricorda il filosofo francese Gaston Bachelard. L’espressione di sé, dunque, nell’esistenza dell’individuo, riveste un’importanza fondamentale per il suo equilibrio psicofisico e per la crescita personale. Tra l’uomo e il mondo c’è il muro del simbolico, il muro del linguaggio. Le cose tutte acquistano esistenza e senso perché nominate, tutto l’universo che ci circonda e l’universo che ci riguarda – il nostro corpo – tutto è ricoperto da Significanti. Un grande linguista (F. De Saussure, 1916) poté affermare che alla fin fine è il mondo delle Parole a “creare” il mondo delle Cose. Egli spiega che il segno linguistico, lungi dall’unire una “cosa” a un “nome” (come sostiene una tradizione che va dalla Bibbia alla modernità), unisce un “concetto” a una “immagine linguistica”. Un noto antropologo (C. Levi Strauss, 1980) è andato ancora più avanti affermando che il linguaggio è ciò che fa struttura per l’essere umano, vale a dire che è il linguaggio che ci ha permesso di determinare i nostri rapporti relazionali, i nostri rapporti di parentela. Sono i significanti che ci consentono di relazionare con l’Altro in maniera differenziata, diversificata a seconda del valore dato, del senso dato al Significante stesso. Prima ancora di nascere il bambino è immerso, oltre che nel liquido amniotico, anche nell’Universo del linguaggio; il bambino, prima di nascere, già esiste e ha preso forma nel mondo delle parole, è già creato, ovvero è “costruito” nel discorso dell’Altro materno, paterno, nella loro fantasia, nel loro desiderio. Quando uscirà dal tunnel del canale uterino verrà catapultato nel mondo che non ha più a che fare con la Natura ma si troverà nel Mondo della Cultura - vale a dire dove ogni oggetto, ogni elemento, esiste alla luce della parola che lo qualifica e lo nomina (L.
Grignoli, 2011). Il senso di incapacità, di limite nel comunicare attraverso il linguaggio verbale, è una esperienza molto conosciuta e vissuta dalla gran parte di noi anche in età adulta; lo incontriamo spesso, come psicoterapeuti, nelle relazioni con i pazienti, ancor più spesso con i pazienti bambini. Questo in parte spiega l’accresciuto interesse di questo ultimo decennio, in ambito psicoterapeutico, per altri tipi di linguaggio, e spiega l’impiego di attività artistico/espressive nel trattamento di diverse forme di disagio. L’arteterapia, che utilizzi come medium l’arte plastico-pittorica, quella teatrale, quella corporea o musicale, presenta una possibilità di rappresentare uno spazio creativo ideale in cui far confluire quei bisogni comunicativi ed emotivi che non possono essere incanalati nell’uso convenzionale del linguaggio verbalizzato logico-razionale. Avendo avuto all’inizio della mia professione come psicologo clinico molti pazienti bambini ed adolescenti, mi sono accorta che essi avevano una naturale tendenza a disegnare, cosa che ho sempre incoraggiato. Il bambino, disegnando spontaneamente ciò che gli veniva in mente, iniziava a collegare rappresentazioni di parole a rappresentazioni di cose. Quando riusciva ad illustrare le proprie verbalizzazioni, attraverso il disegno, potevo entrare in comunicazione con lui, simmetricamente, disegnando a mia volta le mie risposte alle sue immagini. Succedeva che dopo pochi mesi, quando nel corso del “dialogo in immagini” il paziente riusciva a costruire rappresentazioni grafiche di transizione fra Sé e il terapeuta, affidava ad esse l'espressione di emozioni ed affetti transferali, sia libidici che distruttivi, di una intensità notevolmente superiore a quella che la parola permetteva in quel momento. Per un terapeuta che lavora con l’età evolutiva imparare a parlare la lingua di un bambino può sembrare un concetto banale, scontato, almeno
Barbara Cipolla
difficilmente discutibile. La psicoanalisi infantile ci ha fornito innumerevoli teorie e tecniche spiegandoci che l’analisi del gioco e del disegno possono sostituire egregiamente la tecnica delle libere associazioni e dell’interpretazione dei sogni per accedere all’inconscio dei bambini. Si pone invece, secondo me, nel lavoro con i bambini, un problema che sembra scontato ma non lo è: la distanza, in termini di esperienza, di conoscenza, di essere–nel-mondo, che separa i due attori della scena terapeutica, e che, a mio parere, ci riporta nel campo del bilinguismo, della distanza incolmabile. Noi ci avviciniamo al bambino con l’illusione di conoscere già il suo universo, le sue forme di espressione, con l’illusione di conoscere la sua realtà. Sebbene gli studi psicologici ci abbiano dato sufficienti informazioni sulle tappe di sviluppo del bambino, sui meccanismi difensivi, sui contenuti inconsci delle fantasie infantili, e non ho nient’altro da aggiungere che non sia già stato detto su questo, quando mi trovo ad incontrare per la prima volta un bambino, mi accorgo rapidamente che egli è del tutto disinteressato alle teorie, alla descrizione delle proprie angosce, ma è preso da altre inquietudini che non sono descritte nei libri di psicologia e a volte sono anche difficilmente decodificabili. Dario, 7 anni, mi parla solo di draghi sputa-fuoco che vivono isolati in un’altra dimensione lontana dal pianeta Terra e non possono avvicinarsi perché altrimenti distruggerebbero tutto, anche non volendo. Potremmo scegliere di cogliere gli aspetti simbolici della trasformazione dell’angoscia in drago, ma questo non toglie che per Dario il drago è una realtà che lo tiene distante nei rapporti, pena la loro distruzione e perdita. Paradossalmente, la nostra comprensione dei meccanismi psichici sottesi alla creazione del drago sputa-fuoco ci allontana dalla condivisione dell’esperienza con il bambino e ci situa in un universo adulto, razionale, astratto, intellettuale. Le teorie psicoanalitiche diventano qui una frontiera, un ostacolo al dialogo col bambino. Se con l’adulto, per rimanere nell’immagine della lingua straniera, cambiano gli accenti e i dialetti, ma una comprensione reciproca è possibile (eccetto forse nelle psicosi), con i bambini ci troviamo di fronte a linguaggi esotici, di paesi sconosciuti, inesplorati, e a distanza di pochi
chilometri le lingue cambiano: ogni singolo bambino parla uno specifico linguaggio che ha poco a che vedere con quello parlato da un altro bambino e ancor meno da un adulto. Questo comporta una distanza che il terapeuta dovrebbe cercare di colmare, imparando a parlare la lingua di quel bambino, indipendentemente dalle ipotesi teoriche che si va facendo. Prendo in prestito una frase illuminante del dott. Paolo Carignani (2006), psicoanalista infantile, che disse ad un convegno di qualche anno fa che se la psicoanalisi “aveva lo scopo di tradurre il pensiero inconscio del bambino in un pensiero simbolico comprensibile all’adulto, il cammino da compiere è in un certo senso rovesciato e il compito dell’analista infantile….è di farsi bambino…lasciarsi impregnare da quell’habitus culturale, emozionale, cognitivo di cui il bambino è portatore”. In sostanza diventa necessario invertire la via della traduzione: non si tratta di tradurre i disegni o il gioco del bambino in un linguaggio adultomorfo e concettuale ma al contrario cercare di tradurre i nostri pensieri in un linguaggio accessibile al bambino. Di certo quando il bambino parla di un drago sputafuoco con quattro ali d’oro e d’argento e una lingua che secerne liquido congelante, non sappiamo ancora di cosa stia parlando, cosa egli intenda effettivamente con quella espressione, non possiamo inferire contenuti di fantasia di cui non abbiamo ancora traccia. Se ci disponiamo umilmente all’ascolto e alla comprensione di questo linguaggio, come un antropologo farebbe di fronte a una nuova popolazione indigena, cercando di impararne la lingua, le usanze, le credenze, così come una full immersion linguistica ci consentirebbe l’apprendimento di un nuovo idioma, potremmo apprendere i codici emozionali e cognitivi del bambino dall’interno, osservare e partecipare insieme, apprendere e interagire, ascoltare e proporre, senza abbandonare il nostro punto di vista, ma recando qualche disturbo alle teorie del bambino, proponendo vertici differenti con cui affrontare un problema. Con Dario ad esempio abbiamo giocato a viaggiare nei vari pianeti per vedere dove il suo drago potesse fare incontri-scontri senza rimanere sempre e soltanto solo, abbiamo costruito una navicella di ghiaccio che potesse rendere meno
L'arteterapeuta nell'arteterapia nei laboratori di gruppo per bambini
dannosi gli effetti della “maledizione” sputa-fuoco e cercato soluzioni, anche grazie agli altri bambini del gruppo, per verificare che tutti hanno delle barriere, scudi, corazze, poteri speciali, per difendersi da quel fuoco. La conservazione e l’immortalità non sono solo un desiderio di Dario! Quello che vorrei sottolineare è che, nel lavoro da noi svolto con i bambini nell’ambito dei laboratori di arte terapia in gruppo, non sono le ipotesi analitiche a diversificarsi, quanto il modo con cui il terapeuta le utilizza e le traduce nel linguaggio parlato dal bambino. L’arteterapeuta entra nel gioco del bambino e, senza mai uscirne, avanza le sue ipotesi, relative al desiderio o alle angosce da lui espresse, condividendo con lui l’esperienza e apportando il suo punto di vista, non cercando di dare al bambino una consapevolezza razionale di quello che accade. La difficoltà a muoversi su piani e livelli differenti è insita in questo lavoro; di certo non possiamo rinnegare noi stessi e il nostro modo di pensare, eppure siamo continuamente costretti a raggiungere livelli di realtà spesso inconcepibili. Non possiamo misconoscere il percorso che ci ha portati al nostro modo attuale di conoscere il mondo, costellato di innumerevoli universi più o meno malleabili che, diventati adulti, ci affrettiamo a etichettare come magici, infantili, illusori, ecc. senza dare valore agli altri infiniti modi di conoscere la realtà (P. Carignani,2006). Se è plausibile considerare valida, ma sarebbe anche questo da discutere, una metodologia clinica con pazienti adulti che lavori sui significati e sul senso nascosto di azioni, pensieri, percezioni, ecc. questa perde del tutto di validità quando viene trasposta al lavoro con i bambini. Qui la distinzione tra senso palese e significati occulti è semplicemente prematura, costringe l’analista che vuole dialogare col paziente ad immergersi in una realtà concreta dove i significati sono impliciti (e tali possono rimanere) e il senso simbolico che essi eventualmente acquisiscono appartiene ad una logica estranea al bambino. L’arteterapeuta che lavora con i bambini dovrebbe rimanere il più possibile sul terreno dell’”essere”, all’interno del quale i significati non hanno necessità di venire decodificati. La proposta che faccio mia, mutuandola dal concetto di “registri di linguaggio” (Ferrari, 1998), è quella di considerare fantasie, disegni, giochi,
come linguaggi completi che, in quanto tali, non rimandano ad altri linguaggi; non sono codici con cui il bambino si nasconde ma linguaggi coerenti che non simbolizzano contenuti ma sono essi stessi forma e contenuto. Da questa premessa scaturisce la mia riflessione sull’importanza della corporeità in arte terapia. Quando un bambino entra nella stanza di terapia o nel laboratorio di arte terapia, cosa sta entrando? Un corpo? Una mente? Cosa richiama la nostra attenzione? Il bambino immerso nello spazio creativo del laboratorio, o come dice qualche bambino nel “lavoratorio”, che si tratti di movimento, di pittura, manipolazione, o drammatizzazione…, è fondamentalmente “tutto corpo”. Quando dico “tutto corpo” voglio ben distinguere la dimensione della “fisicità” da quella della “corporeità”, non solo per un vezzo linguistico… La fisicità può riferirsi alla parte anonima, materiale, impersonale del corpo (muto insieme di organi) mentre la corporeità è una fisicità abitata, un corpo percepito dalla mente, nel quadro di una reciproca appartenenza. Il corpo è la faccia visibile dell’invisibile, il tramite fenomenico attraverso il quale il pensiero può rappresentarsi in maniera vivente e senziente. Il corpo come corporeità non è dunque soltanto qualcosa da pensare ma un processo pensante esso stesso, una dimensione che ha già all’origine insite delle funzioni mentali orientate ad accogliere e organizzare l’insieme disorganizzato e marasmatico di sensazioni provenienti dalla fisicità. Sto facendo riferimento al modo innovativo di concepire il rapporto mente-corpo proposto dallo psiconalista italo-brasiliano Armando Ferrari (Carignani, Romano, 2006). Questo rapporto esula dalla metafora superficie/profondo su cui si è fondata buona parte della tecnica “archeologica” freudiana e non contrappone, come suggeriva Bion, il nascosto al palese: la contrapposizione, o meglio la frontiera, tra la corporeità e la psichicità, sembra invece essere tra il pensabile e l’impensabile. Fulcro di questa ipotesi clinica è la collocazione dell’oggetto all’interno del sistema individuo e non più all’esterno, e neanche in un oggetto introiettato. Il corpo è dunque considerato il primo ed unico oggetto della mente (Oggetto Originario Concreto), che a sua volta dal corpo stesso viene generata: la psichicità è un tutt’uno con la
Barbara Cipolla corporeità (io sono il mio corpo) ed il corpo al contempo è il primo altro in cui si imbatte (io ho un corpo). Se questa ipotesi è valida, ne conseguono modificazioni sia sul piano clinico che tecnico, nel lavoro con i bambini. Nei modelli classici della psicoanalisi infantile il riferimento a relazioni d’oggetto o ad introiezioni dell’oggetto produce inevitabilmente un quadro piuttosto deterministico: data una certa relazione d’oggetto si costituisce una determinata struttura psichica, le esperienze primarie determinano la costituzione di un apparato psichico che a sua volta influenzerà gli avvenimenti psichici del futuro. Se invece consideriamo il corpo come oggetto psichico della mente, allora possiamo ipotizzare che la relazione tra soggetto ed oggetto non è mai predeterminata e le sue possibilità di variazione non hanno fine, poiché il corpo non è un oggetto introiettato in tempi lontani ma una presenza che si manifesta continuamente, costringendo la mente a fare i conti sempre col corpo attuale, mai con quello passato (Ferrari,2005). Le esperienze corporee sono specifiche esperienze sensoriali, motorie, viscerali, emotive, ecc. che si presentano senza soluzione di continuità per tutta la vita e forniscono informazioni sull’esperienza che andiamo vivendo. Al modificarsi dell’esperienza cambiano le sensazioni, le emozioni che proviamo e , allo stesso tempo, con il modificarsi del nostro sentire, cambiano anche le nostre esperienze. Siamo in presenza di elementi continuamente mutevoli, dinamici. Questo non significa che, come terapeuti, non possiamo dare senso a nessun fatto osservato ma che sia necessario costruire ipotesi più a maglie larghe, senza voler avere la pretesa di spiegare tutto nei minimi dettagli. Volendo paragonare il terapeuta all’antropologo, sarebbe come dire che dopo aver conosciuto una singola tribù di cannibali nel cuore dell’Africa, appena incontro un africano che arrostisce carne, pretendessi di sapere già tutto delle sue usanze, dei suoi gusti, delle sue credenze, generalizzando una conoscenza che non è generalizzabile. In sostanza il bambino, da questo punto di vista, è l‘artefice di un processo, non il guardiano di un sistema già determinato; e compito del terapeuta è di guardare all’emozione senza giudicarla, considerarla come una modificazione del soggetto che la prova, un segnale, ed indicare al bambino
che uso sta facendo di quella emozione, perché è in questo terreno che il bambino può intervenire ed eventualmente modificare le teorie che si sta costruendo. Ecco che attraverso un lavoro terapeutico che utilizzi prevalentemente il linguaggio corporeo è possibile superare quel “bilinguismo” di cui si parlava poc’anzi: l’arteterapeuta osserva, gioca, sollecita, attraverso innanzitutto il dialogo corporeo, trasformazioni degli atteggiamenti interni che si riflettono nel “fare”delle azioni fisiche. Si dice che “il corpo non mente”: noi siamo il nostro corpo, qui è scolpita, dipinta, scritta la nostra vita, qui sono riposti i nostri ricordi più profondi ed i semi del nostro futuro. Le posture, gli sguardi, gli atteggiamenti corporei, che riflettono attitudini interne, la qualità del nostro respiro, a differenza del linguaggio verbale, si rivelano spontaneamente, senza la partecipazione della nostra volontà. Noi/il nostro corpo siamo tesi o rilassati, aperti o chiusi, grandi o piccoli, veloci o lenti, forti o leggeri, indulgenti o combattivi, accoglienti o respingenti, in movimento o immobili. Tutto ciò avviene alla presenza del testimonearteterapeuta, il cui primo compito è di contenere l’esperienza dell’altro, ma non solo… L’arteterapia nei laboratori che conduciamo all’Artelieu con bambini e pre-adolescenti utilizza un approccio psicocorporeo di tipo esperienziale e risulta particolarmente utile in quei casi in cui l’individuo non abbia ancora acquisito la capacità di tradurre in parole ciò che sente a livello corporeo ed emotivo. Ognuno è accolto inizialmente senza particolare attenzione al disturbo specifico, ma piuttosto alla sua totalità di essere psichico e corporeo. Questi alcuni fra i principali obiettivi di un laboratorio di arte terapia che si basi su questi presupposti: -sviluppare la consapevolezza del collegamento fra espressione corporea ed espressione emotiva, -sviluppare un rapporto di alleanza con il proprio corpo, facilitare esperienze corporee piacevoli ( ad esempio attraverso attività di rilassamento, inizialmente anche condivisa con la /il terapeuta), -aumentare la conoscenza e il senso di padronanza del proprio corpo, sviluppare il proprio senso di identità, -ampliare la gamma di movimento, così da
L'arteterapeuta nell'arteterapia nei laboratori di gruppo per bambini
aumentare contemporaneamente anche le proprie capacità adattive, la possibilità di sentire e riflettere sulle esperienze per affrontare meglio le varie situazioni -aprire un canale di comunicazione con i propri bisogni, desideri e contenuti inconsci, offrendo nuove modalità (drammatizzazioni, disegno spontaneo, musica, danza, scrittura ed eventualmente il linguaggio parlato ecc.) per dare forma, contenere ed elaborare tale materiale, -sviluppare la consapevolezza dei propri confini corporei, di ciò che è interno ed esterno a sé ,del proprio spazio personale, -ri-contattare la propria creatività a cominciare da quella corporea ( J.B. Rice, M. Hardenbergh, L.M. Hornyak,1989). La relazione terapeutica è incentrata sul “fare”, coinvolgendo direttamente il bambino su un piano esperienziale, permettendogli di contattare, svelare e divenire consapevole di emozioni, immagini e memorie corporee profonde attraverso nuove modalità rappresentative che permettano una maggiore libertà espressiva. Nella preadolescenza, ad esempio, la bambina/il bambino si sta tramutando in ragazza/ragazzo ed è in atto un passaggio dall’utilizzo di un pensiero più orientato concretamente ad un pensiero più capace di maggiori elaborazioni. In questo limbo è di fondamentale importanza l’ancoramento al corpo che funge da anello di collegamento: come dire “ se posso fare con il corpo e pensare con la mente, posso anche pensare con il corpo e fare con la mente”. Da una serie di disegni fatti insieme con la lavagna bidirezionale (tavola di plexiglas 50x70 dove si può disegnare contemporaneamente da entrambe le parti) Alex (soffre di panico e crisi di angoscia e non riesce più ad andare a scuola da alcune settimane) inventa e mette in scena con me una storia che per le sue difficoltà a verbalizzare ha dell’incredibile. Sono diverse sedute che mi parla sempre dei suoi cani, di quello che fanno e mangiano ma il discorso si blocca, non riesce ad andare oltre. I RAGAZZI SCOMPARSI NEL NULLA (di Alex, 13 anni) C’era una volta un ragazzo che voleva entrare in una casa segreta sopra l’arcobaleno, disabitata da tanti anni. Un giorno decise di entrare in quella casa con un amico, ma non trovarono entrate. Alla
fine videro una botola ed entrarono. La casa era bella, senza polvere, sembrava normale. Decisero di accamparsi lì come un rifugio segreto. La prima notte che rimasero anche a dormire sentirono rumori provenire dal sotterraneo. Andarono a controllare ma non videro nessuno. Il rumore sparì. Ma… tornati sopra, trovarono la casa sottosopra, tutto rotto, e macchie di sangue per terra. Si preoccuparono molto e scapparono. Ma la botola era sparita! Non c’era più una via di fuga! Provarono a telefonare alla polizia ma non c’era campo,era impossibile, cercarono allora delle armi per difendersi ma non le trovarono. Presi dal panico, cominciarono ad urlare. Quando i rumori si fermarono, uno zombie entrò in casa con una moto-sega in mano. Tagliò la testa all’amico in un attimo. Il ragazzo cominciò a correre disperato e alla fine trovò un’uscita che portava su un albero. Ma correndo rimase impigliato a una corda e si impiccò senza volerlo. Alex si ferma con una espressione terrorizzata e sembra completamente paralizzato sia nella postura che nell’uso della voce e nella mimica. Gli propongo di continuare e dico: “La Morte decide di dargli un’altra possibilità e lo fa tornare in vita”. Alex riprende a disegnare e lentamente si rilassa. Poi scrive il finale della storia: Lui rientra in casa e trova l’amico vivo ma stordito. Incontra anche lo zombie a cui dice che la Morte gli ha dato un’altra possibilità. Lo zombie allora decide di diventare loro amico. Rimettono a posto la casa e scrivono un cartello: PERICOLO DI MORTE. NON ENTRARE. Tornano a casa e trovano i genitori sconvolti per la loro scomparsa. Non possono dire la verità e inventano una scusa per la loro lunga assenza. Intanto i ragazzi sono diventati più adulti e i loro genitori più vecchi. Così decidono di andare a vivere fuori città ma in realtà vanno a vivere nel rifugio segreto. Vogliono evitare che altri muoiano come loro per la curiosità di entrare. Loro non invecchiano mai e rimangono in quella casa per sempre come guardiani. L’effetto sulla sua angoscia è immediato, Alex per la prima volta davanti a me si rilassa e sorride quando ci salutiamo, nell’uscire lo vedo per la prima volta camminare e muoversi nello spazio, mi sembra tornato visibile per un po’. Parlare della morte gli ha ridato un po’ di vita.
Barbara Cipolla Qui il corpo si offre come “medium creativo”con tutto il suo potenziale proiettivo che da portatore di sintomo o di sofferenza diventa, con il dispiegarsi del lavoro terapeutico, il canale possibile attraverso il quale contattare il proprio mondo interno e l’altro a cominciare dalla relazione con la/il terapeuta. Questa modalità di lavoro, incentrata principalmente sull’affiancare esperienze di drammatizzazione a lavori plastico-pittorici, permette al bambino di dare direttamente corpo alla sua esperienza, facilita una possibilità di essere con l’altro sulla base innanzitutto della condivisione di un “agire” che coinvolge i sensi, risveglia l’energia creativa del corpo e un maggiore senso di realtà. D’altro canto già nel dipingere le immagini si trovano naturalmente in un rapporto di comunicazione con il corpo, le sue sensazioni, il suo sistema neuromuscolare. Si lascia che il corpo racconti la sua storia e poi, successivamente, si apre un dialogo fra l’Io e le proprie immagini. A volte ad esempio emerge un’inadeguata differenziazione fra interno ed esterno, come pure fra sé e l’altro. Queste differenziazioni sono necessarie per una sana costituzione del proprio senso di identità. Spesso, ad esempio, il corpo di bambini che soffrono di disturbi di somatizzazione appare poco animato, con una gamma espressiva molto ristretta, associato a sentimenti di impotenza e di vuoto. In uno spazio libero e protetto, basato sulla fiducia reciproca, in cui non c’è un modo giusto o sbagliato di esprimersi, gradualmente è possibile avviare un lavoro di ascolto delle proprie sensazioni corporee, partendo dalle più semplici, la tensione e il rilassamento, e dare a queste una forma visibile, tangibile, osservabile da fuori. Coinvolgendo il corpo, questo viene ri-posseduto, ri-abitato, sentito come più vivo, reale, unico e creativo. Queste modalità di espressione e comunicazione costituiscono il nostro linguaggio fondamentale e universale, l’importante substrato, la fondamentale area subsimbolica che continuerà ad essere presente, a svilupparsi e a sostenerci tutta la vita, e su cui andrà a fondarsi l’avvento della parola. Attraverso un lavoro di arteterapia possiamo forse riuscire ad abbattere le frontiere del “dialogo bilingue” e il bambino può intraprendere un percorso di “alfabetizzazione” corporea come
primo passo verso una “alfabetizzazione emotiva ed immaginativa”. Bibliografia e Note - G. Bachelard, La filosofia del non. Saggio per una filosofia del nuovo spirito scientifico, Armando, Roma, trad. 1998 - P. Carignani (2006), Dialoghi con i bambini, Atti del IV Incontro italo-brasiliano, Firenze, luglio 2006 - P. Carignani,F. Romano (a cura di)(2006), Prendere corpo, Franco Angeli, Milano - F. De Saussure (1916), Corso di linguistica generale, Laterza, Bari (trad.it. 1967) - A. B. Ferrari (1998), L’alba del pensiero, Borla, Roma - A.B. Ferrari (2005), Il pulviscolo di Giotto, Franco Angeli, Milano - L. Grignoli (2008), Percorsi trasformativi in arte terapia, Franco Angeli, Milano - L. Grignoli (2011), “C’è ancora spazio per il desiderio?”, dalla Giornata di Studio “Lontano dagli occhi, vicino al cuore” , Spoltore (Pe), organizzata dall’Associazione Artelieu e da Profac per la 5° settimana italo-francese dell’arteterapia - C. Levi-Strauss (1980), Mito e Significato, Il Saggiatore, Milano - D. Pancioni (2009), L’approccio psico-corporeo a carattere esperienziale nel lavoro terapeutico, articolo on-line Barbara Cipolla (Francavilla al mare, CH): Psicologa,Psicoterapeuta Psicologa clinica dal 1995, specializzata in Psicoterapia integrata presso l’Università Salesiana di Roma, ha continuato la sua formazione orientandosi verso la psicoterapia psicoanalitica presso l’”Istituto di Formazione e Ricerca A. B. Ferrari” di Roma, e parallelamente approfondendo i suoi studi in arteterapia clinica presso l’Istituto Profac di Arles (Francia) e iscrivendosi all’Albo degli Arteterapeuti in Francia. Ha lavorato per numerosi enti pubblici e privati facendo consulenza, formazione e supervisione nell’area dei minori e della disabilità, a Roma prima, e dal 2001 a Pescara. Ha fondato nel 2003 l’Associazione Artelieu per proseguire la sua ricerca nel settore della clinica dell’età evolutiva attraverso la mediazione corporea.
Renè Magritte La Trahison des images (Ceci n'est pas une pipe) (1928-29) olio su tela Collezione privata, New York
C. Widmann: "Questa immagine è un manifesto della cultura e della sensibilità novecentesca. È scritto a chiarissime lettere che quella che vediamo non è la realtà; non è la realtà così come noi la vediamo. Noi percepiamo e vediamo un oggetto ma in realtà è un altro. Allo stesso modo anche il nostro lavoro analitico quotidiano: vediamo una cosa, un oggetto ma ne è un altro. Sappiamo che stiamo guardando una pipa ma non è una pipa. Sappiamo che l'apparenza non è la realtà. Tra la pipa e la non-pipa c'è spazio per tutto: c'è spazio per l'imbroglio, per la menzogna, per l'illusione, ma soprattutto c'è spazio per il simbolo. È anche questa l'essenza del simbolo: noi vediamo una cosa ma ne è un'altra."
Vasilij Vasil'evič Kandinskij Alcuni cerchi 1926, olio su tela, New York, Guggenheim Museum
C. Widmann: "Posso dirvi che Kandinsky è stato uno dei maggiori poeti del colore. Non solo dal punto di vista pratico ma anche teorico; ha scritto un grande trattato sul colore "Lo spirituale nell'arte", che può essere considerato un trattato vero e proprio sulla psicologia del colore. Kandinsky è un mito dell'arte, nel vero senso della parola. Rappresenta quegli artisti di cui tutti direbbero guardando una sua opera: "questo lo so fare anch'io". Da un punto di vista piu' psicologico ci fa capire l'essenza della creatività che è fondamentale per la
Valentina Marroni, Michele Mezzanotte psiche: la creatività non sta nell'oggetto nuovo che si produce ma nel "come" viene prodotto l'oggetto nuovo. La creatività nel setting è fondomentale. La relazione analitica stessa è da creare. Nella fase iniziale della nostra professione facciamo attenzione a rispettare le regole, tuttavia l'esperienza analitica è soprattutto violazione delle regole analitiche. La relazione analitica è una fecondazione reciproca di due psiche che si incontrano senza sapere cosa si verrà a creare."
Sandro Botticelli Natività mistica National Gallery, Londra.
C. Widmann: "La prima riflessione è che non ci sono simboli del cristianesimo o del buddismo, ma ci sono semplicemente simboli. Simboli che vengono presi in prestito da culture diverse a seconda dell'occasione. In particolare, questo della natività, è un simbolo grandioso non solo di una nascita, ma di ciò che puo' significare una nascita. L'origine di qualcosa di nuovo, di numinoso, qualcosa di destinato a crescere oltre ogni sviluppo pensabile. Credo, e per inciso mi auguro, che la nostra psiche sia ogni giorno feconda. Ogni giorno è un natale per la psiche. Ogni giorno nasce qualcosa di fausto o infausto." "Cosa muore invece nel paziente che entra in analisi?" C. Widmann: "In analisi muoiono tutte le cose che hanno fatto il loro tempo. Noi non siamo eterni perchè le cose che introiettiamo e con le quali ci identifichiamo, non sopravvivono per sempre. In quelle particolari rappresentazione della natività chiamate presepi sono sempre rappresentati dei resti; i resti sono un topos ricorrente nelle rappresentazioni partenopee del presepe; i resti come rappresentazione di tutto ciò che un giorno fu sacro e nobile, e che adesso è soltanto pietre e rovine. Io credo che in questo senso tutte le cose che facciamo nostre, anche se le riteniamo eccelse nel momento in cui le assimiliamo, sono destinate a cadere. Nell'analisi facciamo i conti con tutte le vestigia, più o meno fatiscenti, che ci ostiniamo a tenere in piedi e che ormai sono in rovina. Contemporanemamte, da qualche parte, in quel luogo infero, in quella grotta, c'è un fermento che nell'esperienza concreta può avere l'aspetto di un pensiero bizzarro o di una fantasia, nella quale ci si butterà inevitabilmente a capofitto. Da qualche parte sta nascendo qualcosa di nuovo. L'analisi è un laboratorio un pò artificiale dove si facilitano questi processi: il crollo delle rovine e la gestazione di qualcosa di nuovo."
Intervista a Claudio Widmann
Fernando Botero Pic Nic 1989 Olio su tela Collezione Privata
C. Widmann: "Botero si può considerare proprio un pittore della nostra epoca, dove le persone rubiconde, grasse e obese, sono sempre piu frequenti e si incontrano sempre più spesso per le strade dove camminiamo. È un pittore gaudente. Io credo che mangiare sia archetipico. È davvero un'esigenza vitale di introdurre all'interno ciò che è all'esterno. Da questo punto di vista, noi mangiamo persone, cibi, informazioni e significati. Prendiamo degli oggetti ed esperienze esterne e le introduciamo dentro di noi con modalità diverse: in maniera costruttiva, schizzinosa, selettiva, spesso anche voracemente. La rotondità, la corposità e la pastosità di Botero sono significativi. Uomini e donne sono paffuti, perfino i passeri rappresentati dal pittore: tutto ciò indica la nostra voracità moderna. Ingoiamo e ingurgitiamo tutto: accendiamo la tv e ingoiamo qualsiasi cosa ci si pari davanti agli occhi, andiamo nei locali e ingurgitiamo qualisasi rumore. Non siamo mai pieni, mai sazi."
Costantino Di Renzo La scarpa dell'emigrante olio ed acrilico su tavola cm.51x76
C. Widmann: "Ciò che mi colpisce di questa immagine è che sia un viaggio all'interno di un atmosfera grigia, e ciò che mi viene in mente è che l'uomo metropolitano contemporaneo è in grado di distinguere oltre cento gradazioni di grigio. Dunque è un pittore acuto, che colloca questo uomo, che siamo tutti noi, in un universo grigio. Mi domando se sia veramente un percorso all'indietro, un percorso di regressione, involutivo. Ma questo credo che il quadro non ce lo dica."
Valentina Marroni, Michele Mezzanotte
Alfred Agache Le Parche 1885 ca.
C. Widmann: "Mi pare di avere come una sorta di familiarità con queste figure: Parche, Moire o Norme. Queste figure abitano dentro di noi e amministrano la nostra vita. Ma dire "abitano dentro di noi" è già falsasto, sarebbe più corretto dire "sono noi". C'è una bellissima narrazione di fantasicenza dove un signore arriva su un pianeta sconosciuto: è il pianeta delle astrazioni simbiotiche. Su questo pianeta vi sono gli alter-ego di tutti gli esistenti. Il protagonista cadendo sul pianeta si rompe, o meglio, rompe il suo corpo e viene ricostruito. Così scopre che all'interno del suo corpo sono in due: lui e la sua astrazione. Un giorno lei gli dirà :"io sono il tuo destino e la strada che stiamo facendo, la stiamo facendo insieme." Le parche sono prorpio noi."
James Hillman Photo
C. Widmann: "Se mi consentite non darò una risposta seria, ma scherzosa. Citando un mio amico, che è ancora più provocatorio di me, vi dico che James Hillman è stata quella figura che ha esonerato generazioni intere di analisti dal pensare. Ha pensato lui per tutti. Ripeto, è una risposta scherzosa, tuttavia un'osservazione seria. Un'osservazione che vuole prendere in considerazione, con grande serietà e ammirazione, la capacità di pensiero originale di rovesicare le cose, di filtrarle. Hillman riesce a prendere le cose che sono sotto i nostri occhi e incastonarle in una prospettiva piu grande che mi piace chiamare archetipica; la prosepettiva dell'universo, di cui noi siamo solo navigatori millesimali."
Intervista a Claudio Widmann "Siamo noi nella psiche o è la psiche dentro di noi?" "Hillman e Jung direbbero in accordo che dipende da prospettive. Se fossimo identificati con l'inconscio colettivo, se il nostro Io fosse un tutt'uno con l'inconscio collettivo, diremmo che possediamo tanti esseri umani, così come il nostro organismo possiede tanti germi e tanti enzimi. Siccome siamo identificati con l'Io e con la coscienza dell'Io, siamo convinti che l'universo abbia un centro ben solido, che nella fattispecie sono Io; tutto il resto gravita intorno. Credo che sia solo una questione di proie(...), di prospettive."
Eranos Ascona,Svizzera Photo
C. Widmann: "Eranos è la casa di Jung, di Hillman, della psicologia junghiana. Eranos è il Luogo. Mi è accaduto poco tempo fa di stare ad Eranos e di tenere una relazione, per poi ripartire solo il giorno dopo. Mi è capitato di restare lì a dormire e di vedere gli altri che andavano via; in quella casa che fu di Olga Fröbe-Kapteyn , nella sala che fu delle le riunioni di Eranos, sul quella terrazza dove sedevano i grandi ad ascoltare quel mormorio del lago, a passeggiare in quel giardino e a guardare i resti di sculture greche e antiche. Lì, in quel luogo, ho capito cos'è il genius loci. La capacità, suggestiva quanto volete (da molto tempo non mi interessa più la distinzione tra soggettivo e oggettivo), di quel luogo di incantare; l'esperienza intensa, viva; la presenza di qualcosa di spirituale che anima, e che si percepisce in quel luogo. Naturalmente non soltanto lì, naturalmente in tanti altri luoghi. Ho avuto la fortuna una volta di stare nella biblioteca di Jung e di sfogliare i volumi presenti, di sedermi nella poltrona in cui faceva analisi e di guardare fuori verso il lago. A me sarebbe molto piaciuto fare analisi in quella stanza, non è un desiderio molto originale come vedete, è un desiderio un po' ambizioso di essere figlio diretto di Jung; ma oltre a tutte queste cose molto umane ed anche molto piccole, vi era qualcosa di grande e trans-personale: si aveva la percezione che quello era un luogo con un'anima. Ora mi chiedo: sono i luoghi che si caricano delle presenza di questi grandi, o sono i grandi che si adagiano in questi luoghi e non in altri? Mi ricordo che Jung disse a Marie Luise Von Franz : "vendono un terreno nella parte di Bollingen(...) ma lì non può esserci una casa, deve sorgerci per forza una torre". Così la Von Franz fece costruire la sua torre. I luoghi forse si caricano della presenzea dei grandi. Un architetto, credo, disse che l'impronta che lasci sul pavimento è molto più importante del pavimento stesso.
Valentina Marroni, Michele Mezzanotte I luoghi si impregnano sicuramente della presenza dei grandi, ma non credo che i grandi si adagino in luoghi qualsiasi."
Claudio Widmann Ravenna, Italia Photo
C. Widmann: "Quel luogo, è il luogo della casa a cui sono più affezionato. Lì dentro ci sono circa seimila libri. Ci sono molti testi antichi. Con un pizzico di commozione ho visto, che nella biblioteca di Jung ci sono dei libri che sono anche nella mia libreria. Quello, credo di poter affermare, anche insieme ad Hillman, che sia un luogo dell'anima. Un luogo del mio fare psiche, del mio tuffarmi nei testi antichi, perche lì ci sono testimonianze arcaiche; il luogo dove scaricare le cose da internet, perchè lì ci sono tesitmonianze contemporanee. Il luogo dove la psiche diventa presente. La cosa inquietante quanto affascinante è che non so dove mi porterà la psiche." "Per concludere..." C. Widmann: "Come diceva Bachelard: "togliete la parola profondo alla psicologia, e resterà ben poco della psicologia; oppure resterà una di quelle psicologie senz'anima di cui noi non ci occupiamo.""
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