Lanima fa arte10

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FOTOGRAFIA DI VIVIAN DOROTHEA MAIER: la donna ha scattato quasi 150.000 fotografie senza mostrarle ad alcuno. Solo dopo la sua morte, grazie a John Maloof - figlio di un rigattiere che comprò i suoi rullini ad un'asta - le sue fotografie sono state mostrate al mondo, ed ora è annoverata fra i nomi dei più grandi fotografi esistiti.


Michele Mezzanotte

Valentina Marroni

Matteo Colangeli

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CONTENUTI Volume 10

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Editoriale di Valentina Marroni

di Michele Mezzanotte

Diavolo! Partendo da alcune sincronie letterarie l'autore pone al centro dello scritto l'immagine del Diavolo e gli archetipi funzionali che emergono attraverso la sua presenza.

di Luca Urbano Blasetti

Attacchi di panico:

il grande dio Pan, il saggio, è risorto. L'Immagine panica è rivisitata dall'autore attravero una commistione di linguaggi psicologici contemporanei e mitologici: Memoria a Lungo Termine, Memoria a Breve Termine e Ram. di Vincenzo Ampolo

Cure amorevoli e pratica del transfert Il tema dell fuoco incendiario come base del rapporto psicoanalitico e quindi del Tranfert va a completare il discorso sul transfert iniziato nel numero 5 dell'Anima Fa Arte affrontato dallo stesso autore.


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di Zaira Cestari

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Invisibile, naturale sovranità. Riflessioni per e dal Seminario del Pensare 2015

La scrittrice ci conduce in un viaggio attraverso l'invisibile, quindi attraverso l'inconscio e le immagini che lo costellano sia a livello individuale sia comparate su di un piano collettivo. di Mario Gullì

L'Attesa In questo elaborato l'immagine dell'Attendere viene analizzata e letta da un punto di vista psicologico per scoprire come la cultura occidentale e quella orientale si rapportano ad essa.

di Antonello Carusi

Su "La morte di Ivan Ill'ic" L'autore prende in esame il racconto breve di Lev Nikolaevič Tolstoj pubblicato per la prima volta nel 1886 per esaminare da un punto di vista psicoanalitico il concetto di Finzione.

di Valentina Marroni, Michele Mezzanotte

Intervista ad Emanuele Trevi In questo numero abbiamo intervistato per voi lo scrittore e critico letterario Emanuele Trevi, figlio dello psicoanalista italiano Mario Trevi, che risponderà su alcune domande centrali sul rapporto tra letteratura e psicologia.


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EDITORIALE di Valentina Marroni


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Buon 2016 a tutti i nostri lettori! L'Anima Fa Arte torna - come si suol dire – col botto, ovvero con novità grafiche ed editoriali. La rivista, quest'anno, cambierà vesti e contenuti. Come avrete modo di notare sfogliando le nostre pagine, in questo numero 10 i cambiamenti avverranno solo graficamente. Abbiamo deciso di snellire la grafica rendendola più leggera e contemporanea, soprattutto cercando di creare più posto (rispetto alle passate edizioni) all'arte, che è manifestazione della psiche e dell'anima per eccellenza. Questa rivista scientifica darà spazio alla psicologia archetipica e all'arte nella stessa maniera. L'arte visiva ci porterà direttamente e irrazionalmente a contatto con la nosta anima, mentre, gli articoli dei nostri studiosi, affronteranno con luce apollinea le tematiche psicologiche che mirano alla sua conoscenza. Coscienza (logos sulla psiche) e incoscienza (il sentimento suscitato dall'arte visiva) si uniscono per rappresentare fra queste pagine l'anima a tutto tondo - non volendo trascurare in essa nessuna delle due parti e soprattutto, non auspicando l'egemonia dell'una sull'altra - . Nel prossimo numero in uscita a Maggio 2016, avverranno cambiamenti anche nello stile del racconto del logos psicologico. Il numero 11 della rivista diventerà tematico, affrontando di volta in volta un particolare aspetto dell'Anima. L'immagine di copertina in questa uscita è di Jim Dine che nel 1973 compose una serie di 10 litografie rappresentanti alcuni "utensili invernali". Noi abbiamo scelto il compasso come rappresentante del n.10. Il compasso è quello strumento che ci permette di disegnare cerchi di varia misura. Il numero 10 è la perfezione, come è perfezione il cerchio che così simboleggia l'eterno ricominciare ed è per questo che abbiamo deciso di ri-cominciare e re-inventarte la rivista proprio in questo numero. È forte quindi l'analogia tra il numero 10 e il cerchio, i quali permettono il rinnovo delle energie. Inoltre in navigazione, il compasso, è usato anche come strumento di misurazione per orientarsi in mare aperto. Ed è questo l'augurio che facciamo alla rinnovata L'Anima Fa Arte, ovvero di poter fungere da compasso, tracciando rotte psichiche che possano indicarci la rotta nel nostro mareanima. Vi auguro una buona lettura e un felice anno nuovo.


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Tratto da: UN TERRIBILE AMORE PER LA GUERRA di James Hillman

E se la terra volesse la guerra? Come si spiega il fatto che Ares sia anche un antico dio dell'agricoltura? E che a Marte sia assegnato un suo appezzamento, in campagna, fuori le mura della città ? A chi si sforza di comprendere la furia della guerra di secessione americana, e anche la composta, paziente sopportazione di quella guerra, che andò avanti per quattro anni, arrivando a toccare la Florida e il Nuovo Messico (oltre diecimila distinti scontri armati in cui rimasero uccisi oltre seicentomila uomini e ragazzi), le motivazioni di solito elencate non paiono all'altezza di tanta carneficina.


American Gothic, fotografia scattata da Gordon Parks nel 1942


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DIAVOLO!

Michele Mezzanotte, Chieti Psicologo - Psicoterapeuta, e giornalista. Presidente dell'associazione culturale e di volontariato psicologico "L'Anima Fa Arte". Direttore Scientifico della rivista psicologica "L'Anima Fa Arte". Autore di diverse pubblicazioni psicologiche. Lavora nel suo studio privato a Chieti.


Willem de Kooning, Rainbow, Devil at the Keyboard, ca. 1970


Diavolo!

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n segno casuale sul foglio. Una vite sotto la scrivania della sedia su cui siedo che mi guarda inutile. Una carta dei tarocchi che sto per estrarre: il diavolo. I tarocchi sono di Alejandro Jodorowsky, la recente edizione dei gatti. È un regalo recente. Le forze oscure del diavolo e dell'inconscio si avvicinano. Una seconda possibilità per quella vite. Mi scrollo da sopra la testa i pregiudizi del logos e inizio a scrivere. Un'immagine di sogno: "Un vulcano e degli zombie. Il vulcano erutta e grossi macigni di lava distruggono un edificio ecclesiastico. Ci nascondiamo dietro una piccola duna di terra.". Il segno apparentemente senza senso ha dato il via. L'apertura traumatica è stata trovata, ed ora, viaggiamo attraverso le possibilità delle immagini. Ci diamo una seconda possibilità per intrecciarne un senso. Il diavolo raccoglie la vite e pensa. La vite aspettava da tempo il diavolo. La vite inutile è zombificata e il diavolo oscuro erutta fiamme prendendo la forma di grossi macigni leggeri che distruggono il sottile edificio ecclesiastico. Racconto una storia mai pensata. Per meglio dire, la intuisco senza schemi perchè la psiche è così che si prensenta: senza schemi ma allo stesso tempo chiara per chi la vuole accogliere. È l'energia del segno che mostra (etimo segno). Mostra un sentiero che non si può capire e abbiamo il dovere di non capirlo ma semplicemente di percorrerlo. Lo percorriamo e il diavolo dà una seconda possibilità alla vite non-morta. Lascio carta e penna e inizio a scrivere attraverso la tastiera del pc. Un passaggio è esigenza di vita e di vite. Pechè un diavolo dovrebbe prendersi cura della vite? Perchè dovrebbe prendersi cura della vita? Le energie si prendono cura di loro stesse. Noi a volte le ostacoliamo in tutti i modi, ma loro ci danno una seconda possibilità di essere utili al mondo. Possiamo rimanere con ostinazione al nostro posto, possiamo rimanere barricati dietro le insicurezze, in quel margine di mondo che si trova sotto la mia scrivania accanto alla vite zombificata, ma loro verranno quantomeno a cercarci. Il diavolo rompe i pregiudizi; la lava rompe gli edifici obsoleti fatti di schemi, veti, ostruzioni e presunzioni che impediscono alla vite di darsi una seconda possibilità e impediscono alla vita

di scorrere. Osservo tutto insieme ad altre persone da dietro la duna di terra. La terra mi protegge. Non c'è pericolo, c'è solo ammirazione per ciò che non potremo mai controllare, il nostro vulcano, forse il Vesuvio: addormentato ma non morto. Le mura crollano sotto i colpi dei massi in fiamme e spazi si aprono tra il fumo e la polvere. Gli spazi si aprono. Non riusciamo a respirare all'interno della paura e della confusione. Scappiamo e cerchiamo riparo scivolando dietro la duna terrosa. C'è sempre una parte di noi che può proteggerci dai vulcani. Ora che il vulcano ha rotto gli edifici e io ho preso la vite che faccio? Prendo il cacciavite e rimetto la vite a posto: è nuovamente viva. Mentre l'avvito mi chiedo se effettivamente il suo posto sia ancora quello. Lo spazio è ancora capace di accoglierla dopo tanto tempo? Non mi preoccupo; qualora così non fosse, troverà un altro posto, ormai ha avuto la sua seconda possibilità, ormai è viva. Spesso abbiamo seconde possibilità, raramente le accettiamo. È troppo doloroso immergersi nelle seconde possibilità e rinunciare alla cancrena del passato. È doloroso rinunciare alle ecclesie, alle adunanze dei nostri ricordi e delle nostre immagini. Sono spessi, a volte meno di quanto pensiamo. È doloroso scordare chi siamo. Esisistiamo in viti inutili con esistenze zombificate nel tempo. Un diavolo è pur sempre un diavolo e anche se porta con sé energie psichiche nuove e creatività, in fondo rimane sempre e solo un diavolo. Non tenderò mai la mano a quel diavolo che cerca di distruggermi e che cerca di portarmi via da sotto la scrivania e dalle mie sicurezze. Non rinuncio alla mia comodità e alla mia vita da zombie per un diavolo. Lui vuole solo il mio male, o almeno così ricordo che mi hanno insegnato in passato. Sarà vero? Domanda scomoda per menti comode. Disse il diavolo di un gatto: "(...)Se mi offri la tua anima, io ti propongo di ipnotizzare i tuoi padroni e i loro domestici. Incapaci di percepire ciò che sta accadendo, non ti vedranno più e, con il tuo diavolo interiore scatenato, potrai strappare le tende, rovinare i cuscini con i denti, bere il latte dei


Michele Mezzanotte neonati, mescolare i tuoi rifiuti gastrici ai loro stufati e, piacere supremo, appiccare il fuoco accanto a me e bruciare ogni cosa. Noi prenderemo possesso del loro denaro. E tu, dopo esserti trasformato in un essere umano, giocherai al casinò, ti ubriacherai insieme a donne truccate e coperte di paillettes, ucciderai un innocente e divorerai le sue viscere, ti divertirai come il padrone non ti ha mai permesso di fare. Conoscerai te stesso, scoprirai di avere immense opportunità, sarai in grado di arricchire il mondo con il tuo fuoco creativo.(...)"1 Sembra che faccia più paura immaginare il diavolo che guardarlo realmente. Voglio approfondire perciò un pò questa figura felina controversa. Nell'ebraismo il Diavolo ha-satan è visto come avversario, ostacolo da superare, ovvero è colui che mette alla prova ed è giudice insieme a Dio. Nel cristianesimo il Diavolo è "proprietario" delle anime peccatrici. Esso subentra quando siamo in peccato, ovvero quando siamo in mancanza e in fallimento (etimo peccato). Quando il Diavolo arriva a tentarci abbiamo fallito in qualcosa, abbiamo mancato di rispettare noi stessi e qualche nostra energia. Il Diavolo islamico Iblis nasce dal fuoco senza fumo ed è il disobbediente alla legge di Dio. Secondo la religone islamica così come per quella cristiana bisogna lottare contro il Diavolo (jihad). Gli avvenimenti recenti e passati ci fanno intuire bene quanto sia pericoloso presentare una dottrina religiosa fondata sulla lotta al Diavolo. Ci sono altre e molte immagini del diavolo tutte rimandanti ai suoi archetipi fondamentali. In molte altre culture e religioni non c'è il bisogno di una figura così netta, ma tutti gli dei e gli uomini hanno una parte divina e una diabolica, che in fondo fanno rilucere la psiche a seconda dei punti di vista e delle necessità. Stranamente Dio e Diavolo sembra abbiano la stessa etimologia che significherebbe rilucere. Entrambe le figure possono illuminare la nostra psiche se siamo pronti ad accoglierle e ad ascoltarle al momento giusto. È colpa del segno, di quel maledetto segno iniziale se sono arrivato a questa maledetta tentazione da diavolo. Una tentazione per una

seconda opportunità. Una prima opportunità fallita, trascurata, o cieca. Ma ora c'è una nuova opportunità e non devo sentirmi in colpa per questo, almeno credo. Devo abbandonare ciò che ero e ciò che sono. Devo lasciarmi andare a ciò che sarò. Gli altri non contano in questa scelta. Gli altri mi vedono così come io voglio che mi vedano e non c'è bisogno di pensarci. La vite ha ritrovato nuova vita. Lasciarsi alle spalle l'edificio obsoleto della propria identità è un processo fatto di azioni e non di parole. Piccole azioni del quotidiano cambiano il modo di vivere. Piccole particelle di lava formano il grande macigno che spazza via la vecchia e ostruttiva ecclesia. Un'azione che si distacca dalla nostra routine può avere effetti incredibili sui nostri edifici psichici. Basta poco per far tremare la terra psichica: un particolare, un gesto, una situazione nuova o insolita, e così si apre un mondo nuovo. Un punto di vista nuovo irrompe con chiarezza all'interno dell'anima di chi sa osare partendo dal piccolo. Un caffè in un luogo diverso, parole scambiate con una persona sconosciuta, uno sport mai provato, un piatto mai assaggiato, un saluto inaspettato, una festa indesiderata....un segno su un quaderno. Ogni piccolo elemento della vita quotidiana può aprirci a nuove parti di noi e a cambiamenti, purchè sia diabolico, ovvero inaccettabile e creativo. Se pensiamo "è inutile e stupido fare questa azione" è paradossalmente lì che dobbiamo attuarla. Viviamo in una cultura chiusa al Diavolo, recluso in una gabbia fatta di aspetti negativi e maledizioni. Apriamoci alla possiblità di dare una possibilità al Diavolo come archetipo del sovvertimento e delle forze imprevedibili e creatrici. Da una parte abbiamo l'archetipo di Dio conservatore, edificio solido della nostra esistenza, dall'altra il Diavolo come archetipo di forza vitale che distrugge le regole. Aspetti complementari di una stessa esistenza. Saper trasformare difetti in pregi è il passo che ci avvicina alla tentazione diabolica di trasformare noi stessi. Dio mette le regole, il diavolo le toglie: mettere e togliere materiale da una psiche crea un'opera d'arte unica nel suo genere. Dobbiamo essere artisti di noi stessi. Dimmi bambino, tu danzi mai col diavolo nel

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Diavolo!

15 pallido plenilunio? Jack Napier

E noi danziamo mai col diavolo nel pallido plenilunio? Ci facciamo mai tentare dalle sue energie creative? Ci permettiamo mai di essere altro nella vita? Ci permettiamo di cambiare? Ci permettiamo di provare ad essere diversi e diabolici a noi stessi? Facciamo danzare il nostro Diavolo per portare a sovvertimento le nostre ecclesie?

Bibliografia e Note 1. Alejandro Jodorowsky, I tarocchi dei gatti, Arte di essere edizioni, 2015 - James Hillman, Psicologia Archetipica, in Enciclopedia del Novecento - Poupard P., Dizionario delle Religioni, Mondadori, 2007 - James Hillman, Storie che curano, Raffaello Cortina Editore, 1984 - Jung C. G., Liber Novus, Bollati Boringhieri, 2010


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L'ANIMA FA LIBRO per Edizioni Magi Marina Manciocchi

allontana ogni possibile cambiamento, novità o tentazione e sperimenta solo ciò che già conosce. Mettendosi al riparo dall’ansia dell’attesa, blocca la propria vita. Mentre Penelope aspetta, Ulisse esplora e agisce, vive e si trasforma.

Desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno. Ulisse

Lo scorrere del Tempo è una dimensione che segna il corpo e la psiche di ogni persona e la sua percezione assume valori che variano nelle diverse età e nelle differenti culture. È un fenomeno legato intimamente a quello dell’Attesa, che incide sui sentimenti e i comportamenti. L’attesa può bloccare le persone e togliere energia vitale, oppure può stimolare il desiderio e l’attrazione verso l’ignoto, aprendo la strada al cambiamento. Lasciare che il tempo scorra senza voler predeterminare cosa dovrebbe accadere alimenta la curiosità e fa diventare l’attesa uno stato creativo. Penelope, sinonimo di fedeltà e di amore, è un’icona dell’attesa. Diversamente da suo figlio Telemaco che, per agire, attende il tempo giusto, o da suo marito Ulisse, che attende sì di riabbracciare la moglie, ma lo fa tra le braccia di Calipso, vivendo ogni sorta di esperienze che rendono la sua esistenza ricca, l’attesa di Penelope è immobile. Pur coltivando la speranza, il desiderio e l’amore, Penelope

Marina Manciocchi, psicologa, psicoterapeuta, analista junghiana del CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica) di Roma, dove svolge attività didattica e di supervisione. Insegna «Psicologia del sogno» e «Psicologia del mito, folklore e fenomeni religiosi» nella Scuola di psicoterapia del CIPA, «Psicologia dell’adozione» nella Scuola di psicoterapia delI’IdO (Istituto di Ortofonologia) di Roma e collabora con l’area junghiana della Scuola di Psicoterapia Comparata (SPC) di Firenze. Ha istituito gruppi di ricerca teorico-clinici sul collegamento tra creatività e spiritualità e ha coordinato, insieme al CIPA Istituto per l’Italia Meridionale e la Sicilia, gruppi di studio sul mito. Già psicologa dirigente nella ASL RM H, dove è stata responsabile di un servizio materno infantile distrettuale e dove ha avviato e gestito il GIL Adozioni aziendale, è docente nei corsi ECM per operatori socio-sanitari. Ha pubblicato diversi articoli relativi al mito, all’importanza della spiritualità e della creatività nella terapia, alle problematiche dell’adozione e alle sintomatologie psichiche. Per i tipi delle Edizioni Magi è uscito nel 2012 il suo libro Antigone e le trame della psiche. Mitologia e creatività in psicoterapia. La sua attività professionale si svolge tra Roma e Velletri.


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ATTACCHI DI PANICO: il grande dio Pan, il saggio, è risorto!

Luca Urbano Blasetti, Rieti Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema CreativitĂ e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; opera nel suo studio.


Cy Twombly, Pan, 1975


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Attacchi di Panico La psicologia archetipica riabilita la mitologia, usa gli dei come patterns of behaviour, erige templi a condotte personificate e, così facendo, produce e riproduce storie che curano poiché la cura è nel racconto e non in ciò che lo ha generato, la cura è nello scorrere del fiume e non nella sua fonte. E che Panta Rei sia. Ma già nel panta rei intravediamo quel tutto, quel Pan, che, secondo noi, la psicologia archetipica non ha onorato a dovere. Questo è accaduto anche perché “Pan non può essere ricondotto a nessun complesso della propria vita personale; non lo si può giustificare con una spiegazione psicologica.”1 Il fatto che Roscher lo definisca il demone dell’incubo continua a limitare questo dio. Pan nasce da Ermes o da Apollo o da Zeus o ancora da altri dei. Si tratta di un dio poco definito, spesso assimilato al fauno e ritenuto protettore dei pastori e della pastorizia. Con questi cenni mutuati direttamente da Hillman vogliamo che si proceda in questa sede a una lettura che vada nella medesima direzione di quella da lui richiesta nell’affrontare le numerose “digressioni” con cui ha disseminato i suoi scritti. Le digressioni come momenti in cui l’intuizione esige l’attenzione che l’accademicità spesso nega. Digressioni come momenti in cui non si presenta una tesi ma solo il suo concepimento nell’attesa che, dopo la giusta gestazione, possa nascere ciò che solo in embrione le digressioni contemplano. In questo modo va affrontato questo scritto, accettando che in nuce vi sia l’embrione di un’idea che verrà e, come si sa, l’embrione nei primi giorni di vita non presenta differenze evidenti da una specie a un’altra. Sarebbe decisamente oneroso in un articolo esaurire la profondità di un dio che sembra, almeno in una prima analisi, riassumere tutto l’Olimpo. Per questo ci limiteremo ad una sintesi di un lavoro che è in corso di stesura e alla esposizione dell’idea di fondo che lo ha alimentato. Tale idea vede nel panico l’esito della capacità immaginativa di cogliere tutto il percorso individuativo in un istante e per un solo istante. Rivisiteremo quindi i natali di Pan facendolo figlio di Mnemosine e dandone una spiegazione nuova come dio da cui si genera una sofferenza contemporanea, ossia quella di una memoria di lavoro troppo capiente che ci

consente di intravedere Tutto, ossia Pan, in un istante finendo per gettarci nell’orrore. Vogliamo in tal senso proporre una eziologia alternativa a quella corrente sugli attacchi di panico e sui disturbi d’ansia. Invitiamo, inoltre, il lettore a una lettura in trasparenza, a una sospensione del giudizio, dato che è nella nostra intenzione onorare Pan perché possa avvenire un concepimento di nuove idee piuttosto che l’annunciazione di idee o immaginari già concepiti e nati. Ma andiamo per gradi. Zampe di capra e la sua siringa fanno di Pan la manifestazione della forza istintuale. Ma se vogliamo parlare di “tutto” dovremmo farlo in modo più sistematico, percorrendo la storia di Pan dagli inni omerici a quelli orfici fino a “Le Storie” di Erodoto e le “Metamorfosi” di Ovidio, ma percorrendola anche fino ai nostri giorni nella comunanza col puer che la fiaba di Peter Pan richiama, fin quando giungeremo a connotarlo come patrono della patologizzazione contemporanea, la più diffusa: il Panico, indotto o generato. Qui siamo obbligati per sintesi a giungere rapidamente all’ipotesi di fondo che parla di un panico da mnemotecnia. A Pan Musa, raccontami tu la cara semenza d’Ermete, lo strepitante bicorne dai piedi caprini, che in valli d’alberi verdi s’aggira, insieme alle Ninfe danzanti, che se ne vanno correndo su picchi di balza scoscesa, chiamano Pan, il signore dei pascoli, fiero di chiome, irto di vello, che in sorte ha ogni nevoso crinale e le giogaie dei monti e i cammini impervi di rupi. Egli tra fitti roveti da un lato e dall’altro s’aggira, o qualche volta si spinge in riva a correnti gentili, o altre volte si inerpica in cima alle rupi scoscese, sopra la cima più alta ascende a vegliare le greggi. Spesso per le biancheggianti giogaie elevate trascorre,


Luca Urbano Blasetti spesso attraverso le valli s’aggira e fa strage di fiere, grazie all’acuto suo sguardo; al vespro poi, solo, dà voce alla sua musa soave, trastullo ha dal flauto, al ritorno dalle sue cacce: e le sue melodie non vince l’uccello che in mezzo ai petali di primavera ricca di fiori spande lamento e gorgheggia il suo canto, voce di miele. Ecco, le ninfe dei monti sonore di voci con lui muovono i passi veloci vicino a una fonte, acqua cupa, cantano e l’eco risuona così sulla vetta del monte e da una parte e dall’altra il dio gira in mezzo a quei cori, passi veloci avvicenda e una fulva pelle di lince veste sul dorso, piacendosi in cuore di canti sonori su un prato morbido, dove il croco e con esso il giacinto dolce d’essenze fiorisce copioso e si mischia con l’erba. D’inni coronano i numi beati e l’Olimpo elevato, ma specialmente il veloce Ermete al di sopra degli altri cantano, come per tutti i numi sia rapido messo come all’Arcadia sgorgante di polle, alla madre di greggi, egli sia giunto, nel luogo in cui il dio Cillenio ha il suo tempio. Là, presso un uomo mortale, pasceva le greggi lanose, lui, ch’era un dio: sbocciò, fiorì in lui la languida brama della Driòpide bella di trecce, e d’averne l’amplesso: egli le floride nozze compì, ella diede a palazzo un caro figlio ad Ermete, un mostro già allora, a vedersi, lo strepitante bicorne dai piedi caprini, ridente; dunque d’un balzo fuggì, la madre, e lasciò quel bambino: si spaventò, quando vide l’orribile volto barbuto. Subito Ermete veloce, però, fra le braccia lo prese egli l’accolse, sentì, quel dio, gioia immensa

nel cuore. Presto alle sedi immortali andò, nascondendo il bambino dentro una pelle vellosa di lepre nutrita sui monti: ecco che allora si assise con Zeus e con gli altri immortali e mostrò loro suo figlio: gioirono tutti di cuore gli dèi immortali –ma più degli altri Dioniso Baccheo– e lo chiamarono Pan, poiché allietò i cuori di tutti. Questo saluto a te rendo, o re, col mio canto ti placo, sì, io di te mi ricordo e così d’un’altra canzone. 2

Leggendo l’inno emerge subito che Pan è più comunemente ritenuto essere figlio di Ermes eppure Hillman ci ricorda i suoi natali multipli. Il mito viene riscritto in ogni epoca alla stessa maniera di un manuale diagnostico. Così come nel DSM, dalla prima alla quinta edizione, troviamo profonde trasformazioni in ciò che viene comunemente ritenuto patologico e ciò che rientra sotto la campana di Gauss che difende la normalità, parimenti vediamo che il mito muta a seconda dell’epoca storica e della popolazione che recita gli inni agli dei. Una popolazione che concepisce Pan figlio di Apollo riterrà che l’esplosione incontrollata del desiderio, Pan appunto (ci sia concessa una generalizzazione momentanea del nostro dio), sia figlia di Apollo ossia del raziocinio, della conoscenza organizzata. Pan, in tal senso è il tentativo esplosivo di essere fedeli ai propri istinti divincolandosi dall’apollineo. Dall’altra parte laddove il medesimo desiderio (Pan) è figlio di Ermes ossia dell’astuta capacità di far comunicare parti psichiche altrimenti distanti, di riprendersi come un ladro ciò che gli appartiene e, infine della capacità di addormentare, allora lì avremo un Pan sostanzialmente diverso. Il Pan figlio di Apollo sarà un impulso come reazione al raziocinio, nel secondo il Pan sarà l’impulso come esito della buona e astuta comunicazione e concertazione di tutte le parti psichiche di un individuo, parti rappresentate dagli dei. Noi vogliamo in questa sede ribadire la paternità di Ermes ma, invece di attribuire la

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Attacchi di Panico maternità alla ninfa Driope, vogliamo anche ricordare come il canto di Ermes ammaliò3, e secondo noi sedusse, una dea in particolare: Mnemosine. Ed è in lei che ritroviamo la madre putativa del nostro caro dio caprino, in barba alla madre Driope che inorridì appena vide il figlio con zampe di capra, proprio lei che era protettrice di greggi. Scegliamo Ermes perché non riteniamo che questa sia un Epoca apollinea ma soprattutto perché questo Dio è certamente caro a chi scrive più di quanto non lo sia il divino Apollo. Quindi cosa comporta essere figlio di cotanto padre? Certamente comporta essere figlio d’arte e quindi avere la capacità di far comunicare tra loro gli dei. Ora ci corre l’obbligo di specificare che quando parliamo di dei lo facciamo in un’ottica archetipica. Questo significa che non ci poniamo come mitologi ma come psicologi e, in tal senso, vediamo in ogni dio una funzione psichica che si manifesta. Potremmo declinarla secondo il lessico della scienza contemporanea ma, così facendo, perderemmo il valore curativo della psicologia, un valore che si ritrova nel racconto e non nella diagnosi. La differenza tra il racconto e la diagnosi sta nel fatto che, mentre quest’ultima blinda la psicologia e ne rinforza il potere e il controllo sul paziente, il racconto restituisce al paziente i suoi sintomi le sue competenze e le sue risorse restituendogli un rapporto diretto con la psiche senza bisogno di medium. Con il racconto anche il paziente ha modo di conoscere il terapeuta che si espone a una contro-diagnosi. L’intellegibilità del mito e delle sue unità fondamentali, i mitemi, è lo strumento terapeutico rispetto alla cripticità dei lessici diagnostici. Uno psicologo che racconta ha già provveduto a una diagnosi. Uno psicologo che diagnostica non ha provveduto ancora a generare un racconto. Troppo a lungo la psicologia si è fermata alla diagnosi per ammantarsi di scientismo, senza assolvere al compito che le era più consono, il racconto. La diagnosi è etimologicamente lo strumento per conoscere il paziente ma è nel raccontare una fiaba che serviamo (ricordando che terapia è parola che rinvia al servire l’anima) una pietanza pacificatrice. Ogni dio è quindi un tratto di personalità, un

temperamento, un umore o un’emozione. Ma il racconto dei natali, delle imprese o delle morti del dio ci da un’indicazione precisa e connota in modo puntuale quella emozione. Ci da un punto di partenza e un punto di arrivo. Ci da, a noi pazienti e terapeuti, una direzione. Con questa premessa possiamo iniziare a far cenno al fatto che il panico è figlio della comunicazione efficace tra tutti gli dei, tra tutti gli immaginari, ossia tra tutti i bisogni e le emozioni del paziente. Quindi niente panico se incontriamo Pan, costui è un dio propizio alla terapia. Anzi ti invochiamo, ti aspettiamo e onoriamo, oh figlio di Ermes nutrito da Mnemosine. Profumo di Pan Pan invoco possente, pastorale, il tutto del cosmo: cielo e mare e terra di tutto sovrana e fuoco immortale. Queste cose infatti sono membra di Pan. Vieni, beato, tu che danzi, che corri, che regni con le Stagioni, dalle membra caprine, baccante, invasato, che vivi all'aria aperta, che tessi l'armonia del cormo col canto giocoso, che proteggi dalle apparizioni, terribile fra le paure umane, che ti rallegri di caprai e bovari alle sorgenti, tu che vedi lontano, cacciatore, amico di Eco, che danzi con le Ninfe, che tutto produci, di tutto genitore, demone dai molti nomi, signore del cosmo, che dai incremento, che porti la luce, fecondo Paian, che ti rallegri degli antri, dall'ira profonda, vero Zeus armato di corna. Su di te infatti è fissata la distesa sterminata della terra, e si ritira l'acqua dalla corrente profonda del mare infaticabile e l'Oceano che cinge con le acque tutt'intorno la terra, tu parte aerea di nutrimento, scintilla per i viventi e occhio di fuoco sul capo leggerissimo. Infatti queste cose divine camminano, svariate, ai tuoi ordini; con i tuoi disegni trasformi la natura di tutto


Luca Urbano Blasetti alimentando la stirpe degli uomini nell'universo infinito. Ma, beato, baccante, invasato, vieni alle libagioni conformi al rito, concedi un buon compimento di vita allontanando ai confini della terra la follia panica.4 Quindi Pan è figlio di Ermes e di Mnemosine. Driope inorridisce nonostante sull’Olimpo questo “orrido” dio viene accolto come beneaugurale progenie. Il 900’ ha invece visto l’avvento di un nuovo dio: l’Inconscio. Le topiche si sono susseguite in sequenze che hanno affascinato studiosi e inventori. Il cervello ha visto affiancarsi alla divisione neurologica dei lobi, una divisione immaginale dei suoi luoghi. In questi luoghi Freud ebbe modo di incontrare supereroi come il noto SuperIo, rigoroso legislatore; amministratori delegati come l’Io che affannosamente gestivano aziende a rischio di fallimento; infine entità spirituali come l’ES che, avendo il privilegio di trovarsi a contatto con il rimosso, collocato in quel luogo inventato da Freud e chiamato Inconscio, guida le nostre azioni quasi deridendo quell’Io affannato. In Introduzione alla psicoanalisi si legge: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io” (p. 190). In tedesco la frase suona: “Wo Es war soll Ich werden”5. Qui Freud impiega il verbo sollen, che ha una accezione di dovere morale, di qualcosa che dovrebbe accadere, ma non è detto che accada. In verità sono emerse multiple interpretazioni di questa frase, tutte sono andate comunque nella direzione che l’Io entrasse nell’Inconscio. Eppure Freud cerca di lateralizzare l’Io e Jung, il figlioccio, porta all’estremo questa lateralizzazione. Nel fare questo parifica l’Io agli altri complessi e lo mette tra le fila di quel gentle folk che anima la psiche. Poi inventa un nuovo dio: la quaternità e lo mette al centro della psiche dandogli il nome di SE. Forse con l’obiettivo di dare un significato nuovo alla frase del Maestro, un significato che rimandi al fatto che l’Io deve abitare i luoghi dell’ES e non colonizzarli. Purtroppo quest’ultimo, l’ES, nel tempo rischia sempre più di assomigliare

all’Io, in compenso i supereroi vengono quasi debellati. Dobbiamo ad Hillman la decisione di porre l’Io non più al centro ma soprattutto l’idea che non debba colonizzare l’invenzione di Freud: l’Inconscio. Il valore euristico di questa invenzione, l’inconscio, è indiscutibile ma troppo spesso è stato confuso con il rimosso. L’Inconscio è divenuto il luogo in cui mettere quei contenuti spiacevoli. Quei rifiuti indifferenziati che a Roma finiscono a Malagrotta in psiche hanno la loro Mala-grotta nell’Inconscio. Eppure ci sia concesso di avere qualche dubbio in merito alla sua esistenza e alla esistenza della rimozione meccanismo, quest’ultimo, che più che trovare conferme scientifiche troppo spesso ne trova di fantascientifiche e romanzate. Lasciando ad altra sede la soluzione di questa diatriba, ci sembra di poter dire che la rimozione è certamente l’espediente letterario più bello e seducente del 900’, consente di generare un movente. Qualche lustro più tardi la psicologia scientifica, quella che si era imposta di fondare le teorie sull’osservazione diretta e su dati di realtà nonché della neurobiologia, iniziò a parlare di MBT e MLT, al secolo Memoria a Breve Termine e la sua sorella maggiore la Memoria a Lungo Termine. Hebb6 propose la ormai storica distinzione tra MBT e MLT. La prima vede la modifica dell'attività di un circuito elettrico mentre la MLT vede la modifica strutturale del circuito. La memoria vedrebbe quindi riverberare uno stimolo attraverso l'attività elettrica di un circuito. Se tale attività viene reiterata, ossia se lo stimolo persiste, allora si genera il ricordo a lungo termine attraverso una modificazione strutturale del circuito. I neuroni, quindi, si postula siano in grado di reagire agli stimoli e di promuovere una ristrutturazione della rete neuronale. Senza dilungarci, anche per non correre il rischio di dover menzionare anche la Memoria a brevissimo termine o le altre memorie, non possiamo non fare i conti con il fatto che la nascita di queste teorie e divisioni della memoria sia avvenuta insieme al progresso tecnologico che ha visto l’avvento dei “calcolatori elettronici”. In questi sono presenti memorie simili a quelle appena citate.

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Attacchi di Panico Troviamo quindi la RAM e la Memoria di Massa di cui la Rom è quella di sola lettura. C’è, poi, nei Computer un processore che è quello che processa i dati. I dati, similmente a quanto avviene nel cervello umano, sono contenuti nella memoria di massa, il cosiddetto hard disk in cui sono immagazzinati e dal quale possono essere cancellati. Esiste poi una memoria di massa Rom in cui sono contenuti i dati che non possono o non devono essere eliminati. Sia inteso che possiamo, come del resto è già avvenuto in altri ambiti, fare un parallelismo con la struttura del cervello. Questa operazione risulta ancor più giustificata se passiamo a considerare la RAM (Random Access Memory). Questa memoria è una memoria di lavoro e ha una capacità molto inferiore a quella di massa, ma è proprio nella RAM che verranno inseriti i dati che in un dato momento devono essere processati. Il processore ha una energia che consente di elaborare contemporaneamente solo un numero limitato di dati e non tutti quelli contenuti nell’hard disk ma solo quelli contenibili nella RAM. Importante che l’energia del processore sia coerente e proporzionale con la capienza della RAM. Uno squilibrio in tal senso ridurrebbe le prestazioni del “calcolatore” ma, passando al funzionamento umano, produrrebbe due tipi di effetti. Un processore troppo potente rispetto a una RAM poco capiente produrrà ingorghi di dati frustrazione e rabbia; una RAM troppo capiente produrrà una depressione una, certa apatia. Tanta energia e potenza per processare un numero molto ridotto di dati. Sarebbe come far gareggiare un primatista mondiale con una studentesca in formazione. Arriviamo al dunque ora, parlando di come ognuno di noi abbia una memoria di lavoro (MBT) di una certa capienza e una memoria di massa (MLT) con una capienza specifica. Spero che il parallelismo sia evidente. Non possiamo di certo tenere presenti alla nostra coscienza tutti i contenuti della nostra memoria a lungo termine, dobbiamo limitarci a prenderne in considerazione solo alcuni alla volta, il tutto a seconda della capacità della nostra memoria di lavoro. Ora giungiamo a fare un’operazione che in ambito psicodinamico sarà considerata

certamente eretica. La parola eresia significa scelta e questo ci inorgoglisce ma non ci esenta dal vivere una certa inquietudine. Ecco quanto andiamo affermando: L’Inconscio non esiste e se esiste non ha una personalità autonoma, non ha il potere di condizionare ma è memoria a lungo termine, è “memoria di massa” e, in quanto tale, può contenere solo ciò che ha forme con esso compatibili o meglio compatibili alla struttura neuronale del cervello. Sia inteso che ci riferiamo a una memoria non più intesa come contenitore ma come processo di produzione di storie. Questo implica che noi tratterremmo in memoria solo ciò che è compatibile con la nostra struttura neuronale. Damasio7 sembra intuire questo aspetto ma prima di lui Kant lo aveva già teorizzato. Il mondo prende la forma delle strutture neurobiologiche addette alla sua percezione. Tornando al discorso di base, stiamo affermando che l’inconscio e la coscienza sono niente di più che memoria a lungo termine l’uno, e memoria a breve termine o di lavoro l’altra. Sono contenitori con funzioni e azioni specifiche senza intenzione (rimuovere, negare ecc.) se non quella di procedere. Nulla è inconscio, nulla cade nell’ombra per una volontà psicologica, la nostra psiche cerca solo di sopravvivere secondo quell’elan vital di bergsoniana memoria. La psicologia esige una nuova invenzione che abbia il medesimo potere euristico che è venuto dall’invenzione dell’Inconscio e delle varie topiche, un potere che è in costante riduzione. Il rimosso non esiste ma è solamente ciò che non è presente nella MBT in un determinato momento. La psicoterapia si pre-occuperà di far si che nella MBT abbiano accesso tutti i contenuti della MLT mentre, secondo un principio di economia cognitiva, spesso sono sempre gli stessi contenuti a entrarvici. Dire questo non ci esime dall’affrontare il problema di anima e di psiche, anzi ci impone di trovare altri principi sottostanti i concetti di fede psicologica ovvero il teleologismo in genere. Ma in questa sede non abbiamo modo di condividere le nostre riflessioni in merito. In questa sede ci preme sottolineare come il Panico, che oggi colpisce una percentuale molto elevata della popolazione occidentale,


Luca Urbano Blasetti sia meglio spiegabile se assumiamo l’inesistenza dell’Inconscio o meglio lo assimiliamo alla fredda MLT. Dove è Panico lì è il grande dio Pan. Ma soprattutto deve giungere il padre suo Ermes. Parafrasando il Maestro potremmo quindi dire: Wo Pan war soll Ermes werden! A questo punto invito il lettore a immaginare un dipinto, a pensarlo di grandi dimensioni. Anche se piccolo, a pensarlo come gigantografia a parete. Rimirate quel dipinto, osservatelo con attenzione e serenità. Poi immaginate venga coperto con telo della stessa misura. Immaginate in quel telo un piccolo quadrato che ne lascia intravedere un piccolo particolare, piccolo al punto da rendere irriconoscibile il particolare e da impedire qualsiasi processo di completamento che consenta di riconoscere il dipinto. Ora ponete un nuovo telo con un solo quadratino ma in una posizione diversa. Possiamo cercare di connettere questo nuovo particolare al precedente se ci riusciamo e, proseguendo per successive sovrapposizioni riuscire a generare un’immagine che gradualmente si completerà. Tale processo risulterà tanto più efficace quanto più rapida sarà la sovrapposizione dei teli. Il dipinto è l’inconscio e il quadratino è la coscienza. L’inconscio è la MLT e la coscienza la MBT. In un tempo non stimato potremmo intuire il dipinto, il Tutto, ed è lì che il Grande dio Pan tornerà. Pan è dio del tutto e non possiamo che provare panico quando il tutto ci si mostra, seppur per un solo istante. Il Tutto comprende tutto il processo di individuazione, le prove che dovremo sostenere, successi e fallimenti. Il Tutto è l’osservare la montagna e intuire la fatica, dimentichi del primo passo che è il vero obiettivo. Scusandoci per lo stile espositivo un po’ allucinatorio, andiamo quindi a definire l’idea che ha animato questo scritto. Questa è un epoca in cui la capacità della nostra memoria di lavoro è aumentata a dismisura. A questa si è aggiunta una sempre più strutturata trasmissione della conoscenza collettiva. Questo stato di cose ci ha messo nella condizione di avere una capacità molto maggiore di processare un gran numero di dati, così come è avvenuto con i PC. Oggi siamo in

grado di processare i molteplici tasselli del mosaico che costituisce la realtà fisica, così come le altrettante tessere che dipingono la realtà intrapsichica. Questo ci pone nella condizione di poter procedere rapidamente, seppur in sequenza, nel mettere insieme i tasselli, quei quadratini a cui accennavamo, ad una velocità che ci consente ad un tratto di intuire l’intero quadro fisico o intrapsichico. A questo contribuisce l’ozio che è la grande conquista delle società occidentali; quell’ozio che ci consente di dedicare sempre più tempo alle speculazioni. A quel punto cogliamo per un istante quel tutto, quel Pan che è certamente il patrono dell’era moderna. Proponiamo quindi questa rilettura del panico non tanto con lo scopo di promuovere una teoria cognitiva quanto con l’obiettivo di onorare il grande dio Pan con la speranza di resuscitarlo in un percorso inverso a quello annunciato da Plutarco. L’attacco di panico è la manifestazione della continua attività neuronale tesa al mettere insieme i tasselli che si manifestano in sequenza alla nostra coscienza. Quando la coscienza attraverso un’attività speculativa, terapeutica o di ricerca, ha ordinatamente ammesso uno alla volta questi tasselli, allora potremmo intuire l’intero quadro. Eureka! Questa è la base delle grandi intuizioni e invenzioni di sempre. Me li figuro i vari Da Vinci, Newton, Einstein presi dal panico quando hanno fatto le loro scoperte. Quelle scoperte oltre a essere a servizio del mondo, erano la manifestazione del percorso individuativo dei loro padri inventori. Il panico compare così come la grande intuizione che ci fa intravedere tutto il nostro processo individuativo, che ci consente di generare una teoria o una formula su come procederà la nostra vita. Ma la conoscenza non è per tutti, ma solo per chi sa sostenere il panico figlio di Ermes ossia della capacità di far comunicare gli dei, ossia tutte le nostre parti psichiche. Solo alcuni riescono a sostenere la visione del dio pan senza ricorrere ai farmaci, altri si sedano perché il Tutto non può essere contenuto dalla materia. L’annuncio di Plutarco, ci suggerisce Hillman8, rispetto alla morte del dio Pan, è da considerare come la perdita dell’animismo, o meglio della capacità di sopravvivere

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Attacchi di Panico

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dell’immaginale. Pan muore e con lui la possibilità di personificare le immagini. L’annuncio è come una bomba atomica su Hurqalya la città delle forme sospese in cui vivono le immagini onorate dalla religione mazdea cara a Hillman ma soprattutto a Corbin9. Resuscitare Pan è l’annuncio di un’era di ricostruzione, immaginale si intende, e del nostro tempo. Certamente è del tempo di chi scrive. Ora facciamo l’ultimo dei nostri pindarici voli ragionando su un fatto importante: se assimiliamo l’inconscio alla memoria a lungo termine, non dobbiamo poi dimenticare che i contributi sulla memoria hanno visto una sempre maggiore teorizzazione nella direzione che vede quest’ultima non più come contenitore ma come processo di costruzione o ricostruzione di storie che siano coerenti con ciò che è già noto alla psiche. Allora potremmo affermare che l’invenzione dell’inconscio oggi fallisce fin quando trattiamo questo come contenitore che cela, distorce, mentre oggi potremmo pensare che sia più da considerare un processo, un “modo di essere” che ha come telos la realizzazione del processo di individuazione. Forse Lacan andava in questa direzione quando parlava di inconscio come ciò che è ancora di là da venire.

Bibliografia e Note 1. Hillman, J., 1972: Saggio su Pan. Adelphi, Milano, 1997, pag.42. 2. Cassola F., (a cura di) 1975: Inni Omerici. Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, pp367-369 3. Kerényi, K.,1958: Gli dei e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.147. 4. Ricciardelli, G., (a cura di) 2000: Inni Orfici. Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 37-39. 5. Freud, S., 1915-17: Introduzione alla Psicoanalisi. Bollati Boringhieri Torino, 2012, pag. 190. 6. Cfr. Hebb D.O., 1949: L’organizzazione del comportamento. Franco Angeli, Milano 1975. 7. Cfr. Damasio, A., 2010: Il Sé viene alla mente. Adelphi, Milano, 2012. 8. Cfr. Hillman, J., 1972: Saggio su Pan.

Adelphi, Milano, 1977. 9. Cfr. Corbin, H., 1979: Corpo spirituale e terra celeste. Adelphi, Milano, 1986.


Lub: Opere Inedite


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L'ANIMA FA POEIO di Valentina Marroni

Photo di John Hampsey Pettigrew, 2007, Canada


In velocità il treno un fischio è quasi un urlo altissimo e scomposto grido nell'aria di un luogo durante un parto senza doglie. Il mare - il partoriente Sospira le sue onde con ansia e trepidazione turbamento di un desiderio che è - sorgente di calore E tra le cosce del lontano limite dove i fari umani vedono congiungersi il cielo con l'acqua di sale nasce dolcemente un figlio - il sole Biancheggiando l'oriente.


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CURE AMOREVOLI E PRATICA DEL TRANSFERT Vincenzo Ampolo, Lecce Psicologo-Psicoterapeuta di formazione analitica ed umanistico-esistenziale, saggista e formatore. Tra i più attivi collaboratori della rivista L'Immaginale, (rassegna internazionale di psicologia analitica), ha diretto riviste di pedagogia, psicologia e studi interdisciplinari, pubblicato numerosi saggi di psicologia analitica e studi sociali, in volumi collettivi e riviste di settore. Dal 1982 al 2013 ha coordinato le attività dell'Ente Morale di Ricerca, Formazione e Terapia "Perseo" collaborando con Istituti di Formazione e con le Università di Lecce, Bari e Genova per progetti di ricerca, attività didattiche e divulgazione scientifica. Attualmente svolge il suo lavoro istituzionale presso il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare del Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Lecce. Tra le pubblicazioni curate dall'autore: La Pratica del Creativo (1988); EXTASY (1997); Musica droga & transe (1999); Diario e dintorni (2001); Voci dell''Anima - Scrittura narrazione e pratica analitica (2004); Dissociazione e Creatività - La transe dell'artista (2005); Martha Nieuwenhuijs Tra Eros e Logos (2009) Oltre La Coscienza Ordinaria - Riti Miti Sostanze Terapie (2012).


W. Eugene Smith, The Contry Doctor per la rivista americana Life


Cure amorevoli

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" Se non è in fuoco, l'uomo non è nulla ". C.G. Jung

appunto “bruciato”, coinvolto nell’incendio senza via di scampo .

1- Il rapporto incendiario

2- Elaborare il controtransfert

In “Osservazioni sull’amore di transfert”, scritto nel 1914, Freud, rispetto a questa problematica scrive: “Si ha un completo cambiamento di scena come quando uno spettatore viene interrotto per l’improvvisa irruzione di un elemento reale: ad esempio quando durante una rappresentazione teatrale si ha un grido d’allarme per un incendio”.1 La metafora dell’incendio è utilizzata da una sua paziente (Dora) all’interno di un sogno che trascrive, in modo analogico, un’accensione di emozioni, un divampare di sentimenti…che minaccia di bruciare tutta la sua casa, la sua stessa esistenza. Sei anni prima, precisamente il 6 dicembre 1906 Freud, in una lettera indirizzata a Jung, a proposito della terapia analitica affermava che la guarigione è un esito a cui si perviene mediante l’amore. Ma certo Freud non ignorava i rischi di questo investimento amoroso, seppure necessario e decisamente terapeutico. A ciò, il padre della psicanalisi, cerca di porre dei termini precisi entro cui operare. L’analista, dirà, deve “…premunirsi da un controtransfert che eventualmente stia per prodursi in lui … deve riconoscere che l’innamoramento della paziente è una conseguenza dovuta alla situazione analitica…”2 e che specificatamente in questo contesto si situa e si giustifica. Il “fuoco analitico”, l’incendio in qualche modo provocato e alimentato dallo stesso analista, come abbiamo avuto modo di rilevare in un precedente lavoro,3 ha tuttavia necessità di essere gestito in modo tale da non “distruggere” e “mandare in fumo” tutto il lavoro “illuminante” ed “energetico” svolto durante il percorso terapeutico. Freud dà delle indicazioni molto chiare a riguardo: L’analista non deve spegnere le fiamme perché altrimenti non rimarrebbe che cenere, si negherebbe la verità del rapporto e s’impedirebbe il proseguo del percorso analitico, abbandonando la paziente al suo destino. Neppure tuttavia può condividere l’esperienza del fuoco, perché ne verrebbe

In un recente saggio, Luis Jorge Martin Cabrè evidenzia come Freud usò pubblicamente, il concetto del controtransfert nel testo presentato il 30 marzo 1910 al Congresso di Norimberga Le prospettive future della terapia psicoanalitica. Nel testo: “Per la prima volta Freud segnala il carattere intrusivo di certi fenomeni psichici che hanno la proprietà di “impiantarsi” o “insorgere” nell’inconscio dell’analista. Freud aggiunge che bisogna esigere all’analista, come regola generale, la conoscenza, il dominio e il riconoscimento del proprio controtransfert e il saperlo “padroneggiare” (Bewaltigung) come una condizione indispensabile per essere analisti.” 4 In realtà come ci ricorda Harold F. Searles nel suo famoso saggio Il controtransfert: “Gli psicoanalisti sono sostanzialmente gli unici terapeuti che, grazie all’incessante e coraggiosa analisi della propria vita interiore, finalizzata al trattamento dei pazienti, sono preparati in modo adeguato a comprendere, analizzare e liberare le componenti di umanità del paziente…”. 5 L’elaborazione che si attua nell’analisi personale di conflitti infantili, angosce depressive o tratti più o meno patologici, permette di entrare in contatto con la realtà della propria anima nella sua problematica interezza. La supervisione di altri analisti, come pratica corretta, permette di considerare in modo più obiettivo le dinamiche affettive che s’ instaurano nel rapporto analitico, come in tutti i rapporti di cura “devota” e “amorevole”. 3- Il principio di astinenza La regola dettata da Freud, l’impalcatura stessa del setting analitico è il principio di astinenza. Così Freud chiarisce il suo pensiero: “Ho già lasciato intendere che la tecnica analitica fa obbligo al medico di rifiutare alla paziente bisognosa d’amore il soddisfacimento richiesto. D’altronde la cura deve essere condotta in stato


Vincenzo Ampolo di astinenza; e con ciò non mi riferisco soltanto alla privazione fisica; ma neppure intendo la privazione di tutto ciò a cui la paziente aspira, giacchè probabilmente nessun ammalato sopporterebbe questo. Voglio piuttosto porre questo principio generale: che occorre lasciar persistere nella malata i bisogni e i desideri come forze propulsive al lavoro e al mutamento, evitando quindi di metterli a tacere con surrogati (… ) Essa (la paziente) deve imparare da lui (l’analista) ad oltrepassare il principio del piacere, a rinunciare a un soddisfacimento immediato (ma socialmente inaccettabile), in favore di un soddisfacimento più lontano (e forse anche meno sicuro, ma psicologicamente e socialmente ineccepibile)”. 6 Il porre dei limiti al rapporto terapeutico equivale a garantire le condizioni protettive della stessa terapia analitica e, coerentemente con questo dettame, trasmettere anche un chiaro messaggio di autentico interesse e cura nei confronti di pazienti spesso non curate e non protette nei loro primari rapporti educativi/affettivi. 4- Etica e analisi Nel corso del presente studio ho ripreso un testo di Luigi Zoja particolarmente approfondito rispetto alle tematiche da me trattate. Zoja afferma: “In sostanza ciò che chiamiamo transfert corrisponde a una profonda identità tra analista e paziente. Si abusa del transfert se lo si trasforma in rapporto sessuale o economico, religioso, ideologico(…)Una certa presenza di eros, economia, ideologia o religione non è di per sé vietata in analisi. Ciò che contravviene all’etica dell’analisi è il trasformare l’intensità del transfert da strumento a servizio di una consapevolezza più profonda a strumento di gratificazione dell’analista. “7 In altre parole, come afferma Erich Neumann in Psicologia del profondo e nuova etica, nel lavoro analitico “…il male non deriva da una cattiva intenzione, ma da una mancanza di consapevolezza.”8 Nella sua trattazione sui rapporti tra Etica e Analisi, Zoja fa spesso riferimento all’imperativo categorico postulato da Immanuel Kant: l’altro essere umano va trattato

sempre come fine e mai come mezzo.9 Quando il desiderio del paziente, il suo inconscio, rifiuta di considerare l’analista un mero strumento del processo di guarigione, ciò travalica lo spazio del contenitore analitico e della sua natura sostanzialmente simbolica e prospetta una vera e propria relazione d’amore con l’analista. Se l’analista, a sua volta, si rende disponibile a instaurare una relazione personale con il paziente, ciò deve essere inteso come una strumentalizzazione del rapporto terapeutico che viola l’imperativo kantiano. 5-Tacere l’amore L’idea di comunicare al paziente i sentimenti controtransferiali, sia positivi che negativi, rappresenta un motivo di polemica all’interno della letteratura psicoanalitica. Da Ferenczi a Winnicott, da M. Little al già citato Searles, si motiva l’ipotesi di rivelare al paziente la natura delle proprie emozioni controtransferiali, all’interno di una relazione simmetrica in cui i ruoli possono confrontarsi e il rispecchiamento reciproco permettere una “alleanza terapeutica” più efficace, priva di corazze e barriere difensive che mantengono inalterati ruoli e malattie. Di parere opposto M. Mancia che ritiene il “…rivelare al paziente i propri sentimenti controtransferiali significhi ammettere la propria incapacità di elaborarli adeguatamente e che sia indicativo di un insuccesso delle capacità di trasformazione sulle quali si basa la creatività del lavoro analitico.”10 Infine, Lacan, riletto da Recalcati, ci dice, a sua volta che, ogni amore da transfert “…deve sapersi elevare a una potenza seconda. Deve poter diventare amore per la vita dell’altro nella sua “differenza assoluta” Per questo non si deve dichiarare né agire. E’ questo - tacere l’amore - il dono (…) che l’analista offre alle vite che si rivolgono a lui raccontandosi.”11 Se Winnicott equipara la situazione analitica alla relazione madre-bambino, viene spontaneo paragonare, quest’ultima ipotesi, alla “relazione sana” che si crea tra il figlio e la madre che, una volta aver adempiuto ai suoi compiti educativi, spinge il figlio a staccarsi da lei, camminare sulle proprie gambe ed

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Cure amorevoli esplorare nuovi orizzonti e nuove modalità affettive e comunicative. Bibliografia e Note 1. Cfr. S. Freud “ Osservazioni sull’amore di trasfert” (1914) in Opera Omnia , Boringhieri, Torino, 1975. 2. Cfr. Carteggio Freud-Jung (1906-1913), Boringhieri, Torino, 1974. 3. Cfr. V. Ampolo “Il fuoco delle parole nell’incontro amoroso” in L’ Anima fa Arte, N.5, 2014, pp. 11-15 4. L. J. M. Cabrè “Controtransfert e teorie dell’analista” in gli argonauti psicoanalisi e società, marzo 2015, n. 144, p. 76 5. H. F. Searles Il controtransfert, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, p. 277. 6. Cfr. S. Freud “ Osservazioni sull’amore di trasfert” , op. cit. 7. L. Zoja Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp. 34-35 8. E. Neumann Psicologia del profondo e nuova etica, Moretti e Vitali, Bergamo, 2005, p. 91 9. Cfr. I. Kant “ Fondazione della metafisica dei costumi”, in Scritti morali, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1970, p.88 10. Cfr. M. Mancia, Percorsi, Bollati Boringhieri , Torino, 1995. 11. M. Recalcati Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, 2012, pp.158-159. Relativamente all’argomento trattato si veda: J. Lacan “Intervention sur le transfert (1951)”, in Scritti, Einaudi, Torino, 1966.


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Foto di Tina Modotti

Tratto da: LE AFFINITÀ ELETTIVE, 1809 di Wolfgang Goethe Non c'è via più sicura per evadere dal mondo, che l'arte; ma non c'è legame più sicuro con esso che l'arte.


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"INVISIBILE, NATURALE SOVRANITĂ€" Riflessioni per e dal Seminario del Pensare 2015

Zaira Cestari, Pisa Originaria della Lombardia, vive a Pisa, dove svolge l'attivitĂ clinica professionale di psicologia complessa e psicoterapia con orientamento analitico e psicosomatico. Impegnata nel lavoro analitico personale attraverso diverse pratiche introspettive. Fondatrice delle Serate junghiane, giunte alla terza edizione, incontri di letture e discussioni per un rinnovamento culturale.


Transcendance, Sophie Elbaz


Invisibile, naturale sovranità

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esi fa, Emilio Giacomo Berrocal, antropologo indipendente, mi ha invitata a partecipare come speaker alla seconda edizione del Seminario del Pensare, evento dal carattere interdisicplinare, tenutosi il 4 e il 5 settembre 2015 presso il Centro Studi Città di Orvieto, evento ideato e curato dallo stesso Emilio. Il Titolo dell'evento, composto da tre parole è stata, mi sembra. una guida decisa, sia per la struttura, sia per il senso in sé di quelle tre parole, che ha permesso all'interdisciplinarietà di essere comunicata al pubblico con una certa, se non omogeneità, armonia. Il titolo, Invisibile Naturale Sovranità mi è sembrato inzialmente una via diretta e maestra verso la disciplina che avrei rappresentato, la psicologia del profondo, e questo mi ha, per qualche tempo precedente al seminario, illusa di una certa comodità e privilegio. L'importanza e la pregnanza di quel titolo mi si è manifestato con la sua forza quando l'illusione di comodità si è dipanata in poco tempo. L'invito, da me presentato in forma bibliografica, teorica e astratta ad accedere a strati profondi del reale e a rinunciare alla pretesa di sovranità della luce della certezza razionale e oggettiva, l'ho visto gradito dai colleghi del pensare, ma in qualche modo distante dagli obiettivi e dalle motivazioni dei dibattiti che vertevano per lo piu sullo stabilire una qualche soluzione concreta (nella realtà estera) alle urgenze che la contemporaneità pone alle coscienze dei pensatori odierni. Inizialmente questa distanza ha attivato in me l'atteggiamento complessuale e proiettivo tipico di certi grandi introversi: l'eterno incompreso. Ho preso di li a poco però la briga di dare un occhiata a cio che era affar mio e vidi che io stessa non avevo incarnato appieno ciò che andavo dicendo. La presentazione, che si poneva l'obiettivo di assumere una visione piu crepuscolare e interiore, aveva invece un linguaggio piu accademico, astratta e di spunto più filosofico. A quale invisibile non avevo dato realtà? La risposta è arrivata nella tavola rotonda al termine dei due giorni plenari, presso la quale è emersa l'esigenza di rendere concreto il pensiero. E ho parlato allora della mia esperienza con ciò che andavo dicendo nella

presentazione della mattina precedente, addentrandomi nel senso può assumere oggi la pratica clinica, cercando di non temere di usare un linguaggio metaforico e simbolico. Ed è con l'intento di dare forma a questa consapevolezza, che questo articolo si presenta in due parti: la prima è un riassunto della presentazione della conferenza tenutasi ad Orvieto, la seconda vuole essere una riflessione su ciò che rappresenta il polo pratico della proposta avanzata in forma di pensiero astratto, ossia la visione che può dischiudersi in un viaggio come quello della psicologia del profondo. Conference Presentation, DEFINIZIONI DEL REALE: LA REALTA' DELL'INCONSCIO, L'APPARENTE INVISIBILE E IL RUOLO DELL'INTUIZIONE NELLA CONTEMPORANEITA' C.G Jung, in una famosa e tarda intervista, pronunciò la semplice e celebre frase, pregna di tutta la sua opera, che l'uomo non puo vivere senza un senso. Miti, religioni e arte manifestano nella loro produzione,la ricerca dell'essere umano, attraverso il simbolo, di un senso di cio che non è visibile e quindi non comprensibile all'interno di una legge lineare di causa ed effetto. . Osservando la coscienza collettiva, rimanendo quindi su un piano generale, appare un movimento di cambiamento che ricorda la crescita asimmetrica dell'embriogenesi delle piante: ad esempio i miti della Dea, nelle società matrilineari esistenti probabilmente già 30.000 anni fa sono state soppiantate 5000 anni fa, relativamente gradualmente, dal mito del Dio Solare, che ha sostenuto lo spirito patriarcale e bellico che ancora vige. Restando sul tema del cambiamento che porta a soppiantare il vecchio e restando anche nel tema della dominanza del principio maschile a scapito di quello femmninile a partire da 5000 anni fa, ecco le parole di Michael Daniels " Appartenendo a questa maggioranza, i destri ritengono che si tratti di uno schema naturale, normale, giusto o corretto. La difficoltà con cui usano la sinistra, associata all'evidente goffaggine dei mancini in molti compiti, ha


Zaira Cestari portato inevitabilmente a credere alla superiorità della destra. (...) Esiste un pregiudizio culturale a favore della mano destra. (...) La distinzione primaria tra destra e sinistra sembra essere dunque non tra bene e male. E' piuttosto una distinzione tra il principio femminile-luna-notte a sinistra e il principio maschile-sole-giorno a destra."1 In tale situazione ciò quindi che non contribuisce allo sviluppo della parte emergente è relegato ai margini. Da quanto il culto della Dea è stato sostituito dai miti del dio solare, simbolo che ancora influenza la razionalità, è stata sovrana l'immagine di quel tipo di coscienza che illumina, che separa, che misura, l'animus della psiche, il maschile. Il femminile rappresenta il pericolo per questa coscienza che innalza dall'inconscio arcaico e animale. Il femminile nell'accezione negativa è l'istanza della regressione. Di questa dinstinzione se ne trova traccia a partire da Anassagora (vedi la Tavola Pitagorica degli Opposti), ma l'attribuzione di giudizi di valore (positivo e negativo) si attribusce all'epoca il cui la succesione matrilineare è stata sostituita da patriarcato. Come dice di nuovo Daniels “ il dispregio della sinsistra e del mancinismo (per l'associazione con la debolezza, falsità, impurità, anormalità , disordine, male , tabù, etc) può essere un fenomeno storico relativamente recente. Queste associazioni possono allora non costituire il significato orginario o fondamentale della sinistra. Anlogalmente il significato originario della destra potrebbe non essere basato su concetti come forza, purezza, normalità, ordine, bontà o ortodossia. Queste attribuzioni, in altre parole, possono semlicemnte riflettere un pregoudizio maschile o patriarcale.”2 Quel che è sovrano rende invisibile ciò che destituirebbe la sua sovranità. Parlerò di intuizione proprio in virtù di questo rapporto sovranità-invisibile. Forse l'opposizione tra questi due termini non è l'unica relazione possibile tra i due. Cosa

succede se nella sovranità è inclusa un istanza che fa luce nel buio, e che vede il nero nel bianco e il bianco nel nero? E' una sovranità che vede il suo essere limitata, che vede che confini ce ne sono ovunque e che vede che non puo vedere tutto, non può controllare tutto. E' una sovranità diversa. Ma è possibile? Jung in Ricordi Sogni e Riflessioni, scritto alla fine della sua vita ed edito nel 1961, afferma che “assimilare l'intuizione che la vita psichica ha due poli è un compito del futuro” (p.211). Questa affermazione è pregna del fatto che anche in gran parte della psicologia e della ricerca spirituale moderna è come se vigesse ancora, o almeno fino a pochi anni fa, l'antico dogma trinitario, il dogma dell'hic et nunc,il dogma del padre, il dogma che è reale cio che è presente, cio che è gia manifesto, cio che è considerato oggettivo perche cosciente per la collettività in un dato momento storico. Ancora vige la fascinazione per la luce. Tuttavia è intuitivo notare che l'enegia antinomica degli opposti è presente anche dove c'è un tiranno. La luce del sovrano, piu è luminosa piu annienta le luci dei sudditi, relegandoli nell'ombra del popolo dimenticato nei sobborghi della città o nei sobborghi della cultura umana, che da un punto di vita che considera la pische come onnipresente, sono i sobborghi nella psiche, la cosidetta Ombra e l'Inconscio. La scienza cosidetta oggettiva che rassicura il singolo e la collettività, relega il simbolico nell'inconscio proponendo invece il segno o l'allegoria, ovvero l'immagine che rappresenta chiaramente ciò che la coscienza vuole rappresentare, niente di piu. Questo è il regno indiscusso dell'ego che si illude di essere il solo e di veder tutto. Questo è lo stadio dell'onnipotenza del bambino che ha bisogno di credere assolutamente in cio che sa con chiarezza per poter proseguire nell'assimilazione del sapere e nell'accrescimento della coscienza. E' la fiducia primaria in sé, necessaria per la nascita della coscienza . Dice Neumann: “Il collettivo trasmette come un bene culturale all'individuo che si va formando quei valori che nella storia dell'umanità hanno favorito lo sviluppo della coscienza, mentre interdice tutti gli sviluppi e

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Invisibile, naturale sovranità tutti gli atteggiamenti contrari a quel processo.”3. Il bisogno e il tentativo di far fronte all'angoscia del buio, dell'incompresibile, del non controllabile, rimanda solo un po piu in la l'incontro con il buio, con il possibile e nello stesso tempo con il limite. La negazione dell'inconscio, del simbolico e dell'intuizione si rivela chiaro nell'ambito della cura del corpo oltre che in certe forme della cura della psiche e della spiritualità. Subentra il conflitto tra reale ed irreale. Per esempio quando compare una difesa tipica come “si ma io sto male per un motivo reale, tangibile, mentre tu stai male solo per dei fantasmi creati dalla tua mente”, si rivela in tutta la sua drammaticità la sovranità di un tipo di realtà a scapito di un'altra realtà. Concepire un tipo di sovranità, quindi un tipo di coscienza che non allontana il buio ma che muove la fonte della luce in modo dinamico e variabile, in modo tale da avere un' idea il piu completa possibile di cio che c'è nella stanza buia, significa condurre la coscienza verso la consapevolezza delle sue stesse possibilità e dei suoi stessi limiti. E' una coscienza, e quindi un tipo di sovranità che non dichiara guerra alle terre straniere per eludere l'angoscia che il confine attiva, ma è una csocienza che intuisce al di là dei confini ma rimane nel suo territorio al fine di coltivarlo con quel che gli è dato. Ma esiste, è reale e quale è la parte che registra la presenza dell'invisibile? di ciò che non è qui ma di cio che è la? È possibile dare realtà alla percezione di cio che non è misurabile non è percepibile con i 5 sensi fisici? Jung parla d' intuizione. E ne parla (ne scrive) come di una delle quattro funzioni psichiche. La pone quindi sullo stesso piano. Non è qualcosa di metafisico, o di illusorio o che ci puo dire meno o piu della realtà rispetto ad altre funzioni che collettivamente conosciamo meglio. Riporto un' eloquente citazione tratta da un libro inedito, curato da Elena Caramazza, consistente nelle trascrizioni di Roland Cohen alle conferenze di Basilea del 1934, ma ancora attuali, o meglio, ancora maestre sia in psioclogia che in filosofia. “L'intuizione, naturalmente, in quanto funzione

irrazionale, non è facile da definire per l'intelletto. Nei miei “Tipi Psicologici”l'ho chiamata una “percezione per via inconscia”, poiché una delle sue caratteristiche consiste nella difficoltà a poter precisare dove e quando nasca. Essa sembra poter percorrere molte strade e, grazie al suo emergere, permette di vedere, per così dire, “dietro l'angolo”. Mi limito a questo, e confesso che non so, in fondo, come opera l'intuizione; non so cosa è successo quando un uomo sa improvvisamente una cosa che, per definizione, non dovrebbe sapere; non so come è giunto a questa conoscenza, ma so che è reale e che può servire come base per la sua azione. I sogni premonitori, la telepatia e tutti i fatti di questo tipo sono intuizioni. Ho constato questi fenomeni in grande quantità, e sono convinto che esistano; se ne incontrano tra i primitivi e da ogni parte, non appena prestiamo attenzione alle percezioni che ci giungono attraverso gli strati subliminlali del nostro essere, ossia che si trovano sotto la soglia della coscienza. L'intuizione è una funzione molto normale, perfettamente naturale e necessaria; si occupa di ciò che non possiamo né sentire né pensare, perchè manca di realtà, come il passato che non ne ha più, e il futuro che non ne ha ancora, per quanto possiamo immaginarlo. Dobbiamo essere molto riconsocenti al cielo di possedere una funzione che ci elargisce una qualche luce su ciò che è “molto al di là delle cose”.4 La psicoanalisi rappresenta un movimento della coscienza collettiva umana, che ha iniziato a riconsiderare reale, cio che per secoli è stato collettivamnete trascurato e relegato nell'ambito del falso. Con la psicoanalisi in generale e con la psicologia anlitica di jung in particolare si assiste ad una nuova risposta alla trasformazione della coscienza umana. Fa capolino il concetto di inconscio che porta con se il concetto di relatività della coscienza e di proiezione (all'esterno di ciò che inconscio) e il concetto di sincronicità, che delude la pretesa di sovranità della razionalità che coglie solo ciò che è lineare. L'immaginario sull' inconscio acquisisce nel corso del novecento validità grazie allo studio


Zaira Cestari antropologico comparato della produzione simbolica nei sogni, nei sintomi, nei miti e nei riti. (si pensi ad esempio allo studio sulle religoni di Gerardus van der Leeuw)5 Il guardare all'inconscio è lo sguardo nella notte, nella profondità della terra o appunto dietro l'angolo. Sovrana nella psicoanalisi è la funzione psichica che guarda in là, che percepisce cio che non è visibile, ed è quella funzione che collettivamente per secoli è stata la quarta, ovvero l'ombra, quella inferiore, da deridere, da catalogare come falsa e pazza. Ciò o chi è caratterizzato da intuizione è cosi l'ombra per il collettivo. Ma si sa che è dall'ombra, che si accede alla trasformazione e quindi al cambiamento. Dice Von Franz: “La funzione inferiore è la ferita della personalità cosciente che mai si remargina e sanguina perennemente, ma è attraverso di essa che l'inconscio può entrare in ogni momento, apportando un ampliamento della coscienza e generando un atteggiamento nuovo. Nella maggior parte delle società normali, la gente nasconde la propria funzione inferiore attraverso la Persona. La Persona trova una delle sue piu importanti ragioni di sviulppo nel desiderio di non esporre la propria inferiorità, specialmente l'inferiorità della quarta 6 funzione.” Afferma inoltre che l'intuizione intuisce appunto il Sé e cosa avviene nel Sé (intesa come totalità psichica comprensiva di conscio e inconscio e che rappresenta la realizzazione piena di sé, al di là dell'imitazione di profeti ed eroi), e di come la collettività, rimuovendo l'intuizione si è allontanata dal Sé, da ciò che è invisibile agli occhi. Intuire il Sè significa intuire l'altra metà della mela. Significa non cedere alla sovranità indiscussa della coscienza che vede per polarità, ma può voler dire guidare la vita sapendo sempre che accanto al visibile c'è l'invisibile, accanto al sovrano ci sono sempre sudditi che possono in ogni momento divenire sovrani e che la natura ci insegna prorpio questo: la presenza del dì e della notte. L'auspicio è che lo sviluppo tecnologico teso a gestire la realtà esterna, possa essere bilanciato nella sua corsa da un'accettazione cosciente

della realtà di ciò che è invisbile e incomprensibile razionalmente, e dalla consapevolezza che quello stesso sviluppo è nutrito dall'attività mitopoietica della psiche, e potendo cosi proseguire nell'opera di evoluzione umana in equlibrio con una piu ampia fetta di cio che è naturale, rinunciando ad un ideale di sovranità indiscussa della coscienza. “ Il simbolo possiede il doppio carattere di realtà ed irrealtà. Il simbolo è inconoscibile poiché è mediatore tra coppie di opposti, quindi non si può comprendere né con il pensiero, né con il sentimento (pienamente). Si può solo intuire ed assimilare alla coscienza”7 La psicoterapia del profondo: l'incontro con l'Altro, con il Diverso. La realtà non è solo ciò che io penso, sento, intuisco,percepisco, ma anche cò che mi si palesa davanti in modo inaspettato e che può indispormi. Spesso l'avvicinarsi alla psicologia del profondo, tramite un percorso di analisi, letture, discussioni, rivela un sentimento umano che da valore alla crecita, al superamento di se stessi e all'aspirazione ad un ideale. In quest'ottica la richiesta appare allora legittima, in quanto la piscoterapia del profondo è detta come una strada per giungere al centro di se stessi, da dove è possibile scorgere gli anfratti piu oscuri della propria psiche, da dove è possibile intuire l'opposto della propia posizione cosciente, e da dove le risorse per gestire gli eventi della vita esteriore e i turbamenti dell'anima sono raggiungibili nel modo piu semplice possibile. Dalla psicologia junghiana, oltre che dalla vita, apprendiamo che ogni cosa ha il suo opposto, e che il problema del male non si può evitare in questa via. Anche questa stessa via ha un suo opposto e anche essa, getta un'immancabile ombra. Da queste riflessioni emerge, nel percorso terapeutico, la necessità di considerare che anche l'individuazione junghiana è un mito. E allora, si può percorre la strada sapendo che il cammino non è mai finito. Nulla di cio che accade non ha un seguito. E nulla non ha il suo diverso. Ecco forse la difficoltà sta

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Invisibile, naturale sovranità nell'accettare questo. Come se dovesse sempre esserci qualcosa di meglio, e scoprire che non è cosi, porta il conflitto inconscio ad una tragedia conscia. Quando si scopre di non poter far altro che fare piccoli passi, diventa possibile percorerre la strada con impegno e serietà, mantenendo una visione ironica, e un energia giocosa. La consapevolezza è importante, ma la differenza di consapevolezza tra gli esseri umani e tra un proprio prima e un proprio dopo è minuscola. Importantissima ma minuscola. Tra la ricerca di una formula magica e il pregiudizio che la psicologia non serva a nulla, esiste qualcosa che rende entrambi gli enunciati veri ma limitati: il cambiamento è possibile, ma sarà visibile solo all'interno di aspettative umane. Nessun miracolo è prevedibile. Non impossibile ma questo come diceva Jung, dipende dal Deo concedente. La psicoterapia non può seguire le leggi scinentifiche di previdibilità e replicabilità, poiche i fatori in gioco sono troppo complessi per essere estrapolati dal tutto che costitusice la relazione terapeutica. Eppure ci sono certi cambiamenti prevedibili che rendono poi a loro volta piu proabili successivi passi, come ad esempio l'iniziare a prestare attenzione ai propri sogni, aumenta l'accessibilità del sognatore ai propri sogni notturni e al proprio inconscio e “sentirsi vivi non è solo un fatto fisico, è un fatto psichico. Siamo vivi quando ci snetiamo vivi. Ciò che ci fa sentire vivi è il contatto con la psiche inconscia, per questa ragione i sogni sono così importanti”.8 Comprendere prima e accettare poi sia la libertà ma anche la limitatezza del proprio cammino, ci pone in una dimensione in cui la coscienza è umanizzata. E l'essere umano è quello che può compiere sia il bene che il male. Il male esiste e non è solo assenza di bene. E' una dimensione esistente al pari del bene. Non è la sola volontà che decide quale strada intraperendere, ed essere schiavi di un giudizio che condanna il male non cancella il male. Vadiamo questo punto con le parole di Jung: “ (...) noi non abbiamo immaginazione del male, ma il male ci ha in suo potere. Alcuni si rifiutano di saperlo e altri invece si identificano con lui. Questa è la situaizione psicologica del

mondo odierno: gli uni si chiamano cristiani e immaginano di calpestare il cosiddetto male soltanto volendolo; gli altri ne sono divenuti preda e non vedono più il bene. Il male oggi è divenuto una visibile grande potezna: metà dell'umanità si sostiene sulla base di una dottrina costruita dal raziocinio umano; l'altra metà deperisce per la mancanza di un mito commisurato alla situazione”9 Sulla stessa linea di quanto affermato precedentemente in questo articolo, la psicoterapia del profondo non mira ad un idealità, come a prima vista, il linguaggio che a molti pare astratto porterebbe a pensare, e quindi non mira alla guarigione, alla perfezione, al bene assoluto, ma la direzione, ribadisco è quella verso il centro, da dove è possobile osservare meglio cio che è nostro, con o senza l'accordo della volontà cosiente. La meta, che mai è raggiunta, per la natura dinamica della psiche, è quella di una coscienza il piu ampia possibile e di una coscienza che rimane aperta proprio perche vede che c'è qualcosa anche oltre a cio che può vedere. In questo fiume del percorso di vita e del percorso analitico, un primo importante obiettivo dell'analisi psicologica può essere quello di iniziare a camminare sapendo che c'è sopratutto all'inizio, una forte e violenta forza di gravità che invita suadente alla regressione e quello, allo stesso tempo, di accettare che c'è tanto da fare, talmente tanto che i piccoli passi sono importantissimi. Ma sono importanti proprio perche sono piccoli. Vedere il piccolo passo come importantissimo e tuttavia vedere che è solo un piccolissimo passo, ma bellissimo, comporta allo stesso tempo una liberazione da pesi assai opprimenti e un ridimensionamento dell'ego. Poiche, come dice Jung: “Questo nucleo è costituito all'inconscio e dai suoi contenuti, sul quale non possiamo pronunciare alcun giudizio definitivo. Ne abbiamo necessariamente idee inadeguate, poiché siamo nell'impossibilità di comprenderne l'essenza con un atto conoscitivo, e di stabilirne i limiti razionali”10


Zaira Cestari E non c'è infatti una direzione giusta. L'esigenza di qualcosa di assolutamente giusto, emerge in una dimensione di ricerca di sicurezza. La sicurezza è un bisogno primario, biologico, ma su un piano psichico rappresenta la regressione. Mentre il cammino nell'oscurità, l'assunzione di un rischio che però racchiude energia psichica vitale, rappresenta un'evoluzione psicologica, e come dice E. Harding "Evidentemente è una legge di vita che ogni essere vivente non debba ristagnarsi ma evolversi."11 La psicoterapia del profondo si svolge nella tensione tra conquista biologica (che ci da sicurezza) e conquista psicologica (che viene dal rischiare). In quest'ottica, non ci sarà mai la strada perfetta, come nemmeno una donna, un uomo, un figlio, un genitore, un amico, e cosi via, perfetto. Ci sarà un strada che ci piace e che si imparerà ad amare dopo gioie e sofferenze, dopo noie, dubbi e piaceri. Così come succede nelle relazioni. Se qualcosa piace già è un buon segno. La ricerca di perfezione non è amore. Quando nasce amore e accettazione per la propria umanità, ci sarà la possibiità di amare anche l'Altro, lo Sconosciuto, il Diverso. “La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e piu soggettivi recessi dell'anima.” (C.G.Jung)12 Amare il dolore e la sofferenza di sé e degli altri è qualcosa che emerge in sincronia con la possibilità di rinuncia alla perfezione e quando la paura della contaminazione cessa. La psicoterapia del profondo conduce laddove è possibile lasciare emergere il caos a fianco della volontà che con calma e amore mette un po di ordine in quello stesso caos, senza urgenza o frenesia.

Bibliografia e Note 1. M. Daniels, 1992, Alla scoperta di Sè, La psicologia junghiana e la tecnica del watchword. ( Self-discovery the jungian way.

The watchword tachinique, 1992, London and New York: Routledge). Ubaldini Editore, Roma, 1996, (pp 30-34) 2. Ibidem, (p. 35) 3. Erich Neumann, 1949, Storia delle origini della coscienza ( Ursprungsgeschichte des nbewusstseins, Rascher Verlag, Zurich), Astrolabio Editore, Roma, 1978, (p.318) 4. C.G.Jung, 1934, Elena Caramazza (a cura di). Le conferenze di Basilea, Bergamo: Moretti e Vitali, 2015 (pp. 77, 78) 5. G. Van der Leeuw. 1933 Fenomenologia della religione (Phänomenologie der Religion),Torino, Boringhieri, 2002. 6. M.L.Von Franz, 1988, Tipologia Psicologica, ( Jung's Typology), Edizioni red, Novara, 2004 (p.95) 7. C.G.Jung, 1913-1936, Tipi Psicologici. Roma: Edizioni Newton, 2006 (p. 199 ) 8. M.L.Von Franz, 1996, Il mondo dei sogni, il simbolismo onirico nella psicologia junghiana. Tea editori, Milano, (p. 131) 9. C.G.Jung, 1961, C.G.Jung, Ricordi Sogni e Riflessioni, (Erinerungen, Traume, Gedanken von Carl Gustav Jungs, Random House Inc., New York), Bur, Milano, 2013 (p.401) 10. Ibidem, (p.405) 11. Esther Harding, 1932, La Strada della Donna ( The way of all woman, New York), Astrolabio, Roma, (p. 127) 12. C.G.Jung, 1965, C.G.Jung,(Erinerungen, Traume, Gedanken von Carl Gustav Jungs, Random House Inc., New York), Ricordi Sogni e Riflessioni, Bur, Milano, 2013 (p.393)

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Mario Gullì, Messina Nato nel 1975, psicologo analista, socio analista Centro Italiano Psicologia Analitica, direttore sanitario di strutture per il recupero di tossicodipendenti e psichiatriche a Messina e Marsala, presso il Centro di Solidarietà F.A.R.O. tiene un laboratorio di approfondimento sulle fiabe al C.I.P.A., svolge l'attività libero professionale a Messina, si è occupato di formazione e rapporti genitori figli all'interno di vari progetti di cui è stato Responsabile.


Osvaldo Guayasamin, Waiting, 1969


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Qui me ne stavo e attendevo - nulla attendevo, Al di là del bene e del male, or della luce Godendo or dell'ombra, tutto semplice gioco, E mare e meriggio, tutto tempo senza meta, E d'improvviso, amica! Ecco che l'Uno divenne Due E Zarathustra mi passo vicino... (Nietzsche, Sils Maria, 1882)

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ell’attuale società occidentale il valore dell’“Attesa” è ormai praticamente andato perduto; nell’ottica del “tutto e subito” il dovere aspettare diventa una prigione; se, ad un livello pratico e utilitaristico, ciò può anche essere sopportato, nel campo della crescita psichica e spirituale la fretta diventa mortifera, si è persa la consapevolezza della doppia valenza del termine, infatti, i due verbi dell’attesa in italiano, aspettare e attendere esprimono il primo una valenza passiva (expectare guardare), il secondo ad-tendere, tendere verso, prestare attenzione a qualcosa è attiva. La cultura orientale sembra invece più abituata al dovere aspettare, il termine Upanishad (uno dei libri dell’Induismo), etimologicamente significa stare seduto sotto, ad ascoltare il Maestro, ad attendere che parli, senza aspettarsi niente e soprattutto senza cercare il senso. I racconti o le storie di santi orientali sono ricchi di esperienze di questo tipo, ad esempio Milarepa, il famoso santo tibetano, costretto a spostare delle pietre da un posto all’altro, per poi riportarle indietro. Nel libro Vijnana Bhairava Tantra vengono descritte 112 tecniche per raggiungere l’illuminazione e nella maggior parte il dovere attendere è prioritario; nel commento a questo testo, fatto da Osho1, vengono sottolineati proprio questi aspetti, con esempi pratici di persone che hanno fallito nel seguire le sue indicazioni per l’incapacità di attendere, di fermarsi. Restando nel campo dell’illuminazione la scuola Zen utilizza la tecnica dei Koan, delle domande senza risposta, che impegnano il discepolo per un tempo indefinito, costringendolo ad attendere finché non viene superata la logica lineare di spazio e tempo. La stessa dottrina della Kundalini prevede una fase iniziale legata all’attesa, Kundalini è ferma in attesa nel primo Chakra, Muladhara, che letteralmente vuol dire “imprigionato nelle

radici”.2 L’attesa nell’I Ching Uno dei principali testi della saggezza orientale è il libro dei mutamenti, l’I Ching3, i cui oracoli spesso rimandano all’importanza dell’attesa; l’esagramma direttamente legato a questo aspetto è il quinto: 5 Hsu l’attesa (Il nutrimento)

“Tutti gli esseri hanno bisogno di essere alimentati dall’alto. Ma l’elargizione di nutrimento ha il suo tempo, e bisogna attenderlo. Il segno mostra le nuvole nel cielo, dispensatrici della pioggia che allieta tutto il mondo vegetale e fornisce all’umanità cibo e bevanda. Questa pioggia verrà a suo tempo. Non si può costringerla a scendere, bisogna attenderla. L’idea dell’attesa è inoltre suggerita dalle qualità dei due segni primordiali: dentro forza, davanti ad essa pericolo. Forza davanti a pericolo non agisce precipitosamente ma sa attendere, mentre debolezza davanti a pericolo si agita e non ha la pazienza di attendere”. LA SENTENZA L’attesa. Se sei verace hai luce e riuscita. Perseveranza reca salute. Propizio è attraversare la grande acqua. L’IMMAGINE Nubi salgono nel cielo: l’immagine dell’attesa.


Mario Gullì Così il nobile mangia e beve, ed è lieto e di buon umore. Ogni affare richiede una paziente attesa; il nutrimento e l’attesa sono legati perché bisogna attendere prima di mangiare, il nutrimento non è in potere dell’uomo ma dipende dal cielo e dalla pioggia.4 Anche l’immagine del mangiare ha un enorme valore simbolico, nei sogni spesso il mangiare rappresenta l’elaborazione psichica, il dovere “masticare e digerire un contenuto psichico”, seguendo la metafora alchemica fare cambiare di forma ad un contenuto (la fase “solve”), inoltre è frequente nei sogni citati che vi sia un’interruzione della trama, “sto facendo qualcosa ma mi devo fermare a mangiare, o un repentino cambio di scena da una fase attiva al trovarsi seduto a mangiare. Prosegue il commento all’esagramma: Attendere non significa abbandonare l’impresa, differire non è rinunciare. Vengono citati vari tipi di attesa, in base all’eventuale immediatezza del pericolo, dalla pianura, dalla sabbia o, quando il pericolo si avvicina, nella melma, dove si attira il nemico (se ci si sente spinti ad addentrarsi nel pericolo). Per ultimo nel sangue, quando bisogna cedere davanti al pericolo, la tempesta passa, anche in questo caso bisogna attendere bevendo e mangiando, si finisce nella buca, ma insperatamente la situazione si risolve. “Nel tempo dell’attesa, padronanza di sé e deferenza sono i mezzi per sfuggire a una sorte dolorosa”.5 L’I Ching dedica molto spazio all’importanza dell’attesa che è il primo passo da compiere (il paradosso è voluto), ad esempio: L’esagramma 3 Chun, la difficoltà iniziale, intima: “Non bisogna intraprendere nulla” perseveranza, nominare aiutanti, chi caccia il cervo senza guardiacaccia si perde nella foresta. La figura del guardiacaccia è piena di significati e rimandi, mi limito a evidenziare quella di psicopompo, colui che conoscendo la foresta (uno dei simboli classici dell’inconscio specie nelle fiabe) e i suoi pericoli (e risorse), permette di addentrarcisi; chiaro l’invito a non affrontare in modo sconsiderato né il proprio inconscio né, più in generale la propria spiritualità. Invito che dovrebbe essere accolto anche da noi analisti, nel non forzare i pazienti

a compiere passi per cui non sono pronti, messaggio implicito nel: Esagramma successivo, 4 Meng la stoltezza giovanile “ non io ricerco il giovane stolto, il giovane stolto ricerca me” il maestro deve attendere tranquillamente finché lo si ricerca. Solo così l’insegnamento avverrà nel momento giusto. L’importanza dell’attesa e del fermarsi viene ribadita in altri esagrammi: 6 Sung la lite “accorto fermarsi a metà strada reca salute, condurre a termine reca sciagura”. 12 Pi il ristagno “quando i nobili non hanno la possibilità di agire rimangono lo stesso fedeli ai loro principi e si ritirano in segretezza. Infatti, al grande uomo, il ristagno serve alla riuscita” (intuitivo il collegamento tra il ristagno e la fase alchemica del coagula) 17 Sui il seguire “così il nobile al tempo del crepuscolo rincasa per ristorarsi e riposarsi”. 18 Ku l’emendamento delle cose guaste “prima del punto iniziale tre giorni dopo il punto iniziale tre giorni”, bisogna attendere prima e dopo dell’azione, affinché sia curativa; ovviamente l’attesa non è ignavia, intuitivo il collegamento con la fase alchemica della putrefactio e della nigredo. 20 Kuan la contemplazione “supremo raccoglimento interiore”, sono necessarie delle pause tra abluzione, purificazione e libagione; potrà così avvenire il sacrificio. È implicita, in questo esagramma, l’immagine del Saggio che osserva dalla montagna, a sottolineare l’importanza del distacco. Anche quando è iniziato il movimento l’I King ci ammonisce sul dovere essere sempre pronti a rallentare come nell’esagramma: 22 Ppi l’avvenenza, il procedere su piccole cose e non su grandi, o fermarsi di nuovo. 23 Po la frantumazione “non è propizio andare in nessun luogo”, concetto presente anche in 33 Tun la ritirata e 39 Chien l’impedimento fermarsi e ritirarsi. Le mie riflessioni si concludono virtualmente con l’esagramma 52 Ken6 l’arresto, il monte, le cose non possono muoversi continuamente, bisogna costringerle a fermarsi; l’arresto impedisce un’ulteriore espansione ( anche qui siamo nella fase del coagula); comincia la germinazione, commenta l’I King che le cose vengono portate da dio a compimento nel

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segno dell’arresto, infatti, il posto di Ken è Nord est principio e fine di ogni essere, a rappresentare il ciclo morte rinascita. Va sottolineato che l’I King considera la Quiete come moto latente, a differenza del buddhismo che ricerca un’assenza di movimento, il Nirvana, questo concetto viene esemplificato nel commento all’I King narrando del Clan del signore giallo, da Yao e Shun i quali “fecero pendere giù le vesti superiori e le vesti inferiori, e il mondo fu in ordine. Se ne stavano tranquillamente seduti, senza muoversi, e tutto si ordinava di per sé per il loro non agire”.7 L’attesa nella Bibbia Anche nella Bibbia vi sono figure legate all’attesa, che è uno dei temi dominanti: del Messia, della Terra Promessa, dell’Apocalisse con relativa attesa escatologica della risurrezione e della giustizia divina. L’attesa è presente in vari episodi, da Abramo, che in un’Aggadoth8 viene nascosto, bambino, in una caverna per tre anni, attendendo il momento propizio per uscirne, venendo nutrito e educato dal Signore9, a Gesù Cristo nel Getsemani in attesa della volontà divina o durante i quaranta giorni nel deserto, senza sottovalutare che, nel pensiero teologico del cristianesimo, la speranza è una delle tre virtù teologali. Una delle figure bibliche legate all’attesa è Elia; questo profeta racchiude due costellazioni del tema dell’attesa, lui che attende, e lui che è atteso. Elia era l’ultimo uomo fedele al Dio di Abramo, sfidò i sacerdoti di Baal e sconfittili con l’aiuto di Jahvee, che accese miracolosamente una pira bagnata, li ammazzò tutti e 450; ricercato da Gazebele per essere ucciso si inoltra nel deserto, disposto a morire, quasi desideroso che la sua vita fosse presa dal Signore, in attesa quindi della morte. Il deserto è un topos frequentemente presente in situazioni di attesa con il rischio di morire. L’esilio nel deserto, da Adamo ed Eva in poi, è legato all’espiazione nel transpersonale, un luogo al di là delle forme culturali, se affrontato volontariamente genera vitalità e il contatto col Sé: alienandosi dal collettivo si favorisce il collegamento tra mondo della coscienza e psiche oggettiva, si può accedere al Numinoso.

Il deserto, abitato nell’immaginario da vagabondi ed eccentrici, può diventare luogo di trasformazione, ciò avviene frequentemente nelle fiabe10. Quando il deserto viene invece subito come, in Caino o Ismaele, è una maledizione, similmente l’attendere, se voluto, genera trasformazione mentre se è un obbligo genera disagio e patologia, il desiderio di morire, alla voce del Sé si sostituiscono voci indifferenziate che urlano nel deserto. Tornando all’Elia biblico questi si ritira sui monti e nelle grotte a fare penitenza e vita ascetica per anni, fino al comando ricevuto sul monte Horeb “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”11 con relativa copertura del volto alla presenza di Jahvee. Tra l’altro la caverna, già incontrata con Abramo, è legata all’accumulare forze, alla trasformazione e alla rinascita. L’immagine successiva a cui voglio accennare è quella di Elia prostrato sul Carmelo che aspetta la pioggia, immobile senza guardare, per richiamare la presenza di Dio, prosternato con la testa tra le ginocchia che attende il segno della presenza divina, della Shekinah ( spesso considerata come riposo e dottrina di Dio). Un’immagine spesso legata alla presenza di Dio, alla Teofania, è la nube, ( già incontrata commentando l’I King associata come in Elia alla pioggia) che per il popolo ebraico ne è una manifestazione, ma è presente con questo significato anche durante l’Annunciazione alla Madonna (il termine utilizzato è episkiazo, coprire con un’ombra, con una nube), durante la Passione e nella trasfigurazione del Cristo; anche nella mistica dei Sufi la prima creazione di Dio è una nube oscura. Il secondo aspetto è legato all’attendere Elia, l’Elia redivivus della fine dei tempi, che unisce ebraismo e cristianesimo; vi è la certezza del suo ritorno per una restaurazione interiore del popolo d’Israele (il suo ritorno è un compito etico e politico, non solo legato al giudizio e in opposizione all’Anticristo, ma anche necessario alla salvezza di Israele), questa certezza viene legata alle condizioni della sua scomparsa, il rapimento in cielo all’interno di una nube. Elia assume quindi caratteristiche escatologicomessianiche, rappresenta un precursore del Messia nei tempi finali descritti dall’Apocalisse, come il Battista, a volte


Mario Gullì assimilato ad Elia, precorre il Cristo. Questa tradizione era già presente presso gli Esseni, nel papiro aramaico, appartenente all’insieme qumranicoxii, si legge vi manderò Elia prima13 chiaro richiamo alla profezia di Malachia14, ed ha continuato ad esistere presso i primi cristiani15. Di attesa di Elia si parla anche nella versione targumica del Pentateuco e nella stessa letteratura viene identificato con Pinchas “gli anni del pio Qehat erano 133, quando egli vide Pinchas, questi è l’alto sacerdote Elia, che alla fine dei giorni sarà mandato dagli esuli di Israele.16”. Come appare evidente la vicenda di Pinchas ricorda molto quella di Elia: “Ed ora alzati e va via di qui ed abita in Danaben sulla montagna, ed abita lì per parecchi anni, ed io darò incarico alla mia aquila, ed essa ti nutrirà, e tu non devi scender giù dagli uomini, finché non giunge completamente il tempo in cui tu sarai esaminato e tu chiuderai allora il cielo, che poi sarà aperto per bocca tua. E poi sarai elevato al luogo, al quale sono stati elevati i tuoi antenati, e sarai lì fino a che io mi ricordo del mondo. E poi vi farò conoscere il sapore della morte17”. Da Elia ad Al Khidr Degno di nota che l’Elia della Bibbia venga assimilato da molte fonti con l’Al Khidr del Corano, come ci ricorda Jung nei “Simboli della Trasformazione”18, nella sura 18 del Corano viene narrata la vicenda di Al Khidr e Mosè: E s’imbatterono [Mosè e il predetto servo=Giosuè] in uno dei Nostri servi, cui avevamo dato misericordia da parte Nostra, e gli avevamo insegnato della Nostra scienza segreta. Egli disse Mosè: “Posso seguirti a patto che tu mi insegni, a rettamente guidarmi, di quel che a te fu insegnato?” Rispose: “Sì, ma tu non saprai, con me, pazientare; e come del resto potresti essere paziente in cose che tu non comprendi?” Ma Mosè ribatté: “ Mi troverai, se a Dio piace, paziente, e io non ti disobbedirò in nulla”. Disse l’altro: “Se tu dunque vuoi seguirmi, non domandarmi nulla di cosa alcuna, finché non sia io a fartene menzione”. E così partirono finché, quando salirono sulla Nave, quegli la forò. “L’hai tu forata, gli chiese Mosè, per fare annegare tutti quelli che vi stan

sopra? Hai certo commesso una cosa enorme!” “Non ti dicevo, rispose, che tu non avresti potuto, con me, pazientare?” “Non mi riprendere, ribatté Mosè, perché me n’ero dimenticato. Non mi imporre dunque punizione gravosa”. E andarono ancora finché non si imbatterono in un giovanetto, che quegli uccise. “Hai ucciso un’anima pura senza alcuna necessità di vendicare un’altra anima? Hai commesso cosa inaudita!” Rispose: “Non ti dicevo che tu non avresti potuto, con me, pazientare?” E Mosè rispose: “Se d’ora in poi ti chiederò una sola cosa, non accompagnarti più a me, avrai scusa sufficiente per abbandonarmi”. E andarono ancora finché, giunti a una città, chiesero del cibo a quegli abitanti, ma essi rifiutarono di ospitarli. E trovarono in quella città un muro che stava per crollare e quegli lo raddrizzò. Allora Mosè gli disse: “Se avessi voluto, avresti potuto farti pagare per questo”. “Qui ci separeremo, rispose l’altro, ma prima ti darò la spiegazione di queste cose sulle quali non hai potuto pazientare. Quanto alla nave, essa apparteneva a povera gente che lavorava sul mare, ed io volli guastarla perché li inseguiva un re corsaro che prendeva tutte le navi a forza. Quanto al giovanetto, i suoi genitori erano credenti, e tememmo che egli [crescendo] li forzasse a empietà e miscredenza e volemmo che il loro Signore desse loro in cambio un figlio più puro e più affezionato. Quanto al muro, esso apparteneva a due giovanetti orfani di quella città, e sotto c’era un tesoro che loro apparteneva e il loro padre era un uomo pio; e il tuo Signore volle che essi pervenissero all’età adulta e poi essi stessi scavassero fuori il tesoro, come segno di misericordia da parte del Signore. E ciò che feci, non lo feci io. Ecco la spiegazione di quello su cui non hai potuto esser paziente”. Ciò che Al Khidr richiede a Mosè è una virtù ben precisa, la costanza (il famoso zelo di Elia), Al Khidr sfida, infatti, Mosè ad esercitare una pazienza inesauribile (il termine utilizzato, sabr si può rendere con pazienza, costanza, resistenza o autocontrollo), ed una fiducia nel non chiedere la ragione di ciò che accade. Dando una lettura esoterica di questa sura bisogna abbandonare ogni volere d’ottenimento

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percorrendo il sentiero che porta alla morte iniziatica (presente anche in Elia nel deserto) e alla rinascita, bisogna aspettare, per essere iniziati ad Eleusi bisognava attendere almeno un anno tra piccoli Misteri e Grandi Misteri, e l’importanza del dovere aspettare il momento giusto ed essere costanti erano preminenti nei pitagorici.

“La vostra attenzione influisce sugli incontri con gli eventi sincronistici. Concentrare l’attenzione sulla possibilità di sperimentare l’evento sincronico con un’attitudine di attesa (aspettando che si realizzino) accresce di molto il numero di eventi che si sperimentano”.21 Quindi una predisposizione all’attesa facilità l’accesso a quel mondo altro regno di archetipi, sincronicità e Numinoso.

L’attesa nella stanza d’analisi L’importanza dell’attesa non è legata solo a concetti mistici o inerenti alle religioni, è un aspetto fondamentale, pur se spesso sottovalutato, dell’analisi, il dovere aspettare che l’inconscio faccia il suo corso, che un contenuto venga integrato dalla coscienza, che si costelli un archetipo o che inizi ( o riprenda) il processo individuativo sono fasi che caratterizzano molti percorsi analitici. L’attesa è legata alla speranza, come ci ricorda Borgna19, la speranza rappresenta un tempo d’attesa creativa e trasformativa, l’impossibilità di reggere l’attesa, perché soverchiante, come nell’ansia, o perche non foriera di nulla, come nella depressione, ci dà un’indicazione diagnostica, il tempo dell’attesa può seguire varie direzioni, correre verso un altrove, e aprirsi alla speranza o arrestarsi nel qui e ora carico d’angoscia. Come afferma Hillman in il Suicidio e l’Anima20, l’Attesa deve essere attiva, deve contenere la prontezza al balzo, l’istinto del domani, essere, come afferma Sant’Agostino il presente del futuro, una modalità di dare futuro, l’attesa è indissolubilmente legata al tempo; bisogna non avere fretta, non forzare, non provocare accelerazioni non supportate dal paziente, come ci ricorda l’alchimia non dobbiamo alzare troppo la temperatura o l’atanor esplode, è pur vero che non bisogna nemmeno restare fermi a contemplare ciò che accade nell’inconscio del paziente (se la legna è troppo poca, il fuoco si spegne), bisogna fare fluire, le lacrime vivono di attesa e di speranza. In conclusione, Jung postulò l’esistenza di un “archetipo di attesa” improntato alla speranza, e affermò che se si viene in contatto con un archetipo anche per scelta personale si innesca evento sincronico in linea con le aspettative dell’individuo.

Ho detto alla mia Anima: taci e attendi senza speranza perché la speranza sarebbe speranza mal collocata; attendi senza Amore perché l’amore sarebbe Amore mal collocato; rimane la fede ma l’amore, la fede e la speranza stanno tutti nell’attesa. (Quattro Quartetti, “East Coker”, III vv.23-26)

Bibliografia e Note 1. Osho ( 1974) Il libro dei segreti. Bompiani, Milano 2001. 2. Jung Carl Gustav La Psicologia del Kundalini Yoga. Seminario Tenuto nel 1932. Bollati Boringhieri Torino 2004. 3. Farò riferimento all’edizione di Wilhelm Richard (1924) I Ching Il Libro dei Mutamenti, con prefazione di Jung, Adelphi Milano 1995. 4. Cfr con la vicenda di Elia commentata in seguito. 5. Wilhelm (1924) Ibidem pag 431. 6. Anche il l’Esagramma 54 fa riferimento all’importanza di fermarsi, ma semplicemente per sottolineare che ogni aspetto (in questo caso il matrimonio propizio) contiene l’opposto. 7. Ibidem pag 357 8. Le aggadoth o agghada sono un compendio di omelie rabbiniche o aneddoti storici. 9. Riemer J. Dreyfuss G. (1993) Abramo: l’uomo e il Simbolo. Giuntina Edizioni Firenze (1994), pag. 12 10. Cfr. con Gullì (1994) Mixtum Compositum: oniric image in the treatment of a Transexual FtM, in Mediterrenean Journal of Clinical Psychology Vol. 2 N°3 http://cab.unime.it/journals/index.php/MJCP/ar ticle/view/1008 11. I re 19.11 12. Il codice di questo papiro è 4q 558 cit. in


Mario Gullì Pagliara Cosimo (2003) La figura di Elia nel Vangelo di Marco: aspetti semantici e funzionali. Editrice Pontificia Università Gregoriana, pag 284. 13. Cfr ivi 14. Malachia 4:5 15. Pagliara C. op. cit. Pag. 295. 16. Ibidem pag. 289. 17. Ibidem 290. 18. Jung Carl Gustav(1912-52) Simboli della Trasformazione Opere Complete Boringhieri Torino 1992, pag. 195 e sgg. 19. Borgna Eugenio (2005) L’attesa e la speranza, Feltrinelli Milano. 20. Hillmann James (1965.97) il Suicidio e l’Anima Adelphi Milano 2010. 21. Cfr Surprise Kirby(2011) Sincronicità capire e utilizzare le coincidenze significative, edizioni Mediterranee Roma 2013, cfr. cap. 2

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L'ANIMA F A LIBRO di Teresa Di Matteo


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LE STORIE CHE CURANO JAMES HILLMAN

A questo punto, diventa straordinariamente facile comprendere la nostra vita: comunque siamo, non potevamo essere altrimenti. Niente rimpianti, niente strade sbagliate, niente veri errori. L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere. J.Hillman, Il Codice dell’Anima Quest’opera possiamo collocarla al confine tra l’arte di curare e l’arte di raccontare. Il testo è dedicato ad una rilettura dell’opera di Freud, Jung ed Adler in chiave narrativa. Nella prima parte del testo Hillman pone l’attenzione sulle storie cliniche come narrativa comunicando quanto sia importante curare non il paziente, ma la storia che racconta. Vi è l’idea che ricostruire e raccontare la propria storia porti alla costruzione della propria identità, in una nuova concezione della cura. E’ un invito a non considerare la storia in maniera letterale ma a coglierne i significati reconditi, è un monito al terapeuta affinché sia sempre in grado di raccontare e ri-immaginare la storia del paziente: fare anima e non fare storia. Sulla scena analitica dobbiamo trovare due personaggi, due autori che narrano la storia degli eventi dell’anima: il paziente e l’analista. Hillman scrive: “una terapia riuscita è una collaborazioni tra narrazioni, un revisione della storia in una trama più intelligente e più immaginativa”, afferma che queste storie possono farci il grande dono di avvicinarci alle immagini riportando la mente al suo fondamento poetico. Per conoscere la profondità della mente, per ascoltare le storie con attenzione poetica bisogna essere in grado ci leggere le immagini della propria anima e di impararle a conoscere. La seconda parte del testo, infatti, prende il titolo di pandemonio delle immagini. Jung nella sua opera Tipi Psicologici affermava che l’immagine è un’espressione concentrata della situazione psichica totale. La caratteristica fondamentale della psiche è quella di produrre immagini, Hillman immagina la mente come una “base poetica” attraverso cui la psicoterapia può essere capace di insegnare l’arte di vivere fra le immagini. E’ solo scoprendo il significato delle proprie immagini che si può iniziare un percorso di riflessione, conoscenza di se stessi ed intuire la propria vocazione. L’anima ci parla attraverso queste rappresentazioni, il nostro compito è comprendere cosa l’anima vuole. Questo è l’interrogativo dal quale si snoda l’ultima parte del testo accostandosi al pensiero di Alfred Adler. Per poter rispondere a tale interrogativo bisogna aver compiuto un lavoro di conoscenza di sé ed essersi messi davvero in ascolto della propria anima dopo aver raccontato la propria storia e dopo aver stabilito un contatto con le proprie immagini. Non scopriremo mai interamente cosa l’anima vuole, è un enigma, è il mistero più grande dell’essere, con difficoltà e caparbietà potremmo giungere ai suoi confini e forse questo è proprio il suo obiettivo, porci in una continua ricerca di noi stessi, del nostro daimon, del nostro codice dell’Anima. Questa è l’essenza viva dell’essere umano: ricercare l’immagine che ci custodisce, scoprirla e seguire la via che ci indica per poter affermare il nostro carattere sentendoci a proprio agio e inebriati, approdando in territori mai visti prima. Dobbiamo essere in grado di mettere a nudo la nostra natura e la natura della creazione. Non dobbiamo mai stancarci di essere in continua ricerca e di far nostro il monito socratico sull’oracolo di Delfi. Deve essere una ricerca non solo interiore ma bisogna essere in grado anche di ricercare l’anima nel sociale, nella comunità e nel mondo. Concludo questo breve articolo con lo stesso invito di Hillman al termine della prefazione del testo: "Fatevi coraggio"


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SU "LA MORTE DI IVAN ILL'IC"

Antonello Carusi, Pescara Psicologo Psicoterapeuta. Ha collaborato e lavorato con: il C.L.E.D. (Comitato Lotta all'emarginazione ed alla Droga), il Centro di Recupero Polivalente “Primavera” in Scerne di Pineto (Te), il C.I.F. (Centro Italiano Femminile) di Pescara. Inoltre è stato Consigliere Onorario della Sezione per i minorenni presso la Corte d'Appello degli Abruzzi. Dal 2009 svolge attività in ambito privato, in qualità di psicoterapeuta individuale ad orientamento psicodinamico.


Jean Michel Basquiat, Riding with death, 1988


Ivan Ill'ic

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"Tutto ciò di cui hai vissuto e vivi è una menzogna, un inganno, che ti nasconde la vita e la morte." E non appena lo pensò, si levò il suo odio e insieme con l'odio le penose sofferenze fisiche e con le sofferenze la consapevolezza di una morte inevitabile, prossima. Prese forma qualcosa di nuovo, che cominciò a trapanare, a produrre dolori lancinanti, e a soffocargli il respiro."

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i può parlare di finzione in modi differenti.

In sensi differenti. Anzitutto di finzione come "messa-in-scena" parola evocativa, inevitabilmente, di immagini che rimandano al mondo della rappresentazione, in particolare di quel tipo di rappresentazione che definiamo "teatrale". Di finzione/imbroglio in senso archetipico1 ovvero di "trick", se riferita al contesto di rituali che si collochino all'interno di un processo di trasmissione di particolari tipi di conoscenze, come quello caratteristico dell'iniziazione sciamanica (e qui mi sovviene, esemplificativamente, la saga di Castaneda e dei suoi leggendari protagonisti2). C'è tuttavia, tra i diversi, un senso molto più per così dire - immediato, ingenuo, fenomenologicamente parlando, d'intendere l'idea di finzione. La finzione come pura e semplice menzogna, inganno. Sia se riferita al rapporto con sè stessi ("autoinganno", "malafede" nel senso sartriano) o al rapporto con gli altri. Tra le differenti accezioni del termine sussiste un'indubbia relazione, che al limite tende a far svanire i confini concettualmente e contestualmente stabiliti tra l'una e l'altra forma. "La morte di Ivan Il'ic" è un racconto breve3, capolavoro della letteratura russa, in cui l'autore, Lev Tolstoj, con minuzia di dettagli e la capacità di descrizione fenomenologica che è appannaggio dei grandi scrittori, narra le vicissitudini psicologiche antecedenti alla morte del protagonista, Ivan Il'ic Golovin, consigliere di Corte d'Appello, esito di una malattia misteriosa che ripetuti consulti medici non sono stati in grado di diagnosticare con certezza. Ivan Il'ic è stato per tutta la vita quello che coloro che non sono saturi di "psicopatologia"

definirebbero un uomo sostanzialmente "equilibrato", "normale". Marito e padre di due figli, un maschio e una femmina, suo padre era un funzionario pietroburghese che "...in vari ministeri e dipartimenti, aveva fatto la carriera che conduce le persone a quella posizione in cui, anche se appare chiaro quanto esse siano inadatte a svolgere una qualunque sostanziale mansione, tuttavia per il loro lungo e trascorso servizio non possono essere licenziate e ottengono perciò fittizi posti inventati, in cambio di non fittizie migliaia di rubli (...) con le quali approdano all'estrema vecchiaia". La vita di Ivan, a parte qualche trascurabile conflitto coniugale derivante da disaccordi sull'educazione e gli studi da far intraprendere ai figli, scorre tranquilla tra impegni di lavoro, partite a "vint" (4) con amici e colleghi, e le preoccupazioni per la "sistemazione" della figlia maggiore, alla cui mano aspira il rampollo di una famiglia ben in vista della società pietroburghese del tempo. Ha quarantacinque anni quando, nel pieno di questa vita normale, inizia ad accusare i primi sintomi della malattia che lo porterà nel giro di pochi mesi alla morte. "Aveva uno strano gusto in bocca e avvertiva un fastidio nella parte sinistra dello stomaco". Iniziano allora le visite, i consulti medici, con tutta la ritualità del caso. Ma inizia parallelamente, nel corso della narrazione, un processo di progressivo estraneamento del protagonista, che da questo momento in poi inizierà ad osservare e percepire sempre più distintamente la rete di falsità, di finzioni ed elusioni, che la malattia finirà col tessere intorno a lui, nei rapporti con le persone che lo circondano, ad iniziare dai familiari. Non si direbbe tuttavia che si tratti di qualcosa di "nuovo" (neo-), nel vero senso della parola. A ben vedere, sembra che tutto quanto inizia ad essere registrato e còlto dal protagonista fosse già presente, dall'inizio


Antonello Carusi della narrazione. Si direbbe che da mero personaggio all'interno del racconto, immerso in "dinamiche psicologiche" di cui era sostanzialmente inconsapevole, - o meglio che non attiravano la sua attenzione - , il suo punto di vista, il suo vertice di osservazione, con la comparsa della malattia tende ad avvicinarsi progressivamente a quello dell'autore del racconto - ovvero del suo ... Creatore. Se all'inizio noi lettori potevamo cogliere dal tono e dai contenuti della descrizione dell'Autore del mondo di Ivan le piccinerie, la grettezza, le menzogne e le finzioni di un'esistenza assai comune, col trascorrere del tempo, e delle ... pagine, e l'inesorabile avvicinarsi della morte (del protagonista e ... del racconto), avviene una sorta d'osmosi psicologica tra i due. Come se per il personaggio Ivan l'approssimarsi della morte sia, allo stesso tempo, il progressivo ri-assorbimento del suo essere nell'essere di colui che gli ha dato vita, immaginandolo. "Morte" come limite rispetto ad un disvelamento incipiente, perennemente "in progress", stando alla fenomenologia del vissuto di Ivan Il'ic. Disvelamento che, strada facendo, spietatamente mette a nudo agli occhi del protagonista quelle verità che finchè era "sano" non gli era dato di cogliere, almeno non con tanta chiarezza. I ripetuti consulti medici sembrano avere il solo scopo di stabilire una suggestiva "sanzione" della morte, la sua estromissione dalla consapevolezza nell'incontro interpersonale tra il protagonista e gli altri, "i sani", essenzialmente i suoi congiunti, che tuttavia fallisce nel tacitare il confronto "intrapsichico" del protagonista con la morte, che al contrario è soggetto ad un crescendo continuo, fino all'incalzante finale. Nel racconto aleggia un'atmosfera ipnotica che sembra miri a detonare, rifrangere, eludere, sviare ed ingannare il senso della morte, l'acuta percezione del suo incombere nella coscienza del protagonista. Fino alla fine egli "colluderà" con tutto questo, lungi dall'essere mero "soggetto passivo" delle manovre relazionali altrui.

L'impressione è che tutto ciò, benchè molto "umano", finisca con l'accentuare la sofferenza e l'isolamento del protagonista, in un crescendo in cui dolore fisico e psichico sembrano perdere progressivamente ogni distinzione. La morte come "cifra", confronto ineludibile con una verità soggettiva e non condivisibile con alcuno, sembra qui farsi paradigma di un cammino individuativo attraverso cui sempre più serratamente la percezione del singolo coglie i limiti della prossimità, delle possibilità di relazione, chiamato a sopportare il peso di una implacabile resocontazione intima di tutti gli inganni perpetrati (verso se stesso e verso gli altri) nel tempo speso coltivando l'illusione che l'evento estremo come suggeriva Freud parlando dell'inesistenza della morte per l'inconscio - sia qualcosa che non ci riguardi realmente e personalmente, e che la "vita" e il "mondo" siano ... "cosa nostra", nel tempo e nello spazio. "(...) In quello stesso istante Ivan Il'ic sprofondò, vide la luce, e gli fu rivelato che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto, ma che la si poteva ancora correggere. Si domandò : "che significa come si deve?" e tacque, mettendosi in ascolto. In quel momento sentì che qualcuno gli stava baciando la mano. Aprì gli occhi e guardò il figlio. Provò pena per lui. Gli si avvicinò la moglie. La guardò. (...)provò pena per lei. "Già, li stò tormentando." pensò. " Provano pena per me ma staranno meglio, quando sarò morto. Fece per dirlo ma non ebbe la forza di articolare i suoni (...)"

La storia si conclude con una sorta di dolorosa "consegna", che il gesto affettuoso del figlio, tra le lancinanti sofferenze dell'agonico protagonista del racconto, sembra sancire. La consegna di un "non senso", di un'irriducibilità della morte - e della vita -

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all'ordine di qualunque tipo di "discorso". Anche questa, naturalmente, è soltanto una "interpretazione", certo poco palliativa e impietosa - a differenza di quell'ultimo, tenero gesto filiale - che non scioglie il nocciolo di mistero e angoscia che aleggia dappertutto in questo magistrale racconto; così onesto, così sincero, in contrasto colle piccole, grandi meschinità e le finzioni del nostro vivere quotidiano sociale e familiare, al di la' del tempo e del mondo in cui risulta ambientato. Bibliografia e Note 1. Sono esemplificativi al riguardo gli studi condotti da Jung e Kerènyi sulla figura del "Briccone Divino". 2. Si raccomanda, in merito, l'introduzione di F. Jesi al resoconto delle "esperienze" narrate da Carlos Castaneda nel suo libro "L'isola del tonal", relative al presunto "apprendistato sciamanico" a cui sarebbe stato sottoposto l'autore, negli anni '60 del secolo scorso, da parte di due "stregoni" Yaqui (una popolazione di nativi americani stanziati nel Messico settentrionale). 3. Pubblicato la prima volta nel 1886. 4. Si tratta di un gioco di carte russo, simile al più noto "Bridge". - Castaneda C. 1974, "L'isola del tonal", Rizzoli, Milano 1975 - Miceli, S. 1984 "Il demiurgo trasgressivo. Studio sul trickster", Sellerio, Palermo, 2000 - Radin, P., Jung, C. G., Kerényi K. (1954), "Il briccone divino", Bompiani, Milano, 1965 - Tolstoj L. 1886, "La morte di Ivan Il'ic", Garzanti, Milano 2008


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L'ANIMA FA PSICOANALISI di Michele Mezzanotte

Nel 1913 uno dei primi psicoanalisti Isidor Sadger introduce la prima psicoanalista donna all'interno del Mercoledì sera in casa Freud: Hermine Von Hug-Hellmuth, quindi probabilmente la prima psicoanalista donna. Spesso si ricorda il primo psicoanalista, ma non i primi (Stekel, Kahane, Reitler, Adler) e soprattutto mai le prime psicoanaliste donne. Hermine si presentava come una donna piccola, ordinata ed elegante. Nel 1912 scrive sulle sue sinestesie “Sull'ascolto dei colori”, opera che colpsice Freud che decide di invitarla nella Società di Psicoanalisi. Diviene la direttrice del centro di orientamento del bambino di Vienna e sviluppa la tecnica del gioco per l'età infantile. Il suo lavoro sui bambini è molto originale. Freud pubblica un suo diario senza citarla e solo dopo la terza edizione si viene a scoprire che la vera curatrice del diario è lei. Il 9 settembre del 1924 viene trovata morta nel suo studio con un fazzoletto in bocca. È stato suo nipote diciottenne Rolf, figlio adottato della sorella Antonia. Sadger analista della Hug-Hellmuth assume la tutela del minore e lo dichiara delinquente nato, patologicamente crudele. Le zie erano le sue educatrici e cercarono di recuperarlo fino a quando lo affidarono ad un istituto di recupero. Il nipote entra in camera per rubare ancora una volta, ma le urla della zia si fanno troppo forti e le preme la bocca per zittirla. Dichiara alla corte quella era stata “un'azione ineluttabile e una disgrazia”. Il nipote si dichiara vittima per anni delle parole della zia diventando una cavia da laboratorio. Scontata la pena chiede alla società di psicoanalisi un risarcimento. Gli fu proposta un'altra analisi femminile, ma la Deutsch a cui fu consigliato, lo rifiutò. Una settimana prima di morire la psicoanalista chiese che nessun necrologio fosse pubblicato in pubblicazioni psicoanalitiche. Alcuni psicoanalisti dicono che una morte per mano di un paziente è un atto di suicidio da parte dello psicoanalista. “L'erudizione di HugHellmuth mi riempie di ammirazione” Lou Andrè Salomè


INTERVISTA AD EMANUELE TREVI di Valentina Marroni e Michele Mezzanotte

Figlio dello psicanalista junghiano Mario Trevi, è uno dei critici più promettenti della nuova generazione. Ha tradotto e curato edizioni di classici italiani e francesi. Collabora al Manifesto (Alias) e alla trasmissione radiofonica Lucifero di Radio Tre, con una sezione dedicata alla poesia. Il suo libro Istruzioni per l’uso del lupo ha riscosso un notevole successo. È redattore di Nuovi Argomenti. Ha fatto parte della giuria del premio Calvino nel 2001, e del premio Alice 2002. Nel 2012 esce per Ponte alle Grazie il libro Qualcosa di scritto. Nel 2014 è intervenuto alla Eranos Tagung sul tema "Cura del mondo e cura di sè". FOTO DI FRANCO FONTANA


D. La psicologia è un discorso sulla psiche o sull'anima. Un discorso che è fatto di letteratura, ovvero di lettere, parole e frasi. Psiche e letteratura hanno un legame imprescindibile che possiamo ricordare anche attraverso il premio letterario alla memoria di Goethe, dato a Sigmund Freud nel 1930 a Francoforte. La lettera è una parte del discorso ma anche una parte della psiche; una psiche composta da queste "incisioni", "graffi", a volte caotici, a volte organizzati in parole e discorsi. Nella Sua esperienza, in qualità di scrittore e critico letterario, come si svela questa relazione? R. Quello che cerco di insegnare durante i miei corsi di scrittura, parte proprio dalla relazione tra due poli: da una parte c'è la psiche, che assorbe ogni tipo di linguaggi in una specie di enorme sedimento sotterraneo, li frantuma e li rende irriconoscibili; dall'altra parte di un ideale arco energetico c'è il dizionario, cioè le parole e il loro significato stabilito e comune per tutti, e nel dizionario c'è anche la letteratura intesa come istituzione, tradizione, sistema di regole. Chiaramente noi vorremmo esprimere direttamente la psiche, ma la psiche parla un linguaggio che nemmeno noi potremmo comprendere. Mi viene da dire: è il monologo di uno psicotico, un delirio. Quindi bisogna che questo psicotico esca dal suo rifugio, si metta in relazione con quanto avviene dall'altra parte. Deve insomma accettare un compromesso: parlare con parole comprensibili. In qualche maniera deve tradirsi, se il massimo dell'autenticità consiste in un linguaggio totalmente privato e personale, comprensibile solo a chi lo parla. Ognuno di noi deve trovare il punto che più gli conviene, intermedio tra i limiti opposti di una completa solitudine e di un completo conformismo. Questo è il lavoro più faticoso che si impone nello scrivere letteratura.


D. James Hillman nel suo volume "Storie che curano" propone lo psicoterapeuta come "operatore di storie", e il paziente in un continuo "ri-raccontarsi in rinnovate letture immaginative". Come si inserisce la letteratura all'interno di un'ottica della cura di sè? R. Il libro di James Hillman a cui si riferisce mi ha molto colpito e ci sono tornato sopra più volte. E' un'opera che offre un vantaggio cognitivo inestimabile, quello di riferirsi a una situazione comunicativa concreta, quella creata dal rapporto tra terapeuta e paziente. Anche perché di solito le teorie della narrazione, anche quelle molto raffinate, mi sembrano un po' campate in aria, basate su astrazioni valide in ogni tempo e in ogni luogo. Quanto alla "cura di sé", mi sembra che la chiave giusta sia quella suggerita da Pierre Hadot nei suoi studi sulla filosofia tardo-antica. Più e meglio di Foucault, Hadot considera la scrittura come un elemento indispensabile, e non accessorio, della cura si sé. Ma a sua volta la scrittura è legata al concetto fondamentale di "esercizio", "esercizio spirituale".


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D. Per la prossima domanda prendo spunto dalle parole di Albert Camus nello "Straniero": "Allora non so per quale ragione, c'è qualcosa che si è spezzato in me" Ci può fare degli esempi di casi letterari che descrivono questa immagine del passaggio dall'equilibrio alla follia? R. Mi hanno molto colpito gli articoli di Fitzgerald sulla sua depressione, tradotti in italiano con il titolo "Il crollo" ("crack-up" nell'originale). Anche un lettore d'eccezione come Cioran si era reso conto del valore di questo racconto, lo paragonava alla "notte oscura" di Juan de la Cruz.


63 D. La Notte Oscura di De La Cruz è una poesia, mentre il "Il Crollo" di Fitzgerald è una confessione in tre atti dello stato depressivo dello scrittore americano. L'anno scorso alla Tagung organizzata a casa Eranos, lei è intervenuto esponendoci la sua teoria della cura di sè attraverso la scrittura. Tra gli esempi letterari da lei citati ricordo i taccuini di Marina Cvetaeva. Nei taccuini, molto più che nelle sue poesie, benchè esse fossero magnifiche, Marina riusciva ad esprimere se stessa. In questi taccuini è inevitabile non percepire come Marina sia in costante autoanalisi e come questi fossero per lei la cura della sua sensibile ed originale anima ribelle: "In me tutto è incendio". Lei crede che la scelta dei diversi stili narrativi possano incidere o veicolare meglio - o peggio - la funzione della scrittura come cura dell'anima? R. Nella domanda si nasconde già la risposta, almeno per ciò che riguarda la mia personale concezione del rapporto tra scrittura e cura di sé. Cercherò di spiegarmi: dal punto di vista del giudizio di valore, è ovvio che La notte oscura "è più importante" di tre articoli di Fitzgerald pubblicati su una rivista. Ma Juan de la Cruz adopera un linguaggiio più strutturato, di cui conosce alla perfezione le regole (metrica, rima eccetera). Quello che mi premeva trasmettere al seminario di Eranos è il fatto che la scrittura non viene "dopo" l'atto di coscienza, come una specie di trascrizione, ma è l'atto stesso di coscienza. Pierre Hadot aveva capito benissimo questo punto essenziale, ma il suo materiale è antico, e gli antichi non attribuivano un gran valore alla scrittura semplicemente diaristica, avevano bisogno di calare la cura di sé in certi generi letterari ben precisi, come il dialogo. Accanto ai quaderni di Marina Cvetaeva, ho parlato di quelli di Simone Weil e di Kafka. Sono tutti casi moderni, e noi moderni abbiamo sempre bisogno di liberarci dei vincoli formali, dei generi letterari e di tutto ciò che nella scrittura è "impersonale" e codificato. Per questo la prosa è un veicolo più efficace della poesia.


D. Viviamo in un mondo di terrori antichi e moderni. Siamo circondati da piccoli terrori quotidiani (come carni tossiche, wifi cancerogeno, aria inquinata...), e grandi terrori su scala nazionale (come catastrofi naturali, terrorismo, politica, crisi economica...). Ogni periodo storico ha la sua letteratura, la sua arte e il suo terrore. Quale è il lato oscuro e terrifico della letteratura moderna e che immagine riflette nella cultura contemporanea? R. Il problema è che la letteratura, almeno dalla rottura romantica in poi, è sempre il discorso del singolo, la traccia di una reazione assolutamente individuale alla pressione del mondo. Dunque evocando una paura collettiva, lo scrittore rende semplicemente riconoscibile agli altri qualcosa che per definizione è innominabile.


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D. La letteratura insieme alla psicologia possono inserirsi in un'ottica di cura del mondo? R. Già , ma che cos'è, precisamente, il "mondo" ? In altre parole: in che misura il mondo è qualcosa che diventa interiore da esteriore che era ? La scrittura è una prodigiosa membrana, rivolta da un lato verso l'interno, o se vogliamo la psiche, e dall'altro verso l'aperto, l'incommensurabile.


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D. Qual è il personaggio letterario che più la coinvolge in questo momento storico della Sua vita? Perchè? R. In genere, molti personaggi di Stendhal e soprattutto il Fabrizio del Dongo della "Certosa di Parma". Ecco, direi che è lui il mio "eroe", perché è un individuo autentico, mosso soltanto da ciò che lo appassiona, capace di liberarsi dell'oppressione sociale semplicemente vivendo come se la società non esistesse - la sua è una libertà che non comporta uno spirito necessariamente antagonistico, semmai discende proprio dall'accettazione delle regole del mondo che l'individuo non può mai cambiare.


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D. Suo padre, Mario Trevi, è stato un grande portavoce della psicologia analitica in Italia, può raccontarci un aneddoto relativo alla sua personalità , che possa ricordarlo come uomo e come psicoanalista?


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R. Di mio padre mi colpiva molto la stanchezza che accumulava lavorando. Per il lavoro di analista, considerava del tutto inadeguato l'aggettivo "sedentario". Mi diceva spesso che è vero, si sta seduti, ma era come camminare sulla muraglia cinese. L'attenzione necessaria lo sfibrava, in un certo senso lo vampirizzava.




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