Periodico telematico quadrimestrale a carattere tecnico-scientifico di Psicologia con sede a Chieti in Via Vicoli, 11
Direttore Responsabile: Michele Mezzanotte Proprietario: Valentina Marroni Editore: Ass. L'Anima Fa Arte Web Master: Matteo Colangeli Curatore: Valeria Marroni Iscrizione al Tribunale di Chieti n.6
La collaborazione è aperta a tutti gli studiosi. Gli eventuali articoli (max 20000 caratteri spazi inclusi) e i libri per le recensioni vanno inviati alla redazione: info@animafaarte.it
Immagine di copertina: Foto modificata presa dal Web
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Rivista di Psicologia Quadrimestrale www.animafaarte.it N.2 Maggio 2013
INDICE EDITORIALE, p.3
• Michele Mezzanotte Disillusioni Notturne p. 5
• Gianpio Colarossi LA VERGINE AFRODITE - PIENA DI GRAZIA P. 11
• Luca Urbano ESTROIEZIONE: PER UNA TEORIA EVOLUZIONISTICA DEGLI ARCHETIPI PARTE II P. 17
• Alfredo Vernacotola, Stefano Vitaliani ALICE IN WONDERLAND P. 23
• Davide Stroscio LA CONFESSIONE P. 31
• Piero Di Prinzio Hybris e secolarizzazione nel Nibelungenleid (terza parte) p. 39
• Elisabetta Baldisserotto PERDERE L'ANIMA - IL "CASO" LETTERARIO DI DORIAN GRAY P. 45
• Mario Gullì GUTTUSO E IL FEMMINILE: ARTE PITTORICA E PROCESSO INDIVIDUATIVO P. 51
• Valentina Marroni, Michele Mezzanotte INTERVISTA AD AMEDEO CARUSO P. 57
Sandro Botticelli, La Primavera, 1482
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i maggio il sol l'adorna e chi è di bella forma ritorna
Ed è per questo che L'Anima Fa Arte torna con tutto il suo splendore assieme a dei contributi sagaci ed espressivi. Maggio è l'ultimo mese della stagione primaverile. Maggio è il mese in cui si concretizza la ri-nascita psichica dell'uomo ed apre le porte all'estate (periodo della maturità). Purtroppo però, come ha affrontato il Direttore della nostra Rivista nel primo articolo di questo numero 2, la primavera del 2013 pare non essere ad un livello collettivo e psichico, ancora apparsa. Politicamente e socialmente ci ritroviamo immobili in un autunno psichico.
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Il Dott. Mezzanotte segnala un declino culturale, quella cultura che invece dovrebbe essere causa e fondamento della nostra rinascita animica. Così, L'Anima Fa Arte non può far altro che contribuire affinchè questa primavera venga presto a farci visita, raccogliendo i migliori contributi psicologici e culturali fra i tanti pervenuti. Nel numero precedente vi abbiamo consigliato di allietare la lettura ascoltando un brano e nuovamente per questa nuova uscita non possiamo esimerci dalla responsabilità psichica del "fare anima" Hillmaniano. Così, aprite le finestre e sprigionate da esse questa musica gaia e frizzante della Primavera di Vivaldi. E' tempo di svegliarsi, di aprire gli occhi, di ritrovare le energie psichiche, di riscoprire il bello,
Editoriale
l'onesto, l'amore e lasciarsi contagiare da questa ondata di vigore, da questa potenza animica, da questa intensità, da questa fede cieca che presto il sole risplenderà. Con le aleggianti note incrocierete i sapienti articoli dei nostri autori, primo fra i tanti il contributo del Direttore Michele Mezzanotte intitolato "Disillusioni Notturne", in cui si immerge in una critica intima riguardo l'abbandono istituzionale e nazionale della cultura, fondamenta dei valori di uno stato, per abbracciare invece l'illusione del valore del denaro. In seguito leggeremo il contributo donatoci da Gianpio Colarossi, "La Vergine Afrodite" che è perfettamente in simbiosi con la Primavera. Colarossi si serve del mito della nascita di Afrodite per paragonarlo alla nascita di un cambiamento psichico e, successivamente, scoprire la circolarità ed il ritorno all'originario del mito. A pagina 17, Luca Urbano Blasetti prosegue l'innovativo discorso, proposto nello scorso numero che riguarda l'Estroiezione, parola coniata dallo stesso per descrivere "il processo attraverso cui energie psichiche peculiari di una persona, trovano oggetti esterni su cui poter proiettare e da cui poter procedere all'introiezione". Alfredo Vernacotola e Stefano Vitaliani ci presentano un'acuta riflessione che traspone sul piano psicologico il meraviglioso racconto di Alice in Wonderland scritto da Lewis Carroll e di cui i nostri autori sottolineano il puer che è in lui, caratterizzando la sua creatività da cui nasce il personaggio tanto amato di Alice. Le pagine si susseguono fino ad arrivare al
bellissimo contributo di Davide Stroscio che colloca sotto la lente di ingrandimento letterario la Pratica Confessionale e la pratica Analitica sottolineandone le differenze e le somiglianze. Piero Di Prinzio prosegue la narrazione psicologica della Hybris attraverso la saga mitologica dei Nibelunghi, con un'accurata fedeltà all'Edda Poetica. In seguito troverete un piacevole ed acuto intervento di Elisabetta Baldisserotto che con l'articolo "Perdere L'Anima – il caso letterario di Dorian Gray" mette in evidenza, aiutata dal romanzo di Oscar Wilde, l'ambivalenza umana dell'anima: tra luci ed ombre. Infine arriva la collaborazione archetipica, nonchè artistica, di Mario Gullì, il quale sapientemente ci conduce, con le sue amplificazioni analitiche, a scovare nell'artista italiano Guttuso, il suo processo di individuazione che, secondo Gullì, avviene attraverso la rappresentazione artistica del femminile, unita al mito di Colapesce. Dulcis in fundo, insieme al Direttore, abbiamo incontrato e intervistato per voi Amedeo Caruso, Psicoanalista e Psicofuturista, di cui abbiamo approfondito la psiche attraverso immagini cinematografiche, ispirandoci alla sua passione e alla competenza che possiede per il cinema. A questo punto, non mi resta che augurarvi una piacevole lettura e ed una buona primavera, in compagnia di L'Anima Fa Arte. Valentina Marroni
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Salvador Dalì, Illusioni Diurne, 1931
che leggerete sarà un articolo che vi Questo parlerà di come anche i sogni diurni abbiano un senso psichico, e di come attraverso di essi possiamo arrivare a capirci e a conoscere meglio "sè stessi, l'universo e gli dei", come ci suggerivano le parole poste all'entrata dell'Oracolo di Delfi. Sono molte le riflessioni che, in questi ultimi tempi per me saturnini, ho provato a mettere nero su bianco. Riflessioni che riguardano la psicologia archetipica hanno volteggiato dentro e fuori la mia testa. Tuttavia nessuna di queste è stata ritenuta
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idonea per essere pubblicata in questo numero due della rivista. Nessuna strada è stata portata a compimento dalla mia psiche. La creatività, quella scritta, che è una forma di creazione molto saturnina, in questo periodo mi ha voltato le spalle. Da queste parziali interruzioni creative sono però scaturite varie riflessioni. Una di queste ha preso forma e lettere in queste poche righe che seguono. La psicologia non è solamente una questione individuale ma anche e soprattutto collettiva, quindi come psicologi abbiamo un dovere nei confronti del collettivo. Un collettivo in forte crisi
Michele Mezzanotte
in questo momento. Non dobbiamo soffermarci a riflettere solamente sui messaggi individuali dell'Anima, ma dobbiamo accogliere anche quelli collettivi. Seguendo solo i messaggi individuali, la psicologia, rischia di diventare una disciplina autistica che crea problemi e li risolve da sola, creandosi anche le soluzioni. Un modo per creare illusioni patologiche. Questo è lo stesso errore che commettono quotidianamente discipline e studi vuoti e senza inconscio. Io amo la psicologia per la sua capacità di entrare nel profondo ed è verso il profondo e l'archetipo che voglio andare, senza tralasciare alcun segno d'anima, procedendo verso un movimento psichico di ta'will1, come direbbe Henry Corbin. Andare a ritroso verso il profondo è un'azione archetipa, ovvero un'azione che coinvolge e porta con se sia Anima individuale, sia Anima collettiva. Pertanto è evidente che ogni manifestazione collettiva è sintomo di una presenza d'Anima che cerca di comunicare con le nostre coscienze. Non parlo di cause o di conseguenze, ma mi limito a guardare il contesto cercando di capire se è il caso di percepire una causa o in sostanza un fine, o un messaggio. Per adesso non importa questo, importa solamente identificare una manifestazione collettiva come espressione, o impressione di Anima, la dolce fanciulla alata. Viviamo un periodo di crisi globale, un periodo in cui, soprattutto nel nostro paese, tutto sta perdendo di valore o senso. La psicologia ha l'obbligo di intervenire in questo, ha l'obbligo di "metterci becco". Esiste un modo di dire che recita così: "beccarsi il cervello" e sta per "fantasticare". La fantasia, ovvero l'immaginazione, è l'opera fondamentale in psicologia. In questo modo noi mettiamo il becco in qualsiasi cosa, ovvero la leggiamo immagine. Inoltre, per una strana coincidenza, l'etimologia di beccare sta per "pungere" e "stimolare", cosa di cui i nostri pensieri e i nostri cervelli hanno continuamente bisogno, altrimenti andrebbero incontro ad una traslucida immoblità. Un becco o rostro, che dir si voglia, ha molte funzioni. Attraverso il becco l'uccello può mangiare, può scavare, può uccidere le sue prede, oppure donare nutrimento ai sui cuccioli; inoltre con il becco l'uccello può comunicare o corteggiare. Facciamo uso di un rostro psicologico attraverso il quale immaginiamo Anima.
Per fortuna a casa non ho un televisore e quando mi capita di vederne uno sintonizzato sui telegiornali che descrivono la situazione italiana odierna, o che proiettano squallidi programmi, mi assalgono sentimenti di sdegno, di nausea e un leggero volta-stomaco mi avvolge, cosicchè l'unica nota di sollievo deriva dal fatto di non avere quello strumento di morte psicologica in casa. La televisione crea illusioni diurne. La crisi avvolge interamente la nostra cultura e il nostro modo di vivere. I media parlano di crisi economica, ma noi psicologi non possiamo essere ingannati da tale falsità, sapendo benissimo che la "moneta" non è ciò che vogliono farci credere, ma un'illusione sui cui proiettare le nostre energie. Stiamo vivendo un periodo di totale delirio dal punto di vista economico. Può una semplice carta stampata essere indice di tanta speranza e sofferenza? Oggi, addirittura, siamo arrivati a decomporre questo idolo feticcio in atomi che viaggiano attraverso macchinari elettronici e pc. Da questo può dipendere la nostra esistenza? Molti psicologi e studiosi hanno trattato questo argomento da svariati punti di vista con molta cura, chiarezza e competenza. In questo periodo di crisi ne sento di tutti i colori e odori, anche se pecunia non olet. Ma purtroppo sono soluzioni che non solvono, nè tantomeno coagulano. Sono ennesimi propositi di caproespiatorio. Nel corso della storia umana ogni movimento politico è sempre nato da un nemico comune da abbattere e non da un fine comune da perseguire. Non è questo il tipo di movimento politico che desidero per il mio paese. Ed è evidente che non siamo arrivati ad una via d' uscita. Non sono un appassionato di patologie da DSM, nè di diagnosi, però mi piace pensare che se dovessi inserire patologie in un manuale diagnostico moderno, ne inserirei sicuramente una: l'ignoranza. Durante i folti anni di vita della razza umana, parecchi uomini e donne si sono prodigati nel descrivere l'ignoranza donandogli accezioni negative o positive. Socrate ci suggeriva il valore positivo dell'ignoranza nel momento in cui ci spingeva a muoverci verso la conoscenza. Oggi purtroppo siamo intrisi di un'ignoranza che va di moda, un'ignoranza che non ci permette di distinguere i contorni precisi delle cose e crea illusioni; un' ingoranza che si appoggia ad un
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Il Destino Che Bussa Alla Porta
immobilismo culturale disarmante, sicuramente molto grave. Soffriamo della patologia d'ignoranza o, per accontentare anche altri linguaggi, commettiamo il peccato dell'ignoranza. Ascolto programmi politici in cui si scandaglia con massima cura la causa che ci ha portati a questa disfatta ma, negli stessi programmi, troppo spesso ci si dimentica che ogni paese o nazione dovrebbe basarsi su fondamenta culturali, morali ed etiche, solide e ben strutturate. L'Italia è invece diventata lo specchio di una società dove tutto è permesso, una nazione lasciva, dove alla base di ogni cosa c'è il nulla e il vuoto. D'altra parte abbiamo antichi esempi di società che sorgevano su basi culturali talmente solide che tracce ed impronte ancora vivono nella nostra dimensione. Penso a professionisti dotti di teorie vuote sotto le quali non c'è nulla, se non denaro o lucro. Penso a programmi politici basati sulla pecunia, sotto i quali non vi è nulla. Sembra quasi di vivere in un'assenza di archetipo. Programma poltico sulla medicina? Si parla di denaro. Programma politico sulla scuola? Si parla di denaro. Programma politico sugli immigrati? Si parla di denaro. Potrei andare avanti elencando molti altri esempi, ma la risposta sarebbe sempre la stessa: si parla sempre di denaro. Traducendo tutto questo in termini psicologici, potremmo chiamarla sicuramente inflazione. Come diceva Cusano nella sua opera la "docta Ignorantia"2, noi saremo sempre ingoranti rispetto a Dio, ovvero rispetto al mondo che ci circonda, ma possiamo essere dotti tendendo alla conoscenza. Della conoscenza e della cultura si dovrebbe fare base di ogni nostro passo, che altrimenti risulterebbe vuoto e senza senso. Il nostro sistema è formato da strutture senza fondamenta, e non è una caso che i cataclismi più recenti (i terremoti) sono venuti a ricordarcelo facendo crollare tutti quei palazzi costruiti senza criterio e senza cultura, ovvero senza fondamenta solide. La cultura deve essere il fondamento del nostro sistema civile e politico, accompagnandoci in ogni nostra scelta. C'è ignoranza anche riguardo il denaro: i programmi politici parlano di economia senza sapere cosa sono i soldi e senza educare ai soldi. Si parla di ospedali senza sapere cosa sono le malattie: senza sapere. L'ignoranza è dilagante e
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sono pochi ormai i luoghi di cultura. Una cultura che è costretta a ritagliarsi spazi sempre più piccoli e privati. Cosa ce ne facciamo dei soldi se sotto c'è il vuoto? Cosa me ne faccio di mobili e mattoni se sotto non ho fondamenta? I programmi politici, in metafora, propongono di far usare una moto da cross ad un bambino di tre anni, o dare un libro ad un cieco, o una chitarra ad un sordo. Cosa volete che importi? Nel buddismo il termine designato per l'ignoranza è Avijjā, e sta ad indicare uno dei fondamenti delle sofferenze umane. In particolare implica l'essere incastrati in una sorta di processo di auto-inganno che sottende la realtà e tutti i suoi fenomeni. L'Avijjā coinvolgendo sei organi di senso, ha sei aspetti differenti. Gli organi di senso secondo il buddismo sono i classici cinque, più la mente o la coscienza. In occidente possiamo affermare che la nostra ignoranza è incosciente e sta contagiando la psiche perchè, come sappiamo, le patologie psichiche sono collettivamente contagiose così come lo sono i virus. Oggi imperversano un'ignoranza individuale e una collettiva, che si riflettono e si contagiano a vicenda. Oscar Wilde suggeriva che “il vero stolto, quello che gli dei scherniscono o riducono in rovina, è colui che non conosce se stesso”, e qui parliamo di un'ignoranza individuale. Persino il Vangelo o Socrate ci parlano dell'ignoranza come la madre degli errori e delle sofferenze. Dall'ignoranza si generano errori, sofferenze, e con il passare del tempo frustrazioni e violenze. Così come è accaduto in passato, rischia di accadere anche nel presente. Questa invece è l'ignoranza collettiva. L'ignoranza si nutre di illusioni diurne; illusioni alimentate da televisori, programmi scadenti e cronache scadute, politiche inadeguate a armamenti adeguati, morali corrotte e voci bianche, medicine certe ed etiche incerte, creando Anime vuote in cerca di denaro. Vi racconto un sogno: Davanti Palazzo Chigi c'erano delle persone. Vi erano dei politici, dei carabinieri e dei cittadini. Uno di loro ha cominciato a sparare verso i politici, colpendo però due carabinieri rimasti feriti gravemente.
Iniziamo a parlare del sogno partendo dal luogo. Palazzo Chigi è la sede del Governo della nostra nazione. Il nome deriva da una antica famiglia senese proprietaria del palazzo a Roma. Singolare la storia che intercorre tra Roma e Siena. Secondo la leggenda, Romolo dopo aver ucciso Remo, provò ad uccidere anche i figli del fratello. Questi però risucirono a scappare con un cavallo bianco ed uno nero, dirigendosi verso nord e fondando Siena, il cui simbolo è la Balzana argentata e nera. Quindi, quello della famiglia Chigi, è un ritorno nella città da cui dovettero fuggire. Il luogo dove ha sede il nostro Governo è un luogo "balzano". Ritornando al sogno vediamo che nella nostra anima collettiva avviene una sparatoria. C'è un uomo che prende la pistola e spara in direzione dei politici, ferendo mortalemnte due carabinieri. La morte come sappiamo è trasformazione, quindi, la nostra psiche ha bisogno di trasformazione e cambiamento. Parliamo di un cambiamento di governo, che etimologicamente sta per dirigere una nave. Tuttavia prima di arrivare a trasformare questo assetto psichico, ci sono da oltrepassare le barriere psicologiche, che in questo caso sono rappresentate dall'arma dei carabinieri. La trasformazione del "balzano" è da rinviare, ma sicuramente siamo sulla strada per arrivare ad un forte sommovimento culturale e politico, dopo aver superato le nostre difese psichiche. In questo periodo di crisi purtroppo, questo che ho raccontato come un sogno, sapete benissimo che è accaduto realmente, un evento circondato da sofferenze e da paure. Un evento nel quale cerchiamo di trovare colpevoli e, tuttavia, gli unici colpevoli come sempre li troviamo la mattina davanti al nostro specchio. Il "sogno" ci suggerisce che all'interno della psiche di ognuno di noi, e proprio nella sua sede principale, nel suo governo "balzano", c'è un moto verso la mortetrasformativa, un moto di cambiamento. L'anima "balzana" necessita di trasformazione; la nave psichica si dirige verso un'altra rotta. Spero che l'ignoranza, l'Avijjā buddista, non prenda il sopravvento come sta accadendo in questo periodo storico decadente e senza dei. Spero che l'ignoranza patologica, di cui ci avvolgiamo oggi, non degeneri in violenza e vuota opulenza senza senso. Spero che finalmente questo moto psichico di trasformazione di cui l'Anima si fa
portavoce attraverso i “sogni”, ci porti ad un cambiamento necessario che viene invocato a “gran becco”. Spero che le illusioni diurne di cui ci nutriamo oggi si trasformino in disillusioni notturne. Note e Bibliografia: 1. Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, 1968 2. Graziella Federici Vescovini, Introduzione in Nicola Cusano. La dotta ignoranza, Città Nuova, Roma 1991. Michele Mezzanotte: Psicologo - Psicoterapeuta, e giornalista. Presidente dell'associazione culturale e di volontariato psicologico "L'Anima Fa Arte". Direttore Scientifico della rivista psicologica "L'Anima Fa Arte". Autore di diverse pubblicazioni psicologiche. Lavora nel suo studio privato a Chieti.
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Ciak si Anima “IO E TE” DI BERNARDO BERTOLUCCI ITALIA, 2012
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ernardo Bertolucci in questo suo nuovo film, interpreta il testo di Nicolò Ammaniti con talento narrativo eccezionale. Le immagini muovono e commuovono! Esplorano aree complesse della realtà interna, svelando emozioni, memorie, perdite e speranze. Hanno la potenza di un gesto che tocca l'inconscio: parlano una lingua universale ma s'incarnano nella vita di tutti noi. E' un film potente. Tutto si svolge in uno spazio ristretto, una cantinacaverna, dove Lorenzo e Olivia, due fratelli semisconosciuti si incontrano. Hanno in comune il padre e il dolore per la sua perdita. Sono due fratelli che hanno perso il nido, quel posto tenero e caldo, dove poter crescere. Quando un bambino sente di non avere più l'attenzione costante e l'amore dei suoi genitori, può finire con il perdersi, e loro si sono persi. Lì, in quello spazio-caverna dapprima i due fratelli si contestano, poi si conoscono e infine si comprendono. Olivia gli raccomanda di non fuggire dalla realtà, e Lorenzo le chiede di non drogarsi più. Lei aveva tirato un sasso alla mamma di Lorenzo, l'aveva colpita e gli spiega il motivo:“Perche mi aveva rubato il mio papà”. Lorenzo mette insieme i pezzi, anche lui, come la sorella, è uno senza padre. Il loro è un padre lontano, che agisce la propria paternità attraverso la madre, per Lorenzo, e solo con i soldi del mantenimento, per Olivia. E' un padre inefficace oppure troppo ambivalente. Lorenzo interroga la nonna, la madre del padre. Vuole vedere se almeno lei si ricorda della nipote, ma la nonna vive in un suo mondo e non parla di Olivia. Olivia è negata! Ma se Olivia è negata, allora lo sarà anche Lorenzo. Ognuno dei due cerca di sfuggire a qualcosa, a qualcuno...ma quel qualcuno è dentro e non fuori di loro. Solitudine e perdita! Perdita del nido, della famiglia, della possibilità di crescere attraverso l'attaccamento e la dipendenza, per raggiungere così, in un secondo tempo,
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l'autonomia. Olivia è bella e giovane, ma è tossico-dipendente, dipendente da una sostanza, svezzata troppo in fretta da quella dipendenza familiare che protegge. Olivia è una che non ha “fatto il pieno” di famiglia e così l'eroina la solleva dalla paura di sentirsi così debole e così sola. Lorenzo è un adolescente arrabbiato e solitario, che sfugge alla madre premurosa e preoccupata, e rifiuta sprezzante “la mano” dello psicoterapeuta. In compagnia di un formicaio sotto vetro, del pc e di un libro di vampiri, si nasconde nella cantina di casa, ma è nascosto-prigioniero, sotto-vetro anche lui come le sue formiche. Entrambi patiscono una perdita. La perdita che si sente quando una persona cara non c'è più. Si nomina il padre, che telefona, ma nel film fisicamente, non compare mai. I fratelli sono i portatori di un'assenza: la presenza dell'assenza. Loro rappresentano l'uno per l'altro, la presenza palpabile, visibile della perdita stessa. “Assenza, più acuta presenza”. Scrive Attilio Bertolucci.
Ciak si Anima Sono in fuga da sé stessi e dal dolore, e sarà proprio questo dolore che li porterà inconsapevolmente a “sotterrarsi” in questa cantina, per poi uscire con la speranza di vivere. Prima di lasciarsi ballano, sulla struggente canzone di David Bowie, Space Oddity, cantata con il testo in italiano di Mogol “Ragazzo solo, ragazza sola”. E' una danza strana, che commuove. I due ragazzi sembrano due naufraghi, ballano abbracciati, riconciliati con la speranza...e forse con la vita. Bowie canta: “Dimmi ragazzo solo dove vai, Perchè tanto dolore? Hai perduto senza dubbio un grande amore Ma di amori è tutta piena la città, No ragazza sola, no no no Stavolta sei in errore Non ho perso solamente un grande amore Ieri sera ho perso tutto sai."
“Aprite, cinematografi, versate sulla gente vogliosa gli inviti impudenti. Il passante che non gli raccoglierà per povertà o avarizia ne avrà il cuore esulcerato, la sua ombra fuggente s'inoltrerà in una tenebra fonda mentre alle sue spalle la pioggia che ha ripreso turbina di riflessi da un paradiso zampillante di marmi policromi, un prato d'oro, una piscina di voluttà...” Giuseppe Bertolucci Testo tratto dal libro ”Riflessi da un paradiso. Scritti sul cinema” di Attilio Bertolucci, a cura di G. Palli Baroni, Moretti e Vitali, Bergamo, 2009, pag.45.
Dentro a un'alba nuova i due ragazzi si lasciano: Lorenzo torna a casa dalla madre, Olivia torna alla sua vita. Porta con sé il pacchetto di sigarette, contenente l'eroina. La userà?...L'immagine è sospesa ma induce alla speranza. Conferma il mistero dell'esistenza, sospesa tra il vivere e il morire. E' un'immagine di trasformazione e di rinascita, ricca di efficacia psichica, che rende così più accostabile e meno nemica, la perdita. Suggerisco questo film, perchè è un bagno di emozioni. Queste immagini hanno una grande forza e un fine, e servono allo sviluppo dell'animo umano. Bernardo Bertolucci, da bravo tessitore, compone la sua opera, la organizza, crea le immagini per ritrovare-ritrovarsi dopo una perdita, dopo un essersi smarriti. MARA FORGHIERI
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Sandro Botticelli, Nascita di Venere, tempera su tela di lino, 1482-1485
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n questo articolo prenderò in considerazione la nascita di Afrodite intendendola come la nascita di un cambiamento avvenuto nella psiche; un cambiamento seguito poi da un ritorno allo stato originario. Afrodite (come tutti gli dèi) è la dea che continuamente muta ma continuamente resta (o ritorna) ad essere in uno stato di immutabilità. È la dea che stimola e consente una mutazione e, nello stesso tempo, è colei che distrugge quel cambiamento. Questo concetto può essere estratto osservando il dipinto La nascita di Venere di Botticelli; quell’opera, secondo me, può essere considerata sia come la raffigurazione della fuga di Afrodite a Cipro dopo che Efesto la liberò dalle catene che la tenevano avvinta in adulterio con Ares; sia come la raffigurazione della crescita di Afrodite nella schiuma del mare dell’isola di Pafo luogo dove la dea tornava spesso per riottenere la propria verginità. Afrodite è una divinità antichissima; nasce da Ponto (il mare infecondo) in seguito all’evirazione di Urano compiuta per mano di Crono armato di un
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falcetto forgiato dai Telchini. “Gea per primo generò, uguale a sé, Urano stellato”1 “… e dette alla luce anche il mare infecondo che infuria per l’onda, Ponto, senza amore bramato”2. Ora, tramite la Teogonia di Esiodo, ripercorriamo la nascita Afrodite. I versi che seguono riguardano il piano che Gea ed il figlio Crono avevano architettato per evirate Urano (il cielo stellato) nel momento in cui quest’ultimo, come al sopraggiungere di ogni notte, si sarebbe disteso sulla terra (Gea). Gea nascose Crono “e lo pose in agguato e tra le mani gli mise il falcetto dai denti affilati, e ispirò tutto l’inganno. Giunse portando la notte il grande Urano, e intorno a Gea bramoso d’amore si distese e dilagò ovunque; ma il figlio si protese dall’agguato con la mano sinistra, e con la destra impugnò l’orribile falcetto, grande, dai denti affilati, e i genitali del padre d’impeto recise, e poi li gettò via indietro”3. “… E come ebbe tranciato i genitali con l’acciaio li scagliò dalla terraferma nel mare dai molti flutti; così furono portati sul mare per molto tempo, e attorno una
Gianpio Colarossi
bianca schiuma sorgeva dall’immortale membro: in essa una fanciulla crebbe; e prima a Citera divina giunse, poi da qui andò a Cipro cinta dalle acque. Scese a terra la dea veneranda e bella, e l’erba attorno agli agili piedi cresceva; Afrodite (la dea nata dalla schiuma e Citerea dalla bella corona) la chiamano dèi e uomini poiché nella schiuma crebbe; ma anche Citerea, poiché giunse a Citera, e Ciprogenea, perché venne alla luce a Cipro cinta dai flutti; (e membrofila, perché nacque dai genitali)”4. “Afrodite, la Dea del Desiderio, emerse nuda dalla spuma del mare e cavalcando una conchiglia … stabilì la sua residenza a Pafo, nell’isola di Cipro, dove si trova ancora la principale sede del suo culto. I fiori sbocciano là dove Afrodite posa i piedi. A Pafo le Stagioni, figlie di Temi, si affrettarono a rivestirla e adornarla”5. “Afrodite (nata dalla schiuma) è la medesima dea dall’immenso potere che nacque dal Caos e danzò sul mare, la dea insomma che era venerata in Siria e in Palestina come Ishtar”6. La dea nacque dai genitali di Urano (e per questo fu chiamata membrofila) e crebbe nella schiuma del mare infecondo (per questo venne chiamata Afrodite). Afrodite cresce nella schiuma di un inconscio sterile, cioè di un inconscio che non feconda la coscienza, di un anima/animus che non è in contatto con l’Io. Può accadere che la psiche, attraverso il corpo, non interagisca con le intenzioni dell’Io. Quando l’Io (del maschio e della femmina) viene preso da fantasie sessuali può accadere che la persona venga attratta dal bisogno di fare sesso con il proprio partner. Queste fantasie a volte vengono represse volontariamente dall’Io a volte è la psiche, attraverso il corpo (attraverso la mancata erezione del pene, attraverso la manifestazione di una vaginite, ecc.) che le reprime. Una qualche potenza psichica (come Crono nel mito) impedisce il coito tra due partner. Quelle fantasie sessuali che servivano da preliminari per il rapporto sessuale, non avendo avuto la partecipazione del corpo, non sono riuscite a portare l’Io all’orgasmo cioè ad una scarica emozionale; quelle fantasie sessuale minimamente attenuate rimangono attive e forse diventano quella schiuma (quella voglia non si sa di cosa, quella indescrivibile voglia che afferra l’Io) da cui cresce Afrodite. L’orgasmo non si manifesta sempre nello stesso modo. A volte, su
una scala da uno a cento, l’Io (attraverso il corpo) tramite l’orgasmo gode quasi cento; a volte gode quasi nulla, a volte gode mediamente. Quando l’orgasmo si esprime al minimo (o non si esprime totalmente) ci resta addosso qualcosa (un resto di libido sessuale), una specie di strana sensazione, tipo una specie di insoddisfazione, un qualcosa di indefinibile che l’Io non sa come trattare. Può essere definita una sensazione anfibia, che non appartiene ne al mare ne alla terra, ma che rimane in una zona intermedia come Afrodite che, nel dipinto la nascita di Venere di Botticelli, si manifesta nel bagnasciuga (luogo di fluttuante confine tra coscienza e inconscio). Può essere considerata una energia (l’energia libidica di freudiana conoscenza) che resta in una forma inespressa per via dell’interruzione o il depotenziamento dell’orgasmo. Forse quello schiumoso resto afrodisiaco può essere associato alla sublimazione della sessualità di cui parla Sigmund Freud, sublimazione intesa come sviluppo di Afrodite da resti di fantasie sessuali rimasti inespressi da un orgasmo depotenziato. Per avere l’idea di cosa intendo quando parlo di resti libidici (o fantasie sessuali) non espressi da un orgasmo, possiamo porci la seguente domanda: di cosa sente bisogno una persona immediatamente dopo un orgasmo? C’è chi è spinto ad ascoltare musica, o gli torna in mente una certa canzone e sente il bisogno di ascoltarla, o una certa scena di un film che in quel momento sembra dare un emozione speciale all’Io; c’è chi si accende una sigaretta; ecc. Quelle voglie che potrebbero presentarsi all’Io hanno una certa durata (si tratta di qualche “breve” minuto); se in quei minuti ascoltiamo quella musica che ci viene voglia di ascoltare o se ci accendiamo quella sigaretta, ci accorgiamo che la soddisfazione che ne riceviamo è diversa (ha un sapore diverso), rimaniamo più soddisfatti da quella sensazione. Perché? Innanzitutto perché quei resti libidici hanno il potere di accentuare il soddisfacimento veicolato per l’Io da una stimolo sensoriale; inoltre perché, forse, in quei momenti appagando quelle voglie, soddisfiamo un’altra parte psichica con cui l’Io è riuscito ad entrare in contatto; sono quei resti libidici (quella schiuma di mare) che, tramite una voglia, permettono il contatto tra l’Io e altre parti psichiche. Forse in quei sfuggevoli minuti nasce qualcosa (forse nasce Afrodite?) che mette direttamente in
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La vergine Afrodite
contatto l’Io con l’anima. Da cosa viene depotenziato un orgasmo? L’orgasmo può essere depotenziato, o impedito totalmente, dai tratti saturnini della psiche. Gli aspetti saturnini sono quegli aspetti di piombo (quella pesantezza definita anche depressione) che non galleggiano nel mare, come Afrodite, ma vanno a fondo e si trascinano anche l’Io. Nella mitologia molti dèi sono scesi nei fondali marini, molti sono vissuto lì per molti anni. Tra questi troviamo il dio Efesto (marito di Afrodite); Poseidone, il dio del mare ecc. Posidone ed Efesto erano simili caratterialmente; e l’uno rispettava l’altro anche se non sempre. Riporto di seguito un passo dell’Odissea in cui si può capire il rispetto che c’era tra i due dèi: “Ed ecco tentando le corde intonò un bel cantare l’aedo: gli amori d’Ares e d’Afrodite bella corona, quando la prima volta s’unirono nella casa d’Efesto furtivi, e molti doni le diede e il letto disonorò del sire Efesto; ma a lui fece la spia il Sole, perché li vide abbracciati in amore. E come Efesto udì la parola strazio del cuore, andò alla fucina, nel cuore profondo meditando vendetta, e sul sostegno pose la grande incudine e batteva catene da non poter sciogliere o infrangere, perché restassero presi. Poi com’ebbe finito la trappola, sdegnato contro Ares, andò nella stanza, dov’era il suo letto, e ai sostegni del letto attaccò le catene in cerchio, da tutte le parti, e molte anche dall’alto, dal soffitto pendevano, sottili come fili di ragno, e nessuno avrebbe potuto vederle, neppure dei numi beati: con grande astuzia erano fatte. Quando tutta la trappola intorno al letto ebbe stesa, finse d’andare a Lemmo, rocca ben costruita, che gli è carissima sopra tutte le terre. Non da cieco spiava Ares dalle redini d’oro, e come vide Efesto, l’inclino artefice, andarsene, corse nella casa d’Efesto glorioso, bramando l’amore di Citerea della corona. Lei, dalla casa del padre Cronide somma potenza tornata da poco, sedeva; egli entro nella casa e le prese la mano e le disse parola, diceva: <Qui cara, andiamo al letto e stendiamoci. Non è più Efesto fra noi, ma forse a quest’ora è già a Lemmo, fra i Santii dal rozzo linguaggio>. Così disse, e a lei sembrò caro stendersi. E nella trappola entrati, si stesero; e intorno ricaddero le ingegnose catene dell’abilissimo Efesto: non potevano più muovere né alzare le membra, ma lo capirono solo quando non c’era più scampo. E fu loro addosso lo Zoppo glorioso, tornato subito
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indietro, prima di raggiungere Lemmo, ché il Sole montava la guardia e gli fece la spia: e lui corse a casa, afflitto nel cuore, e si fermò sotto il portico: l’ira lo dominava, selvaggia. Paurosamente gridò, e tutti i numi raggiunse: <Zeus padre, e voi altri, o dèi beati sempre viventi, qui a veder cose vergognose e ridicole, come la figlia di Zeus, Afrodite, me che son zoppo, disprezza sempre, ama Ares crudele, perché è bello e sano di gambe; e io invece son nato sciancato: e nessun altro ne ha colpa, tranne i due genitori; oh non m’avessero mai generato! Ma guardate dove fanno all’amore quei due, saliti sopra il mio letto… Scoppio di rabbia a vederli. Ora però non vorrebbero, penso, più neppure un minuto giacere insieme, per molto che s’amino: sì, non vorranno dormir più insieme, ma li terrà la catena, la trappola, finché tutti mi renda il padre i doni di nozze quanti ho dovuto pagarne per questa sposa senza pudore. Certo, ha una bella figlia, ma incontinente!>. Diceva così, e i numi s’adunarono sulla soglia di bronzo; venne Poseidone che cinge la terra, venne il benefico Ermete; venne il sovrano preservatore Apollo; le dee, per pudore, rimasero nella sua casa ciascuna. Stavano ritti nel portico i numi datori di beni, e inestinguibile riso scoppiò fra i numi beati a vedere la trappola dell’abilissimo Efesto. Così qualcuno guardando diceva a un altro vicino: <Non fruttan bene le male azioni; il lento acchiappa il veloce. Come appunto ora Efesto, che è lento, acchiappò Ares, il più veloce fra i numi che hanno l’Olimpo, lui lo Zoppo, con l’arte sua; e pagherà l’adulterio!>. Così dicevano queste cose fra loro. E il sire Apollo figlio di Zeus diceva a Ermete: <Ermete figlio di Zeus, messaggero, datore di beni, vorresti, premuto così sotto gagliarde catene, dormire in letto con l’aurea Afrodite?>. E gli rispose il messaggero Argheifonte: <Potesse questo avvenire, sovrano lungi saettante Apollo, catene tre volte più grosse, infinite, mi tenessero avvinto, e tutti veniste a vedermi, voi dèi, e poi anche le dee: io dormirei volentieri con la dorata Afrodite!>. così diceva, e una risata scoppiò fra i numi immortali. Ma Poseidone non rise: continuamente pregava Efesto l’artefice illustre, di sciogliere Ares, e a lui rivolto parole fugaci diceva: <Scioglilo: ti prometto che come vorrai ti pagherà tutti il giusto davanti ai numi immortali>. E gli rispose lo Zoppo glorioso. <No, Poseidone che cingi la terra, non chiedermi questo: misera grazia garantir per i vili. Come
Gianpio Colarossi potrei obbligarti davanti ai numi immortali, se Ares ci scappa, eludendo la catena e la pena?>. E Poseidone che scuote la terra, diceva: <Efesto, se Ares, eludendo il dovuto, se la squaglia e ci sfugge, pagherò tutto io>. E allora rispose lo Zoppo glorioso: <Non si può e non sta bene opporsi al tuo detto>. Così dicendo la forza d’Efesto scioglieva la trappola; e i due, come furon liberi dalle catene, quantunque gagliarde, d’un balzo l’uno se ne andò subito in Tracia, e l’altra andò a Cipro, Afrodite ch’ama il sorriso, a Pafo, dov’ella ha un tempio e un altare odoroso; qui la lavarono le Càriti e l’unsero d’olio immortale, come s’ungono i numi sempre viventi e le vestirono vesti amabili, meraviglia a vederle>”7. Dirò in breve che, secondo me, Posidone non rise perché era stato cresciuto ed educato dai Telchini “I Telchini rappresentano un gruppo di demoni o divinità pregreche o greche antichissime”8. “Sono … figli del mare (Ponto, dio maschile) e della terra, secondo alcune tradizioni. Hanno una sorella Alia, la quale si unì a Poseidone. Essi stessi hanno partecipato all’educazione del dio, con Cafira. In questa educazione hanno le stessa parte dei Cureti in quella di Zeus. Si attribuisce ai Telchini l’invenzione di un certo numero di arti, in particolare quella di scolpire le statue degli dei. Erano anche maghi ed avevano il potere di far cadere la pioggia, la grandine e la neve. Erano inoltre capaci di assumere la forma che piaceva loro. Ma non desideravano rivelare le proprie capacità, mostrandosene assai gelosi. … erano rappresentati sotto forma d’esseri anfibi, metà marini e metà terrestri. Avevano o la parte bassa del corpo a forma di pesce o di serpente, o i piedi palmati”9. “Si diceva che fossero originari di Creta e che successivamente si fossero trasferiti a Cipro, quindi a Rodi, dove veniva da loro ascritta la fondazione di Camiro, Ialiso, Lindo. Successivamente essi lasciarono l’isola, perché si diceva che avessero previsto la sua prossima devastazione per le conseguenze di un’inondazione. … Era, oltre ad Apollo e Zeus, sono talora presentati come divinità ostili ai Telchini. Apollo, dopo aver assunto le sembianze di un lupo, li avrebbe divorati; mentre Zeus li distrusse con un’inondazione. … Essi avevano anche capacità artistiche non comuni: si diceva che avessero creato arti e istituzioni di grande utilità pratica, che avessero per primi plasmato delle immagini degli dèi e che lavorando i metalli
avessero prodotto, tra l’altro, il tridente di Poseidone e il falcetto di Crono”10. Pausania parla di un santuario di Atena Telchinia privo della statua. “Per quanto riguarda il suo appellativo si può congetturare che sia giunta in Beozia una parte di quei Telchini che un tempo abitarono a Cipro e che qui abbiano fondato un santuario di Atena Telchinia”11. “Telchinia è appellativo che si connette con i Telchini e quindi, probabilmente, col titolo di Ergane spesso attribuito ad Atena. Il fabbro infatti è ‘servo di Atena’ (il fabbro che ben conosce l’arte in base ai precetti di Atena). Secondo il mito … i Telchini furono i primi a lavorare il ferro e il bronzo e a costruire statue di dèi, come l’Apollo Telchinio a Lindo, Era e le Ninfe Telchinie a Ialiso, Era Telchinia a Camiro”12. I Telchini, secondo me, furono coloro che insegnarono l’arte e il mestiere ad Efesto. Afrodite, come i telchini, nacque da Ponto; la dea potrebbe essere considerata anfibia perché nella Venere di Botticelli viene dipinta in piedi sopra un guscio di conchiglia, come a dire che la parte bassa della dea poteva essere associata ad un animale marino. Ciò su cui intendo porre attenzione è il fatto che Afrodite, dopo essere stata liberata dalle catene che la tenevano avvinta nell’adulterio con Ares, andò subito a Pafo dove le Cariti la lavarono con le acque del mare infecondo, la unsero di oli immortali, la vestirono con vesti meravigliose e, così facendo, la colmarono di grazia divina. Questo concetto intendo associarlo con il dipinto La nascita di Venere di Botticelli. Tramite questa associazione possiamo tentare di esprimere la fantasia che quel dipinto possa raffigurare la fuga di Afrodite a Pafo per riottenere la verginità. Adulterio (deriva da adulterare, corrompere) è una violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale. Un individuo che commette adulterio diventa adulterato cioè modificato, cambiato, manipolato. Dopo l’adulterio non si è più come prima. Il termine vergine si attribuisce a qualcuno o a qualcosa che è naturale, che non ha subito manipolazioni, lavorazioni, trasformazioni. Riprendere la verginità significa ridiventare non trasformato, non manipolato, non adulterato. Quasi tutte le donne attraversano la rottura dell’imene e in quel modo assumono un cambiamento. Afrodite nasce da una verginità infranta (cioè da
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un cambiamento dopo l’adulterio)? Forse si se interpretiamo quel dipinto nel modo su esposto. Il termine deflorare etimologicamente deriva da sfiorare che significa abbattere i fiori delle piante e delle erbe. Nel dipinto di Botticelli il termine deflorare può essere simbolizzato dalle rose che cadono al suolo a fianco alla Venere. Dal modo in cui quelle rose sono state dipinte dal pittore, sembra proprio che vogliano comunicare l’idea di tristezza, di malinconia; sembra che il pittore le abbia volute disegnare come fossero foglie che in autunno cadono dagli alberi. Anche espressione del volto della dea del sorriso comunica uno stato d’animo di tristezza; i suoi occhi sembra che abbiano quella particolare riconoscibile espressione di chi ha pianto da poco. Ma come si recupera la verginità? Attraverso la grazia divina, afferma il mito; cioè attraverso le Cariti. “Le Cariti, in latino Grazie, sono le divinità della bellezza e probabilmente, in origine, forze della vegetazione. Proprio loro diffondono la gioia nella Natura nel cuore degli uomini, e anche in quello degli dèi. Abitano sull’Olimpo in compagnia delle Muse, con le quali formano talvolta dei cori. Fanno parte del seguito d’Apollo, il dio musico. Si rappresentano generalmente come tre sorelle, Eufrosine, Talia e Aglae, tre giovani nude che si tengono per le spalle. Due guardano in una direzione, quella di mezzo guarda nella direzione opposta”13. Le spalle nella simbologia hanno un grande significato. “La spalla porta il fardello e questo fardello può essere semplicemente quello dell’inconscio, tanto pesante da portarsi per il coscio. Gesù porta la sua croce, Mitra il toro che ha sacrificato”14. “Le spalle significano la potenza, la forza di realizzazione. … La Croce è il segno del limite nel Pleroma. Per questo Gesù avendo con questo segno portato il seme sulle spalle l’introduce nel Pleroma. Gesù è infatti chiamato la spalla del seme e il Cristo è la testa. … La potenza è sulle sue spalle”15. La spalla simboleggia il luogo di contatto con i nostri dolori (le nostre croci) che permettono le trasformazioni (Gesù tramite il dolore portato sulle spalle divenne Cristo, più vicino a Dio). Afrodite, dopo il dolore dell’umiliazione, dalle Cariti fu riempita di grazia divina e ridivenne pura.
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Bibliografia e Note 1. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001. 2. De La Rocheterie, J., Il corpo nei sogni, Tascabili Bompiani, 2001. 3. Esiodo, Teogonia, 2004, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011. 4. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006. 5. Grimal, P., Enciclopedia della mitologia, 1979, Paideia Editrice, Brescia, 2009. 6. Graves, R., I miti greci, 1963, Longanesi, Milano, 2003. 7. Omero, Odissea, 1963, Einaudi, Torino, 1989. 8. Pausania, Viaggio in Grecia, Beozia, BUR, Milano, 2011.Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001. 9. De La Rocheterie, J., Il corpo nei sogni, Tascabili Bompiani, 2001. 10. Esiodo, Teogonia, 2004, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011. 11. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006. 12. Grimal, P., Enciclopedia della mitologia, 1979, Paideia Editrice, Brescia, 2009. 13. Graves, R., I miti greci, 1963, Longanesi, Milano, 2003. 14. Omero, Odissea, 1963, Einaudi, Torino, 1989. 15. Pausania, Viaggio in Grecia, Beozia, BUR, Milano, 2011.
Gianpio Colarossi: psicologo, psicoterapeuta in formazione al quarto anno del Corso quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Psicoterapia Atanor dell’Aquila. Nel maggio 2007 è nominato Cultore della materia MPSI01 Psicologia Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi dell’Aquila. Nel dicembre 2007 è nominato Cultore della materia Elementi di Psicoterapia di Gruppo MPSI07 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila. Tra le sue pubblicazioni figurano Anima e sangue (Pescara, Samizdat, 2005), e numerosi articoli su diverse riviste di psicologia.
In Anima-Azione
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L
’Estroiezione è quindi il processo attraverso cui energie psichiche peculiari di una persona, trovano oggetti esterni su cui potersi proiettare a da cui poter procedere all’introiezione. Tali energie psichiche non possono entrare nella dinamica di proiezione-introiezione perché non fanno parte del transpersonale, ossia appartengono ancora alla sfera del personale e, pur avendo un corrispettivo archetipico, ne costituiscono una impercettibile mutazione. Pur contenendo l’archetipo non sono contenute da esso. Se Neumann (1949) afferma che il Transpersonale è evolutivamente anteriore al personale, qui affermiamo che vi è una parte di quest’ultimo che è coeva del transpersonale a livello evolutivo. Tale parte contiene l’archetipico ma non è contenuta da esso. Non entrerà quindi nella dinamica proiezione.-introiezione fin quando non sarà estroiettata. Tale processo può essere definito come il percorso attraverso cui la “materia” entra a far parte del mundus immaginalis. Potremmo anche dire che è il processo attraverso cui il Microscopico e il Macroscopico si incontrano solvendo quel confine di cui si teorizza nelle trattazioni della fisica quantistica da Schroedinger a Pauli. L’estroiezione è il processo graduale attraverso cui l’Io che sogna ad un tratto viene sognato. In una prospettiva onirica, si tende sempre a narrare i contenuti onirici riferendosi ad un Io che li ha prodotti, sognati, Già questo risulta improprio nella misura in cui è l’inconscio che produce i sogni mentre l’Io, eventualmente, li subisce, riceve il messaggio. L’Io e la materia coincidono. La Von Franz (1980) afferma che “…l’inconscio abbia probabilmente un aspetto materiale. Questo è il motivo per cui conosce le vicende della materia: esso stesso è materia che si autoconosce. Se così fosse, dovrebbe esserci qualche pallido, vago fenomeno di coscienza anche nella materia inorganica”. L’Io
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è l’eredità che la materia lascia al mundus immaginalis. L’io è la materia e la impercettibile mutazione che essa porta all’archetipico. L’Io non può essere proiettato, solo le parti psichiche archetipiche o transpersonali possono. Così i sogni risultano essere tracce transpersonali in cui ritorna il mito, l’Immagine la Storicità. L’Io osserva fin quando verrà estroiettato nel sogno, potrà osservarsi ed entrare nella dinamica proiezione-Introiezione. Fino a quel momento parti psichiche, energeticamente forti al punto di portare all’agito, saranno vissute come stati di possessione. Anche se la tecnica prevede di lateralizzare l’Io quando si trattano i sogni, pur riconoscendo in questa pratica il precursore per il processo di estroiezione, non possiamo negarne una certa inappropriatezza. Chi sogna sarà sempre l’Io fin quando non verrà estroiettato,. Pur facendo narrare il sogno chiedendo di impersonare il non Io, ossia gli altri personaggi del sogno, la narrazione risulterà sempre archetipica. L’Io è ciò che non è archetipico, è la parte di me che rinnova, come mutazione impercettibile, gli archetipi. Quando, a fine analisi, ovvero alla fine di un primo ciclo di attività analitica individuale e di gruppo, l’esercizio della “lateralizzazione” tipico della terapia spinge l’Io a nascere e lo partorisce, costui ricade tutto insieme su diversi individui-oggetti che verranno in sogno. Si tenderà a ritenerli estranei mentre saranno l’essenza. Ci sia concesso richiamare la passione di Cristo, sempreverde e utile a fini esplicativi. Notiamo infatti che tutta la psicologia del profondo abbia tentato di fare all’Io ciò che i Romani hanno fatto a Dio o meglio al figlio suo. La psicologia mette in croce l’Io, lo vuole lateralizzare, lo tradisce come Giuda, lo frusta ma, se senza questa azione il Cristo non può salire al Cielo, l’Io non può avere accesso all’archetipico per modificarlo se non muore.
Luca Urbano Blasetti
Il monoteismo nasce come bisogno di deburocratizzare la psiche. Un tempo la condotta umana e le emozioni venivano parlate come doni, richieste o possessioni di un Dio-Dea piuttosto che un altro. Il politeismo rendeva merito della complessità della psiche che, proiettata nel mito, vedeva se stessa nelle molteplici sfaccettature che divenivano dei o loro figli. Leggere i poemi omerici, che meglio di altri ci aiutano a comprendere la molteplicità della “Farfalla” (Psiche), risulta difficile in era contemporanea. Si fatica a comprendere a quale Dio-Dea viene votata l’azione o quale di questi sia dalla parte di chi e perché. Il Cristianesimo ha snellito la burocrazia psichica. L’Unus finalmente era interlocutore unico e in grado di far procedere la Psiche. Del Resto è semplice votarsi a Marte o ad Apollo quando si è Apollinei o guerrieri ma se si è tali ma in modo leggermente distorto si rischia di non sapere a chi votarsi. Così nasce l’esigenza di invocare il figlio o il nipote dell’uno e dell’altro Dio-Dea, farli unire con un mortale e, eventualmente far crescere il concepito da un aquila che lui ucciderà… Questo è il processo di iperbolica burocratizzazione della psiche che il politeismo, connaturato all’uomo, aveva portato. Tale inflazione si verificava in tutte le culture in cui poi il monoteismo è stato portato. L’esigenza compensatoria della de-burocratizzazione veniva soddisfatta dal Cristianesimo ma anche dalle culture orientali che citano la frase “Sotto uno stesso cielo” nel I Ching votandosi all’Uno.
La burocrazia rimanda al potere degli uffici, e questi ultimi etimologicamente richiamano il verbo facere e ciò che è conveniente fare. L’iperbolico aumento di burocrazia nella nostra Era si pone come esito di una burocrazia che gestisce se stessa, cosa che conduce al certificato per ottenere l’altro
certificato, alla marca da bollo che legittima il bollo su cui viene applicata. Magistrale la rappresentazione che ne fanno Goscinny e Uderzo con Asterix e Obelix in “Le dodici fatiche”. La de-burocratizzazione che viene invocata oggi come bisogno di snellire le pratiche e la vita sociale corrisponde all’invocazione di un Dio solo, unico, avvenuta con la nascita del cristianesimo. Cristo è un immaginario enantiodromico rispetto al Politeismo. Forse la fatica dell’uomo contemporaneo nel districarsi nel pantheon greco è la stessa che si ha nel districarsi nella burocrazia. Il cristianesimo ha portato Cristo ossia all’”autocertificazione”. Il cristianesimo è stato accolto. come necessità psicologica di una popolazione dopo millenni di politeismo che andava sempre più burocratizzandosi. Da junghiani non possiamo però non attenderci un moto opposto, non possiamo non considerare che la psiche alterna il politeismo al monoteismo nell’ottica di poter dare visibilità alla sua complessità con il primo, e alla sua unicità con il secondo. Nel novecento parte quindi la battaglia della psicologia verso l’imperialismo dell’Io. Da Freud fino ad Hillman c’è chi invoca il vangelo di Giuda, chi gli gnostici chi l’alchimia o la cabala. L’Io-Dio è preso in un fuoco incrociato che lo vedrà perire a breve. Fanno eco le previsioni dei maya, quelle di Nostradamus e la scoperta di comete che annunciano il ritorno degli dei nel fine 2012. Ulteriore sintomo di ritorno al politeismo è la sostituzione, ad opera del Ministro della pubblica Istruzione Italiana Profumo, dell’insegnamento di Religione con l’insegnamento della Storia delle religioni. La psiche collettiva è oggi sensibile alla pluralità. Il monoteismo ha condotto all’imperialismo del 900’, ai deliri di onnipotenza dei tiranni che hanno confuso loro stessi con l’archetipo, ma è stato anche la risposta all’imperialismo romano figlio del politeismo. L’inflazione dell’uno o dell’altro è ciò che porta alla tirannia. Non c’è speranza per l’Io-Dio dovrà cedere al neopoliteismo che rende merito alla complessità della psiche. Questa operazione è quella che descriviamo sopra di lateralizzazione dell’Io. Un neopoliteismo che scalza l’Io come interlocutore unico dell’inconscio. Tale processo che fa entrare l’Io nella dinamica di Proiezione- Introiezione è appunto il processo estroiettivo. L’Io deve essere
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Estroiezione
estoriettato, crocifissso ossia trovare una sua rappresentazione. Da una parte abbiamo indicato l’immagine dello sciamano e del medium che dona il corpo per far parlare i demoni, le parti psichiche. E che una volta a riposo deve eliminare dal corpo, posseduto da nessun demone a fine seduta, l’Io che vi si è insediato alla nascita (vedi articolo parte 1). Ora indichiamo il processo di estroiezione come la salita di Gesù-Cristo sull’Olimpo. Proviamo a immaginare una scena, certamente comica o blasfema nella cultura cristiana occidentale, Dio che va ospite a pranzo degli dei olimpici. Risulta come lo studente che va in Erasmus, come il direttore di una ASL in una riunione interprovinciale con altri direttori, come lo schiavo platoniano che esce dalla caverna. Questo è l’Io che viene estro iettato. In una tale situazione il processo di estroiezione è quello che vede l’Io nel sogno in un siffatto simposio, improvvisamente psiche tra la psiche, parte psichica insieme alle altre, con pari dignità e pari diritti. Jung affermava nel libro rosso che Dio e Anima sono la medesima cosa, sono tutto ciò che io non sono in un dato momento. Mutatis mutandis, il “personale” giunge al banchetto del “transpersonale”. L’Io lateralizzato porta in quel contesto una novità. Dio non è un Dio Olimpico e porta novità. Io personale sta al transpersonale-archetipico come Dio sta agli Dei Olimpici. Così come l’idea di “Dio” contiene quella di “Dei” e questa non contiene l’idea di “Quel” “Dio”, l’Io personale contiene gli archetipi che non lo contengono. Come il Direttore Asl anela ad essere l’unico Direttore e cerca di restare nella sua provincia al fine di non scoprirsi pieno di concorrenti, evita quindi le riunioni interprovinciali, così l’Io evita il simposio, l’incontro, il summit con gli archetipi perché, dietro la fantasia di entrarne a far parte c’è quella di venirne ingoiato. Il percorso analitico promuove quindi tale incontro, tale simposio. Fin quando ciò non accade l’Io sogna con la lente di se medesimo. Osserva come attraverso un vetro, come da dentro un acquario, e ascolta le parole ovattate degli Dei olimpici. Poi alla fine prende coraggio e va alla riunione. Vive l’angoscia di essere ingoiato sperando di sopravvivere. Dopo questa operazione riesce a estroiettarsi e a questo punto compaiono personaggi nel sogno
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precedentemente assenti, vissuti impropriamente come estranei. Il concepire il sogno come politeismo di cui l’Io fa già parte è un errore accettabile perché promuove ugualmente il telos dell’analisi, ossia che l’Io entri a far parte del transpersonale-archetipico, del simposio olimpico. L’errore del terapeuta potrebbe essere quello di indurre e promuovere l’idea secondo cui l’Io faccia parte del transpersonale. L’Io non fa parte aprioristicamente del transpersonale ma questo è il suo Telos. Dicendo all’Io che il suo Telos è il suo status si promuove il Telos ma con l’inganno. Il Politeismo è il fine, il Telos, mentre il monoteismo è l’origine. L’estraneità dei personaggi estroiettati, ossia di quelli che più descrivono l’Io nei sogni, è fenomenicamente legittima. Ogni cosa se sognata non può essere definita estranea alla psiche ma certamente può essere definita assente fino a quel momento. Tale assenza si riferisce all’ontologia dell’oggetto sognato e non al suo aspetto concretistico. Un paziente potrebbe sognare improvvisamente un certo personaggio che ha come caratteristica, ad esempio, l’ambizione unitamente all’ansia da prestazione, la cultura e la preparazione, ma una certa difficoltà con le relazioni di anima sia intrapsichiche che interpsichiche. L’estraneità non è al personaggio ma va intesa alle caratterizzazioni di questo. Possiamo sognare solo gli a priori e quello che noi come materia portiamo di nuovo a questi, ma quello che portiamo di nuovo deve essere prima estroiettato altrimenti nel teatro della psiche potrà osservare solo dalla platea. A questo punto possiamo giungere al punto nodale della nostra trattazione. Tutto quanto andiamo dicendo ci rimanda infatti alla rappresentabilità dell’Io. Tutto ciò che non è rappresentabile viene definito psicoide e tutto ciò che è psicoide non può essere sognato per definizione perché non ha un’immagine corrispettiva. Il processo di estroiezione che suggeriamo sarebbe, quindi, proprio il processo attraverso cui ciò che è psicoide trova un’immagine corrispondente. In tal senso il postulato di Heisemberg secondo il quale la comprensione esigerebbe una rappresentazione visiva, risulta in continuità con quanto affermiamo e ci suggerisce che la comprensione, in analisi, è una produzione di immagini per l’Io psicoide che porta con se l’eredità individuale destinata al
Luca Urbano Blasetti
transpersonale. Tale eredità, una volta resa immagine ossia una volta rappresentata, sarà tanto più usata nei sogni di altri, e dall’inconscio collettivo di cui è entrata a far parte, quanto più adatta e desiderabile sarà. L’Io è l’archetipo del non archetipico, lo psicoide è l’archetipo del non archetipico, ciò che è immagine è sempre archetipico afferma Hillman (Enciclopedia del 900), il percorso terapeutico è un percorso il cui Telos è rendere rappresentabile l’Io. Ciò che non è archetipico è insognabile, è irrapresentabile ossia psicoide. L’io finche vive sarà preda della materia soltanto, morendo sale al cielo e risorge in immagine portando con se l’eredità di quella materia, ossia l’impercettibile mutazione rispetto agli archetipi di cui promuove l’evoluzione. Ciò che è psicoide è quindi alla base del processo evolutivo degli archetipi. Gli archetipi, le immagini, gli aspetti rappresentabili della psiche collettiva evolvono e originano da ciò che escludono, ossia dal non archetipico. La materia e l’Io sono un tutt’uno come non archetipico. L’estroiezione è il processo iniziale attraverso cui avviene tale dinamica evolutiva. L’Io viene annientato dalla psicologia, lo psicoide è il bersaglio che la psicologia vuole annientare perché la psicologia è immagine. Se La patologia è assenza di immagini, come amava dire Hillman, l’Io è la nostra patologia, ossia è ciò che non ha ancora un immagine. In tal senso la patologia non è un acquisizione quanto uno stato originario da cui emanciparsi. Proponiamo quindi una rivoluzione , come le tante che si sono susseguite nei secoli, che conduca a ritenere psicoide non tanto l’archetipo ma l’Io. Gli archetipi Vengono ritenuti psicoidi per definizione, la loro irrappresentabilità è data a priori. Rappresentare significa legare emozioni a immagini interne, significa legare pattern of behaviour a immagini interne, significa connettere a un’immagine un aspetto psichico potenziale ma non attuale,”Il Rappresentare indica il gesto, l’atto che ci consente di conoscere e far conoscere sia oggetti esterni sia oggetti interni, quali l’immagine, l’idea, la fantasia” (Tagliagambe & Malinconico 2011) “Rappresentare – dice Tommaso d’Aquino – significa contenere la similitudine della cosa”. Ciò che è archetipico dovrebbe invece essere per definizione rappresentabile mentre è l’Io che si trova senza un immagine corrispondente. Se l’Io avesse un’immagine corrispondente dalla nascita
sarebbe un a priori, sarebbe pura immagine, coinciderebbe con l’archetipo. MA questa è la condizione uroborica primordiale a cui Neumann fa seguire quella di contatto con il mondo minaccioso e terrorizzante. E’ in questa seconda fase che l’Io deve trovare una nuova immagine a cui connettersi distinguendosi dall’archetipo pur contenendolo. La terapia ha come scopo quello di estroiettare l’Io ossia di renderlo rappresentabile. Estroiezione è quindi sostanzialmente un processo di depsicoidizzazione e di ingresso nella dinamica proiettiva. Jung afferma (Jung: Opere 16 pag 227), riferendosi alle tavole del Rosarium che le figure di Re e Regina “…rappresentano piuttosto dei contenuti che si son proiettati dall’inconscio dell’adepto. Poiché l’adepto ha coscienza di sé come uomo, la sua maschilità non può proiettarsi, perché solo i contenuti inconsci possono proiettarsi. Siccome qui si tratta principalmente di uomo e di donna, la parte di personalità proiettata non può essere che il lato femminile dell’uomo, cioè la sua anima…” Solo ciò che è inconscio si proietta e non ciò che è cosciente. Noi aggiungiamo che solo ciò che di inconscio è anche rappresentabile si proietta e non può altrettanto dirsi per ciò che è psicoide. In tal senso anche il terapeuta assume l’energia delle proiezioni transferali da un lato e le energie delle proiezioni potenziali dall’altro. Saranno tali “potenze” a dover divenire effettuali una volta partorito l’Io e reso rappresentabile. A fine analisi quindi le figure, le immagini che giungeranno nei sogni saranno immagini dell’Io, non più psicoide, che si proietta. La loro estraneità, o meglio l’essere vissute come estranee, si riferisce non tanto all’immagine ma alla provenienza della proiezione, ossia l’Io. Una volta reso rappresentabile l’Io allora l’individuo potrà procedere nel suo processo di individuazione generando formule e regie in cui tutte le parti psichiche in gioco potranno agire alla pari. Solo allora si potrà avere una visione da ogni punto di vista, solo allora la materia corpo si farà possedere, come un medium, da tutte le parti psichiche donando a ognuna un energia adeguata e equidistribuita. Resta un fatto ossia che l’Io proiettato sarà difeso come elemento di novità che quella materia porta al mundus archetipalis. Vi sarà sempre un po’ di Io in ogni immagine. Se l’Io si confonde con
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Estroiezione
l’archetipo c’è inflazione e questo avviene ogni qual volta l’Io, ancora psicoide, non riesce a sostenere la propria improiettabilità. “Quando ci identifichiamo con essi (gli archetipi) e vaneggiamo di essere più veramente noi stessi, di fatto siamo più che mai estraniati da noi stessi e vicini al tipo medio di Homo Sapiens” (Jung: Opere 16 pag 266). In Biologia l’individuo nasce e con lui si trasmette il patrimonio genetico il cui equivalente psicologico sono gli archetipi. Crescendo emerge quel carattere esclusivo di quell’individuo che verrà estroiettato, ossia sarà tanto più evidente quanto più avrà l’opportunità di crescere e di divenire risorsa esclusiva. La Giraffa nasce con un collo e poi crescendo emergerà la sua caratteristica “collo-più-lungo”. Non esistendo nel patrimonio genetico, costituendo una mutazione di esso, il carattere “collo-più-lungo” sarà psicoide fin quando non troverà un’immagine, emotiva e comportamentale a cui legarsi, ossia finchè non sarà rappresentabile. In merito alle teorie evoluzionistiche vi sono ormai ricerche che evidenziano come il caso da solo non garantisca l’evoluzione verso forme più complesse, ma garantisca invece una evoluzione che converge verso i valori medi per ogni caratteristica. Il collo della giraffa, attraverso mutazioni casuali, convergerà verso una misura media. Lo “slancio vitale” invece fa si che si vengano a selezionare mutazioni che più del caso seguono la riuscita. Non ci troviamo di fronte a un “neoLamarkismo”, quanto di fronte a una spinta emergente come esito delle relazioni e secondo il principio di esclusione enunciato da Pauli. In tal senso, come nessun elettrone occuperà lo stesso luogo di altri elettroni all’interno della configurazione atomica, così nessun nuovo organismo occuperà lo stesso genius loci di un altro. La mutazione, o meglio l’evoluzione, segue quindi il principio di esclusione più che il caso. Se da un punto di vista biologico tale asserzione è tutta da verificare, risulta invece più intuibile da un punto di vista psicologico. Ciò che chiamiamo Io è dunque la mutazione psicologica. Come il DNA (Giraffa) sta alla sua mutazione (collo-più-lungo) così gli Archetipi stanno all’IO. Ci accorgiamo che la dicitura collopiù-lungo contiene la nozione di collo, così l’Io contiene l’archetipo. Estroiezione equivale a trovare un nome a quel collo-più-lungo nella stessa
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maniera in cui spina-dorsale-più-lunga è divenuto la parola “coda”. Dare un nome all’Io, al fanciullo divino è lo scopo dell’alchimia e della terapia, nel nome è contenuta l’immagine che de-psicoidizza l’Io e lo rende parte degli archetipi.
Artista sconosciuto. Attribuito a Camille Flammarion perché apparso per la prima volta nel 1888 nel suo libro: L’Atmosphere meteorologie populaire
Bibliografia e Note Hillman J. Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma1981, p.820. I Ching, Adelphi, Milano (1991) Jung C.G. (1946): Psicologia della traslazione; in Opere Vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino. Neumann E. (1949): Ursprungsgeschichte des bewusstseins. Rascher Verlag, Zurich. Trad. It.: Storia delle origini della coscienza, Astrolabio Ubaldini, Roma (1978). Tagliagambe S., Malinconico A. (2011): Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche. Raffaello Cortina, Milano. Von Franz M. L. (1980): Alchemy. An Introduction to the Symbolism and the Psychology. Trad.It.: Alchimia, Bollati Boringhieri, Torino (1984).
Luca Urbano Blasetti: Psicologo e Psicoterapeuta in formazione; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; opera nel suo studio.
L'Anima Fa Libro
Il mito è quel racconto della psiche che è anamnesi, prognosi, cura...
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GRECIA,
IVOLGERSI ALLA
AI SUOI MITI, AL GRANDE
MONDO DELLE OPERE TRAGICHE PER CAPIRE CHE LA UMANA,
SOFFERENZA
PRIMA
DI
DIVENIRE
PATOLOGIA
PSICHICA, RAPPRESENTA SOPRATTUTTO SFONDO SIMBOLICO E TRAGICO DELL'UOMO, È IL PERCORSO LUNGO IL QUALE SI DISPIEGA IL TEMA DI QUESTO LIBRO.
SE
PSICOLOGIA VUOL DIRE NON SOLO DISCORSO "SULLA", MA
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SOPRATTUTTO
PSICHE,
IL
LIBRO
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QUESTO PERCORSO LA CREATIVITÀ, FUNZIONE MENTALE
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INTELLIGENTE E CHE È PRESENTE IN OGNI INDIVIDUO, PUÒ FORNIRE UN CONTRIBUTO INESTIMABILE SIA PER LA SUA FORTE CARICA ENERGICA SIA PER IL SUO COLLEGAMENTO CON LA SPIRITUALITÀ.
DIMENSIONE PSICHICA CHE FACILITA
LA RICERCA DI PERCORSI INNOVATIVI, LA CREATIVITÀ È LA STRADA MAESTRA PER RINTRACCIARE IL SENSO DEL DOLORE PSICHICO; QUEL SENSO CHE LA PATOLOGIA SMARRISCE E CHE LA PSICOTERAPIA TENTA DI RESTITUIRE ATTRAVERSO LA PAROLA, LA RELAZIONE E LA RAPPRESENTAZIONE DEL PATHOS.
Marina Manciocchi, laureata in Filosofia e in Psicologia, si è specializzata in psicologia analitica presso il CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica) di Roma, svolge attività didattica e di supervisione. Docente di "Psicologia del sogno" e di "Psicologia del mito, folklore e fenomeni religiosi" nella scuola di specializzazione in psicoterapia del CIPA e di "Psicologia dell'adozione" nella scuola di specializzazione in psicoterapia dell'IdO (Istituto di Ortofonologia) di Roma, ha costituito un gruppo di ricerca teorico e clinico relativo al collegamento tra la creatività e la spiritualità, al quale partecipano artisti e professionisti di varia formazione psicoterapica. Coordina un laboratorio sul mito in
collaborazione con i colleghi dell'Istituti Meridionale del Cipa, i quali organizzano annualmente un convegno in occasione delle rappresentazioni al teatro greco di Siracusa. Fino al 2011 ha lavorato nella ASL RM H in qualità di psicologa dirigente; è stata responsabile per molti anni di un servizio materno infantile distrettuale e ha avviato e gestito il GIL Adozione Aziendale. Docente nei corsi ECM per operatori sociosanitari, ha pubblicato diversi articoli relativi al mito, alla preghiera e alla guarigione, al percorso adottivo e alle diverse sintomatologie psichiche. La sua attività professionale si svolge tra Roma e Velletri.
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Immagine tratta dal film Alice in Wonderland diretto da Tim Burton, 2010
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atira di una società campanilistica (peculiare dell’età vittoriana), specchio dell’infanzia che giudica il mondo degli adulti, viaggio onirico, libro della follia. E’ la storia di Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll, del bambino ribelle, di colui che, pur vivendo da adulto, critica in modo deciso il mondo degli adulti, di chi cerca di fuggire dai rigidi schemi della società e di rifugiarsi in terre lontane che fanno dell’illogicità la propria logica e del nonsense il proprio senso. Un siffatto temperamento rende, dunque, Carroll predisposto a rapportarsi con maggiore semplicità al mondo dei più piccoli, condizione che lo fa sentire appagato, a suo agio, libero di dare sfogo alla sua personalità, una personalità rimasta infantile, che vede nella possibilità di affidarsi alle immagini la rivendicazione di una volontà che si oppone alla consapevolezza di esser diventato adulto. E’ questa sua vena puerile che lo lega ad Alice Liddell: un amore proibito ma fecondo, lui adulto, lei bambina, colei che indossa le vesti di musa ispiratrice di una delle opere fondamentali del
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panorama letterario mondiale, Alice nel Paese delle Meraviglie. Simili attenzioni di Carroll verso i bambini, tuttavia, rappresentano anche una gravida fonte di malintesi, portando ad un travisamento dell'innocenza dell'adulto, tacciato dai più di pedofilia. Nella fuga nel mondo immaginale, si intuisce una forte connotazione personale che rimanda alla cattiva relazione con il materno interiore e concretistico. L’intera opera è permeata di continui rimandi all’infanzia “perduta” dell’autore. Questo senso di grande malessere, che lo invade, quasi a soffocarlo, lo spinge a solcare mondi che hanno poco o nulla in comune con la realtà quotidiana. Carroll si immerge con forza nell’immaginazione, in quello che egli definisce Paese delle Meraviglie: un “tuffo” in un abisso onirico, all’interno del quale Alice si trova ad affrontare una realtà in cui le regole convenzionali non valgono. La fantasia porta con sé la follia, generando inevitabilmente un distacco dal mondo terreno.
Alfredo Vernacotola, Stefano Vitaliani
Si tratta di un viaggio nel mondo psichico, in cui il principio di libertà rappresenta l'unico precetto. Nel Paese delle Meraviglie non esiste una fisicità, una corporeità che dia sostanza alle cose in senso fisico, così come non vi sono confini spaziali alla psiche, di cui il mondo meraviglioso è una metafora narrativa. La natura delle meraviglie è immateriale, o ancor meglio spirituale, ciò che può definirsi come soffio vitale. Il viaggio reca in sé la voglia di stupire i propri occhi attraverso la velocità del tempo e dell'azione, generata dalla sete di conoscenza dell'infante, che corre incontro al futuro, chiede con insistenza cosa avverrà dopo, nel capitolo successivo della propria esistenza. Risaltano agli occhi attenti del lettore, in un così complesso contesto, il concetto di avventura, la voglia di conoscere e la necessità di dare nuova consapevolezza alla propria individualità: un continuum di morte e rinascita, che permette all'autore l'autoconoscenza con una durata infinita. Come ogni processo di conoscenza richiede, la natura, che progressivamente viene identificata, assume risvolti inquietanti, connotando lo spazio di una nuova caratteristica: l'unidimensionalità, a sua volta generata dal tempo che non è più immobile, ma torna a battere, a palpitare. Tutto procede in senso opposto alla regola stabilita della società. La nuova conoscenza serba in sé la memoria di quel che dovrà accadere. Anche il linguaggio risente della spinta creativa del nuovo mondo, dove regna l'immaginazione, la fantasia, ben rappresentata dal brio della narrazione. avvinte da un improvviso silenzio eccole dietro a un sogno fanciullo, attraverso la libera terra delle nuove meraviglie bisbigliare con uccelli o bestie, credere per metà che sia tutto vero. (Lewis Carroll, Alice in wonderland, 2011) Il viaggio immaginario effettuato da Alice può essere ricondotto a un vero e proprio percorso di individuazione, di formazione e crescita, che va a mettere in discussione il vissuto concreto, rispondente ad una società troppo uniformatrice e massificante, tipica dell’epoca vittoriana, dando
smalto a nuovi scorci e possibilità di vedere e di esistere. Il viaggio di Alice è metafora di esplorazione in se stessi, tragitto interiore, ricerca di una propria identità. Come accennato, l’Alice descritta da Carroll non rappresenta altro che una proiezione e simultanea identificazione dell’autore con la propria parte femminile, l’Anima in Jung, Anima come Psiche, Anima come totalità primigenia dell’essere. L’iter dell’Alice-Carroll può definirsi come una “caduta all’indietro”, un precipitare verso quel mondo oscuro, misterioso e, al contempo, fascinoso dell’Inconscio. La caduta assume connotazioni fiabesche, è energia vivificante che traina l’autore stesso lungo tutto il viaggio nel mondo del “come se”. Questo passaggio è aggrappato indelebilmente all’immaginario del correre, ben delineato da Carroll nel personaggio del Bianconiglio, preso dal continuo timore del ritardo, dalla irrefrenabile “fretta”, dallo scorrere inesorabile delle lancette dell’orologio, posto sul petto. Proprio l’orologio ritrae in modo impeccabile e suggestivo il concetto di tempo, ma anche l’inarrestabile bisogno di scattare, di rincorrere e sprofondare in abissi altri, totalmente estranei ai paradigmi imposti dalla società. E allora l’orologio cambia connotati, trasformandosi in mezzo essenziale per trascendere una condizione eccessivamente precaria e terrena, per approdare a nuovi lidi ben più fecondi, che esulano completamente da schemi esplicitamente logici, e quindi superficiali, peculiari del mondo concreto. Si giunge, in sintesi, da uno stato di “apparente” normalità ad uno di completa follia. Dal punto di vista mitologico, si assiste a una necessaria sostituzione di Krònos, il tempo determinato, le lancette, con Aiòn, il tempo continuato, il buco in cui sprofonda Alice. Il Bianconiglio, nella funzione di HermesMercurio, è guida spirituale di Alice negli sconfinati territori della psiche, elemento fondamentale del rapporto della parte femminile, forte e incorruttibile, con il corrispettivo complesso materno. Hermes-Mercurio rappresenta l'ingresso della individualità dello scrittore nell'oceano della psiche, sede delle immagini primordiali della prima materia, che permette di avviare il processo
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Alice in Wonderland
di conoscenza individuativa. Il Mercurio alchemico è l’elemento base che, coniugato allo Zolfo, dà inizio alla trasformazione che produrrà l'Aurum philosophorum. Ed è proprio il materno ad essere un tema caro a Carroll, concetto che si manifesta in tutto il suo fervore nel suo rapporto ostile e di abbandono con la madre. Un tale complesso argomento viene affrontato dall’audace penna dell’autore nel rapporto che sin dall’inizio si instaura tra Alice e il Bianconiglio, delineato in modo puntuale dallo scambio di identità effettuato dal coniglio nei confronti della protagonista, apostrofata con il nome di Marianna (Geburah bianco), colei che incarna nel suo essere una duplice natura: madre protettiva e la controparte sofferente della medesima, che rivela senso di colpa e impotenza, in particolare dinanzi al proprio alterEgo, la Regina di Cuori (Geburah nero). Ciò si denota nell’incapacità di Alice di stabilire un equilibrio tra grande e piccolo, tra esterno (rapporti interpersonali) e dinamica intrapsichica. Ella si trova a scontrarsi con l'alterata percezione di sé: prima troppo grande dinanzi alla porticina d’ingresso nel Paese delle Meraviglie, poi troppo piccola una volta entrata, condizione che si verifica durante tutto il tragitto e particolarmente evidente nell’episodio finale dell’incontro con la Regina di Cuori. Questa continua strutturazione e destrutturazione risulta, tuttavia, inevitabile affinché l’AliceCarroll possa giungere al completamento del principium individuationis. La finale coniunctio oppositorum farà sì che la Piccola Alice divenga cosciente della propria parte inconscia, di quei contenuti psichici non ancora integrati nella coscienza: il raggiungimento del Sé. “Ne ho visti di gatti senza sogghigno, ma sogghigno senza gatto mai”. Sono queste parole a meglio introdurre Alice nel mondo delle meraviglie, ben delineato da Carroll nella figura dello Stregatto, personaggio allucinato e sempre sorridente, che più di tutti è rappresentante di follia: “Son tutti matti qui!”. Caratteristica peculiare è, appunto, il suo essere e non-essere, apparire e scomparire costanti. Questa sua eccentrica natura lo rende subito al centro di dubbi e stupore nell’animo della piccola Alice, costretta ad interfacciarsi con parti di sé altre, finora congelate nell’abisso dell’Inconscio, la
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cui consapevolezza risalta come elemento essenziale per la prosecuzione del suo processo conoscitivo. Lo Stregatto è creatura del caos, che non ha una propria fisicità… ne ha infinite. Questa sua capacità di alterare la realtà (qualsiasi essa sia) gli permette di assumere qualsiasi forma e dimensione, senza limiti o regole, capacità innata, propria della sua essenza. Il suo potere di rendersi visibile e al contempo invisibile, ancor più sovverte ogni tipo di logica, sottolineando la possibilità di sorridere e quindi esistere, ma anche di sogghignare senza essere. L’uno, dunque, non è più elemento-base per la presenza dell’altro. Un tal clima di follia viene descritto con estrema maestria, supportata da un pizzico di ironia, nonché grande persuasività, da Erasmo da Rotterdam in "Elogio della follia". "Io, io sola sono a tutti prodiga di tutto"( Erasmo da Rotterdam 2011, 17). sono queste le parole di Follia, colei che indossa le sublimi vesti di dea e si cimenta nel suo elogio da dominatrice dell'intera civiltà. Donatrice di vita, persuade l'animo umano ad "abbandonarsi un poco a qualche leggerezza e follia". Madama Follia governa e regna nell'esistenza di ogni essere umano divenendo origine di ogni bene e di ogni male. Nessuno può considerarsi saggio facendosi guidare solo ed espressamente dalla ragione, elemento fondante del mondo odierno. Ma il tema della follia è particolarmente probante anche nella teoria junghiana, secondo la quale la condizione estatica risulta una componente base al raggiungimento della completezza dell'essere. La follia rappresenta uno spirito-guida che sottende ad un alterato stato di coscienza. Jung, nel Liber Novus, definisce la follia, in particolare la follia divina, come il mezzo principale che permette la conoscenza della propria individualità. Ad agire dentro di noi è un Daimon che permette di discendere nei meandri dell'inferno psichico. Lo psicologo zurighese, supportato dalla lingua madre tedesca, spiega le varie accezioni del sostantivo: l’etimologia della parola Wahnsinn o Wahn riporta al concetto di “follia legata allo spirito”. Tale accezione rimanda a un vivere in superficie, che relega l’individualità nel non-essere.
Alfredo Vernacotola, Stefano Vitaliani
A tale significato si aggiunge l’accezione “insana” della follia, ritenuta come limitazione di colui che la vive. Questo "insano vaneggiamento”corrisponde ad uno stato di possessione da parte di uno spirito del profondo, che spinge il soggetto che ne è affetto a ritenere di essere lui stesso lo spirito traghettatore. La follia divina corrisponde a un’invasione dell’Inconscio, che permette il cammino di conoscenza, il processo di individuazione; la seconda tipologia, l’insano vaneggiamento condurrebbe ad una vera identificazione con i valori del tempo storico in cui si vive, ossia il costrutto teorico della Persona. Rappresenta quindi la follia che governa gli uomini che vivono in superficie. Al contempo la faccia divina della stessa, come Jung ci insegna, è l’equilibrio tra lo spirito interiore e lo spirito della civiltà. Dato che lo spirito della società indica la verità, ci si potrebbe aspettare che l’”assurdo” sia visto come il “non-senso” (Unsinn), tralasciando la follia divina. Scrive Jung: “La divina follia…una forma avanzata di irrazionalità della vita che fluisce in noi…in ogni caso, follia che non si può integrare nella società moderna…”(Jung Liber Novus, 2010). In sintesi, la follia divina sembra essere diversa da quello dello spirito antico, in quanto non trascura il tempo "moderno"(l'esserci) e, al contempo, permette il contatto con le tenebre, i demoni del mondo infero. Lungo l’intero tragitto, Alice viene investita e travolta da uno stato di autentica follia, che la eleva da una condizione di eccessiva razionalità, la rende partecipe della propria realtà psichica, dei personaggi che la albergano e la muovono. Scopre di esserne parte attiva, attrice del proprio dramma psichico, che si svolge ora alla tavola del Cappellaio Matto. E’ una strana comunità quella che si trova di fronte, una comunità senza spazio e senza tempo. Nuovamente Alice si imbatte in una situazione di apparente non-sense, che fonda la sua logica nell’illogicità. Intorno ad una tavola imbandita, il Cappellaio e la Lepre Marzolina, insieme al ghiro, si sono riuniti per un avvenimento speciale, è la festa di “Buon non compleanno”. E’ l’eterna festa dell’incompiuto, ben messo in risalto dal continuo cambiamento di posto da parte
degli invitati. Imprigionato nella perenne ora del tè, il Cappellaio, accusato dalla regina di Cuori di “ammazzare il tempo” mostra, a suo modo, una totale incapacità di portare a termine un discorso logico, senza titubanza alcuna. Questa sua difficoltà viene specificata puntualmente dall’indovinello senza soluzione, rivolto ad Alice: “Cosa hanno in comune un corvo e uno scrittoio?”, a cui egli stesso non sa dare risposta. Tale condizione è poi evidenziata anche dall’orologio che il Cappellaio possiede: segna il giorno ed il mese, ma non le ore. Ancora una volta, dunque, si assiste a uno scambio tra Krònos e Aiòn, tra determinato e continuato, razionalità e irrazionalità. Il Cappellaio si manifesta dinanzi agli occhi di Alice come colui che meglio di tutti rappresenta la follia: “Ho una malattia si chiama fantasia, porta quasi all’eresia, è considerata pazzia… Si dice che per sopravvivere qui bisogna essere matti, quasi come un cappellaio. E per fortuna io lo sono”. E ancora: “La gente vede la follia nella mia colorata vivacità e non riesce a vedere la pazzia nella loro noiosa normalità!”. Tale affermazione risulta significativa dello stato d’animo dell’autore, troppo distante da un’idea di società imprigionata nelle segrete della ragione, che poco o nulla lascia ad uno spirito irrazionale e libero da schemi. Nella realizzazione del personaggio con tutte le sue caratteristiche più peculiari, Carroll prende spunto dal detto inglese “Essere matto come un cappellaio”, a delineare l’uso, nella lavorazione dei cappelli, del mercurio, elemento con effetti deleteri per lo stato psico-fisico dei cappellai stessi. Ma il Mercurio, insieme allo Zolfo, è anche agente essenziale per l’avvio del processo alchemico di trasformazione. Come riportato da numerose tavole di antichi alchimisti, il bagno nell’acqua mercuriale corrisponde a un primo contatto con il caos della psiche, la quale si differenzia nei singoli personaggi, da cui è formata, grazie all’azione solvente del metallo. Dal canto suo, Fabricius, in “Alchimia”, sostiene
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Alice in Wonderland
che il contatto con la natura primordiale permette l’avviamento del processo individuativo( Fabricius Alchimia, 1997). L’immagine del Cappellaio è emblema di quella “follia divina”, di cui parla Jung, “donata” dalla Regina di Cuori. Significativo e controverso, il personaggio della Regina di Cuori rappresenta la parte contro sessuale dell’autore, che si manifesta compiutamente tramite le caratteristiche psicologiche della regnante del “mondo di sotto”, perifrasi con cui Carroll indica il mondo psichico che gli appartiene. La Regina incarna i valori oppositivi di una eccessiva razionalità, che imprigiona il genio dell’autore, impedendo a quest’ultimo di accedere al mondo infantile, in cui è rinchiuso il suo spirito. L’Alice-Carroll non riesce a opporsi in modo adeguato al volere della Regina; difficoltà, che si svela in una incapacità di visione di “mondi alteri”. La relazione con il materno risulta carente a causa di un non-riconoscimento dell’individualità fanciullesca dell’autore, disconoscimento che risulta evidente dalla “malattia” del Cappellaio Matto, che non permette di dare avvio ,compiutamente, alla trasformazione, che produrrà piena consapevolezza di poter diventare ciò che si è. Come accennato, la condanna inflitta dalla Regina al Cappellaio per aver “ammazzato il tempo” è una prova ulteriore dell’evidente distinguo che si viene a stabilire tra Krònos e Aiòn, dovuta alla mancanza di confini spazio-temporali ben definiti nel Paese delle Meraviglia. L’assenza di limiti è, infatti, aspetto essenziale per un nuovo processo di trasformazione. Scena particolarmente interessante e ricca di spunti è la partita di Croquet, nella quale la Regina utilizza non una vera mazza, bensì un fenicottero, e un riccio come palla. Il Phoenicopterus ruber è simbolo di apparizione aurorale, rappresentante di luce, colui che porta con sé l’anima migrante, aiutandola ad uscire dalle tenebre. Nella mitologia greca il fenicottero riconduce al mito di Cenide, fanciulla desiderata dai più, brame che costantemente ella rifiutava. Un giorno fu posseduta da Poseidone che volle ricompensarla, dando agio a ogni desiderio della giovane. Cenide chiese al dio di diventare uomo, in quanto
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non riusciva più a sopportare una tale condizione. Poseidone, oltre a realizzare il desiderio, le concesse anche di non essere ferito in futuro da ferri. Da quel momento ella mutò in Ceneo. Ceneo partecipò alla battaglia dei Lapiti contro i Centauri, che, non potendolo uccidere con dardi e frecce, decisero di seppellirlo sotto dei tronchi d’albero, fino a sfinirlo. Ovidio narra, nelle Metamorfosi che, al momento del trapasso, Ceneo si trasformò in fenicottero e si alzò in volo. Legato al fenicottero è il simbolo della croce, visibile in esso quando è in volo. Il fenicottero dà inizio al processo di trasformazione, che tende alla conoscenza del mondo infero. Conoscenza, tuttavia, impedita dalla Regina di Cuori, che si oppone al tentativo della giovane Alice di slegarsi dal complesso materno per poter avviare il processo di crescita tendente all’affermazione del Sé. Solita nel condannare ogni tentativo di autoaffermazione, la Regina si vendica grazie alla completa sottomissione di coloro che temono le sue reazioni. In siffatto contesto è possibile rintracciare un rimando al mito di Demetra/Kore, in cui la madre si vendicava ogni volta la figlia doveva discendere da Ade per essere regina degli Inferi. La Regina, in quanto personaggio controverso, seppur oppositiva provocando una una sorta di regressione della piccola Alice, risulta, comunque, elemento ineludibile per un ulteriore sviluppo psichico. Come afferma Jung, la regressione è un momento di stasi, di preparazione per un successivo maggiore slancio lungo il viaggio di conoscenza interiore. La presenza della Regina Bianca, unita alla Regina di Cuori, rappresenta fonte che dispensa energia essenziale per il processo di individuazione. La Regina di Cuori non è altri che l’Ombra dell’autore, che aspetta di essere integrata. Questa Ombra necessita di essere alimentata costantemente dall’azione dello Stregatto, pronto a stabilire lo “status quo”, in cui regna la follia, quella follia che Jung definisce divina, aspetto essenziale del completamento dell’essere. L’intera narrazione di Alice nel Paese delle Meraviglie è dunque incentrata sull’aspetto Follia,
Alfredo Vernacotola, Stefano Vitaliani
che permette a Carroll di abbandonare, anche solo temporaneamente, un mondo superficiale, basato su modelli eccessivamente schematici, razionali, che lascia ben poco spazio alla creatività. La follia rappresenta il mezzo essenziale, per mettere in luce parti di sé molto spesso imprigionate nelle segrete della ragione. Nel film “Alice in Wonderland”, Tim Burton evidenzia, in modo esemplare, un tema così complesso, fondamento della personalità di ciascun individuo, sin dalla scena iniziale, nel racconto del sogno e dei personaggi onirici della protagonista al padre: “ mi prenderai per matta”… "sì sei matta, ma la follia è solo dei migliori”(cit. Tim Burton, Alice in Wonderland 2009).
Alfredo Vernacotola, nato a L'Aquila il 27 Aprile 1978, laureato in Psicologia presso la Facoltà di Psicologia dell'Università degli studi dell'Aquila, iscritto al secondo anno della Scuola di Specializzazione Atanor. Vive e svolge le proprie attività a L'Aquila. Stefano Vitaliani, nato a L’Aquila il 23 Maggio 1986, laureato in Psicologia, presso la facoltà di psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila, iscritto al primo anno della Scuola di Specializzazione in psicoterapia Atanor, lavora attualmente a L’Aquila, in qualità di operatore, presso l’associazione per disabili Abitare Insieme.
Bibliografia e Note Carroll Lewis, Alice adventures in wonderland, 2011, Newton Compton, Roma; Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 2011, Mondadori, Milano; Fabricius, Alchemy, 1997, Edizioni Mediterranee, Roma; Graves Robert, I miti Greci, 1983, Longanesi, Milano; Jung Carl Gustav, Il Libro Rosso- Liber novus, 2010. Bollati Boringhieri, Torino; Nante Bernardo, Guida alla lettura del Libro Rosso…, 2012, Bollati Boringhieri, Torino; Otto Walter F., Gli dei della grecia. L’immagine del divino nello specchio dello spirito greco, 2004, Adelphi, Milano.
28
L'Anima Fa Libro
GLI IMMAGINARI FEMMINILI DI UN UOMO. IL CASO CLINICO Alfredo Vernacotola
I
(FR. 45). A CUI FARÀ ECO PLOTINO CON L’ASSERZIONE: "NEPPURE IL DIO HA ANCORA TROVATO IL SUO TERMINE" (ENNEADI, IV, 9, 4). ED ANCORA PLOTINO: "PRIMA CHE RAMPOLLASSE (PRIMA DEL 'PRIMA' A DIRE IL VERO) IL TEMPO RIPOSAVA IN SENO ALL'ESSERE, COME PURA IDEA. ENTRÒ ALLORA UN POTERE SENZA PACE, L'ANIMA, PROFONDA
STIGMATIZZÒ
VOGLIOSA DI TRASFERIRE IN UN
IL
SIGNIFICATO
METAFORA SEGUENTE:
‘LA
29
SUA NATURA"
l discorso sull’anima in psicoanalisi lo pose Freud con l’affermazione famosa: “La psicoanalisi è una parte della scienza dell’anima, della psicologia. È chiamata anche‘psicologia del profondo’, il perché lo vedremo in seguito” (Freud, Alcune lezioni elementari di psicoanalisi, 1938, in opere, Boringhieri, V. 11, p. 640). E JOHN KEATS, IN UNA LETTERA AL FRATELLO, DI
ANIMA
NELLA
CHIAMATE VI PREGO IL MONDO ALLORA SCOPRIRETE A
VALLE DEL FARE ANIMA’.
SUPREMA. MONDO
LA
ESSA
ETERNITÀ,
PLATONE NEL FEDRO, (246 A) GIÀ AVEVA AVVERTITO CHE “DELL’ANIMA, PROPRIAMENTE, PUÒ PARLARNE SOLO UN DIO. L’UOMO PUÒ SOLO ACCENNARNE PER SIMBOLI ED IMMAGINI”. DOPO CHE ERACLITO AVEVA STIGMATIZZATO CON L’AFORISMA IMPIETOSO CHE "PER QUANTO TU PERCORRA L'INTERO CAMMINO NON POTRAI RAGGIUNGERE I CONFINI DELL'ANIMA, TANTO È
ELLA
MA
LA VISIONE
NON ERA PAGA CHE LA TOTALITÀ DEL
IDEALE
CHE SERVE IL MONDO.
DIVERSO
LE FOSSE PRESENTE IN BLOCCO E IN A FRAMMENTI E A SUCCESSIONI: COSÌ
TEMPORALIZZÒ
SE
STESSA
E
IMPOSE
ALLA
CREATURA DEL MONDO DI SERVIRE AL TEMPO IN CUI L'AVEVA IMMERSA"
E L’ANIMA
(ENNEADI, III, 7, 11).
FU, DA GLI ALCHIMISTI, CONIUGATA CON
GLI ELEMENTI, COME CI RICORDA
JUNG: “PER
LE
ANIME È MORTE DIVENIRE ACQUA,PER L’ACQUA POI MORTE DIVENIRE TERRA; DALLA TERRA ANCORA NASCE
L'Anima Fa Libro
L’ANIMA” (JUNG, I TIPI OPERE, BORINGHIERI, V. 6, P. 437). IL QUALE JUNG AFFERMÒ: ... E L’ANIMA NON PUÒ ESISTERE SENZA LA SUA ALTRA PARTE, CHE SI TROVA SEMPRE IN UN ‘TU’ (PSICOLOGIA DEL TRANSFERT, IN OPERE, BORINGHIERI, V. 16, P. 250). INFINE L’AFFERMAZIONE CON CUI JUNG LA CARATTERIZZÒ CONCRETISTICAMENTE: “SI PUÒ
ASTRARRE.
DEFINIRE
ALCHIMISTI ARRIVANO A DIRE
L’ACQUA,
DALL’ACQUA
PSICOLOGICI, IN
ANIMA
ANCHE
IMAGO
O
ARCHETIPO
O
SEDIMENTAZIONE DI TUTTE LE ESPERIENZE CHE L’UOMO FA
DONNA.
DELLA
DELL’ANIMA
VIENE
PER DI
L’IMMAGINE
QUESTO
CONSUETUDINE
PROIETTATA
SULLA DONNA"
(COMMENTO AL ‘SEGRETO DEL FIORE D’ORO, IN OPERE, BORINGHIERI, V. XIII, PP. 48-49). CON QUESTE ASSERZIONI POSSIAMO INTRODURRE IL LAVORO DI ALFREDO VERNACOTOLA, IL QUALE DOPO L’INNO ALLE DIVINITÀ GRECHE, IN OMAGGIO ALLA DEA CHE MEGLIO LE RAPPRESENTA, AFRODITE, DELLA QUALE TRATTA AMPIAMENTE, PONENDOLA AL CENTRO DELLA SUA TRATTAZIONE, ANCHE ALLA LUCE DEGLI ULTIMI CONTRIBUTI PSICOLOGICI, CI CONDUCE IN UN VIAGGIO SIMIL HYPNEROTOMACHIA, CHE CI RICORDA IL CAPOLAVORO DEL VIAGGIO MITICO DI FRANCESCO COLONNA NELLA CLASSICA HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI DEL 1499. L’ANIMA, COME CI AVEVA AVVISATO JUNG, RIPORTANDO UN PASSO DEL DE SOLPHURE DI ANONIMO, OPERA NEL CORPO MA LA PARTE MAGGIORE DELLA SUA FUNZIONE (OPERATIO) SI SVOLGE AL DI FUORI DEL CORPO (PSICOLOGIA E ALCHIMIA, BORINGHIERI, P. 285). NOI SAPPIAMO BENISSIMO COME FUNZIONA LA PROIEZIONE: ENTRO LA PSICHE SI ATTIVANO LE IMMAGINI, CHE SI PROIETTANO NELLE REALTÀ CONCRETE, AL DI FUORI DI NOI, DA CUI POI CREDIAMO ESSE DERIVINO. E SAPPIAMO ANCHE BENE CHE QUESTO PROCESSO È SEMPRE PSICHICO (O INCONSCIO COME SI SUOL DIRE). COSÌ POSSIAMO CAPIRE BENE GLI ALCHIMISTI CHE NON ESSENDO PRATICI DI PROCESSI PSICHICI
(ALMENO
COSÌ SI
RITIENE, MA FORSE NON È VERO) NON POTEVANO FAR ALTRO CHE ELABORARE CONCRETISTICAMENTE LABORATORIO UN OPERA
NEL
CHE DESSE CORPO ALLE
LORO IMMAGINI, LE QUALI SENZA L’OPERA, CIOÈ LA REALIZZAZIONE ESISTERE.
COME
CONCRETA, NEL
NON
PRIMITIVO,
POTEVANO MA
ANCHE
SEMPRE JUNG, IN PSICOLOGIA DEL TRANSFERT, SCRIVE CHE L’ANIMA È IL VINCULUM CHE TIENE UNITI RE E REGINA, VENERE E MERCURIO, SOLE E LUNA, SPIRITO E CORPO, È L’ERMAFRODITA, È L’EROS, MA IN PARTICOLARE È UN’ANIMA MEDIA NATURA CHE TIENE UNITA UNA RAFFIGURAZIONE PER METÀ CORPOREA E PER METÀ SPIRITUALE.
TRE
UN
IMMAGINI,
SOLO
LA
UNICO
CORPUS, ANIMA E
‘PERCHÉ
UN
PROVENGONO
ESSERE CHE È LA RADICE DI SÉ
STESSO NON PUÒ ESSERE ALTRO
CHE LA DIVINITÀ
STESSA”
(JUNG, PSICOLOGIA DEL TRANSFERT, MONDATORI, P. 122-23). CON QUESTE MODALITÀ PSICHICHE SI REALIZZA L’OPERA DI ALFREDO VERNACOTOLA, TRATTANDO LE IMMAGINI FEMMINILI NEI SOGNI DI UN UOMO SUI TRENT’ANNI,
APPORTANDO
IMMAGINARI
DEL FEMMINILE
UN
CONTRIBUTO
AGLI
RAPPRESENTATI
DAL
MASCHILE, TRAMITE L’ANALISI DEI SOGNI DI UN ANALIZZANDO IN TERAPIA DA MOLTI ANNI.
VOGLIO LA
LASCIARE AL LETTORE LO SFIZIO DI SCOPRIRE
PARTICOLARE
PROSA
DI
ESPOSIZIONE,
CHE
CONSISTE NELL’INSERIRE L’EVENTO ANALITICO NELLA NARRAZIONE
MITOLOGICA
CON
LA
LEGGEREZZA
DELLA MITOLOGIA E LA CONSISTENZA DEL CASO CLINICO.
INTERESSANTE
RITENGO SIA L’AMPLIFICAZIONE DEGLI
IMMAGINARI ONIRICI ED ESISTENZIALI, MA ANCOR DI PIÙ L’AMPLIFICAZIONE DELLE DIVINITÀ, COME PER ESEMPIO L’AMPLIFICAZIONE DI
VENERE CON LA DEA HILLMAN QUANDO AMPLIFICÒ AFRODITE/VENERE CON L’ANIMA MUNDI E LA BELLEZZA DEL COSMO. GIÀ APULEIO AVEVA TRACCIATO LA VIA DENOMINANDO LE DEE, A SECONDA DELLE REGIONI IN CUI VENIVANO ADORATE, CON IL NOME DI ISHTAR, PESSINUNZIA, MINERVA, VENERE, CERERE, GIUNONE, ECATE, PROSERPINA ECCETERA, MA ALTRE NON ERANO CHE ISIDE REGINA (CFR. APULEIO, METAMORFOSI, 11, 6). ANCHE NEL LAVORO DI ALFREDO VERNACOTOLA LE BIANCA,
COSÌ
COME
FECE
VARIE SEMBIANZE FEMMINILE ALTRO NON SONO CHE IL
FEMMINILE
CONTATTO,
DI
TUTTO
DI SÉ STESSO..
MASCHILE.
PRODUZIONE
“CHE
DALL’UNO, DELL’UNO E CON L’UNO, CHE È LA RADICE
CHE NON HANNO ANCORA BENE ELABORATO, CHE LA È
QUESTO VINCULUM GLI
SPIRITUS DELLA SOSTANZA ARCANA FORMANO UN TUTTI E
NELL’UOMO COMUNE ED ANCHE NEGLI PSICOLOGI, PSICHE
DA
LO
ARCHETIPICO
NELLA
FANTASIA
STA A DIMOSTRARE L’AMICIZIA ED IL
NEI
SOGNI,
CON
IL
DEMONE
PER
ECCELLENZA: IL SERPENTE.
CONCRETEZZA HA SUSSISTENZA, PERCHÉ AL DI LÀ DELLA
CONCRETEZZA
NON
SI
È
IN
GRADO
DI
Prof. Venicio Marcello Perilli
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Caspar David Friedrich (1774-1840) Zwei Männer am Meer bei Mondaufgang (Due uomini in riva al mare al sorgere della luna), 1817 olio su tela 51 x 66 cm, Alte Nationalgalerie, Staatliche Museen zu Berlin - Preussischer Kulturbesitz, Berlino
Lasciatevi riconciliare con Dio San Paolo (2 Cor 5, 20). Cristo gridò agli Ebrei “voi siete dei” (Giovanni 10,34). ma gli uomini furono incapaci di intendere cosa volesse dire1.
C
ome sostiene Devescovi,2 con Jung si ha lo spostamento del trascendente dall’alto dei cieli alla profondità della psiche umana. Con questo movimento interpretativo Jung rivitalizza il Cristianesimo e, in un colpo, gli restituisce parte del senso perduto nel corso dei secoli; fornisce inoltre una spiazzante risposta a chi, in nome dell’ateismo, ha dedicato i propri sforzi a
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evidenziare l’assurdità e l’incoerenza delle asserzioni religiose3. Jung è riuscito in questo intento allontanandosi da un’interpretazione letterale delle Sacre Scritture e proponendone una simbolica. Scrive a questo proposito Oddo4 che “Là dove la dogmatica ecclesiale è propensa a far coincidere verità spirituale con realtà storica, Jung rivendica alla narrazione religiosa il suo valore
Davide Stroscio
simbolico, dove non ha senso cercare di comprovare il contenuto di realtà di un assunto religioso nella sua verosimiglianza o nel suo fondamento storico”. Il Cristianesimo diviene allora un mito, sebbene sia significativo che esso “non venga preso in considerazione come mito dai dizionari sul mito editi in occidente. Il proprio mito non si descrive perché è invisibile”.5 Il rapporto tra Jung e il Cristianesimo può essere studiato nella direzione che va da Jung al Cristianesimo, argomento certo fecondo e interessante, nel quale la via interpretativa proposta da Jung appare ancora inesaurita. La mia intenzione, però, è quella di soffermarmi sulla direzione opposta, ossia di valutare cosa del Cristianesimo, e in particolare del Cattolicesimo, e della sua cultura bimillenaria, sia confluito nella pratica analitica junghiana. Intendo soffermarmi in particolare sul Sacramento della Confessione. L’interesse per questo versante della questione è nato da solo, in un periodo in cui mi ero trovato a riflettere sul rapporto tra Jung e il Cristianesimo, argomento che mi attirava ma verso il quale mi sentivo perso. Come sempre accade, una volta predisposto lo spazio necessario, e rassegnandomi a permanere nella mancanza di un orizzonte preciso, l'idea si è presentata da sola, e con una forza tale che mi sorprendeva. Poi un ricordo si è presentato a dare senso al mio interesse, riportandomi a quando esso, sia pure in germe, era nato. Alcuni anni fa, in vacanza a Parigi, mi ero recato, come d’obbligo, a visitare la cattedrale di NotreDame. Non era la prima volta, ma in quell'occasione notai qualcosa che mi sorprese molto. La navata destra della chiesa, infatti, era occupata da una serie di stanze quadrate limitate da pareti in vetro trasparente, poste una di fianco all’altra. All’interno di ogni stanza un sacerdote sedeva di fronte ad un fedele, i due erano separati da una scrivania, anch’essa trasparente. Non capii subito, poi immaginai che fossero dei luoghi preposti all’assistenza spirituale, forse dei moderni confessionali. Non so dire con precisione di cosa si trattasse concretamente, ma fui colto dalla grande somiglianza tra quegli spazi e un setting analitico, come se la pratica religiosa, modernizzando la forma - la stanza trasparente al posto dell’oscuro confessionale - si fosse ripresa ciò che, in origine, le apparteneva per diritto d’autore. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica la
confessione viene denominata Sacramento della Penitenza, della Riconciliazione, del Perdono, della Confessione, della Conversione, e viene inserito, e qui già si nota una prima assonanza col contesto terapeutico, tra i Sacramenti di guarigione. Come vedremo, varie coincidenze nella terminologia sottolineeranno la vicinanza tra i due ambiti. Cerchiamo innanzitutto di definire quali siano i cardini di questo sacramento nella pratica cristiana. Esso consta di due elementi essenziali, ossia “gli atti compiuti dall’uomo, che si converte sotto l’azione dello Spirito Santo, e l’assoluzione del sacerdote, che nel nome di Cristo concede il perdono e stabilisce la modalità della soddisfazione”.6 La confessione è un sacramento che prevede particolari atti, quali “un diligente esame di coscienza, la contrizione (o penitento), che è perfetta quando è motivata dall’amore verso Dio, imperfetta se fondata su altri motivi, e che include il proposito di non peccare più; la confessione, che consiste nell’accusa dei peccati fatta davanti al sacerdote; la soddisfazione, ossia il compimento di certi atti di penitenza, che il confessore impone al penitente per riparare il danno causato dal peccato.”7 Gli effetti del Sacramento della Confessione sono “la riconciliazione con Dio e quindi il perdono dei peccati; la riconciliazione con la Chiesa; il recupero, se perduto, dello stato di grazia; la remissione della pena eterna meritata a causa dei peccati mortali e, almeno in parte, delle pene temporali che sono conseguenze del peccato; la pace e la serenità della coscienza, e la consolazione dello spirito; l’accrescimento delle forze spirituali per il combattimento cristiano.” 8 Appare chiaro che il Sacramento si fonda su una visione morale determinata e ricerca uno scopo definito con precisione, ossia il superamento del peccato tramite la sua ammissione e il ricevimento di un’assoluzione, condizionata a una pena stabilita. Tutto ciò, come vedremo più in avanti, non ha nulla a che vedere con la pratica analitica. Ma proviamo a pensare alla struttura del Sacramento e a come, nella pratica, esso si svolga: in uno spazio chiuso ha luogo un dialogo in cui qualcuno prevalentemente parla e un altro prevalentemente ascolta. Chi parla è in cerca di qualcosa, è in qualche modo sofferente, mentre l’altro si trova in una posizione di supposto sapere,
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La Confessione s'immagina che possa qualcosa; i due si trovano, comunque, in una posizione asimmetrica. Un altro aspetto interessante è che nelle due situazioni vige l’obbligo della castità e della segretezza. La castità è un voto che definisce il ruolo del sacerdote, mentre la segretezza è la garanzia che permette la costruzione di uno spazio totalmente personale, dove il peccato possa essere rivelato. Ma castità e segretezza sono anche due dei cardini della seduta analitica, essi permettono la creazione di una distanza tra analista e analizzando e tra coppia analitica e mondo esterno, realizzando lo spazio necessario affinché le proiezioni possano emergere, condizione necessaria allo svolgersi del processo conoscitivo. Si tratta di uno spazio che permetterà all’inconscio del paziente e a quello dell’analista di entrare in relazione. Se ci fosse maggiore vicinanza, sia tra i due sia verso il mondo esterno, la concretezza prenderebbe il posto del pensiero, le emozioni verrebbero agite, anziché sperimentate e comprese. Ecco perché in analisi sono così importanti i concetti di astinenza terapeutica e segreto professionale. A fine seduta, infine, il paziente paga l’analista, quindi compie un’azione stabilita dalle regole della relazione mentre, dopo la confessione, il credente si trova a dover compiere una penitenza. Vi è quindi un momento retributivo, aspetto che permette di valorizzare ciò che sta accadendo. Quale lavoro analitico si potrebbe fare senza l’investimento del paziente, se non vi fosse la rinuncia a qualcosa cui si tiene -del denaro e le possibilità che esso permette di realizzare- in favore di qualcos’altro di altrettanto importante. Allo stesso modo, quale valore avrebbe confessare i propri peccati se questo non richiedesse un sacrificio? Un altro aspetto che accomuna confessione e seduta analitica è l’aspetto rituale. In entrambe le situazioni vi sono regole e ricorrenze precise che, nel loro ripetersi, acquisiscono una sacralità. La confessione, come la seduta, è periodica e si svolge in un luogo preciso. Secondo Jung il rito ha un’importante funzione di contenimento, permette di creare un confine. Esso “da tempi immemorabili è stato un mezzo sicuro per dominare le forze inafferrabili dell’Inconscio”.9 Sullo stesso argomento Jung sostiene che “gli sforzi dell’umanità sono stati volti al consolidamento della coscienza mediante i riti, les représentations
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collettives, i dogmi, che erano le dighe, le muraglie erette contro i pericoli dell’Inconscio, the perils of the soul.”10 Il rischio, infatti, è “l’identificazione dell’Io cosciente con il Sé. Da qui un’inflazione che minaccia di dissolvere la coscienza”.11 Contribuisce alla ritualità della confessione l’affidarsi a un proprio confessore. Viene allora a instaurarsi un rapporto speciale che non ricorda solo quello tra paziente e analista ma anche quello tra analista e supervisore e, ancor prima, quello tra futuro analista e analista didatta. Proprio Jung, riferendosi al valore dell’analisi per i futuri analisti fa riferimento all’ambito della confessione, scrivendo che “nonostante la sua infallibilità, persino il papa deve confessarsi regolarmente, e non a un monsignore o a un cardinale, ma a un prete comune”.12 Nella supervisione l’analista si trova a raccontare il proprio lavoro con i pazienti a un collega più esperto: ancora una volta un rapporto asimmetrico (il termine supervisione ha una chiara etimologia: supervidere, ossia vedere da sopra, sorvegliare). Le due situazioni, infine, sono accomunate dall’essere fondate su un processo di narrazione di sé. Narrare fatti, pensieri ed emozioni della propria vita dinanzi ad un altro che assume la funzione di specchio, favorisce la riflessione su di sé, la presa di coscienza. Il processo narrativo innesca quello associativo e con esso si amplifica la portata dell’oggetto del racconto. In questo modo la confessione diviene, oltre che rivolta a un altro, un movimento di appropriazione, una confessione a se stessi che solo uno specifico setting permette, inducendo a esplicitare, specificare, far 13 comprendere all’altro e a sé. Confessandosi, il credente, si appropria, assumendosene la responsabilità, di azioni e pensieri che altrimenti rimarrebbero dissociati. La confessione prevede, infatti, un esame di coscienza, una presa di coscienza, dei propri peccati e, direi, di parti di sé. Certamente tra la confessione cattolica e l’analisi vi è una differenza fondamentale. Nella confessione il racconto del credente e l’ascolto del sacerdote hanno alla base un solido riferimento morale e normativo, fatto questo che implica un giudizio da parte del sacerdote sui comportamenti del credente. Il sacerdote, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ha potere il concedere il perdono. Egli è un tramite tra il fedele e il
Davide Stroscio
divino, la sua verità è certa perché rivelata. Nell’analisi di tutto ciò non deve esserci traccia, il setting è un luogo fisico e psichico nel quale il giudizio e l’assoluzione sono assenti, nel quale il dubbio viene coltivato. Il lavoro dell’analista è teso a spingere e sostenere la crescita del paziente, la sua autonomia e la sua libertà, in una parola la sua individuazione. Entriamo ora nello specifico della riflessione junghiana su questo tema. Scrive Jung che “i primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati nella confessione religiosa”.14 Jung parte dal concetto di peccato e di come questo abbia prodotto la necessità dell’occultamento psichico, ossia della rimozione. In questo caso il contenuto nascosto diviene inconscio e, scindendosi dalla coscienza, diviene un complesso autonomo, una specie di psiche indipendente che, seppure in maniera indiretta, continua a influenzare la coscienza. Allora, come scrive Jung15 “i danni provocati da un segreto inconscio sono in generale maggiori di quelli provocati da un segreto cosciente”. Da qui l’importanza della confessione autentica e incondizionata. Jung considera quello della confessione come la prima fase della psicoterapia, seguita dalla chiarificazione, dell’educazione e dalla trasformazione, fasi che possono anche scandire ciò che avviene all’interno della singola seduta. In questa prima fase si opera quella che non a caso è stata chiamata catarsi, dal greco kàtarsis, ossia purificazione, termine che la lega indissolubilmente alla confessione religiosa. Il paziente viene sospinto quanto più possibile nei recessi della sua coscienza, affinché possano emergere “tracce crepuscolari di rappresentazioni, in forma di immagini o sentimenti, che si staccano dallo sfondo oscuro e invisibile dell’inconscio per apparire come ombre incerte allo sguardo rivolto verso l’interno”.16 Ciò che si presenta, inizialmente, è ciò che d’inferiore e riprovevole appartiene al paziente, ciò che Jung riunisce sotto il termine Ombra. Essa, a volte, specie nei sogni, assume la forma del Demonio, oppure viene proiettata, nella veglia, su coloro che rappresentano il male, sulle persone che assumono comportamenti riprovevoli, i peccatori. Eppure, prima di Jung, il Cristianesimo aveva rivelato come tutti siamo peccatori, tutti abbiamo un’Ombra. Diverso è quello che si può fare con questa parte oscura che abita, forse fondandola, la
nostra psiche. Qui emerge la differenza sostanziale tra confessione e analisi. La confessione religiosa, infatti, termina con uno stato di pacificazione: il credente si è liberato dei propri peccati, è stato assolto e gli è stato indicato cosa fare per espiare la propria colpa. Nella terapia le cose vanno diversamente. Secondo la nota teoria junghiana degli opposti, la seduta analitica mira, tra le altre cose, a far emergere l’opposto, inizialmente inconscio, dalla psiche dell’analizzando. In questo modo si tende a creare quella tensione tra opposti che, grazie alla funzione trascendente, potrà essere superata con il presentarsi di un tertium. Non ci cerca quindi un rilassamento tensivo e una pacificazione tra il credente e il divino, bensì di favorire la trasformazione. D'altronde nel Vangelo Gesù dichiara: “Non pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare una pace, ma una spada”.17 Se nella confessione il credente si alleggerisce, nella seduta analitica avviene per certi versi l’opposto. Il paziente, riconoscendo come proprie parti di sé inizialmente rifiutate o svalutate, oppure totalmente sconosciute, l’Ombra appunto, finisce per assumere su di sé qualcosa, si trova coinvolto in un movimento di inclusione, scoprendosi parte di qualcosa di più grande. Per definire questo processo Jung utilizza, non a caso, un termine dalla risonanza religiosa, parlando di passione dell’Io.18 La stessa figura del Cristo crocifisso potrebbe rappresentare questa situazione, “l’adesione all’esistenza e alle sue contraddizioni, senza la quale non può esserci il processo di trasformazione attraverso la morte e la resurrezione19. Cristo, infatti, accetta la sua Croce. Pieri20 afferma che per Jung il termine confessione “indica l’ammissione delle proprie colpe come tali, e più in generale il riconoscimento di una cosa per ciò che essa stessa è, e quindi il riconoscersi del soggetto per quello che egli stesso è […] un primo ed essenziale fattore del lavoro psicoterapeutico, nell’esercizio del quale il soggetto riconosce ciò che la propria coscienza, sottoponendolo a rimozione, aveva fondamentalmente disconosciuto. Ma poiché non c’è colpa senza riferimento a una legge, il riconoscimento che si produce nella confessione di una colpa come tale produce di rimbalzo il riconoscimento della potenza della legge e dei suoi rappresentanti, a cui il soggetto si era, più o meno involontariamente,
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La Confessione
sottratto […] nella confessione c’è non tanto una nuova conoscenza di sé e del mondo, quanto piuttosto il riconoscimento di sé e del mondo in relazione a un’interpretazione dominante […]”. Questa riflessione di Pieri permette di sviluppare ulteriormente il discorso sulla differenza tra la confessione cattolica e la pratica analitica di Jung. Infatti, nel primo caso l’ammissione della colpa rispetto a norme stabilite è tesa a ottenere una purificazione, una catarsi, appunto, ossia un’azione che restituisce il credente a uno stato precedente che era stato macchiato dalle sue azioni o pensieri, una restitùtio ad integrum, si potrebbe dire. Nel corso dell’analisi, esponendo la propria Ombra, il paziente perviene alla comprensione delle leggi che agiscono su di lui portandolo proprio alla costituzione di un’Ombra, premessa per il rifiuto di parti anche vitali di sé e di proiezioni a volte anche pericolose. Basti pensare ai noti fenomeni del capro espiatorio, oppure alle discriminazioni razziali, fondate su questo meccanismo di tipo proiettivo. Si tratta, quindi, di un avanzamento conoscitivo, poiché una volta messe in luce le dominanti, queste possono essere sottoposte a critica, riviste, cosa questa non proponibile dinanzi al sistema di valori religiosi. Si può affermare allora che nel Cattolicesimo la confessione è inizio e fine della riflessione dell’uomo sulla propria Ombra, in quanto un sistema di valori precostituito e una precisa ritualità, che prevede la penitenza e l’assoluzione, chiudono il cerchio intorno al credente e lo restituiscono purificato alla comunità. Nella psicologia analitica la confessione è solo il primo passo di un percorso che si protrae nel tempo21, primo perché la mancanza di una chiusura da parte del terapeuta lascia lo spazio, la mancanza, necessaria per l’emergere dell’Altro. Il movimento è comunque di tipo inclusivo, l’obiettivo è un’amplificazione della personalità, un riconoscimento di quante siano le possibilità e da qui una maggiore capacità di scelta, quindi di libertà. Si tratta di raggiungere ciò che Jung indicava con il termine Sé, il fine del processo d’individuazione, “l’obiettivo di quel lavoro di natura interiore che deve portare l’uomo dall’essere al servizio dei condizionamenti che lo hanno determinato come Io, a essere libero e realizzato nelle sue potenzialità spirituali”22, a essere completo ma non perfetto. Diversamente, nella confessione religiosa il movimento è di tipo
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esclusivo, si ricerca l’allontanamento dal male e dal peccato, la restituzione, come detto, della purezza all’anima del credente. Un altro aspetto interessante riguarda la posizione del terapeuta rispetto al paziente. Anche in questo caso nell’analisi si ha una prospettiva più mobile rispetto alla confessione religiosa. Il terapeuta si trova, infatti, a far parte di un processo dialettico, nel quale non può insegnare al paziente dall’alto della sua cattedra, trovandosi invece in gioco con i propri complessi, idiosincrasie, questioni non risolte. Anziché porsi come giudice, il terapeuta si trova egli stesso a dover vivere i dubbi del paziente, senza poter fornire alcuna indicazione sulla via da seguire, sia perché ciò non sarebbe utile terapeuticamente, sia perché, in tutta onestà, lui stesso non può sapere cosa sia meglio per il paziente. L’apertura del terapeuta arriva fino alla possibile condivisione di informazioni su di sé o sulla propria vita, se ritenute utili, in quella che viene chiamata tecnicamente self disclosure. Scrive Jung, a questo proposito, che “il terapeuta non è più il soggetto che agisce, bensì è il compartecipe di un processo di sviluppo individuale”.23 Si tratta di un processo dialettico e non di un movimento a senso unico. Infine, si deve ribadire un aspetto già accennato, ossia che proprio mostrando le differenze tra confessione religiosa e pratica analitica, non è possibile negare un'ultima somiglianza. Si tratta di attività complesse e logoranti, tanto che in entrambi i casi è prevista la presenza di una terza figura, una figura di aiuto, consiglio e sostegno. Si tratta, come si sarà intuito, del confessore o dell’assistente spirituale, al quale si potrà rivolgere il sacerdote e del supervisore per quanto riguarda il terapeuta.
Bibliografia e Note 1. Jung, 1961, pag. 314. 2. Devescovi, 2006, pag. 121. 3. Un esempio rappresentativo di questo filone è dato dal libro di Odifreddi, 2007, dall’eloquente titolo: “Perché non possiamo essere Cristiani”. 4. Pannikkar, 2004, pag. 48, 5. cit. in Devescovi, 2006, pag. 183. 6. Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005, 14401449. 7. Ivi, 1450-1460, 1487-1492.
Davide Stroscio
8. Ivi, 1468-1470, 1496. 9. Jung, 1938-1940, pag. 55, cit. in Devescovi, 2006, pag. 72. 10. Ivi, pag. 20, cit. in Devescovi, 2006, pag. 74. 11. Jung, 1939-1950, pg. 141, cit. in Devescovi, 2006, pag. 155. 12. Jung, 1981, pag. 158. 13. Jung, 1946, pag. 295, scrive a questo proposito che “un «riconoscimento dei propri errori» generico e accademico è inefficace, perché da esso non emergono in realtà gli errori, ma unicamente la loro rappresentazione, l’idea che uno ne ha. Gli errori risaltano quando di fatto intervengono nella relazione con gli altri e diventano evidenti sia a noi stessi che al nostro prossimo. Solo a questo punto possono essere realmente percepiti e riconosciuti nella loro vera natura. Così anche la confessione fatta a noi stessi ha perlopiù un effetto scarso o nullo, mentre se è fatta a un altro possiamo attenderci da essa ben altra efficacia.”. 14. Jung, 1929, pag. 65. 15. Ivi, pag. 67. 16. Ivi, pag. 68. 17. Mt 10,34. 18. Jung, 1942-1948, pag.156, scrive di un “compito eroico o tragico, in ogni caso difficilissimo, perché implica un patire, una passione dell’Io, cioè dell’uomo empirico, comune, quale è stato finora, a cui accade di essere accolto in una sfera più grande, e di spogliarsi di quella autonomia che si crede libera. Egli patisce, per così dire, la violenza del Sé”. 19. Devescovi, op. cit. Pag. 166. 20. Pieri, 1998, alla voce “Confessione”. 21. Devo alla dr.ssa Marina Manciocchi del CIPA di Roma l’osservazione di come la variabile tempo distingua la confessione dall’analisi. Nel primo caso il risultato ricercato viene raggiunto nel breve intervallo che intercorre tra l’ingresso e l’uscita del fedele dal confessionale, nel secondo il processo, incerto per sua natura, richiede comunque un tempo lungo e imprecisato. 22. Michelini Tocci, 2009, in Kaufman ( a cura di), pag. 25. 23. Jung, 1935, pag. 12.
Davide Stroscio, Psicologo-Psicoterapeuta, si è specializzato presso la Scuola di Psicoterapia Comparata di Firenze (SPC), con la quale dal 2012 collabora come conduttore di gruppi Gestalt. Durante la propria analisi didattica si è appassionato ai temi della psicologia analitica junghiana, iniziando da lì un percorso di studio e approfondimento. Lavora nel suo studio privato di Firenze e presta la propria opera come volontario presso i servizi territoriali della ASL fiorentina.
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In Anima-Azione
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In Anima-Azione
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Sigurðr. An illustration from Fredrik Sander's 1893 Swedish edition of the Poetic Edda.
S
esta avventura.
Qui la Hybris raggiunge il suo culmine. Gunther vuole di più, aspira a ciò che in fondo sa di non meritare: vuole Brunilde, la bellissima regina di Islanda. Se la rivendicasse apertamente, tutti ne sono consapevoli, perderebbe la vita: la bella regina è un guerriero imbattibile42 ed ha l’abitudine di sfidare i pretendenti a tre giochi di abilità e di forza. Perdere anche solo in uno di essi significa perdere la testa.
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Sigfrido, che come sappiamo in altri tempi e luoghi bene e intimamente ha conosciuto Brunilde43, sconsiglia Gunther dall’intraprendere il viaggio in Islanda. Gunther si intestardisce in quello che a conti fatti è un capriccio di arroganza, una tracotanza, una Hýbris. Il ben informato Hagen gli consiglia di farsi accompagnare e sostenere nell’impossibile impresa da Sigfrido. Gunther giura a Sigfrido di dargli in premio e compenso Crimilde, in cambio di un aiuto efficace ad ottenergli Brunilde, ma solo a successo ottenuto.
Piero Di Prinzio
Sigfrido, accettando, si macchia egli stesso di Hýbris, venendo meno al ruolo che il destino gli ha imposto, tradendo se stesso e ciò di cui è in verità degno di fronte agli dèi. Ma qui, nel regno burgundo, la cristianizzazione è già compiuta e gli dèi sono ormai esiliati in altro tempo. Gunther lascia a Sigfrido il compito di organizzare la spedizione oltremare. Gli chiede quanti guerrieri ritenga necessario coinvolgere nell’impresa. Qualunque ne sia il numero - disse Siegfried allora – la superba signora è talmente feroce che soccomberanno tutti sotto il suo braccio fiero … Scendiamo lungo il Reno soli, da cavalieri, conducendo con noi quattro guerrieri soltanto, che nominerò io stesso … Io sarò tuo compagno, Hagen sarà il secondo e Dankwart … sarà il quarto … Vorrei sapere – disse il re - … quali abiti porteremo alla presenza di Brunilde, che siano i più convenienti. Dimmelo tu, Siegfried44. Le vesti migliori che si possono trovare devono essere sempre portate nel paese di Brunilde. Bisogna dunque che indossiamo ricchi abiti dinanzi alle damo, perché non abbiamo a vergognarci quando si parlerà di noi. Gunther pensa di rivolgersi alla madre Ute perché comandi tosto alle leggiadre ancelle di prepararci vesti, cotanto ricche e belle da meritarci nel paese di Brunilde gran vanto. Con abile mossa di fine psicologia interviene Hagen: Perché dar tai faccende a la madre? … è di tai cose esperta pur la vostra sorella … Gunther prende la palla al volo e, per recarsi dalla sorella, si fa accompagnare dallo stesso Sigfrido. Avvisata in anticipo Crimilde si abbiglia riccamente; all’arrivo dei due, li prende entrambi per mano e li fa accomodare su ricchi cuscini. Benvenuto il fratello mio e il suo compagno … che cosa vi occorre … Ditemi, nobili cavalieri, di che si tratta? Ve lo dirò, gentile sorella. Noi abbiamo gravi pensieri ( ahimè!) da sopportare con grande coraggio … vorremmo avere splendide vesti per comparire … davanti alle donne … Carissima sorella mia, senza il vostro aiuto noi non potremmo riuscire. Noi vogliamo cercare avventure nel paese di Brunilde. Ci occorrono begli abiti per comparire con onore davanti alle donne.
Fratello mio diletto, vi offro tutto il mio aiuto e sono pronta a servirvi … Il seguito della risposta di Crimilde sembra essere tutto rivolto a Sigfrido (Sguardi teneri … si scambiavano spesso fra i due.), quasi forse a scuoterlo da una diversa, e non pertinente con l’attuale situazione, prudenza nei suoi riguardi: Voi, nobili cavalieri, non dovete timorosamente pregare, dovete comandare. Sono pronta a ciò. Lo farò volentieri. Gunther è sempre preso dai suoi gravi pensieri: Cara sorella, noi vogliamo portare buoni e begli abiti … Date ordine alle vostre ancelle … In tempo di quattro giorni ciascuno di noi quattro ha bisogno di tre vestiti diversi … Occorrono invece sette settimane e le donne venivano meno dallo sforzo. Sono approntati abiti di uno sfarzo mai visto: pietre preziose in quantità tale da doverle trasportare negli scudi, sete d’Arabia e Zazamanca, del Marocco e della Libia, oro e pelli di ermellino. Arriva il momento della partenza. Tra cupi presentimenti, pianti e lacrime che offuscano l’oro dei bei corpetti, non manca il buon senso a Crimilde né l’intelligenza nelle lusinghe d’amore: O caro fratello mio, rimanete, e scegliete fra le donne nostre una sposa, perché arrischiare la vita per un amore lontano? Qui non chiedereste invano una nobile moglie. Signore Siegfried, al tuo valore il mio diletto fratello di cuore raccomando, perché nulla lo affligga in terra di Brunilde. Sigfrido mai si sottrae, come in un gioco perdente agli scacchi, alla mossa richiesta, alla risposta prevista: Crimilde, finché io viva, signora, su vostro fratello sempre veglierò. Lo ricondurrò salvo sulle rive del Reno, per la mia vita io giuro! Si carica la nave e Sigfrido, che confessa di conoscere già la strada, riceve l’incarico di nocchiero. Il vento gonfia la vela e gli eroi sono in viaggio: il grande rischio sopportando con grande coraggio … allegramente. Dodici giorni e sono in vista di Isenstein, la fortezza di Brunilde, in un paese sconosciuto a tutti fuorché a Siegfreid. Gunther sembra cadere dalle nuvole, ignaro di tutto, quasi in gita domenicale fuori porta: Ditemi, amico Siegfreid ( Sigfrido è ora l’amico! ), conoscete questi luoghi? Di chi sono questi castelli e questo magnifico paese?
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Hybris e Secolarizzazione Nel Nibelungenleid
Sigfrido è sincero: Io li conosco bene. Sono di Brunilde, i castelli e il paese, la fortezza di Isenstein; ve lo assicuro ( Sigfrido continua a rivolgersi a Gunther comunque con il “voi” ), oggi godrete la vista di una grande schiera di belle donne. A questo punto la Hýbris si concretizza, per volontà dello stesso Sigfrido: … cavalieri io vi consiglio … parliamo nel medesimo senso … Quando oggi saremo alla presenza di Brunilde … quando vedremo la bella donna … voi, illustri cavalieri, dovete dire tutti la stessa cosa. Cioé che Gunther è il mio signore, e che io sono il suo vassallo; in questo modo egli potrà ottenere ciò che brama45… Io non lo faccio soltanto per amor … suo … ma per amore di Crimilde … io voglio guadagnarla46 per averla in moglie. Settima avventura. I quattro cavalieri giungono sotto le mura di Isenstein. Alle finestre, molte dame li osservano, ma una in particolare attira la loro attenzione, tutta di bianco47 vestita. È Brunilde, la bellissima regina, che ordina a tutte di ritirarsi per non dare spettacolo agli stranieri. In realtà non è per pudore che le donne si ritirano. In effetti ciò che poi fecero lo sappiamo bene. Esse si adornarono per gli sconosciuti signori, come sogliono fare tutte le belle donne. Poi si affacciarono alle strette finestre dalle quali vedevano gli eroi, lo facevano per curiosità. Sigfrido, interpretando il ruolo di vassallo, conduce per le briglie il cavallo di Gunther. Il re burgundo, nonostante sappia come stanno in realtà le cose, si riempie di orgoglio. Gunther e Sigfrido, Hagen e suo fratello Dankwart vestiti di nero, tutti hanno nel loro vestiario, nelle armi e nei finimenti delle cavalcature splendidi ornamenti preziosi, gemme e oro lucente; compaiono anche pietre preziose scintillanti dell’India. I superbi cavalieri si trovano davanti ottantasei torri. Le porte del castello sono spalancate48, c’è una sala magnifica di marmo verde49 come l’erba del prato, dove siede Brunilde circondata dal suo seguito. I guerrieri della regina muovono incontro agli stranieri e chiedono loro di consegnare le armi. Hagen si innervosisce, ma Sigfrido gli spiega che
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si tratta solo di un’usanza del posto. Brunilde si informa con uno dei suoi camerlenghi sull’identità di tali visitatori, così riccamente vestiti, venuti dal mare. Vi devo confessare, signora, che non vidi mai prima d’oggi nessuno di essi. Però ve ne ha uno che ha il modo di fare di Siegfried; questo lo dovete ricevere… … un altro del seguito … gli si addirebbe la carica di re … Il terzo ha un animo cattivo … potente regina … I suoi sguardi sono sempre sprezzanti, nel suo animo cova sempre cattivi pensieri. Il più giovane fra di loro … ha un aspetto così amabile …Dobbiamo tutti temere gli possa accadere qualcosa di male … Brunilde si illude pensando a Sigfrido: Mi si porti la mia armatura, e, se il forte Siegfried è venuto nel mio paese per amor mio, gli costerà la vita. Io non lo temo al punto di divenire sua moglie. Scortata da cinquecento cavalieri islandesi con la spada in pugno, Brunilde va incontro agli stranieri, che si allarmano e disarmati come sono temono il peggio. Brunilde non li degna di uno sguardo e si rivolge con cortesia direttamente a Sigfrido: Benvenuto, Siegfried, in questo paese. Che scopo ha il vostro viaggio? … Sigfrido sostiene la parte che si è scelta: Molte grazie vi siano porte, Brunilde, che vi siete degnata di salutarmi, o soave figlia di principi, prima di questo nobile cavaliere che sta qui, davanti a me. Egli è il mio signore, devo rinunziare all’onore che mi fate. … Egli è re sul Reno … Abbiamo navigato fin qui per amor vostro. Egli vuole amarvi qualunque cosa accada … Per ordine suo feci con lui questo viaggio. Se egli non fosse il mio signore me lo sarei risparmiato. Brunilde è contrariata ed incredula e continua a rivolgersi solo a Sigfrido: Se egli è davvero il tuo signore e tu50 sei suo vassallo, mostri quanto vale nel tentare le prove che io stessa gli propongo. Ma se perde sappiate che disporrò dell’onore e della vita di voi tutti. Messi di fronte alla verità della forza e della bellezza di Brunilde, i Burgundi tentennano. Sigfrido deve accostarsi a Gunther e dirgli di accettare la sfida, ricordandogli che lui è al suo fianco e lo aiuterà. Nel tempo necessario per i preparativi dello
Piero Di Prinzio
scontro, si reca dunque segretamente Sigfrido alla nave ed indossa il cappuccio magico di Alberico, che lo rende invisibile. Brunilde è pronta, arrmata di tutto punto ma sempre bellissima. Il suo scudo è così grande che i serventi lo trasportano a fatica e per la lancia di cento libre occorrono almeno tre uomini. Sigfrido sembra sparito. Hagen è indispettito: Ebbene, re Gunther? Qui si rischia la vita; quella che desiderate conquistare è una donna diabolica. Gunther è pentito e spaventato: Che succederà? Il demonio dell’inferno non si difenderebbe da lei. Se potessi tornarmene salvo sul Reno, potrebbe aspettare qui per un pezzo il mio amore. Hagen si rivolge al fratello: Vorremmo ben andarcene da questo paese. Se avessimo le nostre armature e le buone spade, la superbia della bella donna si calmerebbe. La donna udì queste parole e lo guardò sorridendo, dall’alto in basso: Poiché si crede così forte, portate la loro armatura, mettete in mano agli eroi le loro armi affilate. Mi importa lo stesso che siano armati o disarmati – disse la regina – di quanti conosco non temo la forza; forse potrei imparalo combattendo con lui. La pietra che Brunilde vuole scagliare è portata da dodici uomini. Hagen è sempre più allarmato: … Ma chi vuole sposare il nostro re? Fosse nell’inferno questa sposa del demonio. Inizia lo scontro. Sigfrido invisibile sostiene lo scudo di Gunther. Brunilde scaglia la lancia che trapassa lo scudo e trae scintille dalla corazza di Gunther, che cade a terra insieme a Sigfrido. A Sigfrido esce sangue dalla bocca; raccoglie tuttavia la lancia e la scaglia verso Brunilde, tenendola rovesciata per non rischiare di ferire la regina. Ella non regge all’urto e cade a terra: Gunther, nobile cavaliere, grazie del bel colpo! Quindi afferra la grande pietra, la lancia lontano e la raggiunge con un salto. Sigfrido raccoglie la stessa pietra, mentre Gunther simula i movimenti, e la scaglia ancora più lontano, poi, trasportando sulle spalle lo stesso Gunther, spicca un salto superiore a quello della regina. Brunilde vede sul campo il solo Gunther e lo ritiene vincitore: Amici e vassalli, avvicinatevi; voi sarete tutti soggetti a re Gunther.
Sigfrido si ripresenta come fosse ignaro della già conclusa sfida e si rivolge a Gunther: Perché indugiate, o signore, ad affrontare le prove che vi sono state imposte? Fateci vedere come va a finire. Gli risponde Brunilde: Signor Siegfried, come vi51 fu possibile non vedere la contesa nella quale re Gunther ha conquistato la vittoria? Hagen non perde l’occasione di screditare ulteriormente Sigfrido, attribuendogli un turbamento che ha sconvolto in effetti solo i Burgundi: Ci avete proprio conturbato, regina. Siegfried era sulle navi quando il re del Reno vi sconfisse. Per questo motivo non era informato. Questa notizia mi fa piacere – disse il valoroso Siegfried – il vostro orgoglio è caduto, vive chi può essere il vostro signore. Ora, nobile donzella, dovete seguirci sul Reno. La bella regina rispose: ciò non può ancora accadere. Prima devono venirlo a sapere i miei parenti ed i miei sudditi. Verranno convocati qui … Il sollievo di Hagen è stato solo momentaneo. La sua stessa infida natura lo porta a temere un ulteriore inganno da parte di Brunilde, che a suo avviso potrebbe dissimulare la sua ira: una volta radunati tutti i suoi sudditi, cosa potrebbe fare a loro danno la regina? Sigfrido, per quanto convinto dell’onestà di Brunilde, si offre di andare a cercare rinforzi in patria. Non rimanete fuori a lungo … gli raccomanda il preoccupato Gunther. Entro pochi giorni sarò di ritorno. Dovete dire alla regina che mi avete mandato via voi. Bibliografia e Note 42 Brunilde nell’Edda è una valchiria, degna del rango di Asi; il suo valore, nonostante la punizione del padre Odino, è comunque sovraumano. 43 Nella saga dei Volsungar, Sigfrido è l’unico, e predestinato, eroe degno dell’amore di Brunilde. Tra i due esiste un giuramento d’amore, e una figlia addirittura, che solo la magica e disgustosa bevanda dell’oblio è in grado di cancellare. Nell’Edda il sonno di Brunilde è protetto da un bastione di scudi o di fiamme. Nel Nibelungenlied, la valchiria è ben sveglia e si protegge da sé. 44 Da notare il passaggio di Gunther al “tu”, forse
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Hybris e Secolarizzazione Nel Nibelungenleid
ulteriore misurata e avara concessione di intimità a Sigfrido. 45 La bramosia, l’eccesso del desiderio, è caratteristica di Hýbris. 46 Il guadagno, il profitto bene si addicono alla natura commerciale di Hýbris. 47 Il colore bianco è tipico delle Valchirie e della loro forma animale, il cigno. Le Valchirie sono considerate nella mitologia norrena epifania del divino, intermediarie tra gli eroi e gli dèi. 48 Brunilde non teme nessuno, la porta è aperta per chiunque sia disposto ad osare l’impossibile. 49 Verde è il colore tipico della natura e degli esseri magici ad essa collegati. 50 Si noti il “tu” con cui la schietta Brunilde si rivolge a Sigfrido, indice di antica familiarità. 51 Brunilde passa al “voi”. Evidentemente si è sbagliata sul conto di Sigfrido.
Piero Di Prinzio: Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1981, nel 1993 ha ottenuto il riconoscimento dell'attività psicoterapeutica (Legge 18.2.89 n.56). Dal 2003 al 2005 ha insegnato, in qualità di Docente a Contratto, Antropologia Culturale nel Corso di Laurea Specialistica in Psicologia Dinamica e Clinica della Personalità, presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di L’aquila. Dal 2009 è titolare dell’insegnamento di Antropologia Culturale, Mitologia e Religioni presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia ATANOR ad indirizzo Analitico di L’Aquila, riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Svolge dal 1982 come libero professionista in Chieti l'attività di Psicoterapeuta
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L'Anima Fa... Libro
DE INVIDIA Considerazioni cliniche sul tema dell'Invidia OLTRE
ALL'INTERESSANTE CONTRIBUTO CHE QUESTO
NE
RISULTA UN TESTO RICCO SUL PIANO DELLA
TESTO DÀ AL TEMA TRATTATO, VORREI SOTTOLINEARE
TEORIA ,MA ANCHE SUL PIANO DEL 'SENTIMENTO
UN INSOLITO REGISTRO 'INTIMO' CHE EMERGE ANCHE
TUTTO CIÒ LO RENDE IL PRODOTTO DI UN'INVIDIABILE
CLINICI NON VIENE LASCIATO MOLTO SPAZIO ALLA
'SENTIRE'
SEGUIRE INVECE DI DISTRUGGERCI NEL SENTIMENTO
DIARI
DI
GRUPPO
GENERALMENTE,
QUI
RESI AL LETTORE I SENTIMENTI, LE
GENEROSAMENTE EMOZIONI ED I
VENGONO
E
QUI 'INVIDIABILE' LO USO NELL'ACCEZIONE POSITIVA DEL TERMINE . INFATTI, COME DICE MIA WUHEL ,RICONOSCERE CHI È PIÙ BRAVO DI NOI È INCENTIVANTE, DE-INVIDIANTE, CI SPRONA A RICONOSCERE NELL'ALTRO UN MODELLO DA
DAI
RIPORTATI.
'
VISSUTI PERSONALI DEGLI AUTORI. INFATTI,
ESPLICITAZIONE DEL NOSTRI
VISSUTI
QUELLI
NEGATIVI,
VENGONO IN
NELL'ESPORRE I CASI DI NOI ANALISTI.
ELUSI,
STRETTO
I
SPECIALMENTE CONTATTO
CON
GRUPPO
DI
DELL'INVIDIA
LAVORO.
E
NEL
SUO
CORRISPONDENTE
INTERROGATIVO: PERCHÉ LUI SÌ ED IO NO?
L'OMBRA COME QUELLO DELL'INVIDIA.
MIA WUEHL, CONDUTTRICE DEL GRUPPO, TRATTA L'INVIDIA COME TEMA ARCHETIPICO RIFACENDOSI AI MITI E ALLA SUA SPECIFICITÀ . MARA FORGHIERI SI CONFRONTA CON L'INVIDIA NON BEN ELABORATA NELLA RELAZIONE ANALITICA , DESCRIVENDO INOLTRE UN CASO CLINICO DOVE L'INVIDIA PATERNA È IL
SUA SITUAZIONE IN CUI HA VISSUTO QUESTO SENTIMENTO VERSO UN COLLEGA .
PAOLO GALLOTTI, UTILIZZANDO ANCHE IL REGISTRO POETICO, INTRODUCE IL SUO SENTIMENTO DI INVIDIA NEI CONFRONTI DI 'COLORO CHE SI POSSONO PERMETTERE...' E 'PER LA LEGGEREZZA...'
TEMA CENTRALE.
LAURA BOTTARI CI INTRODUCE NELLA STANZA DELL'ANALISI INFANTILE TRATTANDO L'INVIDIA DEI GENITORI,MA DESCRIVENDOCI POI UNA
UMBERTO VISENTIN, DOPO UNA SOTTILE DISQUISIZIONE SULL'INVIDIA SOCIALE, CONCLUDE CON UNA DESCRIZIONE DELL'INVIDIA NELLA RELAZIONE CON IL FRATERNO.
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L
’anima è una tremenda realtà. Può essere comprata, venduta, barattata. Può essere avvelenata o resa perfetta. Che cosa ci guadagna un uomo se conquista il mondo intero e perde la sua anima?” Queste parole si trovano nel famoso romanzo di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray,1 in cui il protagonista conduce una vita totalmente immorale, non potendo però sottrarsi alla vista della corruzione della propria anima raffigurata nel suo ritratto. Il concetto romantico di “realtà dell’anima” viene ripreso da Jung, il quale afferma che la psiche esiste e agisce tanto quanto la materia e che entrambe non sono che due aspetti indivisibili di un’unica e identica cosa.2 Così se è possibile, anzi certo, possedere un’anima, è altrettanto possibile perderla, consegnandola metaforicamente nelle mani di qualcun altro o separandosi da essa attraverso la scissione della coscienza dai propri valori più profondi. Si tratta di un fenomeno particolarmente frequente nelle popolazioni primitive, che definiscono “perdita dell’anima” ciò che, nel linguaggio moderno, corrisponde a uno stato più o meno depressivo, dovuto allo sprofondamento nell’inconscio di un complesso psichico. Nel romanzo di Wilde si trovano vari
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motivi archetipici, tra cui quello del ritratto che, secondo la mentalità arcaica, contiene l’anima della persona ritratta. Esso si presta, perciò, a esemplificare in termini simbolici le varie tappe di questa particolare affezione della psiche. La narrazione inizia nello studio del pittore Basil Hallward che ha dipinto con grande bravura le meravigliose fattezze di un giovane: Dorian Gray. Il quadro è l’opera migliore dell’artista e possiede una caratteristica peculiare: quella di “fare da specchio” a chi lo guarda, ovvero di prestarsi a raccoglierne le proiezioni inconsce e a renderle visibili. L’elemento riflettente del quadro è esplicito, giacché questo viene definito “il più magico degli specchi”, ma ciò che disgraziatamente rimanda è la parte oscura dell’anima, l’Ombra, che riempie di vergogna e di orrore e che pertanto deve rimanere nascosta. Frequenta lo studio del pittore il cinico Lord Henry Wotton, conversatore affascinante, dalla voce bassa e musicale, i gesti morbidi, una raffinata cultura e che ama esprimersi attraverso brillanti epigrammi. Egli, irriverente nei confronti dei valori morali codificati, viene colpito dall’innocenza di Dorian e si sente sfidato a trasformarla in freddo disincanto. E l’adolescente Dorian, che come tutti gli adolescenti è attratto
Elisabetta Baldisserotto
dalla trasgressione, ne resta irretito. Il plagio, ovvero la corruzione dell’anima del giovane si verifica a opera delle musicali parole di Henry, che predicano la soddisfazione di ogni desiderio e la libera espressione di sé. Esse fanno comprendere a Dorian che turbamenti e passioni sono normali, gli rivelano i misteri (prevalentemente sessuali) dell’esistenza, tuttavia è l’autorizzazione a cedere alle tentazioni che più di tutto lo conquista e lo porta a ingaggiare una lotta accanita contro il proprio senso morale e quindi contro una parte essenziale di sé. Secondo Jung, infatti, la reazione morale, non riguarda in primo luogo l’intelletto e le norme di comportamento apprese, ma è un valore interiore, connotato affettivamente, la violazione del quale comporta pericolose conseguenze. L’equilibrio psichico viene in effetti mantenuto anche grazie alla capacità di giudicare moralmente i propri atti, capacità che a volte si manifesta in modo inconscio. Jung cita l’esempio di un suo paziente che, in procinto di concludere un affare che gli appare, a un esame superficiale, del tutto onorevole, sogna di avere le mani e gli avambracci macchiati di nero. In questo caso la sua moralità, messa a tacere dall’aspettativa di un buon guadagno, si fa viva attraverso l’inconscio. «Da quanto sopra si deduce un fatto importante: la valutazione morale di un’azione, che si esprime nella specifica tonalità affettiva della rappresentazione corrispondente, non dipende sempre dalla conscientia, dalla consapevolezza, ma funziona anche senza di questa (...). È come se il soggetto, riconoscendo l’immoralità dell’offerta, scatenasse la reazione emotiva corrispondente. L’intero processo si svolge però a livello subliminale, e l’unica traccia che ne rimane è il sogno...» 3, Dorian, sposando il cinismo di Henry, impara a soffocare la reazione morale, la quale, nell’inconscio, accentua il suo potere. Non a caso egli è terrorizzato, poiché percepisce di cadere in balia di una personalità inconscia, un complesso autonomo che sta sopraffacendo l’Io. Inoltre, le sentenze di Lord Wotton lo sconvolgono perché gli spalancano pericolosi scenari, ma ciò che più di tutto lo spaventa è sentire che la regia della propria esistenza gli viene sottratta e che la direzione che ha intrapreso gli è, fatalmente, indicata da altri. Rinunciando a essere se stesso, volendo imitare il suo mentore e soddisfare le sue aspettative, Dorian forza la propria natura, la disconosce e così
facendo si perde. A dipinto finito, egli si guarda e lo spettacolo della propria avvenenza lo travolge come una rivelazione. Si innamora a tal punto di quell’immagine da non sopportare l’idea di discostarsene, ecco allora che, nella migliore tradizione del “patto col diavolo”, il giovane pronuncia le parole fatidiche: «Com’è triste!» mormorò Dorian Gray, con gli occhi sempre fissi sul proprio ritratto. «Com’è triste! Diventerò vecchio, orribile, spaventoso. Ma questo ritratto rimarrà per sempre giovane. Non sarà mai più vecchio di quanto lo sia oggi... Se soltanto potesse essere il contrario! Se soltanto fossi io a rimanere sempre giovane, e il quadro a diventare vecchio! Per questo darei ogni cosa. Non c’è cosa al mondo che non darei! Darei la mia anima per questo!» (p.643). Il topos letterario del patto col diavolo trova, com’è noto, la sua espressione più alta nel Faust di Goethe. In ballo c’è sempre l’onnipotenza, il desiderio d’immortalità, il voler essere simile agli dei: la hybris greca, già sanzionata nei miti. Faust è un uomo inquieto, assetato di sapere e tormentato dai desideri, secondo la definizione di Mefistofele: «La mente in tumulto lo mena lontano, di sua follia conscio a metà. Dal cielo pretende le stelle più belle e dalla terra i piaceri supremi, né cose vicine né cose lontane sanno calmare quel suo animo convulso».4 Il patto prevede che Mefistofele lo servirà e gli procurerà ogni sorta di piaceri in questo mondo, in cambio del dominio sulla sua anima. Sono quindi i limiti della natura umana che sia Faust che Dorian non vogliono accettare. E come Mefistofele seduce Faust promettendogli estremi godimenti, così Henry seduce Dorian facendogli credere che la sua giovinezza e la sua bellezza gli diano il diritto di fare qualunque cosa. Il ragazzo pertanto esprime ad alta voce la sua tracotante aspirazione a oltrepassare i limiti della caducità, rifiutando di essere semplicemente umano. «Il voler essere ‘simile a Dio’ – dice Jung – non divinizza l’uomo, ma lo rende arrogante e risveglia tutto il male che c’è in lui. Ne crea una caricatura diabolica, insopportabile agli uomini»5. Due mesi dopo Dorian confessa a Henry il suo recente innamoramento per un’attrice, Sibyl Vane. Egli vuole sposarla, ma Lord Wotton, novello Mefistofele, è pronto a suggerirgli di non farsi
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Perdere l'Anima
troppi scrupoli e di sedurre la ragazza. Il giovane è combattuto, tuttavia la frattura intrapsichica che coltiva gli impone di sacrificare una parte di sé. È così che, sedotta e abbandonata, Sybil si suicida e quella stessa notte il ritratto muta espressione: Mentre girava la maniglia della porta il suo sguardo cadde sul proprio ritratto che Basil Hallward aveva dipinto. Arretrò come colto da sorpresa; poi entrò nella stanza da letto, con aria alquanto perplessa. Dopo che ebbe sbottonato la giacca, sembrò esitare. Infine tornò indietro, andò verso il ritratto, e lo esaminò. Nella scarsa luce fissa che filtrava attraverso le cortine di seta color crema, il viso gli parve un poco cambiato. La sua espressione sembrava diversa. Si sarebbe detto che ci fosse un tocco di crudeltà sulla bocca. Era davvero strano (pp.706-7).
per se stesso. Si viene a creare, perciò, una situazione psichica paradossale: da un lato il ritratto va tenuto nascosto perché suscita in Dorian emozioni terribili, da cui è completamente dominato e travolto; dall’altro, nella vita di tutti i giorni, il giovane professa un freddo distacco:
A un esame più accurato, alla luce piena del sole, ogni dubbio svanisce: la sua bocca ha assunto una smorfia crudele, “quasi egli stesse guardando in uno specchio dopo aver fatto qualcosa di tremendo”. Dorian si accorge che il quadro è l’emblema visibile della sua coscienza morale e che lui sta rischiando di aborrire la propria anima, tanto quanto adora il proprio corpo. Decide di fare ammenda, ma di nuovo l’abile Henry interviene a sedare i sensi di colpa, a sminuire l’importanza delle donne nella vita degli uomini, a ridurre l’amore a un tema dell’arte. Ciò spinge ancora di più Dorian sulla strada dell’insensibilità:
Il tentativo di difendersi dalla sofferenza (per certi versi efficace) tipico della scissione comporta inevitabilmente il precipitare in una dimensione psichica disumana, non temperata e addolcita dal sentimento. Gli affetti scissi rendono il soggetto spietato nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di se stesso. Potremmo infatti chiederci: siamo sicuri che sia Dorian a guardare il ritratto, o non è piuttosto il ritratto a guardare lui? Il dipinto diventa animato perché ospita, per proiezione, lo sguardo oggettivo, impietoso e giudicante di Dorian stesso, che lo terrorizza, in quanto privo di compassione. Più avanti, infatti, l’Autore dirà: «La sua stessa anima lo guardava dalla tela e lo chiamava a giudizio». Dorian guarda se stesso attraverso il quadro e diventa spettatore ma anche giudice implacabile delle proprie azioni. Quello sguardo che tutto vede e tutto sa è intollerabile, non permette di dimenticarsi, di rimuovere colpe e misfatti, di ingannarsi circa la propria Ombra; così il più fortunato degli uomini è nel contempo il più maledetto, privo della consolazione dell’oblio, oltre a quella del perdono. Il drappo funerario che copre il dipinto serve a occultare una corruzione peggiore di quella della morte, dato che colpisce qualcosa che non può morire, qualcosa che, pur orribilmente decomposta, continua a vivere per sempre. La morte vivente dell’anima, a differenza di quella del corpo, infatti, non avviene mai una volta per tutte. Il processo di putrefazione non ha termine: il cancro o il verme divorano, insaziabili, all’infinito. In termini psicologici, la perdita dell’anima, quale
Sentì che era proprio giunto il momento di fare una scelta. O la scelta era già stata compiuta? Sì, la vita aveva scelto per lui. Giovinezza eterna, passione infinita, piaceri sottili e segreti, gioie sfrenate e peccati ancor più sfrenati – egli avrebbe avuto tutto ciò. Il ritratto avrebbe portato il peso della sua vergogna: ecco tutto (p.722). Così Dorian Gray si separa definitivamente dalla sua anima, rifiutando di portarne il peso e affidandola al ritratto. Essa diventa esterna all’Io, non più integrabile, tenuta nascosta in soffitta coperta da un drappo, un oggetto estraneo, inquietante, che lo perseguita. Come Faust, Dorian non è più sfiorato dal problema morale, essendo riuscito a spaccare in due la propria personalità.6 In questo modo può sentirsi al di là del bene e del male, un essere unico, privilegiato, ma al medesimo tempo, stravolto dal terrore e dall’orrore
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«Soltanto le persone mediocri hanno bisogno di anni per liberarsi di un’emozione. Un uomo che è padrone di se stesso può far terminare un dolore con la stessa facilità con cui può inventarsi un piacere. Non voglio essere alla mercé delle mie emozioni. Voglio usarle, goderle, dominarle (...) Diventare lo spettatore della propria vita, significa, come dice Henry, sfuggire alla sofferenza della vita» (pp. 725-7).
Elisabetta Baldisserotto
stato di dissociazione patologica tra il conscio e l’inconscio, nasce, secondo Jung, dall’illusione di poter dominare tutto con la volontà e la ragione, trascurando i dati e le necessità irrazionali della psiche.7 L’irrazionalità perciò rischia di prendere il sopravvento, attraverso ossessioni, idee persecutorie e deliri. La reazione morale di Gray, una volta disconosciuta, assume il carattere allucinatorio di un censore assoluto. Così, nella stanza dei giochi di quand’era bambino il ritratto viene messo sotto chiave e nascosto agli occhi di tutti, nella speranza, già delusa, di nasconderlo anche ai propri. D’altro canto la fascinazione esercitata da Henry col tempo diventa una sorta di incantesimo da cui Dorian non riesce più a liberarsi, una passione per i piaceri proibiti tirannica e assoluta, una vera e propria possessione demoniaca. La brama di conoscere tutto e di provare tutto diviene sempre più insaziabile quanto più è soddisfatta. Gli anni passano e Dorian Gray da un lato raffina il suo gusto estetico circondandosi di cose belle e preziose, dall’altro frequenta ambienti sordidi e volgari. E ogni volta il ritratto lo chiama a un confronto segreto: Guardava ora il viso sulla tela, malvagio e invecchiato, ora il bel viso giovane che gli sorrideva dallo specchio nitido. L’acutezza del contrasto acuiva il suo senso di piacere. Era sempre più innamorato della propria bellezza e sempre più interessato alla corruzione della propria anima (p.744). Per la sua funzione di compensare l’atteggiamento cosciente, il ritratto può essere paragonato a un sogno. Come i sogni, infatti, custodisce e segnala ciò che per l’equilibrio psichico è importante prendere in seria considerazione. Raffigura l’esatto opposto di Dorian, quell’altro se stesso che porta sul volto i segni della propria colpa, e lo fa con immagini così eloquenti e perturbanti da somigliare a un incubo. Il giorno del suo trentottesimo compleanno, Basil Hallward si reca a trovarlo per chiedergli spiegazioni circa il suo comportamento: numerosi giovani dell’aristocrazia inglese si sono perduti dopo aver frequentato Dorian. Uno si è suicidato, un altro ha dovuto lasciare l’Inghilterra disonorato, un altro ancora è incappato in guai giudiziari. Molte donne rispettabili sono cadute in disgrazia:
perfino la reputazione della sorella di Lord Wotton è stata compromessa da Gray. La sua influenza si rivela nefasta per tutti coloro che gli si avvicinano. Alle domande di Basil, Dorian dà risposte sfuggenti, il pittore non sa più chi ha davanti a sé ed esprime il desiderio di poter guardare la sua anima per conoscere la verità. Allora, con un atto di sfida estrema, Dorian lo conduce dietro la porta chiusa, e gli mostra il ritratto. Lo sbigottimento di Hallward è totale, non crede ai propri occhi, annaspa alla ricerca di qualche spiegazione ragionevole, nega l’evidenza. E con un altro gesto di odio folle e incontrollato Dorian uccide Basil, colpendolo con un coltello. In seguito, altri esecrabili delitti macchiano l’anima di Gray, il quale, come Faust, è caduto «al livello di manigoldo imbroglione e nella violenza omicida, quali conseguenze del patto con il ‘male’».8 Ma tutto ciò è irrevocabile? Non c’è alcuna speranza per lui? Sarebbe stato sempre oppresso dal suo passato? Doveva davvero confessare? Mai. C’era soltanto una minima prova contro di lui. Il ritratto stesso era la prova. Lo avrebbe distrutto. (...) Lo aveva tenuto sveglio di notte. Se era lontano era terrorizzato all’idea che altri potesse vederlo. Aveva arrecato malinconia alle sue passioni. La sua semplice memoria aveva sciupato molti momenti di gioia. Era stato come la sua coscienza. Sì, era stato la sua coscienza. Lo avrebbe distrutto. (...) Avrebbe ucciso il passato, e allora sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso quella mostruosa vita della sua anima, e, senza i suoi infami moniti, sarebbe vissuto in pace (p.838). Dorian afferra il coltello con cui ha ucciso Basil e colpisce la tela. Così facendo uccide se stesso. I servitori, spaventati dalle grida dell’agonizzante, forzano la serratura ed entrano nella stanza: Quando entrarono trovarono appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l’ultima volta, in tutta la meraviglia della sua squisita giovinezza e bellezza. Sul pavimento giaceva un uomo morto, vestito da sera, con un coltello conficcato nel cuore. Era avvizzito, rugoso, ripugnante a vedersi. Soltanto dopo avere esaminato i suoi anelli riconobbero chi era (p.839). Cercando di uccidere la propria coscienza morale
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Perdere l'Anima
Dorian Gray uccide se stesso, a testimoniare, secondo le sue stesse parole: “la terribile realtà dell’anima”. Realtà che non si può ignorare, pena uno stato di disperazione insostenibile, il cui esito spesso è il suicidio. La perdita dell’anima corrisponde, infatti, «all’amputazione di una parte del proprio essere, alla sua scomparsa e all’emancipazione di un complesso che in tal modo diventa tirannico usurpatore della coscienza, opprime l’uomo nella sua totalità, lo fa deviare dalla propria strada e lo costringe ad azioni la cui cieca unilateralità ha per inevitabile conseguenza l’autodistruzione».9 Nel dedicarsi alla trasgressione e all’edonismo, facendone una filosofia di vita, Dorian viene posseduto da contenuti inconsci che eclissano altre parti della psiche, tra cui le sue reazioni affettive e morali. Non si tratta di rimozione, ma, secondo la definizione di Arnold Goldberg, di “scissione verticale” in cui il soggetto perde il controllo sulle proprie azioni, come se dentro di lui ci fosse un altro che agisce al suo posto. Questo fenomeno che comporta la compresenza di due soggetti paralleli che sembrano coesistere, uno accanto all’altro, in un’unica mente10 è stato spesso reso in letteratura con la figura del doppio. Il ritratto di Dorian Gray si presta, con particolare efficacia, a rappresentare due modi opposti di pensare che appartengono allo stesso personaggio e non trovano conciliazione. Non solo, ma i ruoli sono scambiati: il quadro è vivo e si trasforma in continuazione, mentre Dorian è disanimato, vuoto, immutabile; non partecipa alla vita, risultando privo di sentimenti. Essendosi identificato con l’Ombra, ha attuato un rovesciamento: la parte oscura e depravata ha preso il posto dell’Io, mentre ciò che Gray combatte e occulta è la parte migliore di sé, quella che è fatta per essere vista, e che dovrebbe interagire con gli altri. Cercando di eliminarla, invece di ottenere la supremazia, la perde, ma nello stesso tempo riesce, paradossalmente, a sanare la scissione, ricongiungendosi alla propria anima: è soltanto nel momento del suicidio infatti che ogni cosa torna al suo posto. Il suicidio conferma dunque l’incapacità di integrazione e il ribaltamento dell’amoralità in un’assunzione di colpa senza possibilità riparative. Imparare dalla propria colpa (com’è proprio dell’uomo saggio11), farne un’occasione di conoscenza di sé, è senz’altro un’alternativa più vantaggiosa. Infatti l’assunzione di responsabilità
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circa i propri atti, colpevoli o meno, e la comprensione delle loro ragioni profonde, conferisce quella libertà morale che Dorian Gray non può sperimentare, pur illudendosi di farlo. Bibliografia e Note 1. O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (1891), tr. it. di F. Ferrucci in Essere Due. Sei romanzi sul doppio (a cura di G. Davico Bonnino), Einaudi, Torino 2006. 2. «Bisogna effettivamente riconoscere che l’anima umana, da qualunque punto la si esamini, è anzitutto una copia fedele – come causa, scopo e senso – di quanto diciamo materiale, empirico, di questo mondo». (C.G. Jung, Il problema fondamentale della psicologia contemporanea, 1913, in Realtà dell’anima, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 15. C.G. Jung, 3. La coscienza morale dal punto di vista psicologico (1958), in Opere, vol. 10, tomo II, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp.294-5. 4. J.W. Goethe, Faust (1808), tr. it. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1990, p.25. 5. C.G. Jung, Dopo la catastrofe (1945) in Opere, vol. 10, tomo II, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 35. 6. C.G. Jung, Psicologia e poesia (1930/50) in Opere, vol. 10, tomo I, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp.376-7. 7. C.G. Jung, Risposta a Giobbe (1952) in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 8. C.G. Jung, Dopo la catastrofe…cit., p.26. 9. C.G. Jung, Tipi psicologici (1921), in Opere, vol.6, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp.230231. 10. A. Goldberg, La mente che si sdoppia. La scissione verticale in psicoanalisi e in psicoterapia (1999), Astrolabio, Roma 2001. 11. C. G. Jung, Psicologia e Alchimia (1944) in Opere, vol. 12, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p.119.
Elisabetta Baldisserotto, psicologa analista junghiana, è socio ordinario con funzioni di training del CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica) e membro dello IAAP (International Association of Analytical Psycology). Ha pubblicato Leggere i sentimenti. Un percorso psicologico e letterario, Moretti & Vitali, Bergamo
L'Anima Fa... Libro
LEGGERE I SENTIMENTI UN PERCORSO PSICOLOGICO E LETTERARIO ELISABETTA BALDISSEROTTO
QL'
UESTO LIBRO GIÀ NEL TITOLO CONTIENE SIA IL FINE CHE PERSEGUE, SIA IL MODO IN CUI È STATO SCRITTO. AUTRICE CI INTRODUCE INFATTI CON MANO SICURA NEL MONDO DELLE PASSIONI, DEI SENTIMENTI, DELLE
EMOZIONI, IN UN CONTINUO RIMANDO TRA LETTERATURA E VITA DELLA PSICHE. IN PARTICOLARE ESPLORA CON COMPETENZA E FINEZZA LA NATURA E L’ESPRESSIONE DI ALCUNI SENTIMENTI FONDAMENTALI, PRESENTATI, JUNGHIANAMENTE, COME COPPIE DI OPPOSTI: GELOSIA E FIDUCIA, INVIDIA E GRATITUDINE, VERGOGNA E DIGNITÀ, PAURA E CORAGGIO, ODIO E AMORE, COGLIENDOLI NEI TESTI LETTERARI, E CI GUIDA NELL’ATTIVITÀ DI DECIFRAZIONE, CONSENTENDOCI DI COGLIERE I FILI CHE LEGANO LA VITA DEI PERSONAGGI ALLA NOSTRA STESSA VITA.
COSÌ IL DISAGIO PSICHICO È SOTTRATTO AL MONDO DELLA PATOLOGIA E RESTITUITO ALLA NOSTRA STESSA
QUOTIDIANITÀ, AI SENTIMENTI CHE TUTTI CI ABITANO MA CHE I GRANDI ARTISTI, MEGLIO DI NOI STESSI, HANNO COLTO NEL LORO NUCLEO ESSENZIALE.
L'AUTRICE
LAVORA CONIUGANDO TRE DIVERSI REGISTRI: QUELLO
LETTERARIO IN CUI L'AFFETTIVITÀ TROVA LA SUA PIÙ COMPLETA OGGETTIVAZIONE; QUELLO PSICOLOGICO, IN CUI ESSA VIENE RADICATA NELLA STRUTTURA E NEI DINAMISMI DELLA PERSONALITÀ; QUELLO CLINICO, IN CUI EMOZIONI E SENTIMENTI SI FANNO VITA VISSUTA E DIVENTANO IL FONDAMENTO DEL DIALOGO ANALITICO. DUNQUE
LA GELOSIA VIENE
ATTRAVERSO
E TÒLSTOJ, SHAKESPEARE, MANSFIELD; L'INVIDA VERGOGNA ATTRAVERSO BELLOW, FAULKNER E COSÌ VIA. LE
DECLINATA ATTRAVERSO
BALZAC, FLAUBERT, CECHOV;
LA
NOSTRE STORIE SI SPECCHIANO IN QUELLE STORIE ESEMPLARI E CI TORNANO INDIETRO PIÙ VIVE E COINVOLGENTI, COMMUOVENDOCI.
SI
ATTIVA UNA SORTA DI CIRCOLO VIRTUOSO, PER CUI I SENTIMENTI
RACCONTATI GENERANO A LORO VOLTA IN NOI EMOZIONI E SENTIMENTI.
MEDIATRICE
DI QUESTA ATTIVAZIONE
AFFETTIVA È L’AUTRICE DEL LIBRO, CHE CI ACCOMPAGNA NELL’INTRICO DI VICOLI IN CUI LA VITA AFFETTIVA DEI PERSONAGGI SI AGGIRA E FAVORISCE COSÌ IL LAVORO DI SALDATURA TRA ARTE, ESPERIENZA INDIVIDUALE, TERAPIA.
LO
STRUMENTO PRINCIPALE DI QUESTA OPERAZIONE È L’EMPATIA, CIOÈ QUELLA CAPACITÀ DI
IMMEDESIMAZIONE CHE CI PERMETTE DI VIVERE NELL’ALTRO E ATTRAVERSO L’ALTRO, FACENDO ESPERIENZA DELL’UMANO IN TUTTE LE SUE SFACCETTATURE.
AUGUSTO ROMANO
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Da Sinistra: Mito di Colapesce, 1985 Donna sdraiata e tulipano, 1985 Ragazze di Palermo, 1940
A
pprocciando un quadro dal punto di vista analitico si possono utilizzare varie chiavi di lettura tra cui, schematicamente: può collegare l’opera in modo riduttivo legandola ai rapporti personali dell’artista coi genitori, o comunque con le vicende intime e personali dell’artista; analizzare le immagini in modo indipendente dal suo autore; considerarlo come prodotto di un processo creativo dell’autore, legato, quindi, anche al processo di individuazione dell’autore, punto di vista che utilizzerò. Prendendo spunto da varie circostanze (centenario della nascita, venticinquesimo dalla morte dell’autore, rischio di chiusura del teatro che ospita l’opera) proporrò delle suggestioni inerenti all’opera “La leggenda di Colapesce” di Renato Guttuso (1911-1987) presente sulla volta del
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Maistà… sugnu ccà ’nta lu funnu di lu mari ca nun pozzu chiù turnari Vui pregati la Madonna staiu riggennu la culonna ca sinnò si spezzerà e a Sicilia sparirà1 (Otello Profazio)
Teatro Vittorio Emanuele di Messina collegandole ad altre opere dello stesso autore. Ovviamente come dice Jung “lascio dunque al critico d’arte il problema estetico e mi limito a considerare la psicologia che sta alla base di quella creazione artistica”.2 O almeno ci provo! La scelta di analizzare una leggenda, quella di Colapesce, dipende dal grande peso dato a queste dalla psicologia analitica, come del resto a fiabe e miti essendo considerate rappresentative di una collettività e delle sue tradizioni popolari che, essendo un deposito di simboli strumentali, aiutano l’individuo ad entrare in contatto con le parti più profonde del proprio inconscio.3 Le leggende, pur essendo simili a fiabe e miti, tanto da poter costituire un nucleo che poi, trasformandosi, entra a far parte delle une o degli
Mario Gullì
altri, se ne discostano, facendo riferimento ad avvenimenti che si presumono (e che spesso sono) realmente accaduti in luoghi e tempi ben determinati, e intorno a tali avvenimenti costruiscono storie fantastiche. Quella di Cola Pesce (Nicola pesce) è ambientata nel XIII secolo (c’è anche chi data la visita dell’imperatore nella primavera 1221), e parla di un ragazzo, la cui nascita è a volte legata a circostanze miracolose, che trascorreva molto tempo in mare, al punto da avere i piedi palmati, o addirittura una coda da pesce. Veniva di conseguenza rimproverato dalla madre che cercava di impedirgli lo stare a mare per lavorare col padre. Aveva acquisito un’enorme capacità di immergersi e restare sott’acqua per lunghi periodi e l’imperatore, secondo alcune versioni accompagnato dalla principessa, sottoponeva Colapesce a delle prove sempre più difficili, consistenti nel recuperare oggetti buttati in acqua, anelli, coppe, ed altro. Da una di queste prove Colapesce non riemerse più, forse perché resosi conto che una delle tre colonne che reggono la Sicilia si stava incrinando vi si è sostituito. Tra le varie amplificazioni possibili, consapevole di essere parziale, sceglierò il tema del contatto col femminile e il tentativo di integrarlo, tale scelta è influenzata anche da alcune suggestioni sulla vita di Guttuso. L’opera presa in esame si situa, infatti, nell’ultima parte dell’opera artistica dell’artista, in realtà è l’ultima completata; infatti, la seguente, “Il gineceo” è incompleta; sempre di questo periodo è il “Bosco d’amore” non è necessario un grande acume analitico per cogliere nel significato manifesto di queste opere un rapporto inquieto e di continua ricerca sul femminile. Ricerca che in base alle opere artistiche di Guttuso può considerarsi iniziata nel 1967 con l’opera “Donne stanze paesaggi oggetti”, per poi proseguire coi dipinti aventi come musa Marta Marzotto compresa la serie di 37 cartoline a lei dedicata. Forzando un po’ l’interpretazione anche la notizia di cronaca (pur se non confermata) di un Guttuso che in punto di morte si fosse convertito diventando devoto della Madonna, si può inserire nel tema del contatto col femminile. La ricerca del contatto col femminile, e la sua integrazione, sono molto frequenti nelle fiabe (è quindi anche nelle leggende), come ben dimostrato da M.L. Von Franz, tra l’altro nella prima parte della vita si tende a ricacciare nell’inconscio questi
segni della presenza di elementi femminili4. Il risultato di tale rifiuto è una personalità parziale. Al contrario è proprio l’intervento di queste istanze psichiche che favorisce il processo di individuazione, fa diventare “un essere umano intero”.5 Se restiamo nella logica degli opposti maschile femminile l’integrazione del femminile consiste nell’avere il coraggio di mettere il principio di Eros allo stesso livello del principio di Logos, accettare che il vedere nella penombra, o il non vedere in dettaglio, possono essere più utili dell’osservare alla luce del Logos, permettendo di apprezzare la globalità senza perdersi nelle differenze. Ampliando il discorso alle dicotomie razionale-irrazionale, o coscienza strutturatainconscio, l’integrazione del femminile vuol dire aprirsi a tutto quello che viene dall’inconscio come possibili fonti di informazione e vitalità. Il risultato, quindi, sarebbe una coscienza simbolica, flessibile. L’integrazione del femminile negli uomini può, quindi, rappresentare una coincidentia oppositorum e, quindi, il Sé meta ultima del processo di individuazione.6 Ad una prima osservazione del dipinto ciò che colpisce è la differenza di luminosità tra le parti, come in “Bosco d’amore”, Jung in Picasso, pittore amico di Guttuso, afferma che col cambiamento di colori si entra nel mondo infero7, la nekyia su cui tornerò. Inizierò le mie riflessioni partendo dall’acqua, la quale assume un ruolo centrale nella vicenda di Colapesce8. L’acqua è una delle immagini simboliche più sfuggenti tanto è articolato e complesso il suo significato. Un’interessante analisi del simbolismo acquatico viene fatta da R. Macchetto9 che considera l’acqua, e le sue rappresentazioni e manifestazioni, come simbolo della forza vitale della psiche rimandando, secondo questo autore, all’archetipo in sé, al motore universale che preme per attivare un processo, per mettere in moto una trasformazione. Tale riflessione è calzante nel caso di Colapesce che, addirittura, subisce una trasformazione anche fisica, oltre che spirituale: nell’elemento acquatico va verso il suo destino. Un’altra riflessione di Macchetto riguarda il contatto tra l’acqua e il viaggio essendo entrambi espressione del processo di trasmutazione della psiche, ne deriva la frequenza di incontri con l’acqua nei racconti di viaggio. Non stupisce,
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Guttuso e il femminile quindi, l’interpolazione, presente in varie versioni, dei viaggi di Colapesce e dei suoi incontri salvo poi tornare a Capo Peloro per andare incontro al proprio destino10. Il rapporto, il contatto con l’acqua, può quindi rappresentare, anche nei sogni, un momento centrale del processo individuativo. La coscienza egoica, che cerca chiarezza e solidità, incontra, invece, fluidità e uno stato altro dal suo. Altro aspetto che va evidenziato è come il contatto con l’acqua, e le sue profondità, si possa configurare come una descensum ad inferos, una nekyia.11 Un’interessante esemplificazione del concetto di nekyia la fa Jung in Psicologia e Alchimia, il termine νέχυιά deriva da νέχυς (cadavere) ed è il titolo dell’undicesimo canto dell’Odissea. Rappresenta il sacrificio funebre per evocare, dall’Ade, i morti, indica la discesa nel mondo dei morti, inoltre, spesso, all’inizio di tale discesa si incontrano figure femminili seduttrici ma mortifere, spesso con aspetto di lamie o sirene con la parte inferiore del corpo pesciforme.12 L’acqua, tra l’altro, può rappresentare la sorgente di ogni forma di vita, ma è anche elemento di dissoluzione e annegamento, può essere un simbolo degli strati profondi e inconsapevoli della personalità. Ha carattere ambivalente perché da un lato dà la vita e rende fertile dall’altro allude ad affondamento e declino13. Nella stessa leggenda di Colapesce, pur se l’elemento acquatico e considerato come positivo, nasconde un elemento mortifero. Il mare, inoltre, può essere l’espressione massima della profonda maternità delle acque, quindi alcuni dei simbolismi più frequentemente associati all’acqua e alle profondità marine, sono l’inconscio, il materno, il femminile14, mentre l’attraversamento attiene al maschile15, e ad una ricerca di contatto col femminile e col materno. Nel caso specifico di Colapesce il rapporto con il femminile, sia con la figura materna sia con quella della principessa, appaiono ambivalenti, infatti, la madre non permette il distacco, non facilita il contatto col femminile archetipicamente rappresentato dalle profondità marine. Per usare una terminologia di Neumann non permette il superamento della fase uroborica. Col rischio, che sembra avverarsi, di essere riassorbito dal materno rinunciando alla propria individualità, non riuscendo, di conseguenza, a riemergere da questa nekyia trasformato.
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Interessante in “Bosco d’amore” la configurazione circolare, con una figura anziana in mezzo ai giovani quasi imprigionata, incapace di integrarsi, siede nell’ombra come l’Oscura citata da Jung riferendosi ad un dipinto di Picasso.16 La nekyia è ricorrente in Gilgamesh, Kore e altri eroi mitici, ma anche per ogni persona in cammino lungo il percorso dell’evoluzione. Sembra, infatti, essere una delle esperienze cruciali della vita poiché non tutti fanno ritorno dall’inferno; Enea ed Eracle vi riescono, Piritoo resta per sempre imprigionato nel regno delle ombre, in parte come Colapesce, anche se questo ultimo, comunque, svolge un compito fondamentale. Esplorare le regioni dell’ignoto e dell’inconscio non è di grande giovamento se l’Io non fa ritorno alla dimensione concreta, portando con sé l’essenza dell’esperienza compiuta. È necessario sprofondare nel baratro oscuro, prima di giungere alla luminosità dell’altezza, identificando lo spirito con l’alto, separandolo dall’oscurità del mondo sotterraneo: rifiutare le tenebre significa chiudere le ali dell’anima che diviene e muta solo nel rischio17. Questa necessità è rappresentata da Jung con lo stato d’introversione ”la libido sprofonda “nei propri abissi “ e trova nell’oscurità un surrogato del mondo in superficie che essa ha abbandonato, e cioè il mondo dei ricordi[lo] stato paradisiaco della prima infanzia".18 Prosegue Jung “Tuttavia “ il pericolo è grande”, […] l’abisso seduce. Quando la libido abbandona il luminoso mondo superiore – sia in virtù di una libera scelta, o perché scemata la forza vitale, o perché così vuole il destino dell’uomo, - ricade nelle sue proprie profondità, alla sorgente dalla quale era scaturita in origine e fa ritorno al punto di rottura […] quando vi è da compiere qualche grande opera, dinanzi alla quale l’uomo indietreggia disperando delle sue forze, la sua libido rifluisce al punto di origine della sorgente e questo è il momento pericoloso nel quale occorre decidere tra l’annientamento e una nuova vita. Se la libido si attarda e rimane impigliata nel regno meraviglioso del mondo interiore, per il mondo superiore l’uomo non è più che un’ombra; e come se fosse morto o gravemente ammalato. Ma se la libido riesce a liberarsi e a farsi strada verso l’alto si verifica il miracolo: la discesa nel mondo sotterraneo sarà stata un tuffo nella fonte di giovinezza e un nuovo impulso fecondatore
Mario Gullì
risulterà dalla morte apparente.” Sempre Jung afferma “se la libido non fluisce tempestivamente nella vita perviene, regredendo, nel mondo mitico degli archetipi e riattiva immagini che dai tempi più remoti esprimono la vita non umana degli dei sopra mondani e inframondani. Se questa regressione ha luogo nell’uomo in giovane età, il dramma archetipico degli dei viene a soppiantare la sua vita individuale.[Senza] la possibilità di liberarsi da questo fascino”.19 In entrambi i passi si è vicini alla vicenda di Colapesce. Affrontando il tema del contatto col femminile è doverosa una breve parentesi sulla separazione dal materno. Nella teoria junghiana la separazione del figlio dalla madre, avviene non per un intervento esterno, come postulato dal complesso edipico freudiano, ma per una spinta interna alla base, poi, anche del processo di individuazione. Stessa spinta che sembra “impossessarsi” di Colapesce nel suo anelito verso il mare e le sue profondità. Come spesso affermato da Jung, uno dei compiti eroici è il distacco dalla Madre, dal regno materno. Con la sua discesa agli inferi variamente rappresentata da Gilgamesh, Pinocchio, Giona o altri, e “con la sua vittoria sulla regressione nel materno, entra nel fondo oscuro del Sé e acquista fiducia nella capacità del Sé di sostenerlo”.20 Giona e Pinocchio, ingoiati dalla balena, (e Gilgamesh) riescono a venire fuori portando agli altri le visioni e l’arricchimento avuti durante la prigionia nel ventre del mostro, o nell’oltre tomba nel caso di Gilgamesh. Colapesce, al contrario, sembra più simile a Tammuz, Adone Attis. Tali personaggi sono tutti eroi la cui esistenza si estingue prematuramente, perché in fondo non sono mai esistiti indipendentemente dalla madre, sono rimasti sempre delle appendici. Ciò che distingue gli eroi che fanno ritorno dagli inferi da quelli che vi affondano è la capacità di mantenere un barlume di coscienza anche nel buio più profondo e il senso della religiosità e della profondità di ciò che fanno. Senza questa ultima qualità il giovane eroe rischia l’Hibrys e l’inflazione, l’identificazione con un aspetto dell’inconscio. L’eroe che fallisce, nella proposta di Jung, rischia la non esistenza, il riassorbimento nel materno, sorte che sembra toccare a Colapesce. Infatti, nelle varie versioni manca un equilibrio, il rapporto è inizialmente duale, madre e pesce, poi madre e Colapesce ed
“essere soltanto in due vuol dire vedersela da soli con lo strapotere della madre perché il padre non c’è”.21 Come afferma Jung ” un certo tipo di figlio di mamma presenta anche in concreto le caratteristiche del dio fiorente di giovinezza votato fatalmente a una morte prematura. La ragione di ciò sta nel fatto che egli vive solo sulla madre e attraverso la madre, non può mettere da sé radici nel mondo e vive di conseguenza in uno stato di incesto permanente. Egli è, per così dire, un sogno della madre[...] che tosto viene inghiottito: esempi eccellenti sono i figli dei dell’Asia minore come Tammuz. Attis, Adone e Cristo.”22 Possiamo quindi considerare queste figure come rappresentazioni del Puer Aeternus, una sorta d’illusioni. Una sorta di parassita della madre che vive solo in quanto radicato nel corpo della madre. Nell’esperienza interiore immediata la madre corrisponde all’inconscio (collettivo), il figlio alla coscienza che vagheggia di essere libera, ma deve sempre ricadere in potere del sonno e dell’incoscienza. Prosegue Jung “Figlio della madre, in quanto semplice uomo, muore giovane, ma in quanto Dio può fare ciò che è vietato e ciò che è sovrumano: perpetrare l’incesto magico e acquistare così l’immortalità. Vero è che, in diversi miti, l’eroe non muore, ma in compenso deve vincere il drago della morte.” In parte è ciò che succede a Colapesce che scompare giovane dal mondo reale acquistando, però, l’immortalità su un piano più elevato svolgendo un compito sovraumano. In base al ragionamento fatto le peripezie di Colapesce possono essere, quindi, lette come tentativo di sganciarsi dal materno sia reale che simbolico, per “guadagnare” un’esistenza reale ed indipendente, in altri termini di individuarsi. Compito molto difficile, lo stesso rapporto col re e la principessa, che può essere letto come inizio d’equilibrio, sganciamento dal materno e inizio di vita propria, in realtà è un rapporto sclerotizzato. Ha, infatti, a che fare con un maschile rigido, che rappresenta i valori dominanti di una civiltà, ma che è lontano dalla vita quotidiana della gente, questo rapporto di Colapesce sembra essere proiettato su una sfera di valori e di principi ma manca di concretezza. Il femminile rappresentato dalla principessa non ha un ruolo definito, è ancora molto figlia, tranne alcune versioni romantiche la
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Guttuso e il femminile
principessa o non parla o non è nemmeno fisicamente presente. Sembra rappresentare un aspetto di Anima poco differenziato in Colapesce che, quindi, non collabora con la coscienza. Il contatto col femminile è impossibile (così come quello con la madre reale), l’unico equilibrio è quello finale, all’interno del mare, come terza colonna23, e qui la possibilità di un vero rapporto di intimità viene sacrificata a favore di un ruolo eroico e pubblico, in qualcosa che potrebbe essere paragonato, per certi versi, ad una specie di falso sé. Ma come ci insegna Jung la triade non è completa, a differenza della quaternità. Tornando brevemente a Guttuso, ho deliberatamente scelto di non utilizzare dati personali della vita dell’autore, per rendere quanto detto il più universale possibile, infatti, l’essere la prima fase della vita legata a compiti collettivi come l’impegno politico dei quadri giovanili e della piena maturità, e la seconda parte legata a compiti più spirituali come la ricerca del femminile e di un equilibrio psichico sono tipici del processo individuativo di tutti. Un ultimo accenno all’opera da cui sono partito, il numero dei personaggi è 8, 7 figure femminili più Colapesce, quindi a differenze della leggenda l’equilibrio è stato raggiunto, come del resto in “Bosco d’amore”, i personaggi sono 12, 6 maschili e 6 femminili, 4 coppie e 4 singoli, pur se non perfettamente integrati, vi è già in nuce l’equilibrio e la coniuctio. Bibliografia e Note 1. Maestà, sono qua, nel fondo del mare che non posso più tornare, Voi pregate la Madonna che io sto reggendo la colonna, che sennò si spezzerà e la Sicilia sparirà. 2. Jung C.G. (1932) Picasso in Opere Vol. 10 tomo 2 Bollati Boringhieri pag.407 3. Confronta con Parise S.(1992) “La fiaba”, in Trattato di Psicologia Analitica a cura di Carotenuto A. UTET 1992. 4. Ovviamente il discorso è valido per l’uomo mentre per la donna vanno integrati gli elementi maschili. 5. Risè (1995) “Diventa te stesso” RED edizioni cfr. pag.101 6. Confronta M. L. Von Franz (1963) “Il processo di individuazione” in C.G. Jung “L’uomo e i suoi simboli”. Cortina editore (1990)
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7. Jung C. G. (1932) op.cit. pag.410 8. È possibile trovare varie versioni della leggenda in www.colapisci.it 9. Macchetto R. “Guado ponte arcobaleno. L’acqua e l’attraversamento” in a cura di Widmann(1999) “Il viaggio come metafora dell’esistenza” Ma. Gi. Roma 10. Come nella novella ripresa dalla canzone di Vecchioni Samarcanda 11. Interessante al proposito la differenziazione, fatta da J.Hillmann in “Il sogno e il mondo infero,”(1979) Adelphi Milano (2003) pag. 209, tra nekyia e viaggio notturno dell’eroe, ovvero che l’eroe ritorna dal suo viaggio notturno meglio attrezzato per i compiti della vita, mentre la nekyia è un viaggio che l’anima compie per se stessa. 12. Cfr. Jung (1944) Psicologia e Alchimia in Opere Volume 12 13. Anche le sirene, le naiadi e le nereidi, creature acquatiche per eccellenza, sono ambigue timide e tentatrici. 14. Nella filosofia orientale l’acqua è in relazione con la parte yin,femminile, del cosmo; le creature dell’acqua sono solitamente femminili 15. cfr Macchetto (1999) op. cit. 16. Jung C. G. (1932) Op. cit. pag 410 17. Jung C. G. (1934-54) Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol. 9 tomo 1 Boringhieri, pag. 18. 18. Jung C. G. (1912-52) Simboli della trasformazione, Opere vol. 5 pag. 288 19. Ibidem pag. 302 20. ibidem 21. Cfr Giannoni (1989) Dal complesso di Edipo al complesso di Giona. Rivista di Psicologia dinamica vol. 14 fasc.27,1990 pag 111 22. Jung C.G(1912-52 ) op. cit. “pag. 257 e sgg.” 23. La lettura dell’impresa di Colapesce come nekyia può essere confermata dal fatto che anche nella dimora di Stige il cielo poggia su colonne. Mario Gullì nato nel 1975, psicologo analista, socio analista Centro Italiano Psicologia Analitica, direttore sanitario di strutture per il recupero di tossicodipendenti e psichiatriche a Messina e Marsala, presso il Centro di Solidarietà F.A.R.O. tiene un laboratorio di approfondimento sulle fiabe al C.I.P.A., svolge l'attività libero professionale a Messina, si è occupato di formazione e rapporti genitori figli all'interno di vari progetti di cui è stato Responsabile.
L'Anima Fa... Libro
L 'AMOR E E ' UN'OMB R A DI
LELLA RAVASI BELLOCCHIO ED.
MONDADORI 2012
I
l libro di Lella Ravasi, scritto con un proprio linguaggio, gronda amore, perchè lei ama ciò che fa o meglio, fa per amore. Lei corre il rischio: accompagna le sue madri attraverso la follia. Non giudica mai e mai esibisce verità, ma con straordinario tatto e spontanea leggerezza, racconta quella pesantezza. Lella sfronda da subito le illusioni di protezione e i rifugi intoccabili della tecnica. Scrive:“Ma chi protegge dal sogno infero che genera mostri? E quale certezza che il doppio non verrà a farci visita pretendendo la sua parte di satolla soddisfazione? Se ne sappiamo qualcosa di più, forse lo teniamo a bada. Forse.” Ci si avventura così, tra le pagine del libro, tra le parole e i racconti, scritti senza “il filo a piombo”. Cadono i muri, per lasciare il posto a luoghi sospesi, aperti, tra il bianco e il nero e il dentro e il fuori. Le madri, loro, non distinguono più tra veglia e sonno, tra realtà e fantasia, tutto risulta mescolato. Noi, veniamo ri-mescolati e portati a sentire il limite, la soglia. Leggendo, ho imparato a stare dentro a pensieri e a sentimenti impossibili. Non tutto può essere chiarito. Non tutto può essere trasparente. Lella penetra nel mondo materno e ci consegna immagini che arrivano dalla notte, dall'Ombra, dalla mater-materia, grembo di carne che accoglie e uccide. Un corpo che fa corpo e uccide il corpo. Le storie scritte, non si agguantano mai del tutto, vibrano dentro e commuovano. Si arriva a provare una schietta compassione, per chi ha compiuto il delitto più orrendo. Il libro serve ad evitare la reclusione, la segregazione dell'Ombra. Le voci che lì, vi si affollano, rappresentano gli echi del passato (i suoi sogni, i sogni delle madri,
dei mariti e dei compagni, delle famiglie fatte e disfatte) e i quesiti del presente (il valore della vita, il senso della vita e della morte). Al termine della lettura del libro, ho provato un sentimento di gratitudine per chi l'ha scritto e amato. Grazie Lella, per avermi condotto, non senza fatica, ad accettare il Mistero. “Occorre una grande dedizione alla speranza quando si incontra il Male: non lo si rimuove, si accetta il confronto e insieme si sa di rimanere segnati dalla lotta, come Giacobbe dopo la notte con l'Angelo”
MARA FORGHIERI
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I
N QUESTA INTERVISTA CURIOSA ED INTERESSANTE CI IMMERGEREMO IN UN LUOGO SINGOLARE, UN LUOGO DELL'ANIMA E DELLE PROFONDITÀ.
PER
ARRIVARE SINO IN FONDO A QUESTE PROFONDITÀ ABBIAMO DOVUTO
SCENDERE
ALCUNE
SCALE
E
CI
SIAMO
RITROVATI
A
GIROVAGARE
ALL'INTERNO DI CUNICULI MODERNI, FONDACI MISTERIOSI, GIUNGENDO DI FRONTE AD UNA PORTA PICCOLA E IN METALLO. PORTICINA
CI SIAMO RITROVATI DENTRO LA
"STANZA
APERTA
QUESTA
DEL TESORO".
UN
LUOGO CALDO ED ACCOGLIENTE, SINTESI DI CULTURA OCCIDENTALE E ORIENTALE, CURATO NEI MINIMI PARTICOLARI E DAL QUALE SI EVINCE UNA DEDIZIONE AMABILE PER IL MESTIERE PIÙ BELLO DEL MONDO: LO PSICOANALISTA STUDIO DI
Amedeo Caruso
L
. IL
LUOGO MISTICO NEL QUALE SIAMO ENTRATI È LO
AMEDEO CARUSO, "PORTA-PSICHE"
ITALIANA.
'amore non muore mai: mi sembra un bellissimo incipit soprattuto perchè muore continuamente per poi risorgere. Henri de Régnier ha scritto, naturalmente prima che Verdone intitolasse così il suo film, che "L'Amore è eterno finchè dura". Un altro aspetto che mi viene in mente osservando quest'immagine è che nel mio lavoro vedo spesso persone che vampirizzano gli altri, e non in senso positivo. Persone che richiedono sempre trasfusioni di sangue, senza dare mai nulla in cambio. Il film rappresenta la figura di Dracula che tanto appartiene all'immaginario collettivo. Mi ricordo ad esempio il Nosferatu di Murnau, dove il vampiro viene annullato dalla forza dell'amore, o anche The Addiction di Abel Ferrara, forte metafora sulla presenza del Male nel mondo. L'amore ha una grandissima potenza traformativa. Secondo me l'aspetto della non-morte non è attuale, mi si perdoni il bisticcio di parole, perchè è sempre stato attuale cioè non è mai stato abbandonato dal nostro immaginario. Anche molti dei supereroi che hanno preso forma in campo cinematografico sono "non-morti", o perlomeno si rinnovano attraverso figli reali o putativi.
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DELLA PSICOANALISI
Valentina Marroni, Michele Mezzanotte
D
evo confessarvi che preferisco il cinema fatto di dialoghi e di invenzioni rispetto a quello fatto di effetti speciali. Mi viene in mente l'argomento della violenza nel cinema e penso che oggi (03\2013) siamo proprio in tema: vedo una pistola e penso all'episodio di cronaca di Pistorius, l'atleta invalido che ha ucciso la sua donna. Animus e Anima devono andare d'accordo, e dobbiamo riconoscere che ultimamente l'Animus di questa società è stato un pò malevolo. Questo argomento è stato espresso saggiamente dal professor Zoja in uno dei suoi ultimi libri.
C
ome saprete V per Vendetta è tratto da un fumetto.I francesi si sono applicati anche nella "psicoanalisi del fumetto". Penso a Serge Tisseron, che ha scritto un delizioso libretto intitolato "Psychanalyse de la bande dessinée". Qui parliamo di una vendetta contro la cattiveria politica, contro coloro che vogliono farci del male. Stéphane Hessel ha scritto a novantatré anni il libricino "Indignez Vous" che mi piace molto. Suggerisce ai giovani di indignarsi contro le malefatte di ogni potere, e subito dopo ha scritto un altro libro intitolato "Impegnatevi". È un chiaro messaggio alle generazioni future, dall'indignazione bisogna passare all'impegno. In questo film non si trova una soluzione pacifica, ma io preferisco le soluzione pacifiche. Le soluzioni aggressive, verso il male, le preferisco solo immaginate perchè il cattivo è dentro di noi, altrimenti non avremmo imparato nulla dalla lezione psicoanalitica. Ogni volta che ho un istinto aggressivo devo capire chi è l'aggressore dentro di me. I pazzi violenti senz'altro vanno puniti ma, soprattutto, vanno curati. Il peccato più grave è sicuramente l'indifferenza. Bisogna indignarsi per ritrovare la dignità umana e la libertà. Chiesero a Jung nel '48 cosa si fosse dovuto fare fare per migliorare i rapporti tra le persone nel dopoguerra, così lui scrisse, insieme ad alcuni suoi collaboratori, una relazione di cento pagine che successivamente divennero una cinquantina. Cercò di scriverla nel modo più semplice possibile. In sintesi, all'interno di questa piccolo saggio, suggerì di lavorare "semplicemente" su sè stessi.
L
'archetipo dell'archeologo è per noi psicoanalisti fondamentale. Freud è stato un po' come Indiana Jones, che scava nelle profondità alla ricerca di tesori e che riscopre sorpattutto gli aspetti del puer. È un film molto intrigante e pieno di avventura, che ci mette a contatto con i nostri desideri di conoscenza e le nostre aspirazioni di risolvere i misteri.
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Intervista Ad Amedeo Caruso
U
nchained: "senza catene", ma dobbiamo anche dire "scatenato". Anch'io senza catene mi sento scatenato. La psicoanalisi alla fine è la ricerca della libertà. Essere liberi significa essere sani, e libero è colui che non è schiavo di nessuno. L'etimologia di libertà deriva da schiavo Si, schiavo delle mie idee, di qualcosa in cui credo. Montaigne afferma che è libero solo chi non è schiavo di nessuno e quindi non ha paura nemmeno della morte. Se perseguisco ciò che voglio sono libero. Vivo grazie alle mie passioni e quando non vivo per le mie passioni, sono già morto. Ci sono moltissime persone che hanno un lavoro o una vita che non amano. Voglio ricordare Salvo D'Acquisto che, all'incirca nel '43, si immolò per salvare venti persone dalla violenza dei tedeschi. Questa fu una scelta di estrema libertà, e non fu schiavo di nessuno ma solo della sua idea e del suo ideale. È triste quel popolo che ha bisogno di eroi. In momenti di crisi escono fuori gli istinti più bassi. Sapete che secondo alcuni sondaggi chi ruba di più nei supermercati italiani sono i poveri pensionati? Sono notizie che fanno riflettere. è un film che riguarda i sogni e la capacità di entrare nei sogni. Questo Nei miei progetti c'è un libro sui sogni che leggerete fra un pò. E' bello vedere quanto lontani siamo arrivati a lavorare con i sogni e da dove siamo partiti. I sogni sono sempre stati lì, non sono un tema nuovo, è stato Freud ad essere "nuovo" per come ci ha lavorato. Prima della psicoanalisi c'era la trance, lo sciamanesimo e l'ipnosi. Erano modelli curativi perchè le persone imparavano a pensare, a stare insieme e ad armonizzare le parti interiori.
R
Transatlantico Achille Lauro
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icordo con molta nostalgia la mia esperienza come medico di bordo sulla nave da crociera Achille Lauro. Nel 1985 fui anche ostaggio dei Palestinesi quando sequestrarono la nave. Una esperienza indimenticabile! Ci ho scritto su il mio primo articolo di psicoanalisi, "La sindrome del giudizio universale", ripubblicata di recente in "Psiche istruzioni per l'uso". Dalla nave sono sceso accompagnato dai miei sogni, direttamente verso la stanza di analisi di Aldo Carotenuto e catapultato sul lettino analitico... in realtà sono finito su una poltrona, non sul lettino. Quello del medico di bordo è un mestiere molto affascinante deve durare poco, pena l'impoverimento professionale. Quel poco mi diede molto a livello personale, comprese alcune belle storie sentimentali. Ma sentivo che dovevo andare oltre. Mi mancava qualcosa a livello della vera comprensione del Paziente. Qualcosa che ho poi trovato con la Psicoanalisi.
Valentina Marroni, Michele Mezzanotte
H
o scritto molte cose su di lui nel corso della mia carriera. Ho imparato da lui l'arte della psicoanalisi. Carotenuto è stato il mio Maestro-Paziente. Lui aveva bisogno dei suoi allievi, e per terminare il percorso psicoanalitico bisognava sconfiggerlo, e posso assicurarvi che non era semplice. Sono anche stato una specie di figlio per lui. Ricordo l'ultimo sogno che portai in analisi con Aldo: "Viaggiavo su una Rolls-Royce, seduto accanto a Carl Gustav Jung. Poi Jung ferma l'auto e mi dice: "Ora guida tu!". E neanche dopo questo sogno il Professore voleva accettare la fine della mia analisi. Nonostante fosse arduo sconfiggere Aldo Carotenuto, lo ringrazio profondamente perchè mi ha insegnato tanto. Ad esempio mi ha insegnato che non esiste un modo univoco di fare analisi. Ogni analista ha i Pazienti che si merita e viceversa. Un grande insegnamento. Potete vedere qui nel mio studio una sua foto con dedica speciale e credo proprio di essere l'unico allievo ad averla.
Aldo Carotenuto Napoli, 25 gennaio 1933 – Roma, 13 febbraio 2005
P
roust quando si sottopose al famoso Questionario, alla domanda sul sentimento che provava in quel momento rispose di provare noia per aver dovuto parlare di sè stesso tutto il tempo. Lasciamo perdere tutto questo narcisismo. Ho parlato di me abbastanza. Ma a proposito di narcisismo sano, vi dico che per noi psicoanalisti questa è una dote fondamaentale, in quanto dobbiamo pensare di essere - ciascuno di noi - "il migliore", in grado di aiutare al massimo i nostri pazienti e "il più bravo" a curare le loro sofferenze.
AMEDEO CARUSO È IL DIRETTORE RESPONSABILE DEL GIORNALE STORICO DEL CENTRO STUDI DI PSICOLOGIA E LETTERATURA, DI CUI È VICEPRESIDENTE. MEDICO-CHIRURGO, POTREBBE ESSERE DEFINITO UN ESPERTO IN MEDICINA INTERNISSIMA POICHÉ È SPECIALISTA IN MEDICINA INTERNA E PSICOTERAPEUTA. SI È PERFEZIONATO IN BIOETICA CON UNA TESI SUL CINEMA. È STATO ALLIEVO DI ALDO CAROTENUTO PER LA PSICOANALISI, E DI ERNEST ROSSI PER L’IPNOSI. HA PUBBLICATO I
LIBRI:
(1994,
VIAGGIO
NELL’IPNOSI, PSICOTERAPIA CREATIVA
ORMAI SOLO UNA RARITÀ PER BIBLIOFILI);
DI (1997, LIGUORI, NAPOLI); CARO PAPÀ (2003, LIGUORI, NAPOLI); PSICOPATOLOGIE SUL QUOTIDIANO (2011, EDIZIONI IBC) E I DUE NUOVI LIBRI QUI SEGNALATI. HA SCRITTO IL TESTO DELLO SPETTACOLO TEATRALE LE STANZE DEI SOGNI (1998), RAPPRESENTATO A ROMA, SPOLETO E IN DIVERSI TEATRI ITALIANI. WWW.AMEDEOCARUSO.IT CHE SOGNO SEI?
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L'Anima Fa...Libro IN
QUESTO NUOVO NUMERO DELL'ANIMA
FA ARTE
ABBIAMO
RAGGIUNTO, ATTRAVERSO ALCUNE IMMAGINI, UNA PARTE DELLA
AMEDEO CARUSO, DIRETTORE RESPONSABILE GIORNALE STORICO DEL CENTRO STUDI DI PSICOLOGIA E LETTERATURA DI CUI È ANCHE VICEPRESIDENTE. NEL CORSO DELLA SUA CARRIERA, IL DOTT. AMEDEO CARUSO, MEDICO E PSICOANALISTA, HA PUBBLICATO DIVERSI LIBRI E NUMEROSISSIMI ARTICOLI. IO HO AVUTO L'ONORE DI POTER LEGGERE LE DUE SUE NUOVE PUBBLICAZIONI: PSICHE ISTRUZIONI PER L'USO E LA PSICOANALISI ALL'OPERA. DUE VOLUMI APPASSIONANTI E APPASSIONATI. PSICHE
DI
DELL'ECCELLENTE
PSICHE ISTRUZIONI PER L'USO IL DIRETTORE DEL GIORNALE STORICO DEL CENTRO STUDI IN PSICHE ISTRUZIONI PER L'USO DESCRIVE I NOVE PECCATI CAPITALI NEI QUALI UN PROFESSIONISTA DEDITO AL NOSTRO MESTIERE PUÒ INCAPPARE, E POI SI CIMENTA IN RIFLESSIONI TEORICHE, PRATICHE, ETICHE
ED ECONOMICHE
CHE
COINVOLGONO LA PSICOANALISI.
SAGGIAMENTE L'AUTORE
DECIDE DI FARCI RIFLETTERE ANCHE SU UN
IPOTETICO
DELLA
FUTURO
PSICOANALISI.
IPOTETICO
O
PERIPATETICO?
CONTINUANDO A PASSEGGIARE PER LE RIGHE SAPIENTEMENTE SCRITTE DA CARUSO CI IMBATTIAMO IN FIORI DI LOTO, MANDORLI E CILIEGI, OVVERO IN UNA LETTURA PSICOANALITICA DEL GIAPPONE. IL VOLUME È ARRICCHITO DA INTERVISTE AD ESPONENTI DI RILIEVO DELLA PSICOANALISI NAZIONALE E INTERNAZIONALE COME ZOJA E GALIMBERTI. LE ULTIME PAGINE SI ADAGIANO DOLCEMENTE NEL RICORDO DI DUE MAESTRI, MENTORI COME CAROTENUTO E AURIGEMMA. UN LIBRO PIENO DI SOPRESE DA SCOPRIRE PAGINA PER PAGINA CHE CI PORTA RIFLESSIONI E INTUIZIONI SUL MESTIERE PIÙ ANTICO E BELLO DEL MONDO.
LA PSICOANALISI ALL'OPERA CON L'ALTRO LIBRO, LA PSICOANALISI ALL'OPERA, CI ADDENTRIAMO NELL'UNIVERSO DELL'ARTE, ARGOMENTO TRATTATO A TRECENTOSESSANTAGRADI. QUALE LIBRO OSPITEREMMO CON PIÙ PIACERE SE NON UN LIBRO CHE AMA L'ARTE? UN'ARTE CHE SI MANIFESTA E CREA PSICOLOGIA DINAMICA ATTRAVERSO L'OPERA, LA MUSICA, LA LETTERATURA, LA PITTURA, IL TEATRO E IL CINEMA, CHE CARUSO STESSO DEFINISCE UNA SUA "VIOLENTA PASSIONE". PAGINE INTRISE DI ARTE E PSICOANALISI CHE VANNO LETTE ED ASSAPORATE CON TUTTI E CINQUE I SENSI. EMOZIONI E SENTIMENTI SI ISCRIVONO ARTISTICAMENTE SU PAGINE TUTTE DA ESPLORARE, SENTIRE E AMARE.
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Appunti
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Silvano Tagliagambe ha insegnato filosofia della scienza presso le Università di _____________________________________________________________________________________ Cagliari, Pisa, Roma "La Sapienza" e Sassari. Attualmente è direttore scientifico del progetto "Scuola digitale" della regione Sardegna. Nelle edizioni Raffaello Cortina _____________________________________________________________________________________ ha pubblicato il Sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello (2002). _____________________________________________________________________________________
Angelo Malinconico, psichiatra, criminologo e psicologo analista, è membro didatta dell'AIPA e membro ordinario della IAPP. Insegna materie psichiatriche e _____________________________________________________________________________________ psicologiche presso le Università Cattolica e Statale del Molise. Tra i suoi lavori recenti, la cura del volume Psicosi e psiconauti. Polifonia per Ofelia (Roma 2010). _____________________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ www.animafaarte.it
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