Periodico telematico quadrimestrale a carattere tecnico-scientifico di Psicologia con sede a Chieti in Via Vicoli, 11
Direttore Responsabile: Michele Mezzanotte Proprietario: Valentina Marroni Editore: Ass. L'Anima Fa Arte Web Master: Matteo Colangeli Curatore: Valeria Marroni Iscrizione al Tribunale di Chieti n.6
La collaborazione è aperta a tutti gli studiosi. Gli eventuali articoli (max 20000 caratteri spazi inclusi) e i libri per le recensioni vanno inviati alla redazione: info@animafaarte.it
Immagine di copertina: Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese
www.animafaarte.it
Rivista di Psicologia Quadrimestrale www.animafaarte.it N.3 Settembre 2013
INDICE EDITORIALE, p.3
• Michele Mezzanotte ...e portarono via qualcosa p. 5
• Gianpio Colarossi IL BACIO DELLA SFINGE, IL MORSO DI DONNA E IL LAPSUS DI FREUD P. 13
• Luca Urbano IN DIFESA DELLA BIO-PSICO-DIVERSITÀ: IL RINOCERONTE P. 25
• Alfredo Vernacotola UN'IDEA ARCHETIPICA. LA VITTIMA TRA INDIVIDUALE E COLLETTIVO P. 33
• Marina Manciocchi LA DIMENSIONE CREATIVA COME STRUMENTO TERAPEUTICO P. 39
• Piero Di Prinzio Hybris e secolarizzazione nel Nibelungenleid (quarta parte) p. 45
• Raffaele Toson SANSONE, RIFLESSIONI SUL MITO DELL'EROE NEL GIUDAISMO P. 53
• Valentina Marroni, Michele Mezzanotte INTERVISTA A GINETTE PARIS P. 67
Marc Chagall, Il Compleanno, 1915
I
l numero tre dell'Anima Fa Arte è un nuemro speciale. Il tre simbolicamente è considerato un numero profondamente energetico. Apre la strada alla mediazione superando l'antagonismo del numero due. E' quindi ontologicamente il simbolo di vitalità, di superamento, di miglioramento. Non si può che considerare questo, oltre che un buon auspicio per il futuro, anche un risultato già arrivato a compimento. L'ultima considerazione deriva dal fatto che L'Anima Fa Arte già festeggia un'anno dalla sua prima pubblicazione e continua a regalarci contenuti validi ed originali provenienti dai nostri studiosi, psicologi del profondo, i quali ringrazio doverosamente e mai abbastanza. Molti
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scrittori e psicoterapeuti ci hanno "prestato la loro penna" e le loro intuizioni, per far si che questa neonata rivista potesse affermarsi nel campo editoriale nazionale. Inoltre abbiamo avuto anche soddisfazioni internazionali con lettori provenienti da tutte le parti del mondo. Faccio, in questa occasione, anche una breve parentesi numerica, dato che siamo arrivati a ben oltre 150 abbonati e più di 4000 visualizzazioni della rivista. Tutto ciò è possibile grazie ai nostri scrittori e ai nostri lettori. Come vedrete, nell'intervista che ho condotto insieme a Valentina Marroni, in questo numero abbiamo proseguito la tradizione dei luoghi dell'Anima, andando a trovare Ginette Paris ad
Editoriale
Ascona. Ci siamo recati ad Eranos, e a Monte Verità, nel quale proprio all'interno di un padiglione da tè, in un giardino zen, abbiamo condotto l'intervista in inglese con la psicoterapeuta americana. Ciò che più mi ha colpito di Eranos è l'energia che permea il luogo e che è tangibile già solamente scendendo le scale e andando verso la casa. Sul ciglio della strada si sentono rumori di macchine ed è un luogo abbastanza caotico e affollato, ma basta scendere i primi gradini di quel luogo magico e si nota come i rumori spariscono e l'aria stessa che respiriamo cambia sensibilmente. Proprio in quell'istante si capisce subito che Eranos è un luogo dell'Anima. In copertina ci sono tre strappi del pittore italiano Lucio Fontana, tre segni che indicano il numero tre in maniera simbolica. Così come nelle antiche culture pastorizie si contava attraverso delle tacche, noi abbiamo lasciato all'arte contare per noi. Ora passerò alla presentazioni dei lavori presenti in questo numero 3. In primo luogo c'è l'articolo di Michele Mezzanotte che parla di Abbandono, affrontando il tema da diversi punti di vista: letterari, poetici, onirici e filosofici, per cercare di leggere l'Abbandono sia da un punto di vista quotidiano individuale e collettivo, sia da un punto di vista psicoanalitico andando a cercare aiuto dal filosofo Martin Heidegger. Proseguendo troviamo come sempre il brillante e intuitivo lavoro di Gianpio Colarossi, che questa volta partendo dal dipinto di Franz Von Stuck, Il Bacio della Sfinge, costruisce un percorso psicologico che ci conduce attraverso diverse immagini ad una conclusione davvero interessante. Luca Urbano Blasetti in questo numero si è cimentato nell'analisi di un'immagine ferina: il
rinoceronte, portando ad esempio oltre che una bibliografia, una filmografia adatta all'argomento, citando tra i vari Federico Fellini che molto ha preso dalla nostra psicologia analitica. In seguito troviamo Alfredo Vernacotola, che ha scritto riguardo il tema della vittima, sviluppando l'ottica archetipica e viaggiando tra epoche e religioni diverse dalle nostre, portando alla luce la vittma e il carnefice sia in campo individuale, sia in campo collettivo. Marina Manciocchi è un nuovo ospite tra le pagine della rivista, pur avendo un'esperienza forte in campo editorial, infatti abbiamo già presentato nello scorso numero il suo libro Antigone e le trame della psiche. In questo numero parla di creatività riprendendo e approfondendo l'argomento del suo interessante libro. Come sempre Piero Di Prinzio continua il lavoro pionieristico sul Nibelungenleid e la Hybris, arrivando alla quarte parte del tema trattato. Infine Raffaele Toson ci porta in esame Sansone e il suo mito, sviscerandolo e portandolo al pubblico lettore, facendo emergere finemente la psicologia analitica dai racconti che lo riguardano. Arrivati al termine di questo editoriale, augurandovi buona lettura, colgo l'occasione per invitarvi a partecipare al nostro Convegno di Psicologia - Animali Nella Psiche che si terrà a Chieti il 6 Ottobre 2013 presso il Palazzo De Mayo. Sarà un evento ricco di cultura e di psicologia e potrete trovare il programma sia all'interno delle pagine della nostra rivista, sia visitando il nostro sito sulla pagina Eventi.
Michele Mezzanotte, Valentina Marroni
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Originale: Claude Lorrain, La Partenza di Sant'Orsola 1641 - Versione abbandonata: Bence Hajdu
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Michele Mezzanotte
A
bbandonarsi all'abbandono è l'obiettivo di questo lavoro: creare un temenos per entrare nella sinfonia e nella melodia psichica dell'immagine dell'abbandono. Il termine abbandono può essere declinato sotto varie accezioni, sia in positivo, sia in negativo. Può essere letto da vari punti di vista: come soggetti abbandonanti e come soggetti abbandonati. Abbandonandoci all'abbandono ci troveremo ad intuire l'uso della tecnica in psicologia. Viaggeremo attraverso diverse immagini d'abbandono per approdare nel porto della tecnica psicologica. La nostra "mitologia quotidiana" è costellata da momenti d'abbandono: città abbandonate, "sedotta e abbandonata", bambini abbandonati, animali abbandonati, abbandonati a sè stessi. L'abbandono è un'azione a cui partecipiamo sia attivamente, che passivamente. Abbandoniamo e siamo abbandonati. L'etimologia del termine ci suggerisce che l'abbandono è una messa al bando, ovvero una vendita all'asta, un lasciare qualcosa in balìa di qualcos'altro. L'abbandono è un fare spazio, un lasciare, con in aggiunta una valenza di sofferenza. In amore gli abbandonati piangono, le città abbandonate sono in rovina, i bambini abbandonati soffrono e muoiono, gli animali sui cigli della strada cercano sopravvivenza, e quando siamo abbandonati a noi stessi, siamo in cerca di significati per vivere. In questo scritto partiremo descrivendo piccoli particolari d'abbandono osservando dove ci condurranno attraverso le loro immagini ed emozioni. L'abbandono d'amore è sicuramente il più discusso e il più vissuto a livello individuale e collettivo. Quando si abbandona andiamo subito a cercare un colpevole: c'è un soggetto che compie l'azione, e un soggetto che subisce l'azione. In questo caso però entrambi i soggetti sono oggetti, ovvero: sia chi abbandona sia chi è abbandonato in realtà vengono abbandonati. Per intuire ciò basta fare un piccolo spostamento del punto di vista da cui generalmente guardiamo gli accadimenti, cioè il nostro. Proveremo ad entrare nel discorso dal punto di vista di Amore, la divinità Eros, ovvero una delle forze primordiali che spinge l'uomo ad orientarsi nel mondo. Come possiamo capire ed essere empatici nei riguardi di un punto di vista, nei riguardi di
un'idea? Può un'idea avere un punto di vista? Ho preso in prestito diversi linguaggi poetici. I primi versi sono presi da una canzone appartenente ad un gruppo tedesco che si chiama Rammstein. La canzone si intitola Amour e riporto alcuni versi qui di seguito: L’amore è un animale selvaggio /Ti respira ti cerca /Nidifica sui cuori spezzati Amore Amore / Tutti vogliono solo addomesticarti / Amore Amore alla fine / impigliati tra i tuoi denti L’amore è un animale selvaggio / Morde e graffia e salta verso di me / Mi tiene stretto con mille braccia / Mi trascina nel suo nido d’amore / Mi divora completamente / e mi vomita fuori dopo tanti anni2 Attraverso questa musica carica di romanticismo possiamo appropriarci di immagini d'abbandono e possiamo incarnarci come soggetti nell'idea di Amore. Eros-Amore-Cupido è sempre stato presente nelle rappresentazioni immaginali umane. Vive ed è presente in mezzo a noi. Ciò che colpisce maggiormente iniziando l'ascolto della canzone è l'impatto della voce profonda del cantante che ci conduce nel mondo infero e ci permette di entrare nel mondo delle immagini attraverso le note e le sonorità della canzone per andare a trovare Amore. L'amore è un animale selvaggio, ti respira e ti cerca: in questa prima frase permea la voluntas di Amore, del dio o dell'idea che si impossessa di due persone. E parliamo proprio di possessione, una ricerca animale, istintuale e necessitante. L'Amore va a caccia e ci perfora con una delle sue freccie, così come accade nelle rappresentazioni classiche. Anche in questa immagine mitologica di Eros si evince che sia l'Amore stesso ad andare a caccia. L'amore è un'entità divina che in maniera istintuale e necessitante si muove per agguantare le sue prede e tenerle strette con mille braccia. "Prima ci trascina verso un nido d'amore e in seguito ci vomita fuori.": a questo punto entra in gioco l'abbandono. L'amore ci cerca, ci caccia, ci ama e infine ci abbandona. Muore. Come si dice in termini cinematografici: sedotti e abbandonati. Siamo nelle sue mille braccia, nelle mille costellazioni possibili dell'amare, ma ad un certo punto decide lui quando andare via, quando si è nutrito abbastanza della nostra umanità ed è il
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...e Portarono Via Qualcosa
momento di andare via. Decide lui quando abbandonarci ed andare a caccia di altre emozioni. L'amore ci dona amore, e noi doniamo a lui umanità, doniamo uomo alla divinità, e se consideriamo l'etimologia della parola umano, doniamo alla divinità creatività e vita: la generiamo come lei genera noi. Anche Charles Dupuis, un professore francese, parla di "amanti abbandonati dall'amore". L'animale selvaggio ci abbandona e alla fine fa male. L'abbandono porta con se una serie di vissuti dolorosi e laceranti, che svuotano. L'Amore prima ci riempie di senso e quando va via ci sentiamo svuotati. L'abbandono ci lascia un vuoto. Victor Hugo ci suggeriva che l'abbandono è come un campo da battaglia in cui sono presenti eroi oscuri3. Mi vengono in mente le immagini di un campo da battaglia e gli attimi che vengono dopo la battaglia. Vedo un luogo abbandonato, un luogo ricco di sofferenza, un luogo di morte, un luogo vuoto, ricco di ricordi e di emozioni ormai perdute. A questo proposito, mentre mi trovo qui steso sul letto a scrivere con la testa poggiata su una mano in uno stato d'abbandono perfetto, mi torna in mente un sogno: "Mi trovo in un campo da battaglia che ha già vissuto il suo tempo. Mi trovo a Canne, dove Annibale e i Romani si affrontarono. Cerco il bottino di guerra a terra. Cerco e raccolgo degli anelli di alcuni prìncipi romani caduti in battaglia. Ricevo una telefonata a cui non rispondo. Il tutto è permeato da lacrime ed emozioni." Questo è un sogno che non dimenticherò mai. Un momento unico, un momento solenne e di potenza nel quale non vi è nulla che può disturbarmi, tutto scivola via senza valore, con in mano solo il valore unico del sogno. In particolare c'è un telefono con le sue voci distanti che tentano di disturbarmi, ma non ci riescono perchè sono in uno stato di sospensione epico. In questo luogo d'abbandono sono distante da elementi di disturbo della vita moderna, e vado a ritroso nel tempo per raccogliere i frutti di una vittoria inaspettata. Torno indietro verso le mie radici. "Vennero gli dei e portarono via qualcosa". È un verso di una poesia di Fernando Pessoa. Nel nostro caso specifico venne l'Amore e porto via
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qualcosa, ci abbandonò lasciando il vuoto-pieno di un campo da battaglia gravido di sofferenze umane. Vennero gli dei e portarono via qualcosa: Amore portò via Amore, Odio porto via Odio, Sofferenza portò via Sofferenza, Gioia portò via Gioia. È come se ogni emozione avesse una vita propria, ogni immagine avesse delle proprie emozioni e una propria voluntas. Seguendo le tracce mitologiche di abbandoni, riusciamo a leggere i vari abbandoni di Teseo e Arianna, di Enea e Didone, di Giasone e Medea, sotto un'altra prospettiva: quella di Amore che toglie energie da una coppia e va altrove, verso altri lidi abbandonando gli amanti. In questa prima mitologia quotidiana abbiamo visto come la dinamica dell'abbandono proviene da fuori di noi, "Amore è misero se il suo amore è assente" ci suggeriva James Joyce4. Amore è un animale selvaggio che ci caccia, ci preda e poi ci butta via. Nel 2009 a Venezia si è tenuta la 53esima biennale dal titolo Fare Mondi, Making Worlds, Bantin Duniyan, Weltenmachen, Costruire des mondes, Fazer Mundos. In questa biennale era presente un artista di origini scozzesi, Martin Boyce, che ha presentato una mostra personale chiamata Decline and Abandon, Decadimento e Abbandono. La visione artistica dell'abbandono può darci un senso più che mai collettivo e psichico dell'immagine che trattiamo. L'artista ha cercato di presentare al mondo il tema dell'abbandono attraverso la rappresentazione di luoghi e oggetti abbandonati. Osservando oggetti e luoghi abbandonati, ci pervade un senso d'abbandono che ci rapisce e ci porta altrove. All'interno di città animate ci sono sempre luoghi abbandonati, come se fosse necessario nel caos urbano avere questi posti che ci ricordano di come ogni cosa che ha un inizio, un tramonto e un abbandono. Oggetti che prima usavamo con assiduità: sedie, tavoli, posate e computer, vengono da noi abbandonati perchè non servono più, o meglio, non ci servono più. Non servono le nostre richieste, i nostri bisogni e i nostri egoismi. Così l'anima delle cose vola verso altri lidi e ciò che rimane è solo la forza del ricordo di ciò che una volta è stato. Siamo stati noi ad abbandonare? Perchè abbiamo abbandonato luoghi e oggetti? Proveremo a rispondere con una piccola poesia di
Michele Mezzanotte
Fernando Pessoa Ho pena delle stelle / che brillano da tanto tempo, / da tanto tempo... / Ho pena delle stelle. Non ci sarà una stanchezza / delle cose, / di tutte le cose, / come delle gambe o di un braccio? Una stanchezza di esistere, / di essere, / solo di essere, / l'essere triste lume o un sorriso... Non ci sarà dunque, / per le cose che sono, / non la morte, bensì / un'altra specie di fine, / o una grande ragione: / qualcosa così, come un perdono?5 È facile parlare di umana stanchezza: ci stanchiamo di cose o persone, e le abbandoniamo. Ma un luogo si stancherà mai di essere un luogo? Le stelle si stancheranno prima o poi di essere stelle? Un oggetto si stancherà di essere utile? Fino a quando sono oggetti di uso comune o luoghi che reputiamo "sostituibili", o persone "sostituibili", sembra che l'abbandono ci scivoli via come se poco importasse, ma quando cominciano ad essere luoghi importanti o città terremotate, animali con anima o bambini indifesi, l'abbandono comincia a imporatrci e a donarci sofferenza. L'abbandono forse come dice Pessoa, vuole indicarci la stanchezza delle cose. Così vediamo che in un abbandono d'amore è Amore che, stanco, fugge via. Antiche città abbandonate ci paiono luoghi stanchi che hanno vissuto una forte presenza; le posate di uso comune sono stanche di servirci e prendono congedo abbandonandoci ed essendo abbandonate. E i bambini abbandonati? Dove risiede la stanchezza? Sono piccole vite già stanche di un mondo in decadenza? E a questo punto chiediamoci: potrà mai il mare stancarsi? Potrà mai il sole stancarsi? Potranno mai le piante stancarsi? Quando parliamo di stanchezza, parliamo di risiedere in uno stagno, un ristagnare, un fermarsi in un luogo. Quindi intorno all'immagine di abbandono troviamo l'immagine di ristagnamento. Per quanto riguarda l'abbandono a sè stessi mi viene in mente quando ci abbandoniamo, ci lasciamo vincere da una qualche sorta di stanchezza, e non abbiamo più la forza di combattere e di dimenarci inutilmente di fronte alla nostra impotenza. Questi abbandoni sono necessari alla nostra psiche e ci fanno percepire umani e
limitati. Abbiamo bisogno dentro di noi di un luogo abbandonato, vuoto e stagnatico dove poterci ritirare a riflettere, che possa creare spazio nei vasti luoghi dell'anima. Così all'interno di noi stessi vi è la sensazione e l'emozione necessitante di abbandonare, di essere abbandonati e di abbandonarsi. Negli antichi racconti ci sono vari esempi di bambini abbandonati: Efesto, Asclepio, Eracle, Edipo, e molti altri ancora. I luoghi come il Lesche e il Taigeto, sono stati luoghi d'abbandono in passato. Gli infanti sono abbandonati da sempre nella psiche collettiva e nella vita diurna. Anche in questo risiede una stanchezza delle cose? Quando siamo stanchi di qualcosa o di noi stessi, vorremmo solo sparire dal mondo, abbandonarlo e lasciargli un vuoto. È come se la parte puer dentro la psiche fosse stanca di essere puer e volesse andare via abbandonandoci. Così come nei luoghi abbandonati vediamo la stanchezza, anche nei bambini abbandonati potremmo vedere una stanchezza, una crudele stanchezza del mondo. In Cina hanno ripreso a limitare le nascite, e credo che presto accadrà in tutto il mondo. Possiamo considerarlo un sintomo di stanchezza? L'abbandono d'infanti ci apre su un'altra declinazione dell'Abbandono. I bambini passano da un luogo ad un altro. Partono dal ventre materno per andare in un cassonetto, in una televisione, in una ruota degli esposti, o in contenitori metaforici come il passato. Il gesto d'abbandono di una madre ed un padre nei confronti di un bambino è il trasferimento da un contenitore all'altro. Il passaggio da un luogo ad un altro trasferisce il bambino nella stanchezza ovvero in un luogo stagnatico, un luogo de-presso. Infante ha il significato etimologico di infans, infari che non ha l'uso della parola, o meglio, lo sa fare ma è di difficile comprensione per coloro che vivono intorno a lui. E sappiamo bene che ciò che ci è ignoto lo cancelliamo, lo teniamo lontano, lo gettiamo via e lo abbandoniamo. Quando siamo abbandonati siamo messi al bando, siamo lasciati, quindi siamo allentati, sciolti e liberi di andare. Siamo migranti da un luogo ad un altro, infatti percepiamo nei luoghi e negli oggetti abbandonati l'Anima che migra verso altri lidi, verso luoghi stagnatici. Ma la libertà come da
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...e Portarono Via Qualcosa
copione umano è qualcosa di desiderato e al contempo temuto e non a caso il termine stesso deriva dal latino libertus, schiavo. Abbiamo parlato in principio di abbandono d'amore in cui entrambi gli amanti erano abbandonati da Amore e lasciati in un luogo di depressione; abbiamo parlato di come luoghi ed oggetti possano essere stanchi di usarci ed essere usati; così si abbandonano, ci abbandonano e vengono abbandonati, liberando un'Anima che migra verso altri luoghi, così come migra un infante abbandonato da un luogo all'altro. Immagini d'abbandono si sono intrecciate tra di loro creando un articolato campo di battaglia dove si possono soltanto raccogliere anelli di prìncipi romani e versare lacrime di dolore. L'abbandono ci lascia stagnatici in luoghi dimenticati e stanchi. Negli studi alchemici l'opus parte da un senso d'abbandono, di stanchezza e depressione, parte da luoghi putridi, deformi e anneriti. Giunti a questo punto come si relaziona la "tecnica" psicoanalitica al pandemonio di queste immagini fin'ora raccontate? Dopo aver vagato meditabondi attraverso diverse immagini dell'abbandono, è giunto il momento di chiedere aiuto a Martin Heidegger e il suo saggio del 1959 intitolato Die Gelassenheit6. Martin Heidegger nella sua opera parla di un abbandono, o letteralmente di un lasciar essere le cose così come sono. La sua riflessione parte da un studio riguardo la tecnica - technè, che per Heidegger era la scienza moderna e il suo metodo. Il filosofo ci descrive due tipi di pensiero: un pensiero calcolante e un pensiero meditante. Da quest'ultimo siamo in fuga. La tecnica si stanzia in quello che è il pensiero calcolante, che è l'unico tipo di pensiero che ci rimane. Oggi il pensiero calcolante è più incisivo del pensiero meditante, quindi siamo in balia della tecnica. Heidegger suggerisce un equilibrio tra pensiero calcolante (tecnica) e pensiero meditante, così da non rimanere schiacciati dalla tecnica. Dobbiamo imparare a dire si alla tecnica e al contempo dire no, perchè questa tecnica dipende sempre da qualcosa che è oltre. Per il filosofo, il pensiero meditante e l'apertura al mistero possono far fronte al dilagare del pensiero calcolante e alla tecnica. Essere abbandonati di fronte alle cose. Forse è per questo motivo che non ci sono grandi psicoanalisti
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che parlano di tecnica, e sono sempre riluttanti nel farlo. L'errore a cui si può incorrere scrivendo e discorrendo di tecnica è dovuto ad un abuso di un pensiero calcolante che ci condurrebbe ad una unilateralità delle cose, ma come sappiamo la Psiche non è unilaterale. In qualche modo la tecnica, quindi, ci fa perdere la relazione meditativa con Psiche, un rapporto che è compito dello psicoanalista curare con le parole (direbbe Freud) o con le storie (direbbe Hillman). Ogni analista è la sua tecnica perchè è così che deve essere. Noi siamo studiosi meditabondi aperti ai misteri di Psiche, la fanciulla alata. Temo la psicologia calcolante che esclude il pensiero meditabondo descritto da Heidegger. Temo una psicologia senza Anima. Secondo Martin Heidegger, per arrivare all'abbandono delle cose e all'apertura al mistero, dobbiamo attingere ad un pensiero appassionato ed incessante. Dobbiamo in qualche modo accogliere e nel contempo nutrire. Probabilmente anche Jung aveva intuito ciò, come dimostra l'iscrizione su Philemone e Bauci. Dobbaimo procedere in quello che Corbin ha chiamato ta'will, un andare alle origini. L'abbandono alle cose ci permette di radicarci in un modo nuovo al nostro terreno. Una sorta di rinascita partendo dalle origini. "Se teniamo desto in noi l'abbandono di fronte alla cose e l'apertura al mistero, portremo raggiungere quella via che conduce ad un nuovo fondamento, ad un nuovo terreno".7 Abbandonandoci cadiamo a ritroso verso luoghi di partenza dell'opus alchemico. Ci troviamo stanchi in luoghi de-pressi, neri e caotici. Abbiamo parlato di abbandono sotto vari punti di vista, un abbandono quotidiano, un abbandono tecnico, filosofico e psicologico. Diverse immagini sono passate al nostro fianco e ci hanno attraversato, diversi racconti di vario tipo ci hanno coinvolto. Abbiamo cominciato a percorrere diverse strade abbandonate senza portarne nessuna ad apparente conclusione. Racconti e sogni d'abbandoni, di bambini abbandonati, di amori abbandonati, di tecniche abbandonate e pensieri abbandonati si sono susseguiti in queste righe. In principio di questo articolo non ho nascosto che il fine era proprio creare un temenos d'abbandono
Michele Mezzanotte
dove poterci abbandonare, e con lo scorrere dellei varie immagini siamo riusciti ad essere abbandonati alle Cose e alla Psiche. Meditabondi, siamo arrivati alla conclusione di questo scritto cercando una conclusione, ma per rispettare l'Abbandono non posso fare altro che chiedervi di mantenere un atteggiamento meditabondo; devo chiedervi di lasciarvi attraversare dalle immagini e pensare con il cuore. Ad ognuno le sue conclusioni, qualora ce ne fossero.
Michele Mezzanotte: Psicologo - Psicoterapeuta, e giornalista. Presidente dell'associazione culturale e di volontariato psicologico "L'Anima Fa Arte". Direttore Scientifico della rivista psicologica "L'Anima Fa Arte". Autore di diverse pubblicazioni psicologiche. Lavora nel suo studio privato a Chieti.
Note e Bibliografia: 1. Fernando Pessoa, Antinous, 1918 2. Rammstein, Amour, Reise Reise, 2004 3. Victor Hugo, I Miserabili, Mondadori, 2004 4. James Joyce, Musica Da Camera, Giuliano Ladolfi Editore, 2011 5. Fernando Pessoa, Ho pena delle stelle. 6. Martin Heidegger, L'abbandono, Il nuovo Melangolo, 2004 7. Martin Heidegger, L'abbandono, Il nuovo Melangolo, 2004
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Franz Von Stuck, Il Bacio Della Sfinge, 1895
articolo nasce osservando Il bacio della Questo Sfinge: un dipinto realizzato nel 1875 da Franz Von Stuck, un pittore simbolista-espressionista tedesco. Analizzando quel dipinto mi è stato possibile trovare dei collegamenti con: 1) il morso che Adamo incise nel frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male; quel morso, come imitazione del morso trasgressivo di Donna, scatenò l’ira di Dio; 2) con l’immagine e le sensazioni veicolate dall’alba e dal tramonto intesi come gemelli; 3) con lo sputare di Apollo nella bocca di Cassandra, e le conseguenze di quel gesto; 4) con il tremare passionale, una sensazione che può accompagnare il bacio che unisce due individui; 5) con un lapsus commesso da Sigmund Freud nei riguardi di una vecchissima signora. Osservando Il bacio della Sfinge mi sono chiesto: qual è il senso di un bacio? Da quale necessità viene messo in atto quel gesto? Prima di cercare risposte, ho due premesse da esporre. Premetto che: inizialmente la Sfinge veniva
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chiamata la “Strangolatrice”, poi le venne dato il nome di “Vergine Saggia”. Il termine “strangolare” deriva “dal latino strangulare, dal greco strangulòo, da strangàle (=laccio), desunto dal verbo stràngo (= io stringo), da un radicale strang (= tirare a se con forza)”1. Premetto che quello del dipinto può essere considerato il bacio che strangola; il bacio della “strangolatrice” è considerabile come un simbolo simile alla croce che portò Gesù alla morte; simile al gesto della “Donna” che portò Adamo a trasgredire al volere di Dio; alla balena che inghiottì pinocchio; simile al sole di Frobenius inghiottito ad Ovest; al leone verde che morde e divora il Sole (sole inteso come l’Io in fase di crescita); simile allo scambio simbolico tra sensazioni d’anima e spiritualità dell’animus che avviene tramite il contatto delle labbra di due innamorati; simile alla sbadataggine (o al lapsus) che permise a Freud di scoprire la teoria del complesso edipico. Ora cercherò di rispondere alle domande che mi sono posto.
Gianpio Colarossi Si dice che un bacio sia un apostrofo rosa tra le parole “ti amo”. Il termine “apostrofo” etimologicamente ha il significato di “deviare, volgere indietro”2. Bisogna osservare il cielo roseo del dipinto, per poter dire che un bacio (forse non solamente quel bacio) può anche essere considerato come un qualcosa di travolgente, di violento, di aggressivo; come fosse un’entità che tira a se con forza, e che porta indietro nell’archetipico Regno delle Madri. “’Che mi baci con il bacio della sua bocca", dice la sposa del Cantico dei Cantici”3. Il bacio è “simbolo dell’unione e del mutuo accordo, fin dall’antichità ha assunto un significato spirituale. Nello Zohar troviamo un’interpretazione mistica del bacio. La fonte del commentario di questo termine naturalmente è il Cantico dei Cantici. Ne esiste tuttavia una seconda, derivante dalla concezione rabbinica, secondo la quale certi giusti, come Mosè, furono sottratti all’agonia e alla morte e abbandonarono questa terra nel rapimento estatico del bacio di Dio. A proposito Georges Vajda cita un testo dello Zohar, concernente il bacio divino: <che mi baci coi baci della sua bocca!>. Perché il testo utilizza questa espressione? Di fatto, il bacio significa accordo dello spirito con lo spirito. È per questo che l’organo corporeo del bacio è la bocca, luogo di emissione e fonte del respiro. Come è pure con la bocca che si danno i baci d’amore, congiungendo (così) inseparabilmente soffio a soffio. È per questo che chi esala l’ultimo respiro si accorda col bacio ad un altro spirito dal quale non si separerà più: quest’unione si chiamerà bacio. Dicendo: ‘che mi baci coi baci della sua bocca!’ la comunità d’Israele chiede l’accordo inscindibile di spirito a spirito>. I commentatori del Cantico dei Cantici interpretano nello stesso modo il bacio. Per Guglielmo di Saint-Thierry il bacio è il segno dell’unità. Si può ritenere che lo Spirito Santo proceda dal bacio del Padre e del Figlio; l’Incarnazione è il bacio tra il Verbo e la natura umana; l’unione tra l’anima e Dio nella vita terrena prefigura il bacio perfetto che avverrà nell’eternità. Bernardo di Chiaravalle, nel suo commento del cantico dei Cantici parla a lungo dell’osculum, che risulta dall’unitas Spiritus. Ne è degna solo l’anima sposa. Lo Spirito Santo, dirà san Bernardo, è il bacio della bocca scambiato tra il Padre e il Figlio, bacio reciproco, da eguale a eguale e a loro solo riservato. Il bacio dello Spirito Santo all’uomo, che
riproduce il bacio della Trinità, non è e non può essere il bacio della bocca, ma un bacio che si ripete, si comunica a un altro: il bacio del bacio … . Secondo san Bernardo l’uomo in un certo senso si trova al centro del bacio e dell’abbraccio tra il Padre e il Figlio, bacio che è lo Spirito Santo. L’uomo attraverso il bacio è quindi unito a Dio e per questo deificato”4. Il bacio è strettamente collegato con la saliva. “<Secondo la concezione primitiva, la saliva è la sostanza che racchiude il Mana personale, la forza salutare e vitale>, afferma Jung. In questa ottica, si può assimilare la saliva allo sperma creatore che esce dal Fallo, cioè la forza creatrice del Principio Maschile”5. “La saliva si presenta come una secrezione dotata di un potere magico e soprannaturale a doppio effetto: essa unisce o dissolve, guarisce o corrode. La saliva in quanto mescolata all’atto della parola, trae da questa la sua virtù. Così per i barbara sputare è come dare la propria parola, fare un giuramento. Numerosi sono in Africa, in America e in Oriente, i miti che riconoscono alla saliva la virtù del liquido seminale, e pure numerosi sono gli eroi generati per effetto della saliva di un Dio o di un Eroe”6. Se la saliva simbolicamente equivale allo sperma che esce dal Fallo perché ambedue rimandano alla forza creatrice del Principio Maschile, allora possiamo pensare che: un bacio con scambio di saliva, può trovare paralleli mitologici con lo sputare del Dio Apollo nella bocca di Cassandra. Cassandra era “figlia di Priamo, re di Troia, e di Ecuba, era sorella gemella di Eleno ed è nota anche con il nome di Alessandra. Nella sua giovinezza essa fu oggetto delle attenzioni di Apollo, e quando crebbe la sua bellezza conquistò a tal punto il Dio, che egli le diede il dono della profezia, a condizione che essa fosse pronta ad accondiscendere a tutti i suoi desideri. Ma quando Cassandra ebbe pienamente acquisito le virtù profetiche, rifiutò di tener fede alla promessa e respinse l’amore del Dio”7. “Per questo, Apollo fece sì che non venisse mai creduta, benché le sue profezie si avverassero”8. “Allora Apollo le sputò in bocca, ritirandole non il dono della profezia, ma quello della persuasione”9. La saliva (simbolo del Principio Maschile, inteso come coscienza dell’Io, inteso come unico Dio) che ha il potere di eliminare la persuasione delle profezie derivate dal Principio Femminile (inteso come inconscio collettivo, e quindi come
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Il bacio della Sfinge
moltitudine di dèi), sembra possa trovare collegamenti con un particolare modo di battezzare un neonato: “… quanto alla chiesa, essa prevede che, quando non sia disponibile un sacerdote, una madre possa battezzare il proprio figlio, tracciandogli una croce sulla fronte con la propria saliva”10. Cassandra, intesa come vergine saggia, intesa come femminile che emette profezie può essere intesa come simbolo dell’inconscio collettivo. Secondo un ottica monoteistica, ascoltare la voce dell’inconscio collettivo, significa ascoltare e farsi guidare anche dalle parole del serpente simbolo del male (in base ad un ottica monoteistica) che fu la causa del peccato originale. Sappiamo che uno degli intenti di Gesù era quello di liberare l’uomo dal peccato originale. Tramite il rito battesimale l’uomo (il neonato) viene liberato dal peccato originale e viene convogliato ad abbracciare le fede in un Dio assoluto. Ciò significa che (stando al mito di Cassandra) tramite il rito battesimale si cerca di fare in modo che tutte le altre “voci”, di tutti gli altri dèi della mitologia, perdano di credibilità venendo considerate come “voci” da non ascoltare perché appartenenti ad un’unica bocca quella del male (Inteso come contrario del bene assoluto, personificato nel Dio assoluto) personificata dall’immagine del diavolo. Il peccato originale avvenne perché Adamo si lasciò persuadere dalla “voce” proveniente dalla “Donna” a trasgredire il volere di Dio. Dobbiamo premettere che il nome “Donna” viene attribuito ad una creatura generata da una costola di Adamo; quindi il nome Donna (donna intesa come mascolina perché dal maschile fu tratta) può essere inteso come simbolo della parte femminile, come l’anima, di Adamo. Il gesto di Adamo sembra avere la stessa valenza simbolica del lapsus di Freud nei confronti di una vecchissima signora. Anche Freud violò una regola ferrea dettata dalla logica dell’Io; la violazione di quella regola (e cioè l’ascoltare la “voce” dell’anima che spinse Freud a trasgredire il volere dell’Io) permise a Freud di intendere il carattere universale del complesso edipico. Prima di trattare questo discorso vorrei tornare al bacio della Sfinge. “Considerando nella sua dimensione sessuale, il bacio eccita le zone erogene e sembra derivare dall’atto della nutrizione, nel senso che si vorrebbe assorbire, assimilare l’essere caro per meglio possederlo: ‘divorare di baci’. Il che fa dire a Jung
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che il bacio proviene più dall’atto della nutrizione che dalla sessualità. Si vorrebbe mangiare l’amato”11. Se, come afferma Jung, il bacio proviene dall’atto della nutrizione lo si può associare al primo morso trasgressivo messo in atto dalla prima Donna, morso che poi venne imitato da Adamo (venne imitato perché Adamo fu incitato dalla sua Donna a farlo) e divenne così simbolo del peccato originale. Esiste una certa analogia tra: Il bacio della Sfinge, il morso di Adamo ed il lapsus di Freud; le due simbologie ed il lapsus stanno ad indicare le azioni di un Io la cui logica viene offuscata da forti sensazioni provenienti da un femminile inconscio. L’uomo, presumibilmente Edipo, raffigurato nel dipinto sembra essere travolto da quel bacio della Sfinge (Sfinge intesa come l’aspetto teriomorfo, archetipico, del femminile di Edipo; Sfinge intesa come una personificazione dell’inconscio collettivo). Da quel bacio travolgente che Edipo riceve possiamo supporre che il cielo roseo all’orizzonte (del dipinto) sia la raffigurazione di un tramonto. Tramonto inteso come momentanea morte dell’Io o, detto in altri termini, come una unione dell’Io con la Grande Madre. Il bacio della sfinge trova paralleli archetipici nel mito del corso del Sole di Frobenius, egli afferma: “Orbene, se interpretiamo il sanguigno sorger del Sole come una nascita, la nascita del sole giovane, viene subito fatto di chiedersi chi ne sia il padre, di chi questa donna sia rimasta incinta. Ora siccome questa donna e il pesce sono simbolo della medesima cosa, cioè del mare (partendo dal presupposto che il sole, come affonda nel mare, così torna a riemergere) la risposta singolare dei primitivi è che questo mare ha inghiottito in precedenza il vecchio sole. Di qui il mito che se il ‘mare’, cioè la donna, ha inghiottito il sole e ne mette al mondo uno nuovo è essa evidentemente ad essere rimasta incinta”12. “Tutti questi dèi che percorrono il mare sono figure solari. Essi sono rinchiusi in una cassetta o in un’arca … per la ‘traversata marittima notturna’. … Durante la traversata notturna il dio solare è rinchiuso nell’utero materno e spesso è minacciato da ogni sorta di pericoli”13. “Ed ecco come Frobenius illustra lo schema precipitato: Un eroe viene inghiottito a Ovest da un mostro marino (ingoiamento). L’animale va con lui verso est (traversata marittima). Nel frattempo l’eroe
Gianpio Colarossi accende un fuoco nel ventre del mostro (accensione del fuoco) e, avendo fame, gli taglia un pezzo di cuore (amputazione del cuore). Poco dopo egli s’avvede che il pesce scivola sull’asciutto (approdo) e comincia immediatamente a squarciare l’animale dell’interno (apertura): quindi ne sguscia fuori (evasione). Nel ventre del pesce fa così caldo che gli cadono i capelli (calore, capelli). Nel contempo l’eroe libera tutti coloro che erano stati inghiottiti in precedenza e che ora possono sgusciare fuori”14. Da quanto affermato possiamo pensare che Il bacio della Sfinge abbia la stessa valenza simbolica espressa dall’immagine del tramonto. Possiamo chiederci: la sensazione veicolata da un bacio è la stessa sensazione veicolata da un tramonto? Quali parole possiamo utilizzare per esprimere verbalmente quella sensazione? Tramite l’Urlo dipinto da Munch possiamo meglio intendere la sensazione veicolata dall’essenza di un tramonto; Munch scrive: ”camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”. L’emozione provata da Munch fu quella del tremare di terrore, e del sentire una stanchezza forse simile a quella della morte, nel vedere quel tramonto e nel sentirne l’Urlo in sottofondo. L’Edipo, del dipinto, sembra quasi aver perso conoscenza dalla sensazione veicolata da quel bacio. Dalle due frasi precedenti possiamo pensare che sia possibile rintracciare un legame simbolico che unisce il tremare di paura provato da Munch con la sensazione veicolata da un bacio. Dove possiamo rintracciare quel legame? Forse possiamo rintracciarlo nell’umano tremare passionale. A volte il tremare sensuale accompagna due partner quando si scambiano un bacio coinvolgente come quello del dipinto; senza sapere perché avviene che il nostro corpo comincia a tremare. Che significato possiamo attribuire a quel tramare passionale? Sicuramente è una comunicazione d’anima; forse può significare che baciando si attiva nella psiche un’ ancestrale paura, che fa tremare i sensi umani; forse è dovuto ad una
perdita di orientamento, ad una perdita di equilibrio della logica dell’Io. Scambiarsi un bacio, così come osservare un tramonto, sono gesti considerati superflui per la logica dell’Io; per questo motivo passiamo pensare che non sono gesti dettati dall’Io, ma forse sono dettati da una necessità dell’anima. La sensazione veicolata da un bacio è simile a quella sensazione che riceviamo guardando un tramonto. È osservando un tramonto che possiamo capire l’ambiguità del bacio. Osservando l’ambiguo scenario di un tramonto, può avvenire che l’Io può perdere l’orientamento, può confondersi, e così (tramite quella confusione, o meglio, tramite quello stupore provato dall’Io) può avvenire l’amplificazione di quella sensazione (simile a quella del bacio) che fa tremare il corpo. È osservando il tramonto (simbolo di un Io che sta morendo, simbolo della morte di Gesù inchiodato nella sua croce) che possiamo trovare un senso a quel tremare passionale veicolato dal bacio tra due amanti; quel tremare richiama nell’anima un antico dolore, simile a quella passione provata dal Gesù morente (o come quella dell’Edipo travolto da un bacio); quel tremare di passione forse è una compassione tramite la quale possiamo sentire quell’infinito Urlo di dolore provato da un Io morente; forse inconsciamente proviamo quella arcaica Pietà scolpita da Michelangelo nel voto della Vergine Maria; forse proviamo, in una travestita sopportabile forma adatta per l’essere uomo, ciò che Gesù ha patito sulla croce per noi. Un cielo roseo all’orizzonte può essere considerato anche come il momento in cui sta avvenendo una trasformazione, un passaggio, dal Giorno alla Notte o dalla Notte al Giorno; questa trasformazione, voluta dalla Necessità, più essere intesa come una fusione metaforizzata in un “bacio cosmico” tra il Giorno e la Notte. Munch descrive quella sensazione (cioè quella trasformazione voluta dal potere della Necessità) come sangue e lingue di fuoco che invadevano la città e come un infinito Urlo che pervadeva la natura. Negli Inni Orfici. una parte dell’inno intitolato Profumo di Notte recita così: Notte … “tu che invii sotterra la luce e a tua volta fuggi nell’Ade; perché la terribile Necessità domina tutto”15. “La personificazione della Necessità, chiamata Ananche dai Greci, era concepita come una potente dea alla quale non potevano sfuggire né gli uomini né gli dèi. In alcune rappresentazioni di
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Il bacio della Sfinge età romana compare con chiodi bronzei nelle mani, che le servivano per fissare i decreti del Fato”16 Vorrei spiegare perché, secondo me, il bacio è considerabile un gesto ambiguo e perché lo considero come simile ad un tramonto che può disorientare la logica dell’Io. L’alba e il tramonto sono scenari molto simili, quasi identici; senza punti di riferimento l’Io può fraintendere un alba da un tramonto, una simbolica nascita da una simbolica morte. Pur avendo un punto di riferimento logico (per esempio un orologio, oppure una bussola che indica dove è l’ovest) osservando un cielo roseo all’orizzonte percepiamo un senso di estraneità, una sensazione di meraviglia, dovuta al modo dell’anima di recepire la comunicazione simbolica veicolata da quello scenario; può accadere che l’Io, senza rendersene conto, può scivolare in un fraintendimento simile a quello che può avviene quando, per esempio, avendo di fronte due ragazze gemelle (che conosciamo) non riusciamo ad attribuire loro i rispettivi nomi. L’alba ed il tramonto, essendo scenari identici, possono essere considerati come naturali raffigurazioni simboliche del Tao dei cinesi; “il senso esatto della parola cinese è: cammino, via. Tutti i concetti della filosofia cinese si possono ricondurre alla contrapposizione tra lo yin e lo yang. Esso non è affatto la somma, poiché lo yin e lo yang si sostituiscono a vicenda l’uno all’altro o sussistono simultaneamente, ma in un rapporto di opposizione. Si potrebbe considerare il Tao, ma una definizione è sempre riduttiva, come il regolatore della loro alternanza. Si spiegherebbe così la regola essenziale che si trova alla base di ogni mutazione, reale o simbolica; ciò permetterebbe di considerarlo come un principio d’ordine, che governerebbe indistintamente l’attività mentale e il cosmo. Con qualche forzatura si potrebbe paragonarlo alla nozione stoica del Logos, la ragione immanente nell’universo, nel suo insieme, in ogni essere, nel suo destino particolare”17. Il bacio tra Edipo e la Sfinge può essere considerato come simbolo di quella perdita di equilibrio dell’Io (metaforizzata nello svenimento di Edipo) di fronte ad un enigmatico cielo roseo all’orizzonte. Possiamo intendere quel bacio come fosse l’attimo in cui viene veicolata una risposta ad uno degli enigmi della Sfinge.
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Un enigma era il seguente: “<Esistono due sorelle, delle quali l’una genera l’altra, e delle quali la seconda, a sua volta, è generata dalla prima>”18; la risposta all’enigma è “<Il Giorno e la Notte> (il nome del giorno è femminile in greco; è dunque la sorella della notte)”19. Il “bacio cosmico” e un bacio tra due esseri umani (per esempio tra Adamo ed Eva) veicola un medesimo concetto di fondo cioè: è simbolo di un punto di unione in cui si mescolano insieme le proiezioni d’animus che la psiche della donna proietta sull’uomo e le proiezioni d’anima che la psiche dell’uomo proietta sulla donna; l’essenza del bacio (sulla bocca) come simbolo di un’androginia psichica può essere paragonata ad una entità (simile al Tao cinese) formata da una mescolanza di proiezioni d’anima e d’animus. Quel cielo roseo, simbolicamente, pone in evidenzia un confine, una “linea estrema che divide apparentemente il cielo dalla terra”20. L’astronomia con il termine orizzonte si riferisce a quel “circolo massimo che divide il mondo in due parti o emisferi, inferiore e superiore”21. Forse quel cielo roseo all’orizzonte possiamo immaginarlo come fosse il segno e il simbolo di una antica cicatrice (conservata nella psiche) dovuta ad un taglio netto, una divisione in due parti di una entità chiamata androgino; quella separazione fu voluta da Dio in seguito al peccato originale commesso dalla parte maschile nell’imitare un gesto della parte femminile. Un cielo roseo può essere considerato uno scenario tramite il quale l’Io può perdere l’equilibrio “scivolando” in un lapsus freudiano. Che cos’è un lapsus? Possiamo pensare che il lapsus sia il risultato di una mescolanza ottenuta da una intromissione di una “voce femminile” nel momento in cui sta avvenendo una comunicazione, verbale o non verbale, proveniente dalla coscienza maschile. Con un po’ di fantasia possiamo dire che il lapsus è paragonabile alle conseguenze generate dalla persuasione della “Donna” nei confronti di Adamo. Nella Bibbia, quando si parla della Creazione della Donna, leggiamo: “Poi il Signore Dio disse: <Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui corrispondente>. Allora il signore Dio modello dal terreno tutte le fiere della steppa e tutti i volatili del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli
Gianpio Colarossi esseri viventi, quello doveva essere il loro nome. E così l’uomo impose dei nomi a tutto il bestiame, a tutti i volatili del cielo e a tutte le fiere della steppa; ma, per Adamo, non vi fu trovato un aiuto a lui corrispondente. Allora il Signore Dio fece cadere un sonno profondo sull’uomo, che si addormentò, poi gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio costruì la costola, che aveva tolto all’uomo, formandone una donna. Poi la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: <Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perché dall’uomo fu tratta>. Per questo l’uomo abbandona suo padre e sua madre e si attacca alla sua donna e i due diventano una sola carne”22. Un lapsus può essere considerato un entità androgina, come lo è il nome “Donna”. Un lapsus che viene espresso dall’uomo (uomo inteso come coscienza maschile, come luce solare, cioè come l’Io del maschio e della femmina) possiede una “voce” femminile (voce del femminile inconscio individuale e collettivo). Un lapsus è come il bacio umano (simbolo delle proiezioni del maschile sul femminile e del femminile sul maschile, mescolati insieme) simbolo di un bacio cosmico, metaforizzato in un cielo roseo all’orizzonte, formato dalla mescolanza di animus e anima. Fu l’attivazione di lapsus che permise a Freud di poter creare (sullo sfondo del mito di Edipo) la teoria del complesso edipico. Freud afferma: “Gli effetti prodotti dalle sbadataggini delle persone normali sono di soliti innocui. Proprio per questo sarà di particolare interesse chiarire se ricadano sotto i nostri punti di vista, per un verso o per l’altro, gli sbagli di notevole portata, che possono essere gravidi di conseguenze, come per esempio quelli del medico o del farmacista. Siccome ben di rado mi capita di dover procedere a interventi medici, dispongo soltanto di un unico esempio di sbaglio commesso da me in qualità di medico. Da anni visito due volte al giorno una vecchissima signora, e nella visita mattutina la mia attività di medico si limita a due cose: le verso nell’occhio alcune gocce di collirio e le faccio un’iniezione di morfina. Le due boccette, una azzurra per il collirio e una bianca per la soluzione di morfina, sono sempre preparate. Durante le due operazioni i miei pensieri in genere divagano; si sono ripetute già così spesso che l’attenzione si comporta come se fosse libera. Un mattino mi accorsi che
l’automatismo aveva funzionato male; il contagocce aveva pescato nella boccetta bianca anziché in quella azzurra e aveva lasciato cadere nell’occhio non collirio ma morfina. Ebbi uno spavento, ma poi mi calmai riflettendo che poche gocce di una soluzione di morfina al due per cento non potevano fare alcun male neppure al sacco congiuntivale. Le sensazioni di spavento evidentemente avevano un’altra origine. Nel tentativo di analizzare questo piccolo sbaglio, mi venne anzitutto in mente la frase ‘commettere una sbadataggine (vergreifen) sulla vecchia’, cioè ‘violentarla’ (in tedesco il verbo vergreifen ha i due significati), che segnò la scorciatoia per giungere alla soluzione. Mi trovavo sotto l’impressione di un sogno raccontatomi la sera prima da un giovanotto, il cui contenuto poteva interpretarsi soltanto nel senso di un rapporto sessuale con la madre. Lo strano fatto che la leggenda non trova alcun ostacolo nell’età avanzata della regina Giocasta, mi pareva concordare bene con la conclusione che nell’innamoramento per la propria madre non si tratta mai della sua persona presente, ma della sua immagine mnestica giovanile quale deriva dagli anni d’infanzia. Incongruenze del genere risultano sempre ove una fantasia oscillante tra due epoche venga resa cosciente e venga così legata a un tempo determinato. Assorto in pensieri di tal genere, giunsi presso la mia paziente quasi centenaria, e probabilmente stavo appunto per afferrare nel mio pensiero il carattere universalmente umano del mito di Edipo, connesso col fatto espresso negli oracoli, giacché commisi una sbadataggine, o violentai, ‘la vecchia’. Tuttavia il mio atto fu innocuo; tra i due sbagli possibili, di usale la soluzione di morfina per l’occhio o di prendere il collirio per fare l’iniezione, scelsi quello di gran lunga meno dannoso. Rimane tuttavia il problema se per gli atti mancati che possono provocare danni gravi sia lecito supporre un’intenzione inconscia come nei casi qui trattati”23. Di queste parole di Freud vorrei evidenziare la frase seguente: “nell’innamoramento per la propria madre non si tratta mai della sua persona presente, ma della sua immagine mnestica giovanile quale deriva dagli anni d’infanzia”24. Freud, parlando del lavoro onirico, afferma: “La preistoria cui il lavoro onirico ci riconduce è di due specie: in primo luogo la preistoria
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Il bacio della Sfinge dell’individuo, l’infanzia; in secondo luogo, in quanto ciascun individuo nella sua infanzia ripete in certo qual modo in forma abbreviata l’intero sviluppo della specie umana, anche quest’altra preistoria, quella filogenetica. Si riuscirà a distinguere quale parte dei processi psichici latenti provenga dalla preistoria individuale e quale da quella filogenetica? Non lo ritengo impossibile. Mi pare, ad esempio, che la relazione simbolica, mai insegnata al singolo, abbia requisiti per venir considerata un eredità filogenetica”25. Considerando: che l’infanzia può essere definita come preistoria individuale e come preistoria filogenetica della specie umana; considerando che nell’innamoramento per la propria madre non si tratta mai della sua persona presente, ma della sua immagine mnestica giovanile quale deriva dagli anni dell’infanzia; considerando che dopo l’espulsione di Adamo e Donna dall’Eden avvenne che: “L’uomo diede a sua moglie il nome di Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi”26; allora, forse, possiamo, affermare che nel complesso edipico ci si innamora di quella madre di tutti i viventi, simbolizzata nell’immagine di Eva. Una “voce” inconscia stimolò Sigmund Freud ad infrangere una regola (quella dell’automatismo nel ripetere la cura medica per la vecchissima signora); l’infrazione di quella regola ferrea permise a Freud di focalizzare la teoria del complesso edipico. Possiamo pensare che il morso peccaminoso di Adamo possa essere inteso come un primigenio lapsus? Forse si; sembra che l’attivazione dei lapsus commessi dall’uomo (inteso come maschio e femmina) siano una copia di quell’originale lapsus. Allora, ci si può chiedere: commettendo un lapsus, noi essere umani, cadiamo nel peccato? Dire “lapsus” e dire “Peccato Originale” significa riferirsi allo stesso concetto di fondo utilizzando due termini diversi, l’uno tratto dalla psicanalisi, l’altro tratto dalla Sacra Bibbia; il concetto di fondo, come vedremo in seguito, è rintracciabile nell’autonoma attivazione psichica di un punto di orientamento (paragonabile al valore simbolico e di orientamento che l’Io attribuisce al cardinale punto Nord) specifico per la sensibilità dell’anima. Adamo venne stimolato dalla sua parte femminile a mordere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Nella bibbia leggiamo: “Il Signore
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Dio diede questo comando all’uomo: <Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui te ne cibassi, dovrai certamente morire>”27. Tramite un ottica psicologica e tramite una visione monoteistica della psiche, possiamo pensare che l’ordine di Dio per Adamo possa essere considerato come l’ordine dettato da un'unica istanza psichica (personificabile, appunto, nel Dio cristiano, simbolo della logica della ragione perseguita dall’Io). Perseguire il volere di Dio eliminava ogni accenno di dubbio nei ragionamenti del prototipo umano (l’Adamo). La “Donna” di Adamo venne stimolata dal serpente (simbolo dell’inconscio collettivo) a dubitare del senso attribuito alla parole proferite dal Signore Dio. “Or il serpente era la più astuta di tutte le fiere della steppa che il Signore Dio aveva fatto, e disse alla Donna: <è vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di nessun albero del giardino’?>. La donna rispose al serpente: <Dei frutti dell’albero del giardino noi possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che sta nella parte interna del giardino Dio ha detto: ‘Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, per non morire’>. Ma il serpente disse alla donna : <Voi non morirete affatto! Anzi! Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male>. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, seducente par gli occhi e attraente per avere successo; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e ne fecero delle cinture”28. “Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio, allorché passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo fuggì con la moglie dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Allora il Signore Dio chiamò l’uomo e gli domandò: <Dove sei?>. Rispose: <Ho udito il rumore nel giardino, ed ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono nascosto>. Riprese: <Chi ti ha indicato che eri nudo? Hai dunque mangiato dell’albero del quale ti avevo comandato di non mangiare?>. Rispose l’uomo: <La donna che tu hai messo vicino a me, mi ha dato dell’albero e io ho mangiato>. Il Signore Dio disse alla donna:
Gianpio Colarossi <Come hai fatto questo?>. Rispose la donna: <Il serpente mi ha ingannata e ho mangiato>. Allora il Signore Dio disse al serpente: <Perché hai fatto questo, maledetto sii tu fra tutto il bestiame e tra tutte le fiere della steppa: sul tuo ventre dovrai camminare e polvere dovrai mangiare per tutti i giorni della tua vita. Ed io porrò un’ostilità tra te e la donna e tra il lignaggio tuo e il lignaggio di lei: esso ti schiaccerà la testa e tu lo assalirai al tallone>. Alla donna disse: <Farò numerose assai le tue sofferenze e le tue gravidanze, con doglie dovrai partorire figlioli. Verso il tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà dimorare su te>. E ad Adamo disse: <Perché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, circa i quale t’avevo comandato: ‘Non ne devi mangiare’: Maledetto sia il suolo per causa tua! Con affanno ne trarrai il nutrimento, per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, mentre tu dovrai mangiare le graminacee della campagna. Con il sudore delle tua fronte mangerai pane, finché tornerai al suolo, perché da esso sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere dovrai tornare!>. L’uomo diede a sua moglie il nome di Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi. E il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie delle tuniche di pelli e li vestì. Il Signore Dio disse allora: <Ecco che l’uomo è diventato come uno di noi, conoscendo il bene e il male! Ed ora ch’egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita, si che ne mangi e viva in eterno!>. E il Signore Dio lo mandò via dal giardino di Eden, per lavorare il suolo donde era stato tratto. Scacciò l’uomo, e davanti al giardino di Eden fece dimorare i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire l’accesso all’albero della vita”29. Anche l’uomo e la Sfinge raffigurati nel dipinto sono nudi e, un bacio li tiene uniti insieme. Osservare Il bacio della sfinge: è come vedere quell’essere androgino (l’Adamo) mentre commette il peccato originale, quindi è come osservare la Donna che stimola Adamo a fidarsi delle parole del serpente (simbolo dell’inconscio); oppure è come osservare ciò che accade nella psiche nell’attimo in cui l’Io perde l’equilibrio, in un lapsus. Se la teoria del complesso edipico nasce da un lapsus e se il lapsus è inteso come androgino allora (avendo associato il lapsus al peccato originale) ci si può chiedere se il lapsus sia il modo di
comunicare tipico (inteso come una femminile voce maschile) di quella creatura che viveva nel giardino dell’Eden, inteso come quel regno paradisiaco in cui l’Io e l’inconscio erano una sola cosa. Un altro enigma pronunciato dalla Sfinge diceva: “<Qual è quella cosa che ha una sola voce, e ha quattro e due e tre gambe?>”30. La risposta La risposta “è l’Uomo”; “Infatti da bambino ha quattro piedi, perché cammina a quattro zampe; da adulto due piedi; e da vecchio tre, perché si appoggia al bastone”31. I termini: Uomo, Humus, Adamo, Terra, sono sinonimi. Quindi possiamo pensare che la risposta all’enigma fu “Adamo”. Dalla bibbia sappiamo che “l’uomo abbandona suo padre e sua madre e si attacca alla sua donna e i due diventano una sola carne”32. È questa l’entità indistinta, formata da Adamo e Donna, che all’inizio, prima di commettere il peccato originale, cammina a quattro gambe (due gambe maschili e due femminili). Sappiamo che quella cosa indistinta può essere paragonata ad un cielo roseo (unione indistinta di maschio e femmina). Quella cosa indistinta è paragonabile all’androgino platonico: “Platone nel Simposio ha rievocato il mito dell’androgino: ‘Allora l’androgino era un genere distinto che, per la forma come per il nome, aveva dell’uno e dell’altro, del maschio e della femmina, mentre oggi è un nome carico di obbrobrio. In secondo luogo era una solo unità, la forma di ognuno di questi uomini, con dorso rotondo e fianchi circolari; avevano quattro mani e gambe in numero uguale; inoltre avevano due visi sopra un collo di perfetta rotondità, assolutamente simili, mentre la testa, attaccata ai due visi contrapposti, era unica; le orecchie erano quattro, le loro parti vergognose due; tutto il resto, infine, come ce lo possiamo immaginare in base a ciò. Camminavano in linea diretta come adesso, nel senso che essi volevano; oppure, quando volevano correre, somigliavano a quella sorta di capriola in cui, con un’evoluzione delle gambe che riporta alla posizione eretta, si fa la ruota nella capriola’. ‘Poiché a quei tempi avevano otto membra come punti d’appoggio facendo la ruota avanzavano con grande rapidità’. In alcuni midrashim, sullo stato androgino di Adamo, e nelle dottrine gnostiche cristiane l’androginia è presentata come lo stato iniziale che deve essere riconquistato. Secondo una tradizione, in origine
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Il bacio della Sfinge l’uomo e la donna possedevano un solo corpo dotato di due visi: Dio li separò dotandoli ciascuno di un dorso”33. Dopo aver commesso il peccato originale, l’uomo e la donna vennero espulsi dall’Eden; l’espulsione equivale alla separazione dell’androgino in due parti distinte chiamate Adamo ed Eva che ora cammineranno ognuno sulle proprie due gambe. Quell’entità che cammina a tre gambe trova spiegazioni tramite il Tao dei cinesi “Il tre è universalmente un numero fondamentale, esprime un ordine intellettuale e spirituale, in Dio, nel cosmo o nell’Uomo. Sintetizza la triplice unità dell’essere vivente o risulta dalla congiunzione di 1 e 2, prodotto dell’unione del Cielo con la Terra. ‘Il Tao produce uno; uno produce due; due produce tre’. Ma più sovente il numero 3, primo dispari, è il numero del Cielo e 2 è il numero della Terra, poiché 1 è anteriore alla polarizzazione. 3, dicono i cinesi, è un numero perfetto, espressione della totalità, del compimento: non può esservi aggiunto nulla. È il compimento della manifestazione: l’uomo, figlio del Cielo e della Terra, completa la Grande Triade”34. L’immagine del cielo roseo visibile all’orizzonte può essere inteso anche come l’unica femminile voce maschile di quell’entità androgina (l’uomo), simile a Dio (inteso come simbolo del Sé), che metaforizza un’unione del Cielo (inteso anche come Adamo, inteso come complesso dell’Io) con la Terra (intesa come Eva, intesa come Grande Madre di tutti i viventi), quell’unione che i cinesi esprimono con la simbologia del numero 3. Chi era la Sfinge? La Sfinge veniva chiamata “<la strangolatrice>, risiedeva sul monte Ficio, presso Tebe, da dove fece la sua comparsa nei destini della città, fino a che non venne debellata da Edipo. … Prima di approdare nel mito classico e in particolare nel ciclo tebano … la Sfinge ha alle sua spalle una lunga storia: originaria dell’Egitto, dove costituisce un’immagine del Faraone (e quella di Giza rappresenta la Sfinge per antonomasia), si diffonde in Fenicia, in Siria e nel mondo Miceneo. Nella Grecia arcaica è una sorte di terrificante mostro, che spesso rapisce i bambini; poi assume valore apotropaico, e ciò spiega la sua presenza nell’arte funeraria. È singolare il fatto che, alla fine della sua parabola nell’arte classica, essa venga chiamata dai poeti tragici <vergine saggia> e si trasformi in messaggera della giustizia degli dèi. … Mentre la
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Sfinge egiziana è una leonessa senza ali, rappresentata di solito sdraiata e con la parte superiore del corpo in forma umana, la Sfinge greca è una leonessa con il corpo alato, ma con il petto e il capo di una figura femminile”35. Ovidio nella Metamorfosi afferma: “Il figlio di Laio aveva risolto l’enigma che prima nessuno aveva capito, e l’ambigua profetessa, gettatasi nel vuoto, giacque dimentica delle sue oscure domande. Ma è chiaro che la grande Temi non lascia mai impunite neppure queste cose. Subito un altro flagello si abbatte sull’aonia Tebe: una bestia (la volpe di Teumesso) a causa della quale molta gente di campagna temette per la vita delle greggi e sua propria”36. Sigmund Freud, dopo aver esposto il suo lapsus commesso sulla vecchissima signora, e dopo aver menzionato che il motivo di quella sbadataggine (dovuta alle riflessioni sorte in lui in seguito ad un “sogno edipico” raccontatogli la sera prima da un suo paziente), espone (rimandando il lettore alla sua opera L’interpretazione del sogni) un altro sogno edipico di una giovane donna. Freud racconta: “Un giorno trovo una mia paziente accorata e con gli occhi rossi di pianto. ‘Non voglio più vedere i miei parenti – dice – devono avere orrore di me’. Poi, quasi senza transizione, dice di ricordare un sogno, di cui naturalmente non conosce il significato. Lo ha fatto quando aveva quattro anni ed è il seguente: Una lince o una volpe passeggia sul tetto, poi qualche cosa cade e poi portano via da casa sua madre morta, mentre lei piange addolorata. Subito dopo averle chiarito come questo sogno significhi il desiderio nutrito nella sua infanzia di vedere la madre morta e come si debba attribuire a esso la sua opinione che i parenti debbano avere orrore di lei, la paziente mi fornisce il materiale per spiegare il sogno stesso. ‘Occhio di lince’ è l’insulto lanciatole da un ragazzaccio quand’era molto piccola; quando aveva tre anni una tegola cadde dal tetto sulla testa di sua madre, facendola sanguinare copiosamente”37. Ovidio afferma che la sacra Temi sostituì la Sfinge con una volpe. “Il ruolo della volpe nei racconti, nelle superstizioni e nelle leggende cinesi, non è paragonabile a quello di altri animali, poiché essa è la sola che si può trasformare in uomo e che può pensare e riflettere come lui, e inoltre ha il potere di predire il prossimo futuro. I cinesi affermano
Gianpio Colarossi che la volpe è il solo animale che saluta il levar del sole: essa piega le zampe posteriori, allunga e congiunge le zampe anteriori e si prostra”38. Questa postura assunta dalla volpe è simile a quella della sfinge egiziana. La sfinge sono: “Grandiose costruzioni di pietra, in Egitto a forma di leone accasciato dalla testa umana e dallo sguardo enigmatico. La più nota si trova nel prolungamento della piramide di Chefren, presso il Tempio della Valle nei dintorni della mastaba e delle piramidi di Gizeh, che gettano ombra sull’immensità del deserto. <La Sfinge veglia sempre su queste necropoli giganti; la sua faccia dipinta di rosso contempla il solo punto dell’orizzonte in cui si leva il sole. È il guardiano delle soglie proibite e delle mummie regali; ascolta il canto dei pianeti; veglia al confine dell’eternità, su tutto ciò che fu e su tutto ciò che sarà; guarda scorrere il Nilo celeste e navigare le barche solari>. In realtà questi leoni divini avrebbero la testa dei faraoni e rappresenterebbero, secondo Jean Yojotte, una potenza sovrana, spietata con i ribelli, protettrice dei buoni. Avendo la barba è un re o un dio solare e possiede gli stessi attributi del leone, invincibile nel combattimento. Più che angoscia, come si supponeva in epoca romantica, i lineamenti e la posizione solitamente accasciata della sfinge esprimerebbero la serenità della certezza. Georges Buraud ha scritto: <Nessuna inquietudine, nessuno sforzo su quei lineamenti come su quelli delle maschere greche. Esse non fissano un enigma la cui grandezza fatale le sconvolge, ma giungono invece ad una verità assoluta la cui pienezza le appaga>”39. Sintetizzando possiamo affermare quanto segue: la Sfinge egiziana contempla il solo punto all’orizzonte in cui si leva il sole; essa non fissa un enigma la cui grandezza fatale la sconvolge, ma giunge invece ad una verità assoluta la cui pienezza la appaga. I suoi lineamenti e la sua postura accasciata esprimerebbero non angoscia, ma la serenità della certezza. È paragonabile ad una potenza sovrana, spietata (strangolatrice) con i ribelli e protettrice (vergine saggia) dei buoni. Possiamo quindi pensare che il cielo roseo all’orizzonte del dipinto sia la raffigurazione di quella verità assoluta, formata da sensazioni, collocata ad Est inteso come luogo psichico della rinascita di un linguaggio simbolico nato da una logica maschile inghiottita ad Ovest. L’immagine della Sfinge (come l’ago della bussola
può essere di riferimento per la logica dell’Io) può avere la valenza simbolica di un punto di riferimento per le sensazioni dell’anima che le permette di poter distinguere una nascita da una morte, o una appagante verità assoluta da una sconvolgente inquietudine. Il bacio della Sfinge potrebbe essere inteso come una modalità attraverso la quale avviene la mescolanza dei due punti di orientamento: quello delle sensazioni dell’anima (metaforizzato nell’alba ad Est, luogo della verità assoluta, e della serenità della certezza), enigmatiche per la logica dell’Io; e quello della logica dell’Io (metaforizzate a Nord, quindi a Mezzogiorno; quel punto in cui il sole è nel suo massimo splendore), logica enigmatica per le sensazioni d’anima. Detto questo possiamo pensare che il lapsus (metaforizzato dal bacio della Sfinge) può non metaforizzare un peccato, simile a quello originale (cioè una trasgressione al volere di Dio); può non rappresentare la morte dell’Io (il Gesù crocifisso come simbolo di un Io disorientato dal volere dell’anima); ma quel bacio può veicolare il simbolo di un Io guidato da mordenti sensazioni d’anima. Per concludere possiamo immaginare che le parole proferite dal serpente nel giardino dell’Eden, possano essere considerate le conseguenze di una risposta giusta (giusta intesa come fosse la gemella di una risposta sbagliata) all’enigma della sfinge. “<Voi non morirete affatto! Anzi! Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male>”40 disse il serpente. Diventare come Dio significa diventare quell’entità che cammina a 3 gambe; quell’unica carne maschile e femminile, creata ad immagine di Dio, ha una sola bocca e una mascolina voce femminilizzata con la quale non perderà più l’equilibrio scivolando nel peccato del lapsus perché le sensazioni dell’anima e logica dell’Io non si contrasteranno più a vicenda (come avveniva quando l’essere platonico aveva quattro gambe e due volti e due voci distinte che potevano contrastarsi a vicenda) ma daranno vita ad un equilibrato senso, una specie di sesto senso, che, come il Tao dei cinesi, comunicherà il cammino da seguire.
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Il bacio della Sfinge Bibliografia e Note 1. Rusconi, Dizionario etimologico, p. 444. 2. Ibidem, pag. 38 3. De la Rocheterie, Il corpo nei sogni, p. 31. 4. Chevalier, J. Gheerbrant, A. Dizionario dei simboli, vol. 1, pp. 125-126. 5. De laChevalier, J. Gheerbrant, A. Dizionario dei simboli, vol. 2, pp. 320-321. 6. Rocheterie, Il corpo nei sogni, p. 224. 7. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 1, p. 247. 8. Igino, Miti 93. 9. Grimal, P., Enciclopedia della mitologia, p. 109. 10. De la Rocheterie, Il corpo nei sogni, p. 225. 11. Ibidem, p. 31. 12. Jung, C., G., Simboli della trasformazione, p. 211. 13. Ibidem, p. 211. 14. Ibidem, p. 211. 15. Inni Orfici, 3, 10-11. 16. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 1, p. 144-145. 17. Chevalier, J. Gheerbrant, A. Dizionario dei simboli, vol. 2, pp. 444-445. 18. Grimal, P., Enciclopedia della mitologia, p. 183. 19. Ibidem, p. 183. 20. Rusconi, Dizionario etimologico, p. 329. 21. Ibidem, p.329. 22. Genesi, 2, 18-24. 23. Freud, S., Opere 4, Psicopatologia della vita quotidiana, pp. 209-210. 24. Ididem, 210. 25. Freud, S., Introduzione alla psicoanalisi, p. 180. 26. Genesi, 3, 20. 27. Genesi, 2, 16. 28. Genesi, 3, 1-7. 29. Genesi, 3, 8-24. 30. Apollodoro, Biblioteca III, 6, 1. 31. Ibidem III, 6, 1. 32. Genesi, 2, 24. 33. Chevalier, J. Gheerbrant, A. Dizionario dei simboli, vol. 1, p. 53. 34. Chevalier, J. Gheerbrant, A. Dizionario dei simboli, v. 1, p. 486. 35. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 2, pp. 388-389. 36. Ovidio, Metamorfosi VII, 760-766. 37. Freud, S., Interpretazione dei sogni, p. 245. 38. Chevalier, J. Gheerbrant, A. Dizionario dei simboli, v. 2, p. 565.
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39. Ibidem, v.2, p. 382. 40. Genesi, 3, 4-6. Apollodoro, Biblioteca, 1998, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011. La Bibbia, Edizioni San Paolo, Milano, 1997. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001. De La Rocheterie, J., Il corpo nei sogni, Tascabili Bompiani, 2001. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006. Freud, S., Introduzione alla psicoanalisi, 19151917, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. Freud, S., L’interpretazione dei sogni, 1899, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Freud, S., 1903, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, v.4, Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, 1970, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. Grimal, P., Enciclopedia della mitologia, 1979, Paideia Editrice, Brescia, 2009. Igino, Miti, 2000, Adelphi, Milano, 2005. Jung, C., G., Simboli della trasformazione, 1952, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, 1979, Einaudi, Torino, 1994. Ricciardelli, G., Inni Orfici, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 2006. Rusconi, Dizionario Etimologico, Legoprint-Lavis (TN), 2006.
Gianpio Colarossi: psicologo, psicoterapeuta in formazione al quarto anno del Corso quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Psicoterapia Atanor dell’Aquila. Nel maggio 2007 è nominato Cultore della materia MPSI01 Psicologia Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi dell’Aquila. Nel dicembre 2007 è nominato Cultore della materia Elementi di Psicoterapia di Gruppo MPSI07 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila. Tra le sue pubblicazioni figurano Anima e sangue (Pescara, Samizdat, 2005), e numerosi articoli su diverse riviste di psicologia.
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CLAUDIO WIDMANN, ANALISTA JUNGHIANO, È DOCENTE DI TEORIA DEL SIMBOLISMO E DI TECNICHE DELL’IMMAGINARIO IN VARIE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICOTERAPIA. VIVE E LAVORA A RAVENNA. IMPEGNATO CONFERENZIERE, DIRETTORE DELLA COLLANA «IL BESTIARIO PSICOLOGICO» DELLE EDIZIONI MAGI, È AUTORE E CURATORE DI SAGGI CHE RILEGGONO ASPETTI ORDINARI E STRAORDINARI DELLA REALTÀ ALLA LUCE DELLA PSICOLOGIA JUNGHIANA.
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n questo articolo abbiamo l’intenzione di parlare degli animali nei sogni caratterizzandoli come oggetti “transizionali” tra uno stato di energia psichica indifferenziata e uno di differenziazione della medesima energia. Tale trasformazione avviene passando in un “intermondo”, così lo denominava lo stesso Winnicott, che risulta connessione tra le pure essenze, l’energia per l’appunto, e la concretezza del sensibile. Tale intermondo, chiamato in diversi modi a seconda degli orientamenti teorici, mostra un’analogia con il Mundus immaginalis raccontato da Corbin e dalla religione mazdea e risulta costituito sostanzialmente di immagini. In tal senso, non solo gli animali nel sogno, ma tutte le immagini del sogno vanno a costituire simboli atti a trasformare l’energia. Più semplicemente, sappiamo che la psiche è carica di libido-energia e che la scarica dell’energia nel mondo animale è diretta una volta che la pulsione diventa cogente. L’uomo ha sviluppato un processo che si fonda sulla costituzione di un mondo intermedio in cui l’energia, piuttosto che essere scaricata secondo il principio di cogenza, viene gradualmente trasformata per essere scaricata in una forma socialmente accettabile ovvero a livello immaginale. Chiuderemo l’articolo con alcune considerazioni sul simbolo del Rinoceronte che connotiamo come simbolo di avvenuta individuazione; per far ciò ci rifaremo anche a l’uso che ne fa Federico Fellini nel suo film “E la Nave va” del 1983. Gli animali vanno a costituire le immagini che meglio realizzano il processo di trasformazione dell’energia per una serie di motivi tra i quali: 1) la loro aderenza specifica al costrutto di oggetto transizionale di Winnicott, più di quanto non si possa dire per altri tipi di immagini; 2) la loro capacità di presentarsi come pattern of behaviour liberi dai meccanismi di desiderabilità sociale; 3) il loro costituire una istantanea di uno specifico
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stadio evolutivo delle pulsioni a livello filogenetico. Winnicott parlava di oggetto transizionale riferendosi a quegli oggetti impiegati dal bambino per sostenere l’assenza della madre. La funzione di contenimento delle angosce di separazione è da intendersi, però, seconda a quella di essere un tramite tra la realtà interna del bambino e la realtà esterna. L’oggetto transizionale è precursore del simbolo, o meglio è la prima prova di un’attività simbolica ossia di una capacità di trasformare le energie psichiche. Tipicamente gli oggetti transizionali si presentano come orsacchiotti e peluches in genere, contemporaneamente mostrano anche un pattern of behaviour edulcorato (sia detto per inciso che, per chi scrive, esiste una sostanziale identità tra pattern of behaviour, emozioni e archetipi). Sognare un orso, al pari di avere un orsacchiotto, significa collocarsi in un intermondo che connette la dimensione interna a quella esterna riducendo le angosce legate al sentire queste due dimensioni separate. Inoltre consente di rinviare l’azione al momento in cui l’energia sia stata trasformata e canalizzata, ossia al momento in cui l’azione può assumere una forma socialmente desiderabile. Una volta avvenuta la trasformazione dell’energia, verrà promosso un comportamento derivato direttamente da quello specifico animale. Tutte le immagini nella psiche hanno la funzione di trasformare l’energia e costituiscono quindi quell’intermondo in cui far avvenire tale operazione, ma gli animali consentono di sfrondare le azioni dalle attese sociali, oltre che mostrare modi di azione limpidi. E’ molto probabile che sogniamo animali quando siamo in attesa di agire nel mondo reale mentre sogniamo persone dopo aver agito in questo mondo. Questo ci porta al secondo motivo per cui gli animali si prestano bene ad essere simboli per la trasformazione dell’energia. Gli animali rappresentano non tanto le istintualità, cosi li
Luca Urbano Blasetti
avrebbe caratterizzati Jung, quanto il fatto che tale istintualità presenta il carattere della desiderabilità sociale. Farò un esempio citando alcuni contributi artistici, in accordo con quanto Freud andava affermando nella nota intervista con Giovanni Papini nel 1934, al quale disse che la vera vocazione della psicologia e della psicoanalisi è quella artistica e che l’arte coglie, più di quanto faccia la scienza, lo scopo della psicoanalisi. Evitando quindi l’ampollosa dialettica psicologica proviamo a raccontare come nel film “Vita di Pi” di Ang lee, uscito lo scorso 2012, un ragazzo parte in nave con la famiglia e tutti gli animali dello zoo di famiglia per trasferirsi in Canada dall’India. Questa neo Arca indo-cristiana naufraga e il ragazzo si ritrova con una zebra, una iena, un orango e una tigre sulla scialuppa di salvataggio. Magistrale la regia e la fotografia nel mostrare l’orchestrazione degli eventi. La iena inizia a mangiare viva la zebra mentre l’orango e il ragazzo cercano di fermarla ma, una volta uccisa la zebra la iena si avventa sull’orango che perirà nonostante il tentativo di opporsi. A quel punto, la tigre, dormiente fino ad allora, si scaglia sulla iena divorandola e costringendo il ragazzo a stare a mollo fuori dalla scialuppa. Si sviluppa una relazione tra la tigre e il ragazzo che alla fine giungono a terra e si separano. La bellezza del lungometraggio risiede nel fatto che l’osservatore si aspetta questa precisa sequenza di eventi, resta stordito e impaurito nell’osservare compiersi ciò che è scritto nella condotta di ogni singolo animale. Nessun colpo di scena, tutto orchestrato secondo necessità e ciò che risulta crudo ha anche il sapore freddo di un piatto non condito, ci consente, cioè, di fare esperienza del vero sapore dei “cibi”. La sequenza ci da un saggio di come la natura sia lineare nella sua crudeltà e ci riconcilia con la nostra crudezza, ormai negata da secoli di coscientizzazione. Solo a fine Film il ragazzo racconterà che sulla scialuppa c’erano lui, sua madre (l’orango), il cuoco (la Iena) e un marinaio cinese (la zebra), racconterà che il cuoco aggredì il marinaio ferito per mangiarlo e non morire, che la madre cercò di fermarlo e che il cuoco uccise anche lei buttandola in acqua, infine che lui (la tigre) a quel punto uccise il cuoco. Il resto del film è il tentativo di integrare la tigre (la crudezza) nella propria psiche.
Fig. 1: dal film “Vita di Pi”, Ang Lee (2012)
Le immagini degli animali consentono, quindi, di confrontarsi con la legittimità di un comportamento altrimenti inaccettabile e di farlo secondo principio di necessità e di cogenza. Tale passaggio è obbligatorio per procedere alla trasformazione dell’energia da uno stato di indifferenziazione a uno differenziato ma accettato socialmente. Gli animali che ci arrivano in sogno hanno la stessa funzione che mostrano nel film di Ang Lee ma secondo un processo che muove in direzione opposta. Mentre il protagonista del film produce immagini di animali per rendere accettabile agiti socialmente indesiderabili, noi qui affermiamo che gli animali vengono a trovarci prima che gli eventi e gli agiti si compiano per donarcene un esperienza ontologica libera dal pregiudizio, che ci consenta di promuovere agiti socialmente desiderabili. Quanto affermiamo risulta valido sia nella dimensione extrapsichica che in quella intrapsichica, ossia sia nel caso in cui l’animale ci suggerisca l’azione ontologica verso oggetti o persone che fanno parte della nostra vita, sia verso parti psichiche interne. Va sottolineato infatti che il gentle folk, ossia la piccola popolazione di complessi, segue le stesse leggi di desiderabilità sociale presenti nel mondo extrapsichico. Gli animali nel sogno risultano, quindi, il modo con cui proteggiamo il mondo dai nostri agiti ontologici, promuovendo un processo di sublimazione, nell’accezione freudiana del termine, di quel medesimo agito. La terza questione a cui facevamo cenno è quella relativa al fatto che gli animali nel sogno vanno a costituire un istantanea dello sviluppo filogenetico della psiche dell’individuo. Parafrasando Neumann vogliamo qui affermare che: lo sviluppo
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Il rinoceronte filogenetico, ossia del singolo individuo, riassume quello ontogenetico delle specie. Neumann affermava che l’ontogenesi ossia il percorso evolutivo seguito da una certa specie, era ripercorso nell’evoluzione della psiche del singolo individuo. Noi riteniamo, invece, che il singolo individuo non ripercorra tanto le tappe della sua specie, quanto quelle di tutte le specie. In termini più semplici ogni individuo presenterà pattern of behaviour più semplici e primitivi e tipici degli organismi unicellulari, fino a presentare comportamenti più tipici dei grandi mammiferi sociali. Ogni Animale costituisce la prova di un certo livello di sviluppo neuropsicologico e di adattamento, ogni animale costituisce un esempio di pattern of behaviour tipico di quella specifica fase evolutiva, ogni animale rinvia ad uno specifico periodo evolutivo e a tutte le specie presenti in quel periodo. Il nostro DNA contiene in potenza tutte le possibili combinazioni che danno vita a ogni singola specie. Questo significa che nella psiche vi è la memoria della condotta specifica di ogni animale. Quando arrivano in sogno, gli animali ci portano quella memoria riconettendoci con aspetti di noi che millenni di desiderabilità sociale hanno messo in ombra. Quindi un animale nel sogno oltre che un tramite tra realtà esterna e interna, oltre che un pattern of behaviour, ci parla della fase evolutiva in cui ci troviamo e di come si caratterizza il sistema di relazioni primarie, secondarie, tra pari e sociali. Prendiamo ad esempio un altro artista, un pittore naif del secolo scorso, Antonio Ligabue. Psicotico artista emiliano la cui vita si caratterizza per la sostanziale esclusione sociale. Ligabue ha avuto una copiosa produzione di dipinti il cui tema erano gli animali. Gli animali di Ligabue sono spesso quelli domestici presenti nelle campagne del parmense, molto più spesso sono grandi felini asiatici e africani. A questi ultimi ci riferiremo. Tigri, leoni e leopardi mai in branco ma sempre solitari. Anche il leone che ha una struttura sociale più allargata da un punto di vista etologico, si presenta nei dipinti più come esemplare maschio non leader alla ricerca di un branco. Gli animali sono praticamente sempre in una posizione di difesa preludio d’attacco. Si ritraggono, come se qualcuno stesse per superare la distanza minima. Esistono diverse tassonomie di distanze di base nel mondo animale con le rispettive condotte, trattasi di quella che Hall chiama prossemica. Ora,
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osservando i dipinti di Ligabue, noi siamo di fronte alla caratterizzazione di una condotta di confine, di un limine che è quello in cui un individuo si trova tra due spazi sociali, quello di attacco e quello di fuga. Tutti gli animali di Ligabue ringhiano di paura, ad un primo sguardo sembrano voler aggredire ma a guardarli bene sembrano dire “non mi aggredire”. Trattasi di dipinti e non di sogni ma ricordiamo che ogni produzione artistica è un sogno in diretta e che quindi costituisce una produzione della reveriè e non del raziocinio. Quindi, sognare o dipingere, animali siffatti ci informa in merito alla fase evolutiva e al sistema sociale che interessa il sognatore-pittore. Nel caso di Ligabue non siamo certo di fronte a organismi unicellulari ma di fronte a comportamenti tipici dei grandi mammiferi sociali, questo suggerisce che vi siano in gioco i bisogni sociali secondari, come riuscita e ambizione, piuttosto che quelli primari di sopravvivenza come il nutrirsi. Il pattern of behaviour è l’immobilità generata da due vettori che si annullano che sono appunto la difesa e l’attacco; il sistema di relazioni sociali si tipicizza nella direzione della socialità anche se con i toni dell’esclusione sociale e dell’autoesclusione.
Fig. 2: Antonio Ligabue, “Vedova nera” (1951, Dettaglio)
La funzione degli animali non si esaurisce, però, solo nella loro costituire un intermondo tra realtà interna e esterna, non si esaurisce nell’indicare un comportamento ne nell’indicare una fase evolutiva e il modo in cui si caratterizza il sistema sociale attivo in quel momento. Questo modo di leggerli onora Kauffmann e l’approccio orientazionale alle immagini nei sogni, ma tralascia la dimensione simbolica e ontologica. Questa può essere indagata nelle narrazioni sugli animali, prodotte nei secoli dall’uomo. Questo rientra più squisitamente nell’approccio Junghiano e ancor più in quello hillmaniano. Hillmann ha scritto un saggio dal titolo “Animali del sogno” che si presenta come una raccolta estemporanea di sogni su animali, ne analizza la valenza simbolica
Luca Urbano Blasetti
ma poi propone un operazione che risulta molto efficace nella comprensione di cosa vogliono comunicarci gli animali nei sogni. Non sappiamo se Hillman avesse letto l’opera di Stanislawskij, “Il lavoro dell’attore su se stesso”, sappiamo che propone la medesima pratica e quindi, non tanto di ascoltare il messaggio degli animali, quanto di diventare quell’animale, farlo parlare per voce nostra, non ascoltare il maiale ma ruzzolarci nel fango con vorace fetore, essere noi stessi il maiale. Su questa falsa riga non possiamo non giungere a una conclusione, scontata e affascinante, ossia che i più completi manuali di psicologia siano i manuali di biologia e di etologia. Del resto è questo quello che Hillman già affermava in Revisione della Psicologia dicendo che “non esistono libri di Psicologia ma letture psicologiche dei libri”. Così i libri di musica di fisica di biologia ecc. sono tutte proiezioni di Anima. Entrare nella “parte” dell’animale, parlare noi per voce sua, ci da risposte analitiche incredibili, ci fa incontrare gattini ferocissimi e draghi amorevoli, ma è poi la dimensione simbolica che ci suggerisce l’aspetto archetipico sottostante. Questa dimensione la ritroviamo nei bestiari, nei dizionari dei simboli, nelle fiabe, nei riti collettivi così come dai manuali di biologia. Esplorando questi troviamo indicazioni sull’immaginario psichico che va affrontato, sull’archetipo con il quale ci stiamo confrontando. Per meglio comprendere quello che vogliamo dire proviamo a riferirci ad uno specifico animale. Su ogni animale si è scritto molto, quindi non resta che muoverci su un piano autobiografico nella scelta. Personalmente alla fine della mia prima analisi mi è venuto a trovare in più di un occasione un rinoceronte ed è di lui che vi parlerò. Non ho potuto fare a meno di approfondirne la natura simbolica, come scultore che per sottrazione fa emergere la statua dal blocco di marmo, ho scoperto che la scultura finita non aveva molto a che fare con il progetto iniziale. Se volessimo fare un analisi etologica e orientazionale del rinoceronte, vedremmo che si tratta di un animale territoriale dalla vista poco acuta, che butta scompiglio in mezzo a coloro che vogliono invadere il suo spazio. Sembra essere un animale che non vuole essere in alcun modo addomesticabile, un mostro che non si piega alle necessità del collettivo. Più volte mi è venuto in sogno durante la chiusura della prima analisi che
ho svolto, e non nego di aver preso il mio taccuino, in perfetto stile hillmaniano, e scritto, come un Kafka postlitteram, la mia metamorfosi in rinoceronte. Ne è emerso un quadro ambivalente, in cui la territorialità del mio rinoceronte era più una richiesta di non essere invaso dai bisogni collettivi e transpersonali e di vedere, per contro, gli obiettivi personali prevalere. Dopo questo dialogo ho indagato la storia nei secoli del rinoceronte come simbolo. Se una certa cultura orientale, indiana, cinese o delle isola di Giava e Sumatra, attribuisce all’animale, o meglio al suo corno, un potere nell’aumentare la virilità e la possanza fisica, più verso occidente rileviamo una certa latitanza del nostro miope mammifero. I bestiari medievali non lo citano, o meglio lo assimilano indebitamente all’unicorno o monoceronte. Quest‘ultimo ha caratteristiche più vicine a quelle attribuite a oriente al rinoceronte, come la capacità del corno di difendere dai demoni e di purificare dal veleno qualunque cosa tocchi, ma lontane dall’occidente di cui siamo figli. In quanto al suo aspetto i bestiari ne danno descrizioni assai discordanti che poco hanno a che fare con il nostro Rinoceronte, se non fosse per alcuni che gli attribuivano piedi d’elefante. L’unicorno nei bestiari ha però anche caratteristiche simili al rinoceronte, quindi risulta feroce, orgoglioso e brutale, attratto dalla verginità e refrattario alla cattività. I bestiari assimilano talvolta l’Unicorno alla figura del Cristo. Comunque, anche se l’unicorno fosse una versione immaginale e decorata del rinoceronte, di cui i viaggiatori riportavano la descrizione orale, interessa qui sottolineare che il rinoceronte in se per se sembra essere negato dalla storia in favore di una sua versione spiritualizzata. In sostanza è assente, è senza rappresentazione corrispettiva, è psicoide, direbbe Jung. La parola psicoide risulta piuttosto ostica da decifrare, la sua più semplice definizione parla di un oggetto che non ha una rappresentazione nella psiche. Jung affermava che gli archetipi fossero psicoidi in quanto noumeni o pure essenze. Hillman in “Anima” definisce psicoide ciò che non è attinente alla psiche. Ora, rinviando a quanto abbiamo avuto modo di argomentare negli articoli pubblicati nei precedenti numeri della presente rivista, vogliamo qui ribadire che non riteniamo gli archetipi psicoidi ma l’Io. Questo principio regolatore che la psicologia ha posto sulla croce
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Il rinoceronte facendone il suo Cristo, l’Io, appunto, rinnegato dalla psicologia Hillmaniana, esiste in determinati stadi evolutivi della psiche e poi , in fasi avanzate tutto diventa Io o non Io. Ma quel principio regolatore, ha una rappresentazione individuale? Ossia è vero che il Cristo ne costituisce una rappresentazione collettiva, archetipica direi, ma quale immagine o rappresentazione ha l’Io di ognuno nella psiche. Partendo da qui ci sembra di poter dire che l’Io sia psicoide e non gli archetipi. L’Io non è attinente alla psiche ma è ciò che cerca di regimentarla, in quanto tale non ha un’immagine che lo rappresenta. Ci sembra di poter affermare che l’attività analitica abbia come primo scopo dare un’immagine all’Io per detronizzarlo e promuovere l’individuazione, ma non dell’Io ma del piccolo popolo dei complessi. In tal senso Il Rinoceronte è, nell’opinione di chi scrive, l’immagine transizionale che suggerisce che l’Io sta per trovare una sua immagine corrispondente. Il Rinoceronte è il simbolo di un processo di individuazione ormai avviato. Tale processo non si può dire concluso se non depsicoidizzando l’Io, farlo passare attraverso il rinoceronte. Se volessimo trovare corrispondenza del rinoceronte in insiemi simbolici paralleli lo troveremo nelle tavole 12-13 del Rosarium Philosophorum un possibile corrispettivo. In queste tavole, come ci dice Vitale, vi è la morte del sole, ossia l’accettazione della morte come trasformazione e il passaggio da un atteggiamento sostanzialmente estroverso, nell’accezione junghiana del termine, a uno introverso non più votato alla salvaguardia dell’Io. Tali tavole danno inizio al secondo ciclo del Rosarium Philosophorum che si chiude con la tavole del Cristo che è la n. 20. Il rinoceronte rimanda anche quest’ultima tavola. Seguendo, invece, il percorso evolutivo disegnato dai tarocchi, e così ben narrato da Widmann, troviamo una corrispondenza con l’arcano dell’appeso, il numero 12, in quanto anche in questo caso trattasi di chiusura di un primo ciclo, quello dell’alba, e apertura di un secondo ciclo dell’occaso. Tale percorso segna un passaggio dall’estroversione all’introversione, dall’adattamento all’ambiente alla differenziazione. Come nel Rosarium Philosophorum quello che viene preannunciato alla fine di un primo ciclo si ripresenta nella tavola finale. Ecco quindi che il rinoceronte risulta assimilabile anche all’Arcano del Matto che chiude
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i 22 arcani. Il rinoceronte è miope come il Matto che risulta spesso rappresentato con gli occhi bendati, cieco e avventato, anticonformista, originale e misterioso. Escluso e spesso assente come lo zero che è il numero dell’arcano del Folle, il Rinoceronte si affaccia alla psiche e indicare l’Io non è più psicoide ma ha un’immagine transizionale che lo traghetterà fino alla fine del processo di individuazione, ossia fino a trovare quell’immagine ancora assente negli archetipi ma che ne arricchirà il numero rendendosi disponibile a livello transpersonale. Se leggiamo racconti sul rinoceronte troviamo che gli africani lo considerano pazzo mentre i bianchi lo ritengono stupido. Pauroso e temerario, curioso e distratto, cauto e dissennato, carica galline o carcasse di elefanti, ci sembra proprio l’io che tenta goffamente di regimentare la giungla della psiche. A conferma dell’esclusione del Rinoceronte e del suo carattere individuativo ricordiamo, inoltre, che era animale sconosciuto fino a tempi piuttosto recenti e una delle prime immagini del pachiderma (pelle spessa) ce la riporta Dϋrer.
Fig. 3: Albrecht Dϋrer, “Rinoceronte” (xilografia datata 1515)
Dϋrer stesso non lo aveva mai visto ma costruì l’immagine attraverso descrizioni e alcuni disegni. Si narra che ne dovesse arrivare uno a Lisbona per il Re Emanuele I nel 1513-15, che costui lo avrebbe inviato in regalo a Papa Leone X, ma che l’animale cadde in mare e annegò. L’immagine nell’incisione riporta anche le piaghe sviluppatesi durante il viaggio sul povero pachiderma. L’estraneità del rinoceronte è quindi dovuta al fatto che solo dal 1513 circa in poi i grandi navigatori permisero che fosse conosciuto, ma anche da un aspetto legato al fatto che alcuni racconti, in particolare sudanesi, narrano che il Rinoceronte non riusciva ad entrare nell’Arca di Noè e costui lo salvò lasciandolo aggrappare alla prua. Questo ridonda con la sua caratteristica di estraneità e non rappresentabilità. Escludere il
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rinoceronte dall’arca, considerando l’arca in tutta la sua ampiezza simbolica che va dall’insieme degli istinti (gli animali) al caos della prima materia alchemica, significa farne il rappresentante del non rappresentabile, ossia il rappresentante di ciò che è psicoide, l’Io. Quando il Rinoceronte giunge in sogno segna questo passaggio che prevede l’inclusione tra tutti gli istinti dell’Istinto specifico portato dall’Io. Segna l’ingresso del personale nel transpersonale. Segna l’inizio dell’individuazione che vedrà la psiche individuale apportare un contributo a quella collettiva degli archetipi. E qui arriviamo a Fellini. Costui fu tra i primi pazienti di Bernard, ossia di colui che portò lo junghismo in Italia. Non possiamo che ravvisare una lettura molto junghiana delle sue produzioni filmiche. In particolare in “E la nave va” Fellini racconta di un viaggio in nave fatto da un gruppo di cantanti lirici e di altri estimatori d’opera, per commemorare la morte della Callas. La nave trasporta nella stiva un rinoceronte che emana un fetore tremendo. Sembra proprio di vedere un allegoria dell’analisi. La nave nel mare, ossia l’incedere nel percorso analitico dell’individuo che esplora i “mari” dell’inconscio. Un Gentle Folk, ossia il piccolo popolo che anima il traghetto e che costituisce l’insieme dei complessi, direbbe jung, o degli immaginari lo correggerebbe Hillman. Tra questi personaggi della psiche del regista spiccano un simpatico narratore, una cantante piuttosto snob, un principe e una sensitiva impersonata magistralmente da Pina Bausch. Questi personaggi sembrano una sintesi del regista che comunque si narra attraverso tutti i personaggi. Il viaggio si svolge durante l’apertura del primo conflitto mondiale a causa dell’assassinio dell’erede al trono austroungarico. Morte, ossia trasformazione che avviene durante il viaggio analitico. Il film termina con l’affondamento della nave, l’immersione nell’inconscio per noi, ad opera della marina austroungarica. Si salva il simpatico narratore che si ritrova su di una scialuppa di salvataggio insieme all’enorme pachiderma che placidamente rumina. Il narratore sorride e chiude dicendo che il rinoceronte da un ottimo latte.
Fig 4: dal film “E la nave va” Federico Fellini (1983)
Ci piace pensare che attraverso questo film Fellini abbia sintetizzato la sua esperienza analitica. Ci piace pensare che questa si sia conclusa con un processo di individuazione avviato che trova nel rinoceronte l’elemento misterioso, mostruoso e non addomesticabile, la sua prova. Il mostruoso, però, è in grado di nutrire dando un ottimo latte, nutrimento di ciò che è personale e di ciò che è transpersonale. L’analisi si conclude con l’arrivo del rinoceronte che segna, invece, l’inizio del vero processo di individuazione che comprende anche il rendere rappresentabile l’Io ossia farlo entrare e contribuire al transpersonale. Anche nel film, come per il Rosarium Philosophorum e per i tarocchi, si intravede un primo ciclo e un secondo. Il rinoceronte compare per pochi attimi nella stiva a circa metà film e poi alla fine sulla scialuppa. Figlio di una cultura maschile ho visto in Fellini l’artista che è stato in grado di esplicitare il processo analitico. Ma poi ho dovuto cedere all’Anima. Pina Bausch qualche anno prima aveva realizzato una piece teatrale, Arien, che si svolgeva con un enorme ippopotamo sul palco. Fellini, non siamo i primi a dirlo, ha probabilmente preso ispirazione e potremmo dire che l’ippopotamo abbia le medesime caratteristiche del nostro rinoceronte e che costituisca il simbolo di individuazione del femminile. Pina Bausch ha ispirato Fellini ritengo e, se questo stride con il mio maschilismo, è però coerente con il bisogno di Hillman di fare di psiche la valle del fare Anima. Ciò è anche in accordo con il fatto che il rinoceronte di Fellini è un rinoceronte femmina. Il Rinoceronte è quindi il grande assente, il misterioso estraneo al mondo, l’istinto escluso dall’insieme degli istinti, colui che non ha un posto nell’arca ossia nella prima materia, l’immaginario
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Il rinoceronte ancora inesistente. Per questo ben si presta ad assumere il ruolo di immagine a prestito dell’Io. L’Io infatti non va solo inteso come principio regolatore ma come elemento unico e nuovo rispetto al mondo delle immagini. Una volta partorito, una volta che ha trovato un immagine corrispondete, quella stessa immagine va ad arricchire il mondo degli archetipi. Il rinoceronte arriverà in terapia in fase avanzata, impaurirà tutti gli altri personaggi nei sogni. Tutti manifesteranno una forte paura per quell’alieno che non fa parte del mundus immaginalis. In chiusura riportiamo la notizia ufficiale dello scorso luglio dell’estinzione del rinoceronte nero. Animalisti indignati e, per contro, altri che affermano che secondo la selezione naturale l’estinzione è un evento plausibile e accoglibile, come il prevalere di una specie sull’altra. Ritengo che la biodiversità sia un valore estetico irrinunciabile, ma ritengo ancor più che la biodiversità sia il presupposto della psicodiversità. Il rinoceronte non si deve estinguere in nome della bellezza e della biodiversità, da una parte, dall’altra se con lui proclamassimo l’estinzione del processo di individuazione, della possibilità di passare da una visione estroversa a una introversa, di portare ognuno un contributo personale al mondo degli archetipi, non staremmo in questo caso minacciando la biodiversità ma l’evoluzionabilità, anche quella immaginale.
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Luca Urbano Blasetti: Psicologo e Psicoterapeuta in formazione; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; opera nel suo studio.
L'Anima Fa Libro
GLI
ANTICHI CREDEVANO CHE L’ORSO USCISSE DAL SUO LETARGO
DOPO AVER COMPIUTO UN LUNGO VIAGGIO NEL PAESE DEGLI SPIRITI,
FACENDO
SCORTA
DI
TUTTE
POSSEDUTE DALLE ANIME DEI MORTI.
E
LE
ENERGIE
COSMICHE
CHE AL SUO RISVEGLIO
EMETTESSE UN ENORME PETO LIBERATORE, RIDISTRIBUENDO COSÌ LE ENERGIE DELL’ALDILÀ NEL MONDO DEGLI UMANI.
IN QUESTO MODO PER UN ISTANTE I DUE MONDI ERANO IN CONTATTO. IL RAPPORTO CHE L’UOMO INTRATTIENE CON GLI ANIMALI DIPENDE ESSENZIALMENTE DAL LIVELLO DELLO SVILUPPO DELLA COSCIENZA. QUESTA AFFERMAZIONE NON SIGNIFICA NECESSARIAMENTE QUALCOSA DI POSITIVO IN QUANTO L’ACQUISIZIONE DI COSCIENZA PUÒ
ANCHE
EQUIVALERE
ALLA
PERDITA
DI
QUALCOSA
DI
IMPORTANTE SUL PIANO PSICHICO E RELAZIONALE.
L’ORSO,
PER LA SUA PARTICOLARE SOMIGLIANZA CON L’UOMO, E
FORSE ANCHE PER UN’ANTICHISSIMA COMPETIZIONE SUI LUOGHI DOVE TROVARE RIPARO, HA SUBITO UN RAPPORTO DI AMORE E ODIO, FONDAMENTALMENTE GENERARE
UNA
VERA
UN E
RAPPORTO PROPRIA
PROIETTIVO
PERSECUZIONE
TALE CHE
DA SI
È
PROLUNGATA PER MILLENNI.
LE
PIÙ INCREDIBILI PROIEZIONI UMANE SI AGGANCIANO A OGNI
PARTICOLARE
DELL’ORSO.
DALLA
CODA
CORTA
AL
SONNO
INVERNALE, DA PELO FOLTO AL MODO DI GRATTARSI IL DORSO CONTRO GLI ALBERI, DALLA GOLOSITÀ ALLE DIMENSIONI DEI PICCOLI, DALLA INCONTENIBILE FOGA SESSUALE ALLA MADRE CHE LECCA E NUTRE I PICCOLI, TUTTO È DOTATO DI POTERI MAGICI E TUTTO DIVENTA PROVERBIO E LEGGENDA.
"IN QUEL VILLAGGIO, NELLE PRIME TIEPIDE E NEBBIOSE NOTTI DI PRIMAVERA, SI VEDONO SEMPRE GLI SPIRITI DI DUE ORSI, UNO CHE CAMMINA SU QUATTRO ZAMPE, L’ALTRO SU DUE." DA UNA FIABA CHEROKEE
DANIELE RIBOLA,
PSICOANALISTA, VIVE E LAVORA A
LUGANO. CO-FONDATORE DELLA SCUOLA DI PSICOTERAPIA A LISTA DI MILANO, COMPONENTE DEL DIRETTIVO, DOCENTE E CONDUTTORE DI GRUPPI DI SUPERVISIONE CLINICA. ANALISTA DIDATTA AL C.G. JUNG INSTITUT DI ZURIGO, DOVE SI È FORMATO CON D. BAUMANN E M.-L. VON FRANZ, È MEMBRO DELL’ASSOCIAZIONE SVIZZERA DI PSICOLOGIA ANALITICA, DELL’INTERNATIONAL ASSOCIATION FOR ANALYTICAL PSYCHOLOGY E DEI GRADUATES ANALYSTS OF THE C.G JUNG INSTITUT. SVOLGE RICERCHE SULLA PSICOLOGIA DELL’ARTE E DEL GESTO CREATIVO. CO-FONDATORE DELLA RIVISTA «LA PRATICA ANALITICA», È AUTORE DI SAGGI INERENTI IL PENSIERO JUNGHIANO, TRA CUI LA PREFAZIONE AL LIBRO DI M.-L. VON FRANZ, TIPOLOGIA PSICOLOGICA (1998) E GLI SCRITTI CONTENUTI NEI VOLUMI: IN DIALOGO CON L’INCONSCIO. RICCHEZZA E PROFONDITÀ DEL PENSIERO DI C.G. JUNG A 50 ANNI DALLA SUA MORTE (2011) E QUATTRO SAGGI SULLA PROIEZIONE. RIVERBERI DEL SÉ NELLA COSCIENZA (2013) – ENTRAMBI CON F. DE LUCA COMANDINI, R.M. MERCURIO E C. WIDMANN –, IO AMO UN’OMBRA DEL MIO CUORE (CON M. PIATTI E A. PIANAROSA, 2012), SGUARDO SULLE PSICODINAMICHE DEL GESTO CREATIVO. GIACOMETTI: LA DISTANZA INCOLMABILE (CON I. PATERLINI, 2013). ORIENTAMENTO JUNGHIANO
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Calendario Azteco
I
l lavoro che presento è incentrato sull’analisi archetipica dell’immagine della vittima presente nel teatro della psiche collettiva, espresso attraverso un excursus storico mitologico che spazia dalla mitologia dei nativi americani fino ai miti scandinavi, per trovare una completa e esauriente connotazione nelle vicende bibliche in cui si narrano le vicende di Giobbe. Una trattazione intorno al costrutto psichico della “vittima” trova, come approdo naturale, la figura del Cristo, che ha il suo compimento nella passione, tappa intermedia perché ci possa essere una rinascita(resurrezione). Se volessimo dare una definizione di “vittima”potremmo prendere la spiegazione che U.Galimberti dà nel suo “dizionario di psicologia:”individuo o gruppo che, senza aver violato regole convenute,viene sottoposto ad angherie, maltrattamenti e sofferenze di ogni genere, spesso per effetto di quel meccanismo proiettivo che istituisce un CAPRO 1 ESPIATORIO(…) ”
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La spiegazione data dal Galimberti ci porta ad un altro argomento direttamente correlato all’immaginario “vittima”:quello del capro espiatorio. Il principale studioso che si occupa dell’immagine psiclogica del capro espiatorio è RENE’ GIRARD che, nella sua opera “IL CAPRO ESPIATORIO” si avventura in un’analisi storica del termine partendo dal mito, che permette di formulare una tesi condivisibile su come effettivamente,a livello sociale,il capro espiatorio sia colui su cui vanno a posarsi le forze malefiche del volgo. Girard afferma ”esistono degli aspetti universali di selezione vittimaria”, ”la malattia, la follia, le deformità genetiche, le mutilazioni(….) tendono a polarizzare i persecutori. (..) Ancora oggi molte persone non possono reprimere, al primo contatto, un leggero ritrarsi di fronte all’anormalità fisica. La parola stessa ANORMALE,(..) ha qualcosa del tabù; è insieme nobile e maledetta, sacre in tutti i sensi del termine. Si giudica più decente sostituirla con la parola d’origine inglese”handicappato”2. Questa disamina presentata dallo studioso francese mostra come può innescarsi un meccanismo
Alfredo Vernacotola propriamente proiettivo in quegli individui che tendono, come sopra ho scritto,a polarizzare su un soggetto le difficoltà che la condizione di svantaggio sociale porta con se. Normalmente le differenze in una società moderna dovrebbero essere motivo di crescita; in realtà oggi, come Girard ci spiega, la differenza è proprio il motivo da cui prende il via la polarizzazione “malefica” della moltitudine. Girard scrive ”i segni di selezione vittimaria non manifestano la differenza in seno al sistema, ma la differenza fuori dal sistema, la possibilità per il sistema di differenziarsi dalla propria differenza”(…)”l a differenza fuori del sistema è terrificante perché fa intravedere la verità del sistema, la sua relatività, la sua fragilità, la sua mortalità”3 Ecco ancora una volta come la diversità, in tutte le sue forme, può diventare motivo di coalizzazione contro colui o coloro che si allontanano dalla norma. Continua Girard ”Non è l’altro nomos che si vede nell’altro, ma l’anomalia; non è l’altra norma, ma l’anormalità; l’infermo si muta in deforme”4 viene qui da affermare che è proprio l’indifferenziazione che attira l’ira di coloro che perseguono. Il mito possiamo ritenerlo come la scienza che meglio riesce a spiegare i meccanismi che nascono dalla polarizzazione su alcuni individui rei di colpe che spesso sono aleatorie o del tutto inesistenti. Prendiamo in considerazione il mito di Edipo nell’Edipo re di Sofocle:la peste devasta Tebe; Edipo ha ucciso il padre e di conseguenza essendo reo anche di aver sposato sua madre attira su di se l’ira persecutoria poiché la peste viene vista come conseguenza del parricidio e dell’incesto. Una caratteristica fisica di Edipo lo rende vittima perfetta: egli zoppica!ecco qui ben rappresentato un ulteriore segno vittimario: l’infermità. Scrive Girard ”..Edipo fa in modo di cumulare la marginalità dall’esterno e la marginalità dall’interno5”. Ecco che rintracciamo nel mito le caratteristiche preminenti della vittima che viene rappresentata come l’agnello sacrificale da cui poi, necessariamente,tornerà a splendere il sole una volta avvenuto il sacrificio. La deformità fisica,la mostruosità sono i caratteri da cui una vittima, secondo quanto emerge da un’analisi storica, non può prescindere. Se prendiamo per esempio il caso delle streghe medievali ci rendiamo conto che in questo caso il
binomio mostruosità-amoralità non è presente. Nel mito invece il dualismo tra le due tipologie di mostruosità sembrano andare avanti di pari passo. Nel mito esse coabitano e rendono più facilmente identificabile la vittima che, inevitabilmente, non può sottrarsi al proprio destino. Scrive Girard ”La giustapposizione perpetua delle due mostruosità ci sembrerebbe odiosa; sospetteremmo che provenga dalla mentalità persecutoria. Orbene, da cos’altro potrebbe provenire? Quale altra forza potrebbe fare sempre convergere i due temi? (..) è sempre l’immaginazione dei persecutori" e aggiunge "mostruosità fisica mostruosità morale sono sovrapposte l’una sull’altra nei miti che giustificano la persecuzione di un infermo6”. La vittima finisce sempre per subire un processo che,per quanto iniquo possa essere, ha sempre i crismi di un’analisi dei fatti. In realtà la vittima è sempre condannata fin dalla prima parola. La vittima è colui che qualsiasi cosa tocca finisce per farla marcire e finisce per inquinarla. Scrive Girard ”Questa colpa appare come una specie di essenza fantastica, un attributo ontologico (…). la presenza dello sventurato (..) contagia di peste gli uomini e gli animali (..) al suo passaggio tutto si guasta e l’erba non ricresce (…). gli basta essere quello che è7”. Le deformità fisiche e le mostruosità morali dei personaggi mitologici sono veri e propri archetipi presenti nella storia della nostra Psiche. La vittima permette al popolo, alle moltitudini di persone di sfogare le proprie angosce, le mostruosità interiori che altrimenti non avranno sfogo. La vittima è un capro espiatorio. Il mito riesce più delle vere e proprie persecuzioni storiche a spiegare il senso del ruolo della vittima nelle dinamiche di crescita di una società e dello stesso individuo. È proprio la crudeltà che nei miti ci viene presentata che spaventa: ”La rappresentazione persecutoria è più forte nei miti che nelle persecuzioni storiche ed è la sua stessa forza che ci sconcerta8”. Il mito con forza afferma la capacità da parte della vittima di ristabilire l’ordine dopo il caos e questa rappresenta la sua forza principale che incarna il capro espiatorio. Colui che viene sacrificato in nome di un misfatto ritenuto grave, ma non commesso consapevolmente, permette di
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Un'idea archetipica ristabilire l’ordine che porterà nuovamente pace nella comunità. Spiega Girard ”(..) l’ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato”. ”è pensabile che (…) questa stessa vittima riporta l’ordine, lo simboleggia e addirittura lo incarna9”. La capacità della vittima di elargire doni anche dopo la sua morte sta ad indicare che essa può resuscitare. La vittima secondo quanto scrive Girard è capace di sconfiggere anche la morte tanto che essa (la morte) ”la resuscita se occorre, la rende immortale, almeno per un certo periodo, inventa tutto ciò che noi chiamiamo trascendente e sovrannaturale10”. Correlato all’immaginario vittima è anche il mito di TEOTIHUACAN, mito americano dell’autosacrificio: mito della creazione del sole e della luna secondo gli Aztechi. Le informazioni che abbiamo a riguardo le dobbiamo a Bernardino da Sahagun autore della Historia general de las cosas de la Nueva Espana. Riportiamo integralmente il testo del mito: ”si racconta che,quando ancora non esisteva la luce del giorno,gli dei si riunirono in un luogo chiamato Teotihuacan e si chiesero: chi si assumerà il compito di illuminare il mondo?”. Un dio chiamato Tecuciztecatl rispose: ”io mi assumerò il compito di illuminare il mondo”. Gli dei parlarono una seconda volta e dissero: ”Chi altri ancora?”. Poi si guardarono l’un l’altro cercando chi sarebbe stato costui, ma nessuno osava offrirsi per quel compito; tutti avevano paura e se ne scusavano. Soltanto uno, del quale non si teneva conto, e che aveva delle bubas (pustole), se ne stava silenzioso ad ascoltare gli altri. Costoro gli rivolsero la parola: ”Spetta a te, piccolo buboso”. Egli obbedì volentieri al comando e rispose: ”Ricevo il vostro ordine come una grazia; così sia”. I due prescelti cominciarono subito una penitenza di quattro giorni (…). “A mezzanotte tutti gli dei si disposero attorno al focolare chiamato TEOTEXCALLI, dove il fuoco bruciò per quattro giorni. Si distribuirono in due file che sis sistemarono, separatamente, ai due lati del fuoco. Giunsero i due prescelti che presero posto intorno al focolare, con la faccia verso il fuoco, tra le due schiere degli dei in piedi che, rivolgendosi a TECUCIZTECATL, gli dissero: "Su, buttati nel fuoco”. Questi provò a lanciarvisi, ma, siccome il fuoco era grande e ardente, si impaurì sentendo quel grande calore e
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indietreggiò. Una seconda volta di fece coraggio e riprovò a buttarsi nel fuoco, ma quando si fu avvicinato si fermò e non osò andare oltre. Fece invano il tentativo per quattro volte di seguito. Ora, era stato ordinato che nessuno potesse fare il tentativo più di quattro volte. Concluse quindi le quattro prove, gli dei si rivolsero a NANAUATZIN (era il nome del buboso) e gli dissero: ”Su, NANAUATZIN, adesso prova tu”. Appena gli ebbero detto queste parole, egli raccolse le forze, chiuse gli occhi, prese lo slancio e si gettò nel fuoco. Si udì subito un crepitio come di un oggetto che viene arrostito. TECUCIZTECATL, vedendo che l’altro si era gettato nel fuoco e vi bruciava, immediatamente prese anche lui lo slancio e si precipitò nel braciere. Si dice che un’aquila vi entrò nello stesso momento e si bruciò e che per questo le sue piume sono ora nerastre; la seguì una tigre, che si scottò senza bruciarsi; così rimase macchiatai di bianco e di nero.” “Poco dopo, gli dei, in ginocchio, videro NANAUATZIN “DIVENTATO SOLE” levarsi a oriente. Apparve molto rosso, oscillante da una parte e dall’altra, e accecava, tanto splendevano i raggi che da lui si staccavano e si spandevano ovunque. A sua volta,la luna si levò all’orizzonte. Per aver esitato TECUCIZTECATL ebbe meno splendore. Gli dei dovettero poi morire, il vento QUETZALCOATL li uccise tutti; il vento strappò loro il cuore, e ne animò gli astri appena nati11”. Dal mito appena descritto si evince come in effetti la vittima a volte può essere tale volontariamente. Gli aspetti che più mettono in luce le peculiarità della vittima sono, però, i soliti stereotipi persecutori che Girard più volte ha descritto. In primis vediamo come in effetti “il buboso”, in quanto tale viene subito “additato”dagli altri dei, poiché sta in disparte, esprime diversità, deformità; un secondo aspetto, che forse dal punto di vista psicologico è molto pregnante, è la tendenza della vittima sacrificale a rendere “memorabile” il suo assassinio-suicidio. Come scrive Renè Girard: ”il mito mette l’accento sull’aspetto libero e volontario della decisione12”. Proprio come abbiamo appena scritto, la volontarietà dell’individuo gioca un ruolo importante in questo mito. Nanauatzin decide lui stesso di sacrificare la sua vita:la decisione rivela proprio il fascino della diversità insito nell’anima della vittima. Egli stesso decide di andare a morte.
Alfredo Vernacotola Una morte che porterà ad una nuova vita,rappresentata da quella luce che, lui, Sole, può donare al mondo. Ecco ancora una volta tornare in auge la possibilità di resurrezione che la vittima reca in sé, vincendo ancora una volta la morte, affermando la necessità dell’essere vittima. ”Ci sarà sempre bisogno di vittime13 ”afferma l’antropologo francese Girard. Questa considerazione dell’antropologo ci fa tornare a quello che abbiamo scritto all’inizio di questo elaborato: l’indifferenziazione del sistema. Leggendo il mito ci accorgiamo che senza vittime non ci sarebbero né giorno né notte; ecco ancora una volta la necessità dell’essere vittima. Certo qui “il buboso” non ha colpe evidenti, ma la motivazione è nobile e quindi in un certo senso, pur mancando un vero e proprio omicidio collettivo che fa pensare ad una vera e propria vittima, egli è realmente vittima della sua spinta a differenziarsi. Un’altra bella frase di Girard spiega ancora con più forza questa doppia valenza costrizione/libertà: ”Senza vittime, il mondo sarebbe immerso nell’oscurità e nel caos14”. A volte il comportamento di una vittima può incentivare in un altro individuo lo stesso comportamento, quindi l’emulazione. Nel mito degli Aztechi è evidente il desiderio mimetico che spinge la seconda divinità a gettarsi nel fuoco nonostante la paura. Oggi nelle nostre vite sembra scontata la presenza di desiderio mimetico in quanto, pur essendo contrari a eccidi di ogni genere che avvengono, li accettiamo senza protestare. Tutto ciò che devia la norma oggi viene reso vittima in quanto la vittima, nella sua essenza ontologica, è colei che può conferire nuova vita alla società. Il mito riesce sempre a fornirci informazioni di una densità a volte sorprendente. Riguardante il tema “vittima” vi sono anche alcuni miti nordici che sembrano, per molti aspetti, ripercorrere la medesima strada; ad esempio, del mito di Edipo. Il mito a cui facciamo riferimento è il mito di BALDR15, come ci racconta Gianna Chiesa Isnardi ne “I miti nordici”, che rappresenta la divinità vichinga più bella più luminosa. Proprio per queste sue qualità, attira su di se l’ira degli Asi a cui aveva confidato un sogno premonitore che annunciava la sua morte imminente. Costoro chiedono protezione totale per Baldr. La madre
Frigg chiede a tutti gli esseri animati e non di non far del male al proprio figlio. A questo punto Baldr inizia un gioco simpatico con gli Asi i quali iniziano a tirargli armi e oggetti contundenti, senza fargli del male. Insomma nulla lo ferisce. Interviene a questo punto un’altra divinità, Loki (il briccone) che rimane indispettito da questo gioco che gli sembra truccato. Loki si traveste da donna e va da Frigg chiedendo se il giuramento universale riguardasse proprio tutti; viene a conoscenza che un giovane ramo di vischio è stato esentato da questo giuramento perché ritenuto giovane. Appreso questo, il Briccone si impossessa di questo germoglio e va dal fratello cieco di Baldr di nome Hodhr, che fino a quel momento non aveva colpito il fratello, non potendolo vedere. Loki guida la sua mano verso la vittima, che muore assassinata da un semplice germoglio di vischio. Ho raccontato brevemente questo mito perché ancora una volta possiamo rintracciare in questa figura di vittima quelle caratteristiche che in realtà spiegano per quali motivi la polarizzazione è fissata su di un elemento che differisce dalla norma. Qui addirittura il comportamento di Loki sembra essere giustificato dal mero risentimento per un ludus a cui egli non partecipava. Ancora una volta il mito ci presenta una situazione che possiamo facilmente rintracciare anche nella nostra società moderna. La vittima come individuo che si differenzia dai molti in quanto presenta caratteristiche, in questo caso,divine. Come sostengono molti studiosi, è necessario far in modo che il mito possa parlare perché attraverso esso vengono abbattute quelle barriere che i nostri pregiudizi hanno eretto in nome di una scienza esatta che finisce per trovare una spiegazione razionale ad ogni avvenimento. ”La mitologia è un gioco di trasformazion16 ”scrive Renè Girard! Affrontando il tema “vittima” non si può non trattare l’argomento che riguarda la vittima per eccellenza: la passione di Cristo. Riportiamo di seguito due frasi prese da salmi che bene mostrano la potenza che la polarizzazione esercita su ogni individuo; ”Essi hanno odiato senza una causa (sal.,35,19)? ”è stato annoverato fra i criminali (Mc.,15,28). Queste due frasi spiegano molto bene come la persecuzione la tendenza di ricercare continuamente la “vittima” sia caratteristica dell’intera umanità. La folla si coalizza contro Gesù mandandolo a
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Un'idea archetipica morte anche quando lo stesso Pilato lo ritiene non colpevole o almeno colpevole di non reati non ascrivibili al pubblico ludibrio. I due passi dei vangelo dichiarano compiutamente come afferma Girard che” (…) la colpevolezza delle vittime è la molla principale del meccanismo vittimario17” I persecutori “odiano senza causa. E questa assenza di causa nella accusa (ad causam) (…) non la vedono mai.18” Le vittime adesso, con il linguaggio proprio del vangelo, gridano nel momento stesso in cui vengono perseguitate; la vittima presente nei vangeli manifesta tutto il proprio risentimento rispetto ad un Edipo che invece accetta il proprio destino. Ecco palesato il modo di essere vittima cosciente del proprio futuro che, in certo qual modo viene riabilitata poiché è il popolo che la condanna senza una giusta causa. Scrive Girard”(…) queste riabilitazioni sono sempre caratteristiche di un gruppo che si schiera contro un altro gruppo. Intorno alla vittima riabilitata rimangono sempre dei fedeli e la fiaccola della resistenza non si spegne mai19”. Addirittura possiamo affermare, in accordo con l’antropologo francese, che persino i discepoli finiscono, partendo dalla riabilitazione della vittima, coll’essere annoverati tra quelle forze ”malefiche che perpetrano l’omicidio/sacrificio;” (..) bisognerebbe quasi includere il gruppo dei discepoli nel novero di quelle potenze che si mettono d’accordo (…). Sono potenze in grado di dare un significato alla morte di un condannato20”. La vittima ora è riabilitata e, ancor con più forza dei miti cosiddetti pagani, la passione del Cristo mostra la vittima come agnello sacrificale che diventa anche eroe. Infatti la vittima poiché ristabilisce l’ordine dove era il caos compie un vero e proprio atto eroico. Nel caso del Cristo il compito di eroe consiste nell’aver affermato la propria potenza per mezzo del suo stesso sacrificio. La vittima che diventa il Salvatore! Possiamo concludere questa disamina riguardo la Passione di Cristo affermando che in effetti anche i Vangeli tendono a dipanare la logica persecutoria che polarizza la sue forza su di un unico individuo senza una causa scatenante. Tale posizione ci conduce dritto ad una tesi molto importante: la base che fa da substrato alla violenza, che giustifica il “mito” della vittima, è rappresentazione di una idea archetipica; la vittima è un archetipo sedimentato nella psiche collettiva
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inconscia. Come scrive Girard, si parte proprio dall’analisi del Vangelo per capire che in effetti è presente questa logica e si evince proprio dalle parole stesse degli evangelisti, quali ”Padre mio,perdonali perché essi non sanno quello che fanno (Lc.,23,34). Essi non sanno quello che fanno ecco quindi che la vittima ancora una volta ne esce vincitrice, perché trionfa e porta nuovamente l’amore nel creato. Bibliografia e Note 1. Galimberti U., Dizionario di Psicologia, Utet , Torino, 1992, 2006, pag 968 2. Girard R. , Il capro espiatorio, Adelphi Edizioni, Milano, 1987, pag 37 3. Girard R. , Il capro espiatorio, Adelphi Edizioni, Milano 1987, p. 39 4.Ibidem 5. Op. cit. pag 47 6. Ibidem pag. 63 7. Ibidem pag. 65 8. Ibidem pag. 73 9.Ibidem pag. 74 10. Ibidem pag. 77 11. Girard R. , Il capro espiatorio, Adelphi Edizioni , Milano, 1987, pag 98-99 12. Ibidem pag. 99 13. Ibidem pag. 101 14. Ibidem pag. 106 15. Isnardi Chiesa G., I miti nordici, Longanesi e C., Milano, 1991 16. Girard R. , Il capro espiatorio, Adelphi Edizioni, Milano, 1987, pag 121 17. Op. cit. pag. 167 18. Ibidem pag. 168 19. Ibidem pag. 170 20. Ibidem pag. 170
Alfredo Vernacotola, nato a L'Aquila il 27 Aprile 1978, laureato in Psicologia presso la Facoltà di Psicologia dell'Università degli studi dell'Aquila, iscritto al secondo anno della Scuola di Specializzazione Atanor. Vive e svolge le proprie attività a L'Aquila.
L'Anima Fa... Poeio LIMITE SOGLIA ARCHITRAVE DELL'INDIVIDUALITÀ AVANGUARDIA D'UNA AVVENTURA TRAVERSATA D'OCEANI DIALETTICA RELAZIONE DELL'UNO DELLE MOLTEPLICITÀ ESPRESSIONE DI FUSIONE NELL'UNIVERSO CONTENUTO OVE IL VUOTO RIEMPIE FACCE DI DIAMANTI SCOLPITE NELL'ETERNA VASTITÀ DI LUOGHI DOVE IMPERA L'ILLOGICITÀ FONDAMENTA DI VITA PERSONIFICAZIONE DEL LIMITE SORGENTE D'ENERGIE COMPLESSE SMERALDI FRANTUMATI CONGIUNTI DALL'ABILE GENIO CREATORE
FAUTORE DELL'INFINITA BELLEZZA RACCHIUSA NELLA MATERIA DOVE L'INDIFFERENZIATO TRASFORMA SÉ STESSO RENDENDO LA DISSONANZA ARMONIA DI SUONI. LO SGUARDO DEL GUERRIERO LA FORZA DEL GUERRIERO CAPACI DI RENDERE VIRTÙ VALORE IL LIMITE DELL'ILLOGICITÀ CARATTERE MUTEVOLE TRASFORMANTE CONFERENTE FORMA DISTINTA DISTINGUIBILE. LA CONSAPEVOLEZZA DEL LIMITE FORZA CHE TUTTO MUOVE. (ALFREDO VERNACOTOLA)
MOVIMENTO DANZA SINUOSITÀ LEGGIADRIA ESPRESSIONE DI UNA DINAMICA ALLA RICERCA DELL'ARMONIA NUCLEO DIMORATO DA PERSONAGGI CONOSCIUTI SFIORATI PERMEANTI LA RICERCA CONTINUA SENZA TEMPO DEL SOFFIO VITALE SPINTA MOTRICE DELLA RICERCA D'EQUILIBRIO FORMA INDISTINTA DEL FINE DELL'ESSENZA DELL'INDIVIDUO FORGIATO DALL'EMBLEMA D'ETERNITÀ ESPRESSIONE DELLA FINITEZZA DELL'UOMO ASSISO DINANZI ALLA MAESTOSITÀ D'UNA CREAZIONE AFFRESCO DI UN UNIVERSO DOVE L'ORDINE COSTITUITO RIPOSA LASCIANDO SPAZIO ALLA LOGICA DEL CHAOS CENTRO D'ENERGIE OVE SPLENDE LA LUCE SUPERANTE LA FREDDEZZA DETTATA DAL TIMORE DI RELAZIONE
CHE TUTTO MUOVE FUSIONE D'INDIVIDUALITÀ MOSSE DA DESIDERIO SCEVRO DA RIVENDICAZIONE PERCHÉ DONO PARTE DELLA PROPRIA ESISTENZA VOTATA AL RIEMPIMENTO DEL VASO CONTENENTE LO SPIRITO DONO RIFUGIO D'UNA RICERCA SENZA SPAZIO DETERMINANTE L'ESSENZA DEL VIAGGIATORE DELLA VALLE. CALPESTO TERRITORI IMMERSI NEL VERDE IN CUI SI MESCOLANO COLORI CHE DANZANO DISEGNANDO TRAIETTORIE ESPRESSIONE D'UNA TOTALITÀ PUNTO D'APPRODO E PARTENZA DELL'INFINITO VIAGGIO RICERCANDO PEZZI DEL MOSAICO CUSTODITO PROTETTO DAL NUCLEO DALL'ESSENZA. CENTRALITÀ. (ALFREDO VERNACOTOLA)
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Foto scattate nel sito archeologico di Gðbekli Tepe in Turchia Autore: sconosciuto
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li antropologi affermano2 che la nostra specie abbia posseduto capacità intellettive, linguistiche, manuali, creative e spirituali fin da quando è apparsa sul pianeta; mano a mano che cambiavano i nostri valori sociali, culturali, morali, davamo origine alle civiltà, facevamo scoperte strumentali e tecnologiche, sono cambiate le modalità e le forme con le quali abbiamo manifestato quelle dimensioni che hanno sempre fatto parte di noi. L’interesse verso ciò che ci caratterizza e ci rende così particolari ha sempre spinto i ricercatori sul piano filosofico e spirituale, gli artisti, i medici e gli psicologi ad approfondirne lo studio. Lo psichiatra C. G. Jung pubblicò nel 1921, dopo la sua separazione da Freud, uno studio sui Tipi psicologici nel quale proponeva di considerare la
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struttura della personalità e il comportamento umano alla luce della configurazione tipologica di ogni persona. Riteneva che la tipologia di ciascuno avesse una base costituzionale genetica e che la personalità risultasse dalla combinazione tra diverse funzioni psichiche; ne descrisse due razionali: il Pensiero e il Sentimento, due non razionali: l’Intuizione e la Sensazione3. L’intuizione rimane una delle componenti più difficili da descrivere, ma molto importante soprattutto quando cerchiamo di comprendere il comportamento umano. In genere, il comportamento appare come la conseguenza di una decisione determinata in parte da scelte razionali delle quali la persona è cosciente, in parte da elementi dei quali la persona è poco o del tutto inconsapevole: emozioni,
Marina Manciocchi sensazioni, istinti. Quando cerchiamo le motivazioni di un comportamento, la nostra mente attinge a parametri razionali che non sono esaurienti, allora la funzione intuitiva può essere di aiuto, poiché viene stimolata da elementi differenti, come le immagini, le fantasie, le sensazioni. Quindi per raggiungere una maggiore conoscenza e consapevolezza sono necessarie sia le componenti razionali che quelle irrazionali e l’intuizione ci aiuta quando cerchiamo risposte difficili da trovare. Studiando la tipologia, Jung comprese che l’intuizione poteva facilitare il collegamento tra la mente razionale e l’istinto e considerò la possibilità che la componente intuitiva venisse regolata da qualcos’altro, per esempio da un archetipo presente a livello inconscio. Parole come archetipo, psicoide, richiamano un’area al limite tra l’organico e lo psichico, un ambito di ricerca teorica molto vario e vago, sul quale gli psicologi analisti attualmente esprimono pareri molto vari e un differente interesse. Nel 1937 Jung approfondì i vari fattori che determinano il comportamento e nel 1972 Hillman riprese il suo lavoro, definì maggiormente gli istinti e inserì tra questi la componente creativa, avviando importanti riflessioni. L’istinto è uno dei tanti fattori dei quali non siamo coscienti, ma determinano alcuni aspetti della nostra psiche, alcuni aspetti del comportamento individuale e collettivo, le nostre sensazioni e i nostri sentimenti. Importante è anche il fatto che ogni istinto presenta un carattere di obbligatorietà che può creare conflitti alla coscienza. Le immagini collegate a un istinto sono significative, diventano simboli, possono apparire nei sogni, nella fantasia, nelle produzioni artistiche e su queste immagini la coscienza può soffermarsi e lavorare. La finalità può essere quella di comprendere e rendere più espliciti gli elementi inconsci, come fa un artista quando cerca di dare loro una forma visibile, oppure può essere quella di elaborarli e tradurli nella cura, come accade in una psicoterapia. Cercare di comprendere più a fondo il funzionamento della mente è un obiettivo al quale punta la ricerca in campo neurologico, strumenti tecnici sempre più specializzati consentono ora di osservare i movimenti elettrici e chimici che avvengono nel cervello quando svolgiamo qualunque attività, ma non sappiamo se sarà possibile conoscere del tutto il collegamento tra la
psiche e la sua base fisica4. Comunque, quando l’individuo ne diventa consapevole, l’istinto può perdere la sua obbligatorietà, diventando variabile e poi modificabile, questo accade per molti aspetti che condizionano il nostro agire quotidiano, pensiamo per esempio alla sessualità o ad alcune modalità del comportamento alimentare. Hillman descrisse in questo modo gli istinti5: cinque gruppi li indicava come fattori istintivi principali: «la fame, la sessualità, l’attività, la riflessione, il fattore creativo»; evidenziò tre fattori dinamici semifisiologici che intervengono nella modalità della funzione psichica e influenzano il comportamento umano: «l’età, il genere sessuale, la predisposizione ereditaria»; infine aggiunse tre fattori psicologici da considerare nella loro direzione che è duplice: «il comportamento conscio e quello inconscio, l’estroversione e l’introversione, la direzione spirituale e quella materiale». I fattori istintivi principali sono in parte simili a quelli indicati da Conrad Lorenz nel comportamento animale: «la nutrizione, la procreazione, l’aggressività, la fuga», mentre la riflessione e la creatività sono espresse in maniera completa ed evidente solo dalla specie umana. Se riflettiamo sulla creatività come istinto, possiamo utilizzare la sua presenza o assenza come elemento diagnostico in aggiunta agli altri, tenendo presente che mostra vari livelli di quantità, gradualità e forme espressive; infatti la dimensione creativa è rallentata e confusa, se non del tutto bloccata, nella depressione e nello stato ansioso; la sua frammentazione e incongruenza è utile per la diagnosi della psicosi; nel meccanismo ossessivo la creatività diventa sterile e perde quasi del tutto la sua energia. Possiamo anche collegare la capacità espressiva a un’altra importante percezione, quella dello scorrere del tempo, dal momento che anche questa varia secondo i diversi tipi di sintomatologia. L’esigenza di cambiare qualche aspetto della propria vita è una delle più importanti spinte che portano le persone nei nostri studi e all’inizio il paziente può non percepire le proprie potenzialità, poiché è troppo preso da ciò che sta vivendo e dal bisogno di soffermarsi su quanto gli accade, ma la dimensione creativa attiva in ogni individuo la ricerca di un cambiamento e di un nuovo percorso, quindi possiamo chiederci come utilizzare questa energia nella cura, come attivare il suo potenziale trasformativo per modificare il pensiero e il
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La dimensione creativa comportamento abituale di chi ci chiede aiuto. Le persone sono in uno stato di continuo cambiamento, per esempio nel corpo mentre mangiano, bevono e crescono in età, ma anche nella psiche quando sentono, ricordano, apprendono, soffrono o amano. La modificazione è continuamente presente nella nostra vita, in una maniera completamente o parzialmente cosciente, oppure parzialmente o completamente inconsapevole. La psicoterapia ha la finalità di aiutare la persona a costruire qualcosa di nuovo: una maniera di comportarsi, una sensibilità, una consapevolezza più adeguate ai suoi bisogni, qualcosa che vada oltre ciò che le è già noto. Le abitudini, pur se inadeguate, danno sicurezza, mentre la ricerca di nuovi stili e nuove prospettive produce instabilità, però sono tanti i vantaggi e le opportunità che si presentano a una persona, quando scopre che ha la capacità di modificare quegli aspetti della sua vita che sente insoddisfacenti o dolorosi. Quando si è costretti ad accettare e sopportare ciò che ci appare sgradevole viene meno molta energia, si diventa immobili, depressi, mentre la scoperta di poter intervenire e modificare le situazioni ritenute immutabili è già essa stessa una fonte di nuova energia. Ogni volta che riusciamo a dare uno sguardo a ciò che va «oltre» quello a cui siamo abituati, oppure percepiamo di poter modificare gli aspetti spiacevoli della nostra vita, noi possiamo attingere al nostro istinto creativo e - se non ci sono ostacoli esterni oggettivamente bloccanti - troviamo l’energia sufficiente per raggiungere e realizzare ciò che sentiamo importante. Questa spinta spaventa chi ha una patologia psichica, mentre è accolta facilmente dai giovani ed è accolta totalmente, seppure con sofferenza, dall’artista che ne ha bisogno per la natura della sua personalità e per il suo lavoro. L’attività creativa scaturisce dal collegamento tra il mondo dell’inconscio e la coscienza che ne coglie alcuni aspetti e li trasforma, traducendoli in forme visibili, più o meno accettate socialmente. Il contatto tra l’inconscio e la coscienza è continuo, poiché nella nostra memoria si accumulano una quantità notevole di informazioni di tutti i tipi, sia percettive e sensoriali che mentali e psicologiche. Queste informazioni sono prodotte dalle nostre esperienze e sensazioni, ma solo una piccolissima parte di esse arriva alla coscienza, mentre il resto
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rimane a disposizione del nostro inconscio che pertanto è ricco di dati, sentimenti, percezioni, immagini ed emozioni che possono poi di nuovo tornare, contribuendo a stimolare pensieri, progetti, fantasie, sogni, immagini, visioni, cambiamenti e altro. Se c’è una normale capacità e intelligenza nell’individuo, ogni cosa che gli accade può essere creativa, a meno che non sia impedito da fattori contingenti che lo bloccano. Invece nelle patologie gravi tutto ciò che è personale e intimo è nascosto e viene raramente espresso, perché il rapporto con la realtà esterna assume prevalentemente la forma dell’accomodamento e dell’accettazione. Il malato mentale cerca di adattarsi al mondo e fa molta fatica a esprimersi in maniera autentica, i comportamenti che assume sono sterili e solo formali, mentre la dimensione del sentimento e il vissuto emotivo che li accompagna è soprattutto depressivo. Vivere creativamente è quindi una condizione di salute mentale, mentre essere dipendenti e compiacenti, adattandosi eccessivamente agli altri per farsi accettare e amare può costituire un aspetto patologico del vivere. Non è facile spiegare cos’è un impulso creativo, Jung affermava di provare “un timore sacro” di fronte a un atto creativo e che questo gli impediva di parlarne, però possiamo comprendere cosa significa vivere in una maniera personale e originale che viene percepita come propria, rispetto al vivere in una maniera stabilita da altri, soffocante e scontata. Le persone che sperimentano la creatività sono differenti dalle persone che non la sentono, perché non si fanno bloccare dalle loro emozioni negative e cercano la maniera di superarle. Di frequente il bisogno di cambiamento si presenta all’interno di una relazione affettiva ma a volte riguarda l’immagine che l’individuo ha di se stesso, anche sul piano corporeo. Il bisogno di modificarsi può essere avvertito a tutte le età e in varie condizioni sociali o culturali; in una psicoterapia si possono studiare le ragioni che impediscono all’individuo di vivere creativamente e può essere utile approfondire il collegamento tra la dimensione creativa e quella spirituale, perché entrambe sono alla base della nostra energia vitale ed entrambe contribuiscono a dare un senso all’esistenza. La cura può essere arricchita dalle intuizioni che scaturiscono dall’attivazione di tutti
Marina Manciocchi e due questi aspetti, nei pazienti come nello psicoterapeuta. Il lavoro svolto da Jung, da Hillman e da tanti altri ricercatori nel campo della psiche e dello spirito suggerisce che la dimensione creativa sia la componente che aiuta ciascun individuo a raggiungere qualche tappa nel cammino che porta a una conoscenza autentica, che sentiamo vera. È una componente che ha significati profondi su vari piani, collegata all’intuizione e alla spiritualità; una componente che può aiutare le persone ad arricchire la loro capacità percettiva e trovare la dimensione espressiva più adatta a sé; una componente che aiuta nella ricerca della propria strada, anche quando non è condivisa dagli altri.
Jung C. G. (1921), Tipi psicologici, Opere, vol. VI, Torino, Boringhieri Jung C. G. (1937), Fattori psicologici determinanti del comportamento umano, Opere, vol. VIII, Torino, Boringhieri Hillman J. (1972), Il mito dell’analisi, Milano, Adelphi, 1991 Manciocchi M., Antigone e le trame della psiche, Roma, Magi, 2012 Shea J. (2011), Un’idea sbagliata sulle origini dell’uomo, Rivista “Le Scienze”, n. 3/2012 Trevi E., Trevi M., Invasioni controllate, Roma, Castelvecchi, 2007 von Franz M. L. (1971), Tipologia psicologica, Milano, TEADUE, 1996
Bibliografia e Note 1. In questo articolo l’autrice riprende un tema che ha iniziato ad esporre in un suo libro: Antigone e le trame della psiche. Mitologia e creatività in psicoterapia, pubblicato nel 2012 presso le Edizioni Magi 2. Shea J. (2011), p. 48-55 3. La sua teoria sulla Tipologia psichica è raccolta nel volume VI delle Opere ed è stata approfondita anche dalla von Franz (1971). 4. La ricerca sul codice genetico della specie umana è orientata a studiare la prevedibilità o meno di alcune malattie, cerca informazioni per rendere più utili i vaccini, cerca gli elementi alla base dell’invecchiamento, ma di recente sono stati estratti anche i rilevatori genetici che hanno codificato la specie dei Neanderthal. La finalità di tutti gli studi è quella di comprendere maggiormente le condizioni che hanno portato all’apparire della nostra specie e conoscere gli elementi che l’hanno resa tanto diversa da qualunque altro ominide preesistente. 5. Hillman nel 1972 dedicò alla dimensione creativa un intero ampio capitolo del suo libro Il Mito dell’analisi. Bello A. A., Manganaro P. (a cura di), ….e la coscienza? Fenomenologia, Psico-patologia, Neuroscienze, Bari, Laterza, 2012 Goleman D., Ray M., Kaufman P. (1992), Lo spirito creativo, Milano, BUR, 1999 Goleman D. (1997), Le emozioni che fanno guarire, Milano, Mondadori, 2004
La d.ssa Marina Manciocchi è Psicologa analista del CIPA, laureata in Filosofia e in Psicologia. Ha diretto i servizi distrettuali materno-infantili nella ASL RM H, ha avviato il GIL Adozioni RM H per il quale è stata referente regionale ed è docente nei corsi ECM per operatori socio sanitari. Insegna Psicologia del Sogno e Psicologia del Mito, folkore, fenomeni religiosi nella scuola di Psicoterapia del CIPA; insegna Psicologia dell’adozione nell’Istituto di Ortofonologia di Roma. Nel CIPA coordina un gruppo di ricerca sulla creatività e la spiritualità, organizza i corsi sul Mito e partecipa al convegno annuale a Siracusa sulle tragedie greche. Ha pubblicato molti articoli sulla sintomatologia psichica e sull’importanza della dimensione spirituale nella cura. Nel 2012 ha pubblicato presso le Edizioni Magi il libro: Antigone e le trame della psiche. Mitologia e creatività in psicoterapia. La sua attività professionale si svolge tra Roma e Velletri.
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L'Anima Fa Libro
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erché scrivere un libro sull’importanza della madre e dell’archetipo materno, in un’epoca storica, in cui l’individuo della tarda modernità occidentale sembra essere orfano più della presenza paterna che di quella materna? Perché, se è vero che i figli privi di padre rischiano di restare eterni adolescenti, incapaci di uscire dal mondo del bisogno e della dipendenza e di entrare nella società, nel tempo e nella storia, è altrettanto vero che la cultura patriarcale ancora oggi dominante, ha contribuito, defraudando le donne del loro antico Sapere e della possibilità di partecipare alla costruzione della società, ad accrescere il lato oscuro dell’archetipo materno, che avviluppa, stringe e divora, riducendo l’esperienza Madre a misura solo umana e complessuale. Se il complesso materno ha a che fare con il desiderio regressivo di tornare bambini allo stato di dipendenza dalla madre, con il disfattismo, il desiderio di lasciar perdere e con la segreta fascinazione della morte, l’archetipo materno, nel suo lato luminoso, è la metà femminile di Dio, la cornucopia dell’universo, la madre natura, la generosità che si riversa sull’umanità tutta e, senza la quale, l’umanità non sopravviverebbe. Se il complesso materno è puro veleno, l’archetipo materno è oro puro. La nostra vita psichica inizia dalla relazione con la madre, figura destinata a segnare inesorabilmente il nostro mondo interiore. Ritrovare la Madre non significa tanto recuperare il rapporto con la madre personale, quanto con la Madre come universo composito di significati, come archetipo denso di costellazioni emotive, generatore dell’Anima. L’Anima, come cifra psichica di ogni individuo e come fonte di ogni immagine di vita e di senso, origina dalla Madre. La Madre e l’Anima hanno una pregnanza simbolica comune, quella di rappresentare il luogo dei sentimenti e delle passioni, luogo trascurato perché culturalmente e collettivamente scomodo ai fini dell’adattamento sociale. Ma né l’uomo né la donna possono vivere felicemente, se prigionieri di un complesso materno e deprivati della loro Anima. La genialità e la creatività, nell’uomo, stanno nella sua capacità femminile interiore di generare: la parte maschile gli serve unicamente a fornire gli strumenti per dare, alla sua Anima, forma e struttura e portarla nel mondo esterno. Come afferma Jung: In questo legame con la scaturigine materna sta tutta la forza che rende l’eroe capace d’imprese
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L'Anima Fa Libro straordinarie, il suo vero genio, che egli libera dai viluppi dell’inconscio con la sua audacia e la sua assoluta indipendenza. In tal modo nasce in lui il dio. Il mistero della “madre” è forza creatrice divina (1911, Opere, vol. V). La donna, a cui la società, come già diceva Freud, chiede prematuramente, quando è ancora fanciulla, a differenza di quanto viene chiesto ai maschi, di rinunciare alla figura materna, arriva a sentire la sua Anima solo se riesce a ricondursi sulle tracce della Madre, a passeggiare nei suoi giardini intricati, pieni di grida e di profumi pungenti, per poi nuovamente ritrarsi, forte e sola; la donna può incontrare la sua Anima solo quando l’aspetto trasgressivo, passionale e scomodo rispetto al modello culturale dominante si pone come elemento fondativo della sua psiche. E con trasgressione non alludo tanto alla possibilità di disporre liberamente della propria sessualità, libertà che spesso finisce per relegare la donna al ruolo di corpo intercambiabile, quanto all’impegno fermo e determinato verso la propria integrità come donna e verso la propria autorealizzazione, alla pretesa di essere amata per la propria assoluta unicità e al diritto di darsi alla propria passione e non a quella di un altro. Al termine del saggio segue un racconto, in cui una donna va incontro all’esperienza, inebriante e dolorosa, di un’inaspettata passione amorosa per un’altra donna. Sono perfettamente calzanti, per la protagonista, le parole di Maria Cristina Barducci, tratte dal suo libro Specchio delle mie brame: Emerge un amore disperato e totale per un maschile che mai l’ha amata, se per maschile usciamo dalle maglie oggettive e contingenti del soggetto uomo, portatore comunque della proiezione, e ci dirigiamo invece verso la struttura maschile di coscienza collettiva, fatta propria sia dagli uomini che dalle donne che non ha mai visto né ascoltato la Donna in quanto essere differente da poter incontrare e che ha storicamente impedito che la relazione madre-figlia, donna-donna potesse esistere come mondo di valore e di senso Altro dal proprio. Attraverso le peripezie della vicenda, la protagonista rivive la sua ferita narcisistica primaria e la conseguente perdita dell’Anima, dovute al mancato rispecchiamento con la madre, prematuramente scomparsa. La relazione d’amore le darà l’illusione di ricomporre e sanare la ferita antica, ma, come dice Barducci (2011): Non è possibile ripristinare l’oggetto, anche se il soggetto appassionato vorrebbe andare in questa direzione. La finalità psicologica dell’esperienza della passione non è quella di ritrovare ciò che nel rapporto primario è stato perduto o è addirittura mancato, ma piuttosto di ripristinare le rappresentazioni, le immagini, di sentire nuovamente l’intensità degli affetti, quegli affetti, che negati nel loro appagamento, sono stati poi difensivamente esclusi dalla vita psichica. La passione amorosa e l’attraversamento della vicenda svolgerà comunque un importantissimo compito individuativo: quello del ri-conoscimento del proprio Sentimento, capace di empatia e comprensione profonda, del proprio Pensiero simbolico e della propria capacità di sapersi appassionare alla vita. Alla fine della storia, la protagonista ritroverà, dunque, l’Anima perduta. Nella prima parte del libro ho invece illustrato, nelle sue luci e le sue ombre, l’archetipo della madre e l’ambito di funzionamento del Femminile, avvalendomi dello schema interpretativo utilizzato da Erich Neumann nel suo testo La Grande Madre. Proprio l’archetipo della madre costituisce il fondamento del cosiddetto complesso materno, i cui effetti, al maschile e al femminile, sono descritti nei capitoli successivi. Nell'ultimo capitolo del saggio, ho poi cercato di tratteggiare il “segno” positivo che la Madre, l’Eterno Femminino, per citare il Goethe faustiano, lascia nella vita e nel destino dell’uomo e della donna, guidandoli nel superamento del proprio complesso materno, nella scoperta della propria Anima e, parafrasando ancora Goethe, spingendoli oltre. Flaminia Nucci
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Brunilde a colloquio con la sorella Waltraute, illustrazione di Arthur Rackham
Ottava avventura Nel tempo di un giorno ed una notte Sigfrido raggiunge il paese dei Nibelunghi, di cui sappiamo che è già signore. Bussa nottetempo alla porta del castello, su un’ampia montagna, senza rivelare la sua identità. A guardia della porta c’è un gigante con cui Sigfrido si scontra vittorioso. Mentre è intento a legare il gigante, sopraggiunge il forte nano Alberico. Anche Alberico assale furiosamente l’ignoto visitatore, ma ne è sconfitto e a sua volta legato. Solo a questo punto Sigfrido si fa
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riconoscere. Dopo questi due inutili combattimenti, che l’autore del poema sembra giustificare come una prova di dedizione dei Nibelunghi nel difendere le proprietà di Sigfrido, ma che sembrano piuttosto trarre origine da un recente gusto dell’eroe per la dissimilazione, questi chiede mille cavalieri che lo accompagnino in Islanda. Naturalmente la raccomandazione è per l’abbigliamento: Valorosi cavalieri, vi dirò una cosa, a quella corte dovete portare begli abiti … dovete adornarvi con cura …
Piero Di Prinzio
La mattina, di buon ora, sono già in viaggio diretti al di là dell’acqua, su navi dalle bianche vele. Giunti i Nibelunghi a Isenstein, Gunther li presenta come la sua scorta lasciata indietro. Brunilde gli chiede se deve o meno salutarli. Ricevuta risposta affermativa, si comporta con Sigfrido in modo molto diverso che all’inizio52. A questo punto c’è un episodio che ben rivela la disposizione d’animo arrogante e la diffidenza dei Burgundi , di Hagen in particolare, nei confronti della regina. Brunilde chiede un volontario che distribuisca l’oro e l’argento di sua proprietà a tutti gli ospiti. Si offre Dankwart, il fratello di Hagen: Nobilissima figlia di re, affidate a me le chiavi. Distribuirò l’oro e l’argento in modo tale che se dovesse venirne vergogna questa colpisca solamente me. Dankwart è talmente uomo generoso con gli averi altrui, che Brunilde teme ad un certo punto di restare senza nulla, senza nemmeno gli abiti, come se avesse deliberato di morire , e promette gratitudine a chi fermi il Burgundo: Voglio ancora vivere e, se mai, distribuire io stessa i beni di mio padre. Hagen ha pronta la risposta, certo poco cortese, certamente arrogante53: Signora, sappiate che il re del Reno ha oro e abiti tanti da distribuire abbondantemente e che non ha affatto bisogno di portare con sé una parte dei beni di Brunilde. Brunilde sembra ormai priva della passata, eppure così recente, dignità di valchiria, fa leva su un affetto che quasi teme di non meritare, rinuncia comunque ai suoi averi dilazionando a malapena il tempo della cessione: No, se mi avete cara permettetemi di riempire d’oro e di seta venti bauli. Ne distribuirò di mia mano il contenuto quando arriverò nel paese di Gunther al di là del mare. Brunilde lascia l’Islanda con nobile compostezza. La seguono i mille Nibelunghi, duemila uomini dei suoi, ottantasei donne maritate54 e cento donzelle. Ma l’antico potere della regina di Isenstein forse arde ancora sotto le ceneri della sconfitta: nonostante il diritto germanico lo permettesse, non volle concedere al re, durante il viaggio, le gioie della notte di nozze ... Nona avventura
Dopo nove giorni di navigazione, Hagen suggerisce a Gunther di inviare messaggeri a Worms, con la lieta novella. Il re gli affida subito l’incarico, ma Hagen preferisce restare presente a bordo e allontanare Sigfrido: … io non sono un buon messaggero; lasciatemi qui sulla nave … Pregate Siegfried di fare l’ambasciata … Se rifiuta pregatelo gentilmente che faccia questo viaggio per amore di vostra sorella. Il buon re è subito d’accordo e fa chiamare Sigfrido: Stiamo avvicinandoci al mio paese; mi occorre di inviare un messaggero alla mia cara sorella55 e a mia madre, per annunziare la nostra venuta … andate per amor mio e amor di Crimilde, la bella fanciulla, che ve ne sarà grata pur lei. Tanto basta a convincere l’indeciso Sigfrido: Ditemi ciò che volete e sarà riferito; lo farò volentieri per la bella fanciulla … Gunther ha ottenuto lo scopo: Dite allora a mia madre56, Ute, la regina, che io sono molto contento di questo viaggio. Date ai miei fratelli e ai miei amici la notizia che ho preso moglie … E non tacetelo alla mia bella sorella … e dite pure ai miei servi e ai miei sudditi … L’arrivo di Sigfrido a Worms con soli ventiquattro cavalieri e senza il re, fa temere il peggio57 a tutti, parenti e sudditi in angosciata attesa. I fratelli del re sono i primi ad incontrare Sigfrido e si spaventano non vedendo il re. Il nobile messaggero li rassicura e chiede di poter vedere la regina Ute e Crimilde. Giselher, l’adolescente, è consapevole anch’egli delle leve efficaci con Sigfrido: Fatevi annunziare a loro. Voi rendete un grande servigio a mia sorella. Ella è molto in pensiero (per mio fratello). La fanciulla vi vedrà volentieri, ve lo garantisco. Avvisate, le nobili donne andarono tosto ad abbigliarsi. Sigfrido viene ricevuto a corte e delle due donne in lacrime, è Crimilde, non Ute, che gli parla: Benvenuto, signore Siegfried, eroe senza pari. Dove è rimasto mio fratello Gunther … Temo che sia stato vinto dalla forza di Brunilde, Ahimè … Datemi il pane dovuto ai messaggeri58: voi piangete inutilmente, belle signore … I due sposi mi hanno inviato qui con la notizia … non piangete più; verranno tra poco. Crimilde asciuga i suoi begli occhi col lembo
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Hybris e Secolarizzazione Nel Nibelungenleid della candida veste e fa sedere Sigfrido59: Non mi spiacerebbe offrirvi come premio del messaggio il mio oro. Ma voi siete troppo in alto, e non posso che dirvi che vi sarò sempre grata. E se anche possedessi trenta regni – disse egli – riceverei volentieri il dono dalla vostra mano. Crimilde gli fa dare dal suo camerlengo ventiquattro fibbie d’oro con pietre preziose e Sigfrido subito le distribuisce alle donzelle presenti nella sala. … il colore che la gioia le aveva dipinto sul viso si accrebbe … Se Crimilde avesse potuto farlo, lo avrebbe baciato60. I preparativi per l’arrivo degli sposi è grandioso e la festa di nozze che segue sono quanto di meglio ci si possa aspettare in fatto di lusso e vanità: oltre alle scontate vesti, selle di oro rosso, pietre preziose sulle redini, addirittura sgabelli d’oro per facilitare alle donne il montare a cavallo: se uno non ne fosse rimasto incantato, avrebbe dimostrato di possedere scarso intelletto. Decima avventura L’arrivo del re e di Brunilde viene atteso sulle rive del Reno … i cavalieri reggevano le redini dei cavalli delle donzelle … Certo non furono mai vedute tante donne insieme in una festa di corte … Gunther discese dalla nave coi suoi ospiti … conduceva per mano Brunilde. Magnifiche vesti e gemme brillavano dappertutto. Dama Crimilde s’avanzò … a ricevere Brunilde … scostarono le loro cuffie e i loro veli … si baciarono … Si abbracciarono parecchie volte … Più volte esse ribaciarono la dolce bocca. … nella bellezza loro non c’era finzione, non c’era inganno. Dopo i soliti giochi cavallereschi, interrotti cortesemente da Hagen su invito del re perché le belle fanciulle fossero risparmiate dalla polvere, all’arrivo della frescura del tramonto, il corteo si avviò verso il castello. Il re volle andare a tavola con i suoi ospiti. E a tavola, ai nostri occhi siede per la prima volta, ignota al poeta e ai suoi personaggi, anche Némesis61. Mentre Gunther si accinge a lavarsi le mani con l’acqua servita dai camerlenghi (ciambellano, l’addetto alla camera o al tesoro del re) in coppe di oro rosso, Sigfrido gli si avvicina e gli ricorda la promessa fattagli.
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Avete ragione a rampognarmi, né con mano o parola io voglio mancare alla parola data … e tosto comandò che Crimilde fosse condotta sul posto. Giselher gridò: … Crimilde resti sola davanti al re. Nella sala si fece un silenzio attento … Brunilde venne a sedersi. Gunther dà Crimilde a Sigfrido: … mia nobile sorella, la parola ch’ io diedi mantienila … Io ti promisi un giorno a un guerriero … … fratello mio … io devo obbedirvi. Comandate … accetto lo sposo … che avete scelto … Circondati dalla cerchia più ristretta dei parenti, Sigfrido e Crimilde si scambiano la promessa di fidanzamento. … Poiché Siegfried a lei s’ era promesso, ed ella s’era promessa a lui, poteva abbracciare la donzella; e tosto la prese fra le braccia, e baciò la dolce faccia in presenza degli eroi. Crimilde e Siegfried siedono al posto d’onore: la festa di Brunilde è ora la festa di Crimilde. Ma non è questo che turba la donna, che già porta la corona di regina. Brunilde, per ben altro motivo, scoppia in lacrime davanti a un Gunther sorpreso: Che avete sposa mia? … Dovreste rallegrarvi piuttosto. A voi sottomesso è il paese con molti eroi … Piangere dovreste voi, signore; per causa di Crimilde il mio cuore è contristato, là presso il suo vassallo la vedo stare a mensa e del suo avvilimento devo ancora piangere … la sua casta bellezza mi fa pena per lei; tanto che se potessi io fuggirei di qua. Concedendo Crimilde ad un vassallo, e per tale ormai Brunilde conosce Sigfrido, Gunther avvilisce e umilia la sorella. Per Brunilde la variazione di rango immotivata, sia verso l’alto che il basso, è inammissibile, corrisponde a venir meno ad un compito, tradire se stessi ed il destino, sottrarsi ad una volontà superiore. … lo giuro, non sarò vostra moglie se io non so la ragione per cui ella lo toglie a sposo. Gunther deve rivelare a Brunilde che Sigfrido è re quanto lui, ma non dice altro. Brunilde resta immersa nei suoi pensieri. Il pranzo ha termine, cominciano i tornei. Gunther è impaziente di ritirasi nel talamo con Brunilde e prega gli ospiti di interrompere i giochi. Alla luce dei lumi portati dai camerlenghi le due
Piero Di Prinzio coppie raggiungono le camere da letto. Crimilde e Brunilde si incontrano sulle scale ancora come amiche. La notte di Sigfrido e Crimilde è una notte felice. Non altrettanto quella di Gunther. Quando il re tenta l’approccio amoroso, Brunilde si adira e lo respinge: … Ciò che è nei vostri desideri non può accadere. Desidero rimanere vergine. Prendete nota di ciò … e sino a quando non avrò notizie più precise. Il re Gunther rinnova il tentativo, evidentemente con la forza, tanto che rovina la camicia da notte della regina. Brunilde si toglie una cintura62 che ha ai fianchi e con essa lega Gunther, mani e piedi insieme, e nudo lo appende così ad una parete. A nulla valgono le preghiere e le promesse del re: Gunther resterà appeso fino al mattino, mentre Brunilde si addormenta tranquillamente. Alle prime luci del giorno, Brunilde libera Gunther e gli concede di rimettersi a letto, ma senza sfiorarle nemmeno la camicia: Ora … è per voi fonte di dolore se i vostri camerlenghi vi trovassero così legato e per mano di una donna. Al mattino le due coppie, entrambe incoronate, si recano alla messa cantata per la consacrazione. Seguono i soliti tornei. Ma il re Gunther se ne sta in disparte, … triste qualsiasi cosa gli altri facessero. Sigfrido che ben conosce sia il carattere e la forza di Brunilde che l’inadeguatezza di Gunther, sa già cosa rattrista il re. Gli chiede comunque come abbia passato la notte. E Gunther lo fa partecipe: Vi metterò a parte del mio malanno. Ho invitato a casa mia una perfida diavolessa … Mi sollevò in aria e mi legò ad un chiodo alla parete … e come se ne giaceva dolcemente sul letto prima di sciogliarmi … Sigfrido è pronto ad aiutare: … Questa notte ti faciliterò quello che ti sta a cuore … Anche Brunilde deve, questa notte, essere la tua donna. Questa sera verrò nella tua camera nascosto nella mia cappa magica … Obbligherò la tua donna ad essere tua … Sigfrido per primo e Gunther appresso a lui rilanciano nella partita, senza speranza, con Hýbris e Nèmesis. A Gunther è caro l’onore più che la vita della donna che dice di amare: Purché tu non la possegga, la mia cara donna,
sono d’accordo su ogni altra cosa. E se tu63 dovessi anche ucciderla, ti assicuro che non ti punirò. È una donna terribile. Gunther e Sigfrido perfezionano il piano e, giunto il momento, dal re impazientemente atteso, di ritirarsi nel talamo, nella stanza, invisibile è presente anche Sigfrido. Il re spegne tutte le luci e nasconde le candele; ed è l’altro, Sigfrido, l’unico in fondo legittimo e degno consorte di Brunilde, a coricarsi a fianco della regina. Questa pensando di rivolgersi a Gunther, lo avvisa: Re Gunther, affinché non ne abbiate a soffrire, lasciamo le cose come ieri … Ma Sigfrido, in silenzio, l’abbraccia e Brunilde lo butta fuori dal letto con tanta forza che l’uomo, cadendo dall’alto letto, batte la testa sullo sgabello che si usa per salirvi. Sigfrido risale sul letto e ritenta, lacerando la camicia della donna. Brunilde si erge: Non vi si addice di lacerare la mia camicia così bianca. Non possedete cortesia. Vi accadrà qualcosa di male … Brunilde stringe in un ferreo abbraccio colui che, nel buio, crede essere Gunther, lo schiaccia contro la parete ed i mobili, gli stringe le mani con tanta forza che Sigfrido sanguina dalle unghie e teme per la sua stessa vita, e ancor di più per il suo narcisismo maschile: … debbo io perdere la vita per questo, una sola donzella ed, allora, ogni donna in futuro potrà starsene orgogliosa di fronte all’uomo … Siegfried … si vergognò di essere tenuto in iscacco e cominciò ad irritarsi … Allora egli obbligò questa magnifica donzella … la schiacciò contro il letto in modo che gridò fortemente … le procurò grande dolore … Ella si portò la mano ai fianchi dove aveva la cintura … ma la mano di lui la impedì in modo tale che le membra e tutto il corpo di lei scricchiolarono. Brunilde si arrende a colui che crede Gunther, stranamente pensa di venire uccisa: … Nobile re, risparmiami la vita … Non mi oppongo più al tuo nobile amore64. Ho esperimentato che tu65 sai essere signore di donne. Brunilde resta inerme sul letto. Sigfrido ha ottenuto ciò che, con Gunther, si è prefissato. Eppure non è sazio, vuole strafare. Si macchia del peccato di hýbris, compiendo un atto inutile,
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Hybris e Secolarizzazione Nel Nibelungenleid mosso solo dalla tracotanza: mentre si alza facendo finta di spogliarsi, toglie a Brunilde la cintura, e simbolicamente ne avrebbe ragione66. e un anello d’oro67; e non li dà a Gunther, che nel buio si sostituisce a lui, ma li tiene per sé, con l’intenzione, anch’essa palesemente ibrida, di donarli a Crimilde68. Sebbene la cintura e l’anello siano in fondo suoi, perché a lui il destino li ha in altra vita, quella vera, assegnati, sarà proprio quest’atto a perdere Sigfrido; Némesis non dimentica, non il furto ma la parziale rivendicazione, e gli presenterà in un lontano futuro, quando il tempo parrebbe aver sfumato e dimenticato la colpa, il conto. Così il re e la bella donzella si giacquero accanto. Egli si comportò verso di lei come si addice a chi ama ed ella doveva rassegnarvisi con vergogna e con dolore … svanì per effetto d’amore la sua grande forza. Dopo di ciò ella non era più forte di qualsiasi altra donna … Questo aveva fatto Gunther prendendo possesso di lei. Dopo quindici giorni di festeggiamenti, il re sopportò molta spesa per questo festino così imponente, gli ospiti ben sazi di cibo e di doni, si congedano dalla corte burgunda. Anche Sigfrido, con la sua bella Crimilde ignara dei retroscena, si prepara a mettrersi in viaggio verso Xanten.
Bibliografia e Note 52. Brunilde è ormai convinta che Sigfrido è solo un vassallo di Gunther. La domanda a Gunther, più che esprimere. la nuova condizione di donna non più indipendente, sembra essere la richiesta di un’altra ulteriore conferma della condizione di Sigfrido. 53. Tipica arroganza del servo, che si sente forte del potere del padrone, come se la forza, in realtà di questi, fosse sua. 54. Le donne maritate sono ottantasei, lo stesso numero delle torri di Isenstein. 55. Gunther fa sembrare il messaggio come destinato principalmente alla sorella, che precede nell’invito la stessa regina madre. 56. Una volta che Sigfrido ha accettato, Gunther ristabilisce l’ordine gerarchico e Crimilde passa
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all’ultimo posto, addirittura subito prima dei servi e dei sudditi e con formula negativa ( non tacetelo ), quasi ormai compito accessorio e facoltativo. 57. La convinzione ed il timore che il re sia morto, rivelano la consapevolezza di ognuno di quanto l’aspirazione di Gunther a prendere Brunilde come moglie fosse superiore alle sue forze, dunque un peccato di arroganza e di tracotanza, di Hýbris. 58. Il premio per i messaggeri di buone notizie era inizialmente del pane. Il compenso in preziosi è l’uso attuale. 59. I messaggeri assolvevano al loro compito restando sempre in piedi. Far sedere Sigfrido è atto di particolare riguardo, quasi un non consideralo un messaggero. 60. Il bacio di cortesia per la donna, comunque sulle labbra,era ammesso solo in pubblico e col permesso del tutore. In privato, come qui nella camera delle donne, avrebbe rivestito un significato di grande intimità. 61. Indicativa l’associazione di questa ninfa preellenica, altrove chiamata Leda, con il cigno dalle bianche piume che le è sacro e con il melo, un ramo del quale stringe nella mano. Dea della morte e della vita partorì a Zeus, che la violò trasformato in cigno, Elena. Da “debita esecuzione”( l’uccisione del re sacro) divenne in epoca più tarda “vendetta divina”. Dall’ epoca omerica rappresentò la spinta a pagare i propri debiti e a portare a termine il proprio compito. Detta Adrastea “ineluttabile”, è pure una ninfa del frassino ( aspetto che la ninfa assume stagionalmente, nel terzo mese dell’anno sacro) e quindi sorella delle Erinni, come la stessa Afrodite, con la cui bellezza quella di Némesis si può paragonare. Cigno, colore bianco, melo, frassino: simboli molto ben noti alla mitologia norrena: il cigno è legato alle Norne e quindi al destino, il cigno ed il bianco sono attributi delle Valchirie, il cigno è l’aspetto animale che le profetiche Ondine assumono frequentemente, le mele della eterna giovinezza appartengono alla dea Idunn, l’albero cosmico Yggdrasil è un frassino, un frassino o un melo sono i tronchi in cui Odino infigge la spada destinata a Sigfrido, il bastone di odino è di frassino, di frassino sono le lance dei Burgundi. 62. La cintura come emblema della verginità, forza
Piero Di Prinzio e autonomia della donna, non è cosa nuova. Valga per tutti l’esempio dell’amazzone Ippolita. 63. L’oscillazione tra il “voi” ed il “tu” è parallelo alla percezione della donna a volte cara e amata e a volt essere demonia 64. È arduo scoprire dove risieda la nobiltà di un siffatto amore. Certo non è infrequente imbattersi, nella pratica psicoterapeutica, in donne moderne e autonome che, segretamente, non disdegnano nell’uomo tali tratti di nobiltà. Se sia un retaggio culturale antico, una sociale abitudine perversa o una necessità erotica è difficile dirlo. Credo che, per la gran parte, i meccanismi psichici sottesi siano identici a quelli della Sindrome di Stoccolma. Mi chiedo se esista oggi anche una figura giuridica di “signore di donne”, che legittimi una aspirazione così diffusa nel mondo maschile. 65. Anche qui si è passati ora al “tu”, mentre più sopra Brunilde si è rivolta al presunto consorte con il “voi”. co: si passa cioè da un formalismo corretto ma falso ad una intimità informale e scorretta ma schietta. 66. Togliere la cintura corrisponde a togliere la verginità. 67. Nella saga dei Volsungar è Sigurdr che dà invece a Brunilde l’anello di Andvari. 68. Sigfrido racconterà ogni cosa a Crimilde quando la donna è ormai regina a Xanten, donandole e la cintura e l’anello. Nella lite, successiva di ben dieci anni, con Brunilde, Crimilde mostrerà alla regina burgunda proprio l’anello, a riprova della superiore dignità di Sigfrido.
Piero Di Prinzio: Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1981, nel 1993 ha ottenuto il riconoscimento dell'attività psicoterapeutica (Legge 18.2.89 n.56). Dal 2003 al 2005 ha insegnato, in qualità di Docente a Contratto, Antropologia Culturale nel Corso di Laurea Specialistica in Psicologia Dinamica e Clinica della Personalità, presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di L’aquila. Dal 2009 è titolare dell’insegnamento di Antropologia Culturale, Mitologia e Religioni presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia ATANOR ad indirizzo Analitico di L’Aquila, riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Svolge dal 1982 come libero professionista in Chieti l'attività di Psicoterapeuta
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L'Anima Fa Libro
L’IDEA
DI SCRIVERE UN LIBRO SULL’OMOSESSUALITÀ NASCE DALLA MIA ATTIVITÀ PRESSO L’ASSOCIAZIONE IL
FILO DI
ARIANNA. NEL
CORSO DEGLI ANNI, HO AVUTO MODO DI SCOPRIRE QUANTO FOSSE INADEGUATO,
PRESSOCHÉ IN TUTTE LE PERSONE INCONTRATE, IL LIVELLO DI CONOSCENZA E DI COMPRENSIONE DEL SIGNIFICATO PSICOLOGICO DELL’OMOSESSUALITÀ.
MA
LA SCOPERTA PIÙ STUPEFACENTE È STATA, PER ME,
CONSTATARE CHE L’INCOMPRENSIONE, LA DIFFIDENZA E PERFINO L’OMOFOBIA NON ERANO PATRIMONIO ESCLUSIVO DEGLI ETEROSESSUALI, MA VENIVANO, MAGARI INCONSCIAMENTE, CONDIVISI ANCHE DAGLI OMOSESSUALI.
QUESTA COLLUSIONE TRA LA DISCRIMINAZIONE OGGETTIVA E L’OMOFOBIA INTERIORIZZATA DI CHI HA UN DIVERSO ORIENTAMENTO SESSUALE PERMETTE CHE VI SIANO, ANCORA OGGI, IN OCCIDENTE, UOMINI E DONNE RIDOTTI AL DOLORE DALL’IPOCRISIA E DALLA PAURA DEL DIVERSO. CONTRO OGNI PRINCIPIO DI LIBERTÀ E CONTRO OGNI SENTIMENTO DI UMANITÀ. QUESTO LIBRO NASCE DAL DESIDERIO DI RISCATTARE IL DOLORE DI CHI VIVE NELLA DISCRIMINAZIONE E DALLA VOLONTÀ DI ACCENDERE UNA LUCE DI CONOSCENZA NEL BUIO DELL’IGNORANZA. FLAMINIA NUCCI FLAMINIA NUCCI
TERAPIA ANALITICA DI MILANO (LI.S.T.A.), LA CUI ATTIVITÀ FORMATIVA E DIDATTICA SI FONDA SUL PENSIERO E LA PRASSI CLINICA DI CARL GUSTAV JUNG. È SOCIA FONDATRICE E PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE «IL FILO DI ARIANNA», CHE SI PREFIGGE DI CREARE OCCASIONI DI INCONTRO, RICERCA E DIBATTITO SULLE ESPERIENZE DELL’ANIMA UMANA, OGGI. PITTRICE E STUDIOSA DELLA POTENZA AUTORIPARATRICE E COSTRUTTIVA DI OGNI GESTO CREATIVO, VIVE E LAVORA A MILANO.
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SI È DIPLOMATA ALLA
LIBERA SCUOLA
DI
In Anima-Azione
“Il tuo occhio non si muova a compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede” (Deut 19, 21)
Cartonista: Gillio Mechelon di Malines, arazziere: Jan Raes, Sansone squarta il leone, 1629, Duomo di Cremona
L
’immaginario di origine archetipica costituisce il fondamento palpitante e creativo della psiche a partire dal quale gli uomini hanno dato forma ai miti, all’arte e perfino alle intuizioni scientifiche. Oggi tuttavia viviamo tempi in cui il nostro rapporto con le immagini interiori è minacciato dagli effetti dilaganti dei loro surrogati, i “vitelli d’oro” della cultura narcisistica e consumistica. L’uomo contemporaneo non si attarda più ad interrogare le figure affioranti dall’inconscio, ma si atteggia come se, spregiudicato signore del mondo e del tempo, non avesse necessità di ascoltarle. Viviamo così il
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paradosso di una “cultura dell’immagine” che rischia però di smarrire il collegamento con il potenziale trasformativo dell’immaginario psichico più autentico. I poeti sono sempre stati in prima fila nel professare il turbamento e il dolore per questa perdita: Il pensiero è aberrante per natura. Era frenato un tempo da invisibili Numi, ora gli idoli sono in carne ed ossa e hanno appetito. Noi siamo il loro cibo.1 Tenersi desti al linguaggio delle immagini psichiche, rappresenta un autentico nutrimento per
Raffaele Toson
l’anima dell’uomo e serve alla sua individuazione. Le figure e le narrazioni mitiche, in particolare, vivificano la sensibilità verso il mondo interiore e quello esterno, perché ci dispongono ad una relazione poetica e sacra con l’istinto e con la natura, mentre la loro perdita ci invita (o costringe) a trattarli con brutalità. Come è noto i racconti mitologici non hanno autori identificabili. Essi si sono costituiti collettivamente e oralmente per l’addensarsi in forme narrate delle rappresentazioni (sogni e revêrie) che originavano dalle esperienze psicosomatiche degli antichi. La trasmissione orale preservava il mito dalle strettoie della scrittura: la finitezza semantica della parola fissata e la cristallizzazione in una stabile struttura narrativa. Quando però un mito diventava scritto, come è accaduto per le Scritture, cessava di trasformarsi. Il popolo ebraico, infatti, fin dal primo esilio, aveva cementato la propria identità culturale e religiosa nella Tōrāh che divenne la sua patria di carta.2 La Bibbia consentì in tal modo ad ogni ebreo di riconoscersi in una narrazione condivisa. Per queste esigenze di unità politicoreligiosa, confluirono in essa molti racconti del mondo ebraico arcaico e fu precocemente fissato un testo scritto, fonte di una incessante ermeneutica (i midrashim). La psicologia analitica ci ha reso familiare la lettura in chiave mitologica dei nostri complessi personali. Essa ha però fatto riferimento quasi esclusivamente alla mitologia greca. Per secoli il testo biblico è stato escluso dal novero delle altre mitologie. Questa esclusione è scaturita in gran parte da motivi di ordine religioso: il giudaismo il cristianesimo, considerando le Scritture al tempo stesso come libro rivelato e come libro storico, hanno trattato le altre mitologie alla stregua di forme di religiosità immatura o degenerata. Si aggiunga, sul fronte dell’ebraismo, che l’anatema di Mosè contro gli idoli, aveva represso le aspirazioni del popolo ebraico alla rappresentazione di immagini. Per l’uomo ebraico, il termine “tselem” (immagine) ha un potente significato, perché evoca la presenza reale di chi è rappresentato. L’uomo, che è stato oggetto di questa presentificazione, in quanto creato da Dio betsalmenu kidemutenu (a sua immagine e somiglianza), non può arrogarsi il diritto di fare altrettanto. Da queste limitazioni, il testo biblico ha cominciato ad affrancarsi a partire da letture
eretiche e panteistiche come quella di Giordano Bruno o dalla critica biblica relativizzante di Spinoza. Sono seguite nei secoli successivi le analisi formulate dalle dottrine economicopolitiche, le ipotesi antropologiche, fino all’esegesi femminista. Oggi anche per molti teologi la lettura simbolica della Bibbia non è più un tabù. Come ha affermato Ricoeur,3 è sì necessario liberare la religione dalla sua mitologia artificiosa, ma per recuperare il suo mito originario e trascendente. Dovremmo allora tenere sempre più in considerazione anche la parte giudaica delle nostre origini di uomini occidentali. Essa è ricca di figure e storie indispensabili per alimentare il nostro dialogo con l’inconscio e sarebbe una sorta di amputazione psichica collettiva il non farvi ricorso. In un’ottica junghiana, come è noto, il mito dell’eroe è la rappresentazione di un uomo semidivino. La sua nascita, infatti, è prodigiosa oppure l’eroe è il figlio di una divinità. Egli deve superare delle prove, come la lotta contro il drago, che hanno il significato di emancipazione da una Grande Madre e di liberazione della coscienza dall’egemonia degli istinti. In una fase successiva l’eroe ha il compito di integrare le energie spirituali e ciò avviene spesso attraverso il sacrificio finale (sacrum facere) e la divinizzazzione che ha il significato di compimento del Sé. L’eroe paradigmatico dell’Occidente è Eracle, che si colloca a cavallo del passaggio dal matriarcato al patriarcato a partire dall’antica civiltà cretese. Per secoli il mito di Eracle fu il collettore di racconti orali, aventi per tema sfide con fiere e mostri, prove di coraggio e imprese epiche. Ciò avvenne probabilmente durante le età del bronzo e del ferro, fino al pieno sviluppo del mito intorno al VII secolo a.C., quando cominciò ad essere fissato in forma letteraria e iconografica (lo stesso periodo, come vedremo, al quale risale probabilmente la stesura della storia di Sansone, nell’ambiente sacerdotale deuteronomista). Lo scopo di questo breve lavoro è quello di proporre alcune riflessioni amplificative sulla figura di Sansone, una versione giudaica del mito classico dell’eroe, per valorizzarne i caratteri specifici. Nel panorama biblico la storia di Sansone presenta alcune interessanti peculiarità. Essa occupa ben quattro capitoli del Libro dei Giudici (13-16), la cui stesura è stata attribuita a Samuele. Vi si
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narrano le vicende che vanno dalla sua nascita alle lotte e agli amori della sua movimentata esistenza, fino alla morte drammatica. A poche figure è riservato un analogo trattamento nella Bibbia: in genere i personaggi vi fanno la loro comparsa solo per il tempo necessario ad assolvere alla funzione per la quale l’autore li ha chiamati in causa. Il Libro dei Giudici appartiene ai cosiddetti Libri Storici della Bibbia. Si tratta con molta probabilità di “storie” scritte in epoche diverse la cui redazione finale avvenne sotto l’influenza della tradizione sacerdotale deuteronomista che rifletteva la situazione politico-religiosa del VII-VI secolo a.C. A quel tempo, alla monarchia d’Israele si presentavano due esigenze. La prima, di natura religiosa, era quella di raccordare la condizione del popolo ebraico dell’epoca monarchica alle narrazioni del Pentateuco, attribuite a Mosè. Occorreva spiegare, con una certa coerenza teologica, che il popolo prediletto da Dio era diviso e sottoposto all’occupazione da parte di popoli stranieri perché non aveva rispettato il patto con il Signore. La seconda esigenza della monarchia era quella politica di fissare un’epopea che legittimasse le ambizioni territoriali d’Israele. Gli estensori della storia dei Giudici e di Sansone dettero risposta a queste esigenze con una storia scritta ad hoc, attingendo ad una tradizione orale custode sia di eventi realmente accaduti che di narrazioni mitologiche con un fondamento archetipico. Nel Libro dei Giudici, il popolo ebraico va puntualmente incontro all’ira divina ogni volta che si allontana dal Signore che, per aiutarlo nel ravvedimento, fa sorgere tra la sua gente dei Giudici capaci di ricondurlo sulla retta via. I Giudici (shofetìm) di cui si parla in questo libro non amministrano la giustizia, ma sono personalità influenti per la loro autorevolezza ispirata da Dio. Sansone è uno di essi e spicca per essere brutalmente bellicoso e integralmente votato al disegno del Signore. I nemici contro i quali combatteva Sansone per la supremazia territoriale erano i filistei, un popolo di origini indoeuropee proveniente dal mare (il nome “Palestina” deriva proprio da “filistei”). Questi abili navigatori, una volta stabilitisi nelle terre di Canaan, avevano assunto i culti di preesistenti divinità canaanee. Gli ebrei invece, nomadi e pastori unificati sotto il culto di Yahweh, talvolta cedevano all’influenza di potenti dee madri
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straniere, divinità della terra e della fertilità, assenti da tempo nella loro tradizione. Queste apparivano loro molto più attraenti dell’esigente Dio di Mosè. Per la tradizione sacerdotale deuteronomista, i molti peccati di quest’epoca che facevano arrabbiare il Signore, erano dunque peccati di apostasia scatenati dal richiamo delle divinità straniere sul suo popolo. In questo contesto, Sansone rappresentava l’espressione violenta e santificata di una spinta unificatrice politico-religiosa che, per realizzarsi, doveva sconfiggere i vicini filistei. La sua nascita, come accade agli eroi mitologici, presenta aspetti prodigiosi. Egli è annunciato alla madre sterile da un angelo del Signore. L’angelo rivela che egli sarà consacrato (nazir) al Signore già dalla nascita, e consegna alla madre le prescrizioni che dovranno essere rispettate fin dalla gravidanza per non contaminare la sacralità di quel figlio speciale. Quello della predestinazione è un concetto patriarcale spesso presente nella Bibbia come sottolineatura della sovranità assoluta di Dio sull’uomo e, in particolare, del diritto divino sul primogenito che i genitori devono riscattare attraverso un sacrificio, come puntualmente fanno i genitori di Sansone. Nazireo era un uomo o una donna, che si consacrava completamente al servizio di Dio per un periodo prestabilito, come è precisato nel libro dei Numeri (6, 1-21). Le regole che i nazirei erano tenuti ad osservare proibivano di bere vino, di tagliarsi i capelli e di avere contatti con ciò che era impuro. Per l’uomo ebraico era impuro toccare una donna mestruata, un cadavere o le sacre scritture con le mani nude, non secondo il nostro concetto di impurità, ma perché aventi a che fare con il grande mistero della vita e della morte che non può appartenere all’uomo. Trascorso il tempo di consacrazione stabilito, il taglio dei capelli e l’offerta di un sacrificio ponevano fine al nazireato. In Sansone hanno carattere mitologico tanto la nascita quanto il rapporto magico tra la sua forza sovrumana e la sua chioma intonsa, attributo della potenza solare, della vitalità rigogliosa, della regalità leonina, ma anche segno di spiritualità e purezza presso i popoli nomadi. I capelli di Sansone simboleggiano la forza e lo spirito donatigli dal Signore. Sansone è un nazireo particolare, consacrato fin dalla nascita e per tutta la vita. Proprio l’annuncio
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dell’angelo però, se da un lato imprime il segno di Dio nella sua esistenza, dall’altro non gli conferisce una natura semidivina. La presenza di un messaggero sottolinea, infatti, la separatezza Dio-uomo e circoscrive il senso di onnipotenza infantile dell’eroe. Consapevole che la sua forza non gli appartiene, essendo emanata dallo spirito (rùach) del Signore, egli compie il percorso inverso a quello fatto dall’angelo annunziatore quando invoca da Dio il vigore perduto per distruggere il palazzo che lo seppellirà insieme con i filistei. Sansone, il consacrato, pur disponendo di una forza sovrumana, rimane dunque essenzialmente umano. La sua figura rappresenta l’uomo-eroe di una cultura definitivamente monoteistica e patriarcale, nella quale non regnano più una Grande Madre né un pantheon di divinità, ma dove il mito originario della creazione ha sancito una precisa distanza tra un Dio-padre e l’uomo, sua creatura. Sansone ha una duplice paternità che scaturisce dal padre naturale e da un grande padre trascendente. Questa ridondanza del tema paterno conferisce al suo nome il carattere di un patronimico. Il nome Sansone, infatti, significa “piccolo sole”. In ebraico Shimshòn ha la radice di shèmesh, il sole, che infonde in lui le qualità del principio divino, solare e maschile: forza, calore, ma anche energia distruttiva. Nel caso di Sansone, per paternità del Signore intendiamo una categoria psicologica e non un teologema dal momento che, nell’ebraismo, Dio è sì creatore dell’uomo, ma non viene dato grande risalto al suo ruolo paterno, come avviene invece nel cristianesimo. Che Sansone sia psicologicamente un “figlio del padre” è avvalorato dal fatto che, nel testo biblico, pur essendo narrata la sua nascita straordinaria, non viene detto il nome della madre, ma solo quello del padre, Manoach, della stirpe di Dan. Nelle Scritture, anche se per l’ebraismo la filiazione spirituale è matrilineare, quello che conta è quasi sempre il figlio. Eppure la madre di Shimshòn dovrebbe essere una figura molto importante, se nella sua vita di infertilità, irrompe questo “piccolo sole” destinato a servire il popolo di Israele e a glorificare il Signore. Da questa ridondanza di paternità discende l’eccedenza dei suoi caratteri maschili, come la combattività inesauribile e la violenza sanguinaria. Questi aspetti esprimono la radicalizzazione del patriarcato che, disincagliatosi dal dominio magico-
arcaico del matriarcato, imperversa secondo le sue leggi archetipiche ancora non sufficientemente umanizzate e compensate dall’integrazione del femminile. Le imprese di Sansone si inscrivono in un contesto tribale, dove inevitabilmente si impone il più forte. Egli ha il carisma animalesco della forza bruta, alla stregua di certi leaders violenti e un po’ psicopatici delle bande adolescenziali. Questo temperamento aggressivo non gli impedisce di rivestire il ruolo di Giudice, esattamente come il capo di un gruppo di maschi adolescenti è il più forte ma anche il più ascoltato. Sansone dunque è il campione del fare storia per il Signore, secondo la concezione ebraica del rapporto tra Dio e storia. Come ci ricorda De Benedetti: Che cosa ha detto Dio sul Sinai? (…) ha dichiarato: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” (Es 20, 2). Ha fatto cioè una teologia storica, non metafisica o cosmogonica. A essa segue il Decalogo, ossia una serie di comandi e divieti. In altri termini, potremmo dire che Dio si rivela come volontà, una volontà che ordina all’uomo di ‘fare’. 4 La brutalità dell’azione di Sansone, dopo il passaggio antropologico dal matriarcato al patriarcato, è necessaria per superare il primo e consolidare il secondo, riducendo la dispersione e l’arcaicità delle risorse legate al nomadismo. In questo senso egli rinforza con la violenza il monoteismo, sia come principio creatore e organizzatore, in opposizione ai richiami delle Astarti matriarcali, sia come paradigma della centralizzazione del potere politico (il Giudice prima, il monarca poi) e psicologico (la coscienza, la volontà). In un patriarcato ancora instabile, egli opera, da un punto di vista del collettivo, non per un rovesciamento dei significati in campo, ma per un loro rafforzamento, tanto che l’epoca dei Giudici prepara il terreno alla monarchia, la definitiva strutturazione in forma politica del principio patriarcale. L’angelo che ne annuncia la nascita ha dunque il senso di circoscrivere il senso di potenza di Sansone, riconducendone la forza ad un’origine sovrapersonale: è il medium di un annuncio, ma anche di una separatezza. L’uomo viene così definito nei suoi limiti creaturali e, al tempo stesso, è protetto dal rischio di essere inflazionato
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dal senso di onnipotenza. Analogamente, nell’evoluzione psicologica dell’individuo, il principio paterno contribuisce, insieme al principio di realtà, al ridimensionamento dell’onnipotenza che il bambino ha potuto sperimentare nel rapporto edenico con la madre. Il padre scompone la diade madre-bambino, mostrando al figlio l’orizzonte extramaterno delle norme e del collettivo e prospettandogli il tema spirituale. Per il bambino questa progressiva rinuncia ai vissuti di onnipotenza è parallela ad una sempre più precisa percezione di sé in relazione al mondo reale. Se questa transizione giunge a compimento, le energie e l’aggressività si mobilizzano da un modo arcaico e irriflesso di funzionamento per orientarsi verso mete evolutive interne e verso obiettivi realistici esterni. Sansone, pur rappresentando un maschile ancora arcaico e brutale, esprime anche una coscienza egoica già differenziata che muove da un articolato spettro di motivazioni, alcune di natura personale (il desiderio, la vendetta), altre di carattere comunitario (il combattente, il Giudice), altre ancora di natura trascendente (il consacrato). Sansone riunisce dunque la dimensione mitologica di eroe patriarcale e quella psicologica, pur turbolenta e “in costruzione”, di soggetto. Alcuni caratteri di Sansone hanno una valenza eroico-trasformativa, anche se egli non percorre integralmente la via della trasgressione come Adamo, Prometeo o Ulisse che, violano il limite imposto dalla divinità. Nella maggior parte dei casi il suo “andare oltre” non è qualitativo ma quantitativo e reitera il tema aggressivo-espansivo che, dopo la trasgressione originaria, adamitica o prometeica, è divenuto la cifra dell’Occidente, dalle conquiste alessandrine all’uomo sulla luna, fino alla bulimia e alla clonazione. Come è noto, la crisi del mito della espansione illimitata si presenta oggi come il grande problema psicologico ed ecopolitico dell’umanità postmoderna. Nella figura di Sansone affiorano anche tratti maschili meno arcaici e brutali. Si va dal suo ruolo politico per il popolo di Israele, alla ricerca come moglie di una donna straniera. Quest’ultimo fatto rappresenta un movimento di rottura del circolo endogamico nella direzione di un’apertura alla relazione personale con l’alterità del femminile. Il percorso tuttavia è infido e il messaggio biblico è chiaro in proposito: se venisse rifiutato il monoteismo patriarcale, le Astarti porterebbero il
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popolo di Israele alla rovina, come Dalila porterà alla rovina Sansone. Sansone, con i suoi caratteri di impulsività, di eccesso, di psicopatia rappresenta l’adolescenza del patriarcato. Egli deve difendere una coscienza già differenziata dalla minaccia del ritorno delle Grandi Madri, minaccia talvolta celata nella fascinazione per una donna. Sansone incarna un maschile parzialmente identificato con il “fallo inferiore”, la clava, ma dotato anche di un “fallo superiore”, i capelli di nazireo che rappresentano le forze spirituali. Neumann ci ricorda che: La minaccia che incombe sul principio ‘superiore’, simboleggiato nella testa e nell’occhio, è strettamente collegata con l’aiuto che l’eroe riceve da ciò che avevamo chiamato ‘cielo’. Questa parte superiore è in lui sviluppata e attiva già da prima che inizi il combattimento (…) Mitologicamente ciò è rappresentato con la sua nascita divina, la sua ‘nascita eroica’; dal punto di vista psicologico corrisponde alla sua disponibilità ad affrontare [le prove] da eroe, e non come un uomo comune inferiore. (…) Esistono castrati ‘in alto’ e castrati ‘in basso’, e molto spesso i fanatici del fallo sono castrati in alto mentre i fanatici della testa sono castrati in basso. Solo se le due zone sono unite c’è una virilità completa.5 É inevitabile allora che la minaccia, per un uomoSansone, sia quella della castrazione a livello della testa, alla quale puntualmente Shimshòn andrà incontro con il taglio dei capelli e con l’accecamento. Cedendo a Dalila, la donnaAstarte, cadrà asservito regressivamente a girare la macina per i nemici filistei. Sansone incatenato e accecato rappresenta la notte dell’eroe solare. Si tratta del necessario ridimensionamento della sua maniacalità accompagnato dall’esperienza depressiva senza la quale non c’è vero cambiamento. Solo alla fine irromperà una palingenesi di senso quando, con il sacrificio di sé, alla discesa del martirio autoprovocato (catabasis) si assocerà il riscatto trasformativo della sua ascesa glorificata (anabasis). Sansone è un eroe vigoroso e traboccante di enérgheia, addirittura un energumeno. In quale relazione si colloca la figura di Sansone con il tema dell’energetica psichica? Sansone, pur
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operando nell’ambito di un disegno del Signore (l’equivalente di energie archetipiche), manifesta anche una libido di tipo personale, come quando desidera una donna del campo avversario o quando agisce mosso da un umanissimo sentimento di vendetta. Su tutto domina però un imperativo che orienta le sue forze: uccidere il maggior numero possibile di vicini filistei. In questo senso, Sansone spende le sue energie per la gloria di un padre trascendente, geloso e irascibile. Sansone dispone di una forza sovrumana, che attinge ad una sfera sovrapersonale (divina o archetipica). Questa dotazione lo rende capace di una impressionante vigore nell’azione, ma essa spesso sfugge al suo controllo, come testimoniano i frequenti eccessi. A livello della psicologia individuale, lo psicosoma può essere potentemente investito dall’eruzione di queste energie che testimoniano l’attivazione di un archetipo. Ciò può accadere, ad esempio, in corrispondenza di alcune fasi dell’esistenza: l’avidità rabbiosa di un lattante che deve affermare la vita o l’impeto travolgente delle pulsioni adolescenziali (il giovane Sansone squarta un leone, quando in lui si destano gli istinti sessuali). Nella psicopatologia possiamo incontrare una condizione analoga negli stati maniacali, nei quali si affievolisce la percezione del limite fisico e psichico mentre la coscienza è sovradeterminata da una energia parossistica che eccede la sua sfera di competenza e la sua capacità di governarla. Sansone è totalmente identificato con il vigore giovanile. Ne consegue un percorso tronco dell’evoluzione maschile perché egli non arriva ad esperire la piena maturità e la vecchiaia, come nel caso di quegli uomini-puer che, incapaci di misurarsi con il limite, muoiono cadendo prematuramente, oppure in quello delle vittime di sfide portate con una presunzione di immortalità (per la psicologia analitica, l’archetipo del puer è caratterizzato da fragilità, amoralità, tensione verso l’alto, autodistruttività, al quale si contrappone quello del senex, l’archetipo dell’ordine, del tempo, della stagnazione, della saggezza). In realtà, se negli uomini-puer il principio maschile è volatile e flebilmente incarnato, in Sansone la corporeità è solida e trionfante: la macchina da guerra è pronta, anche se sa fare solo la guerra. Forse allora più che quella con il puer è appropriata l’analogia con i giovani bulli, campioni della sfida, che rischiano di fare della sfida stessa un tema paranoico senza riuscire a
sviluppare la dialettica vitale con le parti più adulte e riflessive anche quando hanno superato la giovinezza. In questa prospettiva Sansone condivide con Ares la violenza maniacale e l’impulsività che solo l’amore può contrastare. Se Ares, nel mito greco, finisce letteralmente imbrigliato nella rete con Afrodite, anche Sansone, come vedremo, sarà in qualche modo catturato e trasformato dall’incontro con una donna e con il sentimento. D’altra parte nel mondo biblico sono le parole di Dio stesso che in più occasioni chiamano sangue: Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti da in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio (…) come il tuo Dio ti ha comandato di fare. (Deut 20, 16-17) In effetti Sansone non morirà “vecchio e sazio di giorni” come Abramo, Isacco e Giobbe. L’aggressività dell’uomo quando sfugge alla compensazione della sua parte femminile, sconfina frequentemente nel sanguinario delirio patriarcale dove, come nel mito di Crono, il padre divora la sua progenie. La violenza giovanile, impulsiva e sconsiderata, diventa allora complice-vittima di quella senile, avida e lucida, per la troppo radicale dissociazione che si crea tra questi due poli e per l’assenza di rapporto con il femminile. É quanto è accaduto sistematicamente nelle società patriarcali che hanno sempre allevato giovani idealisti ed ardimentosi accanto a e generali cinici e macellai. Al pari di Eracle, Sansone brandisce una sorta di clava, quando con una mascella d’asino scarica la sua furia distruttiva sugli avversari. Già in precedenza Sansone aveva manifestato un comportamento gratuitamente spietato, massacrando senza alcun pretesto trenta uomini, al solo scopo di impossessarsi delle loro tuniche per pagare una scommessa perduta. In questa nuova carneficina, giunta alla fine di una catena di vendette reciproche tra Sansone e i nemici filistei, assistiamo all’imperversare della violenza, dell’ira e della vendetta che frequentano l’Antico Testamento6 fin dalla Genesi. Da questo punto di vista il Libro dei Giudici gronda sangue non meno dell’Iliade. La vendetta è a suo modo un impulso di giustizia, ma è anche uno dei desideri più urgenti che un individuo possa provare. Il suo carattere
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eccessivamente primitivo e personale ne fa un temibile moltiplicatore di violenza. Sansone è mosso sia dalla rabbia per l’offesa subita sia dall’anelito alla giustizia. In altre parole, egli è in bilico tra la condizione di un uomo che vuole vendicarsi individualmente, in preda ad emozioni primitive, e quella di chi, capace di differire le proprie reazioni, può esercitare una mediazione politica per la comunità. Sansone, sia come vendicatore che come Giudice, interpreta i valori fondanti del suo popolo nomade e monoteista avviato verso la relativa stabilità della monarchia, ma in un orizzonte ancora impregnato di forme patriarcali arcaiche e violente. Nel Libro dei Giudici la violenza è messa tutta sul conto di Dio: il Signore la chiede e la giustifica, cosicché l’uomo dell’Antico Testamento non ne porta pienamente la responsabilità. Shimshòn è un uomo del Signore che condivide con l’uomo pagano il diritto alla vendetta, se questa ha l’approvazione di Dio (che addirittura lo aiuta a vendicarsi), diversamente dall’uomo del Nuovo Testamento che, con l’etica del perdono, perde definitivamente questo diritto primitivo ma intensamente vitale. Tuttavia, se il Dio di Sansone approva la violenza, ne ha però circoscritto i limiti per l’uomo (è il legislatore che stabilisce ciò che è legittimo). Dio non permette che l’uomo si faccia giustizia da solo e, già prima delle tavole di Mosè, aveva posto un segno sul fratricida Caino perché nessun uomo osasse ucciderlo. Il Dio di Sansone è ancora il Dio irascibile dei Padri che gioca imperscrutabilmente nella storia dell’uomo, ben lungi dalla formula giovannea “Dio è amore” (1 Gv 4, 8), tuttavia adombra, attraverso la proibizione della giustizia individuale, l’evoluzione verso una giustizia amministrata dalla comunità. Tornando all’episodio della mascella d’asino, è impressionate la spietata arcaicità dell’intervento: come arma c’è un osso robusto, non un manufatto bellico, come azione c’è lo scatenamento di una energia devastante, non una tecnica di combattimento. Torna alla mente una scena del film 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, nella quale degli ominidi scoprono, allo scoccare della prima scintilla di coscienza, che è possibile scaricare una energia distruttiva con un semplice osso raccolto da terra. Nelle mani di Sansone la mascella d’asino, retaggio di lotte arcaiche antecedenti la scoperta dei metalli, è arma
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sufficiente a fare scempio di mille uomini. Il Signore che lo ha investito del suo spirito per la riuscita dell’impresa, a conferma della sua benevolenza e della sua approvazione, fa scaturire l’acqua dalla roccia di Lechi per il ristoro dell’eroe esausto dopo la strage. A quanto pare il curriculum di un eroe antico, ebraico o greco che fosse, richiedeva che egli uccidesse un leone (Eracle ne uccide addirittura due, il leone del Citerone e il leone nemeo). Le finalità psichiche di questa prova sono quella di porre l’aggressività istintuale al servizio di funzioni superiori e quella di integrare la regalità solare come consapevolezza di possedere una energia di tipo speciale, comprendente sia il vigore fisico che il potere della coscienza. Il leone è un simbolo di sovranità, della forza calda e penetrante del sole, ma anche della sua distruttività. Può simboleggiare la giustizia, come i leoni del trono di Salomone, o la forza selvaggia. In molte religioni all’immagine del leone viene associata una energia divina: il Buddha è il leone di Shakya, il Cristo è il leone di Giuda. Questa energia a livello individuale può dispiegarsi secondo una tendenza prevalentemente orizzontale e allora corrisponde ad un tipo di uomo tutto efficacia, vigore e realismo. Altre volte può produrre una tensione verticale, più corrispondente ad un tipo di uomo volto a perseguire finalità ideali o spirituali. Per Sansone la lotta con il leone rappresenta una prova iniziatica giovanile, come quelle nelle quali i giovani maschi avvertono il bisogno di misurarsi con i pari e con la natura. Il problema interno che si presenta loro è quello di integrare aggressività e sessualità sotto il segno della emergente identità maschile adulta e in assonanza con i codici collettivi. Le forze naturali che li sospingono verso queste prove hanno proprio lo scopo di far sentire il vincitore come un giovane leone. In questo passaggio essi sono però inconsci del senso del limite e delle angosce di morte, così come può restare oscurata la pietas, nel senso di clemenza, per le vittime della loro azione. La lotta con una fiera e la sua uccisione è un mitologema maschile che troviamo spesso all’origine delle civiltà avviate al patriarcato. In questa fase l’uomo, deve superare il confronto con quella che Neumann chiama “la Signora degli animali” e che spesso nell’antichità è stata proprio rappresentata come Signora tra i leoni: La potenza della Dea (…) spinge il maschile
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all’attività cruenta della morte. Perciò la Grande Dea, come dea della guerra e della caccia, è per l’uomo anche dea della morte. Essa disumanizza gli uomini con l’incantesimo e li tramuta in belve bellicose, che, come satelliti della Dea, cadono uccidendo. Anche in tale forma essa è Signora degli animali, e la forma orgiastica del suo culto si lega con l’eccitazione delle componenti maschili bellicose e rapaci.7 È necessario che il maschile, attraverso la lotta con la fiera, sottragga il potere su queste energie alla “Signora degli animali”, per diventarne il nuovo depositario. Si tratta, in altre parole, di fare emergere queste forze dall’inconscio e dall’arcaicità, da dove dominano l’uomo, per integrarle ad un livello più consapevole e personale. Questa impresa sul piano simbolico è efficacemente rappresentata dalla vittoria sul leone. Il livello di violenza che si scatena in queste fasi può essere terribile sia a livello individuale che collettivo perché si possono sommare il furore arcaico dell’influenza matriarcale, di cui parla Neumann, alla brutalità del patriarcato nascente, nella confusa alternanza dei due princìpi. È molto importante che in questi confronti le paure non ostacolino troppo la spavalderia dei giovani perché diversamente verrebbero elusi o procrastinati i passaggi iniziatici che devono condurli verso l’adultità, separandoli dall’eccesiva inconscietà infantile e dall’influenza materna. Quando ciò non avviene l’uomo può rimanere imbrigliato dal senso di inadeguatezza nei confronti del mondo maschile che sente troppo minaccioso ed estraneo, o sviluppare un cattivo rapporto con il femminile, che può andare dalla misoginia alla femminilizzazione. Sansone dunque, che già di leonino ha la chioma intonsa, incontra e uccide un leone. Sansone, a differenza di Eracle8, non usa la clava, ma uccide la belva con le sole mani, squartandola come un capretto mentre è sulla strada per Timna, dove si è recato a conoscere la donna filistea di cui si è invaghito. Vi è un particolare significato nel fatto che l’iniziazione alla sessualità sia preceduta dall’uccisione del leone. L’uomo prima di incontrare intimamente il mistero sessuale della donna sente la necessità di un rito di conferma della sua potenza e virilità, in altre parole egli ha bisogno di domare le energie che teme potrebbero dominarlo. Si potrebbe dire che l’identità maschile pone all’uomo il problema di conoscere Ares
prima di incontrare Eros, anche se poi vi è il pericolo di riversare tout court l’aggressività e lo spirito di dominio nella relazione con il femminile, come spesso avviene. In un commento all’Atalanta fugiens, il testo alchemico composto da Michael Maier (1568-1622), si ricorda che: I leoni (…) rappresentano anche i nostri istinti che possono essere minacciosi se non controllati, o repressi se troppo controllati. In entrambi i casi l’istinto verrebbe alienato ed estraniato dalla sua natura. E’ necessario confrontarsi con la nostra anima animalis. 9 . L’incontro tra Sansone e il leone racchiude in sé anche segni enigmatici, destinati allo svelamento nelle vicende successive. Dopo aver conosciuto la donna dei suoi desideri, Sansone, passando presso il luogo in cui era avvenuta la lotta, rinviene nelle spoglie della belva uccisa del miele prodotto dalle api che si erano insediate nella sua carcassa. Nella simbologia della trasformazione ricorre spesso l’immagine di una nuova vita che origina dalla morte di altri esseri viventi. Troviamo un esempio che riguarda le api anche nel mito che narra delle carcasse dei tori che, sacrificati da Aristeo,10 danno origine proprio a sciami d’api. L’espressione antropologica più compiuta dell’archetipo di morte e rinascita è però quella di Cristo, tanto compiuta da realizzare la trasformazione dell’uomo vecchio nell’uomo nuovo -il nuovo Adamo- e da sanare con la resurrezione il conflitto cosmico, presente nel mondo giudaico, tra la vita e la morte. Sansone è stato interpretato dai cristiani come l’anticipatore di Cristo alla luce di una dottrina che riconosce l’esistenza di collegamenti tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Nella Città di Dio Sant’Agostino afferma: “L’Antico Testamento è il Nuovo coperto da un velo, e il Nuovo è l’Antico senza velo”. Alla luce di questa dottrina, Sansone, in particolare nell’annunciazione dell’angelo alla madre, nell’umiliazione e nella morte sacrificale prefigurerebbe il ruolo salvifico e trasformativo di Cristo. Tornando all’episodio del leone, vi è una evidente simbologia trasformativa nel fatto che dalla materia in putrefazione la natura faccia scaturire il miele, il dolce oro alimentare. Non può sfuggire l’analogia con l’alchimia, l’ars transmutatoria che dalla vile materia prima, passando per la dissoluzione e la putrefazione, si proponeva di
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ottenere l’oro potabile dei filosofi e della quale Jung ha evidenziato il parallelismo con i processi psicologici: Non perché crede per ragioni teoriche a una corrispondenza, l’alchimista esercita la sua arte; al contrario egli ha una teoria delle corrispondenze perché fa esperienza viva della presenza dell’idea nella physis.11 Le api sono insetti trasformatori per eccellenza, alchimisti naturali, ma il loro è un lavoro oscuro del quale alla superficie si manifesta solo il prodotto finale, l’oro alimentare. Sansone ne mangia e ciò ha in qualche modo a che fare con una maggior consapevolezza di una analoga trasmutazione che lo attende. La simbologia di questa trasformazione traspare in un enigma da lui proposto: “Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce” e nella sua soluzione: “Che c’è di più dolce del miele? Che c’è di più forte del leone?” (Gdc 14, 14-18). Come in un presagio, in questo episodio costituito dai due incontri con la donna e con il leone, vediamo condensato il senso eroico-trasformativo della figura di Sansone, il figlio prodigioso che deve attraversare la tenebra per tornare alla luce in forma rinnovata. Sansone, il consacrato dalla chioma solare, il frutto della luce divina che ha reso fecondo l’utero sterile della madre, è egli stesso il leone di Timna, destinato per mezzo della propria morte a produrre l’aureo rinnovamento. Il fine trasformativo delle sue peripezie, è quello di trascendere la sua natura di bruto per accedere ad uno stato di coscienza superiore. Sansone uccide con facilità il leone grazie alla forza conferitagli dal Signore, ma successivamente egli contravviene ad uno dei divieti imposti ai nazirei entrando in contatto con la carogna della fiera, l’animale impuro che non può essere mangiato né sacrificato. Questa feconda contaminazione del puro con l’impuro è necessaria perché egli possa accedere in seguito alla contaminazione con il sentimento, scaturita dal sacrificio e dalla decomposizione del vecchio atteggiamento: la forza grezza e irriflessa. La contaminazione con l’anima è l’indispensabile esperienza psichica che, nei panni della donna di Timna e successivamente di Dalila, introdurrà Sansone al confronto con il limite e con il dolore fin nelle sue pieghe più drammatiche: l’umiliazione della cattura, le tenebre dell’accecamento e il sacrificio finale. Solo alla
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fine, infatti, irromperà una palingenesi di senso quando, con il sacrificio di sé, alla discesa del martirio autoprovocato (catabasis) si assocerà il riscatto trasformativo della sua ascesa glorificata (anabasis). Sansone rappresenta inizialmente quel maschile in cui l’azione reattiva prevale sulla coscienza riflessiva e dove l’aggressività ha i caratteri dell’impulsività e della prepotenza. Questo tipo di uomo oscilla, nel rapporto col femminile, tra l’arroganza del dominatore e l’affanno di un analfabeta del sentimento. Il confronto di Sansone col femminile determina un cambiamento radicale: in un orizzonte del fare esclusivamente maschile, dove egli ripete ossessivamente il suo copione senza conoscere sconfitta, è necessario l’incontro con l’anima perché venga mitigata la sua violenza maniacale. Il femminile lo introduce ad un dramma del sentimento fino al punto che, nonostante i suoi trascorsi di agonista, non morirà combattendo, ma in forma sacrificale. Il significato trasformativo, anticipato nell’episodio del leone e del miele, trova infine la sua espressione fatale nel rapporto con Dalila. Il nome Dalila nella lingua ebraica presenta lo stesso valore numerico di “de’a”, la conoscenza12, ma risulta evocatrice anche l’assonanza con il termine “layla”, la notte. É grazie al tormentato rapporto con questa donna che Shimshòn accede alla possibilità di una conoscenza diversa che potremmo chiamare “notturna” in contrapposizione alla sua natura “diurna” di “piccolo sole”. La storia di Sansone e Dalila è stata letta tradizionalmente come una testimonianza della debolezza dell’uomo di fronte alle passioni. La donna vi figura come la tentatrice che può far smarrire l’uomo. Leggiamo nel Qoelet l’espressione epigrammatica di questo giudizio: Trovo che più amara della notte è la donna, la quale è un laccio: una rete il suo cuore, una catena le sue braccia. (Qo 7, 26) Nel pensiero sapienziale13 e nella Bibbia affondano le radici, per i secoli a venire, della concezione della donna come instrumentum diaboli e, più in generale, come portatrice di guai. Nell’Antico Testamento si comincia con Eva che offre all’uomo eros e thanatos; troviamo poi le figlie incestuose di Lot che, dopo aver fatto ubriacare il
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padre, giacciono con lui (Gn 19, 30-38) e ancora la moglie di Giobbe, pronta ad istigare lo sposo a bestemmiare Dio (Gb 2, 9); nel Nuovo Testamento incontriamo Salomè che incanta Erode con le sue danze e ne ottiene la decapitazione di Giovanni Battista (Mc 6, 14-29). Questa attribuzione negativa della donna si è radicata culturalmente, consolidando il pregiudizio antifemminile fondato sul timore che gli uomini associano al mondo delle emozioni e degli istinti, mentre è caduto nell’inconscio il bisogno profondo che l’uomo ha di relazione con il femminile e con l’anima. Il principio maschile, in altre parole, differenziandosi dal mondo inconscio originario, ha allentato i legami che lo univano profondamente ad esso e si è addentrato sempre più nel regno dell’astrazione e del fare. L’uomo ha così estraniato progressivamente da sé la dimensione del profondo e l’ha proiettata sulla donna, alla quale ha però riservato una posizione inferiore. In passato chi ha rivisitato la storia di Sansone e Dalila, lo ha fatto nel segno di questa concezione. Una rappresentazione misogina ha caratterizzato, ad esempio, il poemetto Sansone agonista, composto da Milton nel 1671. Vi si trovano parole aspre e sprezzanti verso la donna: É forse perché tanta estrema grazia fu prodigata sopra il loro sesso, che per fretta rimasero incompiuti i doni più celati. Povero l’intelletto, incoltivato il senso di capire o misurare in una scelta il meglio sì che il peggiore è spesso preferito? 14 Un’altra rappresentazione di femminile spregevole è quella che troviamo in Sansone e Dalila, melodramma ottocentesco di Saint-Saëns, su libretto di Ferdinand Lemaire. Nell’opera, Dalila è una sacerdotessa filistea che non è innamorata di Sansone, ma agisce solo su istigazione del sommo sacerdote. Quando l’eroe incatenato gira la macina tra gli insulti dei filistei, Dalila partecipa cinicamente allo scherno: Souviens-toi de nos ivresses! Souviens-toi de mes caresses! L’amour servait mon projet! Pour assouvir ma vengeance Je t’arrachai ton secret:
Je l’avais vendu d’avance! Tu croyais à cet amour, C’est lui qui riva ta chaîne! 15 Sansone è una specie di macchina da guerra che Dio ha armato per Israele contro i nemici filistei, ma è molto attratto dalle donne e il suo desiderio si rivolge proprio a quelle della stirpe che egli è votato a sterminare. Così accade con la donna di Timna, con la prostituta di Gaza e infine con Dalila di Sorek. Lo stesso Libro dei Giudici fornisce la spiegazione teologica di questo paradosso: questo [l’attrazione di Sansone per donne filistee] veniva dal Signore, il quale cercava pretesto di lite dai filistei. (Gdc 14, 4) Nel disegno divino, Dalila dunque è una sorta di casus belli, colei che porta inimicizia (la guerra di Troia non era stata anch’essa scatenata dalle divinità a causa di una donna?). Psicologicamente possiamo però vedere altro al di là della concupiscenza o del tradimento di Israele. L’atteggiamento di Sansone infatti, nel volgere gli occhi e il cuore verso donne straniere, ha il significato di sfidare il circolo endogamico del popolo ebraico, provocando il rimprovero dei genitori: Suo padre e sua madre gli dissero: “Non c’è una donna tra le figlie dei tuoi fratelli e in tutto il nostro popolo, perché tu vada a prenderti una moglie tra i filistei non circoncisi?” (Gdc 14, 3) La tradizione endogamica poggiante su una concezione matrilineare della filiazione spirituale, faceva sì che nell’ebraismo non emergesse una spinta al proselitismo e facilitava la difesa di una forte identità culturale e religiosa. Attraverso il sentimento di appartenenza legato al sangue, si manteneva un rapporto inconscio con una Grande Madre archetipica, mentre le manifestazioni esteriori del conscio collettivo andavano assumendo connotazioni fortemente patriarcali. Questo principio di fedeltà matrilineare fu particolarmente insidiato all’epoca dei Giudici per la vicinanza con i filistei: le loro divinità e le loro donne rappresentavano, infatti, una tentazione nei
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confronti della quale il popolo di Israele oscillò a lungo tra resistenza e cedimento. Sansone, inizialmente fedele alla sua consacrazione originaria, è sollecitato dal femminile alla trasgressione. Trasgredisce le norme del suo popolo, unendosi ad una donna figlia di non circoncisi, e trasgredisce le regole del nazireato quando tocca il cadavere del leone e quando contravviene al divieto del taglio dei capelli, consegnando, sempre ad una donna, il segreto della sua forza. Sansone, come tutti gli uomini, concepisce desideri identici a ciò da cui la sua anima è catturata. In questo senso il suo desiderio per Dalila corrisponde ad un bisogno psichico di maturazione del sentimento e di evoluzione del femminile interiore, differenziato sia da quello magico-ctonio di natura matriarcale, sia da quello svalutato di area patriarcale. Anche se gli sarà fatale, solo il rapporto con Dalila placa temporaneamente la sua eccitabilità alla violenza. Egli manifesta con lei una debolezza particolare che consiste non tanto nel cedere alla sensualità, quanto piuttosto nel capitolare sotto l’assedio della sua insistenza. Sansone sa che è pericoloso rivelare il segreto della sua forza, più che mai ad una donna del campo avversario, e per ben tre volte non si tradisce opponendo delle menzogne, quasi delle risposte-burla, alle lusinghe di Dalila. La sua resistenza psicologica non è però della stessa tempra dei suoi muscoli ed al quarto tentativo: “egli ne fu annoiato fino alla morte e le aprì tutto il suo cuore”. (Gdc 16, 16-17) Sono la noia e lo sfinimento dunque che preparano il suo cedimento. Nel duetto fatale con Dalila, Sansone si cimenta su un terreno che gli è estraneo, proprio perché l’insufficiente confronto con il materno lo ha esonerato dalla consapevolezza del potere femminile. Sansone è rude nel corpo tanto quanto è grezzo nel sentimento perché è psicologicamente figlio di padre. Accade così che il femminile negato diventi negativo. Deposta la consueta eccitabilità maniacale, la volontà di Sansone si trova smarrita in una terra sconosciuta dove è sopraffatta dalle richieste di Dalila. Questo è un tipico atteggiamento di uomini che, grossolanamente identificati con i ruoli maschili, non frequentano, se non in forma rudimentale, la loro parte femminile. Le relazioni con le donne si collocano così alla estrema periferia della loro consapevolezza da dove però esse possono
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esercitare una grande influenza inconscia. La vicenda dei due amanti ha complessivamente uno sfondo di carattere patriarcale. Dalila, infatti, convinta dai capi del suo popolo della necessità di neutralizzare il pericoloso avversario, finisce col privilegiare le ragioni dell’appartenenza e della guerra rispetto a quelle dell’amore. La rivalità tra i due popoli è espressa così a due livelli: uno manifesto e marziale, rappresentato dagli scontri sanguinari tra maschi, l’altro, appartato e infido, dove è necessario cimentarsi nel confronto con il femminile. Sansone, che è un dominatore nel primo livello, diventa vulnerabile nel secondo perché vi sono messe alla prova qualità di natura più sottile e perché la minaccia non vi compare come tale, ma si insinua tra le pieghe seduttive dell’insistenza di una donna. Eppure proprio in quel pericolo si adombra un altro mondo possibile che Sansone può vedere solo riuscendo a spostare l’asse del suo sguardo dalla forza all’eros e dalla luce all’oscurità. Ma senza una educazione sentimentale cosa ne sa uno squartatore di leoni di tutto ciò? In Sansone, il “piccolo sole”, troppo potere dal cielo si è trasmesso alla testa senza una armonica compensazione inferiore. Negli uomini l’eccessiva inconscietà inferiore mantiene sconnessi il corpo e le emozioni da una adeguata consapevolezza. Ciò riguarda sia l’aggressività, che li fa deragliare nell’impulsività o nella violenza, sia la sensualità, che li può catturare pericolosamente (le donne fatali o impiccione che fanno andare male all’uomo le guerre e gli affari). Per le peripezie esistenziali del maschile questa inconscietà non è un buon viatico. Dalila, in effetti, è abile nello sfruttare questa mancata “vigilanza” e, attraverso la reiterazione seduttiva della sua richiesta di complicità, come in una induzione ipnotica provoca in Sansone una sorta di dissociazione tra le sue risposte e la consapevolezza degli effetti fatali che esse possono mettere in moto. In questo modo Sansone si avvia a subire quella che Neumann ha chiamato la “castrazione in alto”, simboleggiata dal taglio dei capelli e dall’accecamento. Una tale sconnessione è evidentemente molto grave, alla luce delle conseguenze che colpiscono Sansone. Tuttavia l’interpretazione tradizionale di un conflitto morale tra alto (spiritualità) e basso (carnalità) non è corretta, se riferita alla concezione antropologica del corpo nella tradizione giudaica antica. In essa non è radicato
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un antagonismo tra corpo e anima. Il male non è nel corpo, ma nel peccato che consiste nell’ambizione dell’uomo di fare a meno di Dio. Nel Libro dei Giudici è scritto: “Muoia la mia nefěs con tutti i filistei” (Gdc, 16, 30). Il termine nefěs nella Bibbia si riferisce alla sfera dei bisogni dell’individuo (ad esempio il respiro, la sete o la vita stessa), ma sempre con un correlato somatico. Nonostante ciò esso è stato quasi sempre tradotto con il greco psyche (anima) e talvolta con noûs (mente), forzando il dualismo platonico dell’uomo, inteso come anima prigioniera nel corpo, sulla tradizione giudaica che era invece unitaria.16 L’eroe giudaico nell’esegesi giudaico-cristiana ha finito col rappresentare il tema della minaccia di ciò che è inferiore verso ciò che è superiore. Poiché l’area inferiore (il corpo, il mondo degli istinti) è stata proiettata sul femminile, Dalila è stata associata al peccato della carne contro lo spirito mentre l’accecamento è stato interpretato come la punizione per l’occhio che concupisce la donna. In realtà, più correttamente, nella concezione veterotestamentaria, il peccato evocato da Dalila-Astarte, è quello di apostasia, non quello carnale. Se l’Eracle greco doveva faticare incessantemente per affrancare l’Io dal potere di una Grande Madre, Sansone, già titolare di una coscienza egoica patriarcale, deve lottare con altrettanta energia per non ricadervi e per integrare il sentimento. Egli, nel suo rapporto col femminile, rappresenta quel maschile sufficientemente differenziato, ma tutto da sgrezzare, che può tornare a scivolare in una coscienza crepuscolare quando è attratto dal magnetismo inconscio che esercita su di lui la donna. Il problema di Sansone dunque non è quello di portare il peso di una colpa morale, ma quello di superare lo stadio maschile dell’energumeno, ancora contiguo all’influenza della Grande Madre, per accedere al livello sentimentale e spirituale del maschile. Sansone vive l’unilateralità di essere psicologicamente solo figlio del padre e, non essendo sufficientemente evoluta la sua componente femminile, paga con l’accecamento, il depotenziamento e la depressione, il passaggio dall’eccesso di luce alla penombra, dove acquistano valore le sfumature, le sospensioni, le attese e dove l’uomo può trovarsi a suo agio solo se non è inflazionato dal fuoco maniacale dell’azione o, all’opposto, da quello algido dell’intelletto. All’energumeno Sansone,
Dalila offre la tentazione come medium per l’accesso alla sensualità e al sentimento. É fondamentale poter vivere questa dimensione senza lasciarsene catturare. Se ciò accadesse, il maschile rischierebbe di cadere nel potere magico delle Astarti, le grandi dee madri. Queste, intese come entità archetipiche, non sono mai decadute perché, nella civiltà monoteistica e patriarcale, si sono eclissate dietro il cono d’ombra proiettato dalle qualità oscure del femminile collettivo: Lilith, Eva, Circe, le streghe, le prostitute, le tossicodipendenze, la mafia, la compulsività consumistica. Il superamento della tensione tra il potere attrattivo dell’archetipo della Grande Madre e l’anelito centrifugo del maschile richiede che l’uomo, attraverso il confronto con l’anima e con la donna reale, temperi la sua violenza e la ridondanza virile. Si tratta nel caso di Sansone di una smodata intemperanza più che della hybris condannata nel mondo greco. Sansone, pur eccessivo, non pretende di travalicare i confini della sua umanità e non è mai messa in discussione l’autorità del Signore. Dalila da un lato evoca il pericoloso mondo di Astarte, dall’altro ha le qualità femminili indispensabili alla alfabetizzazione sentimentale di Sansone e al suo addolcimento. Solo allora, come nel presagio celato nell’enigma del leone e del miele, “dal forte può uscire il dolce” (Gdc 14, 1418). Per Sansone dunque, la “castrazione in alto” rappresenta contemporaneamente il grande rischio e la grande possibilità che mettono in rapporto vitale l’eroe solare con la mutevolezza lunare del sentimento, incarnata da Dalila. Quando Sansone, primo kamikaze17 della storia, si autoconsegna all’istinto di morte, fino a quel momento scaricato interamente su uomini, animali e cose, si è già consegnato anche all’amore. Le sue parole di vendetta sono per i nemici filistei che lo hanno accecato e umiliato, ma non compare alcuna parola di biasimo per la donna che ha amato e che lo ha tradito. Bibliografia e Note 1. E. Montale, Terminare la vita, in: Quaderno di quattro anni, Mondadori, Milano 1977. 2. I. Finkelstein, N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, Carocci, Roma 2002, p. 330. 3. P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1972, pp. 400-413.
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4. P. De Benedetti, Introduzione al giudaismo, Morcelliana, Brescia 1999, p. 15.. 5. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978, p.148. 6. Per il tema della violenza nelle Scritture vedi: G. Barbaglio, Dio violento?, Cittadella, Assisi 1991. 7. E. Neumann, La Grande Madre, Astrolabio, Roma 1981, p. 271. 8. Sansone che lotta con il leone è talvolta raffigurato insieme ad Eracle, autore della medesima impresa, come sulla facciata di St. Trophime ad Arles (XII sec.). 9. M. I. Wuehl, commento a: Maier, M., Atalanta fugiens, Vivarium, Milano 2002, pp.86-87. 10. Aristeo, figlio di Apollo e Cirene, era maestro nell’arte di costruire alveari. Egli venne punito con la perdita di tutte le sue api per aver provocato la morte di Euridice. Per questa colpa offrì in sacrificio quattro giovani tori e dalle loro carcasse si liberò uno sciame d’api che Aristeo potè nuovamente radunare in un alveare. 11. C. G. Jung, Psicologia e alchimia, in: Opere, vol. XII, pp. 242-243. 12. La attribuzione di un valore numerico a parole e frasi ebraiche è un’antica tradizione: gli ebrei usavano le lettere dell’alfabeto come numeri, perciò le parole scritte nella Bibbia sono anche una sequenza numerica che conferisce al testo un senso aggiunto. 13. Presso il popolo ebraico, accanto alla sapienza di origine divina ve ne era un’altra: la conoscenza degli uomini, della vita, dei costumi e del retto vivere fondata sulla natura. Essa, che costituiva il pensiero Sapienziale, era profana, ma non atea e travalicava l’appartenenza confessionale. Il libro dei Proverbi ne è una espressione. 14. Milton, J., Sansone Agonista, Sansoni, Firenze 1948, p. 101. 15. C. Saint-Saëns, Samson et Dalila, Opera su libretto di F. Lemaire, Ariele, Milano 2001, p. 86. 16. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2005, p. 58. 17. Il termine giapponese kamikaze significa “vento divino”. Nonostante provenga dall’Estremo Oriente è interessante notare che esso si addica a Sansone non solo nella sua accezione di autosacrificio, ma anche in relazione alla modalità con la quale, secondo le Scritture, la forza del Signore lo investe: “come un soffio” (rùach). Si tratta dunque anche per Sansone di un “vento divino”
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Raffaele Toson è medico Chirurgo. Psicoterapeuta. Analista junghiano CIPA, IAAP, con funzioni di training. Docente e supervisore presso le Scuole di Psicoterapia CIPA e ANEB.
In Anima-Azione
LA BIENNALE DI VENEZIA 2013 COMINCIA DAL LIBRO ROSSO DI JUNG VISITA GUIDATA ALL’ESPOSIZIONE E CONVERSAZIONE CON MARCO GAY
SABATO 28 SETTEMBRE 2013 Il “libro rosso” di C.G. Jung, mai esposto al pubblico in Italia prima d’ora, apre le porte al sentiero dell’immaginazione e dei sogni della Biennale di Venezia. Il Centro Culturale Junghiano Temenos organizza una giornata di visita alla tradizionale esposizione veneziana in compagnia di Marco Gay, analista junghiano di Verona. La visita sarà focalizzata sull’esposizione del Libro Rosso e delle 40 immagini presentate. Dopo la visita è previsto un incontro presso la Compagnia della vela per commentare e riflettere su questo gioiello e sul significato intrinseco del viaggio psicologico del grande maestro svizzero che durò 16 anni circa. Il programma della giornata: ore 10.50 - ritrovo dei partecipanti all’uscita della stazione ferroviaria Santa Lucia di Venezia - trasferimento in battello alla Biennale (padiglione Giardini) - visita - Break per spuntino - eventuale visita ad altre esposizioni Ore 15.30 - trasferimento in battello alla Compagnia della Vela (Isola San Giorgio Maggiore) - Conversazione a cura di Marco Gay (ospite d’onore il nipote di Jung, Andreas Jung) - Aperitivo Ore 17.00 - Conclusione - trasferimento in battello alla stazione ferroviaria Santa Lucia Quota di partecipazione – 90,00€ (la quota non comprende lo spuntino) Per i partecipanti da Bologna, che desiderano viaggiare in treno, prevediamo la possibilità di acquistare biglietti in offerta.
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Ginette Paris - Monte Verità - 31/05/2013
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l 31 Maggio 2013, grazie all'aiuto e alla disponibilità di Gisella Binda, L'Anima Fa Arte ad Ascona ha incontrato la stimata Ginette Paris, psicologa, psicoterapeuta e autrice di innumerevoli libri, Partiti dall'Abruzzo, dopo un lungo viaggio, finalmente arriviamo sulle rive del suggestivo Lago Maggiore e percorrendolo saliamo una piccola strada che ci conduce presso Monte Verità, una collina sopra Ascona, che ha una misteriosa e importante storia culturale alle spalle. Incontriamo Ginette presso il padiglione giapponese presente all'interno di un meraviglioso giardino zen. Il padiglione è un luogo dedicato alla quiete e al raccoglimento prima della cerimonia del tè. Per la realizzazione di questa intervista ringraziamo Stefania Cicchitti che ci ha aiutato nella traduzione e nello sbobbinamento del filmato.
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Valentina Marroni, Michele Mezzanotte
Salvador Dalì, The Three Sphynxes Of Bikini, 1947
QUESTO QUADRO RAPPRESENTA TRE
SI INTITOLA
THREE SPHYNX
OF
BIKINI,
ED È STATO DIPINTO DA
SALVADOR DALÌ
1947. COSA CI
NEL
CERVELLI AMBIGUI, COME È AMBIGUO IL RAPPORTO TRA PSICOLOGIA E NEUROSCIENZE.
PUÒ DIRE IN PROPOSITO?
Questa è un'immagine meravigliosa per spiegare qualcosa che è totalmente nuovo per il tempo in cui viviamo ora, ed ha a che fare con il fatto che le neuroscienze per la prima volta concordano nel dire che ciò che è nella cultura ha un impatto sulla materia grigia del cervello. Significa che ogni cosa che leggiamo, ogni amicizia che abbiamo, ogni ambiente in cui viviamo, ogni cosa bella che ci muove, ha un impatto sui neuroni e quest'impatto potrebbe diventare permanente. Quindi è la prima volta che le neuroscienze concordano con quello che gli psicologi del profondo hanno sempre saputo: cioè che la cultura ha un impatto sul cervello. Questa è una cosa grandiosa per noi psicologi del profondo perché ne consegue che qualora tu cambiassi la cultura, il cervello cambierebbe in modo permanente. I neuroscienziati ci dicevano che c'è dell'anima nel cervello, ora affermano che l'anima non è solo nel cervello, ma è anche nella cultura. Ed è così che ci apriamo all'importanza dell'arte, delle scienze umanistiche e della funzione simbolica. Così si attiva la funzione simbolica. Questo fine settimana studieremo il lutto e capiremo meglio la funzione simbolica nei gruppi da me condotti che si svolgeranno ad Eranos, osservando l'impatto che ha sui tre livelli del cervello. Il primo livello è il coccodrile brain (cervello del coccodrillo) che è semplice; è il cervello antico il quale è responsabile degli istinti primari di attacco-fuga, fame, panico e rabbia. In seguito c'è il secondo livello che è il mammalian emotional brain (cervello emozionale dei mammiferi). Il secondo livello si attiva quando qualcuno sta vivendo un heartbreak (cuore spezzato) un lutto o qualsiasi tipo di perdita, quando perdi il tuo lavoro o la tua casa. Questo significa che dentro di noi esiste un piccolo e vulnerabile cucciolo che si sente fortemente abbandonato, messo in pericolo ogni volta che subiamo un abbandono. Ed è facile da capire! È una sorta di riflesso perché è l'abbandono di un piccolo cucciolo. Il piccolo cucciolo vuole dire: “Mamma vieni a prendermi”. Questo livello del cervello non maturerà mai. Tuttavia noi non siamo animali e abbiamo un altro livello nel cervello, che è esattamente ciò di cui Jung ha parlato, ed è il processo di individuazione. Questo è il livello che fa la differenza. Nel terzo livello il trauma della perdita può essere risolto attraverso la funzione simbolica, che è fondamentale alla psiche umana, ed è quello di cui si occupa il mio lavoro e di cui ci occuperemo qui ad Eranos in questi giorni.
NEUROSCIENZE E PSICOLOGIA USANO LINGUAGGI DIVERSI PER ESPRIMERE CONCETTI IDENTICI? Le neuroscienze hanno il proprio vocabolario, ed il problema è che ora stanno dicendo cose che noi
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Intervista A Ginette Paris
psicologi del profondo già sappiamo. Ma esse confermano scientificamente che la cultura influisce sul cervello. Quindi questa è la prima volta che è possibile mostrare come i neuroni e le connessioni sinaptiche possono essere modificate da ciò che si sente, si vede e si guarda. Accade qualcosa nel cervello a contatto con la cultura e noi possiamo seguirlo con la tecnica della FMRI (risonanza magnetica), o con le attrezzature proprie della neuroscienza. Non stiamo dicendo nulla di nuovo, infatti se si è uno psicologo della profondo queste cose non sono nuove. Purtroppo noi non abbiamo il laboratorio e le attrezzature per confermare i nostri studi. Il problema delle neuroscienze è che vanno un po' troppo lontano, dicendo che il cervello è uguale alla Mente o, se sei junghiano, possiamo chiamarla Anima. Ma questo termine ha una valenza religiosa che a molti non piace, quindi hanno usato la parola mente. Così la Mente o Anima è l'aspetto invisibile del cervello. Quando si è innamorati non si può vedere l'amore nel cervello, ma riconosci quell'esperienza quando la senti, e si può vedere che cosa fa in termini di porre luce su questo aspetto nel cervello. Ma la localizzazione delle esperienze dell'amore non significa che l'amore è nel cervello. Il fenomeno è molto più grande di ciò che vediamo nelle risonanze e nel cervello, perché un topo che mangia cioccolato o che sta provando piacere possiamo localizzarlo e vederlo nella FMRI, ma l'esperienza di un topo che mangia qualcosa di buono è molto diverso dall'essere innamorati in quanto questo sentimento è molto più ricco e complesso. Questo è importante per capire che sono molto limitati quando dicono che hanno scoperto il posto della saggezza o dell'amore nel cervello: non è vero! È solo per la loro epistemologia che hanno scoperto questo. Basta pensare alle persone che non reagiscono con rabbia alle situazioni in cui cerchiamo di provocare rabbia. In queste situazioni diciamo: "E' come un attacco di un monaco buddista", come se sferrassimo un pugno e quella persona invece di reagire rimarrà molto calma. Dicono che questa è la saggezza e si può vedere cosa succede nel cervello. Tuttavia non hanno scoperto il posto della saggezza nel cervello. Hanno appena scoperto una correlazione di ciò che accade quando qualcuno reagisce con saggezza, calma e compassione. Quindi vi è una confusione, che è attualmente la discussione centrale tra le neuroscienze e la psicologia. Ma, ogni volta, viene confermato ciò che dice lo psicologo del profondo riguardo l'importanza e l'esistenza dell'inconscio. E stiamo parlando del vero psicologo del profondo, non di un comportamentista, di un cognitivo o dello scienziato che non credono nell'inconscio, e che non pensano che l'inconscio sia un concetto importante. È un concetto importante, perché è lì che hai tutte le immagini e l'immaginazione sulla tua storia di vita, e queste immagini ne danno il senso. Quindi non si può scoprire nel cervello il luogo della saggezza. È nelle immagini, nel simbolo, nella cultura, nella letteratura, nei film, nel cinema e nella musica che puoi scoprire questo. Le neuroscienze sanno, e vi possono dimostrare, quale parte del cervello si illumina quando siamo saggi e quando siamo innamorati. Ma non sono in grado di darci la ricchezza della cultura che apre l'uomo alla funzione simbolica. Questo non è il lavoro del neuroscienziato. Loro lavorano in un laboratorio con la FMRI. La ricchezza dell'umanità è nell'arte: è ciò che rende ricchi gli esseri umani.
COME LO PSICOLOGO DEL PROFONDO PUÒ RELAZIONARSI CON LE SCIENZE E LA SOCIETÀ? Questo è davvero un periodo affascinante per noi, perché negli ultimi quarant'anni l'approccio cognitivo comportamentale ha insegnato vecchie conoscenze, perché è meno dispendioso, e in realtà è simile alla didattica e all'insegnamento. Per cui non è un cattivo approccio, è un approccio necessario. Ogni bambino ha bisogno di essere educato, ed è come dire: "Non fare questo, se lo fai la mamma si arrabbierà!”, o “se fai questo la mamma sarà felice!”. Questa è la terapia cognitivo-comportamentale. Insegna a cambiare il comportamento, ed è molto diverso dall'approccio dello psicologo del profondo che invece cerca di capire che cosa è il mito, o la storia, o il simbolo che ogni uomo vive. Questa comprensione del dove si è simbolicamente, è ciò che apre l'immaginazione e modifica la direzione della nostra vita, ed è quello con cui lavoriamo noi psicologi del profondo: con simboli e storie.
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Valentina Marroni, Michele Mezzanotte
QUESTO
È IL SUO ULTIMO LIBRO
HEARTBREAK (CUORI SPEZZATI),
COSA SI PUÒ DIRE IN RELAZIONE A QUESTO VISSUTO?
Questo fine settimana, che trascorreremo ad Eranos, lavoreremo con i simboli attraverso la funzione simbolica. Gli argomenti saranno lutto e dolore. Il dolore diciamo che è come una freccia nel cuore, per altre persone è come uno "tsunami". Se ho un cuore spezzato dico: “Bene, questo è stato come uno tsunami”, ovvero una grande onda che ha colpito e distrutto tutto; altre persone descrivono il dolore come una regressione: ad esempio quando perdi il lavoro e non hai più un'identità; altri riferiscono che è come essere in un inferno. A questo punto potrei chiederti se è un inferno freddo o caldo, perché il mio inferno è freddo, ma forse il tuo inferno potrebbe essere caldo. Alcune donne che hanno perso il marito dicono: "Io sono un'orfana". La donna non ha perso la mamma o il papà, ha perso il marito, ma la sensazione è: "Io sono un'orfana". Vi è un'infinita di modi per rappresentare l'esperienza del dolore da heartbreak (cuore spezzato) e da lutto. Anche somaticamente è molto diverso: alcune persone rimangono fredde, altre hanno il batticuore, altri sono accaldati e sudati, altri dicono che è come essere pugnalatI alla schiena, o alcuni dicono di essersi sentiti pugnalati al petto. È molto diverso essere pugnalati nella schiena o nel petto. Studiare le persone con il cuore spezzato significa studiare un'infinità di simboli e la loro individuale funzione simbolica.
CI PUÒ FARE UN ESEMPIO? Ad esempio sto seguendo un ragazzo che quando ha trovato il suo simbolo ha detto: "Io sono una tartaruga morente nel suo guscio!” Una volta trovato il simbolo, quel ragazzo potrà guarire perché sa dove si trova. “Questo è il punto dove mi trovo, io sono una tartaruga sul dorso, che sta morendo, isolata e sola nel mio guscio.” Questa è un'intuizione importante perché significa riconnettersi con il collettivo attraverso il simbolo, in quanto riusciamo a capire dove ci troviamo in una mappa generale attraverso la simbolizzazione, la quale ci ricollega alle altre persone. Nessuno ha il medesimo simbolo. Una volta che si sa dove ci si trova, si dispone di una mappa e sai dove andare, perché prima non sapevi dove ti trovavi, né dove andare. È necessario essere orientati ed avere una mappa e una destinazione. Trovare il simbolo è come trovare la tua posizione sulla mappa, ed è importante perché quando si è in lutto ci si sente perduti: è l'esperienza archetipica di essere completamente persi nel mondo, come il bambino che perde la mamma e il papà, o la moglie che perdere il marito. Come si fa a trovare la strada per tornare? Per prima cosa bisogna capire dove ci si trova, ed è quello il perno sulla mappa: il vostro simbolo. Per trovarlo ci aiuta l'arte, la cultura, la letteratura e la musica, infatti basta pensare che la maggior parte delle canzoni vengono scritte da esperienze di heartbreak.
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Intervista A Ginette Paris
NEL
SUO LIBRO,
VITA INTERIORE,
PARLA DI UNA
SUA
ESPERIENZA DI
DOLORE...
Ho avuto un incidente riportando lesioni al cervello. Ho creduto di morire. Questa esperienza ti connette con l'umanità e scopri una vita nella vita. In quello momento la mia vita ha cambiato direzione, collegandomi con la parte sofferente di ogni essere umano. Sono stata in terapia intensiva per cinque giorni. Ero all'ospedale di Santa Fe. Quando hai trascorso più di ventiquattro ore in terapia intensiva, hai l'8% di possibilità di essere trasferita in un sacco di plastica. Solo il 20% dei pazienti sopravvive più di ventiquattro ore in terapia intensiva. Ma io sono sopravvissuta grazie a tutte queste immagini che presero vita nel mio inconscio. Come ho descritto nel libro “Vita Interiore” c'è stata una lotta tra toro e farfalla. Il toro è il corpo che soffriva tanto, e il dolore era così forte che ero pronta a morire per porre fine al dolore, come quando sei molto stanco e vuoi dormire. Ormai ero pronta ad andare via dal mondo terreno, il mondo del toro. La farfalla nel mio inconscio diceva: "Io sono pronta ad andare, io sono uno spirito libero, io vado via."; mentre il toro rispondeva: "No, devi combattere!". Seguivo questa battaglia tra il toro e la farfalla come uno spettatore. DAL PASSATO AL FUTURO... Dal passato al futuro... Molti concetti junghiani sono del 1900, per esempio i concetti di Animus e Anima, ovvero il maschile e il femminile. Questi concetti non hanno molto senso per me ormai: forse tu sei più femminile di me. Ci troviamo in un periodo di ambiguità di genere, quindi questo “buisness” tra Animus e Anima sta passando. È incompleto come concetto se lo consideriamo come differenza tra generi sessuali, ma può essere ancora usato se si considera come energia archetipica di femminile e CARL GUSTAV JUNG, JAMES HILLMAN maschile (yin e yang). Ora non c'è un taglio netto e chiaro come lo era ai tempi di Jung. Prima abbiamo parlato di differenze tra linguaggio psicologico e neuroscientifico, e in un certo senso anche il linguaggio junghiano può essere superato, ma non il contenuto che coinvolge l'immaginazione. Quando leggi Jung è come se leggessi un libro giallo: non puoi interrompere la lettura. È così pieno di letteratura e di bellezza, che coinvolge la mente, in un modo che ti nutre. James Hillman, che era un mio buon amico, ti porta nel prossimo secolo. Lui era un assassino di idee che non riteneva buone. Egli era feroce ed aveva un "intelletto marziano". Quando non gli piaceva un'idea psicologica, si arrabbiava e avrebbe sparato all'idea. E se la gente diceva: "Tu eri arrabbiato", lui rispondeva: "Beh c'è sangue anche nella testa!". Si può diventare molto arrabbiati quando pensi che un'idea è una cattiva idea, e le cattive idee sono ovunque. James era un dottore di idee. Per fare un esempio il razzismo è un idea malata e si deve uccidere questa idea. Ci vuole molto tempo per uccidere l'idea di razzismo, ci vuole ancora più tempo per uccidere l'idea di sessismo, e purtroppo è presente ancora nella nostra società. La persona che avete di fronte a voi non deve essere definita dal colore della pelle o dal genere. Questo è quello che ricordo del mio buon amico.
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Appunti
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Silvano Tagliagambe ha insegnato filosofia della scienza presso le Università di _____________________________________________________________________________________ Cagliari, Pisa, Roma "La Sapienza" e Sassari. Attualmente è direttore scientifico del progetto "Scuola digitale" della regione Sardegna. Nelle edizioni Raffaello Cortina _____________________________________________________________________________________ ha pubblicato il Sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello (2002). _____________________________________________________________________________________
Angelo Malinconico, psichiatra, criminologo e psicologo analista, è membro didatta dell'AIPA e membro ordinario della IAPP. Insegna materie psichiatriche e _____________________________________________________________________________________ psicologiche presso le Università Cattolica e Statale del Molise. Tra i suoi lavori recenti, la cura del volume Psicosi e psiconauti. Polifonia per Ofelia (Roma 2010). _____________________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ www.animafaarte.it
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