Modello l'anima fa arte n4

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Periodico telematico quadrimestrale a carattere tecnico-scientifico di Psicologia con sede a Chieti in Via Vicoli, 11

Direttore Responsabile: Michele Mezzanotte Proprietario: Valentina Marroni Editore: Ass. L'Anima Fa Arte Web Master: Matteo Colangeli Curatore: Valeria Marroni Iscrizione al Tribunale di Chieti n.6

La collaborazione è aperta a tutti gli studiosi. Gli eventuali articoli (max 20000 caratteri spazi inclusi) e i libri per le recensioni vanno inviati alla redazione: info@animafaarte.it

Immagine Di Copertina: MICHELLE BOISSONOT SANS TITRE

www.animafaarte.it


Rivista di Psicologia Quadrimestrale www.animafaarte.it N.4 Gennaio 2014

INDICE

EDITORIALE, p.3

• Mezzanotte Michele (CRISI)... D'ARTISTA? P. 5

• Gianpio Colarossi SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE DELLA LUNA: LA VERGINE MARIA, LA DEA PERSEFONE E LA MADONNA NERA. P. 11

• Giuseppe Vadalà IL SIMBOLO DELLA PERLA P. 25

• Alfredo Vernacotola UN'IDEA ARCHETIPICA: LA VITTIMA TRA INDIVIDUALE E COLLETTIVO P. 35

• Pasquale Picone IL MITO DI FETONTE NEI PALAZZI GIUSTINIANI A BASSANO ROMANO E FARNESE A CAPRAROLA (VT) P. 45

• Piero Di Prinzio HYBRIS E SECOLARIZZAZIONE NEL NIBELUNGENLEID (QUINTA PARTE) P. 55

• Emanuele G. Casale INTERVISTA AD ANDREAS JUNG P. 63


Convegno "Animali Nella Psiche", Settembre 2013 Da sin: Angela Paris, Michele Mezzanotte, Valentina Marroni

Convegno "Animali Nella Psiche", Settembre 2013 Palazzo De Mayo

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Editoriale

Inizierò questo editoriale citando delle parole di Fernando Pessoa prese dal libro dell'inquietudine: “Molti hanno fornito una definizione dell'uomo, e in generale lo hanno delineato per contrasto con gli animali. Per questo nelle definizioni dell'uomo è frequente l'uso della frase -l'uomo è un animale...- e un aggettivo, o -l'uomo è un animale che...- e si dice che cosa. (…) Ma queste definizioni, ed altre simili, sono sempre imperfette e marginali. E la ragione è molto semplice: non è facile distinguere l'uomo dagli animali, non esiste un criterio sicuro per distinguere l'uomo dagli animali. La vita umana scorre con la stessa intima incoscienza della vita animale.” Ho voluto cominciare proponendovi questo testo perchè a Settembre 2013 si è tenuto il nostro primo Convegno di Psicologia “Animali Nella Psiche”, tenutosi a Chieti presso il Palazzo De Mayo. L'obiettivo del convegno è stato quello di provare a sondare le nostre “parti animali” che ci abitano profondamente e che ci vengono a trovare in sogni notturni e sogni diurni, ovvero nelle nostre rappresentazioni artistiche. A questo proposito ringrazio tutti coloro che hanno partecipato attivamente e che hanno collaborato con noi. È stato un evento molto soddisfacente che sicuramente, grazie anche alla vostra partecipazione, si ripeterà l'anno prossimo con un nuovo tema e dei nuovi ospiti stimolanto con i quali stiamo già lavorando. Presto verranno pubblicati gli atti del convegno “Animali nella psiche”, conditi da nuovi lavori che creeranno un piccolo volume sul nostro intimo mondo animale. Questo che sto per presentare è il quinto numero della rivista ed è ricco di contributi e spunti interessanti. Il primo articolo si intitola (Crisi)... d'Artista?, scritto da Michele Mezzanotte, ovvero me, nel quale analizzo la crisi economica e dei valori nel

sistema culturale e politico in cui siamo immersi. Lo faccio prendendo come spunto una ironica e sarcastica opera di Piero Manzoni: Merde D'Artiste Andando avanti con la lettura troviamo l'articolo di Gianpio Colarossi che, come sempre, con elegante intuizione ci introduce nella prima parte di uno studio inerente i simboli della trasformazione lunari. Un nuovo ospite, lo studioso Giuseppe Vadalà, calca le pagine della nostra rivista e ci regala una ricca visione e lettura del simbolo della perla. Approdiamo in questo numero anche per concludere la lettura dell'apprfondimento sulla vittima scritto da Alfredo Vernacotola, che ci apre ad ottiche archetipiche inerenti il tema del vittimismo e del carnefice. Insieme a Giuseppe Vadalà abbiamo un altro nuovo ospite: Pasquale Picone che apporta alla rivista un contributo particolareggiato e dettagliato del mito di Fetonte nei Palazzi Giustiniani a Bassano Romano e Farnese a Caprarola. Infine continua l'avvincente lettura del Nibelungenlied da parte di Piero Di Prinzio. Siamo ora arrivati al momento tanto attesto delle interviste dell'Anima Fa Arte, con un ospite d'eccellenza. È stato Emanuele Casale, che ringrazio vivamente, ad intervistare Andreas Jung; ebbene sì, abbiamo il piacere di ospitare in queste nostre pagine, le parole del nipote di “Nonno Jung”, così direbbe lo stesso autore dell'intervista, che si è recato a Venezia presso la Biennale dove era esposto il Liber Novus ed ha incontrato, anche grazie a Laura Briozzo del Temenos Junghiano, Andreas Jung. Non vi svelo altro e, ringraziandovi, vi auguro una buona lettura.

Michele Mezzanotte

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Pero Manzoni, Merde D'Artiste

CRISI E MORTE Il nostro paese sta vivendo sicuramente un periodo di crisi. Possiamo notarlo in tutto ciò che ci circonda e in tutto ciò che viviamo quotidianamente. Si sente parlare di una grave crisi economica, ma sappiamo benissimo che non è solo di questo che si tratta, bensì di una crisi legata anche alla politica, alle morali, alle etiche e alle passioni: una crisi collettiva ed individuale, ovvero una crisi psicologica. La crisi psicologica posso notarla anche nel mio lavoro, attraverso i sogni dei miei pazienti, attraverso i loro vissuti e le loro problematiche quotidiane. Ad esempio nelle immagini oniriche: vi è un moltiplicarsi incessante di figure non-morte e di ambienti privi di colori, che spesso legano il vissuto del paziente al vissuto collettivo. Jung e Hillman nel loro lavoro calcano spesso la mano su questa relazione tra psiche individuale e psiche collettiva che viaggiano di pari passo all'interno di una visione psichica più ampia:

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“Col pianterreno cominciava l’inconscio vero e proprio. Quanto più scendevo in basso, tanto più diveniva estraneo e oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere illuminato dalla coscienza… Il mio sogno pertanto rappresentava una specie di diagramma di struttura della psiche umana… Il sogno divenne per me un’immagine guida. Fu la mia prima intuizione dell’esistenza, nella psiche personale, di un “a priori” collettivo.”1 "In quel giardino io ero nella Psiche, mi accorgevo che tutto era psicologia intorno a me, tutto parlava psicologicamente. Il mondo è come un giardino in quanto si manifesta; è un mondo di cose come alberi, sentieri, ponti; è anche un mondo di intuizioni, di metafore, di insegnamenti a disposizione di ogni anima che passa - dati con


Michele Mezzanotte

la facilità dei riflessi sul lago: il giardino rende più intellegibile e più bella l'interiorità dell'anima."2 Una crisi è un momento di separazione, e di decisione intesa come eliminazione di un oggetto a favore di un altro. Quindi il nostro paese psichico è sicuramente all'interno di un momento storico critico di grande separazione e scissione. Ma cosa sono queste figure non-morte presenti nel mondo delle immagini? Sono esseri che non vivono ma soprattutto non muoiono; sono sagome di viventi in bilico tra la vita e la morte in un limbo che non permette la vita e la coscienza, pur tuttavia non permettendo la morte, ovvero la trasformazione. La morte è un evento essenziale nella vita di tutti noi perchè ci permette di finire e portare a termine qualcosa e, ci permette il cambiamento. "Siamo invece a tal punto convinti che la morte sia soltanto la fine di un fluire, che di solito non ci accade di concepire la morte come uno scopo o un compimento, come si fa per le mete e i progetti di una vita giovanile, in fase ascendente"3 Non soltanto gli psicologi hanno apprezzato la funzione della morte e della sua immagine: San Paolo ci suggeriva: "Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, il nostro [uomo] interiore si rinnova di giorno in giorno"; ed ancora Marco Aurelio: "Ogni parte di cui siamo costituiti si trasformerà in una qualche parte dell'universo e quindi di nuovo in qualche altra parte ancora e così via per sempre. Come conseguenza di tali cambiamenti io stesso esisto, e quelli che sono generati, e così via per sempre in un'altra direzione. .” Ho citato alcune frasi sulla morte perchè il vissuto di crisi è permeato da un vissuto timoroso della morte, un testardo attaccamento a ciò che è stato e da una paura nei confronti di ciò che è nuovo. Il nostro paese e la nostra quotidianità, quindi la nostra psiche diurna, è popolata da esseri nonmorti che non vogliono morire per permettere un necessario cambiamento psichico ed esse sono le nostre "scorie" e la "scorie" della nostra società. CRISI AD ARTE Questa rivista si chiama L'Anima Fa Arte, e sono

profondamente convinto che l'arte a trecentossessanta gradi abbia la capacità di "arrivare prima" rispetto ad un qualsiasi ragionamento. L'arte ci apre gli occhi ad intuizioni per l'avvenire, e nel corso della storia ha sempre avuto un ruolo rilevante nella società, sia in periodi di crisi, sia in periodi di ripresa. L'arte come dice la parola stessa (etimologia: ar - movimento) è movimento, è un mettersi in moto verso qualcosa. L'arte ci ha sempre condotto verso la morte, verso il cambiamento e la trasformazione. In qualche modo l'arte produce crisi e separazione. L'arte porta a morte ciò che vuole preservarsi e ciò che vuole continuare ad esistere come non-morto. Si possono prendere in analisi diverse opere e diversi movimenti perchè ognuno di loro, in qualche modo, sono ancora attuali e attualizzabili nei nostri vissuti ed argomentazioni. Possiamo prendere l'arte egiziana, etrusca e primitiva ad esempio e sicuramente ci diranno qualcosa che ci può essere utile oggi, e questo accade perchè l'arte come movimento è universale e non ha tempo. L'arte ci conduce al di là del tempo e dello spazio. Al di là del tempo per esempio quando ammiriamo un'opera pittorica che è stata creata nel tempo ma che è presente davanti a noi nell'hic et nunc e porta con se il tempo che contiene. Al di là dello spazio, quando parliamo di musica e delle sue note che proseguono infinite senza mai morire. Nella nostra epoca possiamo avere una visione romantica di tempo e spazio, universalmente condivise da tutti gli esseri viventi e non (qualora esistano), che sono stati e che saranno presenti sulla terra. Ogni opera d'arte è sogno: è sogno in quanto un sogno, ci appartiene pur essendo un altro mondo con altre regole rispetto alle nostre; è sogno in quanto ci porta al di là del tempo e dello spazio; è sogno in quanto il sogno ci accomuna tutti perchè tutti sogniamo, così come tutti siamo immersi nel movimento dell'arte dall'alba dei tempi.. "MERDA D'ARTISTA" In particolare in questa proposta di lettura critica della crisi vorrei porre sotto la lente di ingrandimento un'opera particolare dell'artista italiano Piero Manzoni: Merda D'Artista. Cosa può darci la lettura di quest'opera in questo momento storico? Cominciamo dall'artista: Piero Manzoni è un'artista italiano nato e cresciuto a Milano, che fin da giovanissimo vive il mondo

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(Crisi)... d'artista?

dell'arte. Ha stretti contatti con Lucio Fontana ed altri importanti artisti italiani e stranieri. Fonda la famosa rivista Azimuth insieme ad Enrico Castellani. Tra i suoi lavori più famosi sicuramente ricordiamo "Aria d'artista" e "Merda d'artista". Muore d'infarto all'età di ventinove anni presso il suo studio di Milano. Focalizziamoci su quest'ultima opera risalente al 1961 anno in cui Manzoni fece sigillare novanta barattoli di conserva contenenti delle "feci". Proseguiamo il nostro lavoro facendo una classica analisi junghiana dei simboli presenti in questa opera: il barattolo e le feci. Il barattolo è un simbolo molto generico e difficile da comprendere ma possiamo entrare nel significato attraverso la sua etimologia araba barradah = recipiente per liquidi, ma ancora più interessante è l'ipotesi di provenienza della parola: un dialetto settentrionale che starebbe a significare albero4. Parlando di feci, invece, mi vengono in mente diversi miti e diverse divinità collegate a questo simbolo, come per esempio la dea Tlazoltecolt che ingoia e defeca in continuazione fiori. Infatti gli aztechi usavano lo sterco umano come humus per permettere la fertilizzazione dei loro campi coltivati. Inoltre il "nome della dea deriva dalla radice tlazolli, che non significava solo sterco, ma anche vizio e malattia, dato che gli Aztechi confessavano le loro nefandezze sessuali sul letto di morte; storie vergognose che la Dea consumava avidamente in forma di escrementi."6. Nella Roma antica esisteva il mito di una Dea, protrettrice delle latrine: Cloacina, la quale prendeva il nome dal corso d'acqua Cloaca, trasformato in seguito nella principale latrina romana. Nella storia del simbolismo le feci hanno sempre assunto un significato divino, creativo e fertile, perchè nonostante siano il prodotto di scarto del nostro organismo, esse sono uno scarto creativo che permettono la fertilizzazione per dare il via e l'energia a nuova vita. Quindi le feci sono un prodotto di scarto che, trasformandosi, diventa vita e creatività; le feci rappresentano anche le nostre energie più profonde e spesso sono legate ad un altro simbolo energetico, ovvero il denaro, dai cristiani considerato lo sterco del Demonio. Tenendo a mente questi due simboli torniamo alla nostra "merda d'artista". Manzoni fece mettere all'interno di alcuni barattoli le sue feci. Questa opera è stata molto importante e rivoluzionaria al

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tempo stesso. Sono molte le riflessioni che si fecero riguardanti l'opera di Manzoni, e all'interno di essa possiamo trovare molti significati: la creatività dell'uomo, l'ironia di un prodotto scadente ma venduto ugualmente, e la spietatezza del mercato che venderebbe qualsiasi articolo sotto firma di un notaio. In precedenza abbiamo detto che la nostra crisi può essere rappresentata oniricamente da esseri non-morti che popolano la psiche, ovvero parti di noi e della nostra società che non riescono a morire. Questi sono i nostri escrementi, la nostra "merda d'artista", creata da noi ma posta all'interno di un barattolo e venduta. Porre i nostri escrementi e le nostre parti non-morte all'interno di un barattolo, impedisce loro la trasformazione necessaria al cambiamento e al rinnovamento. Ciò è palese all'interno di una società nella quale si stenta a morire: specchio del nostro paese è sicuramente l'attuale situazione parlamentare. Il parlamento è il barattolo all'interno del quale sono stati rinchiusi i nostri non-morti: scorie create da noi e che non sono fertilizzanti se immobilizzate e chiuse in loro stessi. L'escremento ha bisogno di un percorso di assimilazione, di creazione e di espulsione per far si che si possa arrivare a nuova vita e ad una nuova linfa. Se gli escrementi non proseguono il loro cammino fertilizzante si blocca tutta la macchina umana e in questo caso il sistema economico: si diventa "stitici", Il nostro sistema è stitico. Verosimilmente, altre feci ed altri "non morti" possiamo scovarli nel mondo dell'editoria e dell'arte, nel quale editori e mercanti d'arte cercano di vendere la loro "merda d'artista", ovvero permettono la pubblicazione o l'esposizione di opere in cambio di soldi. In realtà è solo l'ingresso in un mercato squallido, pieno di autoreferenzialità e di denaro. Un mercato del quale Manzoni ha provocatoriamente messo in luce i limiti attreaverso la sua opera d'arte. Come possiamo liberare queste feci per permettere loro di diventare fertilizzanti? Come possiamo uscire da questa crisi della non-morte e delle feci intrappolate in un barattolo? In verità, l'autore ammise di aver messo del gesso all'interno dei barattoli: "Posso tranquillamente asserire che si tratta di solo gesso. Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere le scatole." Ci troviamo davanti ad una piccola-grande illusione che Piero Manzoni ci ha


Michele Mezzanotte

concesso, permettendoci di avere una via d'uscita da questo periodo critico. Così come è un'illusione il mercato che ci spinge a soffrire e a vivere in base alla sua perversa e parafilista esigenza, siamo di fronte ad illusioni parlamentari che ci annebbiano la vista facendoci credere che sono dalla parte del cittadino, siamo di fronte ad illusioni editoriali che ci fanno credere in una nostra capacità, desiderando meramente di mettere le mani sui nostri risparmi, siamo di fronte ad illusioni artisitche che sottolineanoi l'importanza della moneta rispetto ad una più sacra opera artistica. Piero Manzoni ha saputo cogliere l'intuizione, mettendo del gesso al posto delle feci, affinchè potessimoi uscire da questa crisi, almeno intellettualmente. E la domanda da porsi è: cosa è rimasto all'interno del barattolo e della nostra crisi? Gesso. Una roccia sedimentaria che senza altre sostanze, non è lavorabile ed è inutile. Aprendo i barattoli della nostra società troviamo solamente della polvere, come polvere rimarrà del nostro illusorio parlamento, delle case editrici con le loro illusorie pubblicazioni che non verranno mai lette, e di illusorie mostre prive di qualità ed arte. Questa è solo una parte della nostra crisi, e non accetto critiche rispetto al fatto che la "crisi è ben altro". La crisi è anche questo, ed è solo attraverso piccoli passi che si percorre una via. Non esistono grandi passi, anch'essi sono un'illusione data dalla paura e dall'immobilismo. Esistono solamente piccoli mattoni e piccoli passi che mossi uno alla volta portano inesorabilmente a ciò che è giusto.

Michele Mezzanotte è uno psicoterapeuta e lavora a Chieti, la città di Teti, madre di Achille. È direttore scientifico della rivista di psicologia L'Anima Fa Arte, e presidente dell'omonima associazione di volontariato psicologico.

Bibliografia e Note 1. C.G.Jung Ricordi, sogni, riflessioni”, Rizzoli Editore 2. Intervista di Silvia Ronchey a James Hillman 3. C.J.Jung (1934), «Anima e morte», in La dinamica dell'inconscio, Opere, vol. VIlI,Torino, Boringhieri. p. 436. 4. Dizionario Etimologico, Rusconoi Libri 5. Il libro dei simboli, Taschen

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Dante Gabriel Rossetti, Gioventù della Vergine Maria, 1849.

Dante Gabriel Rossetti, Ecce ancilla Domini, 1850.

articolo nasce osservando due dipinti di Questo Dante Gabriel Rossetti: uno intitolato La gioventù della Vergine Maria, realizzato nel 1849; l’altro intitolato Ecce ancilla Domini, realizzato del 1850. Tramite l’osservazione dei due dipinti e tramite la ricerca di senso delle bibliche parole d’Annunciazione che l’angelo Gabriele proferisce ad una Vergine di nome Maria, mi è stato possibile rintracciare dei legami immaginali che possano tenere: la potentissima simbologia della triplice Ecate e il “corso della Luna nel cielo”. La luna piena, il primo quarto di luna, la luna nuova (o luna nera) e l’ultimo quarto di luna, sono le quattro fasi che attraversa la luna durante il suo

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“ciclico mese lunare”. Queste quattro fasi, a partire dal plenilunio, possono essere associate con i seguenti quattro concetti: con l’immagine dell’Annunciazione fatta alla Vergine Maria dall’angelo Gabriele (dipinta nel 1850, per mano del Rossetti); con la simbologia del primo rapimento della dea Persefone da parte del dio dell’Ombra; con l’immagine della Madonna Nera (ossia della Vergine Maria coperta dall’Ombra di Dio); con il ciclico ritorno della dea Persefone nel regno dei cieli dell’Olimpo. Ho definito “potentissima” la triplice Ecate anche perché, come vedremo meglio in seguito, la dea personificava la potenza di tre grandi divinità: la


Gianpio Colarossi

potenza di Selene, quella di Persefone, e quella di Artemide (in particolar modo della Artemide Efesina). Ecate era quella dea che gli uomini antichi identificavano anche con l’immagine della luna; forse la sua potenza era immaginata, dalle menti antiche, come il potere di una dea che poteva far sparire e ricomparire la luna dal cielo. Ecate può essere intesa come la somma di quei tre volti delle quattro simboliche fasi della Luna; due fasi (quella crescente e quella decrescente) forse appartengono all’unico volto veicolato dal mito di Persefone. Tutto il discorso che farò, secondo il mio punto di vista, è simbolicamente sintetizzato nel dipinto Ecce ancilla Domini. Nel dipinto osserviamo l’angelo Gabriele che, ponendo un ramoscello di tre fiori di giglio bianco, preannuncia alla Vergine che cosa le accadrà in un prossimo futuro. Ciò che accadrà alla Vergine è scritto nel Vangelo secondo Luca tramite le seguenti parole: “Al sesto mese Dio mandò l’angelo Gabriele in una città della Galilea chiamata Nazaret, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe della casa di Davide: il nome della vergine era Maria. Entrò da lei e le disse: <Salve piena di grazia, il Signore è con te>. Per tali parole essa rimase turbata e si domandava che cosa significasse un tale saluto. Ma l’angelo le disse: <Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, tu concepirai nel grembo e darai alla luce un figlio. Lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre e regnerà nella casa di Giacobbe in eterno e il suo regno non avrà mai fine>. Allora Maria disse all’angelo: <Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo?>. L’angelo le rispose: <La potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra; perciò quello che nascerà sarà chiamato santo, Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia, e lei che era ritenuta sterile è già al sesto mese; nessuna cosa infatti è impossibile a Dio>. Disse allora Maria: <Ecco la serva del signore; si faccia di me come hai detto tu>”1. Si può ipotizzare che: la dea Persefone regina degli inferi; la Madonna nera; l’Artemide Efesina; possano essere intese come immagini dal medesimo contenuto simbolico veicolato dall’immagine della Luna nera. Al contrario, si può ipotizzare che: la Vergine Maria; la Vergine Persefone che coglie i fiori con le amiche; la

splendente dea Selene; e l’immacolata verginità della dea Artemide, possano essere intese come immagini dall’equivalente contenuto simbolico metaforizzato nell’immagine della Luna piena. Il mito di Persefone, quindi, può essere inteso come un immaginario, mitologico, ponte (metaforizzato nell’immagine dei due opposti spicchi di luna) che permette di seguire la trasformazione della Vergine Maria in Madonna Nera e la trasformazione della Madonna Nera in Vergine Maria. Tutto il discorso nasce dall’immagine di quel giglio bianco tenuto nella mano dell’angelo del dipinto del 1850; quel giglio è legato con l’Ombra di Dio rintracciata nelle parole dell’Annunciazione; è legato con il dio dell’Ombra presente nel mito di Persefone, e forse è legato anche con le ali rosse (anche le ali del diavolo, come quelle dei cherubini, sono rosse) del piccolo angelo presente nel dipinto della Gioventù della Vergine Maria. L’ipotesi fondamentale che seguirò è la seguente: l’immagine della Madonna, come quella della triplice dea Ecate, può manifestare tre “volti” distinti: un volto è quello di una Vergine di nome Maria; un altro volto è quello della Vergine Maria gradualmente coperta dall’Ombra di Dio (quindi è un volto che somiglia a quello della dea Persefone); il terzo volto è quello della Madonna nera. E il quarto volto qual è? Forse il quarto, quello della luna crescente, è il “volto” della Madonna che porta in braccio il salvatore, concepito dall’Ombra, il capostipite del cristianesimo. LA TRIPLICE ECATE “Divinità greca, rappresentata comunemente come figlia di Perseo o Perse e di Asteria, e chiamata perciò Perseide. Apparteneva alla stirpe dei Titani, dei quali fu l’unica a mantenere il potere anche sotto il dominio di Zeus. Era onorata da tutti gli dei, e i poteri assai estesi di cui disponeva furono forse la ragione per cui essa venne conseguentemente identificata con molte altre divinità. Si dice che essa fosse stata Selene o la Luna nel cielo, Artemide sulla terra e Persefone nel mondo infero. Era in effetti una dea triplice, descritta dotata di tre corpi e di tre teste; da questa sua caratteristica derivano gli appellativi che la contraddistinguono, Tricipite, Triforme, Trigemina e simili. Ebbe un ruolo di primo piano

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Simboli delladella trasformazione della Simboli trasformazione della lunaluna

nelle ricerca di Persefone, e quando questa fu trovata, rimase al suo fianco in qualità di assistente e di amica. Divenne così una divinità del mondo sotterraneo della quale si celebrava la terribile e grandiosa potenza. Si diceva che durante la notte essa mandasse ogni sorta di demoni e di esseri fantastici, che conoscesse le arti della stregoneria e che dimorasse di preferenza nei luoghi in cui due strade si incrociano o anche in prossimità del sangue di persone uccise. Si riteneva che essa si spostasse e vagabondasse con le anime dei morti, e che il suo avvicinarsi fosse preannunciato dal mugolio e dal latrare dei cani”2. Ecate “in origine non designava altro che un aspetto della luna, e difatti anche Artemide era talvolta denominata Hecate, la lungi operante, come Apollo era detto Hacatos. Forse rappresentava la luna invisibile, la luna nuova, che appunto perché non compariva in cielo si poteva facilmente credere che rimanesse sotterra; di qui la collocazione di Ecate fra gli dei infernali”3. “Gli antichi se la immaginavano come una dea formata da tre teste ed un solo corpo, o anche come tre corpi ma uniti insieme, simbolo probabilmente dei tre aspetti della luna come luna piena, e mezza e nuova. … Alcune antiche sculture la rappresentano con tre teste, sei braccia e un sol corpo. La figura di mezzo ha in testa una berretta frigia con un diadema di sette raggi, tiene nella mano destra un coltello e nella mano sinistra la coda di un serpente, attributi propri delle Erinni e qui assegnati anche ad Ecate; la figura di mezzo ha in ambe le mani delle fiaccole, sulla fronte una mezza luna con un fiore di loto; quella di destra ha una chiave e una fune e rappresenta la portinaia dell’inferno, in testa ha un disco simbolo della luna nuova”4. Esiodo, nella teogonia, parla di Ecate in questi termini: “… E generò Asteria fausto nome, che un tempo Perse condusse alla grande casa, perché fosse chiamata sua sposa. Lei, pregna, generò Ecate, quella che fra tutti Zeus Cronide onorò; le cocesse infatti splendidi doni, e da avere parte della terra e del mare infecondo. Anche del cielo stellato lei ottenne parte d’onore, e tra gli dei immortali è sommamente onorata. Infatti anche ora, quando in qualche luogo uno degli uomini abitatori della terra offrendo bei sacrifici secondo la norma prega, invoca Ecate; e molto onore lo segue assai facilmente se, a lui benigna, la dea accoglie le suppliche e gli concede fortuna, poiché

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certo ne ha il potere. Infatti quanti nacquero da Gea e da Urano e dignità sortirono, prende parte all’onore di tutti costoro; né il Cronide le recò alcuna violenza, né le tolse nulla di quanto ottenne fra i Titani primi dei, ma possiede come in principio, dall’origine, fu assegnato. Né, perché unigenita, la dea ebbe minore parte di onore (e un premio sulla terra, in cielo e per mare,) ma ancora molto di più, perché Zeus la onora. A chi voglia, dona grande assistenza e gli giova; e in giudizio siede accanto ai re venerandi, nell’assemblea è chi lei vuole a distinguersi; e quando per la guerra divoratrice di uomini si armano i soldati, li la dea assiste coloro a cui voglia volentieri accordare la vittoria e concedere la gloria. Benevola di nuovo qualora gli uomini contengano in gara: allora la dea li assiste e reca loro giovamento; e colui che vince per la forza e il vigore, un bel premio facilmente riporta gioioso, e ai genitori fa dono di gloria. Benevola protegge i cavalieri che voglia, e a coloro che si affaticato sull’azzurro tempestoso e pregano Ecate e l’altitonante Scotitor della terra, facilmente la nobile dea una preda concede abbondante, ma facilmente la toglie già apparsa, se almeno lo voglia nel cuore. … Così dunque, anche se figlia unigenita della madre sua, tra tutti gli immortali è onorata con doni. Il Cronide la fece nutrice dei giovani, che dopo di lei contemplarono con gli occhi la luce di Aurora onniveggente. Così dall’origine fu nutrice di giovani, e questo è il suo onore”5. Ecate: “… è considerata, assieme a Prometeo, con il quale condivide il ruolo di mediatrice tra l’universo divino e il mondo mortale, un retaggio della prima generazione divina. … l’elemento che accumuna Stige, Ecate e Prometeo, ossia i sopravvissuti della prima generazione, è la loro assoluta indipendenza: sono divinità che sembrano non risentire in maniera determinante del superiore potere di Zeus e perciò scelgono liberamente il proprio modo di rapportarsi al nuovo sovrano: Stige ed Ecate, collaborando con lui e sostenendolo, non soltanto mantengono i privilegi di un tempo, ma li accrescono” (pag 9596 teogonia). Ecate è fregiata con l’appellativo “nutrice di giovani”; il compito di allevare e tutelare i giovani, cioè il ruolo di “educatrice”, lo possedeva già prima dello scontro tra Zeus e i Titani”6. Finora sappiamo che Ecate può essere intesa come la somma di tre dee: Selene, Persefone, e


Gianpio Colarossi

Artemide. Sappiamo anche che l’unione di queste tre dee in un’unica dea denominata triplice Ecate, presumibilmente, fu dovuto ad antiche proiezioni psichiche attivatesi, tramite la psiche di uomini antichi, nei riguardi dei “misteriosi” cicli lunari. La triplice Ecate era, forse, un modo primitivo per comprendere le fasi lunari. Felice Romarino nella sua Mitologia classica illustrata afferma che, forse, nell’antichità Ecate simboleggiava la luna nera. Anche attraverso un’ottica più moderna, per esempio quella veicolata da una cultura monoteistica tipica della religione cristiana, possiamo pensare che la dea Ecate simboleggi anche la luna nera; lo possiamo pensare perché la luna nera simboleggia la Madonna Nera. Dobbiamo ricordare, inoltre, che Ecate possedeva da sempre (da prima che Zeus gestisse, a modo suo, il potere preso dal padre Crono) l’appellativo di “nutrice di giovani”; dobbiamo ricordare che l’Artemide di Efeso veniva raffigurata come una dea dai molti seni; dobbiamo anche tenere in mente l’immagine della Madonna Nera con in braccio il nero Bambin Gesù. Il legame per poter associare insieme la dea Ecate con la Madonna Nera lo spiegherò di seguito quando, tramite il dipinto Ecce ancilla Domini, vedremo la corrispondenza esistente tra la dea Selene, la dea Persefone e la Vergine del dipinto; il dipinto del Rossetti è il cardine fondamentale che ci permette di ipotizzare che i tre volti della Madonna coincidono con i tre volti di Ecate. La triplice Ecate tiene in se l’aspetto chiaro e oscuro: della dea Selene, della dea Persefone, della dea Artemide, e della Madonna. Ecate “… non possiede un mito nel vero senso della parola. Resta alquanto misteriosa”7. “… Dea lunare e ctonia, è legata ai culti della fertilità e presenta due aspetti opposti: uno è benevolo e benefico … l’altro aspetto è invece terribile e infernale. … come dea lunare, potrebbe rappresentare le tre fasi dell’evoluzione lunare (crescita, decrescita, scomparsa) e le tre fasi corrispondenti dell’evoluzione vitale: come dea ctonia, collegherebbe i tre livelli del mondo (gli inferi, il mondo terreno, il cielo) …”8. “La maga delle apparizioni notturne era il simbolo dell’inconscio, nel quale si vedono agitarsi fiere e mostri: l’inferno vivente della psiche, ma anche riserva di energia da ordinare, come il Caos si è

ordinato in cosmo per l’influenza dello spirito”9. Quest’ultima frase, tratta dal dizionario dei simboli, ci può far pensare all’immagine della Vergine Maria come fosse un simbolo di un cosmico utero che permette la trasformazione dell’Ombra di Dio (l’Ombra la si può intendere anche come fosse l’immagine del Caos originario) in un ordine tracciato da una religione. LA DEA SELENE. LA LUNA PIENA L’immagine della luna piena è simbolo della Vergine Maria raffigurata nel dipinto Ecce ancilla Domini. Nel dipinto osserviamo che l’angelo pone al cospetto della Vergine un ramoscello con tre gigli bianchi; nel compiere quel gesto, l’angelo, preannuncia alla Vergine ciò che le accadrà in un prossimo futuro. La Vergine, tramite l’espressione del volto e del corpo, manifesta un’emozione mista formata: di timidezza, di timore; non sembra essere un’espressione di stupore forse perché alla Vergine le era già stato preannunciato in Gioventù, dall’immagine dell’angelo bianco con ali rosse, quello che le sarebbe accaduto in futuro (i colori di quell’angelo ricordano i colori indossati dai chierichetti). Nell’Inno a Selene Omero descrive la dea nel seguente modo: “Muse dal dolce canto, figlie di Zeus Cronide, esperte di canzoni, celebrate Selene dalle ampie ali: dal suo capo immortale un chiarore si diffonde nel cielo e avvolge la terra, e una grande bellezza si mostra quando risplende la sua luce; la sua corona d’oro illumina l’aria oscura, e i suoi raggi rifulgono quando la chiara Selene, lavato il bel corpo nell’oceano e indossate vesti sfavillanti, aggioga i puledri lucenti dal collo robusto e rapidamente sospinge in avanti i cavalli dalla bella criniera, al tramonto, al mezzo del mese; poi il gran ciclo si compie, e i raggi della luna che cresce scendono più luminosi dal cielo: allora essa è per i mortali segno e presagio. Con lei una volta il Cronide si unì nel letto ed essa concepì e diede alla luce una figlia, Pandia, che ha singolare bellezza fra gli dei immortali …”10. Anna Ferrari, a proposito di Selene, afferma: “Il nome di Selene, con il quale è indicato anche l’astro lunare, … significa ‘luce’. In un’antichissima storia divina Selene figurava come divinità lunare che, in forma di vacca, si univa al dio sole in forma di toro. … Dalle nozze di Selene con Zeus nacque Pandia, figura divina il

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cui nome significa ‘la completamente splendente’ e che alludeva forse alla chiarità del plenilunio”11. Pandia, è intesa come figlia di Zeus e Selene, “il nome è però anche quello di una festa religiosa per la quale siamo documentati nella sola città di Atene, propriamente una ‘festa di tutto il popolo in onore di Zeus’, ossia una festa dell’unità nazionale. Probabilmente la festa, che risulta celebrata annualmente il quattordicesimo giorno del mese di Elafebolione, in corrispondenza del plenilunio, prese il posto di una precedente celebrazione in onore della Luna, della quale come si è visto Pandia è considerata la figlia, quando non addirittura identificata con essa”12. Dai versi di Omero e dalle parole della Ferrari possiamo intendere come Selene sia la personificazione della luna piena; Selene è il plenilunio, è Pandia. Il potere di Selene è legato alla manifestazione naturale della fase crescente della luna. Selene è quella potenza che fa compiere il grande ciclo; è quella potenza che traina, per due settimane, la luna fino a farla apparire nel suo massimo splendore, identificato con Pandia, il plenilunio. Ora vorrei spiegare in base a quali ragionamenti possiamo ipotizzare che la Luna piena sia uno dei maggiori simboli della Vergine Maria. Questa ipotesi la si può sostenere: tenendo presente che (come vedremo più approfonditamente nella seconda parte di questo scritto) il soprannome di “Orsa” veniva attribuito sia alla Vergine Maria sia alla Vergine Artemide; tenendo presente la nota 20 del Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della trinità dove, Carl Gustav Jung, rimanda il lettore ad uno scritto in cui Rahner Hugo mette a confronto il simbolo di Maria con il simbolo della luna; tenendo presente un’ipotesi avanzata dalle ricerche antropologiche di J. G. Frazer. James G. Frazer tende ad avanzare l’ipotesi di come vi possa essere un rapporto stretto tra la figura mitologica di Iside e l’immagine religiosa della Vergine Maria. Frazer afferma: “… Non dobbiamo quindi meravigliarci se in un periodo di decadenza quando ogni fede tradizionale era scossa e tutti i sistemi crollavano, quando la mente degli uomini era turbata e la struttura dello stesso impero, un tempo considerato eterno, cominciava a mostrare segni di dissoluzione, la serena figura di Iside, con la sua calma spirituale e la sua dolce promessa di immortalità, apparisse a molti come

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una stella in un cielo tempestoso e risvegliasse nel loro petto un rapimento di devozione non dissimile da quello offerto nel Medioevo alla Vergine Maria. Certo il suo maestoso rituale, con i suoi preti rasi e tonsurati, con i suoi mattutini, i suoi vespri e la sua musica tintinnante, con il suo battesimo e le sue aspersioni d’acquasanta, con le sue solenni processioni e le sue immagini di madre di Dio cariche di gioielli, offriva molti punti di somiglianza con la pompa e con le cerimonie del cattolicesimo. La somiglianza non è forse del tutto accidentale. L’antico Egitto può avere contribuito al sontuoso simbolismo della Chiesa cattolica, come ne contribuì alle pallide astrazioni della teologia. Certo nell’arte la figura di Iside col bambino Oro al seno somiglia talmente alla Madonna col Bambino che ha qualche volta ricevuto l’adorazione di inconsapevoli cristiani. Ed è forse a Iside, nel suo posteriore carattere di protettrice dei marinai, che la Vergine Maria deve il suo bell’epiteto di Stella maris”13. Ora, tramite le Metamorfosi di Apuleio, riporto alcune frasi della preghiera che Lucio rivolge alla Regina del cielo (la luna): “Regina del Cielo sia tu Cerere datrice di vita e prima creatrice delle messi … o sia tu Venere celeste … o sia tu la sorella di Febo … o sia tu Proserpina, terribile coi tuoi ululati notturni … tu che con questa luce femminile rischiari le mura di ogni città …”14. “Dopo che ebbi pronunciate queste preghiere, aggiungendo lamenti disperati, di nuovo, in quello stesso giaciglio dove mi trovavo, il sonno calò sul mio animo esausto, avvolgendolo completamente. Ma avevo appena chiuso gli occhi ed ecco dal seno del mare emergere un’apparizione divina, che mostrava un volto degno di essere adorato persino dagli dèi; poi, a poco a poco, sorgendo in tutta la sua persona, quell’immagine luminosa, scuotendosi di dosso le onde marine, mi parve che venisse a fermarsi proprio davanti a me. …”15 La luna rispose a Lucio: “<Eccomi, Lucio, commossa dalle tue preghiere vengo a te, io, la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l’origine prima dei tempi, la più grande tra gli dei, la regina dei morti, la signora dei celesti, l’immagine unificante di tutti gli dei e le dee; io che regolo secondo la mia volontà le luminose altezze dei cieli, le salubri bellezze dei mari, i disperati silenzi degli inferi; e la divinità unica che io sono, il mondo intero la venera sotto diverse forme, con differenti riti e con nomi più


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vari. Da una parte i Frigi, i più antichi abitatori della terra, mi chiamano la Pessinunzia Madre degli dei, dall’altra, gli Ateniesi autoctoni Minerva Cecropia, lì i Ciprioti bagnati dai flutti Venere di Pafo, e i Cretesi armati di frecce Diana Dictinna, i siculi trilingue Proserpina Stigia … ma coloro che sono illuminati dai primi raggi del sole che nasce e da quelli morenti del sole che tramonta, le due razze degli Etiopi, e con loro gli Egizi insigni per la loro antica sapienza, onorandomi con il culto che più mi si addice, mi chiamano col mio vero nome, Iside regina”16. Da tutte queste associazioni possiamo vedere come il termine “Iside regina” sia il vero nome di quell’immagine che può fornire un legame che unisce l’immagine della luna con l’immagine della Madonna. Perciò ho scelto di accettare l’ipotesi che le quattro fasi della Luna siano simboli dei quattro volti della Madonna. Ma che cos’è il plenilunio? Il plenilunio è quella fase del mese lunare in cui il volto a noi visibile della Luna viene totalmente avvolto dalla luce solare. La luce solare è simbolo di Dio e di Zeus. L’immagine del plenilunio ci permette “una” analisi delle parole d’Annunciazione; il plenilunio ci può far pensare che quelle parole dell’angelo vogliano dire che Dio come luce solare avvolgerà la Vergine Maria che diventerà Selene o Pandia o la Madonna bianca. Anche le parole di Omero possono far pensare che dall’unione di Zeus (il padre degli dei che personifica Dio) con la Luna venga generata Selene cioè la Madonna Bianca, cioè Pandia ‘la completamente splendente’. Però Ovidio parla di un Grande Ciclo che si compie. Inoltre Ovidio è negli ultimi versi dell’inno a Selene che afferma che Zeus si unirà con la Luna e da quella unione nascerà Pandia (cioè Selene stessa), colei che trainerà la luna al centro del cielo per farla apparire nel suo massimo splendore. Quindi Omero forse tende ad affermare che Zeus si unirà con Selene quando essa personifica il plenilunio; il plenilunio metaforizza l’unione della luce di Zeus con la Luna; quest’unione sarà intesa come un rapimento perché dopo il plenilunio avviene che la luna decresce e il decrescere della luna è associato con il mito di Persefone la Vergine rapita dall’Ombra. Questo concetto appena espresso lo possiamo comprendere tramite il dipinto del Rossetti in cui appare la Vergine immacolata (personificazione del

plenilunio) rapita dall’immagine del giglio bianco e dalle parole dell’angelo. Quindi quei versi di Omero, uniti con le parole dell’Annunciazione (… la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra), uniti con i gigli che accompagnano quelle parole non espresse nel dipinto del Rossetti, e uniti con i gigli che la Vergine Persefone stava cogliendo un’ attimo prima di essere rapita dal dio dell’Ombra, ci porteranno a transitare il simbolico ponte immaginato nella luna calante per poter giungere al simbolo della Luna nera. LA DEA PERSEFONE RAPITA DAL DIO DELL’OMBRA. LA LUNA DECRESCENTE La fase della luna decrescente può essere intesa come un passaggio graduale dall’immagine della Madonna bianca all’immagine della Madonna nera. Questa transizione, presumibilmente, è metaforizzata nel mito di Persefone , la vergine dea che, come la Vergine Maria, fu rapita da un’Ombra. personifica anche uno dei tre volti della triplice Ecate. Di seguito riporto alcune parti del mito di Persefone, decritto da Ovidio, per poi porre l’attenzione: sul giglio bianco; sull’altissimo grido che Persefone lanciò mentre veniva rapita; e su una versione del mito di Ecate in cui si afferma che fu Ecate stessa a scendere nell’Ade per riportare Persefone in vita. Nell’Inno a Demetra leggiamo: “Comincio a cantare Demetra dai bei capelli, dea venerabile, e la sua figliola dalle caviglie sottili, che Adoneo rapì – glielo concesse Zeus onniveggente, signore del tuono, ingannando Demetra dalla spada d’oro, dea delle splendide messi – mentre giocava insieme alle floride figlie di Oceano e coglieva fiori (le rose e il croco e le belle viole su un morbido prato. Coglieva le iris e il giacinto, e anche il narciso – insidia per la tenera fanciulla – che la Terra generò su richiesta di Zeus, per compiacere il signore infernale: straordinario fiore splendente, prodigiosa visione per tutti quel giorno, sia per gli dèi immortali che per gli uomini mortali. Dalla sua radice sbocciavano cento corolle, e al suo profumo fragrante sorridevano l’ampio cielo e tutta la terra e la salsa distesa del mare. Stupita la fanciulla protese entrambe le mani per cogliere il bel balocco; ma l’ampia terra si aprì nella pianura di Nisa, e ne uscì con i suoi

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cavalli immortali il signore che ha molti nomi e molti sudditi, figlio di Crono. Afferrò la ragazza e la condusse via sul suo carro d’oro: ed essa, riluttante e in lacrime, mandò un grido altissimo, invocando il padre Cronide, sovrano potente. Ma nessuno fra gli immortali né fra gli uomini mortali sentì la sua voce, neppure gli ulivi dai frutti lucenti. Soltanto la figlia di Perseo la sentì dal suo antro, Ecate dalla candida mente, dal velo splendente; anche il dio Elios, luminoso figlio di Iperione, la sentì invocare il nome del padre Cronide: ma questi era lontano dagli altri dèi, chiuso nel suo tempio ricco di preghiere, intento a ricevere bei sacrifici dagli uomini mortali”17. Torniamo all’Inno a Demetra per sentire come Persefone racconta alla madre che cosa le era accaduto: “… Ti dirò tutta la verità mamma … Ti dirò anche come mi rapì e fuggì, conducendomi negli abissi della terra, secondo la ferma volontà del Cronide mio padre: ti racconterò tutto ciò che mi chiedi. Noi tutte insieme sul prato incantevole – Leucippe, Fainò, Elettra e Iante, Melite, Iache, Rodeia e Calliroe, Melòbosi, Tyche e la tenera Okyroe, Criseide, Ianeira, Acaste e Admete, Rodope, Plutò e l’affascinante Calipso, Stige, Urania, e l’amabile Galaxaure, e Pallade battagliera e Artemide saettatrice – giocavamo e raccoglievamo splendidi fiori, il croco delicato e insieme iris e giacinti e corolle di rose e gigli, spettacolo meraviglioso e il narciso, che simile al croco spuntava dall’ampia terra. Io appunto lo coglievo con gioia, ma il suolo da sotto si apri, e ne balzò fuori il possente dio, signore di molti. Mi porto sotto terra sul suo carro d’oro, benché resistessi e levassi altissime grida”18. Ora torniamo ai versi con cui Ovidio descrive quel rapimento: “E intanto, con l’assenso di Zeus, rapiva la dea riluttante il fratello del padre, il dio che ha molti sudditi e molti ospiti, il Cronide dai molti nomi, con i cavalli immortali. Finché la dea poteva vedere la terra e il cielo stellato e il mare pescoso dalle vaste correnti e la vampa del sole, finché ancora si aspettava di rivedere la dolce madre e l’eterna famiglia degli dèi, la speranza le riscaldava il nobile cuore, benché fosse angosciata. <Ma quando entrò nella terra, levò un lunghissimo grido.> Echeggiarono le vette dei monti e gli abissi del mare alla sua voce immortale, e la venerabile madre la sentì. Un acerbo dolore le prese il cuore, e dai capelli divini si strappava il velo con le sue stesse mani. Si gettò

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sulle spalle un manto funereo, e si lanciò come un uccello sulla terra e sul mare, alla ricerca; ma nessuno volle dirle la verità, né fra gli dèi ne fra gli uomini mortali, e nessun uccello le portò un messaggio veritiero. Per nove giorni l’augusta Demetra vagò sulla terra, stringendo in mano fiaccole ardenti: chiusa nel suo dolore, non si nutriva né di ambrosia né di dolce nettare, né immergeva le membra nell’acqua. Ma quando le apparve la decima fulgida aurora, le venne incontro Ecate, con in mano una torcia, e così le rivolse la parola, desiderosa d’informarla: <Augusta Demetra, signora delle messi, ricca di doni, chi fra gli dèi celesti o fra gli uomini mortali ha rapito Persefone e ha contristato il tuo cuore? Infatti ho sentito le grida, ma non ho visto con i miei occhi chi fosse. Questa è la verità, tutta quanta.> Così disse Ecate; e non le diede risposta la figlia di Rea dai bei capelli, ma subito con lei si incamminò, stringendo in mano fiaccole ardenti. Andarono da Elios, sentinella degli dèi e degli uomini; si fermarono davanti ai cavalli, e la dea luminosa gli chiese: <Elios, almeno tu rispetta una dea, quale io sono, se mai con parole o con fatti ho compiaciuto il tuo cuore. Mia figlia, quel mio dolce germoglio, dal volto luminoso … ho sentito la sua voce acuta nel limpido etere, come se subisse violenza; ma non ho visto con gli occhi. Ma poiché tu su tutta la terra e sul mare volgi il tuo sguardo raggiante dall’alto dell’etere chiaro, dimmi sinceramente se hai visto colui – un dio o un mortale – che ha preso mia figlia, mentre io ero lontana, facendole violenza, ed è fuggito con lei.> Così disse; e il figlio di Iperione le rispose: <Figlia di Rea dai bei capelli, signora Demetra, saprai tutto. Ti rispetto molto, e compiango il tuo dolore per la figliola dalle caviglie sottili. Nessun altro degli immortali è colpevole se non Zeus che addensa le nubi che l’ha assegnata come florida sposa ad Ade, suo fratello. Questi l’ha rapita e con le cavalle l’ha trascinata dentro la densa tenebra, nonostante le sua grida. Ma tu, dea, arresta il pianto copioso: non conviene che tu nutra una collera così insaziabile. Fra gli dèi non è un genero indegno di te Adoneo dai molti sudditi, tuo fratello e tuo consanguineo. Ebbe in sorte il suo regno all’inizio, quando fu fatta la divisione in tre parti. Abita con coloro di cui gli toccò di essere il signore.> Così disse, ed incitò i cavalli: ed essi al suo ordine rapidamente tirarono il carro veloce, come grandi uccelli. A lei un dolore più atroce e


Gianpio Colarossi più aspro entrò nel cuore. … “19. Ai fini del nostro discorso (che prevede una associazione tra: la Luna decrescente; la Vergine Maria coperta dall’Ombra di Dio e la dea Persefone rapita dal dio dell’Ombra) prenderò in considerazione che il giglio bianco fu quel fiore che la dea colse prima di essere rapita. Osservando il dipinto Ecce ancilla Domini appare lampante l’associazione con il mito di Persefone. La Vergine Maria del Rossetti è assorta nell’osservare quei gigli bianchi; l’espressione impaurita manifestata nel volto e nella postura della Vergine, forse è la stessa espressione di terrore emanata dall’urlo di Persefone. Quell’urlo lo possiamo immaginare come fosse l’urlo terrificante della Luna mentre viene trascinata nell’Ombra dalle cavalle immortali guidate dal dio delle tenebre. Ovidio afferma che per nove giorni la dea Demetra vogò sulla terra, stringendo in mano fiaccole ardenti; questo particolare dei 9 giorni e delle torce accese ci può far pensare alla fase della Luna nera, cioè a quella fase in cui la luna mostra il suo autentico oscuro volto (non mascherato dalla luce solare); quel volto che emana una maggiore oscurità sia di giorno che di notte. Alla decima aurora Demetra, con le sue due torce accese, seguì il passo guidato dalla luce emanata dalla torcia della triplice Ecate. “In versioni successive del mito è Ecate stessa a scendere all’Ade per riportare alla vita Persefone”20. Ora ci accostiamo alla simbologia della torcia, per poi procedere con una serie di deboli associazioni con i fiori dei due dipinti, e con l’iris raccolto da Persefone, per poter ipotizzare che, forse, quel ramo di fiori tenuto dall’angelo Gabriele ha la stessa valenza simbolica della torcia di Ecate. La torcia è “un simbolo che si avvicina a quello dell’uccelli, della luce, dell’arcobaleno Iride. La madre di Persefone cerca la figlia con l’aiuto di torce ardenti. Quando incontra Ecate, questa tiene una fiaccola in mano. il titolo di Dadoforo attribuito a uno dei più importanti sacerdoti di Eleusi significa Portatore di torcia. Con l’aiuto di frecce infiammate, Eracle abbatté l’Idra di Lerna e ne bruciò le carni con tizzoni fiammeggianti per impedire alle teste di rispuntare. Sembra, da questi esempi, che la torcia sia un simbolo di purificazione con il fuoco e di illuminazione. È la luce che rischiara la traversata degli inferi e il cammino dell’iniziazione”21.

Possiamo quindi erroneamente ipotizzare che fu l’Iris il fiore del rapimento. Questa è una ipotesi errata perché Omero tende a puntualizzare che quel fiore era un narciso22. L’ipotesi è possibile guardando le foglie dei fiori nella brocca d’acqua del primo dipinto del Rossetti; sono foglie a forma di spada, la tipica forma delle foglie dell’iride o iris. Dato che la torcia è associata anche con Iride (intesa come dea e non come fiore) possiamo avanzare la debole ipotesi che i fiori dell’annunciazione passano essere associati alla torcia di Ecate. LA MADONNA NERA. LA LUNA NERA L’astronomia afferma che l’astro lunare diventa oscuro quando il pianeta terra si allinea tra la luna e il sole; quindi è l’ombra della terra ad oscurare la luna. Alcuni mitologi affermano che la dea Persefone, in veste di Regina, rimarrà sei mesi dell’anno nel regno di Ade e i restanti sei mesi li trascorrerà con la madre nell’Olimpo; altri mitologi affermano che Persefone sarà regina degli inferi per un terzo dell’anno ed il restante tempo lo trascorrerà nell’Olimpo; “Demetra avrebbe tenuto con se la figlia per nove mesi all’anno (o sei secondo altre versioni del mito), mentre il resto del tempo Persefone sarebbe stata con Ade”23. Entrambe le versioni sembrano non coincidere con ciò che afferma Omero. Nell’Inno a Demetra, Demetra parla alla figlia chiedendole: “Figlia, non avrai certo mangiato del cibo là sotto? Parla, non nascondermi nulla: così entrambe sapremo. Se è così infatti, lontano da Ade odioso insieme a me e al padre Cronide dalle nere nubi vivrai, onorata da tutti gli immortali. Se no, scendendo di nuovo nei recessi della terra vivrai laggiù ogni anno per un terzo delle stagioni e per due terzi con me e con gli immortali”24. Apollodoro afferma: “… da allora Persefone deve rimanere con Plutone un terzo dell’anno, e il resto può stare insieme agli altri dèi”25. In nota 49 leggiamo: “… Sarà utile ricordare che i Greci dividevano l’anno in tre stagioni: Persefone quindi resta nell’Ade soltanto nei mesi invernali, corrispondenti alla morte della vegetazione, quelli in cui il seme deve nascondersi sotto terra per poi spuntare a Primavera”26. Sappiamo che le stagioni erano quattro, infatti Omero afferma: “Quando Saturno fu spedito nel Tartaro tenebroso e il mondo si ritrovò sotto il

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regno di Giove, subentrò l’età dell’argento: più scadente dell’oro, ma di pregio maggiore del fulvo bronzo. Giove ridusse la durata originaria della primavera, e fece scorrere l’anno attraverso inverno, estate e incostante autunno e primavera breve: le quattro stagioni”27. Quindi analizzando la frase: “vivrai laggiù ogni anno per un terzo delle stagioni e per due terzi con me e con gli immortali”28 possiamo ottenere il seguente risultato: Persefone rimarrà nell’Ade un terzo per ogni stagione, quindi rimarrà quattro mesi (uno di primavera, uno d’estate, uno d’autunno, e uno d’inverno) nell’ Ade, i restanti mesi delle stagioni li trascorrerà con la madre e con il padre. Però, è da ricordare che Persefone venne rapita in un luogo dell’Italia dove regnava una primavera eterna; Ovidio afferma: “non lontano dalle mura di Enna c’è un lago che si chiama Pergo; l’acqua è profonda. Neppure il Caistro sente cantare tanti cigni sopra le onde della sua corrente. Un bosco fa corona alle acque, cingendole da ogni lato, e con le sue fronde fa schermo, come con un velo, alle vampe del sole. Frescura donano i rami, fiori variopinti l’umido terreno. Qui la primavera è eterna. In questo bosco Proserpina si divertiva a cogliere viole o candidi gigli, ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e le falde delle veste, e faceva con le compagne a chi ne coglieva di più quando Plutone – fu quasi tutt’uno – la vide, se ne innamorò e la rapì”29. … “quanto a Giove, facendo da mediatore tra il fratello e l’afflitta sorella, divide il giro dell’anno in due parti uguali: ora Proserpina, divenuta una divinità comune ai due regni, sta tanti mesi con la madre e altrettanti col marito”30. Se osserviamo il ciclo lunare con l’ottica del mito allora possiamo affermare che Persefone sarà Regina degli inferi per una settimana ogni mese lunare. Ora vorrei tornare a parlare del luogo del rapimento; il luogo della “primavera eterna”; forse il rapimento di Persefone può essere inteso come fosse una metafora per descrivere, in termini mitologico, cosa accade nella psiche umana quando l’uomo viene afferrato da un periodo di grande introversione. Tramite le Metamorfosi di Ovidio troviamo un immaginario dialogo avvenuto tra Zeus e Demetra. Nel dialogo i due genitori parlano della loro figlia, e nel parlarne sembra che stiano parlando di una

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figlia particolare, con una sensibilità molto particolare. La dea Demetra viene a sapere dal fiume Aretusa dove si trova la figlia. Il fiume le dice: “… orbene, passando sotterra tra i gorghi dello Stige, ho visto laggiù, con i miei occhi, Proserpina: triste, sì, e ancora con l’aria un po’ spaventata, e tuttavia regina, signora del mondo buio, potente consorte del sovrano dell’Averno”31. “All’udir queste cose la madre restò di sasso, rimase a lungo come paralizzata. Quando finalmente il tremendo stordimento passò, scacciato dal tremendo dolore, partì sul suo cocchio per le regioni del cielo. Lì, tutta rannuvolata in volto, piena di odio, si parò con i capelli scomposti davanti a Giove e disse: ‘Vengo a pregarti, Giove, per il sangue mio nonché tuo. Se io madre non conto nulla, commuoviti comunque per tua figlia; e spero che il fatto che l’abbia partorita io non t’induca a curartene di meno! Ecco che dopo tanto cercare l’ho ritrovata, se chiami il ritrovare il perdere con più certezza, o se chiami ritrovare il sapere dove sia finita. Che sia stata rapita, pazienza! Purché lui la renda! Tua figlia non può infatti sposare un predone, anche se per caso come figlia mia lo potesse!’ Rispose Giove: ‘Tutti e due siamo legati da affetto e senso di responsabilità a questa figlia. Ma se vogliamo dare alle cose il loro vero nome, qui non si tratta di un’impresa malvagia, ma proprio di amore, e io non mi vergogno di un genero così, naturalmente se tu acconsenti, o dea. Anche se gli mancasse il resto, che titolo essere fratello di Giove. Ma il resto poi non gli manca, e se mi è inferiore, è solo per il regno che gli è toccato in sorte. Comunque, se desideri tanto che si separino, Proserpina tornerà a vedere il cielo, ma ad una condizione ben precisa, che laggiù non abbia portato alla bocca nessun cibo. Così infatti hanno stabilito le Parche’. Così disse”32. Precedentemente abbiamo parlato dell’età dell’Oro in cui lo scorrere del tempo non veniva segnalato dalla ininterrotta presenza di una eterna primavera; era un età in cui la dinastia dominante era quella dei Titani, capeggiati dal Titano Crono. In seguito, dopo il decennale scontro tra Titani e Olimpii, subentrò l’età dell’Argento in cui la gestione del potere passò nelle mani degli dèi dell’Olimpo governati da Zeus. Il passaggio dall’età dell’Oro a quella dell’Argento, fu segnato anche dalla divisione dell’eterna primavera nelle quattro stagioni. L’avvento delle quattro stagioni fu voluto


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da Zeus: sia per marcare il trascorrere del tempo; sia per la necessità di rendere possibile un compromesso, per risolvere le conseguenze di uno sbaglio commesso da Persefone. Persefone mangiando dei semi di melagrana, aveva trasgredito una regola (oppure, possiamo anche dire, che con quel gesto aveva compiuto una scelta) imposta dalle Parche; quel gesto prevedeva che, per sempre, la figlia di Demetra sarebbe dovuta rimanere nel regno di Ade. Zeus, quindi, si vide costretto ad una mediazione sia per far valere i diritti di Ade, sia per far acquietare il dolore e la collera di Demetra. Quella mediazione fu possibile tramite le quattro stagioni, cioè dividendo il tempo che la dea Persefone poteva trascorrere con la madre e il tempo che doveva trascorrere con Ade. Da tutto ciò possiamo pensare che Persefone venne rapita in un luogo dove regnava la potenza del Titano Crono; quel luogo può esser inteso come il luogo di una potente introversione33. L’eterna primavera di cui parla Ovidio, ci può far pensare alla Primavera di Botticelli. Osservando quel dipinto possiamo notare: un’ immagine divina (presumibilmente le Venere di Pafo) che, come le altre figure femminile, sembra incinta; possiamo osservare Zefiro (il vento violento dell’Ovest) in atto di rapire Cloride (anche chiamata Flora dai romani) mentre raccoglie dei fiori; possiamo notare altri particolari che possono essere intesi come raffigurazioni per immagini del luogo dell’eterna primavera. Tramite le metamorfosi di Apuleio sappiamo che Iside regina aveva molti nomi, tra cui anche quello di Venere di Pafo; vedremo, di seguito, come De la Rocheterie sia propenso ad associare il verde e Venere all’immagine della Madonna Nera. Forse in quella Primavera di Botticelli possiamo anche scorgere quel volto della Luna rapita dall’Ombra di un Dio. Dall’osservazione del dipinto Ecce ancilla Domini; dalla bibliche parole d’Annunciazione; e dalla precedente associazione tra la Madonna e la luna; possiamo pensare che la “Luna” diventa nera quando viene coperta dall’Ombra di Dio. Sembra una stranezza parlare dell’ombra di Dio. Come possiamo affermare l’esistenza dell’Ombra di Dio se ipotizziamo l’esistenza di un Dio assoluto? Se pensiamo a Dio come unica luce dell’unico sole, allora come possiamo affermare l’esistenza dell’ombra del sole? Per logica sappiamo che l’ombra di un qualsiasi corpo, viene

creata da una luce; quindi, forse, possiamo pensare all’ombra di Dio ipotizzando l’esistenza di un altro sole che crei quell’ombra. Una cultura monoteistica non ammette l’esitanza di un altro sole che possa irradiare Dio. Ma, se esiste una sola Luce che crea tutte le Ombre, e se quella Luce è Dio, allora come le possiamo intendere quelle parole dell’angelo Gabriele? Come si forma l’Ombra dello Spirito Santo? Possiamo supporre che l’Ombra non abbia bisogno della Luce per esistere. Lucifero non è il contrario di Dio. “L’Ombra di Dio” può significare che Lucifero non è l’assenza di Bene (perché, per logica, se vediamo un ombra allora c’è anche un “corpo” e una luce che la crea). Avendo visto che Persefone è un volto di Ecate, cioè un volto della luna, cioè un volto della Madonna, allora è nel mito di Persefone che si può trovare una risposta alla domanda relativa all’Ombra di Dio: Persefone non venne rapita dall’Ombra di Zeus. Zeus non è il contrario di Ade; Ade non è l’Ombra di Zeus. La frase dell’annunciazione, forse, porta in se l’ipotesi di una contemporanea presenza di Dio e di Lucifero come entità indipendenti l’una dall’altra. “L’Ombra di Dio” può dare adito ai seguenti ragionamenti: 1) l’Ombra proviene dallo Spirito Santo (ma in questo caso, per logica, bisogna ipotizzare l’esistenza di un altro sole che crei l’ombra di Dio); 2) non si può dire che l’Ombra sia l’assenza del Bene assoluto, perché l’Ombra è una riproduzione oscura di una essenza chiamata Dio (come l’ombra di un albero è una immagine oscura di quell’albero); 3) oppure si può ipotizzare che Dio e l’Ombra siano entità indipendenti l’una dall’altra; però, in questo caso, sembra sia un controsenso ipotizzare l’esistenza dell’Ombra di Dio. Ma ora torniamo a parlare della Madonna nera. Alcuni “luoghi sacri ospitano delle Vergini Nere, che godono di una venerazione particolare. Ve n’è una cinquantina in Francia; le principali sono quelle di Puy, di Rocamadour, di Marsiglia, di Chartres (bruciata nel 1792), di Buolugne su Mer. Ve ne sono anche in Belgio, in Svizzera, in Spagna, in Italia, in Polonia. E non si devono dimenticare le Vergini Nere delle icone bizantine. Possiamo stabilire un parallelo tra queste Vergini Nere cristiane e l’aspetto oscuro, che spesso si aggiunge a quello luminoso, di molte Grandi Dee

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Simboli della trasformazione della luna

Madri: tra le altre, ricordiamo Artemide di Efeso, la Vergine Manelis, Kali Dourga, Ishtar. Talvolta … la Vergine Nera è rappresentata sotto la forma di una pietra nera. Sarà per esempio il caso della Pietra Isterolita (Pietra uterina) o pietra della madre degli dei, degli antichi, oppure la Caaba della mecca dei musulmani. Nell’ambiente naturale, cioè non all’interno di un santuario o di una chiesa, la Vergine Nera viene venerata negli anfratti più oscuri, più misteriosi, di una grotta. Nelle sue vicinanze vi è un pozzo, una sorgente (le acque primordiali generatrici, pure e purificatrici) o una foresta (inconscio labirintico che tuttavia costituisce il legame tra il Cielo e la Terra, tra il Creatore e la Creazione). La veste di queste Vergini Nere ha la forma di un triangolo, che si allarga scendendo fino ai piedi (immagine fallica, ma anche la fiamma della creazione che si eleva verso il creatore), talvolta decorata da tralci di vite, da spighe di grano o, come la base dell’Artemide di Efeso, da ogni sorta di animali (fecondità e fertilità dell’Alma Mater). In certi casi, le mani sono più grandi del naturale, per sottolineare la loro virtù nell’Opera della Creazione; spesso sono velate, per sottolineare che questa opera della Creazione, psichica come fisica, si può compiere solo nel mistero e nella purezza più assolute. Il bambino che le accompagna è poggiato sul ginocchio sinistro della Madre (dalla parte dell’inconscio), o anche al Centro, come se Maria, immagine della materna Saggezza, impartisse un insegnamento attraverso suo figlio, il Cristo. Spesso, inoltre, al nero è associato il verde (colore del tappeto vegetale che ricopre il globo). A Marsiglia, la Vergine Nera è vestita di verde e la si deve toccare il 2 febbraio, il giorno della Candelora (latino, festa candelorum, festa delle candele), con dei ceri vergini, prima di accenderli. Questa tradizione evoca il rinnovamento della vita primaverile, che si annuncia attraverso il verde della vegetazione. Notiamo, per inciso, che il verde è anche il colore della Venere. Le Vergini Nere hanno preso il posto, almeno in Francia, delle statue nere del culto di Iside, portate dai Romani in epoca tardiva. Come queste ultime, esse vengono implorate per ottenere una guarigione, analogamente alla vergine di Lourdes. A Chartres si venera il velo della Vergine, che richiama alla mente i sette veli di Iside: si diceva, infatti, che gli adepti dei misteri di questa dea le toglievano i veli durante i sette stadi

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dell’insegnamento, via via che progredivano verso la conoscenza. … Come Iside e la maggior parte delle Grandi Madri, le Vergini Nere sono associate alla luna; per questa ragione le si rappresenta sopra o sotto una falce lunare. La comparsa delle Vergini Nere nel mondo cristiano è dovuta al fatto che la religione biblica, essenzialmente patriarcale, non ha l’equivalente delle Grandi Dee Madri delle altre religioni, che evocano tanto l’Anima Mundi (Anima del mondo) quanto la Natura Creata. Le Vergini Nere evocano la Creazione, la Natura nel suo aspetto crudele, implacabile, qualora non ci si pieghi alle sue leggi (Kali). I fedeli implorano quindi la sua pietà, soprattutto se la punizione è costituita dalla malattia”34. Vorrei porre l’attenzione sul rito delle candele vergini (nel rito vengono utilizzate candele bianche, ma è possibile anche pensare che quelle candele possano essere di colore verde); il rito prevede che prima di accendere quei ceri bisogna farli entrare a contatto con la statua della Vergine Nera vestita di verde. Questo rito viene svolto i 2 febbraio, il giorno della festa candelorum. La “Candelora è la festa della purificazione della Madonna”35. A proposito della purificazione delle donne, nel Levitico, sono riportate le norme per la puerpera; “Il signore disse a Mosè: <Parla ai figli d’Israele e di’ loro: Se una donna è stata fecondata e partorisce un maschio, è impura per sette giorni, come al tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circoncida la carne del membro del bambino; ed ella continuerà a purificarsi dal sangue per trentatré giorni; non toccherà alcunché di sacro e non andrà al santuario fino a che siano compiuti i giorni della sua purificazione”36. “Quando saranno compiuti i giorni della purificazione … porti un anello per l’olocausto e un colombo o una tortora per il sacrificio espiatorio, al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno; egli faccia ciò alla presenza del Signore e faccia per lei il sacrificio espiatorio ed ella sarà purificata dal flusso del suo sangue”37. In quella tradizione marsigliese, del 2 febbraio, i fedeli mettono in atto una simbolica purificazione della puerpera Madonna Nera. La puerpera sarà impura per sette giorni. La fase della luna nera dura sette giorni. Forse tramite l’immagine della Madonna Nera possiamo comprendere meglio quei versi del


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Levitico. Torniamo all’immagine della candela. “Il simbolismo della candela è legato a quello della fiamma. <Nella fiamma di una candela sono attive tutte le forze della natura> diceva Novalis. La cera, lo stoppino, il fuoco e l’aria che si uniscono nella fiamma ardente, mobile e colorata sono una sintesi di tutti gli elementi della natura, che permangono individualizzati nella fiamma singola. La candela accesa è come il simbolo dell’individuazione, al termine della vita cosmica che si concentra in essa. <Nel ricordo della buona candela dobbiamo ritrovare i nostri sogni di solitari, scrive Bachelard – la fiamma è sola, naturalmente sola, vuole restare sola> … simbolo della vita ascendente. … le candele che ardono accese accanto al defunto – i ceri accesi – sono il simbolo della luce dell’anima nella sua forza ascensionale, della purezza della fiamma spirituale che sale verso il cielo, la perennità della vita personale che è giunta allo zenith”38 (nella seconda parte di questo scritto parleremo del simbolo dello zenith osservandolo sotto l’ottica del simbolico raggiungimento, da parte di Eracle, della quinta cerva dalle corna d’oro e dagli zoccoli di bronzo; quel simbolo indica la presenza di un luogo particolare oltre l’estremo nord; quel luogo ci permetterà di parlare del “volto” della Vergine Iperborea). Se immaginiamo la candela come fosse una torcia allora, forse, possiamo pensare a quel rito del 2 febbraio come fosse il “rito della torcia di Ecate”; lo possiamo pensare così, anche perché il verde rimanda al colore della Venere; e abbiamo visto, tramite le Metamorfosi di Apuleio che la Iside Regina veniva identificata anche con la Venere di Pafo, quella Venere che, tramite il Botticelli, può anche metaforizzare una “primavera eterna”, l’immagine di quel luogo in cui avvenne il rapimento della introversa Vergine Persefone. Il rito della purificazione della Madonna Nera rimanda, quindi, al mito di Persefone e, più precisamente, a quella versione del mito che afferma che fu Ecate stessa che, con la luce della sua torcia, scese nell’Ade per riprendere Persefone Regina a riportarla tra le braccia della madre. Etimologicamente il termine candela è “collegato a candidus, candor; è associato al termine sanscrito candrah (=Brillante)”39; brillante è uno dei volti della triplice Ecate.

LA LUNA CRESCENTE. Una delle tecniche di orientamento afferma che: se non possediamo una bussola; se possediamo un orologio; e se abbiamo bisogno di ritrovare i punti cardinali; allora possiamo orientarci, anche, tramite l’astro lunare. Per esempio, a mezzanotte la Luna Nera indica il nord. La mezzanotte segna la fine di un giorno e l’inizio di un altro giorno. La Luna Nera indica la fine di un ciclo lunare e l’inizio di un altro ciclo lunare. Omero, trattando il mito della dea Selene, parla di un Grande Ciclo che si compie con l’immagine del Plenilunio. La Luna crescente può essere intesa come uno dei volti della triplice Ecate, quel volto che esprime l’inizio del ritorno di Persefone nell’Olimpo. Nella seconda parte di questo articolo riprenderò il discorso della Luna Crescente; prenderò in considerazione quell’entità simboleggiata sia dalla biblica Vergine Maria sia dalla divina Vergine Artemide; tramite i due dipinti del Rossetti tratterò altri argomenti, tra i quali incontreremo anche i falsi richiami emanati dall’uomo ammaestrato. Forse parlerò di un’altra divinità che manifestò un trasformazione (che si evidenziò tramite un cambiamento di colore: da nero a bianco) avvenuta, forse, in seguito ad un attacco follia di un essere umano.

Bibliografia e Note 1. Vangelo secondo Luca 1, 25-39. 2. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, v.1, p. 415. 3. Ramorino, F., Mitologia classica illustrata, p. 253. 4. Cfr. Romarino, F., Mitologia classica illustrata, pp. 254-255. 5. Esiodo, Teogonia 409-452. 6. Esiodo, Teogonia, 2004, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011, nota 109, p. 96. 7. Grimal, P., Enciclopedia della Mitologia, p. 178. 8. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, v. 1, p. 401. 9. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, v. 1, p. 401. 10. Omero, Inni omerici XXXII 1-16. 11. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, v.2, p. 375. 12. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, v.2, p. 221. 13, Frazer, J. G., Il ramo d’oro, p. 461

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14. Cfr. Apuleio, Le metamorfosi XI, 2. 15. Apuleio, Le metamorfosi XI, 3. 16. Apuleio, Le metamorfosi XI, 5. 17. Omero, Inni omerici II 1-29. 18. Omero, Inni omerici II 414-432. 19. Omero, Inni omerici II 30-90. 20. Omero, Inni omerici, 1998, BUR, Milano, 2000, nota 9, p.217. 21. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, v. 2, p. 477. 22. Colarossi Gianpio, Saggi di psicologia Archetipica, in uscita con Youcanprint 23. Esiodo, Teogonia, 2004, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011, nota 110, p. 153. 24. Omero, Inni omerici II 393-400. 25. Apollodoro, Biblioteca I, 5,3. 26. Apollodoro, Bilioteca, 1998, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011, nota 49, p. 237. 27. Ovidio, Metamorfosi II, 113-118. 28. Omero, Inni omerici II 399-400. 29. Ovidio, Metamorfosi IV, 385-395. 30. Ovidio, Metamorfosi IV, 564-567. 31. Ovidio, Metamorfosi IV, 504-508. 32. Ovidio, Metamorfosi IV, 501-533. 33. Colarossi, G., Il dubbio, l’anello di Prometeo, pp. 115 e sg. 34. De la Rocheterie, J., Il corpo nei sogni, pp. 280282. 35. Cortelazzo, M., Zolli, P., Dizionario etimologico della lingua italiana, p. 204, Candelora. 36. Levitico 12, 1-4. 37. Levitico 12, 6-7. 38. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, v. 1, p. 183. 39. Rusconi, Dizionario etimologico, p. 470, Candela.

Apollodoro, Biblioteca, 1998, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2011. Apuleio, Le metamorfosi, 1990, BUR, Milano, 2009. Chevalier, J., Gheerbrant, A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001. Colarossi,G., Il dubbio, l’anello di Prometeo, Youcanprint Self-Publisching, Lecce, 2013. Cortelazzo, M., Zolli, P., Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli editore, 2009. De La Rocheterie, J., Il corpo nei sogni, Tascabili Bompiani, 2001. Esiodo, Teogonia, 2004, Arnoldo Mondadori

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Editore, Milano, 2011. Ferrari, A., Dizionario di mitologia, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006. Frazer, J. G., 1965, Il ramo d’oro,Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Grimal, p., Enciclopedia della mitologia, Paideia Editrice, Brescia, 2009. La Bibbia, Edizioni San Paolo, Milano, 1997. Omero, Inni Omerici, 1998, BUR, Milano, 2000. Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, 1979, Einaudi, Torino, 1994. Ramorino, F., Mitologia classica illustrata, 1988, Hoepli, Milano, 1992. Rusconi, Dizionario Etimologico, Legoprint-Lavis (TN), 2006.

Gianpio Colarossi: psicologo, psicoterapeuta in formazione al quarto anno del Corso quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Psicoterapia Atanor dell’Aquila. Nel maggio 2007 è nominato Cultore della materia MPSI01 Psicologia Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi dell’Aquila. Nel dicembre 2007 è nominato Cultore della materia Elementi di Psicoterapia di Gruppo MPSI07 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila. Tra le sue pubblicazioni figurano Anima e sangue (Pescara, Samizdat, 2005), e numerosi articoli su diverse riviste di psicologia.


L'Anima Fa Libro

I sogni dei bambini sono perciò, spesso, di straordinaria importanza, perché, essendo la coscienza infantile ancora debole, tali sogni possono emergere dall’inconscio collettivo senza inibizioni”. Con queste parole Jung ci suggerisce il valore esplicativo dell’analisi dei sogni dei bambini, ci suggerisce come il transapersonale e il personale non siano, in età evolutiva, strutturati con confini così rigidi, ci suggerisce come i bambini costituiscano un medium privilegiato per l’accesso all’inconscio collettivo, agli archetipi e al Mundus immaginalis. La Bollati Boringhieri, con sapiente tempismo, promuove a fine 2013 l’uscita del libro sui Seminari: I sogni dei bambini. Seminario tenuto nel 1936-41 (da cui è tratta la frase d’esordio). Il libro si presenta nel layout come per le edizioni sui seminari sullo Zarathustra, ossia di un rosso vivo che ci rimanda alla rubedo alchemica e stimola nel percorso di individuazione. Ineccepibile quindi l’opera dei curatori e degli editori, ma per gli addetti ai lavori ci sono due aspetti poco gradevoli. Il primo da riferire al fatto che i sogni sono, per la maggior parte, racconti di sogni di adulti che ricordano i propri sogni d infanzia, aspetto questo che fa perdere di freschezza alla trattazione in quanto si avverte una sorta di ritrattazione di contenuti collettivi sotto l’egida della funzione pensiero. Il secondo riguarda l’atteggiamento espositivo dei relatori. Ogni capitolo si compone dell’esposizione del sogno, dell’analisi del relatore e infine delle considerazioni del Prof. Jung. I relatori, nonostante gli anni del dominio della psicoanalisi fossero passati, sembrano troppo spesso essere portatori di quella cultura psicoanalitica. La psicologia analitica si presenta a noi solo come mero esercizio accademico da parte dei relatori, non come lente con cui osservare che sembra ancora una lente psicoanalitica. Ma il buon Maestro mette ordine e si trova nei suoi interventi lo junghismo che, come sappiamo, è solo di chi lo ha promosso. Allora si assiste a un “romanzo” sul sogno, si assiste a un racconto che rapisce per coerenza e per linearità. Il sogno nelle mani di Jung diventa opera che prende una forma inaspettata ma sempre lucida. Anche per un Hillmaniano, come il sottoscritto, diventa, quindi, impossibile non riconoscerne il contributo sostanziale. Il libro ha un ulteriore merito ossia quello di presentarsi, forse involontariamente, come un vero e proprio manuale. E’ un libro sul metodo di analisi dei sogni. Il capitolo introduttivo è proprio sul metodo e risulta stranamente sistematico trattandosi di Jung il visionario. Nei capitoli successivi si avverte altrettanta sistematicità e questa è, forse imputabile al fatto che, con sapiente diplomazia, Jung cerca di mettere ordine alle considerazioni dei relatori, cerca di epurarle di quel background freudiano e di restituire al sogno la sua dignità analitica. Forse è proprio questo intento diplomatico che lo obbliga alla sistematicità. I sogni vengono poi analizzati a più riprese, in più incontri. Il maestro ci da un saggio, così, di come la contemplazione dell’immagine sia di per se in grado di ingravidare (Betrachten) la stessa di significati. Insomma finalmente un libro sul metodo, sicuramente da non perdere con una sola cautela, aver la pazienza di non farsi sconfortare dallo stile inizialmente troppo freudiano dei primi contributi, per farsi rapire qualche pagina più avanti. LUCA URBANO BLASETTI

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Salvador Dalì, La perla, 1981

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a perla è un oggetto sferico, opalescente, dai riflessi rosati. È creata dalla natura all’interno della conchiglia di numerose specie di molluschi, nella profondità oscure dell’acqua marina. Per questo suo essere luminosa nelle tenebre, la perla è diventata un simbolo lunare legato all’acqua e alla donna, con una costanza e universalità di significati sorprendente, riscontrabile sin nelle sepolture preistoriche.1 Sferica come la femminile luna, nata dalle acque (quindi da un elemento femminile, germinatore per eccellenza) come un feto, nata fra le valve di un mollusco (valve universalmente associate all’organo genitale femminile), la perla prese a rappresentare il frutto più prezioso della creatività

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femminile, e per metonimia quindi simbolizzò questa creatività stessa: da ciò le proprietà medicinali, ginecologiche, che in India e in Cina le venivano e le vengono attribuite.2 Essa diventò un “centro cosmologico”, nel quale coincidevano i prestigi della Luna, della Donna, della Fecondità, del Parto.3 E ancora nell’Europa medievale, era utilizzata per guarire la malinconia,4 riuscendo essa a fornire quell’energia vitale che il malinconico mostrava di aver smarrito. Il suo potere di dar vita quindi può esercitarsi: da un lato (sull’uomo vivo) con le sue proprietà afrodisiache e rinvigorenti, tanto da prolungargli la vita (come si crede in Cina); dall’altra (sull’anima dell’uomo morto) con il suo indicare la strada di


Giuseppe Vadalà una nuova vita, con il suo potere di rigenerazione perché in contatto col principio cosmologico della vita (per questo in Laos, in India, nella Florida precolombiana, i morti venivano forniti di una scorta di perle).5 Come le fasi della luna, così le fasi del ciclo vitale (nascita, vita, morte e rinascita) sono simbolizzate dalla perla. La sua funzione afrodisiaca (donde la leggenda della seducente Cleopatra bevitrice di perle) è raffigurata anche nella Grecia classica dal mito di Afrodite che sorge da una conchiglia marina: ma, anche qui, la chiara allusione sessuale rimanda ad un più generale significato di “nascita alla vita”, emersione dall’oscurità mortali delle acque. È infatti destino della perla, per risplendere nella sua lucentezza, che essa emerga alla luce: ed è costante lotta delle forze malefiche quella di mantenerla imprigionata sott’acqua, come fanno i draghi (compreso quello dell’Inno della Perla, come vedremo). Partendo da questa forte valenza simbolica, il Cristianesimo, la Gnosi e l’Islam hanno apportato contenuti più estesi al simbolo della Perla, ma anche più spirituali e meno legati alle origini materiali del simbolo. Nucleo di partenza è sempre il suo valore di germinazione, di fecondazione vitale, ma esso non è più esplicitato direttamente: ciò che ora viene messo in risalto è il fatto che la Perla è un oggetto prezioso e nascosto, promessa di una nuova vita, più ricca e più bella, radiosa, splendente. Così fin dal Nuovo Testamento leggiamo che: Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.6 È la stessa parabola che il Vangelo di Tommaso apocrifo racconta con minore drammatizzazione: Gesù ha detto: Il regno del Padre è simile a un mercante che ha della merce. Trovata una perla, quel mercante, essendo saggio, vendette la merce e si comprò la sola perla …7 In Oriente il tema del tesoro trovato, o ritrovato, era diffuso, e serviva a sviluppare qualche tema morale: ad es., l’acquisto della perla poteva essere la ricompensa di una particolare pietà, oppure la perla poteva salvare la vita del mercante sorpreso dai rapinatori. Invece nel NT è evidenziato «l’abbandono totale di quanto è prezioso» perché «sopraffatti dalla grandezza della scoperta».8 La perla preziosa quindi, la cui bellezza sopraffà il

mercante e orienta tutta la sua vita, illustra l’interiorità e la preziosità del tesoro di salvezza che viene messo a disposizione dei fedeli della Chiesa.9 Ecco allora che su di una pittura del II secolo, che si trova nelle catacombe romane della via Ardeatina, [vediamo] raffigurati due rami di alloro ed una collana di perle che stanno a rappresentare il trionfo dei martiri e la loro divina ricompensa, se regnans dat in praemium.10 E nel vecchio Breviario romano, per l’Uffizio della festività di Sant’Agnese, la martire parla così del Signore: Egli ha messo attorno a me delle file di perle brillanti e fresche come la primavera. Una articolata allegorizzazione relativa alla perla si trova nel Fisiologo (fine II – inizio III secolo): Quando i pescatori vanno in cerca della perla, la trovano con l’aiuto dell’agata. Legano infatti l’agata ad una solida cordicella e la fanno scendere nel mare: l’agata allora va dov’è la perla e vi si ferma e non si muove di lì, e subito i palombari individuano il luogo dove si trova l’agata e lasciandosi guidare dalla fune trovano la perla. E come si genera la perla? Ascolta: nel mare esiste una conchiglia detta ostrica; essa emerge dal mare nelle prime ore del mattino, e la conchiglia apre la bocca, assorbe la rugiada celeste e il raggio del sole e della luna e delle stelle, e con la luce degli astri superiori produce la perla. La conchiglia ha due valve, dove si trova la perla. L’agata è una figura di Giovanni [Battista]: egli ci ha mostrato infatti la perla spirituale, dicendo: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» [Giovanni, 1, 29]. Il mare rappresenta il mondo, e i palombari la schiera dei profeti; le due valve della conchiglia, invece, rappresentano il Vecchio e il Nuovo Testamento. Allo stesso modo, il sole e la luna e le stelle e la rugiada rappresentano lo Spirito Santo, che penetra nei due Testamenti, e la perla il Salvatore nostro Gesù Cristo: l’uomo che lo accoglie e vende tutti i propri averi, si procura la pietra preziosa.11 È ancora presente in questa allegoria alessandrina il profumo dell’antica sensualità femminile che la perla stava ad indicare (vedi l’immagine dell’ostrica che apre la bocca), ma esso sta ormai per essere soffocato dallo spiritualismo trionfante del III e IV secolo. Il processo di idealizzazione della perla, e di

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Il simbolo della Perla occultamento delle sue valenze femminili, lunari, notturne, viene esaltato nell’ambiente siriaco.12 Così sant’Efrem Siro13 utilizza il tema antico per raffigurarvi, da una parte l’Immacolata Concezione (Maria è pura e non toccata dal peccato del mondo esterno sin dalla nascita, come la perla), dall’altra il battesimo di Gesù (Gesù è rinato alla purezza, immerso nell’acqua e illuminato dallo Spirito, così come la perla nascerebbe, nell’acqua, colpita da un raggio di luce, o da un lampo).14 Di qui, la perla ha assunto il valore di illuminazione e nascita spirituali, e la ricerca della perla (come poi del Graal) è diventata rappresentazione della ricerca, da parte dell’uomo, della propria individualità, o Sé: sepolto in profondità, difficile da raggiungere, eppure quanto di più prezioso l’uomo possa desiderare, e desidera. È quanto troviamo poeticamente espresso in un antico poema. L’Inno della Perla si trova inserito negli Atti di Tommaso,15 uno scritto apocrifo composto intorno al 225 (o al 250) alla scuola dello gnostico Bardesane, nella siriaca Edessa. Con «Tommaso» l’anonimo autore intendeva uno degli apostoli (citato nei Vangeli canonici come «Tommaso detto il Didimo»16), facendolo diventare il modello dello gnostico perfetto; tale ruolo privilegiato gli veniva dal suo essere l’apostolo della Siria (e, poi, dell’India): Ciò che Pietro fu per Roma, Giovanni per Efeso e Giacomo per Gerusalemme, fu Tommaso per Edessa.17 Questo bel poema, probabilmente un’opera popolare d’origine parta, anteriore al resto degli Atti,18 stupisce per la sua polivalenza di significato: «preso in sé, non è né cristiano, né manicheo, né gnostico, o piuttosto, il che si riduce allo stesso, può essere ugualmente interpretato come opera cristiana, manichea o gnostica».19 Il Principe protagonista dell’inno viene inviato dai suoi genitori, il Re e la Regina d’Oriente, per recuperare un tesoro nascosto, l’unica Perla, che si trova in Egitto, luogo simbolo del male; Quand’ero un bimbo senza parola, nella reggia del padre mio, nella ricchezza adagiato e nel lusso di chi mi nutriva, dall’Oriente, il nostro paese, i genitori per il viaggio mi provvidero e m’inviarono …20

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Mi tolsero la veste ingemmata, tempestata d’oro, che nel loro amore mi fecero; e la toga scarlatta, il cui tessuto alla mia forma rispondeva.21 Un patto strinsero con me, nel mio cuore l’impressero, perché non me ne dimenticassi: «Se, disceso in Egitto, di là l’unica perla riporterai che giace in mezzo al mare, che il serpente veleno spirante recinge, nuovamente il vestito ingemmato tu indosserai … erede del nostro regno tu sarai». La scena quindi si apre su uno stato di in-fanzia, quello di un bimbo, come dice l’etimologia, che “non può palesarsi, parlare”. Un bimbo ben coccolato e nutrito, che però chiuso nella sua remota dimora dorata, non ha ancora passato la soglia della consapevolezza: un simbolo, quindi, di una inconscietà primigenia. E la sua coscienza, difatti, è lì in fondo al mare materno, racchiusa fra le spire del drago materno. Da questo stato, con un atto duro in apparenza, con un patto unilaterale, i genitori lo cacciano. Giunto in Egitto, il Principe si ferma presso la tana del serpente: Ivi io scorsi un mio parente dell’Oriente, libero, giovane, leggiadro e bello, figlio di re.22 Questi mi si accostò e con me abitò. Me lo feci amico e del mio traffico l’ebbi collega. Lo esortai 23 a guardarsi dagli Egiziani e dalla comunione con quegli impuri.24 Per non insospettire gli Egiziani, che intuivano la sua estraneità, egli indossa le loro vesti; ma essi non si fanno ingannare, ed anzi con l’astuzia gli fanno mangiare il loro cibo. Così egli dimentica la propria origine, la propria natura e il proprio compito,25 e cade in un sonno profondo, simbolo dell’ottundimento dello Spirito che si immerge e si identifica con il corpo (le vesti egiziane): di nuovo, cioè, il Principe perde la propria coscienza, alla ricerca della quale era partito. Finché una lettera lo riporta al suo essere, una lettera scritta da parte di tuo Padre, re dei re, e di tua Madre, che nell’Oriente è sovrana,


Giuseppe Vadalà e di tuo fratello, il secondo dopo di noi...26 [La lettera] volò come l’aquila: il re degli uccelli. Volò e si posò accanto a me. Tutta una voce essa fu. Al suo timbro e al suo rumore dal sonno mi scossi e destai. 27 La lettera diventa aquila ed infine parola: lo stato in-fantile, da cui l’apparente durezza dei genitori lo aveva cacciato all’inizio, è ora superato grazie alla voce che viene dai genitori. Allora il Principe ricorda che la sua «libertà esigeva ciò che le era proprio», ed inizia la lotta vittoriosa contro il serpente per il recupero della Perla: Mi ricordai della perla, per cui ero stato inviato in Egitto. Allora, con incantesimi, il serpente terribile veleno spirante a incantare cominciai. Lo addormentai e nel sonno egli cadde, … Presi quindi la perla e feci ritorno per riportarla alla casa di mio padre.28 Il Principe è ad un tempo l’inviato (per recuperare la Perla) e colui al quale è inviata la lettera che lo salverà. È il raccoglitore della Perla, ma è anche colui che deve essere “raccolto” dalla lettera che viene dal Padre, giacché lui è immerso nell’ottenebramento del sonno, come la Perla nell’oscurità del mare: egli stesso è la Perla raccolta. Egli è il Salvatore ed il Salvato. In tal senso, il ricongiungimento del Principe con la propria «veste speculare» (alla fine dell’Inno) esprime questa duplicità di attività e passività propria del processo soteriologico:29 non soltanto l’eroe «vede» il vestito «tutto intero in sé» e insieme «si vede tutto intero» nel vestito, non soltanto egli si conosce attraverso esso o grazie a esso ..., ma nello stesso tempo egli prende coscienza che entrambi sono una cosa sola.30 Recuperando la Perla, il Principe recupererà ciò che è suo, ciò che è se stesso: immagine del Salvatore che recupera il gioiello che è suo, e che contemporaneamente riporta l’uomo al suo Sé divino; ma anche immagine di ogni mistico, che recuperando il proprio gioiello nascosto, il proprio Sé, recupera Dio a sé (stesso), e sé (stesso) a Dio. Principe e Perla, uomo e Dio, Io e Sé, diventano

insieme soggetto e oggetto di un unico processo trasformativo. Tale alter ego celeste comparirà spesso nella Gnosi. Esso rappresenta31 «l’io celeste o eterno della persona»: mentre l’Io si affatica quaggiù, «la sua immagine è mantenuta sana e salva al suo posto»,32 anzi cresce quanto più l’Io si affatica. Si tratta quindi di un secondo centro della personalità, stabile ed esterno all’Io, che fa da polo di attrazione nei confronti dell’Io stesso, ma al contempo dipendente nel suo perfezionamento dal lavoro dell’Io. L’incontro fra l’Io e l’Altro (dall’)Io, il Sé, rappresenta il fine del processo trasformativo, del movimento di reciproco avvicinamento fra i due. In conclusione, quindi, nell’anima gemella, nel vestito identico a sé, nella Perla preziosa, viene rappresentata la scoperta fondamentale della Gnosi persiana: l’uomo interiore trascendente, ovvero, una volta spogliatici del vestito mitologico, il Sé. Come abbiamo detto, con l’Inno della Perla siamo in ambiente siriaco. Non è quindi strano che questa eredità gnostica, come altre, sia stata raccolta nel mondo islamico. Così secondo i primi dottori musulmani «Dio formò lo spirito di Maometto da una perla rara e pura, e gli conferì sembianze di pavone».33 In seguito, a partire da un ‚adhðth del profeta: Dio ha dei servitori paragonabili alla pioggia; quando essa cade sulla terra ferma, fa nascere il grano, quando cade in mare, fa nascere le perle,34 la Persia musulmana ha elaborato una teoria della doppia natura della illuminazione individuale: l’illuminazione “di terra”, solare, simbolizzata dal grano che nutre e fa vivere nel mondo diurno, ovvero il mondo della socialità simbolizzato dai covoni di grano, formati da fasci di singole spighe; e l’illuminazione “di acqua”, subacquea anzi, lunare perché avviene nell’oscurità del mare e nell’intimità della conchiglia, ovvero il mondo dell’individualità simbolizzato dalla perla solitaria. Utile e necessaria la prima, bella e preziosa la seconda, ambedue degne per quanto impossibili da attuare contemporaneamente. Da qui, i gruppi di Ahl-i ¸aqq, seguaci di una religione esoterica islamica con forti influssi gnostici e manichei,35 giungono ad assolutizzare il lato “perla” della suddetta duplice illuminazione, tanto da rappresentarsi un Dio essenzialmente sigillato in sé medesimo, su un piano atemporale e aspaziale. In tale fase precedente ad ogni

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Il simbolo della Perla

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emanazione, egli è designato col nome di «Perla» (durr), e solo dalla Perla si emana primogenitamente il Dio creatore del mondo, Kh™wandag™r.36

croce. Etiam si dice come alli impi appareva obscura, e a' iusti clara e lucida, e che alli infirmi donava la sanità e a chi adorava la croce acresceva la devotione.

Siamo proprio lontani dalla primitiva molteplicità di significati della perla: ormai veleggiamo su eteree e purissime altezze, lontane da ogni “stortura” e “sozzura” terrena. È dunque persa per sempre la femminilità nascosta nel simbolo della perla? Ne è rimasta solo un ricordo nei gioielli delle donne moderne, visto che ormai in Occidente nessun uomo osa più indossarne? Non è del tutto vero, ed in ogni caso c’è da aspettarsi un “ritorno del rimosso” con tutta la violenza disorganizzata di ciò che non ha potuto venire alla luce ed evolversi. Il mondo moderno continua a riproporre quell’alternanza fra il simbolismo sessuale della “perla nell’ostrica”, e la spiritualizzazione della “perla pura e preziosa”, che abbiamo visto sorgere nella preistoria, ma che con il progredire della civiltà si è fatta sempre più scissa. In nuce, questo doppio volto è espresso dalle due dee dell’amore che si sono succedute nella storia dell’Occidente: Afrodite, «la Dea del Desiderio, [che] emerse nuda dalla spuma del mare … cavalcando una conchiglia»,37 nata dalla «bianca schiuma»38 prodotta dal membro di Cielo, membro tagliatogli (mentre si giaceva su Terra) dal figlio Tempo; e «la Vergine Maria, che la Chiesa chiama “Immacolata”»,39 e quindi bianchissima anch’essa. Qui ci limiteremo a seguire brevemente il dipanarsi di tale alternanza lungo la letteratura italiana. Così nel volgarizzamento che intorno al 1475 Niccolò Manerbi fa della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (XIII sec.), nel capitolo dedicato a S. Pelagio papa, leggiamo del seguente miracolo: … e inanci a questo, come si dic<e> in una cronica, circa l'anni del Signore quatrocento e cinquanta, crescendo nel reame di Gallia la eresia delli arriani, li quali tenevano le persone divine essere inequali, fu dimostrato con evidente miracolo l'unità de la substantia delle tre persone, come dice Sigilberto: celebrando el vescovo la messa nella città vasagense,40 vide tre clarissime gioie di equale grandeza mandate sopra l'altare, le quale, insieme scorrendo e coniuncte in uno, diventorono una bellissima perla, e quella subito fu posta in mezo d'una croce d'oro; e l'altre perle, le quale erano in quella, subito cadettero da essa

Qui la perla è simbolo del Dio uno e Trino, cioè del massimo ente cristiano: la spiritualizzazione, l’idealizzazione hanno raggiunto un picco insuperabile. Ed ecco allora cosa ci offre Pietro Aretino, nel Dialogo della Nanna e della Pippa (cioè di una prostituta e della figlia in procinto di intraprendere la medesima professione), del 1536: La mia donna è divina, perché piscia acqua lanfa e caca schietto belgiuì, muschio, ambracane e zibetto; e s'ella a caso pettina i bei crini, giù a migliaia piovano i rubini. Stilla da la sua bocca tuttavia nettare, corso, ambrosia e malvagìa; e in quella parte u' son dolci i bocconi, stanno smeraldi invece di piattoni. Insomma, s'ella avesse oggi fra noi un buco solo, come n'ha sol doi, direbbe ognun che venisse a vederla: “Ella è propio una perla”.41 Certo l’Aretino è personaggio singolare nella nostra storia culturale, ma la sua crassa oscenità fa da contrappasso terrigno all’adamantina ed algida immaginazione dei mistici; la sua grevità è cioè segnale di una reazione scomposta, primitiva, indifferenziata, ai voli pindarici di una certa corrente di mistici, ormai dimentichi del proprio essere di terra. Non sarebbe passato tanto tempo, e questi avrebbero di nuovo soffiato le loro buccine, ad es. per la penna di Giacomo Lubrano, che in pieno Barocco (1690) così poetava: UNA PERLA EFFIGIATA COLL’IMAGINE DELLA BEATA VERGINE, E COL DIVINO INFANTE IN BRACCIO, NEL TESORO DELLA SANTA CASA DI LORETO Chi di goder, chi di adorar desia quanti oprò mai miracoli Natura, eccoli in una Perla, ove più pura sparse l'Alba sorrisi, e non men pia. A’ bianchi rai vi effigio Maria che de’ Misteri in grembo un mar figura; e fa che ad onta de l’Egizia impura latte ad un Dio bambin la Perla sia.


Giuseppe Vadalà Vaga Eritra di Grazie in piccol giro, m’offri due Soli entro argentina stella; e non invidio al Ciel mentre ti miro. Tu di beatitudine novella col tuo vezzo potresti ornar l’Empiro; e la Gloria là sù render più bella.42 Torniamo così alla Vergine Madonna, alla purezza della perla preziosa, tema barocco particolarmente carezzato: sotto la cupola di sant’Isidoro a Roma, un affresco del 1663 mostra una conchiglia aperta con l’iscrizione: Quod in coelum conversa, mentre a Santa Maria di Monte Santo, una pittura del 1676 rappresenta una perla nella sua conchiglia, commentando: Immaculatam peperit.43 Questo “conflitto di interpretazioni” del simbolo della perla parrebbe esigere un qualche tentativo di soluzione, di unificazione, una sintesi in grado, se non di mediare, di oltrepassare il conflitto stesso. Forse ci è dato di trovare qualcosa di simile, ma certo il problema resta aperto a tutt’oggi. Nell’Ottocento, con la “Scapigliatura” milanese, ed Emilio Praga (1839-1875) in particolare, non troviamo solo una semplice giustapposizione dei due corni del dilemma. Certo, a una prima lettura scorgiamo un miscuglio di fredda sensualità e macabro idealismo, che lasciano in noi lettori il senso di una preoccupante confusione: Vidi schifose diventar le belle, e vidi i buoni diventar cattivi; vidi col minio all’anima e alla pelle, i casti santi e gli angeli lascivi. E maledissi gli angeli per me, per tutti gli infelici, a cui avvelenò la giovinetta vita il contemplarli, e la manìa precoce delle parole dette a bassa voce. E in mezzo ai santi, candido di fedi e di speranze il giglio fui; foglia a foglia mi han l'anima spartita... Ma una perla trovâr fra le mie spoglie, quella è la perla che nessun mi toglie. Perla ove splende un'iride celeste: un sorriso di donna amante e bella, il crin di un bimbo, e le pupille meste della mia madre, e della mia sorella.44 Ma forse qui i due versanti del simbolo, quello carnale e quello spirituale, paiono avvicinarsi ad una sintesi: disfattasi la passata idealizzazione in

un cumulo di immondizie, dove anche i santi e gli angeli sono lascivi e cattivi, pronti a sbranare il poeta, una donna amante e bella potrebbe finalmente dar pace all’uomo moderno scisso, cioè portatore di un’anima spartita. Stanco di una fede eterea che facilmente si converte nel lascivo, l’uomo si rivolge ad una donna terrena ma dall’iride celeste. La duplice ricchezza dei significati legati alla perla ci può quindi far concludere che in essa i nostri antenati, e probabilmente oggi anche, fra gli altri, i nostri pazienti, ritrovino una rappresentazione simbolica del nucleo nascosto della personalità. Questo nucleo non va però inteso in modo idealizzato, spiritualistico: la perla infatti ci rammenta che la sua luce divina viene dalle profondità oscure di un’ostrica in fondo al mare, dalle radici femminili dell’individuo. Questo nucleo è da portare alla luce per arricchire la nostra consapevolezza, e ciò sottende l’impegno etico che fa da sfondo ad ogni impresa psicoterapeutica: la ricerca della Perla non va intesa come idealizzazione regressiva di un passato simbiotico, o come isolamento oniricoimmaginale nei preziosismi della propria interiorità, ma come scoperta del proprio Sé più individuale, destinato ad essere ammirato nella luce solare di una coscienza che non teme di dichiararsi nel collettivo, né occultando né ostentando la propria oscura radice. Come dice un proverbio arabo: Colui che vuole trovare delle perle deve tuffare la mano in mare – intendendo il saggio che la bellezza e il piacere vanno ottenuti rischiando l’arto indispensabile, discendendo nell’oscurità e nell’acqueo femminile.

Bibliografia e Note 1. ELIADE, 1948: 454 2. 160 3. 455 4. CHEVALIER – GHEERBRANT, 1969: s.v. 5. ELIADE, 1948: 455-456 6. Matteo, 13, 45-46 7. 76; trad. it. in ANT, I, pag. 276 8.JEREMIAS, 1952: 245 9. BARTOLI, 1982: 63 10. CHARBONNEAU-LASSAY, 1940: II, 656 11. Cap. 44 (ed. it. Pagg. 80-81)

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Il simbolo della Perla 12. Nel senso tardoantico di “mesopotamico”. 13. Dottore della Chiesa Siriaca, del IV secolo, autore di varie confutazioni in prosa e in versi. 14. BARTOLI, 1982: 107 15. Atto IX, cap. 108-113; trad. it. in ANT, II, pagg. 351-355. Sia il Vangelo che gli Atti di Tommaso “nutriscono tutte le forme di pietà in Oriente in quest’epoca” (TARDIEU, 1981: 87). La traduzione da me citata (in ANT, II), è basata sulla versione siriaca, non sulla greca, essendo il siriaco la lingua originale dello scritto: le eventuali mie citazioni dal greco quindi possono essere difformi dalla traduzione. 16. Giovanni, 11, 16; 20, 24; 21, 2 17. QUISPEL, 1967: 24 18. POIRIER, 1984: 244 e 237 19. 243 20. Atto IX, cap. 108; trad. it. in ANT, II, pag. 3512. 21. Cap. 108 (pag. 352). Si noterà il richiamo a Filippesi, 2, 5-11, dove il processo di spoliazione del Salvatore è espresso dal famoso heautòn kenóein, “svuotarsi”. 22. Letteralmente: “di coloro che sono unti”, cioè dei messia, dei “cristi”. 23. O, secondo un’altra recensione, “Mi esortò” 24. Cap. 109 25. Il mito del Salvatore che dimentica il ritorno lo ritroveremo nei Catari (SÖDERBERG, 1949). 26. Cap. 110 (pag. 353) 27. Cap. 111 28. Cap. 111 (pag. 353) 29. JONAS, 1972: 138; 144 30. PUECH, 1962-1963: 430 31. JONAS, 1972: 140 32. Ginz™, 90 33. CHARBONNEAU-LASSAY, 1940: II, 654-655 34. Cit. in CHEVALIER – GHEERBRANT, 1969: s.v. 35. Ne esistono numerosi nella Persia occidentale: nel Lurist™n, nel Kurdist™n e nell’Âdharbai—™n. 36. DI NOLA, : I, 87 37. GRAVES, 1954: 40 38. leukòs afrós: ESIODO, Teogonia, 190-191 39. CHARBONNEAU-LASSAY, 1940: II, 658 40. Bazas in Aquitania 41. Giornata 3a, § 337 42. Sonetto 83 43. CHARBONNEAU-LASSAY, 1940: II, 659 44. Domus-Mundus, 8

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ANT, Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Mario Erbetta: Marietti, Casale Monferrato, 19661981 (Ho utilizzato il col I con il Vangelo di Tommaso e il vol. II con gli Atti di Tommaso.) ARETINO PIETRO, Dialogo. Ragionamento, a cura di P. Procaccioli: Garzanti, Milano, 1984 [testo Aquilecchia, Roma-Bari 1975] BARTOLI, 1984, La chiave, LINT, Trieste La Sacra Bibbia, Edizione CEI, 1974 (le citazioni sono da questa edizione, anche se i testi della Bibbia Cristiana sono stati da me riveduti sulla scorta del GNT) CHARBONNEAU-LASSAY Louis, 1940, Il Bestiario di Cristo, Desclée de Brouwer, Parigi (ed. it. a cura di Luca Gallesi, Stefano Salzani, PierLuigi Zoccatelli, Silvestra Palamidessi, Pietro Lunghi, Maria Rita Paluzzi, Luciana Marinese: Arkeios, Roma, 19952) CHEVALIER Jean – GHEERBRANT Alain, 1969, Dizionario dei simboli, Laffont – Jupiter, Parigi (ed. it. a cura di Italo Sordi, Maria Grazia Margheri Pieroni, Laura Mori e Roberto Vigevani: Rizzoli, Milano, 19937) DI NOLA Alfonso M., Enciclopedia delle Religioni, 1970-1976, Vallecchi, Firenze ELIADE Mircea, 1948, Trattato di storia delle religioni, Payot, Parigi (ed. it. a cura di Virginia Vacca: Boringhieri, Torino, 1976) ESIODO, Teogonia (trad. it. di Cesare Pavese: Einaudi, Torino, 1981) Il Fisiologo (ed. it. a cura di Francesco Zambon: Adelphi, Milano, 19903) GNT, The Greek New Testament, a cura di K. Aland, M. Black, C. M. Martini, B. M. Metzger, A. Wikgren: United Bible Societies, Stoccarda, 19833 rev. (per la revisione delle traduzioni dal NT) GRAVES Robert, 1954, I Miti Greci (ed. it. a cura di Elisa Morpurgo e Umberto Albini: Longanesi, Milano, 1995CAMMEO) IACOPO DA VARAGINE, Legenda Aurea, a cura di V. Marucci, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a c. di G. Varanini e G. Baldassarri: vol. I, Salerno Ed., Roma, 1993 JEREMIAS Joachim, 1952, Le parabole di Gesù, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga (ed. it. a cura di G. Capra e M.A. Colao Pelizzari: Paideia, Brescia, 19732) JONAS Hans, 1972, Lo gnosticismo, Beacon Press, Boston (ed. it. a cura di Raffaele Faina e Manlio Simonetti, SEI, Torino, 1991) LUBRANO GIACOMO, Scintille poetiche, a cura


Giuseppe Vadalà di M. Pieri: Longo, Ravenna, 1982 POIRIER Paul–Hubert, 1984, “L’Hymne de la Perle et le manichéisme à la lumière du Codex manichéen de Cologne”, in Codex Manichaicus Coloniensis. Atti del Simposio Internazionale (Rende– Amantea 3-7 settembre 1984), a cura di Luigi Cirillo e Amneris Roselli: Marra, Cosenza, 1986 PRAGA EMILIO, Tutte le poesie, a cura di M. Petrucciani: Laterza, Bari, 1969 PUECH Henry–Charles, 1962-1963, “Dottrine esoteriche e temi gnostici nel Vangelo secondo Tommaso”, in Annuaire du Collège de France, Parigi (ed. it. a cura di Francesco Zambon in Sulle tracce della Gnosi: Adelphi, Milano, 1985) QUISPEL Gilles, 1967, “Das ewige Ebenbild des Menschen. Zur Begegnung mit dem Selbst in der Gnosis”, in Eranos–Jahrbuch 1967, Zurigo, 1968 (traduzione di Luciana Scarcia) SÖDERBERG Hans, 1949, La religion des Cathares. Étude sur le gnosticisme de la Basse Antiquité et du Moyen Age, Almqvist & Wiksells, Uppsala TARDIEU Michel, 1981, Il Manicheismo, Presses Universitaires de France, Parigi (ed. it. a cura di Giulia Sfameni Gasparro: Lionello Giordano Editore, Cosenza, 1988)

Giuseppe Vadalà: L’autore è analista junghiano a Milano. Dopo la laurea in psicologia ha studiato matematica, filosofia e teologia. È supervisore e didatta presso il «Centro Italiano di Psicologia Analitica» (C.I.P.A. – I.A.A.P.), dove è membro del Direttivo. È anche Sand Play Therapist (membro didatta dell’A.I.S.P.T. – I.S.S.T). Accanto alla clinica, il suo interesse ruota intorno al dialogo fra il discorso analitico junghiano, la simbologia religiosa, e la metafisica di Heidegger e Severino. Ha pubblicato: Sýzygos - Il Doppio, da Compagno Divino a Immagine del Sé, Moretti & Vitali, 2003 Nessuno ascolterà Ulisse? - Funzioni terapeutiche nella relazione analitica, Moretti & Vitali, 2007 “Prendersi cura dell’Altro. Analisi di due pericopi neotestamentarie”, in AA.VV., Fra Cristo e il Sé. Saggi di psicologia analitica e cristianesimo, Vivarium, 2009 Un distillato di Mysterium coniunctionis di C.G. Jung, Moretti & Vitali, 2013 È autore di vari articoli di teologia (fra cui “I sei libri sulla Trinità di Riccardo di San Vittore”, in Rivista Cistercense, anno VI, n. 3, 1991, pagg. 253268) e di psicoanalisi (fra cui “Un delirio di verità. Osservazioni su un caso di schizofrenia paranoide descritto in forma autobiografica (Caso clinico di |F|)”, in La Pratica Analitica, nuova serie vol. VII, 2011, pagg. 63-81).

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In Anima-Azione

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l sogno ha una parte fondamentale nella psicologia analitica. E’ la porta che conduce alla parte più nascosta e intima dell’anima. I sogni sono l’esperienza con l’immaginale più a portata di mano. Esperienza immaginativa che ha caratteristiche del tutto reali al punto che non è distinguibile all’interno dell’esperienza stessa ciò che è reale e ciò che non lo è.

Perché questa dimensione dell’immaginale è importante? Perché verosimilmente è il luogo delle immagini che ci definiscono, le immagini che caratterizzano il nostro farci individui. E’ il luogo dove la psiche produce queste immagini performanti, ovvero dove la psiche si costruisce. Nel corso dei laboratori di approfondimento sull’interpretazione dei sogni, si affronteranno alcuni sogni portati dai partecipanti e relativi ai rispettivi pazienti/clienti.

Relatore/conduttore dei laboratori è MARCO GAY, psicoterapeuta e psicoanalista junghiano. E’ co-fondatore della scuola di formazione psicoterapeuta Li.S.T.A di Milano. Si è formato al C.G. Jung Institut di Zurigo e ha lavorato per sei anni alla clinica Zürichberg. Vive e lavora a Verona.

Destinatari: Operatori del settore (psicologi, psicoterapeuti, analisti, counselors ed altri operatori che lavorano sui sogni dei pazienti). Calendario primo semestre 2014: •dalle ore 15.00 alle ore 18.00 20 gennaio 17 febbraio 17 marzo 22 aprile 26 maggio 23 giugno Quota di partecipazione: € 50,00 cad. incontro Sede: Bologna – Le Stanze – Via Saragozza 103

*********************************************************************** Centro Culturale Junghiano Temenos Via Venturi, 20 – 40053 Bazzano BO – tel. 051 830840 – Cell. 346 0867283 e.mail: temenosjunghiano@virgilio.it – oneide@virgilio.it – info@temenosjunghiano.com

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In Anima-Azione

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Visse, nell'altrui disprezzo, così ebbe male di se stesso. Le genti inorridivano, ad ogni suo triste atto, marchiandolo come una bestia, coi nomi : insano, malato, e pazzo. Non sapevan cogliere: la bellezza dei suoi timidi saluti, l'animo gentile, la purezza dei suoi leggeri contenuti. Se bestia fu, fu negli animi di quanti, non seppero che nella vita, il bene è la diversità degli altri. KOCHIS

M

i avvio a terminare la trattazione sull’immaginario vittima e ritengo sia necessario affrontare il tema da me trattato dal punto di vista della stessa “vittima”. Come scrive Girard nella sua opera “il capro espiatorio”, sulla vittima vanno a polizzari le forze malefiche di una moltitudine che vede il diverso come un elemento avulso da un determinato contesto. Un esempio nella storia di vittima che non accetta questa polarizzazione è Giobbe personaggio biblico che incarna l’immagine della vittima che serba rancore verso i suoi persecutori e cerca di far valere la sua innocenza dinanzi ai suoi “amici”che, dopo averlo osannato, lo condannano. Come ci spiega Girard, il personaggio biblico sembra lamentarsi; in realtà il suo lamento non è altro che la constatazione di una verità ineludibile. Giobbe è cosciente della malvagità del genere umano.

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Scrive Girard” (…) Giobbe fa riferimento a una cosa ben diversa. Insiste,ribadisce pesantemente la causa della sua sventura(..)una causa non divina, né satanica, né materiale, ma umana, solamente umana1”. La verità che la vittima vuole portare alla vista di tutti consiste nell’affermazione di una crudeltà insita nell’uomo. Giobbe afferma con schiettezza ciò che lo fa soffrire. Sa di non aver commesso nulla, sa di essere sfuggito da tutti coloro che lo circondano che a loro volta, si accaniscono su di lui. Ancora una volta la vittima mette in risalto come il meccanismo di capro espiatorio sia la base su cui fonda tutta la sofferenza che l’individuo caratterizzato da diversità deve sobbarcarsi. Un passo de “Il libro di Giobbe” è molto esplicativo riguardo quello che ho cercato di spiegare. Lo riporto integralmente proprio per la sua potenza espressiva ed immaginativa.


Alfredo Vernacotola

“i miei fratelli mi tengono a distanza, i miei conoscenti cercano di evitarmi. Sono scomparsi vicini e familiari, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa. Per le mie ancelle sono un estraneo,uno sconosciuto ai loro occhi. Il mio fiato è ripugnante per mia moglie, persino ai miei fratelli faccio schifo. Anche i monelli mi disprezzano:se cerco di rialzarmi, mi scherniscono. I miei diletti si sono rivoltati contro di me.2”(19,13-19). Il passo appena citato spiega quanto la vittima si senta effettivamente tacciata di una colpa che reputa inesistente e la sta spingendo ai confini del mondo, alla distruzione. Scrive Girard "Quando parlo di capro espiatorio (...) do all’espressione il significato che tutti comunemente le diamo in circostanze politiche, professionali e familiari3”. Il capro espiatorio è colui su cui si addensano odio e desiderio di annientamento. L’antropologo francese spiega bene come il mito può anticipare forme di persecuzioni che oggi nel mondo moderno continuano ad esistere anche se in modo meno invasivo ma rivelatrici di una ferocia pari a quella dei miti o dei personaggi biblici. Giobbe si lamenta della situazione che lo sta schiacciando ”E ora la malevolenza mi riduce allo stremo,poiché un intero branco mi tormenta (...)”. I dialoghi di Giobbe sembrano essere un accorato appello della vittima che chiede giustizia, una giustizia che sembra essersi rivoltata contro i “Giusti”. Giobbe nel suo presentarsi come la vittima sacrificale si auto convince che la sua fine sia inevitabile. Tant’è che il suo silenzio su aspetti che lo scagionerebbero, poiché verrebbe manifestata anche la malvagità del Dio e degli “amici”, finisce col presentarsi come la vittima innocente di inusitata violenza. Continua l’antropologo francese ”Più Giobbe si ostina nel suo silenzio riguardo al bestiame perduto e alle altre buone ragioni che avrebbe per lamentarsi (..) e più si accanisce a presentarsi come la vittima innocente di quanti lo circondano (…) egli è vittima di brutalità innumerevoli; su di lui grava una insostenibile pressione psicologica4”. Con chiarezza lo studioso spiega quanto la polarizzazione della violenza su un unico individuo ponga lo stesso individuo reo di colpe non esistenti in una situazione di pressione che lo spinge a sacrificarsi.”Giobbe crede che si attenti alla sua vita,forse soprattutto alla sua vita. È

convinto che morirà presto,e non certo della malattia che i medici si ostinano a diagnosticare. Pensa che morirà di morte violenta,immagina lo spargimento del suo sangue5”. Ecco che in questo stato d’animo di Giobbe possiamo rintracciare caratteristiche riconducibili a molti analizzandi che al pari del Giobbe si sentono in qualche modo vittima di una violenza che non ha eguali. Anch’esso pensa di morire. La loro morte però è una morte diversa che impedisce di amare la vita, di vivere la vita nel modo più consono. Ciò di cui si lamenta la vittima è una rivelazione che non esiste per nessuno degli attori di quell’omicidio sacrificale: ”La rivelazione del capro espiatorio non esiste per i posteri, cosi come non esiste per i suoi “amici6”. La verità della vittima è sempre una verità di cui non si tiene conto, poiché sulla stessa vittima si proiettano le motivazioni che i persecutori hanno nel compiere quel “misfatto”. La vittima ci presenta anche un fenomeno assai ricorrente nei racconti che la storia ci propina e che il mito conferma in toto. Colei che è vittima in precedenza è sempre stata osannata a tal punto,come nel caso di Giobbe, da divenire re della città e persona influente. Si finisce di accusare l’individuo di colpe esecrabili come può essere la mancanza di umiltà, come può essere la non fermezza nel prendere le decisioni. Improvvisamente colui che prima era venerato ora viene messo al rogo! Ecco che può essere naturale la fermezza con cui Giobbe si lamenta di questo volta faccia che lo infastidisce. Continua Girard ”Egli non afferma di non aver mai peccato, ma di non aver fatto nulla per meritare la sua estrema sventura7”. Ieri era il santo oggi è il demonio! Questo è il destino della vittima su cui vengono a posarsi gli occhi malefici della forza che tende a sopraffare coloro i quali sembrano porre in pericolo il sistema. Colui che prima veniva visto come un eroe ora è decaduto, "il capro espiatorio è un idolo infranto. Ascesa e caduta sono legate. Si avverte in modo chiaro che i due estremi si toccano. Non possiamo interpretarli separatamente, e tuttavia non siamo autorizzati a fare del primo la causa del secondo. Intuiamo un fenomeno sociale mal definito eppure reale, dall’andamento non certo, ma probabile8”. L’eroe macchiatosi di infamie, che non possono essere prese alla leggera, deve essere annientato,

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condotto a morte violenta. Il nostro Giobbe al pari di altre vittime vive la situazione dovuta al repentino cambiamento dell’opinione del vulnus, della società. Come accade anche oggi nelle nostra opinione pubblica si passa dall’idolatria all’annientamento della persona che ai nostri occhi non è perfetta. Illuminante a riguardo il passo di Renè Girard: “I membri della comunità si influenzano a vicenda,si imitano gli uni con gli altri, prima in una adulazione fanatica e poi in un’ostilità più fanatica ancora9”. Ecco quella che molti testi letterari e storici chiamano “L’ANTICA VIA DEGLI EMPI”: essa è inizialmente costellata di ricchezza di potenza ma diventa ben presto luogo di sciagura e sventura fino alla conclusione in cui il povero Re diventa vittima di coloro che in precedenza lo avevano amato. Colui che prima era riconosciuto come capo indiscusso di una società ora viene visto come uno dei tanti che si è reso colpevole di crimini che meritano una punizione. Afferma ancora Girard”(la vittima)potrebbe figurare nell’elenco di quelle persone anonime di cui si parla per allusioni, perché il loro nome è “cancellato”. Fa parte di quella schiera di uomini la cui carriera rischia di finire molto male poiché iniziata troppo bene10”. Dietro l’adulazione si nasconde sempre il risvolto di una ferocia che nel momento di massima esaltazione si tramuta in violenza cieca verso colui che improvvisamente da Re diviene Schiavo. La folla che prima riteneva quello stesso individuo un Homo Magnum ora lo vede come fumo negli occhi. La folla acclamante ora diventa un’orda di bestie. “Tutti questi destini tragici hanno il profilo tipico dell’idolo infranto. Sono necessariamente determinati dalla metamorfosi di una folla adoratrice che si trasforma in folla persecutoria11”. Ecco che colui che è ritenuto l’empio finisce nella memoria del popolo che ricorderà queste figure sia per la veloce ascesa sia per la repentina caduta. In effetti se spostiamo questo modus operandi nella nostra società civile,possiamo notare come colui che può mettere in dubbio la stabilità del sistema finisce coll’essere prima divinizzato, in quanto porta una ventata di novità, per poi essere distrutto. Come scrive Girard ”Al centro della folla si trovano la vittima e tutti i suoi averi12”. Colui che si differenzia è colui a cui devono essere tolte le

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caratteristiche che lo rendono unico.. L’antica via percorsa da questi individui deve essere il percorso che conduce ad una fine tragica. La fine che la vittima fa al termine del percorso è una fine “mitica”. Ci dice lo studioso delle culture primitive che ”il disastro che attende gli “empi”a conclusione della loro corsa, alla fine dell’”antica via”, deve somigliare a quelle feste primitive il cui svolgimento, pur attenuato e ritualizzato, fa pensare ad un fenomeno di folla. Tutto si conclude con l’incendio o l’annegamento di un simulacro del capro espiatorio13”. È evidente che le lamentele di Giobbe sono tutte abbondantemente giustificate vista l’irruenza e il volta faccia con cui gli amici, il popolo tutto si rivolta contro di lui. Tutte le vittime tendono ad erigersi su una sorta di padiglione da cui rivendicano il proprio diritto ad esistere. Analizzando ancora “Il Libro di Giobbe” ci rendiamo conto di quanto il protagonista si convinca del fatto che possa esistere un Dio che infierisce sulla vittima in nome di quello che i presunti giusti affermano. Molto bella la metafora che Girard usa per esprimere tale concetto “il dio degli -amici- combatte sempre tre contro uno, quattro, mille contro uno. Non si fa certo scrupoli di tipo cavalleresco14”. Certamente la vittima vede il dio e coloro che si definiscono amici come figure che ricordano in lui quanto sia fermo il sentimento di ingiustizia che lo pervade. Il destino che riguarda tutte le vittime sembra essere comune sia a quello di Giobbe sia al protagonista della tragedia di Sofocle, Edipo. Sia Giobbe che Edipo rimangono in scacco sotto il furore della folla che intima loro di andare via dalla città e di sacrificarsi. Tale intimazione può essere vista come la logica che conduce al capro espiatorio.” La carriera dell’eroe mitico somiglia troppo a quella di Giobbe (la vittima) per non lasciar intravedere nei due testi un solo identico fenomeno, cioè la trasformazione dell’idolo popolare in capro espiatorio15”. Come si evince, ci sono delle caratteristiche simili in Giobbe e Edipo: entrambi sono colpevoli di una sventura per la città che governano. Una differenza però balza alla ribalta: Giobbe è una vittima che rifiuta di confacersi alla folla. “Edipo è un capro espiatorio RIUSCITO perché è sempre misconosciuto in quanto tale. Giobbe è un


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capro espiatorio mancato16” . Perché la vittima sia realmente l’agnello sacrificale di un’intera comunità, è necessario che essa non sia una voce dissonante nel coro che la vede come vittima da sacrificare ed eliminare. “Perché l’unanimità sia perfetta,occorre che la vittima vi partecipi;occorre che essa unisca la propria voce alla voce unanime che la condanna. Quel che trasforma la prospettiva dei persecutori in verità indiscutibile è la sottomissione finale di Edipo al verdetto imbecille della folla17”. Ancora una volta lo studioso francese indica con fermezza e forza espressiva il ruolo di sottomissione che la vittima deve portare avanti. I due personaggi che vengono messi a confronto esprimono due polarità dell’essere vittima. Da una parte Giobbe che sembra rivolgersi con forza al destino crudele che lo aspetta. Dall’altra Edipo che invece cerca di essere il più possibile confacente al volere della folla. L’eroe è per forza di cosa colui che diventa vittima e solo in quanto tale viene ricordato il suo sacrificio. Come ho avuto modo di spiegare nell’introduzione di questo mio lavoro un elemento importante è il mimetismo che colpisce la vittima che finisce quasi col giustificare quelle che sono le motivazioni della folla. Tale momento fa si che la vittima senta come una liberazione la sua morte, il suo sacrificio e ne è tanto convinto che lo ritiene indispensabile per la salvezza della città! Il mimetismo che la vittima enuncia nella sua autodifesa ha come caratteristica principale quella di essere un modo attraverso cui ottenere una limitazione dei danni. L’effetto di questo tentativo che la vittima compie è l’effetto meno desiderato. Ancora una volta la folla si arma nuovamente per attaccare la vittima che è colei che più di tutti sta impedendo la riscossa della città. La liberazione a cui la città aspira, trova la giustificazione con il passaggio dalla vittima all’eroe. La folla dirige la sua ferocia verso coloro che rappresentano in modo manifesto la diversità, lo svantaggio e che, con un loro sacrificio, otterrebbero una nuova vita. Ecco come la gli “amici” di Giobbe tendono a focalizzare la loro attenzione su una figura come quella della nostra vittima che potrebbe essere comparata a quella di un orfano che nella città non ha più nulla da perdere e che dalla sua morte

potrebbe solo avere un miglioramento del suo essere divenendo, appunto eroe. È la folla che primeggia e manda a morte la vittima che protesta e reclama l’ingiustizia che la sta colpendo. Tale è la forza del volgo che la vittima diverrà un idolo agli stessi occhi di coloro che lo hanno condannato a morire. Questo è il meccanismo vittimario; un meccanismo che palesa la volontà omicida di un popolo che, per purificare la propria coscienza, finisce coll’idolatrare colui che è stato sacrificato. “Subitaneo come la folgore, il meccanismo espiatorio libera tutti gli uomini senza dipendere da nessuno, se non forse dalla vittima stessa che, di conseguenza, rischia seriamente di ridiventare un idolo dopo la sa scomparsa. Nessuno può dominare il fenomeno, nessuno lo può manipolare. Esso ha tutte le caratteristiche di un intervento soprannaturale. Tutto vi evoca un potere che trascende la misera umanità. E’ il prototipo di ogni epifania sacra18”. L’orfano è colui che potrà ristabilire l’ordine dopo il caos e quindi è colui che giustamente deve essere sacrificato; egli rappresenta compiutamente il prototipo di tutti i capri espiatori. È così che il nostro Giobbe si paragona alla vittima perfetta, alla vittima ideale che racchiude in se ogni tipo di polarizzazione derivata dall’ottusità del popolo. “L’orfano estratto a sorte è un capro espiatorio “rituale”, un sostituto della vittima originaria che creò spontaneamente l’unità contro di sé e riconciliò nella propria morte la comunità (…) Giobbe si paragona implicitamente alla vittima ideale, all’essere che non ha più difenderlo (…) e che perciò si può scegliere senza timore di riaccendere le divisioni che il sacrificio è destinato a sanare19”. La vittima arriva a paragonare gli “amici”ad avvoltoi, li paragona a individui simili ad animali pieni di brama di sangue che soddisfi i loro appetiti. “Simili ad avvoltoi accovacciati a pochi passi da una futura carogna, sorvegliano la sua agonia20”. Con la sferzante affermazione, la vittima pone in risalto per la prima volta una cosiddetta retorica della vittima. Giobbe sembra accusare direttamente e con forza gli amici di essere coloro che lo vogliono morto e, per mezzo delle metafore da egli fatte esemplifica il suo pensiero. La vittima è cosciente di quanto, coloro che lo vogliono morto, tendono a

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stigmatizzare ogni suo sibilo! Egli stesso mostra molta ironia quando definisce avvoltoi i suoi amici il popolo stesso. Come afferma Girard “le sue metafore non sono false quando stigmatizza il ruolo degli “amici”, ma non bisogna neanche prenderle alla lettera. Esse hanno carattere polemico e implicano una certa dose di retorica,ma solo una certa dose21”. Ci si rende conto come vi sia un linguaggio che abbandona la prospettiva dei persecutori e si avvicina al linguaggio della vittima che rifiuta ogni tipo di sopruso e finisce coll’ingigantire le colpe ed i misfatti realmente subiti. La vittima tende ad esagerare la responsabilità di ogni persecutore. L’immagine degli amici simili ad avvoltoi, ci rimanda ad una visione ritualistica: ecco l’essenza del fenomeno della vittima e del capro espiatorio; dal sacrifico della vittima prende origine il rito, che diventa rito iniziatico verso una nuova vita.”(..) il capro espiatorio fondatore, religiosamente imitato da quanti ne hanno spontaneamente beneficiato e dai loro discendenti, è l’origine di tutti i rituali22”. Cosi come l’orfano rappresenta la caduta dell’eroe, allo stesso modo vi è il polo opposto rappresentato dal Re Sacro che incarna la potenza da cui poi sono scaturite le sventure del protagonista de”il Libro di Giobbe”. L’essere re sacro consta compiutamente la posizione che occupa il capro espiatorio; la sua posizione è regale.”Non ci rendiamo conto che nel senso antico e primitivo della regalità il capro espiatorio è più regale che mai. La fase persecutoria non annulla affatto la somiglianza:la rende perfetta23”. Poiché la regalità della vittima è possibile per mezzo del mimetismo, è sufficiente notare come la reggenza di Giobbe porti inevitabilmente al rituale che caratterizza ogni “santificazione”. “Se la tesi mimetico-vittimaria è vera, per arrivare alla monarchia sacra deve essere sufficiente prolungare e consolidare il processo di imitazione/ritualizzazione che vediamo prendere forma intorno a Giobbe24”. Ecco giustificato l’atteggiamento degli amici che sono convinti di voler mandare a morte il loro Re. Il meccanismo vittimario permette loro di rintracciare, dopo la morte del loro Re, una figura che reincarni gli stessi stereotipi su cui andranno a polarizzarsi le ire della folla, che spingerà ad una nuova distruzione.

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L’essere regale di conseguenza è il primo passo verso la vittimizzazione. “Per essere proprio sicuri di non designare un uomo insufficientemente “empio” vi è un’unica soluzione:esigere da lui che commetta tutti i crimini attribuiti ai suoi predecessori. Subito dopo viene la fase dell’idolatria25”. La vittima si rivolta contro questo status quo che l’annienta senza che possa opporre resistenza. Giobbe oppone i suoi discorsi che mostrano come ritenga il processo che lo ha condannato come un processo totalitario che ha fatto del suo cavallo di battaglia il desiderio mimetico della vittima con i suoi persecutori, ma anche quello dei persecutori con la vittima stessa. Questa dinamica la si può vedere nelle affermazioni che riporta Girard: ”Invidia e rivalità mimetiche vengono riassorbite dal fenomeno del capro espiatorio e si trasformano in positività religiosa, a patto, beninteso, che l’operazione non lasci residui, ovvero che l’unanimità contro il capro espiatorio sia perfetta26”. A questo quadro perfetto di mimesi basta che un tassello si situi fuori dal sistema perché tutto da favola diventi misfatto. “Un’eccezione, una sola, un’unica dissonanza nel concerto che si leva contro la vittima, e l’epilogo favorevole non è più sicuro27”. La vittima è riuscita ad incrinare quelle certezze su cui poggia il meccanismo di vittimizzazione. Il popolo, la comunità non sono più sicuri di poter portare avanti il sacrificio; Giobbe in quanto membro della comunità viene interpellato riguardo al suo sacrificio. In questo momento siamo di fronte ad una vittima che non si lascia più sottomettere. A lei viene chiesto di spiegare i motivi di iniquità che hanno spinto a condannarla a morte. La vittima si erge a paladino di se stesso e afferma la propria innocenza dinanzi ad un tribunale che lo ha condannato senza possibilità di difesa. Gobbe si ribella si adira e inizia a far valere le proprie ragioni. Egli non si lascia sacrificare come il mimetismo vorrebbe: insorge e la sua insubordinazione mette in dubbio tutto il meccanismo rituale. La vittima diventa una eccezionalità nel momento in cui decide di palesare la sua insofferenza dinanzi ad una condanna senza eguali. “l’intervento (dell’inquisitore) (..) aiuta a capire il carattere inaudito dell’evento: una vittima che


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tiene testa all’intera comunità: è un fatto così scandaloso che un lettore indignato ha voluto sopprimerlo inventando il personaggio di Eliu, per poter così intervenire nella vicenda (..) l’impotenza dei tre primi “amici” ha fatto infuriare l’acceso partigiano del dio vendicatore28”. La vittima deve essere condannata anche se lei è contraria. È per questo motivo che si chiede lei l’adesione senza se e senza ma alla sua condanna. Ciò che si chiede alla vittima è sempre l’accettazione del suo destino nefasto. “A Giobbe si chiede di riconoscersi martirizzato giustamente, e lui rifiuta29”. Diventa importante che la vittima veda come soluzione finale il suo sacrificio. Il modo migliore per ottenere il consenso della vittima è cercare di corrompere la stessa senza che vi sia, almeno apparentemente, costrizione. “Se il consenso di Giobbe fosse visibilmente strappato con la forza, perderebbe ogni valore agli occhi della comunità. Questa strategia precorre la moderna propaganda. (…)il gruppo dei tre “amici” somiglia sempre più a quello dei poliziotti intorno ad un indiziato. Non sono propriamente dei carnefici, ma per loro tutte le forme di intimidazione, tutte le pressioni psicologiche sono buone, pur di ottenere le famose confessioni “spontanee” tanto care alle società dittatoriali. (…) Vi è in Giobbe qualcosa che ricorda una certa decadenza moderna della giustizia30”. Oggi si cerca di ottenere dall’accusato l’adesione a verità supposte non suffragate da prove. Si giunge all’annientamento del presunto colpevole. Come scrive Girard “(si cerca) di ottenere l’adesione sincera degli accusati alla loro condanna senza prove, al loro annientamento ”senza fare inchieste”. Questa adesione deve sostituire la prova31”. C’è necessita che coloro che sono state designate come vittime riconoscano di essere colpevoli. Deve manifestarsi una sorte di esaltazione delle violenza perpetrata su loro stessi. Qualora la vittima come Giobbe, non aderisse a questo disegno, l’ira della folla aumenta. “occorre che i vinti riconoscano liberamente di aver sbagliato. È necessaria una confessione di colpevolezza che non appaia solo estorta con la violenza. Si esige che i maledetti benedicano la maledizione che si abbatte su di loro. Non si chiede loro di perdonare,al contrario,perché questo darebbe a intendere che la persecuzione non è

necessariamente infallibile. Ad essere richiesta è un’adesione entusiastica alla derisione che li annienta32”. Alla vittima viene chiesto “di confermare la santa alleanza del linciaggio unanime33”. Nella vittima non è possibile vedere le caratteristiche di una creatura che anela l’amore della divinità; non può essere espressione di Dio ciò che Giobbe rappresenta. Convinta della sua colpevolezza la vittima inizia a vacillare e ad essere convinta dell’ostracismo della divinità, che secondo la stessa è rea di accordare le torture che gli amici propongono contro di lei. La vittima inizia a vacillare ed assume anch’essa lo stesso credo, lo stesso linguaggio dei persecutori e finisce con l’imprecare verso la divinità che soggiace a questa persecuzione. Questo comportamento della vittima la pone in un ruolo difficile: essa in questo frangente non è riconoscibile come tale ma assume le caratteristiche dei persecutori. “Nel momento in cui una vittima adotta il linguaggio dei suoi persecutori, diventa difficile riconoscerla in quanto tale (…) in alcuni suoi discorsi Giobbe somiglia talmente ai suoi nemici che i curatori del testo sono in difficoltà34”. La tensione psicologica che Giobbe sta vivendo conduce inevitabilmente a cercare mimetismo con i carnefici. Scrive Girard “La pressione unanime di un gruppo su un individuo isolato non può non sortire degli effetti. Quando Giobbe si indebolisce, tende a prendere in prestito dagli avversari il loro linguaggio, e ripete a sua volta tutti gli stereotipi delle imprecazioni rituali destinate agli “empi” 35”. Come tutte le vittime che vengono sottoposte a tortura anche il nostro protagonista finisce col dubitare della propria innocenza. Avviene una vera e propria distorsione della realtà della persecuzione. Lo studioso francese parla di distorsioni che arrivano a far ritenere la tortura e le sue sevizie come qualcosa di immensamente meritato a tal punto di ritenere se stessi al pari di ciò che ritengono i persecutori. La convinzione della vittima porta a ritenere quasi inconsistente la persecuzione umana e a ritenere colpevole la divinità. “Mentre afferma il carattere persecutorio degli amici, allo stesso tempo la vittima, senza essere pregata, sostiene di essere in realtà vittima non degli uomini, ma del dio. Come tutti, Giobbe

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pensa che l’odio nei suoi confronti non potrebbe estendersi a tutto il popolo senza l’istigazione della divinità36”. Arriva il momento del voltafaccia della vittima! Questa vede ora la divinità come ultima risorsa o come elemento che possa garantirgli una giusta morte. “Da parte di una vittima respinta da tutti, un simile voltafaccia non ci stupisce. Priva di qualsiasi sostegno da parte degli uomini la vittima si rivolge a Dio, abbraccia l’idea di un Dio delle vittime. (…) noi viviamo in un universo nel quale niente è più facile e più naturale di questa appropriazione di Dio da parte delle vittime37”. Secondo quanto riportato dal LIBRO DI GIOBBE questa volta Dio sembra ascoltarlo. Ritenendo il Dio presente e amico Giobbe ferma ancora una volta il suo sacrificio. Il punto di vista della vittima ci porta dritti ad affermare che deve esistere un Dio delle vittime. Il candidato per eccellenza ad essere il Dio delle vittime è Gesù Cristo. Egli è colui a cui ci rivolgiamo ogni qualvolta dedichiamo il nostro tempo ad una vittima. Scrive Girard “Gesù è sistematicamente presentato come il Difensore delle vittime. Egli afferma che non possiamo soccorrere una vittima, foss’anche la più insignificante, senza soccorrere lui stesso, Gesù. E non possiamo negarlo tale soccorso senza negarlo a lui38”. Il Dio dei vangeli si presenta come colui che rende giustizia ai vinti e alle vittime. Gesù sembra andare controcorrente quando non esige dimostrazioni d’amore ma esige solo manifestazioni d’amore verso tutto il creato. Gesù afferma la giustizia e si pone sullo stesso livello di Giobbe quando proclama che la giustizia arriva dal regno di Dio. Se riflettiamo su quelle che sono le deformità, le malattie ereditarie al contrario degli uomini e delle vecchie convinzioni su Dio, egli vede la sua immagine, e non l’aver peccato di colui che subisce questa diversità. Scrive Girard “Gesù rifiuta questo tipo di religione. Ai discepoli che domandano,nel caso di un uomo cieco, chi abbia peccato, se il cieco stesso o suoi genitori, Gesù risponde: “Né lui ha peccato né i suoi genitori (...) ma è cosi perché siano manifeste in lui le opere di Dio” (Gv,9 3) ”. Il messaggio del Cristo non riesce a persuadere gli uomini che lo manderanno a morte.

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Ancora una volta viene tracciata “l’antica via degli empi”. Egli stesso, mandato a morte, non può resistere alla ferocia della persecuzione dei suoi nemici che non vogliono un sovvertimento dell’ordine di giustizia. Il Cristo è venuto per combattere Satana ma Satana l’ingannatore ed il persecutore riesce a far condannare il Cristo. L’antropologo francese coglie pienamente quanto il messaggio del Dio delle vittime sia rivoluzionario, ma al contempo porta a galla anche ciò che in realtà col suo messaggio il Cristo voleva dire. A ben vedere questo Dio non può piegare le menti degli uomini ”con mano potente in maniera che (gli uomini) giudicherebbero divina. Quando credono di rendergli omaggio, gli uomini onorano quasi sempre, senza saperlo il dio dei persecutori39”. In questo modo gli uomini non onorano il Padre, non pregano. Ancora con più fermezza, l’antropologo spiega quanto in realtà la forza di questo Dio delle vittime stia nel messaggio profetico, dato che al pari di altri profeti anch’egli arriverà alla morte. “In un mondo violento, il divino scevro da ogni violenza si manifesta obbligatoriamente attraverso l’evento che già fornisce al sacro violento il suo meccanismo generatore. L’epifania del Dio delle vittime segue la stessa “antica via”e passa esattamente per le medesime fasi di tutte le epifanie del sacro persecutorio40”. L’impresa che Gesù porta avanti passa, come già ho avuto modo di scrivere, inosservata agli occhi del mondo; nelle sue gesta viene visto solo il fallimento e tale visione ai suoi contemporanei sembra essere definitiva. Come in ogni vittima, la sconfitta si tramuta in trionfo nel momento in cui, seguendo quello che è il messaggio cristiano la morte diventa resurrezione, diventa nuova vita e possibilità di affrontare un nuovo mondo. “La sconfitta nel significa in realtà la vittoria sul mondo41” parole sante quelle pronunciate da Renè Girard! La Passione di Cristo è l’esaltazione della vittima ma anche l’ulteriore riprova di come la polarizzazione verso l’eccezionalità sia uno degli stereotipi più potenti per attivare lo spirito persecutorio. “è arrivata l’ora della unanimità violenta, l’ora


Alfredo Vernacotola della solitudine assoluta per la vittima. Amici, parenti, vicini, debitori, quelli che Gesù ha più aiutato, quelli che guarito o salvato, i discepoli più cari si allontanano da lui e, almeno in modo passivo, partecipano allo scatenarsi generale42”. Se analizziamo attentamente le similitudini tra Giobbe e il Cristo ci rendiamo conto di quanto le distorsioni che di quel testo vengono fatte trovano conferma nella Passione in cui, colui che è il Salvatore, viene mandato a morte perché non è il Giusto. Abbiamo ravvisato in Giobbe il rivoltarsi della folla contro il suo antico idolo, l’adesione contro il capro espiatorio che deve essere annientato, lo abbiamo potuto fare grazie anche al ritenere la passione il principale racconto mitico-religioso che esponesse meglio il fenomeno della vittima, la realtà della vittima, i suoi processi interiori e le sue paure. La verità della vittima è data in modo compiuto dalla scelleratezza di coloro che polarizzano nella vittima quelli che sono i loro vuoti interiori. Concludendo questo mio lavoro sull’immagine archetipica della vittima, si può affermare che la diversità, così come la malattia e la rappresentazione che mette in luce la differenza dal sistema, suscitano nell’uomo sempre appetiti che si spingono fino all’annientamento della “supposta” vittima. Concludo con una frase tanto bella quanto esemplificativa: “ed essi dissero l’un l’altro: -Non ci ardeva il petto, mentre conversava con lui lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture- ”. (Lc, 24, 32)

12. Ibidem pag. 29 13.Ibidem pag. 30 14.Op. cit. Pag. 41 15.Op. cit. Pag. 50 16.Ibidem pag. 52 17.Ibidem pag. 52 18.Op. cit. Pag. 98 19.Ibidem pag. 102 20.Ibidem pag. 103 21.Op. cit. Pag. 107 22.Ibidem pag. 108 23.Ibidem pag. 110 24.Op. cit. Pag. 112 25.Ibidem pag. 113 26.Op. cit. Pag. 141 27. Ibidem 28. Ibidem pag. 143 29. Ibidem pag. 144 30. Ibidem pag. 145 31. Ibidem pag. 146 32. Ibidem pag. 147 33. Ibidem pag. 148 34. Op. cit. Pag. 158 35. Ibidem pag. 159 36. Ibidem pag. 163 37. Op. cit. Pag. 172 38. Op. cit. Pag. 189 39. Ibidem pag. 193 40. Ibidem pag. 194-195 41. Ibidem pag. 195 42. Ibidem pag. 197

Bibliografia e Note 1. Girard R. , L’antica via degli empi, Adelphi Edizioni , Milano, 1994,pag 1 2. La Sacra Bibbia, 19,13-19 3. Girard R. , L’antica via degli empi, Adelphi Edizioni , Milano, 1994,pag 17 4. Ibidem Pag. 18 5. Ibidem 6.Ibidem 7. Op. cit. Pag. 23 8. Ibidem pag. 26 9. Ibidem pag. 26 10. Op. cit. Pag. 28 11. Ibidem pag. 28

Alfredo Vernacotola, nato a L'Aquila il 27 Aprile 1978, laureato in Psicologia presso la Facoltà di Psicologia dell'Università degli studi dell'Aquila, iscritto al secondo anno della Scuola di Specializzazione Atanor. Vive e svolge le proprie attività a L'Aquila.

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L'Anima Fa... Poeio

TINTINNIO DI CRISTALLI COSTRUZIONI ASIMMETRICHE PERFEZIONE D'UNA CREAZIONE SPLENDORE D'INFINITI REGNI CUSTODENTI PREZIOSITÀ MATRICI D'ANCESTRALITÀ TRACCE D'UN LINGUAGGIO DIMENTICATO IMPERFEZIONE DISPIEGANTE FLUSSO MAGMATICO CONFLUENZA CENTRALITÀ FORZA ATTRAZIONE NUMINOSA MADRE ACCOGLIENTE GENESI DEL NULLA OVE TUTTO ASSUMENTE FORMA RIFUGIO DELL'INFANTE ETERNO BAMBINO VOLANTE FORMA ATTRAVERSANTE DI IMMAGINIFICHE DISCESE NEI LUOGHI NATII FULCRO DELL'ESPERIENZA VOLUTA CERCATA RITROVATA SCOPO ULTIMO TRAENTE FORZA DALL'OPPORTUNITÀ DARDO IGNEO PRESTANTE L'OPERA PERITO ARTEFICE DI SENTIERI IRTI D'OSTACOLI VESSILLI DI FUOCO ARDENTE ANELITO VITALE PLASMANTE L'UNIVERSO ATTRIBUISCE SIGNIFICATO MANIFESTANDO LA DIFFORMITÀ SCUDO DIFESA BALUARDO DELLA SIMMETRIA DELL'ASIMMETRIA. ACCOVACCIATO AVVOLTO DAL MANTELLO SMERALDO INTAGLIATO SPLENDE DELLA LUCENTEZZA CHIARIFICANTE IL VIAGGIO CONDUCENTE LÀ DOVE LA LEGGEREZZA RENDE VISIBILE IL CONTENUTO DELL'ASIMMETRIA. ASIMMETRIA LEGGEREZZA VITA. (A.V.)

Jackson Pollock, Pali Blu, 1953

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L'Anima Fa... Poeio

Jackson Pollock, Autumn Rhythm, 1950

CALPESTANDO SENTIERI COSTELLATI DI PIETRE GENESI D'ESISTENZA RICERCA D'UN'ORIGINE ARCAICA RIFUGIO SEGRETO DIMORA DEL VIANDANTE SOLERTE AVVOLTO DAL MANTELLO CELANTE POTENZE NASCOSTE ENERGIE CAOTICHE STABILIZZANTI IL CREATO SUGGELLO DI RICERCA CONTINUA DEL VIAGGIO DELL'ATTRAVERSAMENTO DI LANDE PAESAGGI RACCHIUSI TRA MASSICCI CUSTODI DELL'ESSENZIALITÀ RAPPRESENTAZIONI DEL TUTTO COMPLESSO PRINCIPIO GENERATIVO PERFEZIONE DELL'IMPERFETTIBILITÀ CAPACE DI CADERE PREDA D'UN RAMO DI VISCHIO VEICOLANTE L'ESTREMO TENTATIVO MUTANTE CIÒ CHE MUTANDO REGOLA IL DISEGNO INSCRITTO NELLO SPAZIO INDEFINITO ASSUMENTE FORMA DIFESO DALL'ESERCITO INQUIETO VAGABONDO DELLA VALLE

RECINTO SACRO VUOTO FERTILE OVE L'ABILITÀ DELL'ARTEFICE SCOLPISCE IL VOLTO IDENTIFICANTE LA MATRICE LUOGO DEI NATALI DELL'INDIVIDUO TESSITORE DELLA TELA CONDUCENTE ALLA VITA ACCETTAZIONE D'UNA SAGA VOLUTA RICERCATA FONDANTE L'ESSERE NEL CREATO DIFFORMITÀ. SENTIERI IMMERSI NEL VERDE TRACCE DI SMERALDO PERCORRO CON L'AIUTO DEL BASTONE AVVOLTO NEL CALDO MANTELLO SPAZIO CONTENENTE L'UNICITÀ PRESTATA AL SERVIZIO DEL BRICCONE INDUCENTE LÀ DOVE LA FRAGILITÀ RISPONDE FIERA AL FRUSCIO DEL VENTO RIFLESSIONE PORTANDO CON SÉ LA PIETRA AFRODITICA FONTE A CUI IL VIANDANTE INUMIDENDO IL BASTONE SI DISSETA. ESISTENZA MUTANTE. (A. V.)

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Fig.1, F. Albani, Il Mito di Fetonte, Bassano Romano (VT), Palazzo Giustiniani, soffitto della Galleria,1609-1610.

Fig. 2, F. Albani, Venere e le Grazie, Bassano Romano (VT), Palazzo Giustiniani, parete della Galleria, 1609-1610.

Fig.3, Raffaello, Scuola di Atene, Roma, Vaticano, Stanza della Segnatura, 1508-11.

Fig. 4, Giovanni Antonio da Varese e altri, Cosmographia, Caprarola (VT), palazzo Farnese, soffitto della Stanza del Mappamondo, 1575.

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Fig. 5, Atlante Farnese, Napoli, Museo Nazionale, statua in marmo, II sec. d. C.


Pasquale Picone

Ecco dove si va a finire con delle storie apparentemente senza capo né coda. Però, che confusione di idee, voi direte. Capisco bene: ma non dimenticate che questi elementi sono stati esposti ai rischi della tradizione orale, all’oblio, all’incomprensione. Ma il disordine stesso non fa che accentuare l’autenticità delle componenti, l’incredibile ostinazione di certe immagini a sopravvivere e a sopravviversi, vero deposito sacro di epoche perdute. G. de Santillana, Fato antico e fato moderno, Milano 1985, p. 169. Il mito di Fetonte a Bassano Romano 1. La rappresentazione del mito di Fetonte nel soffitto della galleria, cioè nell’ambiente di rappresentanza, del palazzo Giustiniani di Bassano Romano rimanda, già nel testo, ad alcune vicissitudini del problema dell’identità dei committenti, sia individuale sia del nucleo familiare di provenienza (fig. 1). Nella narrazione di una delle fonti del mito, le Metamorfosi di Ovidio, il Sole, a suggello della propria paternità nei confronti del figlio Fetonte riconoscimento richiesto dal figlio-, elargirà qualsiasi dono dovesse chiedergli. Il figlio Fetonte gli chiede una cosa difficilissima. Guidare il carro del sole. Il padre, nonostante le esortazioni a recedere dalla richiesta, sino ad illustrarne le pericolose implicazioni, è costretto dal suo impegno precedente a consentire al desiderio. L’evento va male. Il sole esce dal suo corso normale. Tutto brucia. Si rischia l’apocalisse. La Terra invoca l’intervento di Zeus che ristabilisce l’ordine e la giustizia. Fulmina Fetonte che precipita nell’Eridano e viene trasformato in costellazione insieme al carro, ai cavalli e all’Eridano stesso 2. Quali sono le motivazioni, da parte dei Giustiniani, che originano la scelta di una rappresentazione di questo mito, così singolare, e non di un altro? Quali i significati identitari generati da tali motivazioni? Bisogna cercare nella storia familiare dei Giustiniani. Innanzitutto il cognome, scrigno che racchiude il genius familae. Dagli emblemi rinascimentali, sino alle considerazioni psicoanalitiche sui contenuti archetipici racchiusi nel significato del cognome, che possono giungere ad orientare e plasmare i destini individuali, il cognome evoca immagini,

senso, trame fatali e destini talvolta ineluttabili. “Poiché questi dipinti furono eseguiti per un Vespucci, il Gombrich ha certamente ragione quando sospetta che, a causa delle vespae del loro stemma, i Vespucci amavano far dipingere quadri dove compaiono vespe: può darsi dunque che Marte e Venere di Botticelli sia stato uno di questi. E’ però una caratteristica comune alle ‘invenzioni’ rinascimentali che il soggetto araldico non venga introdotto piattamente e per se stesso nei dipinti, ma che esso trovi sempre una motivazione all’interno del tema prescelto per il dipinto stesso” 3. L’emblema della giustizia, la bilancia, ricorre negli affreschi di palazzo Giustiniani proprio nella prospettiva di una complessa “elaborazione” dei temi dell’identità e del destino del genius familae. I Giustiniani, provenienti da Genova, amministravano nell’isola di Chios sin dal 1362. Qui avevano costruito stabilità, fortuna e potere. Improvvisamente vengono spazzati via dalle conseguenze di uno dei primi sussulti che destabilizzerà l’Europa di quell’epoca: la caduta di Costantinopoli nel 1453. Che determinerà più tardi l’occupazione turca di Chios nel 1566. Le altre tappe destabilizzanti per l’Europa sono la scoperta dell’America, 1492; la scissione di Lutero, 1517; il sacco di Roma, 1527. Con l’occupazione turca, i Giustiniani devono lasciare l’isola di Chios. Si rifugiano a Roma dove, grazie a Vincenzo Giustiniani, generale dei domenicani e successivamente cardinale, ricostruiscono rapidamente il loro potere economico. La fuga da Chios è un’apocalisse familiare, la perdita dei punti di riferimento. La ricostruita sicurezza, l’acquisto del palazzo di Bassano Romano nel 1595, il suo ampliamento e gli

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Il mito di Fetonte affreschi eseguiti nel 1609, rappresentano un rinnovato radicamento, la riconquista della stabilità. Ma è una stabilità che si vuole, da un lato, interrogare sulla fragilità vissuta, sperimentata e, dall’altro, celebrare l’apoteosi del riscatto. La vicenda familiare viene meglio compresa se si colloca in un ampliamento di orizzonti, tale da includervi la fragilità dei delicati equilibri cosmici. Minacciati sì dalla sconsiderata hybris del giovane Fetonte, che aspira ad un compito rischioso ed estremo, ma sulla quale interviene, a risanare e riequilibrare, la suprema giustizia divina di Zeus. L’accezione di giustizia connessa all’intervento di Zeus, fu indicata anche da Dante (Purgatorio, XXIX, 118-120): Quel del Sol che, sviando, fu combusto per l’orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto. A questo punto, tuttavia, sorgono alcune questioni ai fini dell’indagine. Tutti gli affreschi delle pareti, della galleria in esame, sono in ordine al testo del mito di Fetonte rappresentato nel soffitto, escluso uno: raffigura Venere che si specchia, insieme a quattro Grazie e la Sfinge (fig. 2). Mentre le altre raffigurazioni parietali sono intrise del senso di contemporaneità, partecipazione e consapevolezza del dramma che si svolge nel soffitto, qui Venere vi è indifferente. Si guarda, tranquilla e distaccata, nel suo specchio. Due delle Grazie partecipano costernate al dramma, mentre le altre due sono del tutto dedite alla cosmetica di Venere. Resta, nello spettatore, l’enigma di una estraneità e indifferenza che risaltano tanto più quanto l’atteggiamento della figura centrale, Venere, e delle altre due Grazie, si collocano del tutto fuori dal testo raffigurato in ogni scena della galleria. La prima associazione che affiora è quella di una hybris femminile, la bellezza che si auto contempla, simmetrica a quella maschile di Fetonte. Ma quando l’analisi si spinge ad indagare i simboli, insieme ai contenuti sapienziali e storicoreligiosi, di quella complessa attività grazie alla quale il Rinascimento ha rilanciato il mito classico, ci si imbatte nel contributo di De Santillana sul significato del mito in generale. La sua tesi, come è noto, è che il mito non sia solo una peculiare produzione dell’immaginazione, o un’alternativa al logos, come ci ha raccontato la tradizione liceale e scolastica. Ma esso è anche depositario di conoscenze scientifiche

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antichissime, di natura astronomica, dalle quali nacquero la matematica, la fisica e la filosofia. De Santillana, in altri termini, ha posto questioni profonde. Innanzitutto nell’ambito della storia delle religioni. Un ambito, cioè, che si occupa di storicizzare le formazioni mentali su quel primato che già lo stoicismo - di cui Musonio Rufo da Bolsena è stato uno dei massimi rappresentanti -, aveva individuato come decisivo per l’essere umano e per il suo rapporto con la realtà: le rappresentazioni (gr. = phantasìai). Il mito di Fetonte è letto da De Santillana in chiave astronomica, come documento di una consapevolezza antichissima dell’inclinazione dell’eclittica 4. De Santillana segnala il passo del Timeo, 22 c-e, dove Platone descrive la causa astronomica della leggenda di Fetonte. Quel che conta maggiormente ai fini del presente contributo -e che offre altresì chiavi di estremo interesse per diversi settori della ricerca sul patrimonio della Tuscia viterbese -, è che il contributo di De Santillana fornisce una possibile comprensione dell’enigma di Venere. L’analisi dei particolari della scena, a partire dall’atteggiamento di Venere, deve prendere in considerazione prevalente lo specchio; il numero delle Grazie, all’atteggiamento delle quali si è già accennato; il ruolo della Sfinge. Lo specchio, gli ornamenti e la cintura magica sono attributi della variante greca di Venere, Afrodite: ne parla Plutarco nel De Fortuna Romanorum, 46. Inoltre, lo specchio è strumento di consapevolezza e di “cosmetica”. Sia nell’etimo di cosmetica, che rimanda a kosmos, sia nella funzione della coltivazione del proprio aspetto, della bellezza soggettiva, c’è un rimando all’armonia, come accordo delle parti e ricerca della proporzione. Come dice Wind, le Grazie rappresentano l’unità di Venere 5. Normalmente, come è noto, le Grazie sono tre. Il numero 4 da un lato potrebbe essere un elemento di break down (ovvero, rottura dei riferimenti abituali) cognitivo e percettivo (attività tipicamente ermetica, in cui i rinascimentali erano maestri, basti pensare alla casina pendente di Bomarzo, la cui funzione è quella di “rompere” i codici percettivi abituali, onde aprire la mente alla prospettiva ermetica che il Bosco Sacro propone) e, dall’altro, alludere alle quattro stagioni come segnala Christina Strunck 6. Tuttavia, se consideriamo che le quattro Grazie formano con Venere un gruppo di cinque, ciò


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potrebbe essere anche strettamente legato al significato astronomico del pianeta Venere e del suo ciclo planetario delle cinque diverse posizioni occupate ogni otto anni 7. Questo dato, a sua volta, consente di formulare l’ipotesi, da verificare in una ricerca mirata, che la pianta pentagonale del palazzo Farnese di Caprarola possa essere stata ispirata al pentagramma planetario di Venere. La Sfinge è oggetto di una lunga ed assestata tradizione, che da Plutarco a Valeriano, a Pico della Mirandola, a Francesco Giorgi, la pone come simbolo dei significati segreti e dell’esoterismo 8. Qual è dunque questa dottrina esoterica rappresentata da una Venere che, con apparente indifferenza rispetto ad un dramma, si mostra immersa nella cosmetica? Si tratta dell’Afrodite Urania della quale accenna Platone nel Timeo, il testo sapienziale che, sotto il braccio di Platone, il divino filosofo, è al centro della Scuola di Atene di Raffaello. Ella è la vera forza cosmica che, dal kaos trae il kosmos 9. Ne perpetua l’ordine planetario e l’armonia dei cicli, restaurando le periodiche minacce e le crisi, che accidentalmente possono essere introdotte da eventi e interventi temerari. Venere è indifferente perché consapevole e tranquilla. Perché la stessa giustizia di Zeus è un effetto di questa armonia immanente. La Strunck ipotizza un’intenzionalità dell’autore dell’affresco, Albani, di riferirsi alla “Venere celeste”. Ipotesi sorretta da indizi che testimoniano sulla lettura, da parte di Albani, dell’opera di Vincenzo Cartari 10. In tal modo, i Giustiniani, non solo avevano attinto ad un vero e proprio pharmakon che cicatrizzava le angosce di un’apocalisse vissuta; non solo ne realizzavano l’etimo di “disvelamento”, come nell’atto di una delle Grazie, ma addirittura si rappresentavano come oggetto di protezione, riscatto e legittimazione da parte della più alta forza di costituzione del macro-cosmo. E ciò avveniva proprio per via di quella peculiarità ermetica di cui si è nutrito tutto il Rinascimento sino a Campanella: una potenza, una configurazione, un Dio si attiva e diventa operativo in forza della connessione tra significato ed immagine. Ma ciò è possibile perché vi è un’economia e un potere sociale che sostiene la produzione dei significati attraverso costose committenze artistiche. Il contadino bernese di E. de Martino è in tutt’altre

condizioni. E’ il caso di cogliere l’occasione per riflettere sul presente, con il ricorso a categorie storiche di così lunga durata da sembrare immutabili. Categorie, date dalle differenze, dei destini storici dei singoli, determinate dal potere economico-politico che, a sua volta, cristallizza attraverso le generazioni le invarianti archetipiche delle classi sociali. Lungi dal vedere realizzata l’idea di uguaglianza dell’umanesimo evangelico del cristianesimo, la crisi dell’eurocentrismo nel Rinascimento si dibatte in una ricerca rivolta in tutte le direzioni, per attingere nuove energie e nuovi significati. Verso il passato del ritorno dei classici e della religione greco-romana. Verso le radici stesse del cristianesimo, con il luteranesimo e le chiese evangeliche. Verso il futuro, con la scoperta dell’America e la nascita della scienza moderna. Sul piano soggettivo degli individui, e del contadino bernese, nelle epoche di crisi sono sempre i soliti noti che pagano i prezzi più alti. Il mito di Fetonte è rappresentato anche nel soffitto, dedicato alle costellazioni, della stanza della Cosmografia del palazzo Farnese di Caprarola (VT), sempre con variazioni extratestuali. Variazioni, riconducibili al fatto che il planisfero delle costellazioni è, per così dire, “racchiuso” da due elementi che, almeno uno, non rientra del tutto nell’elenco delle costellazioni all’epoca classificate. In alto a sinistra della sfera celeste c’è Zeus che scaglia il fulmine; in basso a destra c’è Fetonte che casca dal carro del sole. Bisogna immaginare il piano, sul quale sono rappresentate le costellazioni, come una sfera e che, quindi, Zeus sovrasta direttamente Fetonte. Ora, è vero che c’è una tradizione per cui la costellazione del carro e dell’Eridano venivano rappresentate da Fetonte. Ma è anche vero che Zeus, non rientrando nelle costellazioni, viene raffigurato per rimarcare la vicenda di Fetonte. Per cogliere il rilievo astronomico che ispira documenti notevoli della storia dell’arte, anzi che determina un intreccio peculiare tra diversi ambiti culturali, accomunandoli con contenuti sapienziali, sono necessari alcuni riferimenti alla Scuola di Atene. GLI ASTRONOMI DELLA SCUOLA DI ATENE. Un altro modello di riferimento, del periodo storico del Cinquecento, per la cultura e le conoscenze di ambito astrologico/astronomico è la Scuola di Atene di Raffaello del 1508-11 (fig. 3).

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Il mito di Fetonte

In particolar modo, è tutto il gruppo di destra a costituire una sorta di sotto-contesto, rispetto al quadro generale costituito dalla totalità dell’intera rappresentazione. Il gruppo di destra rappresenta la relazione tra matematica, geometria ed astronomia quale sentiero generativo e culminante della sapienza. Attraverso il gesto di Plotino, che simmetrico ed opposto a quello di Platone che punta l’indice verso il cielo; esempio di come all’identico si può giungere anche per apparenti opposizioni- indica verso il basso la sfera celeste di Zoroastro, si risale al Timeo, il libro che Platone ha in mano, con il titolo sul dorso, che ha per oggetto la speculazione astronomica di Platone sul Demiurgo. Il gruppo estremo dei quattro, in basso a destra in primo piano, dove Raffaello colloca se stesso, presenta la particolare postura di Tolomeo, con la sfera terreste retta con la sinistra. Il fatto che questi venga situato di spalle allo spettatore, allude alla necessità che la realtà più prossima, i fenomeni della sfera terrestre, vengano indagati “guardando” a quella celeste, sostenuta da Zoroastro con la destra. Reale ha fornito a suo tempo una spiegazione persuasiva e stringente sulle motivazioni per le quali Raffaello colloca se stesso in questo gruppo 11. E tali motivazioni sono proprio in ordine al problema della sapienza, della quale legittimamente partecipa l’arte come metodo di conoscenza. Completerei questa argomentazione con un ulteriore elemento. Brandt ha richiamato l’attenzione sul fatto che La scuola di Atene non è il titolo originale e che esso è stato formulato solo nel XVII secolo. Giustamente, questo autore valorizza il titolo generale sotto cui è posto originalmente l’intero affresco, come anche gli altri della Stanza della Segnatura. Il titolo è Causarum Cognitio, conoscenza delle cause; oggi si direbbe Eziologia 12. Se, dunque, l’intera rappresentazione è il compendio dei secoli della sapienza d’Occidente, con il perenne dualismo e complementarietà di Platone ed Aristotele, Raffaello, con il gruppo di destra, riverbera la dualità Platone/Aristotele nella quaternità Zoroastro/Tolomeo-Raffaello/Sodoma, indicando che, come Zoroastro e Tolomeo con l’astronomia, attraverso la matematica e la geometria, sono all’origine, sono causa, della vicenda della sapienza in Occidente, così lui stesso, in quanto

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rivolto verso lo spettatore – ed in tal modo, attraverso lo sguardo, ne cattura la mente e la immette nel complesso dei significati che vanno tutti decodificati -, insieme a Sodoma, sono la causa efficiente che ha generato (eseguito praticamente) l’intera rappresentazione che si sta contemplando. Come afferma Brandt: “Già Giorgio Vasari nel 1550 aveva scritto riguardo all’affresco che i teologi concilierebbero la filosofia con l’astrologia e la teologia, gli evangelisti spiegherebbero i segni astrologici… Né si può esprimere la bellezza di quelli astrologi e geometri” 13. Il problema di Zoroastro che regge la sfera celeste ci rimanda ad un nucleo centrale del dibattito rinascimentale sulla prisca philosophia che, a sua volta, rimanda al problema della sapienza ermetica; alla derivazione della matematica e della geometria dall’astronomia babilonese; alle relazioni tra Ermete Trismegisto e Zoroastro, dove il secondo fu considerato più antico del primo; al fatto che Ficino interruppe la traduzione di Platone per avviare quella di Ermete; alla singolare figura di Gemisto Pletone, alla sua polemica contro gli aristotelici e alla storia delle dottrine esoteriche, sino all’intervento del cardinale Bessarione in difesa di Pletone e del platonismo. Una simile complessità tematica genera spontaneamente la considerazione che la figura di Zoroastro, con il suo immediato contesto, nella Scuola di Atene, si pone come scaturigine primigenia della vicenda rappresentata, costituendo uno snodo di approfondimento, una costellazione di significati condensati nella connessione reversibile dei concetti usati dal Vasari di teologi, filosofi e astronomi. LA COSMOGRAPHIA DEL PALAZZO FARNESE A CAPRAROLA. Il modello di pensiero, costituito dal precedente complesso di temi, funge da ulteriore riferimento di sfondo per la “Stanza del Mappamondo” del palazzo Farnese di Caprarola. In verità nella corrispondenza dei collaboratori con Alessandro Farnese e con gli stessi autori degli affreschi su usa il termine di “stanza della Cosmographia”, il cui programma fu definito sin dal marzo del 1573 14. Tale definizione risulta sicuramente più pertinente, non solo per la fedeltà al lessico dei protagonisti dell’evento storico-artistico, ma anche perché il lessico riflette il modello teorico e il


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complesso dei temi dai quali scaturisce. E tale modello, in effetti, è una cosmologia. Nella stanza omologa del Palazzo Farnese, infatti, la sfera celeste (fig. 4), formata dallo zodiaco e dalle altre 36 costellazioni tolemaiche, “sovrasta” dall’alto le diverse rappresentazioni della sfera terrestre, le carte geografiche alle pareti. Non solo per una corrispondenza semplicisticamente fisica, ma anche per la filosofia che vuole reggere l’auctoritas di cui i Farnese si sentono investiti: chi vuole dominare la terra, lo spazio, deve “conoscere” il tempo, scandito dagli astri, trovare l’investitura dal cielo: “per diventare sovrani dello spazio occorre essere signori del tempo” 15. L’attenzione ai temi astronomico-astrologici permea tutto lo spirito del tempo del Rinascimento, sino a sfociare negli studi di Keplero, nella rivoluzione di Copernico e nella vicenda di Galileo. Giungerei a proporre una visuale ampia, che comprenda Newton e Leibniz sino a Bruno e Campanella. Aby Warburg documentò già nel 1912 i temi astrologici del palazzo Schifanoia a Ferrara 16. Il suo allievo Saxl ha analizzato il ciclo del toro per le stanze dei Borgia in Vaticano, in parte ispirate da Annio da Viterbo 17. Dalla stessa scuola del Warburg Institute proviene quel contributo straordinario, tuttora un classico, sulle idee secolari degli influssi planetari, a partire dai significati espressi dalla Melencholia I di Dürer del 1514 18. Uno dei maestri italiani sul pensiero del Rinascimento, E. Garin, ha passato in rassegna lo scontro sull’astrologia di quel periodo 19. Il dato più stringente, che testimonia dell’interesse di papi e cardinali all’assunzione della “signoria del tempo”, è quello del 1583: quando a Caprarola Antonio Tempesta finiva di affrescare le pareti della spiralica scala regia, il papa Gregorio XIII, con il contributo dell’astronomo e matematico calabrese Luigi Lilio (Cirò, 1510–Roma, 1574) pubblicava la bolla Inter gravissimas con la quale cancellava i dieci giorni dal 5 al 14 ottobre, instaurando la riforma del calendario tutt’oggi vigente. “La storia del calendario è storia di Concili e di Papi e nella nostra cultura inizia con gli Imperatori Romani. Il calendario riguarda la vita civile, la scienza, in particolare l’astronomia, e la vita ecclesiastica. Nella vita civile il calendario non è uno strumento neutro. Stabilire un calendario è imporre la propria organizzazione del tempo, e seguirlo vuol dire riconoscere l’autorità che lo ha

predisposto. Per questo alcuni storici riferiscono che il protestante Keplero, pur in accordo come astronomo con i calcoli del calendario riformato sotto papa Gregorio XIII, dirà che è preferibile ‘essere in disaccordo con le stelle piuttosto che dichiararsi in accordo con il papa’. (…) Anche Copernico, sotto papa Paolo III, si era espresso sui problemi del calendario e sulla durata dell’anno tropico. Nel 1512, alla vigilia del V Concilio Lateranense, si era arrivati vicino ad una soluzione; nel Concilio di Trento con Pio V, era stata ribadita la necessità di riformare il breviario e di renderlo conforme alle regole del Concilio di Nicea per la determinazione della festa mobile della Pasqua” 20. Del resto, oltre la Cosmographia, i riferimenti astronomici, diretti e indiretti, presenti nel palazzo Farnese di Caprarola sono diversi e di livello certamente non secondario: dalla Stanza dell’Aurora alle rappresentazioni della capra Amaltea, dalla portentosa spirale dello scala regia, alla pianta, pentagonale con inscritto il cerchio, dello stesso palazzo. Vi è tutto un patrimonio di simboli ed immagini archetipiche che rimandano ad un corredo sapienziale, sicuramente “canalizzato” nel genius familiae, inizialmente, da papa Paolo III. Successivamente, recepito ed espanso dal nipote omonimo. Canalizzato, nel senso che le diverse affluenze di tale patrimonio sono riconducibili a diverse personalità, dagli Orsini di Pitigliano (la piccola Gerusalemme) e di Bomarzo (l’ermetico Bosco Sacro), ad Annio da Viterbo (ruolo dell’immaginazione?), sino allo stesso cardinale Egidio da Viterbo (massimo rappresentante dell’ermetismo cristiano), le quali si rendono interpreti dei molteplici aspetti di quella sapienza del genius loci e dell’inconscio collettivo della Tuscia, risalente agli Etruschi. In tale vicenda, un ruolo centrale è svolto dall’ermetismo e dall’interpretazione sapienziale che Egidio da Viterbo dava della Tuscia, la cui estensione giungeva al Vaticano, in quanto colle del Vaticinium, come “competenza” trasmessa dagli etruschi ai romani. Nella prospettiva storicoreligiosa, va aggiunto che l’altro confine storico-geografico del patrimonio ermeticosapienziale è dato dal duomo di Siena, dove è rappresentato Ermete Trismegisto nelle tarsie del pavimento. Tornando al planisfero delle costellazioni di Caprarola, un possibile modello concreto per

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Il mito di Fetonte

l’esecuzione di almeno alcune delle costellazioni, insieme ad altri particolari, come forse i circoli, nella volta della stanza della Cosmografia di Palazzo Farnese, è costituito dallo straordinario Atlante Farnese, ora al Museo Nazionale di Napoli (fig. 5). La postura stessa di Atlante, piegato sulle ginocchia, è ricondotta da Nonno (Dionisyaca, XXXVIII, 349 e segg., al cataclisma provocato da Fetonte. Una rappresentazione di sfera celeste così celebre, copia romana di statua greca 21 acquistata da Alessandro Farnese già nel febbraio del 1562 cioè più di 10 anni prima della stesura del programma che è del 1573; l’esecuzione della Cosmographia di Caprarola è datata al 1575dall’antiquario Paolo del Bufalo 22, posseduta da quello stesso proprietario del Palazzo Farnese, così intensamente interessato al problema della sapienza, da costituirsi come protettore e mecenate dell’Accademia bolognese dell’Hermathena, il cui emblema, rivisto in chiave ermetica, lo fa riprodurre nel suo gabinetto privato a Caprarola, poteva non porsi come modello di ispirazione e confronto documentale per la definizione e l’esecuzione della volta delle costellazioni? Uno dai dati interni di corrispondenza è la fascia inclinata dello zodiaco. Un altro che attrae ancora di più l’attenzione, suscitando tutta una serie di interrogativi anche di archeoastronomia è il gruppo del toro e dell’ariete, in quanto dato strettamente connesso con l’inclinazione dell’eclittica. Ambedue i fattori rimandano alla scoperta della precessione degli equinozi. Elementi sin troppo ovvi per gli storici dell’astronomia. Ma che indicano il lavoro di individuazione di nozioni, elementi e modelli ispirativi da parte di autori che, a suo tempo, stendono il programma e di artisti che lo eseguono, in quanto soggetti inizialmente sprovvisti di simili nozioni. Ad esempio, sull’inclinazione dell’eclittica: “Il pensiero che si cela dietro a queste costruzioni dei tempi remoti è sempre elevato, anche se assume forme strane. La teoria di ‘come il mondo è cominciato’ sembra implicare la frattura di un’armonia, una specie di ‘peccato originale’ cosmogonico a causa del quale la circonferenza dell'eclittica (con lo zodiaco) si inclinò di un angolo rispetto all'equatore. In tutto il mondo ci sono storie di questo tenore: le potenze litigarono tra loro - lotta degli Asura e dei Deva nella

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tradizione indiana, o combattimento tra Kung Kung e Ciuan Hsü per l'Impero del Mezzo - o la sfida lanciata dai Titani agli Olimpi. Le ben note storie del Titano Tantalo e di Licaone che danno in pasto agli dei la carne dei propri figli portano con sé una maledizione: gli dei ‘rovesciano la tavola’ inorriditi, il sole si ritrae, ne segue una tragedia. La guerra dei Titani contro l'Olimpo in Grecia ha strane analogie in tutte le mitologie. Ad esempio, la caduta di Satana e la caduta degli dei aztechi scaraventati dall'alto del cielo perché avevano colto i fiori proibiti; essi furono immessi in un ‘percorso più basso’ su nuove strade e cercarono poi continuamente di riconquistare le alte posizioni di un tempo costruendo torri e ‘assi’ del mondo inclinati da una parte” 23. Nel 2005 un astronomo americano ha dimostrato che la disposizione delle costellazioni della volta celeste dell’Atlante Farnese è in ordine con la precessione degli equinozi ed è riconducibile alla teoria astronomica di Ipparco 24. Il mito di Fetonte, con i contenuti a cui esso rimanda, sono connessi con la “transizione permanente”, in quanto cifra della condizione umana che transita, dalla nascita, attraverso i cicli delle fasi evolutive, alla morte. I riverberi di questa transizione sulla psiche umana non possono essere scissi dall’anima del mondo, in quanto intensa dinamica vitale del cosmo che abitiamo. Le questioni relative alle relazioni tra la memoria come Mnemosyne, madre delle Muse, il Fato individuale e collettivo, l’Aion, come grande anno platonico, e il passaggio dall’era dei Pesci a quella dell’Aquario, sono questioni centrali sia per la crisi che stiamo attraversando sia per l’inconscio collettivo contemporaneo. L’insegnamento che C. G. Jung ha trasmesso –soprattutto attraverso i due tomi di Civiltà in transizione, Risposta a Giobbe e il Red Book, stimola una rinnovata attenzione sull’Ombra collettiva attuale, il cui intensificarsi assume carattere compensatorio dell’innegabile espandersi dell’intelligenza e della conoscenza contemporanea.

Bibliografia e Note 1. Da alcuni anni a Bassano Romano esiste una scuola estiva di storia delle religioni ed etnologia promossa dall’AIEdM (Associazione Internazionale Ernesto de Martino), in


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convenzione con il Comune e con il Liceo Statale delle Scienze umane di Bassano Romano. Per l’inizio dell’anno scolastico 2011/12, Clara Gallini, docente emerito di Etnologia alla Sapienza di Roma e che presiede l’AIEdM, ha indicato come tema La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, opera postuma di E. de Martino, curata dalla stessa Gallini, insieme a M. Massenzio, ed uscita presso Einaudi nel 1977. Data la complessità dell’opera, il lavoro degli studenti, su indicazione di Gallini è stato circoscritto a “Il caso del contadino bernese” (esposto alle pp. 194-211 del libro suddetto). Tale caso riguarda un contadino bernese che entra in crisi psicopatologica, che E. de Martino attinse da una fonte psichiatrica tedesca, assumendolo come caso individuale di apocalisse soggettiva, dove una vita semplice, definita dagli elementi e dai confini essenziali del mondo rurale, subisce un crollo a partire dalla decisione paterna di sradicare una quercia antistante l’abitazione. La relazione magistrale è stata svolta da Marcello Massenzio, docente di Storia delle religioni all’Università di Tor Vergata, il 1° ottobre 2011, sul tema Diventare stranieri a se stessi. Il tema del mondo che si “demondanizza” nell’opera postuma di E. de Martino. In de Martino sussiste, dunque, un parallelismo tra crollo del mondo interno soggettivo e angosce neo-millenaristiche delle apocalissi culturali. L’attualità di simili tematiche, assunta dall’iniziativa della scuola estiva di Bassano Romano, sembra generalizzarsi nella coscienza collettiva, sino ad affiorare nella riflessione di un autorevole giornalista contemporaneo, G. Bocca che, nella sua rubrica “L’antitaliano” de l’Espresso del 19 maggio 2011, dal titolo “Forse i Maya avevano ragione”, passa in rassegna i molteplici fenomeni di instabilità a diversi livelli e di degrado delle relazioni collettive, in quanto fattori che alimentano le angosce neomillenaristische della crisi che stiamo vivendo in Occidente. Gli affreschi della galleria del palazzo Giustiniani sul mito di Fetonte, sul ciclo di Eros e Psiche e sull’uso molto peculiare di una doppia e tripla prospettiva architettonica, usata in diversi di tali affreschi, sollecitano una riflessione sullo sfondo storico-culturale e storicoartistico del mito di Fetonte che, meglio di tutti gli altri, descrive l’apocalisse astronomica immaginata (memorizzata?) dalla civiltà classica.

2. Publio Ovidio Nasone, Metamorphofes, I, 750779; II, 1-339. 3. E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento. Milano 1985, p. 113, nota (quale??? Indicare il numero preciso). 4. G. De Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Milano 1983, pp. 297-??? (COMPLETARE, bisogna inserire l’intervallo preciso delle pagine). L’importanza di questo testo, definito come “un classico della storia comparata delle religioni”, per la storia delle dottrine esoteriche, è stato segnalato recentemente anche da S. Ronchey, Ipazia. La vera storia, Milano 2010, p. 273. 5. E. Wind, Misteri… op. cit., p.115. 6. C. Strunck, Identità vere e finte nel programma decorativo del palazzo di Bassano, in La Villa di Vincenzo Giustiniani a Bassano Romano, ed a cura di A. Bureca, Roma 2003, pp. 185- ??? (COMPLETARE, bisogna inserire l’intervallo preciso delle pagine). 7. G. De Santillana, Fato antico e fato moderno, Milano 1985, p. 136. 8. E. Wind, Misteri…, op. cit., pp. 21- ??? (COMPLETARE, bisogna inserire l’intervallo preciso delle pagine). 9. G. De Santillana, Fato antico…, op. cit., p. 133??? (COMPLETARE, bisogna inserire l’intervallo preciso delle pagine). 10. V. Cartari, Le Imagini con la spositione de i dei de gli antichi. Raccolte per Vincenzo Cartari, Venetia 1556. 11. G. Reale, La Scuola di Atene di Raffaello. Un’interpretazione storico-ermeneutica, Milano 2005, pp. 239- ??? (COMPLETARE, bisogna inserire l’intervallo preciso delle pagine). 12. R. Brandt, Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, Milano 2003, pp. 38 e segg. 13. Ivi. 14. J. Recupero, Il palazzo Farnese di Caprarola, Firenze 1975, pp. 52- ??? (COMPLETARE, bisogna inserire l’intervallo preciso delle pagine). 15. G. De Santillana, H. von Dechend, Il mulino…, op. cit., p. 317. 16. A. Warburg, Arte e astrologia nel palazzo Schifanoia di Ferrara, Milano 2006; A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, Firenze 1980. 17. F. Saxl, La storia delle immagini, Bari 1965. 18. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la

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Il mito di Fetonte

malinconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, Torino 1983. 19. E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Bari 1976. 20. N. Lanciano, Papa Gregorio XIII e la riforma del calendario del 1582, in “Portale Treccani”. 21. “… è una tarda copia romana risalente al II s. d.C., proveniente da una statua bronzea di epoca ellenistica. Inizialmente, la statua sembra fosse stata inserita nella decorazione della biblioteca del foro di Traiano a Roma e forse, realizzata in uno dei più importanti centri culturali e scientifici del tempo: il Museo di Alessandria”, Lucia Gangheri (www.jayavidya.org/Articoli/ilGiganteElaVoltaCele ste.html). 22. M. Tinazzi, Le ricerche di Francesco Bianchini sul globo (Atlante) Farnesiano, in “Atti del V Congresso Nazionale di Archeoastronomia, Astronomia antica e culturale e Astronomia storica”, (Milano, 23-24 settembre 2005), Milano 2005, p. 71. 23. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, Firenze 1966, p. 22. 24. Bradley E. Schaefer, The Epoch of the Constellations on the Farnese Atlas and their Origin in Hipparchus’s lost Catalogue, in “Journal for the History of Astronomy”, 36, 123, 2005, pp. 167-196.

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Pasquale Picone ha lavorato per dieci anni nell'Ospedale Psichiatrico "S. Maria Maddalena" di Aversa (CE) e, in seguito, alla 2a. rete radiofonica della RAI a Roma. E’ membro dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, registro degli Psicoterapeuti. Ha svolto attività didattica e di ricerca presso la 2a. cattedra di Teorie della Personalità del corso di laurea in Psicologia dell'Università “La Sapienza” di Roma e presso le cattedre di Storia della filosofia, Filosofia morale e Pedagogia dell’Università degli Studi di Viterbo. Ha collaborato, pubblicandovi ricerche, saggi e recensioni alla Rivista di Psicologia Analitica, Roma, Astrolabio; al Giornale Storico di Psicologia Dinamica, Napoli, Liguori; a Studi Junghiani, Milano, Franco Angeli. Ha diretto il Liceo Classico Statale “Guglielmotti” di Civitavecchia (RM), attualmente il Licei Statali di Ronciglione e Bassano Romano (VT). E' specialista in psicoanalisi junghiana; dal 1992 al 2010, ordinario dell'A.I.P.A.-Associazione Italiana di Psicologia Analitica di Roma e della I.A.A.P.International Association for Analytical Psychology, Zurigo. Dal 2011 è analista ordinario dell’A.R.P.A.-Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica, Torino-Roma e della I.A.A.P.Zurigo.


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Ekaterina Panikanova, Book Collage

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Pagina dell'opera

Undicesima avventura Prima della partenza, Crimilde vuole che i suoi fratelli dividano con Sigfrido il loro regno, cedendogli se non altro la parte che spetta alla sorella. I fratelli di Crimilde sono disposti, ma Sigfrido rifiuta: Vogliamo … spartire con voi il paese e i castelli che possediamo, e tutto quello che ci è soggetto nel vasto regno: Voi e Crimilde riceverete la parte che vi spetta. … la mia cara moglie vorrà ben rinunciare alla parte che le spetta e che volete darle. Dove ella porterà la corona, sarà più ricca di qualunque al

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mondo … Crimilde vuole almeno la sua parte di guerrieri: Se voi volete rinunciare alla mia eredità, quanto ai guerrieri che vi sono … la mano dei miei cari fratelli li spartirà fra di noi. Prendi con te quelli che vuoi … Dei tremila cavalieri prendine con te mille al servizio della tua casa. Crimilde nomina per primi proprio Hagen ed il nipote di questi, Ortwein. Ma Hagen va su tutte le furie e, pur essendo un vassallo, si oppone con successo alla volontà del re. Crimilde prende con sé il margravio69 Eckewart,


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trentadue fanciulle e cinquecento uomini. Nella fortezza di Xanten, nel Niederland, l’accoglienza che re Siegmund e regina Sieglinde fanno al proprio figlio e a sua moglie supera abbondantemente in magnificenza, abbondanza e sfarzo le feste burgunde, ma l’accento resta sulla gioia dei due genitori: Siegmund e Sieglinde baciarono molte volte con bocca ardente per la gioia la figlia di Ute e Siegfried … ogni loro pena era finita. Il re Siegmund cede la corona al figlio: Annunzio a tutti i parenti di Siegfried che da oggi in poi egli porterà la mia corona. Per dieci anni Sigfrido fu re e signore, potente e temuto, ricco più di qualunque altro, se non altro per il tesoro dei Nibelunghi. Siegfried e Crimilde ebbero un figlio, che fecero battezzare e a cui diedero il nome dello zio, Gunther. Anche Brunilde e Gunther ebbero un figlio, che fu chiamato Siegfried. Con la compianta morte di Sieglinde, Crimilde diventa a tutti gli effetti regina del Niederland. Dodicesima avventura. A Worws, Brunilde desidera da tempo rivedere i cognati. Le pare comunque strano che il vassallo Siegfried da tempo non presti loro alcun servizio e mai abbia mandato tributi. Sospetta che tutto sia frutto dell’orgoglio di Crimilde. Hýbris l’ha ormai resa una donnetta gelosa e vendicativa. Confida a Gunther, mascherandoli, i suoi pensieri, ma il re cerca di rinviare: E come potremmo farli venire nel nostro paese … è cosa impossibile. Abitano troppo lontano; non posso pregarli di venire. Brunilde insiste: Per quanto possa essere potente il vassallo di un re, deve pur sempre fare ciò che il suo signore comanda. Gunther sorride a tali parole … non considerava atto di vassallaggio da parte di Siegfried quando questi lo incontrava. Brunilde ci sa fare, sa rivolgere al marito gradite preghiere: Signore mio caro, per amor mio … aiutami a che … possiamo rivederli … La cortesia di tua sorella, il suo animo gentile, mi fa bene a ripensarci. Come eravamo sedute una presso l’altra allora, quando diventai la tua donna! Ella ha scelto con onore il prode Siegfried70.

Tanto lo prega che alla fine il re invia i messaggeri per invitare Sigfrido e Crimilde e ad essi raccomanda l’esatto messaggio: Cavalieri, non tacete nulla di quello che voglio venga annunciato … direte a Siegfried, il forte, e alla sorella mia che nessuno sulla terra li ama più di me … pregateli71 che vengano … io e Brunilde saremo loro molto grati. Tre settimane impiegano i trenta messaggeri per raggiungere Xanten. Crimilde è sul letto quando le annunciano che sono arrivati cavalieri vestiti secondo il costume dei Burgundi … Crimilde balzò dal letto dove stava riposando. L’invito che i messaggeri espongono è per una festa … quando l’inverno sarà cessato, prima del solstizio … Sigfrido è incerto, pensa inizialmente che i Burgundi possano avere problemi che necessitano del suo intervento. Si consiglia con i suoi. Suo padre Siegmund, fa notare ai messaggeri: Poiché mio figlio Siegfried si è scelta come moglie Crimilde, dovreste farvi vedere più spesso in questo paese, se ritenete di essere nostri amici e se ci tenete realmente. I cavalieri di Sigfrido gli consigliano una scorta di mille uomini. Lo stesso Siegmund si offre di accompagnarlo: Se volete andare alla festa di corte, perché non me lo dite? Verrò con voi … condurrò con me cento spade e così aumenterò la vostra scorta. I doni che Sigfrido fa ai messaggeri sono così tanti che i cavalli a stento possono portarli. Li rimanda indietro con la promessa che partirà insieme a Crimilde di lì a dodici giorni. Gli animi nel Niederland non sono a quanto pare proprio lieti dell’invito, quasi aleggia sulla decisione favorevole un’ombra inafferrabile di timore, un oscuro e rimosso presentimento. È il margravio Gere che porta a Gunther la buona notizia: dalla grande gioia il re balzò dal seggio72. Ditemi come sta Siegfried che mi usò tanta cortesia73. Di altro tenore sono le domande che Brunilde rivolge al margravio; da esse, come dalle osservazioni successive di Hagen, già trapelano un celato stato d’animo di invidia e una affinità di intento tra i due: Viene da noi anche Crimilde? Il suo bel corpo ha conservato le qualità di cui si ornava un tempo? Gere elude la seconda domanda: Ella verrà certamente.

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Hybris e Secolarizzazione Nel Nibelungenleid

L’entità della ricompensa che Sigfrido ha donato ai messaggeri viene resa nota a tutti. E in questo modo Hagen commenta la generosità del futuro ospite: Gli è facile far doni; anche se vivesse in eterno, non esaurisce il tesoro dei Nibelunghi che egli custodisce. Così potesse esso pervenire un giorno nelle mani dei Burgundi. Nell’attesa degli ospiti, Gunther dà inizio ai soliti grandiosi preparativi. Tredicesima avventura Siegfried e Crimilde si sono messi dunque in viaggio. Li accompagna il re Siegmund e a casa hanno lasciato il figlioletto Gunther, destinato a mai più rivederli. È l’ennesimo, ma ultimo viaggio che l’eroe del Niederland intraprende verso Sud. Sono stati al solito inviati molti bauli: Mai cavalli ebbero a trasportare vestiti così belli in tale quantità. Re Gunther ancora una volta cerca velatamente di ragguagliare Brunilde sulla dignità degli ospiti: Dovete ricevere la moglie di Siegfried così come mia sorella vi accolse quando arrivaste nel paese di lei … preparatevi, affinché non li si debba attendere nel castello, ma andare loro incontro. Ad andare incontro ad un vassallo il re non è tenuto, ma Gunther ammanta di affetto il gesto: … Mai sono venuti da me ospiti più cari. All’arrivo degli ospiti si vedevano i cavalieri muoversi ovunque sui campi in innumerevoli schiere. Nessuno poteva difendersi dalla polvere e dalla calca. Il re e la regina, con vassalli e cavalieri, incontrano Sigfrido e Crimilde fuori città. Gunther si rivolge loro con grande gentilezza: Siate veramente i benvenuti qui, voi e tutti i vostri parenti … Anche le due regine si vanno incontro e dolcemente si salutano. Il grande corteo raggiunge Worms e gli ospiti sono accolti a palazzo. Si vedeva come Brunilde osservasse sovente Crimilde, che era bella assai. Mai ospiti vennero ospitati con tale riguardo … A tavola Sigfrido occupa il posto di un tempo, ma ha con sé il suo seguito di milleduecento persone: La regina Brunilde pensava che un vassallo non avrebbe potuto essere più potente di lui. Tuttavia era ancora ben disposta verso di lui e vedeva di buon occhio che gli facessero onori. Trascorre così il primo giorno.

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Già prima dell’alba successiva si scelgono per il giorno di festa molti begli abiti splendenti di pietre preziose, ed iniziano i tornei in onore degli ospiti. Le campane del duomo annunciano la messa cantata, poi segue il pranzo. È così ogni giorno, in amore ed armonia, fino all’undicesimo. Quattordicesima avventura È l’undicesimo giorno, prima del vespro. Nel cortile della reggia si giostra. Le due regine sono sedute vicine sul balcone della sala. Questo che segue è il dialogo74 tra le due donne, invito per Némesis, a gran voce da un balcone, a recarsi a corte. Mentre gli uomini ignari sono dediti al gioco. Crimilde Ho uno sposo degno assai d’essere padrone e sire in codesto vasto regno. Brunilde Come puoi pensare questo? A meno che tu e Siegfried sopravviveste a noi, finché Gunther è vivo non è possibile che tuo marito sia signore di tal regno. Crimilde Mira come egli incede, come dinanzi a tutti si vede andar superbo, come la chiara luna fra le stelle risplende. A ragione il mio cuore s’accende d’orgoglio e gioia. Brunilde Per quanto tuo marito possa essere bello e forte e ardito cavaliere, mai potrà competere con Gunther, tu lo sai. Il tuo nobile fratello gli è assai superiore. Crimilde Il mio sposo è degno di tanto onore, che a ragione lo lodano il mio cuore e la mia lingua. Acquistò gloria e fama in molte illustri imprese, credi Brunilde, e sai che Gunther lo chiama suo eguale. Brunilde Non prendertela in dispetto, ho ragione a ripetere ciò che ho detto finora. Ben ho udito da entrambi, quando lo vidi la prima volta75 e che allora fui tolta in moglie da Gunther. Quando lui sì nobilmente si guadagnò il mio amore, che Siegfried stesso disse che egli era il suo signore, di re Gunther è dunque vassallo il tuo Siegfried. Crimilde Allora sarei capitata in fallo. E i miei fratelli mi avrebbero dunque sposata a un vile vassallo, a un uomo ligio, e così scornata? Perciò dunque, Brunilde, ti prego in cortesia, non si parli più fra


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noi di tali cose. Brunilde Anzi ne parlerò. Perché rinunzierei al servigio, alle imprese di tanti cavalieri e di lui ch’è vassallo? Crimilde Eppure tu devi rinunziarvi, ché mai un eroe come Siegfried avrai al tuo servizio. Sappi, che egli val più di Gunther, mio fratello. Lasciami dunque tale discorso non bello, ti prego. Ma vorrei sapere, se noi ti siamo soggetti, perché aspetti tanto tempo a farti servire, perché egli non porge omaggio alla tua possanza? Ora va, che io della tua tracotanza sono stanca! Brunilde Tu credi sopraffarmi, ebbene vedremo a quale di noi due più la gente si inchina e se a te stessa si renda tanto onore che a me. Crimilde Lo vedrai, stanne certa, poiché osi sostenere che Siegfried è tuo vassallo, i guerrieri dei due re tosto decideranno se all’entrare in chiesa non mi spetta il primo posto. Vedrai così se io sono di prima nobiltà, e che il mio sposo più del tuo varrà oggi. Non voglio sopportare più oltre tale oltraggio, vedrai la tua vassalla ricevere l’omaggio da tutti i cavalieri burgundi. E con orgoglio più d’ogni altra regina voglio essere rispettata, perché più d’ogni altra mi ritengo nobile. Brunilde Se non vuoi esser vassalla, ancora ti staccherai da noi col tuo seguito, quando in processione ci recheremo al duomo. Crimilde In fede mia, penso di farlo sì. Vestitevi, donzelle. Oggi dobbiamo mostrare che so salvaguardare e intendere la mia dignità. Indossate la veste più ricca e più sfarzosa, perché costei ritiri ciò che osa affermare. La scena si sposta davanti al duomo. Come consueto tutti sono già raccolti, in attesa delle dame. Le han viste arrivare separate e tutti si domandano la ragione di non vederle come al solito insieme. Brunilde è sulla porta quando sopraggiunge Crimilde. La regina del Niederland ha ordinato al suo seguito di quarantatre dame di indossare quanto di più ricco possibile – non lo avrebbe ordinato se non avesse arrecato dolore a Brunilde – e lei è magnifica per lusso e ricchezza. Brunilde è piena di invidia e furore … con tono

sgarbato … comanda a Crimilde di fermarsi. Brunilde La vassalla non passerà dinanzi a una moglie di re. Crimilde Se tu avessi saputo tacere, sarebbe stato bene per te75. Tu stessa hai svergognato il tuo bel corpo. Come poteva la ganza di un vassallo diventare la moglie di un re? Brunilde A chi rinfacci di essere una ganza? Crimilde A te lo rinfaccio. Il tuo bel corpo l’ha prima goduto il mio amato marito. Non è stato mio fratello colui che ha tolto la tua verginità. Non eri forse in senno? Fu proprio un abile inganno. E perché gli ti concedesti se era tuo vassallo? Stai protestando, se ti precedo in chiesa, senza motivo alcuno. Brunilde Lo dirò a Gunther. Crimilde Che me ne importa? La tua insolenza ti ha ingannata; sei tu che mi hai costretta a parlare. Te lo dico in verità, e me ne dispiace; non potrò più essere in amicizia con te. Crimilde entra in chiesa, senza curarsi di Brunilde, che ha iniziato a piangere. I presenti sono turbati, anche tra di loro qualcuno piange. Il tempo della messa scorre lento. Al termine della funzione, Brunilde esce per prima e si ferma davanti alla chiesa. È decisa a farsi dire tutto e se Sigfrido si è veramente vantato … pagherà con la sua propria vita … Devo sapere da Crimilde particolari su quello che la donna linguacciuta ha detto. E se lui si è vantato di ciò deve morire. Quando Crimilde esce a sua volta dalla chiesa, Brunilde l’affronta. Brunilde Fermatevi, avete76 detto che sono concubina di vostro marito. Dimostratemelo; le vostre parole mi hanno arrecato dolore. Crimilde Perché non mi lasciate andare? Ve lo provo con l’oro che splende alla mia mano. Me lo donò Siegfried dopo che si giacque per il primo con voi. Brunilde Quest’oro mi fu rubato molti anni fa. Or scopro chi me lo trafugò. Crimilde Io non voglio essere il ladro. Se ti avesse premuto l’onore, avresti taciuto. Te lo provo con questa

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Hybris e Secolarizzazione Nel Nibelungenleid

cintura che io porto. Non ho mentito, Siegfried fu tuo marito. Brunilde ( in lacrime) Chiamate qui il re del Reno, deve udire come sua sorella infami la mia persona; ella dice a tutti ch’io fui la moglie di Siegfried. Viene chiamato Gunther ed il re convoca a giudizio Sigfrido. L’eroe del Niederland chiede ed ottiene di giurare solennemente davanti a tutto l’ esercito di non aver mai affermato quanto sostenuto dalle due regine. Tanto basta, per il momento almeno, a Gunther: Ora conosco che siete innocente, andate assolto. Le accuse di Crimilde non vennero da voi. Val la pena a questo punto mettere a confronto le reazioni degli stessi personaggi nel Libelungenlied e nella saga dei Völsungar. Nella saga più antica Goðrún e Brunilde si accapigliano per una questione di … capelli: Brunilde non vuole lavarseli nella stessa acqua usata da Goðrún, le donne si bagnano in un fiume, sempre a motivo della presunta superiorità di Gunnarr rispetto a Sigurdr. Ugualmente Sigurdr ha conquistato Brunilde per Gunnarr spacciandosi per lui, ma, nonostante l’episodio poco chiaro della spada posta tra gli amanti, potrebbe aver consumato effettivamente le nozze al posto di Gunnarr e questo spiegherebbe la nascita della figlia Áslaug. Nella saga comunque l’incontro fra Sigurdr e Brunilde è sicuramente il secondo approccio intimo. Inoltre è un anello particolare, quello maledetto di Andvari, che Goðrún adduce come prova e non c’è menzione di cinture, a meno che non si voglia considerare come un corrispettivo l’apertura della aderente corazza della Valchiria con la spada Gramr ad opera di Sigurdr. Goðrún cerca di rimediare con affetto al dolore causato a Brunilde con le sue rivelazioni e lo stesso Sigurdr riconferma al suo primo amore la sua predilezione, seppur dimenticata a causa della bevanda dell’oblio somministratagli. Se c’è stato inganno, è stato inconsapevole. Di volontario c’è unicamente la Hybris evocata con il sostituirsi a Gunnarr quando quest’ultimo fallisce i suoi tentativi di superare il bastione infuocato, certamente però messi in atto in prima persona e andati a vuoto per il comportamento dei cavalli. Brunilde chiede apertamente, come non accade nel Nibelungenlied, al marito di uccidere Sigurdr. Compiuto che è l’assassinio per mano del

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fratellastro di Gunnarr, Brunilde veste per l’ultima volta le sue armi di Valchiria e, in piena dignità eroica, si trafigge con la spada di Sigurdr sulla pira approntata per l’amato. Indicativa la presenza sulla stessa pira di due falchi, che rimanda inequivocabilmente ad un significato di evoluzione spirituale, di riconoscimento di un comune destino sovraumano, scelto e ribadito a dispetto degli ostacoli e degli inganni della dimensione terrena quotidiana. Il vomitare veleno, dopo una inspiegabile, agli occhi degli altri, felicità iniziale alla notizia della morte di Sigurdr, ricolloca Brunilde nell’ambito simbolico del serpente, o drago, strettamente imparentato con la dea primordiale e a tale discendenza la restituisce. Non va dimenticato inoltre il particolare tipo di rapporto che i membri della stirpe dei Völsungar hanno con il veleno, di parziale o totale immunità, come nel caso di Sigmundr o di Sinfjötli. Nel Nibelungenlied invece, sia Sigfrido che Gunther sono propensi ad interpretare l’accaduto come conseguenza dei discorsi vani delle donne, che bisogna educare. Le donne vanno punite, è l’opinione di Siegfried: Mi spiace immensamente che resti impunita mia moglie che ha così addolorata la tua. Sulla natura della punizione messa poi in atto, il poeta del Nibelungenlied non ci informa direttamente, ma la possiamo dedurre dal colloquio di Crimilde con Hagen, quando nel raccomandargli l’incolumità del marito, la regina allude ai lividi che le ricoprono il corpo e li cita come segno di pentimento personale, anche se, è doveroso specificarlo, coatto. La futura uccisione di Sigfrido è essenzialmente un’idea di Hagen che si reca dalla regina e le chiede il motivo del suo pianto. Gli competeva tale gesto? O è frutto di tracotanza e di calcolo? Quando Brunilde lo mette al corrente – È coerente per una regina aprirsi con un vassallo e accettare la vendetta dalla sua mano? – Hagen subito le giurò che il marito di Crimilde n’avrebbe pagato il fio. Arrivano anche Ortwein, un altro vassallo, e i fratelli del re Gernot e Giselher: si decide la morte di Siegfried. Si badi bene che a decidere non è il re, l’autorità superiore, ma sono figure di secondo piano, addirittura vassalli: anche questo è Hybris. Anzi, chi lo fa decide inizialmente contro il parere e del re e del fratello minore di questo, che


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dell’autorità rappresenta la parte non ancora contaminata dal calcolo. Dice Giselher: Ahimè, buoni cavalieri, perché fate ciò? Siegfried non merita tale odio da perdere la vita. Le donne vanno in collera per poco77. Dice Gunther: Egli non ci ha mai fatto altro che del bene. Lasciatelo vivere, perché dovrei odiare quel guerriero che mi dimostrò sempre fedeltà. È evidente come Gunther, per quanto ancora disposto a lasciar vivere 78 Sigfrido, sia già alla ricerca di un motivo, di una giustificazione commerciale per un odio non sentito. Il fine, ed è un fine di lucro, un voler avere di più, un non accontentarsi, lo fornisce il vassallo, la nobiltà di livello inferiore, Hagen: Hagen tutti i giorni ripeteva a Gunther, che, quando Siegfried più non vivesse, molti paesi diverrebbero suoi … Allora Gunther cominciò a turbarsi. Il re, per quanto ancora timidamente mostri di garantire Sigfrido, già comincia a calcolare i pro ed i contro, i rischi connessi all’investimento: Smettete la collera omicida. Egli è nato per il nostro onore e la nostra salvezza78. E poi quell’uomo arditissimo è così forte, che, se supponesse qualcosa, nessuno oserebbe avvicinarlo. Hagen ha già pronta la soluzione e la copertura morale: … potete stare tranquilli; faremo tutto segretamente. Il pianto di Brunilde deve costargli caro … Il piano di Hagen è quello di simulare, con falsi messaggeri, il pericolo di un attacco esterno, di una guerra incombente, mossa da quei Sassoni già una volta vinti da Sigfrido, che certo offrirà nuovamente il suo aiuto: … allora sarà perduto, solo che io sappia da sua moglie una notizia su di lui.

Bibliografia e Note 69. Gestiva le contee di frontiera o di marca: titolo corrispondente a marchese. 70. Come a blandire Gunther, Brunilde gli indica come risolto e dimenticato l’antico cruccio. 71. Gunther non può nemmeno lontanamente dare al messaggio un tono di comando. Sottolinea il suo

amore e invia una preghiera che, se esaudita, meriterà gratitudine. 72. Le reazioni di Crimilde e di Gunther sono simili: entrambi balzano dalla gioia, infantilmente spontanei e imprevidenti. 73. Gunther con le sue parole mostra ufficialmente che l’accettare l’invito non è stato per Siegfried un dovere ma semplice cortesia. 74. Dialogo simile è avvenuto, in altri tempi, per una questione di precedenze al bagno, tra Goðrún e Brunilde. 75. Il “voi” in tutto il dialogo è solo un ricordo. Per gravi questioni di amore ed orgoglio, le donne abbandonano ogni superflua convenzione. 76. Le donne sono tornate al “voi”, ma dura poco. 77. Per quanto onesto, Giselher è allineato con la cultura misogena dei suoi pari. 78. Quel “lasciar vivere” è già tracotanza, presuppone la convinzione di disporre comunque della vita altrui. 79. Anche qui c’è Hýbris: la vita di Sigfrido per Gunther è finalizzata esclusivamente ad un vantaggio per i Burgundi, per questo lui è nato.

Piero Di Prinzio: Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1981, nel 1993 ha ottenuto il riconoscimento dell'attività psicoterapeutica (Legge 18.2.89 n.56). Dal 2003 al 2005 ha insegnato, in qualità di Docente a Contratto, Antropologia Culturale nel Corso di Laurea Specialistica in Psicologia Dinamica e Clinica della Personalità, presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di L’aquila. Dal 2009 è titolare dell’insegnamento di Antropologia Culturale, Mitologia e Religioni presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia ATANOR ad indirizzo Analitico di L’Aquila, riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Svolge dal 1982 come libero professionista in Chieti l'attività di Psicoterapeuta

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L'Anima Fa Blog

Nasce dallo studio e dalla passione della Psicologia, e in particolare della Psicologia moderna che deriva da Jung. La motivazione ad avere aperto questo blog è in parte conosciuta e ragionata, mentre in gran parte mi resta ancora oscura e inconscia. Ho sentito necessario aprire e dare spazio ad un luogo, seppur virtuale, dove poter radunare e incontrarsi con esperti, addetti ai lavori, appassionati, curiosi, studiosi e ricercatori di tali tematiche sulla e della “Psychè”. Finora, una tale iniziativa, cominciata dapprima su Facebook attraverso il gruppo nazionale CARL GUSTAV JUNG – ITALIA, ha portato i suoi frutti creando connessioni, sia dal virtuale sia dal vivo, con persone da tutta l’Italia (e in molti casi anche nel mondo) con in comune la necessità e la passione per quegli aspetti dell’umano vivere che la Psicologia tratta da oltre un secolo. Il gruppo su facebook ad oggi (2014) ha quasi 6 anni con 5600 iscritti circa. Anche da questo dato è nata la necessità di aprire un blog e quindi trasportare la moltitudine di contenuti condivisi su Facebook in una piattaforma più accessibile e facilmente fruibile da tutti. Ciò ha fatto nascere collaborazioni dal vivo o dal web, incontri con persone di diversa estrazione geografica, ampliando e arricchendo le menti e i cuori di molti. La conoscenza e l’esperienza che questo mio piccolo “me” rincorre e da cui si fa rincorrere, l’ho voluta in gran parte mettere a disposizione di tutti. Il blog quindi nasce dapprima dal background culturale della Psicologia Analitica, ma è stato strutturato da subito per contenere l’imprescindibile aspetto della multidisciplinarietà e poliedricità tematica, che tanto è cara e caratteristica di quel “fare Anima” di cui parlava John Keats e poi Hillman. Oltre la divulgazione di materiale scientifico/culturale da me promosso all’interno di questo blog, ho avuto la fortuna e l’onore di poter aprire una sezione dedicata (Estratti Inediti) dove inserire tutti i contributi di colleghi studenti, collaboratori, autori, scrittori, Psicologi, Psichiatri, professionisti della salute mentale e simili. Per chi voglia contribuire a tale progetto e a questa sezione del blog può scrivermi e inviarmi il materiale da pubblicare a questa email: destinyof.cgj@gmail.com

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L'Anima Fa Blog

«CASA È DOVE HAI SPAZIO PER ESSERE PER ESSERE DA SOLO CON TE E DA QUI POTER ESSERCI CON QUALCUN ALTRO ESSERE

“SENSO” PER L’ALTRO. QUI È CASA»

- Emanuele Casale -

Carlo Carrà, Un casa.Un albero

"UNA VOLTA AL GIORNO FERMATI, RICORDA CHI HAI "VICINO"NEL TUO CUORE, RICORDA CHI AMI, A CHI VUOI BENE, CHI RINGRAZIERESTI PER IL SEMPLICE FATTO CHE ESISTA. USA IL TELEFONO O USA I PIEDI PER CAMMINARE E ANDARE AD ESPRIMERGLIELO DIRETTAMENTE. NON ESISTE SPIEGAZIONE ALL'AMORE, NON ESISTE "TEMPO" PER ESPRIMERSI. MA ESISTE INVECE TEMPO, UN TEMPO PESANTE E OSCURO, QUANDO L'ALTRO SVANISCE DAL PROPRIO CAMPO DI COMUNICAZIONE, DI RELAZIONE, PER CUI OGNI NOSTRO DESIDERIO DI ESPRIMERSI ALL'ALTRO, E VIVERE L'ALTRO, RISULTA VANO. LÌ NOI SENTIAMO IL TEMPO IN TUTTA LA SUA DIMENSIONE FAGOCITANTE, PERCHÈ IL TEMPO IN CUI NON CI ESPRIMIAMO E IL TEMPO IN CUI NON CI VIVIAMO PRODUCE BUCHI NERI NELLA PROPRIA VITA CHE CHIEDONO DI ESSERE NUTRITI COMPULSIVAMENTE.

YOGANANDA

DICEVA CHE I GIOIELLI PIÙ

BELLI CHE PUOI AVERE SONO ALCUNE PERSONE CHE VIVONO ATTORNO A TE E DENTRO DI TE, E CHE INCONTRI NELL'ARCO DI VARIE VITE.

CREDO

CHE LA LUCE DI QUESTE PERSONE, COME CON I GIOIELLI QUANDO ESSA

RIFLETTE SOPRA DI LORO E POI PROIETTA I SUOI RIFLESSI ATTORNO, SIA IL CALORE NECESSARIO CHE RISCALDA LA VITA E SCIOGLIE NODI.

NON SOLO È CALORE, MA È LINFA VITALE SENZA LA QUALE NON VIVREMMO. E CON K.GIBRAN SENTO VERAMENTE L'IMPORTANZA DI QUEL SUO MESSAGGIO QUANDO SCRISSE CHE "UNA COSA NON VA SEMPLICEMENTE DETTA, MA VA RIPETUTA, RI-DETTA, E ANCORA E ANCORA" COME PER FAR RISUONARE SEMPRE NELL'ALTRO QUELL'AFFETTO DI CUI SIAMO GRAVIDI E CHE ALL'ALTRO CI UNISCE, "COME UNA CANZONE HA IL SUO RITORNELLO" E SI RIPETE, COSÌ ESPRIMERE AFFETTO ALL'ALTRO A VOLTE DEVE ESSERE COME UN RITORNELLO, CHE VIVIFICA, RITORNA, SI RIPETE, RI-VIVE. COME UNA CANZONE A VOLTE DOBBIAMO RISUONARE, RI-CANTARE, FARCI RIASCOLTARE. DALTRONDE, PERCHÉ POI IN FONDO CI PIACE COSI TANTO IL RITORNELLO DI UNA CANZONE?" - Emanuele Casale -

http://carljungitalia.wordpress.com a breve il nuovo indirizzo sarà: carljungitalia.it

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Andreas Jung, Emanuele Casale, .........

“Ricordando nonno Jung e suoi «dintorni»” Intervista ad ANDREAS JUNG, nipote di Carl Jung, psichiatra e psicologo del XX secolo (1875-1961) C.: Volevo iniziare subito da qualche domanda che riguarda la sua vita soggettiva in relazione a suo nonno Jung. Mi farebbe piacere conoscere invece qualcosa del suo passato, della relazione con suo nonno, qualche aneddoto che lo include di cui porta il ricordo, qualche insegnamento che lui le ha lasciato, durante il suo periodo giovanile... J.: Non posso dire tanto perché sono uno degli ultimi nipoti più giovani, per cui non l’ho visto spesso Jung, l’ho visto molto più spesso in ambiti familiari, ma da solo l’ho visto poche volte insomma... Abbiamo abitato molto vicino a lui. Ma ribadisco, siccome sono tra i nipoti più giovani non l’ho visto molto, lui era anche molto impegnato. Posso però dire che lui era un personaggio con tantissima energia, molto forte, anche molto spiritoso, che conosceva molti aneddoti, molti dei quali ha anche lasciato scritto. Era anche un personaggio molto dominante, ma dominante non nel senso che voleva dominare, lo era tramite la sua personalità, la sua presenza...aveva da dire di più di molte altre persone, in questo senso, dunque, dominante.

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Emanuele G. Casale

Famiglia Jung

C.: Bene, dunque partiamo allora da qualche domanda che ci riporta più al presente. Quale rapporto ha avuto con l’Opera lasciata da suo nonno, che cosa credi le abbia lasciato, quale insegnamento? Ti ha accompagnato nella sua vita? J.: Dunque, non ho letto tutto di mio nonno, ma il lavoro che io ritengo più importante, anche per la vita quotidiana, è quello dei Tipi Psicologici1, perché fa capire come una persona, o come le persone, nella stessa situazione, si comportino diversamente. Ricordo che Jung all’inizio non voleva fare lo psichiatra, era in realtà interessato dapprima all’archeologia, volevo intraprendere dunque gli studi in tale campo. Suo zio invece gli suggeriva di intraprendere un campo che in futuro sarebbe potuto essere più fruttuoso sotto l’aspetto monetario, e per questo, anche, è diventato medico. Anche mio padre (Franz Jung) era indeciso se fare l’architetto o il medico all’inizio, ma poi ha scelto di diventare architetto, come anche io.

Jung al Burgholzli di Zurigo nel 1909

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Intervista Ad Andreas Jung

C.: Riguardo la sua famiglia, tutta la famiglia discesa da Jung, chi è oggi che ha seguito, per così dire, le sue “orme”, chi è che si addentrato nelle stesse discipline? J.: Ci sono due membri della famiglia, mio fratello Peter e mio cugino Dieter Baumann, molto conosciuto, che oltre ai suoi pazienti tiene anche diverse conferenze e scrive libri, saggi. Mio fratello Peter invece lavora solo con i pazienti. Questa famiglia è diventata quasi come una ditta, come un’impresa, perché gran parte dei nipoti di Jung, e anche alcuni pronipoti, si occupano di una parte del patrimonio junghiano. Io per esempio rappresento Jung nella vita sociale, come in questo caso (Andreas qui si riferisce alla sua presenza, quel giorno, al convegno del centro Temenos al quale era stato invitato come ospite speciale. Durante il convegno, Andreas, ha fatto visionare ai presenti alcune foto inedite della costruzione della torre e della casa familiare, infarcendo il tutto ovviamente di informazioni storicobiografiche di famiglia). Poi ci sono quelli che si occupano delle edizioni dei lavori di Jung, degli scritti, dell’Opera. Insomma ognuno si occupa di una parte della sua eredità. Io mi occupo più della casa di famiglia e cerco di mantenerla il più possibile nel suo originario stato storico, insomma così com’è stata costruita. C.: Ha mai avuto modo di conoscere direttamente qualche collaboratore/trice di Jung, qualcuno di loro che era molto legato alla famiglia e a Jung, come per l’appunto Barbara Hannah, Marie Louise-Von Franz, Aniella Jaffè?

Aniella Jaffè e Jung

Marie Louise Von Franz

Barbara Hannah

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Emanuele G. Casale

J.: Naturalmente! I contatti ci sono stati, ho conosciuto queste persone ma non ho avuto un rapporto veramente stretto con loro. Mia madre aveva contatti stretti con loro, essendo tra i responsabili dell’edizione tedesca dei Collected Works. Quando è stata curata l’opera di Jung (Collected Works) mia madre ha avuto un contatto molto stretto con Marie-Louise Von Franz. Con la Jaffè invece il contatto è stato più tecnico che altro. C.: Per lei cosa rappresenta oggi quello che ci ha lasciato Jung, non solo in senso prettamente scientificoculturale, ma anche in un senso più umanistico che include gli insegnamenti più generali ricavabili oltre che dal suo lavoro anche dalla sua esperienza di uomo. E secondo te le sue scoperte ,e la sua opera, possono rivestire un ruolo importante oggi e nel futuro per tutti noi? J.: Allora, il Libro Rosso è stato pubblicato nel 2009, e per arrivare alla pubblicazione è stato necessario un iter molto lungo, perché tutti gli eredi dovevano dare il consenso per la sua pubblicazione, anche un solo voto contrario avrebbe impedito tutto; era necessaria l’unanimità. Poi nel 2009 il Libro Rosso è stato presentato a New York e infatti sono dovuto essere presente. Dai media mi aspettavo una reazione tutt’altro che cortese, perché in Svizzera i giornali e la tv sono tendenzialmente “contrari” a Jung. E quindi sono arrivato lì a New York che mi sentivo già un po’ teso. E invece questa presentazione a New York è stata davvero un momento di svolta unico, è stata un’esperienza bellissima per me. Sono rimasti in realtà tutti molto entusiasti dell’evento. E in più quest’esperienza ha cambiato anche la prospettiva dei giornali in Svizzera nei confronti di Jung, perché per la prima volta le recensioni al riguardo erano positive o almeno neutre. Il Libro Rosso da sempre si trovava in casa mia (la casa familiare di Jung), ero l’unico ad averne l’accesso. Quando lo aprì all’inizio mi resi conto che non potevo farci un granchè con quel libro, perché innanzitutto è scritto in stile gotico ed è molto difficile da leggere, poi non capivo neanche il senso di quello che c’era scritto, era tutto molto strano ciò che riuscivo a leggere, e per questo non mi veniva voglia di continuare, di andare avanti con la lettura. Poi, solo nel 2009, quando il Libro Rosso fu pubblicato, mi fu regalata una copia, e proprio da qui partì il mio interesse per questo libro. (E’ da sottolineare che Jung, quando ebbe finito il Libro Rosso, fece riprodurre alcune copie del testo da far leggere a pochi stretti conoscenti) 2 Al momento per me il Libro Rosso è un libro che riveste un ruolo molto importante in relazione agli studi di Jung, perché contiene il nucleo di tutti i suoi lavori scientifici compiuti dopo la stesura dello stesso. Quello che ha scritto dopo il Libro Rosso, tutto il suo lavoro scientifico, si basa sulle intuizioni originarie presenti nel Libro Rosso. Io ho fatto la stessa esperienza: quando ho finito di leggere il Libro Rosso ho capito che questo era il nucleo Junghiano! La mia grande esperienza è stata questa...io in fondo sono un pensatore, uno che pensa molto, troppo! Mi dico spesso (sorride) “non pensare troppo! non pensare troppo!”, e il Libro Rosso mi ha aiutato a superare questo, la sua lettura è come un’iniezione, non passa attraverso la testa ma va direttamente al cuore e coinvolge l’uomo intero.

Libro Rosso in esposizione a New York

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Intervista Ad Andreas Jung

Annuisco, fortemente. Qui c’è un attimo di silenzio. Per un attimo ricordo l’effetto che ha su di me leggere il Libro Rosso. La sua lettura, già dalla prima volta, ebbe effetti analoghi a quelli di Andreas: è passato direttamente al cuore, la sua lettura acquieta davvero il “pensiero”, ti investe per intero. Quel Libro, alla stregua degli antichi libri sapienzali, penetra nel cuore, non curante di tutte le zavorre che dentro portiamo, sopportiamo, manteniamo. Parla realmente all’uomo intero, all’uomo cosmico presente in ognuno di noi. Dopo alcuni secondi Andreas esclama dicendomi che gli è venuto alla memoria un aneddoto si Jung, ripreso dall’autobiografia scritta con Aniella Jaffè.3 J.: Jung era anche un pensatore, ma sapeva che il pensiero da solo non bastava. Era anche un uomo goloso, un buon gustaio!4 Amava mangiare bene e aveva anche una cuoca. Si arrabbiava molto quando comprava del cibo da cucinare di buona qualità e la cuoca non era in grado di prepararlo e cucinarlo bene (qui sorridiamo!) Ricordo una volta che a Jung compro una specie di torta...ma non era propriamente una torta, bensì una pasta con delle cipolle. La comprò presso una pasticceria che si trova a Schmerikon, un paese vicino a Bollingen. Questa torta, stando a lui, non era buona, non gli piacque per niente, e così andò di persona fin dentro quella pasticceria, con la stessa torta, l’afferrò, e la buttò sotto al soffitto! (qui scoppiano risate di buon gusto!) Anche mio padre, Franz, aveva queste stesse maniere! Non era sempre d’accordo, per così dire, con il pasticciere, e cosi, quando qualcosa per lui non andava fatto come si doveva, preparava lui stesso una torta, o qualsiasi altra specialità di cui si trattava, e la portava direttamente al pasticcere, per mostrargli come in realtà andava fatta quella determinata cosa! (altre risate anche qui!) C.: Bene, noi avremmo finito qui! Ma ho un’ultima veloce domanda da farti prima di chiudere. Io ho notato personalmente, già in passato, che sei molto legato all’iscrizione latina che Jung fece apporre al di sopra del portone d’ingresso della casa a Kusnacht, e che recita “Chiamato o non chiamato, il Dio sarà presente”. Ecco, mi chiedo come mai sei legato a quell’iscrizione in particolar modo. E’ magari collegato al fatto che hai una maniera di “credere”, un tipo di “fede”, simile a quella di tuo nonno Jung? Forse è collegato?

Iscrizione sul portone di casa Jung, Svizzera. “Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente”. Foto di Emanuele G. Casale

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Emanuele G. Casale

J.: Si si, è vera questa cosa. Sono molto legato a quella frase...dunque, mi sono reso conto che la nostra vita è certo influenzata da una potenza maggiore di noi, noi facciamo tutto questo tramite questa potenza, tutto quello che facciamo è tramite questa potenza... C.: Bene Andreas, abbiamo finito! Come sempre, ti ringrazio, è stato un vero piacere e un onore. (Venezia, 28 Settembre 2013) Note: 1. C.G.Jung – Opere Vol.4, Tipi Psicologici (1921) – Edizioni Bollati Boringhieri 2. “Prefazione” in “C.G.Jung, Il Libro Rosso - A cura e con introduzione di S.Shamdasani” Edizioni Bollati Boringhieri, 2010 3. “Ricordi, Sogni, Riflessioni” Edizioni BUR, 1998 4. In effetti è risaputo che Jung fosse un “buon gustaio”, come ci ricorda Andreas. Testimonianze e aneddoti al riguardo, davvero molto indicativi e divertenti, sono rintracciabili anche in “Carl Gustav Jung a Eranos 1933-1952 – Antigone Edizioni” e in “C.G.Jung – Vita e Opere” di Barbara Hannah, l’unica biografia ritenuta la più affidabile e ricca su Jung (Shamdasani, “Jung messo a nudo”, Magi Edizioni, 2008)

Ringraziamenti: Non potevo non includere alcuni ringraziamenti speciali, dal momento che per me una tale iniziativa è stata unica. Per la realizzazione di quest’incontro e di questa intervista devo necessariamente ringraziare, di cuore e con l’anima, alcune persone che sono state indispensabili e preziose a tal fine, che mi sono state vicine affettivamente e materialmente, e non hanno mai smesso – e intuisco non smetteranno forse mai – di credere in me e in quel che faccio e che porto avanti da anni. Dapprima, un ringraziamento va ovviamente allo stesso Andreas Jung, che più di una volta ha accolto nella maniera più gentile e accogliente del mondo, la mia presenza con le mie domande e la mia infinita curiosità sull’aspetto biografico – e in generale – di Jung. Ringrazio con l’anima la mia amica/guida Antonietta Luciani e Gianluca suo marito. La ringrazio profondamente semplicemente per esserci al mondo e nella mia vita attuale...In questo contesto, insieme a Gianluca, sono state le persone che mi hanno permesso di essere presente fisicamente a Venezia, senza le quali forse non sarei potuto esserci in alcun modo. Ben al di là di queste parole si estende la mia gratitudine verso di lei. Ringrazio Michele Mezzanotte e Valentina Marroni, fondatori e proprietari di questa originalissima e sempre creativa rivista, che dapprima sono per me dei cari “nuovi” – quanto antichi – amici. Li ringrazio vivamente di cuore per le belle “perle d’anima” che insieme condividiamo spesso. La mia gratitudine per loro si estende anche a tutto quello che fanno in qualità di psicologi e persone creative, perché con grande originalità e spirito di rinnovamento “fanno Anima” all’interno della realtà sociale in cui vivono, attraverso molteplici e note iniziative culturali aperte al pubblico (Chieti e dintorni). Ringrazio poi il centro culturale junghiano Temenos di Bologna (www.temenosjunghiano.com) e la dott.ssa Laura Briozzo, che grazie al convegno su Jung da loro organizzato il 28 Settembre (2013), hanno avuto il privilegio di invitare Andreas Jung ad essere presente in quel giorno. Ringrazio infine, ma non per ultimo, Anton, per la sua immensa cordialità e disponibilità ad avermi assistito a Venezia durante tutta l’intervista con Andreas, facendone parte integrante e indispensabile in qualità di interprete (tedesco-italiano). E’ stato il “tertium” prezioso, il mediatore linguistico tra me e Andreas.

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Silvano Tagliagambe ha insegnato filosofia della scienza presso le Università di _____________________________________________________________________________________ Cagliari, Pisa, Roma "La Sapienza" e Sassari. Attualmente è direttore scientifico del progetto "Scuola digitale" della regione Sardegna. Nelle edizioni Raffaello Cortina _____________________________________________________________________________________ ha pubblicato il Sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello (2002). _____________________________________________________________________________________

Angelo Malinconico, psichiatra, criminologo e psicologo analista, è membro didatta dell'AIPA e membro ordinario della IAPP. Insegna materie psichiatriche e _____________________________________________________________________________________ psicologiche presso le Università Cattolica e Statale del Molise. Tra i suoi lavori recenti, la cura del volume Psicosi e psiconauti. Polifonia per Ofelia (Roma 2010). _____________________________________________________________________________________ _____________________________________________________________________________________ www.animafaarte.it


Appunti

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