Rivista d i P sicolog ia
Luci
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Luci In copertina: I-330, Attimi di Luci, 2016
BRUCE MUNRO, FIELD OF LIGHT, ULURU, 2016, MARK-PICKTHALL "HO
VOLUTO CREARE UN CAMPO ILLUMINATO DI STELI CHE, COME IL SEME
DORMIENTE IN UN DESERTO SECCO, SAREBBE SCOPPIATO IN FIORITURA AL TRAMONTO CON RITMI DOLCI DI LUCE SOTTO UNA COPERTA ARDENTE DI STELLE"
Michele Mezzanotte
Valentina Marroni
Matteo Colangeli
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CONTENUTI Volume 13
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Editoriale di Michele Mezzanotte
di Michele Mezzanotte
Cercatori di Luci nella Notte Ci relazioniamo all'Altro attraverso la luce. Siamo in eterna ricerca di Luce, non siamo produttori attivi di Luce, ma la cerchiamo nell'Altro, che può essere inteso come persona, come oggetto o come divinità.
di Luca Urbano Blasetti
Fisica e psicologia
la numinosa luce dell'intuizione Analisi psicologica e "intuitiva" della formula fisico-scientifica della velocità della luce: Energia = Massa per Velocità della Luce al quadrato ossia E=mc2 di Federico Leoni
Rivendicazione dell'ombra Viaggio filosofico alla ricerca dell'ombra e della sua rivendicazione per non essere "ingiusti nei confronti dell'ombra". Platone, Nietzsche, Jung e altri, messi a confronto con luci ed ombre del loro pensiero.
di Zaira Cestari
"come è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire"
Esperienze di parti Quando parliamo di luci, inevitabilmente e junghinamente dobbiamo parlare di ombre . Il parto e "il venire alla luce" viene analizzato da un punto di vista psicologico.
6 di Vincenzo Ampolo
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Dalla religione della luce alla luce della coscienza In questo articolo l'autore esplora religioni, il sacro, le culture e i riti alla "luce" della luce. Viene così descritto un percorso che ci porta dalla frammentazione all'unità.
MICROPSICOANALISI Volume 13
di Teresa Di Matteo
19 53 55
Il nucleo solare: luce dell'ombra La scrittrice fa un'analisi psicologica di un'opera d'arte di Frida Kahlo, dover la luce è coscienza, ed è luce nel momento in cui è capace di far luce nell’oscurità dell’essere e illuminare la propria ombra. di Federica Pieragostini
Luci della città (1931) Bianco. Nero. Silenzio. Dall’intersezione di questi tre fili conduttori si accende la luce del mattino, testimone di un incontro tra il celebre personaggio di Charlie Chaplin, Charlot, povero vagabondo e una fioraia cieca che lo scambia per un uomo ricco. di Emanuele Casale
Inconscio e Luci Disamina junghiana sul rapporto tra Luci - Coscienza e Ombre. Per parlare di Luci bisogna parlare della loro controparte psichica, ovvero l'Ombra, attraverso un confronto Conscio - Inconscio.
INTERVISTE Volume 13
di Luca Urbano Blasetti
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Intervista a Micol Perfigli In questo numero abbiamo avuto l'onore di ospitare la filologa Micol Perfigli, che ci porta ad esplorare i meandri psicologici, etimologici, storici e culturali della parola e delle parole
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EDITORIALE di Michele Mezzanotte
Ernst Haas, (Particolare) ernst-haas,1921-1986 lights of new york city,1970
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Bentornati cari lettori e Buon 2017 a tutti. Dalle Foglie dell'autunno passiamo alle Luci dell'inverno. La luce può essere luce del sole, luce di candela, luce di lampadina, luce della luna, luce dello schermo di un pc, di una televisione o di un cinema, luce di animali come le lucciole... Nel periodo più buio dell’anno sono le Luci le protagoniste delle città, a loro volta macchie di luce dentro le tenebre della notte (Fernando Pessoa). Le Luci invernali creano calore, festa, e intimità. Mentre scrivo l'editoriale, fuori nevica, e anche la neve è una morbida Luce nelle tenebre invernali. Se lasciamo entrare la Luce in noi possiamo creare nella psiche calore, intimità e festa. Durante gli ascolti musicali, piacevolmente obbligati dalla nevicata, mi ha colpito molto questa frase di Leonard Cohen: "C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce" La Luce entra nelle crepe di ognuno di noi, nelle ferite e nelle fragilità. Tuttavia la Luce non entra in ogni crepa. O meglio ancora, in alcune crepe la Luce si presenta sottoforma di dolore. Le crepe delle case dei paesi e delle città distrutte dai recenti terremoti sono crepe di dolore; o le crepe delle case bombardate ad Aleppo sono crepe di dolore, così come le ferite nei corpi delle donne e dei bambini, dalle quali l'unica Luce che esce si manifesta sotto forma di sangue. Queste sono crepe che rimarranno nel tempo, indimenticabili e indelebili. Diceva James Hillman: cent'anni di psicoanalisi e il mondo va sempre peggio. Abbiamo passato secoli a cercare di "curare" crepe e ferite, secondo il nostro stile terapeutico, la presunta psiche individuale, ma sembra che le cose vadano sempre peggio, quindi due sono le ipotesi: o il nostro metodo è sbagliato, o la psiche individuale non esiste, ed esiste solamente la psiche collettiva che può essere individualizzata. Al di là di questa riflessione estrema, credo che sia dovere degli psicoanalisti intervenire anche sul mondo, o cambiare metodo di intervento sull'individuo. Vorrei concludere l'editoriale No.13 con un Fiat Lux particolare, un inno alla Luce di PseudoAgostino: "O luce, che nessuna altra luce vede: lume che nessun altro lume vede; luce, che ottenebra ogni luce; e lume, che acceca ogni lume estraneo: luce, da cui discende ogni luce: lume, da cui discende ogni lume: lume, di fronte al quale ogni lume è tenebra, ogni luce è oscurità: luce, per la quale ogni tenebra è lume, ogni oscurità è lume; luce suprema, che cecità non annebbia, che caligine non offusca, che tenebre non arrestano, che nessuno schermo arresta, che mai ombra separa; luce che illumini insieme tutte quante le cose una volta e sempre, inghiottimi nell'abisso della chiarità... " ... e Luci siano! Buona Lettura Michele Mezzanotte
Photo: Nasa, Earth View
The Poets light but Lamps Themselves - go out The Wicks they stimulate If vital Light Inhere as do the Suns Each Age a Lens Disseminating their Circumference -
Accendere una lampada e sparire questo fanno i poeti ma le scintille che hanno ravvivato se vivida e' la luce durano come soli ogni eta' una lente che dissemina la loro circonferenza
Emily Dickinson
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CERCATORI DI LUCI NELLA NOTTE
Michele Mezzanotte, Chieti Psicologo - Psicoterapeuta, e giornalista. Presidente dell'associazione culturale e di volontariato psicologico "L'Anima Fa Arte". Direttore Scientifico della rivista psicologica "L'Anima Fa Arte". Autore di diverse pubblicazioni psicologiche. Lavora nel suo studio privato a Chieti.
Hebert Kline, Lights out in Europe, 1940
Cercatori di Luci nella Notte
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urante le più profonde notti dell'anima, nelle infinite ombre della tenebra, riusciamo ad intravedere un persona che cerca la Luce affinché essa ci conduca verso un punto definito di noi, verso la nostra casa. Le Luci rappresentano alcune energie emotive che ci permettono la relazione con l'Altro, ovvero il percorso che compiamo verso la dimora dell'anima. In questo articolo si esploreranno i diversi modi di agire della Luce, e il percorso tenebroso che ci porta nelle abitazioni fatte di Luci e Confini. Una Luce nella Notte può essere la luce di una candela. La luce della candela è un punto di riferimento nell’oscurità: ci orienta, ma al tempo stesso ci limita; ci rassicura, ma al tempo stesso ci fa temere il resto dell’oscurità. La Luce è conoscenza apollinea che illumina ciò che possiamo conoscere solamente attraverso la vista. La luce è conoscenza visiva, mentre gli altri sensi ci possono condurre anche nel buio. Il nostro senso più usato per orientarci è sicuramente la vista, con la quale vediamo la superficie delle persone e degli oggetti. Tuttavia per andare oltre la superficie abbiamo bisogno degli altri sensi. Viviamo in una società fatta di sguardi, basata sulle luci che illuminano la coscienza delle persone tralasciando l’oscurità di esse. Le tenebre sono le nostre resistenze, quelle di cui ci serviamo per vivere, infatti Levinas afferma: Illuminare significa privare l’essere della sua resistenza, perché la luce apre un orizzonte e svuota lo spazio - consegna l’essere...1 La Luce consegna l’essere all’Altro, etimologicamente lo tradisce togliendo parte di esso alle sue tenebre. Fare analisi significa incontrare l’Altro, tradire le proprie tenebre consegnandole all’Altro/Analista. L’incontro con l’Altro è un gioco di Luci ed energie psichiche. La Luce può far “luce” su alcuni tipi di incontri con l’Altro. La coscienza e la conoscenza sono Luce, quindi interagendo con la Luce dell’Altro, interagiamo con frammenti della sua coscienza. La Luce è una porzione di specchio
elettromagnetico visibile all’occhio. Nel 1905 Albert Einstein scoprì e dimostrò le particelle di luce, chiamate in seguito fotoni, dal fisico Frithiof Wolfers nel 1926. La luce può essere considerata sia come un'onda elettromagnetica, sia come un flusso di particelle (i fotoni), che viaggiano appunto alla velocità della luce e interagiscono con la materia attraverso l'assorbimento, la riflessione, la rifrazione, la diffrazione e la diffusione. Questi eventi ci permettono di interagire visivamente con gli oggetti e di percepirli nello spazio, metaforicamente possiamo dire che interagiamo con l’Altro. Quando viaggiamo attraverso la Luce/Coscienza viaggiamo sul moto di un’onda, ma anche sul flusso di particelle, siamo assorbiti, riflettuti, rifratti, diffratti e diffusi. Solo agendo come la Luce possiamo capire la Luce.
Assorbimento L’energia della Coscienza/Luce si propaga all’interno della materia che colpisce. Ci capita di essere completamente assorbiti nella frenesia univoca della vita; totalmente assorbiti nelle calde braccia di un amore; assorbiti come bambini negli affannosi giochi dell’esistenza: quando veniamo assorbiti da un evento, siamo come Luce assorbita per quell’evento. Le energie/Luci dell’altro si depositano dentro di noi e, a volte ce ne nutriamo, mentre altre volte diventano scorie che rimangono all’interno della nostra psiche. Plinio descriveva così la Lince, animale della Luce: l'orina delle linci si solidifica così come viene emessa e si rappresenta in pietre simili al carboncino, risplendenti di un colore rosso, che chiamano lincurio; perciò alcuni autori sostengono che l'ambra si genera così. Ne sono ben consapevoli le linci che, per gelosia, ricoprono di terra la loro orina e questa, perciò, tanto più velocemente si consolida. Effettivamente l'orina delle linci si cristallizza ed emana un fortissimo odore. In questo modo l'animale marca il suo territorio: la cristallizzazione indica una fissazione.2 Quando interagiamo con l’altro, possiamo prendere la sua Luce, assorbirla e incorrere nel
Michele Mezzanotte rischio di cristallizzazione. L’altro segna il suo territorio su di noi e la sua traccia rimane in noi. È il caso di un'emozione contagiosa che ci rimane dentro per molto tempo: a volte sono le risate dell'altro ad essere assorbite, a volte gli sbadigli, altre volte le lacrime.
Riflessione Quando riflettiamo su un concetto o un accadimento, non stiamo interagendo direttamente con quel qualcosa, bensì stiamo riflettendo la sua Luce. Siamo come la Luna che riflette la luce del Sole riconsegnandocela pallida. Le riflessioni sono assaggi della Luce originale che tuttavia portano Luce nelle Tenebre, ovvero nel luogo dove la Luce non può essere presente. Questo movimento della Coscienza avviene solo grazie alla Luna, creazione del Diavolo secondo Pessoa: Lui è il Sole, io sono la Luna. La mia luce si libra su tutto ciò che è futile o finito, fuoco fatuo, sponde del fiume, paludi e ombre.3 Le riflessioni sono finzioni di un oggetto, o di un’emozione. Quando la Coscienza/Luce di un Altro ci colpisce possiamo rifletterla, ad esempio, raccontandola ad una terza persona. Ma in quel caso non potremmo mai consegnare al terzo l’effettiva essenza della riflessione. La riflessione è il racconto che facciamo di un sogno, che non sarà mai il sogno stesso. Siamo in qualche modo condannati a riflettere le immagini di Dio e della Psiche, ovvero le loro luci. Siamo costretti a fingerle perché noi siamo Luna, e di questo dobbiamo ringraziare Lucifero, il “portatore di Luce”, colui che fa il lavoro sporco per permetterci di illuminare pallidamente il mondo infero, le tenebre e le notti dell’anima. Le Chiese mi abominano. I credenti tremano al mio nome. Ma io, che lo vogliano o no, ho un ruolo nel mondo. Non sono colui che si è ribellato a Dio, né lo spirito che nega. Sono il Dio dell'Immaginazione, perduto perché non creo. È grazie a me che, bambina, hai sognato quei sogni che sembrano giochi; è grazie a me
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che, già donna, la notte hai potuto abbracciare i principi e i dominatori che dormono al fondo di quei sogni. Sono lo Spirito che crea senza creare, la cui voce è fumo, e la cui anima è un errore. Dio mi ha creato perché io lo imitassi, di notte.4 Se Dio è il Sole e Lucifero è la Luna (portatore di luce), esso porta Dio/Luce/Coscienza nelle profondità inconsce della psiche, lì, dove da solo, Dio non potrebbe condurci.
Rifrazione e Diffrazione Quando la luce viaggia in un mezzo trasparente come l’aria e incontra un altro mezzo trasparente come l’acqua, parte di essa viene riflettuta e mandata altrove, mentre l'altra parte viene rifratta, viaggia attraverso l’acqua e cambia direzione. Le energie possono attraversarci come nell’assorbimento, ma al contempo possono prendere dentro di noi direzioni diverse. Può colpirmi, ad esempio, un’emozione d’amore che in seguito prenderà un’altra direzione. L'Amore non corrisposto, quindi rifratto, può diventare disprezzo, odio o indifferenza. Emozioni e sentimenti non corrisposti sono come raggi di luce che ci colpiscono e rimbalzano via per andare altrove, oppure ci penetrano ma cambiano direzione, ed è il filtro delle proiezioni, della diversità e dell'unicità che cambia il procedere del raggio di Luce. La Luce può cambiare direzione anche nella diffrazione. In questo caso la Luce viene deviata da un ostacolo creando effetti diversi a seconda dell'ostacolo incontrato. Un effetto pratico di diffrazione è quello che vediamo su un cd, ovvero l'effetto arcobaleno. Quando vogliamo trasmettere un'emozione ad un'altra persona ed incontriamo un ostacolo, possono esserci diversi esiti o diverse direzioni e forme che l'emozione può prendere. Ad esempio può capitare che cerchiamo di far capire all'Altro che siamo in ansia per qualcosa, ma può esserci un ostacolo che impedisce questa comunicazione. L'ostacolo può essere rappresentato da un elemento esterno, come ad esempio una terza persona che entra nella relazione e ostacola quella determinata
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comunicazione; oppure l'ostacolo può essere un elemento caratteriale dell'Altro che oppone resistenza alla dimensione ansiogena non essendo adatto alla ricezione emotiva, quindi ostacola il processo comunicativo legato all'ansia.
Diffusione La luce è diffusa quando entra in collisione con un altra materia e subentra lo scattering, ovvero la diffusione casuale delle energie che cambiano traiettoria e si sparpagliano. In qualche modo l’incontro con l’altro e la sua Luce ci induce in alcuni casi a diffonderla. Respingiamo le emozioni dell’altro e le mandiamo altrove, le diffondiamo nello spazio che c’è tra Io e L’altro, nel mondo di mezzo fatto di Luci, magari colpendo una terza persona. Infatti la comunicazione emotiva tra due persone può coinvolgere anche le persone che sono vicino, o che sono in qualche modo legate a quella relazione. Se due persone sono arrabbiate fra di loro, la rabbia che si trasmettono a vicenda può essere diffusa a coloro che assistono al litigio, o che ne sono coinvolti. L'incontro con la Luce dell'Altro, ovvero con la sua Coscienza e alcune sue energie, può essere declinato in diversi modi d'agire. Questa è solo un parte della complessità delle relazioni umane e del modo con il quale interagiamo con i personaggi della nostra oscurità.
Luci nella notte Una Luce nella Notte può essere la luce degli occhi della Lince. Come ho accennato prima l’animale della Luce è la Lince, un animale notturno del Vecchio Continente, lo spirito dagli occhi lucenti. L'etimologia greca del termine Lince significa “luce". La luce è collegata fantasticamente a questo animale a causa dello strano bagliore che è presente nei suoi occhi, percepibile soprattutto di notte e all'imbrunire: occhi di lince. Nella mitologia la Luce è legata alla creazione primordiale e alla figura di Emera, il giorno,
che nasce da Erebo, la notte. In principio era la notte dalla quale nacque la Luce. Non vi è opposizione tra l'aspetto della Luce e l'aspetto delle tenebre, ma una consecutio. È nelle tenebre che troviamo l'origine della Luce: quando nasciamo, veniamo alla Luce dalle Tenebre. L’oscurità è infinita, e noi non siamo in grado di relazionarci con essa, per questo abbiamo bisogno del finito, ovvero della Luce che delimita le possibilità infinite della notte, abbiamo bisogno degli occhi luminescenti di una lince per orientarci nel buio delle tenebre. Sappiamo infatti che in principio era Erebo. Prendere coscienza è strappare il finito all’infinito. (… perché l’oscurità é infinito e noi non possiamo concepire qualcosa di infinito – la luce è finita e la ricerchiamo)5 Non possiamo concepire i nostri infiniti, ma solamente dei tratti finiti di noi stessi. Non ci sono parole per definire il nostro essere infiniti. Ed è per questo che ci rivolgiamo alla Luce. Ognuno di noi si relaziona con una Luce, quindi con la superficie. Dentro di noi non c’è luce, ma essa viene sempre da una fonte esterna: un sole, una luna, una stella, una lampadina, una candela, una lince, Dio, o Lucifero stesso (portatore di luce).
Luci Abitate Una Luce della Notte è nuovamente la luce di una candela, che è anche fuoco, e il fuoco è anche calore, quel calore che Emily Dickinson cercava nella luce del Sole. Levinas afferma che esistere significa dimorare. La Luce del Sole ci può riscaldare facendo diventare la nostra abitazione una dimora sicura, calda, accogliente, ricca di intimità e dolcezza. Emily Dickinson cerca un’abitazione nella quale dimorare ed esistere. Emily cerca la dimora nella Luce del Sole, che però la respinge. La luce del sole era una casa Dolcissima in cui abitare – Ma – non mi ha voluto – il Mattino. Così – Buonanotte – Giorno!
Michele Mezzanotte (…) Mezzanotte – tu non sei così bella – Io avevo scelto – il Giorno – Ma – ti prego – accetta la bambina –6 Che lui ha cacciato lontanto da sé! Emily è una donna rifiutata dal Sole e dal Giorno che si mette nelle mani della notte come una bambina, ovvero come una nuova parte di se pronta a vedere la luce. Nata nel 1830, la poetessa americana conosce tutta la potenza dell’archetipo di Ninfea nel 1870, anno in cui, prima che si ritirasse definitivamente dalla realtà per accedere al mondo infero e alla finzione della sua poesia, racconta un sogno: L’altra notte ho fatto un sogno: sentivo delle api che si azzuffavano intorno allo stame di una ninfea e mi sono svegliata con una mosca nella stanza7 Le api sono messaggere che viaggiano attraverso i sentieri di luce, nate dalle lacrime del dio Ra: il dio Sole, ed è proprio il sole che si innamorò di una ninfa bellissima nei pressi di un lago. La ninfa soffrendo dell’inadeguatezza del suo aspetto decise di sprofondare nelle oscurità del lago per prendere dell’oro da donare al sole. Emily sprofonda così alla ricerca dell’oro da mostrare al Sole, alla ricerca dell’abitazione che l’avrebbe protetta; ma l’oro è talmente pesante da farla restare sul fondo del lago, lasciando visibili solo le sue mani, mani con cui scriverà le sue poesie. Nacque così la Ninfea, fiore che si apre al sorgere onirico del sole, ma che si richiude appena la notte arriva. La mosca, che è presente nella stanza al risveglio di Emily, è simbolo del mondo infero, la nuova dimora della poetessa americana. Nel 1872 Emily Dickinson afferma: “Se non avessi mai visto il sole avrei sopportato l’ombra Ma la luce ha reso il mio Deserto ancora più selvaggio.”8 La luce illumina i nostri deserti che diventano ancora più selvaggi al suo cospetto. Emily, grazie alla sua sensibilità, coglie il potere
distruttivo della Luce del Sole, del far chiarezza, dell’illuminare qualcosa, della conoscenza esasperata che porta all'incenerimento dell'oggetto: della malattia interpretativa. Nella mitologia anche Icaro prova ad andare verso il sole, ma cade nel baratro dell'inconscio. Nella poesia di Emily la Luce è Abitazione e Dimora irraggiungibile. Per Levinas l'Io esiste solamente in una dimora dove raccogliersi9, un punto di riferimento fatto di Luci e di Confini, utili a definire il nostro infinito notturno dell'anima, di fronte al quale non siamo in grado di sopravvivere. Raccogliere significa proprio “restringere in minor spazio”. In questo articolo sono state percorse le strade notturne della Luce, strade da cui essa stessa nasce e prende vita. La Luce ci mette in contatto con l'esterno e con l'Altro consegnandolo fuori dalle tenebre, privandolo dell'oscurità e confinandolo in un finito concepibile. La luna non è che il rappresentante “esterno” del mondo interiore. La lotta di potere tra dentro e fuori è una proiezione antropomorfa dell’insicurezza psichica, affermava Jung, così come la lotta di potere tra giorno e notte, e tra luci e tenebre, sono una proiezione antropomorfa dell'insicurezza psichica. In loro c'è una relazione di unicità che può essere messa in opposizione, ma più comunemente è fatta di tempi psichici. La Luce è parte di un percorso personale compiuto partendo dalle tenebre che è costruito nell'immaginazione di Lucifero, nella Luce riflessa, assorbita, rifratta, diffratta, diffusa, che ci permette di costruire l'abitazione nella quale possiamo trovare parti della nostra anima. Abbiamo bisogno di luce e non possiamo produrne da soli: siamo esseri oscuri, portatori di tenebre, siamo notte infinita. La luce che portiamo con noi è sempre una luce riflessa o acquisita. Infatti, persi nei nostri infiniti notturni, vaghiamo sempre alla ricerca di luce e di conoscenza, perché abbiamo bisogno di essere illuminati. Non possiamo produrre Luce solamente nell’incontro con noi stessi, ma anche, e soprattutto, nell'incontro con l'Altro. Cristo nel deserto ha bisogno dell'Altro/Satana per trovare se stesso. Goethe affermava: “Verrà
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Cercatori di Luci nella Notte
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forse un tempo in cui la luce interiore uscirà da noi, in modo che non avremo più bisogno di altra luce”. Ma fino a quel giorno saremo Cercatori di Luci nella Notte.
Bibliografia e Note 1. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book Reprint, 2016 2. Plinio il Vecchio, Storia Naturale, Einaudi 3. Fernando Pessoa, L'ora del diavolo, Il Filo (I giganti) 4. Fernando Pessoa, L'ora del diavolo, Il Filo (I giganti) 5. Emmanuel Lévinas, Quaderni di prigionia ed altri inediti, Bompiani 6. Emily Dickinson, Silenzi, Feltrinelli 7. Emily Dickinson, Silenzi, Feltrinelli 8. Emily Dickinson, Silenzi, Feltrinelli 9. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book Reprint, 2016
Sii Lanterna "SII LANTERNA, SII LUCE CON VETRO INTORNO. PERÒ IL CALORE SERBA. NON POTRANNO I VETRI OPPRESSIVI SPEGNER LA TUA LUCE; NÉ CALOR TUO, DISPERSO, SI FREDDERÀ NELL'INUTILE INFINITO." Fernando Pessoa, Un'affollata solitudine
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L'A NIMA FA ARTE I : ' L NUCLEO SOLARE LUCE DELL OMBRA
di Teresa Di Matteo
Frida Khalo, Mosè (o Il nucleo solare), 1945
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“Ho inteso rappresentare nel modo più intenso e più chiaro che il motivo per cui l'uomo avverte il bisogno di inventare o di immaginare eroi e dèi è la pura e semplice paura. Paura della vita e della morte" (Kahlo, 1947). Luce è creazione, è vita, ma, allo stesso tempo, è distruzione, morte. In questa opera la luce è coscienza ed è luce nel momento in cui è capace di far luce nell’oscurità dell’essere e illuminare la propria ombra come direbbe Jung. Luce è sole. Il simbolo del Sole è presente in ogni tradizione: l'astro luminoso dà vita, luce e calore, rappresentando l’epifania suprema del divino. Nell’antico Egitto il Dio-Sole era rappresentato metaforicamente con un occhio (l’occhio di Ra) e in questa opera notiamo molti occhi o terzi occhi a rappresentare luce come saggezza. Nelle tradizioni esoteriche orientali il terzo occhio rappresenta il centro energetico simboleggiando un’intuizione che va oltre i confini dei nostri organi di senso e permette una visione più ampia della realtà. Il Sole, solitamente, ha una connotazione essenzialmente positiva: illumina, rendendo visibile ogni cosa, scalda permettendo la crescita di ogni creatura. Il sole è vita, forza, energia e volontà di manifestarsi del conscio e dell’inconscio che nel Mosè distende le sue mani creatrici: generatrici e annientatrici al tempo stesso mostrando come luce e buio siano legati da un filo indissolubile, come esse siano energie complementari. La luce può diminuire fino a sparire completamente e di conseguenza il buio potrà gradualmente illuminare sempre di più diventando a sua volta luce. Frida mostra l’intento di salvare un bimbo dal buio del calore annientatore del sole. A tale scopo devono offrire il loro aiuto tutti gli eroi, i santi e gli dei, che si allineano protettivi a destra e a sinistra nella scena della nascita. Bimbo, luce di nascita, fonte spirituale, simbolo di purezza e di alba del futuro. La luce e la vita sono connesse da sempre. Un gruppo di ricercatori dell’Illinois è riuscito a fotografare l’istante del concepimento durante una fecondazione in vitro e hanno rivelato che al principio della vita corrisponde un’esplosione di luce. La vita comincia con la luce. La stessa origine dell’universo è spiegata con una grande esplosione di luce: il Big Bang. D’altro canto, venti secoli di cristianesimo sono cominciati a Betlemme sotto la simbolica luce di una stella. Ed oggi nel rituale cattolico della notte di Pasqua, i partecipanti accendono candele dalla fiamma del cero pasquale, simboleggiando il passaggio reciproco della “luce del mondo”: nella luce è racchiusa non solo la vita, ma anche la risurrezione dopo la morte. La luce rende visibile l’Io del soggetto ma soprattutto i suoi stati d’animo, quanto più è intensa la luce tanto più intense saranno le emozioni. C’è necessità di guardare al bimbo del dipinto con gli occhi del buio per poter nascere nuovamente con una visione illuminata del mondo, specchiandosi nel riflesso dell’acqua sottostante.
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FISICA E PSICOLOGIA: la numinosa luce dell'intuizione
Luca Urbano Blasetti, Rieti Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema CreativitĂ e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; opera nel suo studio.
Kimsooja, Palacio de Cristal, Madrid, Spain
Fisica e psicologia
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isica e Psicologia: la numinosa luce dell’Intuizione Nel periodo delle scuole superiori mi capitava di voler andare a letto presto per potermi immergere nei pensieri, navigando immagini sconnesse e trovando gemellaggi improbabili. Il letto addossato al muro mi consentiva di carezzare quella carta da parati azzurrina a righine bianche e leggermente gommata che non mi era mai piaciuta e che non mi piace tuttora. In una di quelle occasioni mi ritrovai 17enne a generare la mia prima teoria psicologica e mi esaltai al punto da non dormire per buona parte della nottata. L’eccitazione mi tenne sveglio in un caleidoscopio di idee e immagini. L’una completava l’altra e, d’improvviso, ebbi il terrore di poter cogliere l’infinito, l’equazione che descriveva il cosmo, ebbi il terrore di essere Dio. Poi mi addormentai e mi accorsi, nei sogni, che si era trattato solo di un pensiero. Non è nelle mie intenzioni presentarvi questa teoria su cui ho scritto tanto ma che non ho mai condiviso se non con mia madre. Lei mi ascoltava il giorno seguente con uno sguardo che era un misto tra l’orgoglio di avere un figlio così ricco di pensieri e il terrore di vederlo quasi sopraffatto dai suoi pensieri, quasi a dire che la bellezza potesse farmi male e lasciarmi abbacinato. Del resto questa è l’esperienza del sublime, una inflazione di sublimazione. Vi condivido invece un altro ricordo che ebbi facendo un viaggio immaginale. Mi trovavo nel mio letto, carezzando la mia gommosa carta da parati, pensai di levitare potendo guardare supino il mio giaciglio. Un moto lento e costante mi consentiva di apprezzare questo cambio di prospettiva. Gradualmente attraversai il soffitto e vidi il tetto di quella casa materna. Poi un intero isolato in cui, suddivisi sapientemente, vivevano e vivono buona parte dei discendenti dal ramo di mia madre. Ma la salita proseguiva e io iniziai a intravedere dapprima la sagoma del quartiere e quindi quella della minuta città di Rieti. Sempre più in alto fino ad osservare il territorio della provincia e quindi quello di tutte le regioni confinanti tra di loro nell’Italia centrale. Poi l’Italia, l’Europa, l’Africa, la Terra. Un’illuminazione che proseguiva di
momento in momento. Non potevo godere di nuova prospettiva che già se ne proponeva una in sostituzione e, una volta che fui giunto nello spazio, apprezzai i pianeti tutti del sistema solare e poi la galassia che lo contiene ruotando intorno al buco nero che sta al centro. Ma ancora, andando sempre nella medesima direzione, vidi galassie, stelle sistemi solari, esplosioni, fino a giungere in un punto in cui avevo la possibilità di osservare “Tutto” insieme e, ovattato, contemplai quel multiverso non più infinito da quel luogo privilegiato. Lo osservai a lungo estasiato, apprezzando quel senso di potenza che mi dava. Avevo nel palmo della mia mano il Tutto e lo contemplai. D’improvviso, non so quanto tempo fosse trascorso, mi guardai intorno, mi chiesi dove mi trovassi. Cosa e dove fosse quel luogo e fui preso dal panico. Quel luogo non esisteva. Il “Tutto” non lo conteneva. Quindi o il Tutto non esisteva o eravamo io e quel luogo a non esistere. Mi sbrigai a tornare nel Tutto. Affannosamente rientrai nella bolla che tenevo nel palmo della mano e feci a ritroso il percorso finché giunsi nel mio letto e mi addormentai e mi accorsi, nei sogni, che si era trattato solo di un pensiero. Ancora oggi cerco di non visitare quel luogo. Einstein partì proprio da una simile esperienza immaginale per poter giungere alla teoria della relatività ristretta e generale. Lui cavalcò un raggio di luce. Insight, immaginazione, fantasia, intuizione precedono sempre il pensiero. Sono tra i processi psichici più veloci e hanno una velocità costante, mentre tutto il resto è relativo. Dunque siamo qui a proporre una teoria della relatività rileggendola in chiave immaginale e facendo delle leggi di Einstein delle leggi psicologiche. La velocità della luce è una costante e questo comporta che il tempo sia relativo. Questa fù l’intuizione che ebbe il fisico immaginando di cavalcare quel raggio di luce. Insomma stiamo qui proponendo una lettura in trasparenza della più celebre equazione della fisica. Tutto ciò sempre fedeli all’idea che non esistono libri di psicologia ma letture psicologiche dei libri e del mondo. Il modo in cui la luce funziona è un modo in cui funziona la psiche. Come Hubble, dicendo che l’universo è in
Luca Urbano Blasetti perenne espansione, oppure Heisemberg che, con il principio di esclusione, ci dice che se la materia viene osservata cambia o, ancora, Young che ci dice come se osservati ci comportiamo come particelle ma senza un osservatore esterno diventiamo onde. Insomma come con loro e gli altri fisici siamo di fronte a leggi psicologiche e non solo fisiche, altrettanto possiamo dire con Einstein. Procederemo quindi qui a rileggere le fondamenta della fisica della luce come leggi psicologiche e, dunque, vogliamo capire, sinteticamente, cosa significhi da un punto di vista immaginale E = mc2 . Le Luci sono protagoniste ma dobbiamo comprendere se sono quelle legate al sole di Apollo o di Elio, se sono le luci portate dal fuoco di Prometeo oppure, ed è la nostra ipotesi, le luci costituiscano l’esperienza dell’illuminazione, dell’insight e del numinoso. Caratterizzando la psiche del nostro PrometeoEinstein attraverso la sua fisica, possiamo caratterizzare la psiche collettiva Quindi spendiamo qualche parola preliminare. Einstein si convinse che “la natura poteva essere interpretata come una struttura matematica relativamente semplice”1. Ma il suo temperamento presto fece emergere la sua refrattarietà verso ogni tipo di irregimentazione e una sospettosità verso l’autorità. Sembra che da una parte vedesse nella matematica, che è la massima espressione illuministica dell’irregimentazione e dell’autorità, un modo efficace per descrivere il mondo ma poi, dall’altra rifiutasse i mathemata, le anticipazioni convenute, come ben ci traduce la parola Galimberti2. Insomma già qui vediamo che le luci di Einstein non sembrano avere a che fare con quelle di ciò che appartiene ad Apollo o con il luminoso illuminismo, quanto con il numinoso numinismo. Einstein, ci ricorda Isaacson nella biografia sul fisico tedesco, abbracciava da una parte Hume quando relativizzava il “tempo” non avendone esperienza diretta, dall’altra rivedeva la distinzione kantiana tra proposizioni analitiche e quindi empiriche, e proposizioni sintetiche e quindi a priori3. Nel complesso, al di là delle considerazioni fatte, sembrava essere d’accordo con la satira kantiana che affermava che stranamente il
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mondo si comportasse secondo leggi matematiche. Ma ora cerchiamo di capire come poter tradurre, o tradire, l’equazione più famosa del mondo, anche se forse ancora non per molto: Energia = Massa per Velocità della Luce al quadrato ossia E=mc2. Questa formula descrive certamente in una qual misura il modo di funzionare del cosmo ma, per noi, descrive senza alcun dubbio il modo di funzionare di Einstein, della sua psiche e, per estensione, di quella collettiva. Ora proviamo dunque a pensare in linguaggio archetipico la velocità e la massa. A quali componenti-archetipiimmaginari possono corrispondere nella psiche dando per scontato, seppur un po’ precipitosamente, che l’energia (E) sia la vecchia cara libido. Insomma… sempre meglio partire dagli dèi e scrivere che Eros = GEAc2. Dunque riconduciamo l’energia all’Eros, alla libido, alla spinta ad agire, all’amore e affermiamo che sia il risultato della moltiplicazione tra la massa-materia-terra ossia Gea e la velocità della luce al quadrato. Difficile stabilire cosa sia la Luce e ancor di più la sua velocità. Abbiamo ipotizzato che l’Intuizione, l’insight siano la luce e quindi ne deriverebbe come corollario che: Eros = GEAc2 → c2 = Eros/GEA Se prendiamo per buona la nostra ipotesi sembrerebbe che la velocità con cui avviene un’intuizione sia il risultato di quanto si leghi all’Eros, ossia all’energia, e di quanto si svincoli dalla Terra, dalla materia. L’intuizione avviene nel mundus immaginalis, tra le forme sospese e è vincolata nella misura in cui si lega alla terra, alla materia, all’empirico, al metodo sperimentale. Più prevale la materia, più stiamo con i piedi per terra, più riduciamo la velocità dell’intuizione riducendo l’incidenza dell’Eros. L’intuizione è il risultato non della realtà, della terra, ma di ciò che è vero ossia delle idee. Prima di andare oltre però proviamo a definire ancor di più la velocità e poi la luce dal punto di vista della fisica per poi riportale alla equazione fondamentale su cui stiamo strutturando questa nostra esperienza numinosa. La formula per ottenere la velocità è: V = S / T (spazio diviso tempo) da cui deriviamo che S = T x V e che T = S / V . Ora se la massa è la materia, Gea, lo Spazio è la non materia, è il
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Fisica e psicologia luogo in cui non vi è materia e quindi è assenza di Gea, la sua enantiodromia. E’ l’avere la testa fra le nuvole o meglio tra le forme sospese. Mentre il tempo è certamente il nostro caro vecchio Crono divoratore di figli. Tradotto avremo che: Intuizione = assenza di Gea/ Crono; Non Gea = Crono x Intuizione; Crono = Non Gea / Intuizione; Interessante vedere che il tempo è tanto minore quanto minore è l’influsso di Gea e quanto maggiore è l’intuizione. Nel mundus immaginalis Crono corre alla velocità della luce. In estrema sintesi la lettura in trasparenza di queste formule, mera proiezione di psiche, possiamo dedurne che questa funziona in modo tale che il tempo, o meglio la sua percezione, risulti tanto minore quanto più siamo puro pensiero, e pura intuizione. L’intuizione invece aumenta se ci si slega alla materia ma si riduce in funzione del tempo. Che l’intuizione sia svincolata da Crono ci fa anche pensare che sia immediata, simultanea, istantanea, subitanea. Senza tempo. La luce dal canto suo, è sempre stata soggetta al dualismo onda-particella. Thomas Young con il celebre esperimento della doppia fessura dimostrò che la luce si comportava come un’onda unica ma solo se non si osservavano dove passassero i fotoni tra due fessure, mentre, all’opposto, si comportasse come singole particelle se nessuno osservava. Traducendo… l’intuizione è il risultato dell’azione di tutti le componenti di psiche, ossia tutti gli immaginari, il gentle folk junghiano, che si comportano come un unico organismo, oppure dell’azione stocastica di ogni particella psichica che si muove in autonomia e in modo casuale. Rinviamo quanto appena accennato alle nostre digressioni pubblicate nel libro Essere un padre quando parliamo di Zeus che diventa donna4. Ora dobbiamo cercare di non cadere nell’errore di Wertheimer e della psicologia del 900’. Il fondatore della Gestalt impiegò il racconto del fisico con lo scopo di trovare le fondamenta empiriche e scientifiche della psicologia. A noi qui non interessa la natura scientifica della psicologia ma la lettura immaginale della scienza. L’approccio archetipico non rientra infatti nelle discipline psicologiche ma
piuttosto in quelle filosofiche e meditative, è un approccio psicosofico. La fisica è psiche che parla di se e non scienza che parla di psiche. L’interdizione kantiana si supera solo se invece di pensare che la psicologia studia se stessa giungiamo a dire che la scienza è uno degli specchi di psiche. Ma ora torniamo alla equazione fondamentale e cerchiamo di vedere a quali conseguenze ci porta definire la velocità come assenza di Gea/ Crono Eros = GEAc2 → c2 = Eros/GEA. Coniugando questa con: Intuizione = assenza di Gea/ Crono → assenza di Gea/ Crono = Eros/GEA e dopo alcune ore trascorse in dimostrazioni matematiche e algebriche, grazie a vaghe reminiscenze degli studi liceali, (non starò qui a farvi tutti i passaggi) giungiamo a restituire il senso immaginale di cosa siano Energia; Intuizione; Materia. EROS = GEA/CRONO Preliminarmente risulta che Eros e Crono siano inversamente proporzionali tali per cui all’aumentare del tempo l’energia psichica diminuisce. Tale risultato sembra piuttosto scontato per uno psicologo mentre è curioso il fatto che tale legge sia stata pensata da un fisico. In sintesi l’energia di un immaginario diminuisce nel tempo ossia gli immaginari sono destinati a morire e cambiare. Inoltre l’energia psichica, il nostro caro Eros è direttamente proporzionale a Gea. Ora se consideriamo Gea come la materia che ci tiene ancorati al dato di realtà sappiamo che l’energia senza materia è pari a 0. Se invece consideriamo Gea il Ventre che tutto accoglie ne deriviamo che l’energia è tanto maggiore quanto maggiore è la predisposizione psichica alla funzione materna dell’accoglienza di immaginari e di generazione di nuovi immaginari. EROS = GEA x INTUIZIONE L’energia è anche il prodotto della materia per l’intuizione. Le due componenti dell’EROS sembrano dunque essere la materia e l’immaginazione. Sembra di trovarsi al cospetto di una legge che già conosciamo come psicologi archetipici. Mi riferisco al fatto che l’intuizione, l’immagine genera energia se si fa materia ossia se viene trattata come vera. INTUIZIONE = EROS/GEA
Luca Urbano Blasetti Con due semplici passaggi troviamo poi che l’intuizione è inversamente proporzionale alla materia, alla terra, mentre è direttamente proporzionale a EROS. Sembra che l’intuizione o l’immaginazione coincida con l’energia psichica se Gea è pari a Zero. In assenza di materia e di dato di realtà siamo in psic-osi. GEA = EROS /INTUIZIONE La materia in estrema sintesi sarebbe dunque l’energia che si subordina all’intuizione, ossia nozze tra energia psichica e capacità di immaginare e intuire. Ma ci sembra di poter dire che l’idea secondo cui solo ciò che è stato immaginato può diventare, oltre che vero, reale sia già stata pronunciata da molti. Ora è giunto il momento di parlare del comportamento della luce nell’esperimento della doppia fessura e tirare piccole somme anche in questo senso. Il fatto che le componenti della luce costituiscano, e si comportino, come un onda continua se lasciate in pace, mentre se osservate e dunque sottoposte a un criterio empirico si comportino come particelle, ci dice che l’intuizione non nasce da verifica empirica e sperimentale e questo ridonda con il fatto che l’intuizione e l’immaginazione siano del tutto indipendenti da GEA. Più cerchiamo di fare osservazioni empiriche più le immagini si perdono e si disperdono. L’azione congiunta delle immagini, come un onda continua, è possibile solo se gli immaginari sono lasciati agire tra loro rispettando una certa intimità. Considerando che l’assenza di immagini è patologia ne deduciamo che la patologia coincide con l’essere sottoposti a troppe osservazioni empiriche. IL rischio è che fare una psicoterapia non vada nella direzione del vivere bene ma della patologia se, come terapeuti, non entriamo a far parte dell’onda. Ci si deve considerare sempre il miglior terapeuta possibile per i nostri pazienti. Questo va considerato in senso immaginale ma va fatto concretamente nella stanza d’analisi. In quel dato momento siamo la miglior presenza che quel paziente potesse incontrare, anche negli errori che commetteremo saremo gli errori più utili che il paziente si potesse incontrare. Mi fermerei qui, per motivi di spazio se non altro. Eppure se da una parte ho l’impressione di aver dato una certa idea di cosa possa essere
la psicologia complessa, di cosa possa significare leggere in trasparenza e che la lettura psicologica di qualsiasi disciplina ci parli di psiche, penso anche di aver fatto un piccolo errore di lettura. Se infatti abbiamo parlato della luce come INTUIZIONE e immaginazione, non ci siamo accorti che le formule si riferiscono alla sua velocità. Avremmo dovuto dunque fare una lettura immaginale di questa. La velocità in realtà è un entità fisica apparente, quasi inesistente, è soltanto il tempo che impieghiamo nella passare da un punto A a un punto B. Insomma potremmo dire che la velocità è il tempo che trascorriamo nello spazio tra due punti descrivibile come la somma delle infinite posizioni che assumiamo tra i due punti. In tal senso sembra di parlare di velocità come di Psiche, come l’insieme di tutti gli immaginari e, essendo la velocità uguale al rapporto tra eros-energia e Gea-Materia, gli infiniti immaginari co-variano con l’energia. Vediamo anche che si incarnano solo alcuni e quindi si fanno materia limitatamente alla materia disponibile. Ma vi prego considerate questo mio contributo solo come esercizio immaginale che ne richiama altri, considerate questo mio “inno” immaginale un mero esordio come i molti che possiamo incontrare di omerica memoria. Indi ora la parola a voi credenti.
Bibliografia e Note 1. Bernstein, J., 2000: L’uomo senza frontiere. Vita e scoperte di Albert Einstein, Milano, Il Saggiatore, pp. 26-30. 2. Cfr. Galimberti, U., 1992: Jung e la filosofia dell’occidente. In Trattato di Psicologia Analitica, Utet, Torino, 2000. 3. Cfr. Isaacson, W., 2010: Einstein. La sua vita, il suo universo. Mondadori. Milano. 4. Cfr. Urbano Blasetti, L.,: Zeus Vuole essere donna. In Mezzanotte, M., (a cura di)2016: Essere Un Padre. Tlon, Roma.
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L'ANIMA FA POEIO di Erich Zann
Robin Rhode, Candle, Street Art
Se tu dovessi accendermi, accendermi come candela durante il caldo freddo della notte, deciderei... Deciderei se meriti. Meriti la mia luce che danza? Meriti di accendermi per ascoltare il mio calore? Se la mia cera di candela si sentisse alla tua altezza mi concederei a te, in caso contrario, non mi accenderei. - Spegnimi da spenta se sei in grado -
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RIVENDICAZIONE DELL'OMBRA Federico Leoni, Chieti Considerato filosofo, pratica la vita della mente. Allo scrivere, preferisce leggere, parlare, meditare sulla vita e non sulla morte. Nato ad Arezzo nel 1946, vive a Chieti dal 1952. MaturitĂ scientifica nel 1965, laurea a Roma nel 1969 con Pietro Prini, al quale deve la prima idea di ontologia semantica, che svolge autonomamente in realtĂ , ontologia, delle metafore di senso. Dal 1972 al 2006 insegnante di filosofia, storia, pedagogia e psicologia nella scuola pubblica. Esperienze di affetti privati e politici, padre di Fausto dal 1986. Dal 1978 legge Spinoza: ritiene di aver capito e pratica la sua scienza dell'eternitĂ . In pensione, socialmente utile se richiesto.
Sou Fujimoto, "Forest of light" COS installation, Milano
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Rivendicazione dell'ombra ...a disegnarci vivi basta un'ombra (Silvia BRE)
ACCOSTAMENTI ALL'OMBRA Senza ombra di dubbio Eraclito l'Oscuro avrebbe potuto dire anche Il dio è luce-ombra nel suo testo Il dio è giorno-notte, invernoestate, sazietà-fame (DK67). Certamente, mente certa: se diciamo che è il dubbio a fare ombra alla certezza della mente, avrebbe potuto dire anche Il dio è dubbio-certezza. L'opposto in accordo e dai disaccordi bellissima armonia (DK8). E' l'uomo, il mortale, meropes (come lo chiamava Eschilo) a dividerla guardando, a non vederla. Come Platone, che oppone l'ombra alla luce, relegando l'ombra nella caverna. Per il dio tutto è giusto; gli uomini invece ritengono giusta una cosa, ingiusta l'altra (DK102). Da tutte le cose l'uno, dall'uno tutte le cose (DK10). Nel Purgatorio, è l'ombra che mostra ai residenti che Dante ha un corpo, è vivo: ...e vidile guardar per maraviglia / pur me, pur me, e 'lume ch'era rotto (V, 8-9) e ...Quando s'accorser ch'i' non dava loco / per lo mio corpo al trapassar d'i raggi, / mutar lor canto in un 'Oh' lungo e roco (V, 25-27). Decide di diventare tridimensionale, vivo, opaco, visibile, il Cincinnatus di Vladimir Nabokov, di fare ombra, in un mondo che ci vuole tutti bidimensionali, trasparenti, invisibili, senza ombra: gliene viene un Invito ad una decapitazione. Non dico il finale. Allorché non vediamo qualcosa diciamo che è nell'ombra, nell'oscurità, che è oscura, non trasparente. E stabiliamo una relazione semantica tra ombra e oscurità. È il gioco delle ombre nella rotazione relativa e sincrona che fa essere oscura l'altra faccia della luna. Dimentichiamo che vediamo i vetri delle finestre se non sono puliti, e scivoliamo semanticamente nella trasparenza come pregio, valore, relegando, regalando, l'oscurità alla semantica della paura. Si consideri la circostanza nel caso del 95% della materia (o
energia) del cosmo: dovremmo chiamarla trasparente e non oscura come fa notare Frank Wilczeck, nel suo The lightness of being (dove si sa che lightness vuol dire sia leggerezza che trasparenza). Non ha consistenza di esistenza la Donna senz'ombra di Hugo von Hofmannsthal, elogio dell'ombra contro il Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso, che vuole liberarsi della sua ombra e la vende al diavolo. Linea d'ombra chiama Joseph Conrad il passaggio dall'adolescenza tutta luce all'età adulta: siamo quel che diventiamo, attraversando continuamente, più o meno monologando amleticamente, linee d'ombra. Nell'Amleto: la linea d'ombra del principe rispetto a cui decidersi e che lo decide è l'ombra, il fantasma del padre. La linea d'ombra è ciò che consente il riconoscimento della presenza di qualcosa. Dopo il tramonto scompare la linea d'ombra e viene la notte e non si vedono le cose. Sappiamo che la notte è l'ombra della Terra, ma non possiamo trattare la notte come ombra. Poi, la linea d'ombra ritorna, ritorna il giorno, con le sue luci e ombre, le cose. Conosco tanta di quella gente che ha più paura dell'ombra che di ciò che getta l'ombra, fa dire Abraham Yehoshua al suo signor Mani. Di togliersi, Diogene cinico lo disse, senza paura, ad Alessandro il Grande, non alla sua ombra. Alla luce della fiamma del camino, Adrian Leverkühn getta naturalmente la sua ombra e, febbricitante, la allucina come Lui, il Diavolo, e ne viene fuori un dialogo con Mefistofele. Appunto, un' allucinazione. Questo, nel Doctor Faustus di Thomas Mann. Della sede dell'amore, fa poesia Roberto Mussapi, e si provi a dire che è senz'ombra: io so che lei passa per l'aria della tua vita, e questo è il suo corpo, il suo passo, [il suo respiro.
Federico Leoni Tutte le osservazioni celesti si fanno per mezzo della luce e dell'ombra, notò Keplero nel secolo del trionfo delle ombre astronomiche, a commento dell'intelligenza sub specie umbrarum (cannocchiale e ombre) praticata da Galilei, della superficie della luna. Con tutto quel che ne era seguito e ne continua a seguire. L'ombra è relazione, non cosa. L'ombra non è affatto una cattiva compagna [...] Le ombre sono meraviglie della mente, sostiene Roberto Casati nel suo sorprendente La scoperta dell'ombra (un libro non comune, secondo Armando Torno - straordinario, secondo Armando Massarenti). Il quale Casati, tra tanti altri, cita tale Emanuel Carnevali: Le ombre parlano del sole, sottovoce. Dal suo libro apprendo, tra molto altro, che è grazie alla geometria proiettiva di Jean Victor Poncelet che le ombre escono finalmente a fronte alta allo scoperto. Anche se c'è un prezzo che devono pagare per lasciare la prigione di Platone - la riduzione definitiva a un corpo astratto e geometrico. E un'ipotesi sul perché diventano facilmente veicoli che trasportano magnifiche immagini psicologiche. Da bambini scopriamo che non riusciamo a farle ruotare intorno a noi (...) non ci obbediscono in tutto; possono anche ribellarsi, e allora avranno una volontà autonoma, un'anima. Forse è per questo che c'è chi dice che l'ombra sia persona del male, fuori e dentro di noi, prigioniero lui e prigioniera l'ombra di una semantica triste, in opposizione alla luce, assai variamente formulata e usata. Ma la semantica dell'ombra può essere anche lieta. L'ombra come rifugio, in varie situazioni: gli amanti cercano l'ombra, all'ombra v'è agio di intimità, all'ombra ci si ristora, lasciamo nell'ombra aspetti e vicende della nostra vita, della nostra identità negli incontri, a seconda che ci convenga... E' utile leggere un dizionario dei modi di dire, o catalogare le nostre individuali abitudini nel parlare, le nostre associazioni... Ricche di senso metaforico, le ombre testimoniano l'incontro tra il mondo delle cose materiali e un mondo in cui la materia non
sembra così importante. Tra fisica ingenua e psicologia ingenua, costituiscono un mondo capriccioso e sicuramente evanescente e misterioso (Casati). L'ignoranza della natura dell'ombra è all'origine di questa semantica, nei bambini, si capisce, e negli adulti. Una semantica della vita quotidiana e dell'immaginazione, assai frequentata in letteratura. Un mondo, quello delle ombre, di cui costruire un teoria per non restarne soggiogati, e quindi imparare a viverci. Geometria della prospettiva e scienza della mente ci chiariscono l'ombra. Usano con cognizione di causa l'ombra pittori e fotografi. Scriverò queste cose per fare una rivendicazione dell'ombra: nella conoscenza, come attività del cervello, la fa Casati dialogando con Platone, ingiusto nei confronti delle ombre; cercherò di individuare la causa filosofica della sua condanna, per liberarla dalla prigione dove è stata messa, da fatto a disvalore. Alla sua ombra che, fuori della caverna, gli dice E' chiaro come il giorno che non ti piaccio e gli chiede Ma cosa ti hanno fatto le ombre? Perché ce l'hai con loro? Platone risponde Sei un'ombra e nulla più. Non sei fatta di carne e ossa, non puoi sentire dolore. Non so neanche perché sto qui a parlarti, forse il caldo mi dà le traveggole. Faccio sforzi enormi per sottrarre l'umanità alle tenebre. Sono troppo invadenti, ecco che cos'hanno. Distraggono. Sono scure. Spaventano i bambini. Sono difficili da capire. Creano problemi di ogni tipo (da un dialoghetto inventato da Roberto Casati). Suggerisco R. CASATI, Alla scoperta dell'ombra, Laterza; C. SINI, Archivio Spinoza, Ghibli; G. COLLI, Presentazione a SPINOZA, Etica, Bollati Boringhieri; R. DAUMAL, Spinoza o la dinamite filosofica, Castelvecchi; L. VINCIGUERRA, Spinoza, Carocci; L. VINCIGUERRA, La semiotica di Spinoza, ETS
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Rivendicazione dell'ombra A. SANGIACOMO, Gli occhiali di Spinoza, Le Mani
MONISMO VS. DUALISMO Potrei intitolare questo paragrafo Spinoza vs, Jung, ma a svolgerlo per bene non sarebbe più un paragrafo soltanto. Basti un cenno. E' noto che la meditazione di Jung sull'Ombra lo porta a identificarla come Male, come nome del Male. La sua è voce anche seducente della tradizione della gnosi: è dualismo. Luce/Bene vs. Ombra/Male. Già nel mito di Platone la Luce del sole, il Bene, è fuori della caverna, e dentro la caverna vi sono le ombre. Ma è discusso un suo dualismo radicale, e nello svolgimento neoplatonico il male è mancanza di realtà, non realtà opposta dualisticamente; dualismo che matura piuttosto nel clima delle religioni del Vicino Oriente e si diffondono in quella che Eric Dodds studiò come età dell'angoscia, religioni portatrici di diffidenza ontologica. La scienza dell'eternità di Spinoza teorizza e pratica un metodico monismo della realtà e della conoscenza di ogni accadere in confidenza ontologica. L'ombra, le ombre, sono modi di Dio... L'ebraico biblico 'olàm ehyéh 'et (Esodo, 3:14 e Qohélet 3:1-12) è elaborato da Spinoza come l'eternità accade in ogni suo modo. Con le sue parole Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio. Dalla necessità della divina natura devono seguire infinite cose in infiniti modi. Le cose sono state prodotte da Dio con la massima perfezione (Etica, parte I, def. 8, proposizioni 15-16-33 scolio). Evidentemente anche l'ombra. René Daumal preferisce l'espressione nondualismo [...] come fanno i pensatori vedantici dell'India, piuttosto che monismo: insomma, Spinoza brahmino e non rabbi che vede Dio mente a mente. Ma così Daumal perde il pensare ebreo di Spinoza - che di Giovanni l'evangelista dice scrive in greco, ma pensa ebreo... Spinoza è monista, elabora monisticamente il monoteismo ebraico. Non si può prescindere dal pensare ebreo di Spinoza. Dio è il nome della sostanza unica, infinita in atto, causa sui, che consta di infiniti attributi,
eterna vel che esiste, accade, la cui potenza è l'esistenza, si esprime in infiniti modi... E' la prospettiva monistica (fermo restando che la distinzione è un'inclinazione del cervello selezionata dall'evoluzione) che consente di non demonizzare semanticamente l'ombra, di liberarla dalla prigione, o caverna, della dannazione semantica. Educati come veniamo al linguaggio dualistico, il monismo deve accaderci come affetto più forte, tale da avere ragione del dualismo. Ombre: tracce, segni, immaginazione, ragione, intelligenza. Anche Spinoza definisce l'intelligenza di Dio e delle cose chiarezza meridiana: nella luce del mezzogiorno l'ombra è appena visibile, ma c'è, e consente di non perdere le cose nella luce assoluta. Luce e ombra appartengono all'estensione, attributo di Dio, e ai modi della quiete e del movimento. Spinoza, stimato molatore di lenti, di ottica se ne intende. Si potrebbe inventare un dialoghetto di Jung con l'ombra: (O) - Mi hai fatto male a identificarmi con il male. Sono delicata. Forse sei rimasto un bambino...Forse è per via di Sabrina e di Sigmund, le cui ombre ti possono nascondere; forse è per via della solita solfa del corpo, della carne, del sesso, di Agostino e Lutero...Forse è perché le ombre astronomiche ti hanno tolto dal centro dell'universo...Parla con me, non sono poi così male. (J) - Debbo leggerlo, questo libro di Casati.
PLATONE Dal libro di Casati riporterò qualcosa dei dialoghetti che l'Autore inventa tra Platone (P) e Skia (S), la sua ombra, fuori della famosa caverna delle ombre. (S) - Voglio mostrarti che posso essere utile a tutti - compresi gli scienziati e i filosofi come te. Senza di me non ci sarebbe l'alternanza tra il giorno e la notte, non vedresti la forma delle cose, tutto ti apparirebbe piatto... (P) - Ma tu sei solo una comparsa: tutto il lavoro lo fa la luce.
Federico Leoni (S) - La luce non fa altro che tirare dritto per la sua strada. Quando incontra un corpo rimbalza e va da un'altra parte. Sono io quella che conserva la traccia di questo incontro. L'ombra è la memoria della luce. Grazie a me si è scoperto che la terra non è al centro dell'universo. (P) - Un mondo nuovo... Alla fine della scoperta dell'ombra da parte di Platone (S) - Tiriamo le fila prima che cali la notte. (P) - Che ne sarà di te? (S) - Tra poco scomparirò nell'ombra della terra. (P) - A me questo commiato dispiace. (S) - Caro Platone, non conosco la tristezza perché non ho ricordi. A ogni momento sono diversa, ma in quel momento sono costretta a essere un'immagine fedele di ciò di cui sono l'ombra. Non avendo memoria non posso ingannare nessuno quando consegno il messaggio che mi è stato affidato. Quello che dico è al di sopra di ogni sospetto (senza ombra di dubbio! ndr.). (P) - Credo di aver capito l'importanza delle ombre. Sono veramente oggetti fuori dal comune. (S) - Ogni ombra contiene un messaggio, ben custodito nel suo involucro oscuro. Le ombre sono piene di pensieri. Ma sono pensieri visibili a tutti. (P) - Se scrivessi un altro libro sulla conoscenza ti tratterei con più riguardo.
NIETZSCHE All'intelligente invenzione di Casati aggiungo una versione alleggerita di quella di Nietzsche in Umano, troppo umano. Una delle figure, maschere, immagini che Nietzsche indossa è quella del Viandante: Egli passeggerà sotto gli alberi[...]. Nato dai misteri del mattino, egli medita come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: egli cerca la filosofia del mattino (parte prima, par.
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638). All'inizio e alla fine della seconda parte, intitolata Il viandante e la sua ombra, il viandante passeggia sotto gli alberi e medita sulle ore che precedono l'ora meridiana, ore nelle quali le cose portano la loro ombra propria. Nietzsche il viandante (V) ode la voce della sua ombra (O), che gli offre occasione di parlare, e hanno luogo due colloqui. V - Per Dio e per tutte le cose a cui non credo, la mia ombra parla; la sento, ma non ci credo. L'ombra si autoafferma e gli propone la sua voce come un'allucinazione da accettare: O - E' bene che entrambi siamo in ugual modo indulgenti verso di noi, se per una volta la nostra ragione tace: così che nel discorrere non ci faremo dispiacere e non metteremo subito le manette all'altro, se la sua parola ci suonerà incomprensibile. Se proprio non si saprà rispondere, basterà già dire qualcosa: questa è l'equa condizione alla quale io parlo con qualcuno. In un colloquio un po' lungo anche il più saggio diventa una volta pazzo e tre volte minchione. V - Pensavo che l'ombra umana fosse la sua vanità. O - La vanità umana non domanda se può parlare: essa parla sempre. V - Solo ora mi accorgo quanto io sia scortese verso di te, mia amata ombra: non ho ancora usato una parola per dire quanto mi rallegri di sentirti e non solo di vederti. Io amo l'ombra come amo la luce. Perché ci sia bellezza sul volto, chiarezza nel discorso, bontà e saldezza nel carattere, l'ombra è tanto necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: si tengono al contrario amorevolmente per mano, e se la luce sparisce, l'ombra le guizza dietro. O - E io odio la stessa cosa che odi tu, la notte; io amo gli uomini seguaci della luce, e mi allieto dello splendore che è nel loro occhio quando conoscono e scoprono. Quell'ombra che tutte le cose mostrano quando il sole della conoscenza cade su di esse, sono io. V - Credo di capirti, benché tu ti sia espressa alquanto ombrosamente. Ma i buoni amici si scambiano una parola oscura come segno d'intesa, enigma per ogni estraneo. E noi siamo buoni amici.
Rivendicazione dell'ombra
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Dopo aver ascoltato tutte le meditazioni del suo viandante filosofo del mattino, l'ombra riprende la parola: O - Di tutto quello che hai detto, nulla mi è piaciuto di più di quella promessa: diventerete di nuovo buoni vicini delle cose prossime. Questo tornerà a vantaggio anche di noi, povere ombre. Giacché finora ci avete troppo volentieri calunniate. Ci chiamaste importune. Quando l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo: a tanto arriva la nostra libertà. V - Molto più spesso la luce fugge l'uomo, e allora lo abbandonate voi pure. O - Io ti ho lasciato spesso con dolore: per me, che desidero sapere, molte cose dell'uomo sono rimaste oscure, perché non posso essere sempre vicino a lui... V - Contentiamoci entrambi della libertà, quale a te è rimasta - a te e a me! La vista di un essere non libero mi amareggerebbe le gioie più grandi e il meglio mi sarebbe ripugnante se qualcuno fosse costretto a dividerlo con me. O - Ti ho forse seguito oggi anch'io già troppo a lungo? E' stato il giorno più lungo, ma ne siamo alla fine, abbi ancora un poco di pazienza! L'erba è umida, ho i brividi. V - Oh, è già tempo di separarsi? Non potrei fare ancora qualcosa che ti piacesse? Non hai nessun desiderio? O - Il desiderio che il "cane" filosofico ebbe davanti al grande Alessandro: togliti un poco dal mio sole, ho troppo freddo, il sole tramonta. V - Dove sei? Dove sei?
PER FINIRE Non può mancare qualche parola di Borges. Da Elogio dell'ombra: La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli [danno) può essere per noi il tempo più felice.
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"Una luce di follia, di visioni lancinanti illuminava il mondo notturno, le pendenze metalliche dei tetti, i cespugli dei lillĂ in fuga." Vladimir Nabokov, Il temporale
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L'ANIMA FA LIBRO
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In questo numero dedicato alle Luci abbiamo scelto di recensire un racconto tratto dal libro Le fiabe per... vincere la paura, di Elvezia Benini - psicologa, psicoterapeuta e docente - e Giancarlo Malombra - giudice onorario, dirigente scolastico, docente di psicologia sociale -. La fiaba, che potete trovare a pag. 30, si intitola Il cammino di luce. C'era una volta una famiglia felice... Il protagonista del racconto è un bambino di nome Sifulino e nelle vicende che gli susseguono, ci aiuta a porci una domanda: come facciamo a trovare la nostra Luce, o meglio ancora, a che cosa serve la Luce dentro di noi? Proprio attraverso la fiaba possiamo dare una delle possibili risposte. La ricerca di un qualcosa dentro di noi deve passare necessariamente attraverso il viaggio di un bambino, il bambino che è in noi. Il bambino è ciò che di nuovo deve emergere e trasfromarsi. È importante quindi ritrovare quella parte "bambina" nella nostra psiche e che, nonostante i mala tempora che nobilitano la crescita, l'essere adulti e maturi, deve necessariamente trovare spazio per avere un benessere interiore in continuo mutamento. Sifulino viene affidato alla sorte e si ritrova in un bosco buio, pieno di creature pericolose e di ostacoli. Il puer che è dentro di noi, e che desidera trovare la Luce, si trova in balia delle ombre, delle oscurità, di creature mostruose e di un fitto bosco tenebroso. Dopo varie peripezie Sifulino grazie all'aiuto di una strega e, attraversando una grotta inconscia, riesce a percorrere il Cammino di Luce, a trovare ciò che stava cercando. Possiamo vedere come il venire alla Luce di una nuova parte di noi, debba passare attaverso varie peripezie, ma soprattutto, deve lasciar spazio di esplorare al bambino che è in noi. Concludiamo questa breve recensione sostenendo con molta convinzione che Fiabe per ...vincere la paura non è un libro per soli bambini, ma per ogni bambino che abita la nostra psiche. Inoltre alla fine di ogni fiaba è presente un'analisi dettagliata di simboli e percorsi metaforici dell'anima, molto utile come approfondimento per gli insegnanti che hanno a che fare con bambini, come amplificazione alle professioni psicologiche e come approfondimento culturale individuale.
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"Come è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire":
ESPERIENZE DI PARTI Zaira Cestari, Pisa Originaria della Lombardia, vive a Pisa, dove svolge l'attivitĂ clinica professionale di psicologia complessa e psicoterapia con orientamento analitico e psicosomatico. Impegnata nel lavoro analitico personale attraverso diverse pratiche introspettive. Fondatrice delle Serate junghiane, giunte alla terza edizione, incontri di letture e discussioni per un rinnovamento culturale.
Anthony McCall - You and I, Installation 2005
Esperienze di parti
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Infinite sottili delicate donate miracolosamente la vita instancabili succhiate la vita della terra, spingendovi innanzi ora per ora. Siete creature dell'oscurità solo il vostro protetto scorge la luce, innalzandosi al cielo orgoglioso. Forte e pregiato è il suo legno immensa è la sua gratitudine. In vostro onore fiorisce indimenticabile. Vi perapara un banchetto: nella sua chioma canta un coro di uccellini, chi passa innanzi si rallegra a vederlo. Ma chi immagina che questo miracolo ha inzio nell'oscurità? Radici, Martina Bortolotti, 1991
I
n occasione di questo numero dell'Anima fa Arte, percorrerò, nello scrivere, un altro pezzo della via che mi porta ad accettare l'altro lato della luce. All'interno della cerchia “junghiana”, ovvero dove gli individui si accomunano per impegnarsi a conoscere il mondo attraverso quell'epistemologia del finalismo, del senso, dell'inconscio come il tutto, e degli opposti come imprescindibili per la vita terrena, sappiamo bene come una cosa ci si rende percepibile e manifesta solo in virtù della sua “cosa” opposta. Ci sarà allora familiare pensare al buio parlando di luci. Eppure quando Michele Mezzanotte mi ha comunicato il tema di questo numero (“Luci”), per un certo tempo sono stata rapita dal fascino della luce. Nella mia fantasia sono emerse immagini della più svariata vitalità: primavere, rugiada su i boccioli dei fiori, albe, nascite, candele in una serata romantica, lucine di natale dei borghi e città votate al commercio più denudato. Nel mezzo del bagno nella luce, qualcosa di esterno, ma potrebbe essere venuto anche dall'interno (dice Jung: "Se proveniva da fuori (il nuovo), diventava una profonda esperienza interiore, se proveniva dall'interno, si trasformava in evento esterno. In nessun caso però era stato procurato intenzionalmente e coscientemente, ma sembrava piuttosto generato dal fluire del tempo." C.G.Jung,
Commento al segreto del fiore d'oro. Pp 38, 39 ), mi ha fatto fare una corsa nell'opposto, per aiutarmi in qualche compensazione necessaria. E allora scriverò di oscurità, di lutto e di fine come istanze necessarie per una rinascita, come sfondi necessari per poter scorgere le luci più pure, nette e chiare, come suggerisce il titolo “rubato” dalla celebre frase di Franco Battiato nel suo testo “Prospettiva Nevskij”: “E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire” Partendo dai riferimenti filosofici-letterari di Battiato, questa citazione ci pare pregna di rimandi al concetto di reincarnazione e, oltre forse a Gurdjieff e a Battiato stesso, a tutta quella filosofia alchemica, gnostica, pitagorica e orientale, che ci parla dei processi invisibili dell'esistenza, che attestano che a uno stato succede un altro, e che il nuovo sorge da una completezza data solo dall'unione di due opposti, anche durante una stessa vita. Battiato in questo sublime pezzo ci ricorda, quando dice “il mio maestro mi insegnò com'è difficile...”, che non ci sono vie meccaniche che un maestro ci può insegnare, ma solo vie spontanee e complesse da scoprire con impegno e fatica, come ci ricorda anche Jung, prendendo quindi le distanze da ogni dogmatica spirituale e psicologica, quando in molteplici testi sottolinea che ognuno ha la sua via e incoraggia a non imitare la vita di qualcun altro ma a vivere la propria vita, “Si tratta di dire sì a se stessi, di porre a sé stessi, come il compito più grave, quello di essere sempre consapevoli in ogni azione, e di tenere tutto ciò sempre davanti agli occhi in tutti i suoi aspetti problematici: davvero un compito che richiede un impegno totale” (C.G. Jung, Commento al Segreto del Fiore d'oro. p. 41) Ciò che nella frase di Battiato e in questo articolo trattiamo, è lo scorgere dell' “alba dentro l'imbrunire” ovvero l'esperienza interiore o esteriore che laddove tutto sembra perduto, morto, senza uscita, siamo in prossimità di una rinascita che se non si compie ora, si compierà, come natura ci insegna. Sono partita da una frase del cantautore siculo e ho scritto qui poco sopra e nel titolo la parola “esperienze” per non mettere in secondo piano, che certe consapevolezze nascono solo da vita diretta, quindi da vissuti spesso dolorosi perché
Zaira Cestari apparentemente contraddittori e dall'impegno a, grazie a questi vissuti, superare se stessi, invece che a regredire, a chiudersi, ad irrigidirsi. Nello specifico parlerò di parto come esperienze in cui l'intelletto, le dottrine, gli insegnamenti, i precetti, la morale vengono spazzati via dalla voce tonante del mistero della natura e dove il concetto che ognuno ha la propria via, diviene sempre più necessariamente vero. Codesta natura è presente ed è la base di tutte le cose, anche quelle culturali create dalla technè dell'essere umano, dal suo avere il pollice opponibile e dall'archetipo psichico che gli corrisponde, ovvero la cultura, l'intelletto, i valori, la società. Ma nella gravidanza e nel parto, questa natura si palesa, a mio vedere, in modo più manifesto, fino a far tacere, almeno momentaneamente lo spirito, ciò che è alla natura terrena, opposto. Quel che segue è il frutto di un recente approfondimento fatto grazie al racconto del vissuto di amiche mamme, di pazienti e dall'esperienza personale, sia in prima persona, che indirettamente per mezzo della vicinanza con le dirette interessate. Non ha perciò la presunzione di essere un articolo di psicologia scientifica, ma un discorso nutrito dall'intuito che vuole penetrare nella profondità di eventi terreni, naturali, e quotidiani e osservarne i processi ad essi sottesi, motore invisibile del loro accadere. Non di rado si legge e si sente dire che partorire è un'esperienza legata per analogia alla morte. Il nascituro passa da un mondo ad un altro e saluta il vecchio stato con un passaggio spesso lungo, difficile e misterioso nel suo esito. La luce è visibile solo con il buio intorno. La nascita è una festa, dopo un periodo di attesa e quindi dell'essere all'oscuro dell'imminente futuro. La medicina occidentale ha trovato delle soluzioni abbastanza efficienti a tale imprevedibilità: soluzioni come le ecografie, i test statistici per prevedere le trisomie, il cesareo, l'ossitocina, l'epidurale... E così il rischio biologico e fisico trova abbastanza frequentemente, grazie al progredire della scienza, una soluzione che tranquillizza. E per il piccolo cucciolo il pericolo insito in questo passaggio sembra scampato, almeno temporaneamente.
Ma questa esperienza che (dal nostro punto di vista) rimanda simbolicamente alla morte, riguarda forse sopratutto, l'imminente mamma e, forse, andando ad interessare funzioni psichiche diverse, anche il padre. In questa sede il processo psichico del padre, di per sé, non è affrontato, ma si accenna solo a ciò che concerne la relazione con quel femminile che vede, spesso a stretto contatto e quotidianamente, mutare profondamente. Si trova, spesso senza averne acquisito precedentemente alcuna esperienza, a vivere i cambiamenti dell'Altra e trovarsi a doversi confrontare, con esito incerto, con ciò che queste trasformazioni psicofisiche suscitano in lui, e così ad avvicinarsi, o ad allontanarsi, al/dal proprio femminile interiore. Una gravidanza, un parto, può essere dunque un occasione per prendere coscienza, dell'essenza più profonda della femminilità, e ciò potrà maturare il suo rapporto con un femminile interno ed esterno e ad essere un importante crocevia che porta alla crescita dell'intera personalità. Dice Donatella Peruzzo Bortolotti “più di ogni altro aspetto della vita l'attesa si qualifica come quel momento in cui psicologico e biologico si fondono, la fusione di due identità, quella femminile e quella maschile. (…) La possibilità del neonato di definirsi come individuo autonomo dipenderà dall'identità psicosomatica che la coppia ha raggiunto nel momento in cui vive l'evento, dei desideri univoci o non della coppia di entrare in un ruolo paterno e materno, del ruolo di contenimento e di protettività che infonde il partner per l'andamento di una gravidanza serena della donna.” (estratto da L'attesa come esperienza globale. Aspetti psicologici della gravidanza in Nascita e Società, di Ivano Spano e Flavia Flacco Pp.197-199). Un bellissimo passo del Liber Novus di C.G.Jung ci illumina su quanto sopra abozzato: “ Voi cercate il femminile nella donna e il maschile nell'uomo. E così esistono sempre e soltanto uomini e donne. Ma dove stanno gli esseri umani? Tu uomo non cercare il femminile nella donna, ma cercalo e
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Esperienze di parti riconoscilo in te, poiché tu, lo possiedi fin dal principio. Ti piace però recitare la parte del maschio, poiché si muove sui binari oliati delle vecchie abitudini. (...)Se presti ben attenzione, vedrai che l'uomo più maschio ha un'anima femminile (…) quanto più sei uomo tanto più distante da te è quel che la donna è in realtà, perché il lato femminile in te stesso ti è estraneo, e tu lo disprezzi.” L'osservazione e l'ammissione di incomprensione razionale di quel che avviene nel femminile in un momento così profondamente irrazionale come la formazione di una nuova vita, può invece avvicinare al femminile e allora.. “ ...ti ricorderai della tua umanità. Ti comporterai quindi con la donna non semplicemente da maschio, bensì da essere umano, bensì come se appartenessi al suo medesimo sesso. Ti ricorderai del tuo lato femminile. Ti potrà sembrare allora di essere poco maschio, per così dire sciocco ed effeminato. Ma tu devi farti carico del ridicolo, che altrimenti patirà in te e una volta o l'altra ti aggredirà all'improvviso quando meno te lo aspetti, facendoti fare una figura ridicola. E' cosa amara per l'uomo più virile, prendersi cura del suo lato femminile, perché gli sembra un segno di debolezza, ridicolo e non bello.” (P. 263) In questi passi Jung parla nel medesimo tono anche a proposito della donna, della sua necessità di accettare la sua parte maschile, farsene carico, ma ho coscientemente saltato questi passi, poiché tratto di una fase della vita in cui, entrambi i membri della coppia devono farsi una bella dose di femminilità. Anche la donna, necessita, per vivere questo miracolo, di immergersi nelle acque di una femminilità pura, che come è avvenuto all'origine della loro vita stessa, trasforma. Quel che deve avvenire, non è più un immersione totale in utero fisico materno, ma in un femminile psicologico, interiore, per essere lei partoriente e saper salutare, quell'essere figlia di madre e padre. La morte simbolica è il lasciare, trasformandoci, identificazioni, ruoli, stili di
vita, aspirazioni e aspettative. Con il corpo e gli ormoni anche la psiche incontra una trasformazione, che non sempre è fluida,anzi molto spesso si rivela problematica, ma i problemi dell'anima, non trovano soluzioni, solo superamenti. E il superamento avviene per qualche disposizione inconscia che se lasciata fluire, si rivela. La medicina se da una parte aiuta il corpo, può rallentare quella presa di coscienza necessaria alla trasformazione psichica, perchè spesso istinito e archetipo, in assenza di complessualità inconscia, si muovono nel loro processo di cambiamento, di pari passo. Quando si parla di psiche, questo pensiero di Jung ci risuona: “Nel frattempo avevo infatti imparato che i problemi più grandi e importanti della vita sono, in fondo, tutti insolubili; e non possono non esserlo, perché esprimono le necessaria polarità inerente a ogni sistema di autoregolazione. Essi dunque non potranno mai essere risolti, ma soltanto superati.” (p. 38) Durante la gravidanza, con i cambiamenti corporei, di stile di vita e di relazione che avvengono, la donna e chi gli sta intorno, è chiamata dal corpo stesso, ma anche dall'archetipo che si attiva, a predisporsi ad un'accoglienza senza eguali. Ciò che sperimenta durante la gravidanza non è solo funzionale a quei mesi di panza, ma è forse esperienza necessaria di un passaggio graduale da una vita da fanciulla ad una vita di madre,che saprà però presto lasciare un po' di posto ancora all'essere donna, quando la funzione materna potrà ritirarsi un poco. Accogliere l'altro è accogliere una vita intera, la sua imprevidibilità. Accogliere l'altro implica accettare che nell'incontro c'è anche il distacco; accogliere l'altro implica una morte di quel che c'era prima dell'incontro: nell'accoglienza di una vita, c'è anche l'accoglienza della morte. Un figlio è una luce, poiché attiva quell'amore incondizionato che resiste nonostante l'oscurità. Solo quando l'oscurità non è un problema, la luce splende. Dice Luce Irigaray in “Essere due” : “Ti
Zaira Cestari percepisco, mi faccio un'idea di te, ti conservo nella mia memoria -nell'affetto, nel pensieroper aiutarti nel tuo divenire. Mentre divengo io, mi ricordo di te. (…) Lasciare essere l'altro, possederlo per niente, contemplarlo come presenza irriducibile, assaporarlo in quanto bene inappropriabile, vederlo, ascoltarlo, toccarlo, sapendo che ciò che percepisco non è mio. Sentito da me, pur rimanendo altro, mai ridotto ad un oggetto.” (pp. 54-57) Sebbene Luce Irigaray in questo passo si riferisce ad un amore di coppia maturo, qui lo pongo riferendomi al rapporto con l'Altro che le donne gravide portano dentro di sé. Prendersi cura dell'Altro senza impossesdsarsene racchiude quella capacità relazionale, non frequentemente scontata nemmeno nel rapporto con i figli, decantata dalla Irigaray. Il passaggio da figlia a madre, sembra facilitare nella gravida, la creazione di una coppia genitoriale interna, che emana, dal Sè, quell'amore per se stessi, che è indice di un passaggio dalla fanciullezza all'età adulta, base per la capacità di amare l'Altro senza che sia il nostro bastone. Nell'esperienza del parto, in quelle ora chiamate travaglio, il dolore fisico si intreccia, in forme inconoscibili dalla scienza più pura, a quel processo più o meno difficile, dell'affidarsi -in un momento acuto e preciso- all'accadere della natura, lasciando il sole della certezza e della razionalità, ad altri momenti. Lì avviene la morte, la nascita, il lutto e la gioia. Muore una figlia, nasce una madre, nasce il nuovo e muore il vecchio, il temporale si manifesta e l'antico si deve rivelare nella guida di nuove, ma eterne esperienze. Quando questo parto -che sia a termine, con esito felice, o quando sia prematuro, indotto o per un aborto spontaneo, perché sempre di parto si tratta -è vissuto escludendo l'oscurità, quando l'imbrunire è controllato, senza che ce ne sia una necessità medica, attraverso test statistici, milioni di ecografie, epidurali, cesarei, insomma quando avviene una medicalizzazione del parto, senza che sia accertato un rischio biologico, si corre un rischio psicologico.
Dice Donatella Peruzzo Bortolotti: “Fondamentalmente si può dire che l'essere umano si sia allontanato dalla sua coscienza ecologica alla ricerca di oggettivazione e di tecnologie dimenticando i veicoli che lo legano alle leggi Universali. La crisi della società moderna nasce dal fatto che questa non è più capace di cogliere la continuità del reale tanto che le sue esperienze finiscono per procedere in modo dissociato e discontinuo. Troviamo in questi fattori il disagio della nostra epoca con la conseguente perdita di soggettività. Questo investe tutti gli aspetti più profondi del nostro essere con una perdita di sicurezza e convinzioni personali, così che la macchina diventa lo strumento sostitutivo di questa perdita di identità e di relazione.” (pp. 191-192) Concludo sottolineando che la gravidanza è una tappa del ciclo vitale che trova il suo culmine nell'esperienza del parto, e come fase della vita, porta con sé passato e futuro, morte e vita. In questo momento la coppia porta con se le immagini delle loro relazioni primarie con i rispettivi genitori, e le loro immagini dell'essenza maschile e femminile. Nella luce del parto c'è l'imbrunire di queste immagini: esse riemergono ma per essere reimmerse nell'acqua di una nuova femminilità che le feconda a nuova vita. Come forse tutte le tappe fondamentali del ciclo vitale, il parto vede l'unione di archetipo e di istinto: l'unità psicosomatica si rivela in un passaggio in cui la trasformazione sia fisica che psicologica è evidente e necessaria ed una facilita l'altra e viceversa. Troppa medicalizzazione può rendere più difficile un passaggio psicologico che è sentito nei profondi processi del corpo durante il parto. Ma ognuna ha la sua via, e solo immergendosi nell'oscurità di un momento così profondamente femminile, che questa via si può rivelare, al di là di assolutismi e decisioni preconfezionate. Ringrazio la bravissima ostetrica Francesca C. e la cara Lia per il supporto e le suggestioni. E Pierluigi per la condivisione costante.
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45 Bibliografia e Note
Luce Irigaray,“Essere Due”. Torino: Bollati Boringhieri, 1994 - Esther Harding,“La Strada della Donna”. Roma: Astrolabio, 1951 - Ivano Spano, Flavia Flacco, “Nascita e Società. La medicalizzazione del parto: un aspetto della iatrogenesi sociale”, Padova: Edizioni Sapere, 2001 - C.G.Jung, “Commento al Segreto del Fiore d'Oro”, Torino: Bollati Boringhieri, 2015 - C.G.Jung, “Liber Novus”, Torino: Bollati Boringhieri, 2010 - Verena Schmid, “Venire al mondo, dare alla luce. Percorsi di vita attraverso la nascita”. Milano: Feltrinelli. 2010 -
"La luce è una cosa che non può essere riprodotta ma deve essere rappresentata attraverso un'altra cosa, attraverso il colore." Paul Cezanne
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DALLA RELIGIONE DELLA LUCE ALLA LUCE DELLA COSCIENZA
Vincenzo Ampolo, Lecce Psicologo-Psicoterapeuta di formazione analitica ed umanistico-esistenziale, saggista e formatore. Tra i più attivi collaboratori della rivista L'Immaginale, (rassegna internazionale di psicologia analitica), ha diretto riviste di pedagogia, psicologia e studi interdisciplinari, pubblicato numerosi saggi di psicologia analitica e studi sociali, in volumi collettivi e riviste di settore. Dal 1982 al 2013 ha coordinato le attività dell'Ente Morale di Ricerca, Formazione e Terapia "Perseo" collaborando con Istituti di Formazione e con le Università di Lecce, Bari e Genova per progetti di ricerca, attività didattiche e divulgazione scientifica. Attualmente svolge il suo lavoro istituzionale presso il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare del Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Lecce. Tra le pubblicazioni curate dall'autore: La Pratica del Creativo (1988); EXTASY (1997); Musica droga & transe (1999); Diario e dintorni (2001); Voci dell''Anima - Scrittura narrazione e pratica analitica (2004); Dissociazione e Creatività - La transe dell'artista (2005); Martha Nieuwenhuijs Tra Eros e Logos (2009) Oltre La Coscienza Ordinaria - Riti Miti Sostanze Terapie (2012).
Tokujin Yoshioka,The gate
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Dalla religione delle luce alla luce della coscienza H 79003 H 84190 C'erano tante persone sulla riva tutte guardavano il tramonto era la morte del giorno la luce cominciava ad incupirsi tutte temevano la notte tutte avrebbero tremato tutte cominciavano già ad aspettare l'alba Elio Coriano Spazio di coscienza n.2516 – La danza degli infelici n.1672
Luce da luce I popoli antichi vivevano con l’angoscia che la luce del sole non si ripresentasse nel giorno successivo, giacché tutto ciò che accadeva in natura era per loro determinato da una volontà divina. La luce, del sole o della luna, a seconda delle antiche popolazioni e culture, diventava così, nel mito, un eroe che lottava per sconfiggere i mostri e le tenebre che avrebbero altrimenti sopraffatto gli esseri umani. Dagli egizi ai babilonesi, dai celti ai greci, fino al culto del “sole invitto” dei romani, il mito della luce (ben radicato nelle culture popolari, prima dell’Oriente e poi dell’Occidente) viene recuperato come simbolo centrale, per rappresentare forme religiose e culturali molto simili e diverse al tempo stesso, tali comunque da definire le caratteristiche peculiari delle divinità nelle varie religioni. La fede cattolica, come quella buddista, ebraica, islamica, protestante o ortodossa si appropria del simbolismo della luce e lo pone come chiara immagine dello splendore della propria fede. La Luce è narrata dalla Genesi come primo atto divino: “Dio disse: Sia la luce e la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.” Per il cristianesimo primitivo di cultura grecoromana il simbolismo della luce s’identificò con il Cristo stesso, che assunse il ruolo delle antiche divinità solari. Nei Vangeli si legge: “Il nostro Dio verrà incontro dall’alto, come luce che sorge; splenderà nelle tenebre per chi vive all’ombra
della morte.” (Luca 1, 78). Nei Vangeli di Giovanni, di Matteo e Isaia si ribadisce l’aspetto solare e lucente del Cristo che, come il sole nascente annuncia un’alba di resurrezione. Le Sacre scritture e la letteratura patristica a esse ispirata, come i canti liturgici tramandati fino ai nostri giorni, abbondano di espressioni relative all’identificazione di Dio/Gesù con la luce, intesa nel tempo sempre più come simbolo di verità e di vita che illumina rivela e salva gli esseri umani dalle tenebre del male. La luce di Cristo viene intesa, molto spesso, come un insieme di luce solare e luce lunare e anche trascendimento dell’una e dell’altra. Ci piace ricordare a questo proposito il cielo stellato, nel quale risplendeva la stella cometa, guida dei Magi, sacerdoti, saggi e stregoni al tempo stesso. Il nome di uno dei tre Re Magi, Melki-Or (in ebraico “Re della luce”) rimanda significativamente al culto antico oggetto del nostro studio. Se infine, di luce sono fatte le sostanze che i mistici hanno immaginato e contemplato, la partecipazione mistica dei credenti avviene attraverso un diventare essi stessi parte di una grande luce, di un processo d’illuminazione collettiva attivato dallo Spirito Divino.
2 - La primitiva religione della luce1 Nel tempo al quale si richiamano i RigVeda, le parti più antiche degli inni e dei canti raccolti nei Veda, tramandati oralmente per molte generazioni, la religione era un puro culto della natura. Si adorava il cielo, il sole, la folgore, il fuoco, la pioggia e si temeva la siccità, la notte, l'oscurità e ciò che in essa si nascondeva. Innumerevoli divinità buone o malvagie presiedevano alle vicende umane e alla lotta incessante tra la creazione e la distruzione di qualsiasi elemento vitale. Gli dei buoni erano chiamati Deva, ossia i Chiari, i Risplendenti; i maligni erano detti Asura, cioe gli Oscuri. Nella religione della luce tuttavia vi erano delle differenziazioni legate agli attributi delle varie fonti luminose. L'illuminante (Savitar), il risplendente
Vincenzo Ampolo (Surya), il riscaldante (Adiiya), l'alimentante (Pusan), l'ardente (Tejas), il calante (Rudra), il guizzante (Indra), l'infuocato (Agni), solo per citarne alcuni tra i tanti. In questo teatro della natura la tempesta era la lotta combattuta da Indra, il dio celeste scagliatore di folgori, molto simile allo Zeus dei Greci, contro Vritra, il dio che avvolge il cielo nelle tenebre e, in forma di serpente, tiene prigioniere le acque della montagna. A Indra, considerato anche uccisore di demoni, eroe delle battaglie, toro gagliardo, sovrano universale, re delle cose solide e liquide, celebrato come quello che ha consolidato i monti e posto il confine dell'atmosfera e sostenuto il cielo, si rivolgeva principalmente l'adorazione dei fedeli. Numerosi inni sacri raccolti nei RigVeda cantano le sue lodi: Voglio rendere pubbliche le imprese di Indra, le prime che ha compiuto armato di folgore: ha colpito il serpente, ha tracciato la strada alle acque, ha spaccato il ventre delle montagne. Ha colpito il serpente che giaceva sulla montagna... Come vacche muggenti, le acque si sono affrettate, sono scese dritte al mare... Quando Indra e il serpente combatterono, il dispensatore di tesori riportò la vittoria per il presente e per i tempi a venire. Gli inni all'Aurora che, in origine, è la femmina mitica, sono, nella liturgia della luce, di gran lunga quelli più poetici. Nel sacrificio mattutino si celebra, con devozione, il mistero dell'Aurora, la luce di un nuovo giorno. La luce, la più spendente delle luci, è venuta. Il segno brillante, spendente, è nato. A seconda che Savitar la faccia uscire perché si compia la sua legge, la notte cede il posto all'Aurora... Splendente, conduttrice delle giovani forze, essa ha brillato, la brillante; ha aperto le porte per noi; mettendo in moto il mondo mobile, ha scoperto ricchezze per noi. L'aurora ha svegliato tutte le creature. - Perchè colui che era coricato cammini - la benefattrice! - un altro ( giorno ) per la ricchezza, sia per goderne, sia per cercarla, perchè coloro che vedono poco vedano lontano, l'aurora ha svegliato tutte le creature... Sono passati i
mortali che hanno visto brillare l'antica aurora. Ora è a noi che si mostra. E vengono già coloro che la vedranno nei tempi futuri...Alzatevi! Il soffio vitale è venuto a noi. L'oscurità se n'é andata. Arriva la luce. Ha lasciato via libera al sole perch'esso cammini. Siamo arrivati nell'istante in cui la vita è prolungata!
La cosmologia sacra e l’unione degli opposti2 L’offerta sacrificale del Soma, così come ci viene riportata dagli antichi testi, era destinata a rallegrare gli dei della luce, renderli propizi alle preghiere e nello stesso tempo a dare loro la forza necessaria per l’adempimento del loro grave compito, che consisteva nel sostenere una continua lotta con le potenze malefiche delle tenebre. Il Sacrificio del Soma stabilisce, una riconciliazione e un congiungimento tra le potenze in conflitto. Le divinità della Luce e quelle delle Tenebre trovano modo di coesistere, di armonizzarsi. La Luna diventa nutrimento del Sole, che la inghiotte durante la notte in cui coabitano (amavasja) come sposi felici. Stiamo parlando di un alchemico matrimonio sacro (Hieros Gamos) che annuncia il completamento del processo nella congiunzione dei due supremi pianeti, la loro “luna di miele” si potrebbe affermare alludendo ad uno dei componenti del rito. “E’ il mysterium coniunctionis del Sole e della Luna, del Re e della Regina, è la realizzazione della coincidentia oppositorum, del Rebis, del divino Androgino.” Quando il sacerdote, officiante del sacrificio, sparge il residuo di Soma nel fuoco, sparge se stesso e ciò che egli è: svuotandosi della sua natura umana diventa Dio. Quando alla fine del rito torna ad essere se stesso è un uomo “diverso”, avendo ucciso il proprio Drago, giunto ai confini del mondo in cui il Cielo e la Terra, la Luna e il Sole si abbracciano. Ecco che la congiunzione degli opposti si realizza in questo rito, che si perde nella notte dei tempi e che rappresenta anche una forma primordiale di terapia, un modo “magico” di
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Dalla religione delle luce alla luce della coscienza raggiungere la “gioia santa del cuore”, in quella eterna ricerca dell’Armonia che contraddistingue gli esseri umani.
Dalla frammentazione all’unità “ Una donna arriva nella stanza centrale di una grande costruzione le cui pareti sono tutte coperte di specchi che riflettono al centro della stanza una luce radiosa” Silvia Montefoschi in Essere nell’essere
Visioni parziali di noi guidano la nostra vita, tra il buio delle regioni infere e la luce della coscienza. Il percorso analitico deve confrontarsi con le ombre dei nostri incubi notturni per poi risalire verso la luce. Il vissuto della propria unitarietà necessita di una presa di distanza da esperienze e vissuti parziali con i quali l’individuo si era identificato nel tempo. Se la teosofia islamica, secondo quanto riferisce H. Corbin3, racconta di un mondo chiamato Terra di Luce: Mundus Imaginalis, sospeso tra le sostanze pure intellegibili e le sostanze corporee, teatro delle epifanie e delle visioni che si presentano nel percorso analitico, pure la psicoanalista Silvia Montefoschi, nel suo libro Essere nell’essere, compie un’analisi affascinante di questo processo analitico, affermando che l’essere nel conoscersi si evolve come individuo e come specie. “E’ infatti il vissuto della frammentazione che costringe il soggetto umano, che vuol salvarsi come presenza, a compiere lo sforzo per concentrare, nel punto di vista più elevato che egli ha ormai raggiunto, e in una nuova visione unitaria di se stesso, le immagini disparate di sé nelle quali si vede frammentato.”4 Il confronto nella sala degli specchi, di cui accenna il sogno citato dall’autrice, e per altri versi ampiamente affrontato nel precedente testo di Dario V. Caggia L’Albero d’oro5, è una tappa, dolorosa ma necessaria, sulla via dell’autorealizzazione femminile, che permette tuttavia di cogliere l’unità del proprio essere, oltre la frammentazione di maschere e ruoli. Nell’esperienza analitica, afferma l’autrice,
“…il destino dell’uomo attuale sembra coincidere con quello del “mystes”, dell’iniziato delle antiche dottrine esoteriche, come se, ereditando da esse la missione escatologica e assumendosene il compito di proseguirla, egli arrivi infine a portarla a compimento.”6. Il pensiero della Montefoschi prospetta infine un salto evolutivo che nei sogni sembra apparire evidente; gli stessi sogni “…dove si dice che non c’è più il sole a illuminare la terra, e che è invece la terra a irradiare la sua luce; dove si dice che gli esseri umani, non essendo più illuminati dall’esterno, ma dal loro interno, perdono i contrasti prodotti dalle ombre e si fanno trasparenti; e dove ancora si dice che al posto dell’ombra che l’uomo proiettava sulla terra resta il contorno luminoso della sua presenza. ”7 “Se la coscienza individuale, infatti, è la condizione necessaria a che l’universale prenda visione di sé, e se essa è anche il limite da superare affinchè l’universale possa abbracciare nella totalità la conoscenza di se stesso, il passo ulteriore lungo questo cammino è quello che porta all’incontro dalle tante piccole luci della riflessione, che nel frattempo si sono qua e là accese, affinché dalla loro unione si irradii la luce grande che, riflettendoci gli uni agli altri, ci renderà gli uni agli altri trasparenti; così che, grazie alla nostra reciproca trasparenza, il mondo, illuminato a tutt’oggi da una conoscenza ad esso trascendente, brilli di luce propria essendosi ad esso fatta immanente la luce della sua autocoscienza”8
Bibliografia e Note 1. Cfr. Ampolo V. “Divinità e sostanze psicoattive nell’antica Religione della Luce” in Altrove - Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza - Hofmann & Lapassade, Colibrì edizioni, Torino, novembre 2008, pp. 50/59 2. Cfr. Ampolo V. Oltre la coscienza Ordinaria - Riti Miti Sostanze Terapie, Ed. Kurumuny, Lecce, 2012, pp. 32-33; Vedi inoltre Ampolo V. “L’effetto Lucifero – Quando il contesto determina azioni spregevoli” in Il Paese Nuovo
Vincenzo Ampolo (pagine culturali) , Lecce, 30 gennaio 2009, p. 7 3. Cfr. Corbin H. Corpo spirituale e terra celeste, Ed. Adelphi, Milano, 1986 (Trad. di G. Bemporad) 4. Montefoschi S. Essere nell’essere, Raffaele Cortina Editore, Milano, 1986, p.183 5. Cfr. Caggia D. V. L’albero d’oro psicoanalisi della donna e dell’amore, Ed. Atanòr, Lecce, 1981; Vedi inoltre Caggia D. V. L’eroe, il drago e l’anima, Ed. Atanòr, Lecce, 1980 6. Montefoschi S. op. cit. p. 183 7. ibidem p. 229-230 8. ibidem p. 229
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L'ANIMA FA CINEMA LUCI DELLA CITTÀ (1931) di Federica Pieragostini
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ianco. Nero. Silenzio. Dall’intersezione di questi tre fili conduttori si accende la luce del mattino, testimone di un incontro tra il celebre personaggio di Charlie Chaplin, Charlot, povero vagabondo e una fioraia cieca che lo scambia per un uomo ricco. Nel buio della sera Charlot si trova poi coinvolto nel tentativo di salvare dal suicidio un vero ma eccentrico milionario che diverrà suo amico e benefattore solo da ubriaco, trattandolo invece come uomo della sua vera natura in tutti gli altri frangenti.
Desideroso di aiutare la ragazza di cui è ormai innamorato ad affrontare economicamente un’operazione che potrebbe permetterle di chiudere definitivamente la porta al mondo cupo della cecità, Charlot si districa in tutta la pellicola, accompagnato talvolta anche dall’aspirante suicida, tra mille spaccati del suo sé e della sua ombra. Agli albori del sonoro e nel pieno di una semplice, quasi favolistica illusione medica per l’epoca, nutrita dal concetto più puro di amore che cuore e sinapsi possano immaginare, Charlie Chaplin propone un film che ai meno attenti potrebbe apparire lineare. Ma è solo apparenza, appunto. Esso in verità nasconde un viaggio di contrapposizione dicotomica di opposti, di volontà di essere ciò che non si potrà mai, di povertà e derisione alla luce del giorno e ricchezza impropria subita e goduta al calar del sole, tra feste che si infrangeranno al termine dell’ubriachezza. Mentre il sole irradia la vera entità dei singoli personaggi e degli eventi e le tenebre oculari e notturne riescono a rendere le illusioni non più ipotetiche, ma reali, Charlot prende per mano lo spettatore, come fa con la sua amata, e lo conduce, non senza un sano sorriso carico di riflessioni, all’interno del vortice del suo processo di individuazione di junghiana memoria. Nella notte è a contatto con l’archetipo dell’ombra, con ciò che non gli appartiene e che non lo rappresenta: dal tentativo di suicidio di cui è testimone ai viaggi nell’uragano dell’ebrezza alcolica e dei ritmi di festa, passando persino per il ruolo di pugile. Ma è proprio mentre si aggira con gli occhi e col sé bendato che l’anima di Charlot si evolve gradualmente, animata dalla prosocialità più genuina: il protagonista integra gradualmente questa componente inferiore ma importante della personalità totale, accettandola e usufruendo di questa anche in seguito, tanto da immergersi profondamente negli aspetti dell’illegalità parzialmente lecita e sfruttata per una giusta causa. Si entra così a contatto con una personalità che, in un ampio crescendo in tutta la durata della pellicola, si scopre finalmente tridimensionale, frutto dell’allineamento tra Io e Sé, capace di vivere in modo sinusoidale dall’ombra della galera, al riavvicinamento alla vita reale. È proprio nelle ultime scene che Charlot può sbocciare in una personalità ormai integrata, come il fiore raccolto a terra che gli permette di riconoscere la donna per cui tanto si è impegnato e che tanto l’ha guidato come una moderna Beatrice alla scoperta di sé. Egli è finalmente diventato luce propria, sommando tutto ciò che durante la pellicola ha sperimentato. In un approccio quasi sinestetico in cui non serve né suono né parola umana, poiché la stessa espressività del protagonista diventa musica per le orecchie dello spettatore, si assiste a un’opera talmente profonda da riuscire a coinvolgere anche il tatto (unico veicolo di riconoscimento tra i due amati al buio della cecità) e persino il senso del gusto. Il finale lascia infatti nelle nostre bocche quell’amaro dell’insoddisfazione, dell’ipotetica mancata riconoscenza dopo un’alternanza e una delicata tensione di coinvolgimento fiabesco declinato in altruismo totale per una donna e divertissement ironico e universale.
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L'INCONSCIO E LUCI. LA LUCE DELL’OMBRA E L’OMBRA DELLA LUCE. PER UNA COSCIENZA SIMBOLICA.
Emanuele Casale, Pescara Studente di Psicologia. Ha svolto gli studi in pianoforte classico presso il Conservatorio Martucci di Salerno. Ceo e Fondatore del blog italiano multidisciplinare di Psicologia Complessa JUNG ITALIA (www.jungitalia.it). Si interessa attivamente a ricerche storiografiche e scientifiche legate alla vita e l'opera di Jung all'interno del panorama delle scienze umane. In aggiunta a ciò è attento agli sviluppi multidisciplinari della Psicologia Analitica contemporanea nel mondo.
Adam Belt, A religious Experience - Installation, 2012
L'inconscio e le luci
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«Vi è una sola certezza: nulla può spegnere la luce interiore.» (Carl Gustav Jung, lettera a Mary Mellon, 19 giugno, 1940) «La terra è posta in mezzo tra luce e tenebre.» (C.G. Jung – Psicologia e Alchimia) «Non c’è Luce se non quella che viene dalle tenebre.» (Zohar)
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a Luce è da sempre stata un simbolo della coscienza. Le comparazioni letterarie, religiose, antropologiche, mitologiche e psicologiche ci dimostrano sempre questo costante abbinamento luce-coscienza. Come ci ricorda Jung la “luce è l’equivalente simbolico della coscienza, e la natura della coscienza viene espressa da analogie con la luce”1 – e ancora – “le metafore da noi utilizzate per spiegare l’essenza della coscienza sono analogie tratte dal mondo della luce e della visione”2. Apriamo subito una parentesi sull’ombra, sull’oscurità, su questi due contrari (luce e oscurità), per poter alla fine unire il discorso e vedere come l’ombra è un tutt’uno con la coscienza, col fare sguardo, fare luce. Ad un livello sia fisico, che psicologico e filosofico, non possiamo conoscere la luce senza che ci sia qualcosa da illuminare, senza che ci sia un’oscurità, un’ombra. La luce ha senso – diceva Jung – solo in relazione all’ombra, solo se illumina l’oscurità. Non potremmo in effetti neanche vedere una luce se attorno non fossimo circondati da qualcosa che fa da contrasto alla luce stessa, ovvero dal buio, o quanto meno qualcosa tanto sostanziale così come lo è la luce ma dal suo versante opposto. È questo un tema fortemente archetipico. Dall’era dei tempi c’è sempre stata lotta tra luce e ombra, bene e male, e a tal proposito potremmo tirare in ballo la spinosa questione – tanto cara a Jung e agli gnostici – della privatio boni, ovvero della concezione – a mio avviso molto infantile – del male visto come una mera assenza del bene, analogamente potremmo concepire l’ombra come una mera assenza di luce, ma credo che nel fare ciò saremmo in
errore. Fu Jung a ricordare, sulla scia delle antiche tradizioni, che il concetto di male dovrebbe essere considerato alla stessa stregua del bene, ovvero come un’essenza ontologicamente reale così come il bene, che agisce così come il bene e che ha le sue leggi, per così dire. Che forse l’oscurità, o l’ombra, sia anch’essa una dimensione della realtà data non semplicemente dall’assenza di luce, ma con un suo statuto ontologico effettivo e di qualità diversa dalla luce? L’oriente, nella sua millenaria cultura, ha un simbolo per eccellenza per raffigurare questo fatto psicologico, ovvero l’unione degli opposti, di maschile e femminile, di luce e ombra, di bene e male. Tale simbolo è il noto taijitu, legato al Taoismo, più conosciuto come quel simbolo che raffigura l’unione del principio yin con quello yang. Il taijitu è un simbolo di significato cosmogonico, filosofico e psicologico enorme. Esso ci dimostra la danza degli opposti e di come in uno dei due elementi sia presente e agente l’elemento opposto, di come nella Luce sia presente l’Oscurità (l’ombra della luce), e nell’Oscurità la Luce (la luce dell’ombra), di come dal bene possa scaturire il male, e di come dal male possa scaturire il bene. Tutto ciò ha delle conseguenze enormi intuibili sul piano psicologico, pratico, clinico e psicoterapico3. In Occidente tale simbolo è sempre stato ben poco compreso e soprattutto sottovalutato in un suo aspetto che invece in Oriente è di primaria importanza: sto parlando del punto del simbolo dove i contrari entrano in relazione, si integrano. È in quella zona di confine, liminale, che è nascosto – per così dire – il significato più nucleare – ma mai esauribile – di questo simbolo, è questa zona di confine, di coniunctio, che interessa al nostro discorso qui. In questa una zona di confine dove due elementi sembrano integrarsi, toccarsi, sfiorarsi, avvicinarsi, comunicare, non vi è mai una netta distinzione tra i due termini, qui non è più possibile distinguere un nero da un bianco, la luce netta e distinta dall’oscurità più cupa e buia. Vi è in questa zona un offuscamento, una sorta di partecipation mystique tra gli elementi, perché vi è non solo una commistione degli opposti, ma anche
Emanuele Casale un’aggiunta di un tertium, di un elemento prodotto dalla sintesi dei due. Su questa zona liminale e di commistione degli opposti torneremo a breve. Introduciamo ora qui – per ricollegarci a quanto detto prima – il tema del fare coscienza, del fare luce, e di come spesso il fare luce può non essere inteso in accezione positiva, bensì negativa, distruttiva. Cosa significa? Che forse essere coscienti, fare luce, illuminare, può essere in qualche modo nocivo se fatto in un determinato modo, con determinate tempistiche? Ma certo. E questo la clinica e l’ambito psicoterapico lo sa bene. Un Io non pronto a fare luce su determinate zone d’ombra della propria personalità rischia di bruciarsi per la troppa luce, per il troppo aver fatto coscienza in maniera impropria. Ce lo spiega più propriamente Marie Louise von Franz, in questo passo tratto dal saggio Le fiabe del lieto fine4: « […] In genere si pensa alla luce a qualcosa di esclusivamente positivo. La luce è simbolo di consapevolezza: si dice di “essere illuminati” e che la “luce della consapevolezza ha colpito qualcuno”. […] Per certi contenuti dell'inconscio, la luce della coscienza non ha una funzione positiva bensì distruttiva. È qualcosa che tutti gli analisti e i futuri analisti dovrebbero comprendere appieno. È un motivo archetipico, quindi molto frequente e importante. La consapevolezza è distruttiva e provoca la separazione nell'ambito di una certa sfera, chiaramente identificata con quella dell'Eros. È qui che la luce della coscienza può avere un effetto totalmente distruttivo (...). Naturalmente, l'intervento della luce è legato al fatto che essa è stata introdotta prematuramente. (...) Se improvvisamente si sposta una pianta e la si espone alla luce del sole, essa avrà un trauma; proprio come una prolungata esposizione ai raggi solari può essere molto dannosa. (...) Se l'intelletto non dice "mi sembra così", ma è accompagnato da quel sottile atteggiamento psicologico che dice "io so che si tratta di questo e di nient'altro", allora questa sfumatura introduce un elemento diabolico che distrugge ogni cosa, specie ciò che sta crescendo.» Dunque possiamo qui capire bene come esiste
un tipo di fare coscienza che può essere dannoso. Una volta Jung disse “Siate coscienti, ma non troppo”, volendo indicare proprio il pericolo dell’inflazione della coscienza. Laddove si è molto coscienti si produce anche una zona d’ombra altrettanto enorme. Come ben ci ricorda Hillman: “l’Io forte ha l’Ombra forte, la troppa luce produce il buio intorno”5. E ancora – “Per ogni scintilla di luce che strappiamo all’ambivalenza archetipica, illuminando con la candela nel nostro Io un chiaro cerchio di consapevolezza, contemporaneamente rendiamo più buio il resto della stanza. Nell’istante in cui accendiamo la candela, creiamo «le tenebre fuori», come se la nostra luce fosse un furto, una sottrazione di paradossale luce archetipica alla penombra crepuscolare. Coscienza e inconscio nascono insieme come polarità dall’originario stato crepuscolare; e nascono insieme sempre e ogni volta. Pertanto, il processo del «rendere conscio» rende anche inconscio, ovvero, come Jung stesso ebbe a esprimere questa intrattabile verità qui a Eranos: «Si giunge così alla paradossale conclusione che non esiste contenuto della coscienza che non sia inconscio sotto un altro aspetto. E forse non esiste neppure psichismo inconscio che non sia al tempo stesso conscio»”.6 Possiamo qui notare un apparente contraddizione o paradosso. Ma per chi ha dimestichezza coi contenuti dell’inconscio sa bene che la quasi totalità delle dinamiche psichiche inconsce contengono i paradossi più assurdi, gli stessi riscontrabili parallelamente nel mondo subatomico studiato dalla fisica quantistica. Come a dire, per mantenere l’analogia, che la luce è sia corpuscolare che ondulatoria, alla stessa stregua di un contenuto psichico che può essere da un lato illuminato dalla luce della coscienza e al tempo stesso inconscio e in ombra da un altro versante. E come ci si dovrebbe interfacciare con questa natura duale della psiche? Come potersi posizionare di fronte ad un atteggiamento eroico e solare di una coscienza che fa luce, e al tempo stesso tenere in considerazione che più luce facciamo più ombra e oscurità stiamo creando?
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L'inconscio e le luci Ad indicarci una via in tal senso sembra essere Jung. Parlavamo prima dei diversi tipi di coscienza. Ecco che qui mettiamo in campo un tipo di fare coscienza altro, diverso dall’ordinario. È un tipo di coscienza che conosciamo molto bene – in fondo – in quanto specie umana, e che continuiamo ad usare quasi sempre involontariamente, quando dormiamo, al risveglio, in stato di rilassamento o di armonia profonda: sto parlando della coscienza simbolica. È l’analista Elena Caramazza a ricordarci questo importantissimo contributo che Jung ci lascia in vari suoi saggi e in particolare lo ricalca nelle Conferenze di Basilea7, un testo che ancora deve essere edito per il pubblico. Nella interessantissima prefazione che la Caramazza scrive alle Conferenze, sottolinea di come è curioso notare in Jung “il concetto di ‘relatività’ della coscienza, poiché mette meglio in luce come essa possa avere diversi gradi di intensità e di estensione e come la sua attività sia intermittente e discontinua, mentre l’attività dell’inconscio è costante nel tempo, in quanto, anche in stato di veglia, continua a tessere, per così dire, “il suo perpetuo sogno”. Successivamente, sempre la Caramazza, sulla scia di Jung, ci ricorda come è proprio nell’inconscio, nella sua oscurità più profonda, a nascondersi una luce della coscienza, un lumen che è però diverso da quello della coscienza diurna, solare. Entra qui in gioco la coscienza simbolica. L’autrice ipotizza che la coscienza simbolica potrebbe servirsi, in modo privilegiato, della funzione dell’intuizione definita da Jung come una facoltà di “percezione per via inconscia”, che “sicuramente si serve di percezioni che sono subliminali, ma che sembra anche prescinderne, quando per esempio ci dà informazioni su cose che sono lontane nello spazio o nel tempo.” (ibidem) Ciò che risulta chiaro è che questo fare coscienza altro, questa coscienza simbolica, non opera come la coscienza razionale ordinaria, la stessa coscienza razionale con la quale pretendiamo di esplorare – molto maldestramente – anche i fatti dell’inconscio, i suoi prodotti, le sue manifestazioni (sogni, immagini, simboli). È un operare, quello della coscienza simbolica, che avviene credo proprio
in quella zona liminale, di confine – che abbiamo già citato –, dove si intersecano contenuti consci e inconsci, un fare coscienza più lunare e offuscato, un rimanere con gli occhi aperti ma non troppo, un mettere a fuoco gli oggetti in maniera si distinta, ma non troppo, in modo tale da riuscire a vedere più che i contorni differenziati degli oggetti, invece i punti di commistione e di contatto tra loro, quegli stessi punti nei quali lo yin e lo yang, nel simbolo del taijitu, entrano in contatto, si sfiorano, si legano, mantenendo pur sempre il loro statuto ontologico eppure creando un tertium nuovo. Questo tipo di coscienza era già conosciuto all’anziano Lao Tzu, che la indicava in questi termini: “Abbassa la luce, diventa tutt’uno con il mondo opaco” O ancora quando dice: “Tutti sono chiari, io solo sono offuscato” Si, perché si tratta di un fare sguardo con occhi semi aperti, degli occhi che dovrebbero riuscire a cogliere i chiaroscuri che appartengono ad ogni realtà, interiore ed esteriore, una coscienza che potremmo anche definire lunare. Proprio Jung infatti descrive questo particolare tipo di luce lunare in questi termini: «La sua "luce" [il simbolo lunare] è la chiarezza più dolce della luna, che unisce invece di distinguere. Diversamente dalla dura e penetrante luce del giorno, essa non fa risaltare nella loro differenziazione e separazione implacabili gli oggetti del mondo che non bisogna confondere tra loro, ma unisce nella sua magica luminosità ciò che è vicino e ciò che è lontano, ingrandisce ciò che è piccolo e abbassa ciò che è elevato, attenua i colori in un semi-chiarore bluastro, e fonde il paesaggio notturno in una irreale unità»8. Una coscienza dunque che al pari della coscienza razionale ordinaria, è necessaria per il processo di individuazione, ma anche per addentrarci nel materiale onirico dove sono presenti in gran numero quelle zone liminali di cui abbiamo parlato poc’anzi. È una coscienza più adatta ad una coniunctio oppositorum [congiunzione degli opposti] e quindi che fa da preludio e da tappeto alla funzione trascendente di cui Jung ha tanto parlato e insegnato ad utilizzare anche in ambito psicoterapico.9
Emanuele Casale E dunque giungiamo alla conclusione che parlare e trattare di luce senza tener conto della sua controparte che è l’oscurità, l’ombra, non avrebbe tanto senso. Anche nella pratica analitica e più in generale in ambito psicologico, Jung ben ci ricorda che “Non si diventa illuminati immaginando scenari di luce, ma portando alla luce – o alla coscienza – le oscurità interiori”. In altre parole, è necessario che la luce dell’ombra, dell’inconscio, che posa sul fondo dell’inconscio, sia almeno riconosciuta, guardata, in parte integrata, all’interno della personalità cosciente. Nel far questo – e qui mi riferisco sia alla vita generale individuale sia all’ambito strettamente analitico – è sempre Jung a ricordarci di un passaggio importantissimo, ovvero che “in questo confronto tra conscio e inconscio, massima deve essere la cura a che la luce che brilla nell’oscurità non solo venga compresa dall’oscurità, ma che essa stessa comprenda l’oscurità”10. Stiamo qui riconsegnando un valore ontologico e di tutto rispetto anche a quell’oscurità che ci abita, su cui sussistiamo e forse grazie alla quale ci rinnoviamo, a quella luce dell’ombra a cui tradizioni millenaria hanno fatto riferimento. Andando in quell’oscurità dell’inconscio si può scoprire infatti, paradossalmente, che “l’inconscio non è solo buio ma anche luce”11, una luce che forse proviene dal rischiarare le tenebre stesse che la contengono, come a dire che forse l’unica vera luce “è quella che viene dalle tenebre”12. Ed è un “gran lavoro, trarre il raggio dall’ombra”13 «E la vita era la luce degli uomini e la luce splende nelle tenebre» (Giovanni I.4, 5)
Bibliografia e note 1.C.G. Jung & R. Whilelm. (1929). Il segreto del fiore d’oro. Un libro di vita cinese, p.44. Torino: Bollati Boringhieri, 2001 2. C.G. Jung. Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario tenuto nel 1934-39. Vol. 4. Torino: Bollati Boringhieri, 2013 3. C.G. Jung. (1959). Bene e male nella
psicologia analitica. Opere Vol. 11, tomo 1. Torino: Bollati Boringhieri 4. Marie Louise von Franz. (1997). Le fiabe del lieto fine: psicologia delle storie di redenzione. Como: Red, 2004 5. James Hillman. (1999). Puer Aeternus. Adelphi. 6. Ibidem, p.77 7. Testo ancora inedito al pubblico. Edito solo in forma privata. Introduzione alla psicologia analitica. Le conferenze di Basilea (1934) di C.G. Jung. Edizioni Moretti & Vitali. 8. C.G. Jung. (1955-56). Mysterium Coniunctionis. Opere, Vol.14, p.220. Torino: Bollati Boringhieri 9. C. G. Jung (1916-58). La funzione trascendente. Opere Vol. 8; 10. C.G. Jung. (1952). Risposta a Giobbe, p.174, Torino: Bollati Boringhieri, 2003 11. C.G. Jung. (1935). Pratica della Psicoterapia. Opere Vol. 16. Torino: Bollati Boringhieri 12. Tratta dallo Zohar 13. Ermete Trismegisto
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di MICOL PERFIGLI
INDIGITAMENTA DIVINITÀ FUNZIONALI E FUNZIONALITÀ DIVINA NELLA RELIGIONE ROMANA. PREFAZIONE DI JOHN SCHEID. QUESTO
LIBRO STUDIA LE DIVINITÀ MINORI, UNO DEGLI ASPETTI PIÙ OSCURI ED AFFASCINANTI E INSIEME UNA
PECULIARITÀ DELLA RELIGIONE DEI
ROMANI. ESSO
VUOLE QUINDI INDAGARE SULLA FOLLA NUMEROSISSIMA DI
DEI, DEPUTATI AD ASSISTERE L’UOMO IN OGNI MOMENTO DELLA SUA ESISTENZA, DAL CONCEPIMENTO ALLA MORTE.
QUESTE DIVINITÀ, NOTE ALLA TRADIZIONE COME DEI DEGLI “INDIGITAMENTA”, CI SONO TESTIMONIATE PADRI DELLA CHIESA, CHE NELLA LORO FEROCE CAMPAGNA ANTIPAGANA APPAIONO INTERESSATI A METTERE IN RIDICOLO LA RELIGIONE ROMANA ED ELENCANO QUESTE DIVINITÀ CON FINI POLEMICI. LO STUDIO E L’INTERPRETAZIONE DELLE FONTI ANTICHE È SEGUITO DA UNA RICERCA DI STORIA CULTURALE CHE METTE IN DISCUSSIONE LA PRESUNZIONE DEI MODERNI DI RACCONTARE L’IGNOTO A PARTIRE DAI POCHI DATI ANTICHI EFFETTIVAMENTE CONOSCIUTI. PER LO PIÙ DAI
INTERVISTA A MICOL PERFIGLI di Luca Urbano Blasetti
MICOL PERFIGLI, FILOLOGA E DOTTORE DI RICERCA IN ANTROPOLOGIA DEL MONDO ANTICO PRESSO L’UNIVERSITÀ DI SIENA. AUTRICE DEL LIBRO: INDIGITAMENTA, DIVINITÀ FUNZIONALI E FUNZIONALITÀ DIVINA NELLA RELIGIONE ROMANA.(EDIZIONI ETS).
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L
’incontro con il testo della Perfigli dovrebbe essere un passo obbligato per uno psicologo a orientamento archetipico. Già dal titolo si avverte la sensibilità della fine ricercatrice nei confronti di una mitologia come “funzionalità psicologica”. Sempre fedeli all’idea che la psicologia Complessa si deve rifare alla massima secondo cui “non esistono libri di psicologia ma letture psicologiche dei libri”, abbiamo incontrato la Perfigli in un caffè antistante il porto antico di Genova per attingere alla filologia come fonte di descrizione della psiche, una filologia che ci aiuta a descrivere il metodo che si fonda sull’Ontologia delle immagini e sul Ta-wil. Il lungo viaggio verso Genova ha riempito di immaginari l’incontro che ci sarebbe stato. Poi, in questa folla di immagini, l’incontro nella realtà ha disperso gli immaginari lasciando il semplice spazio di incontro tra due fedeli agli dèi che hanno parlato sotto la loro egida, con semplicità e leggerezza. Un incontro che ha onorato gli dèi attraverso sapienti e pacate invocazioni.
La scuola junghiana poggia su due frasi importanti. Una di queste recita: “Gli déi sono diventati malattie”. Cosa ne pensa? Gli dei sono diventai malattie Tutto è pieno di dei (Talete) La caduta degli dei (da Shakespeare a Visconti) Gli dei sono come le cipolle (Tertulliano) È conveniente che esistano gli dei, e, siccome è conveniente, lasciateci credere che esistano (Ovidio) Restiamo silenziosi in modo da poter udire i sussurri degli dei (Emerson) Siamo troppo in ritardo per gli dei, troppo in anticipo per comprendere l'Essere (Heidegger) La funzione essenziale dell'universo, è che è una macchina per fare degli dei (Bergson) Monoteismo della ragione e politeismo dell'immaginazione (fr. Hegel) Potremmo divertirci a lungo in uno scambio erudito di citazioni note che hanno attraversato la cultura occidentale, in letteratura, poesia, filosofia e psicologia; espressioni divenute aforismi ma che nel contesto in cui sono state pronunziate hanno permesso di formulare riflessioni che andavano ben oltre la primigenia essenza della parola 'dio', o meglio del suo plurale 'dei'. Gli dei, è noto, al di là del loro dimensione religiosa (i culti, le feste, i rituali, le funzioni); del loro spazio narrativo (le storie, le genealogie, le relazioni divine, le ierofanie), della loro rappresentazione artistica (nelle statue, negli affreschi e nei dipinti, nei mosaici), del loro significato antropologico, sono -e sono stati- 'categorie di pensiero'. Questo è tanto più vero quanto più si pensa alla nostra tradizione classica. In Grecia e ancor più a Roma gli dei sono un 'modo' per ordinare il mondo, per identificare ciò che deve essere evidenziato. Perché a Roma più che in Grecia? Perché molti dei conservano nel loro nome la trasparenza della loro funzione, del loro 'motivo' di essere pregati: Lucina da lux; Candelifera da candela ferre, Angerona da angere, Nona da nonus, Rumina da ruma, Manturna da mantare, Cinxia da cingere etc. etc. Qui abbiamo già un esempio chiaro: c'è una dea con il compito di 'portare alla luce' il nuovo nato ed una di 'illuminare' la stanza per rendere più facile il compito all'ostetrica; c'è una dea che protegge da quel difficile stato di soffocamento, sia che esso sia d'origine fisica o di natura psicologica, e una dea che invece protegge madre e figlio in quegli ultimi delicati mesi di gravidanza come oggi si chiede di fare ad uno dottore specializzato in ostetricia; c'è poi la divinità che presiede all'allattamento e una la cui presenza vigile assicura che la sposa mantenga fede alla promessa fatta; ma ci sono anche divinità la cui funzione s'insinua nell'intimità dei coniugi, perché in una società come quella romana, governata da familiae e fondata sul valore di appartenenza ad una gens, una buona attività sessuale matrimoniale non solo garantiva il proseguimento della stirpe ma assicurava anche il mantenimento della struttura sociale. Il politeismo (i molti dei) è anche questo: la rappresentazione religiosa di una complessità; una
Michael Kenna, Full Moonrise Chausey Islands France 2007
66 sacralità che è il 'fissare', il 'calcare' alcuni tratti di realtà, in modo che il contorno permetta la delimitazione di stati, ruoli, azioni, che altrimenti si confonderebbero, non permetterebbero di ancorarsi alla propria umanità, alla propria cultura, alla propria dimensione sociale. Anche questa possibilità interpretativa è contenuta nell'affermazione di Jung o altrimenti è su questa polisemanticità del termine theoi che è possibile interpretare ciò che ci voleva dire il padre degli archetipi. Ed è per questo che questa sua richiesta mi porta a scegliere di definire il significato di 'dèi' declinandolo sul secondo elemento, 'malattie'. Malattia o altrimenti patologia? Qui il tema si fa davvero interessante perché se partiamo da un primo livello, quello etimologico, la pathologia è un 'discorso', un 'logos'. Come possiamo metterlo in relazione con l'altro termine, theoi, che ci riporta immediatamente all'oppositivo mythos? Il significato dell'espressione junghiana non contiene contraddizione, inverosimilità di ragionamento, tutt'altro. La pathologia, il discorso sul pathos, sulla sofferenza, è la forma visibile, individuabile, comunicabile che ha sostituito la narratività sfuggente del mythos. La sofferenza è 'raccontabile' dal mito, ma in altri termini, è una modalità molto diversa da quella del discorso razionale. Il 'logos' può definire la sofferenza circoscrivendola, descrivendola: il sintomo si fa segno identificabile e riconducibile ad una tassonomia. E gli dei come sono da intendersi se detti malattie? Il politeismo nel mondo e nella cultura precristiana, ha rappresentato un modello per pensare e pensarsi attraverso una 'mediazione'; un sistema religioso che sapeva coesistere con la riflessione scientifica, con quello filosofica, con quella storica. Le diverse possibilità non si escludevano ma si compenetravano o semplicemente coesistevano. 'Caduti gli dei' è venuta meno la loro mitologia ma non le mitologie ed è qui che s'insinua la patologia: un bisogno di mitologie che si fanno malattie; la patologia d'altronde esprime l'indicibile, parla attraverso segni, è interpretabile da sintomi (che sono segni). Qui i nuovi dei rappresentano i mali inespressi ed è per questo che sono avvertiti come malattie: è il malessere che si trasferisce su di noi. La malattia d'altronde, sosteneva Hillman, può essere pensata e vissuta come la nostra possibilità di tornare agli dei, non come fede ma come rapporto con l'esistente. C'è un libro bellissimo, recente di Maurizio Bettini, Elogio del politeismo. Nel sottotitolo si può cogliere il messaggio che potremmo e dovremmo saper fare 'imparare dalle religioni antiche'. È uno studio serio e piacevole su come funzionava il sistema religioso politeista e le sue grandi possibilità di descrivere e accettare la complessità del mondo. Ed è ciò di cui oggi abbiamo più bisogno.
“Abbiamo bisogno di una nuova angeologia delle parole, per poter avere di nuovo fede in esse…Abbiamo bisogno di ricordare l’aspetto angelico della parola, di riconoscere le parole come portatrici autonome di anima tra una persona e l’altra… Le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile. Sono presenze personali dotate di intere mitologie…Perché le parole sono persone”. Si, condivido appieno. Anche qui la sottile invisibile, ma potente, trama del comunicare tra persone mi suggerisce una riflessione comparativa. 'Le parole sono pietre' è una formula che ha accompagnato la mia primigenia sensibilità… la frase rivela il peso della parola che non può essere dimenticato, mai. Se pensiamo alla Pragmatica della Comunicazione, un cavallo vincente del novecento, che molto ci ha fatto riflettere, non solo in ambito psicologico, ma sociologico, antropologico e in molti ambiti ancora non possiamo non dire che le 'parole' fanno, sono un prassein che è agire, toccare, muovere, produrre. Altro non è che quello che lei ha espresso in modo più poetico: 'angeologia', un'annunciazione che suggerisce non solo un dirsi ma anche un anticiparsi. D'altronde la parola, come ora, tra noi, apre porte, sviluppa concatenazioni di pensiero.
67 Porta lontano da dove si è. L'incontro non è mai un luogo neutro. È relazione, un legame che prima non c'era e che ci modifica irrimediabilmente. Ma la relazione è parola, parola dell'altro.
Questa frase è di Hillman che ha rivalutato il politeismo greco dopo Jung. Non le sembra molto più vicino a Varrone? Varrone non so se si sarebbe identificato o assomigliato a Hilmann, ne avrebbe certamente subito il fascino, per il sapore che ha: gli avrebbe ricordato forse una certa 'filosofia greca tarda, di matrice neoplatonica. Varrone è un erudito e conosce la riflessione neoplatonica sul linguaggio. Anche questo è il suo legame con le parole. Utilizza spesso l'etimologia che per un uomo del suo tempo, della sua cultura e della sua formazione è uno strumento di ricerca della verità. Varrone può essere considerato in questo 'campo' uno degli ultimi portavoce dell'antichità della teoria naturalistica del linguaggio. Il grande dilemma sul linguaggio nel mondo classico è quello posto da Platone nel Cratilo: il linguaggio è νόμωι o φύσει? Ha un'origine convenzionale o naturale? Le parole contengono l'essenza delle cose? Per Varrone ricercare il perché, il significato, l'essere al mondo delle cose è indagare il segno che la rappresenta, in un'identità tra nomen e omen. È, come erudito, interessato alla tradizione e certo subisce il fascino del rifondare l'identità romana, propria del suo tempo, che spazio e seguaci avrà sotto Augusto. Ma lo fa in modo diverso da Virgilio: il mito per lui è comunque un 'problema' non solo culturale o sociale, ma soprattutto antropologico e filosofico. La sua preziosa e perduta opera, le Antiquitates rerum humanarurm et divinarum offre un interessante riflessione a questo proposito. Abbiamo purtroppo solo frammenti, ma possiamo porre alcuni accenti. In primo luogo che le res divinae vengono dopo le res humanae: sono gli uomini che foggiano gli elementi religiosi (e questo non è necessariamente un mettere in discussione la loro verità) perché essi hanno un' importantissima funzione sociale. Detto questo, sottolineata la loro importanza e antropocentricità, Varrone cerca la funzione, il valore sociale, l'autenticità dei fenomeni (divinità, feste, luoghi, attori). Riguardo agli dei è esemplare che che ci sia una sezione di dei certi. È la loro trasparenza, la loro immediata comprensibilità linguistica, che ne garantisce la 'certezza'. L'analisi sul teonimo, tra linguaggio e pensiero, come dicevamo all'inizio, ha una lunga e solida tradizione nell'antichità. Per Varrone ci sono due ragioni a questo proposito. Nelle Antiquitates c'è la volontà di un erudito e di un intellettuale di raccogliere, organizzare, studiare le tradizioni romane (umane e divine) con un interesse antropologico e una riflessione storica, filosofica, insomma con uno sguardo complesso. C'è poi lo strumento, il metodo, che è storico, filosofico, ma anche filologico. L'analisi della parola (che sia una parola comune, un nome proprio, un teonimo è indifferente), che ritroviamo appieno anche nel De lingua latina, è uno strumento autorevole per Varrone.
Sapir & Whorf Parlarono di determinismo linguistico. Le sembra ci sia qualcosa in comune con l’idea emergente nel politeismo romano in merito ai bambini come vaticinio e di funzioni psichiche primarie a cui gli dei rimandano come nomi udibili nei primi vagiti? Qui le cose si complicano. Ci sono due ordini di problema da sciogliere nella sua domanda. C'è da un lato un tema antico che è quello dell'origine del linguaggio. Un tema affascinante che nasce con le prime riflessioni dell'uomo su se stesso. Il primo ordine di problema è l'esistenza di una lingua originaria o diversamente della presenza diffusa di più lingue. Il secondo ordine invece riguarda una 'nostra', tutta umana, tendenza a identificare con certi suoni certe cose. Insomma, una teoria naturalistica più 'evoluta' che indicherebbe che indipendentemente dall'imitazione noi emetteremo suoni modellati su cose.
68 Oggi sappiamo che le lingue sono molte, ne contiamo oltre seimila; con strumenti di indagine accurati le possiamo censire una per una; questa proliferazione di lingue diverse era evidente anche nel passato, si tratta di una diversitĂ singolare, perchĂŠ non ha nulla a che fare con l'ambiente naturale in cui ci troviamo. Non credo si voglia qui discutere l'aspetto scientifico dell'origine del linguaggio, nĂŠ la sua funzione sociale, ma credo tu sia interessato all'originaria riflessione antropologica su di esso.
Michael kenna, Eleven Hours Eastlands. New Zealand 2014
Michael Kenna - Swan Reflection, Lyme Regis, Dorset, England 1977
È un tema, quello della glottogonia, che ha da sempre destato interesse. Ricordiamo ad esempio che nelle Storie Erodoto, curiosissimo e appassionato scrittore greco del V secolo, evidentemente convinto della grande importanza che aveva la diversità delle lingue nel costituirsi delle diversità tra i popoli, racconta l'esperimento fatto da un potente faraone. Presi due bambini, dopo averli nutriti e allevati nelle prime settimane di vita al di fuori di ogni contatto con esseri umani, impedendo dunque qualsiasi imitazione e, come direbbe Vigostky, qualsiasi origine sociale del loro parlare, andò a verificare quali parole pronunciassero. I bambini, a un certo punto, pronunciarono la parola becos, che in frigio, una lingua dell'Oriente antico, una delle tante lingue dell'attuale Turchia, vuole dire "pane", Erodoto ci spiega: sitos. Così si stabilì in modo incontrovertibile che il frigio era la lingua primigenia dell'umanità. E veniamo agli dei come Vagitanus, Fabulinus, Locutius dei che presiedevano i primi suoni e le prime parole dei bambini, l'articolazione del linguaggio. Sono momenti essenziali per una comunità: vagitare, parlare, comunicare. Sono testimonianza di vita, sanità, possibilità (e non lo sono oggi, nell'apprensione eterna di una nuova vita e di una complessa
crescita?): il nuovo nato è vivo, emette vagiti, il bambino impara a parlare, fa progressi; elementi di un'importanza senza confronti per l'uomo. La parola ha molte divinità. I Romani, che sono abili nell'adottare, interpretare, accogliere divinità straniere, fanno proprio anche Hermes che è chiamato a Roma Mercurius. Macrobio ci dice che esso è 'dio della voce e della parola (sermo)', il sermo è una parola più avanzata del vagito o della semplice favella infantile. La parola è uno di quei territori che va circoscritto come 'importante' 'significativo'; il linguaggio è scandito da vari livelli di appropriazione e ognuno deve essere rilevato, identificato. Le divinità poste a presiedere questi stadi di proprietà sono molte. Non è una sacralità della parola in termini misticheggianti ma una vera e propria differenziazione prescientifica. Ogni momento, ogni progresso, va identificato. E i teonimi ne conservano la traccia. In merito alla proiezione e al fatto che ogni produzione umana, materiale, astratta o psichica sia proiezione della psiche, lei ritiene che gli déi siano una tra le proiezioni o costituiscano funzioni rivelate da cerimonieri esterni? Gli dèi sono una produzione culturale, è indubbio, per uno storico della religione, per un antropologo del mondo antico. Ma lo sono anche per un uomo del tempo politeista. Pensiamo a Varrone, che abbiamo sopra ricordato, e che è il testimone di molte divinità romane, nella mediazione di Tertulliano, Agostino, Lattanzio, dei molti cristiani che per sminuire la religione politeista ricordano con presunzione ed ironia i suoi dèi. Non parlerei di 'cerimonieri esterni' se non restituendo alla figura dei sacerdotes e in particolare dei pontefices l'autorità in materia di dei. In una prospettiva emica, nello sguardo interno alla cultura di cui stiamo parlando, i pontefici sono il pons (giocando alla maniera di Varrone con possibili etimologie o paretimologie): sono il tramite tra la religio e la comunità; sono depositari di ciò che è lecito e ciò che non lo è in ambito religioso, detengono la norma e il sapere (ricordiamo che nel mondo romano la separazione tra religione e vita sociale dimensione anche e soprattutto politica- non c'è). Sono loro i principali indigitatori (conoscono le divinità, le onorano, le foggiano, ne garantiscono esistenza, sopravvivenza o dimenticanza). In questo sono i rivelatori. Nulla di avvolto nel mistero, se non quello dell'irrimediabilmente perduto per il tempo e per le fonti mancanti. Gli dèi sono il modo di indicare una strada per contenere, affrontare, focalizzare. Sono le divinità nella prospettiva della theologia civilis, secondo la fortunata formula varroniana. Agostino nel De civitate Dei (VI libro) ci conserva: 'chiamano civile il genere creato dagli Stati… ed è quello di cui i cittadini e soprattutto i sacerdoti devono conoscere la funzione. Gli spetta stabilire quali dei si devono adorare pubblicamente, i riti, i sacrifici che si devono compiere secondo le rispettive competenze'. Questo fanno i sacerdotes, danno forma e parola a ciò che di cui una comunità ha bisogno (in termini materiali, intellettuali, emotivi, psichici). Indigitare è Parola – Dio – Agito o tre cose distinte? Indigiare è un'azione questo ho cercato di mostrarlo nel mio libro; è difficile porre qui un'equazione in una prospettiva etica: si diceva 'indigitare' ciò che per noi è 'x'. Non si può fare, studiare il mondo antico è anche questo. Che non è un arrendersi, ma considerare il limite. Possiamo tentare di restituire un significato ad un termine. È però importante recuperare fin da subito la sua funzione linguistica. Per i Romani è un fare, un fare con la voce. Indigitare è un fare con la voce che permette di restituire il corretto ambito di competenza alla divinità. È conoscerne e conservarne la funzione. È indicare un'appartenenza culturale. Quel dio entra negli indigitamenta se ha una sua competenza specifica. Ricordiamo che gli dei del politeismo romano non sono assolutamente una trasposizione delle divinità greche a Roma. La religione romana sa far proprie le divinità straniere anche attraverso lo strumento offerto dall'indigitare. Apollo è un dio greco ma entra negli indigitamenta romani, è indigitatus perché se ne riconosce la funzione. Il dio ha una funzione (ratio) e per rispondere deve essere chiamato con il suo nome (per usare una curiosa metafora dello studioso inglese, Ogilvie: gods like dogs), che spesso ricalca la competenza. Questo, tutto questo, è dentro indigitare.
71 Secondo lei perché il politeismo ha mosso nella direzione degli dèi maggiori a scapito degli dèi “certi” , fino al monoteismo? Qui è difficile rispondere se non ammettendo una riflessione che è anche intuitiva. Va detto subito che ogni tempo interpreta o reinterpreta: a lungo, è vero, negli studi di storia della religione si è 'voluta riconoscere' una direzione monoteista: dai molti all'uno. Le fonti però, che sono il nostro strumento di verità, al di là dell'interesse interpretativo non rivelano questo genere di evoluzione o involuzione, a seconda del punto di vista. Noi raccogliamo molte divinità funzionali, chiamate da Varrone dei certi grazie alle testimonianze più tarde. Molte sono nominate sotto l'autorità di Varrone, molte le rintracciamo con il nostro retino da farfalle in opere distribuite lungo tutta l'antichità: ci sono divinità come Lucina che è ben documentata già nel periodo arcaico; dee come Angerona che troviamo attestata nel periodo repubblicano ma nulla esclude, visto il suo posto nel calendario, che non fosse celebrata da prima (nella fluidità della sua funzione tra corpo e anima); c'è una dea come Epona che rintracciamo solo in epoca più tarda e poi ci sono divinità come le note divinità agricole che per quanto 'raccolte' dal commentatore Servio facevano parte del Sacrum Ceriale che è festa ben più antica. Quello che vorrei sottolineare è che c'è una certa difficoltà ad affermare che all'origine ci fu un proliferare di dei che andarono via via estinguendosi a favore di un progressivo razionalismo divino. Anzi a volte pare il contrario. Molti dei sono attestati da autori cristiani che provengono dalle provinciae romanae ed è cosa nota che i territori decentrati a volte sono maggiormente conservativi. Agostino, un autore cristiano ci dice che 'questi molti dei sono da loro (i Romani) adorati, prima in pubblico e tutt'ora in privato' …. io stesso ho visto simili riti in onore di simili dei '(DCD IV 1). Tertulliano è figlio di pagani, ha genitori che hanno familiarità con il politeismo e forse è per questo che il suo Ad nationes è così ricco di preziose informazioni sugli dei certi. Quello che citi è un approccio primitivista, evoluzionista, che non ci restituisce il vero funzionamento della religione romana. Non è un 'muovere verso', è un altro genere di movimento che si è verificato, che è stato storico, politico, culturale. Ad un certo punto sono cambiati i centri di potere e le esigenze sociali. C'è stato uno scontro tra mondi che poi si è attualizzato anche sul piano culturale e religioso.
La filologia va a ritroso per mezzo anche dell’etimologia fino alle origini dei documenti. La religione mazdea come ci racconta Corbin, impiega il Ta-wil ossia il ritorno all’ontologia dell’immagine. La psicologia archetipica va a ritroso verso l’archetipo dell’immagine. Jung cita Usener. Noi consideriamo le immagini e le parole come le due forme in cui si presentano gli archetipi. Cosa può dare la psicologia alla filologia e viceversa? La filologia è una scienza che nasce durante l'Umanesimo, siamo nel lontano tempo di Petrarca (che cita e conosce il nostro Varrone). La filologia ed è strumento di verità, di conoscenza, di recupero senza intermediazione, per liberarsi da possibili manipolazioni. Il testo è il punto di partenza e di arrivo. Il ritorno agli antichi ebbe il grande ruolo di prendere consapevolezza della pluralità delle visioni del mondo, della loro parzialità, e quindi della necessità di stabilire dei rapporti: le comparationes tra gli autori ne sono un esempio significativo. Certo ne nasceranno, faticosamente, diverse linee interpretative: la concordia universale nell’unica verità di fondo (G. Pico della Mirandola); la irriducibile discordia, per l’incapacità della ragione di giungere per sé alla verità (G.F. Pico della Mirandola e le correnti scettiche); lo sviluppo storico di una verità che si conquista nel tempo (Machiavelli), ma quello che va sottolineato è che fin dalle origini il recupero dell’antico e il lavoro critico che l’accompagnava devono essere considerati non fini a sé stessi, ma in stretto legame con una funzione che dal sé va verso gli altri. Forse basta questo per coglierne il profondo significato. Nessuna scienza fa da sé, ogni scienza, in particolare quelle humanae, che dall'uomo tornano all'uomo, hanno una grande importanza l'una per l'altra. E torniamo così alla 'parola', al 'linguaggio', alla riflessione su di esso.
72 Il suo è un approccio sociologico al politeismo. Lei legge negli dèi e nelle loro funzioni il modo in cui i romani vedessero la realtà. Noi leggiamo negli dèi la struttura della psiche in un preciso stadio evolutivo. Gli dèi sono per lei espressione della realität per noi della wirchlickeit. La mia risposta qui non può che riallacciarsi a quanto detto sopra. La mia è un'indagine ed è un'indagine parziale. Questo nostro dialogo testimonia che prospettive diverse possono incontrarsi. Io sono partita da una cornice storico-filologica con un obiettivo che era quello di restituire un significato al termine indigitamenta. Per fare questo era necessario capire quali fossero gli oggetti su cui si esercitava l'azione dell'indigitare. E mi sono trovata a redigere liste, ad organizzarle, a ridare un significato ad ogni teonimo ad individuarne la ratio. Il puzzle ha così restituito un'immagine. Il punto di partenza degli psicologi, degli psicoterapeuti come voi, è diverso dal mio. E dunque è naturale che lo sia anche il punto di arrivo. Ed è per questo che per me la direzione, il primo slancio è in Hermann Usener e nei suoi Götternamen. Jung è un affascinante pensatore che guarda agli dei, ma a loro pone domande diverse dalle mie. E a lui, come a me, gli dei rispondono in modo diverso.
"Eppure nel gradevole scambio che abbiamo avuto di fronte al porto antico di Genova ho avuto l'impressione che gli dèi ci avessero condotto, per vie diverse, ai medesimi punti di arrivo. Quindi, ringraziandoti, auguro buon viaggio a tutti i pensatori, ci ritroveremo dove gli dèi ci condurranno... secondo necessità."
Michael Kenna - Brooklyn Bridge, Study 2, New York, USA
Michael Kenna - Mary Poppins Over Midtown, New York, New York, USA, 2006