Chuck Palahniuk - soffocare

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C CH HU UC CK K PPA AL LA AH HN NIIU UK K –– ““SSooffffooccaarree””-Titolo originale “Choke” Traduzione di Matteo Colombo Arnoldo Mondatori Editore 2002

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------CAPITOLO 1

Se stai per metterti a leggere, evita. Tra un paio di pagine vorrai essere da un'altra parte. Perciò lascia perdere. Vattene. Sparisci, finché sei ancora intero. Salvati. Ci sarà pure qualcosa di meglio alla tv. Oppure, se proprio hai del tempo da buttare, che so, potresti iscriverti a un corso serale. Diventare un dottore. Così magari riesci a tirare su due soldi. Ti regali una cena fuori. Ti tingi i capelli. Tanto, ringiovanire non ringiovanisci. Quello che succede qui all'inizio ti farà incazzare. E poi sarà sempre peggio. Quello che trovi qui è la stupida storia di un ragazzino stupido. La stupida storia di vita vissuta di un tizio che mai al mondo vorresti conoscere. Questo coglioncello devi immaginartelo alto un metro e un cazzo e con una manciata di capelli biondi ben pettinati e con la riga da una parte. Questo stronzetto schifoso devi


immaginartelo sorridente in una vecchia foto dei tempi della scuola, con qualche dente da latte caduto e i primi denti veri che spuntano storti. Devi immaginartelo con indosso uno stupido maglione a righe gialle e blu, regalo di compleanno, un maglione che una volta era il suo preferito. E anche così piccolo, devi immaginartelo che si rosicchia quelle sue unghiette da testolina di cazzo. Le sue scarpe preferite sono le Ked. Il suo cibo preferito, i merdosissimi hot dog. Immaginati questo secchioncello che viaggia senza cintura di sicurezza su uno scuolabus rubato insieme alla sua mamma, dopocena. Solo che nel parcheggio del motel dove stanno c'è un'auto della polizia, perciò la Mamma tira dritto a cento/centoventi all'ora. Questa è la storia di uno stupido vermiciattolo che, poco ma sicuro, da piccolo doveva essere un imbecille piagnone spia come pochi. Una fighetta da non credere. La Mamma dice: «Dobbiamo sbrigarci», e allora imboccano una strada stretta che sale su per una collina, con le ruote dietro che sbandano sul ghiaccio qua e là. Alla luce dei fanali la neve sembra azzurra, si allarga dai bordi della strada verso il bosco scuro. Immagina che tutto questo sia colpa sua. Del piccolo pezzente. La Mamma ferma il bus a una certa distanza dalla base di una parete rocciosa, così che i fari puntano dritti sulla faccia bianca della pietra, e dice: «Qui va bene», e le parole le volano fuori dalla bocca come nuvole bianche che dimostrano quanto sono grandi, dentro, i suoi polmoni. La Mamma tira il freno a mano e dice: «Puoi scendere, ma il giaccone lascialo su». Immaginatevi la stupida mezzasega che si lascia piazzare dalla Mamma di fronte al pulmino. Questo piccolo voltagabbana imbecille non fa altro che starsene lì a fissare il bagliore dei fanali, e si lascia sfilare dalla Mamma il suo maglione preferito dalla testa. Il piccolo ficcanaso imbranato se ne sta li nella neve, mezzo svestito, col motore del pulmino che continua ad andare, e l'eco del rombo che rimbalza sulla parete di roccia, e la Mamma che sparisce da qualche parte dietro di lui, nella notte e nel freddo. I fanali lo accecano, e il rumore del motore copre i suoni degli alberi che sfregano gli uni contro gli altri nel vento. L'aria è troppo fredda per poterla respirare più di una boccata alla volta, e così quella piccola membrana mucosa tenta di respirare al doppio della velocità. Non scappa. Non fa niente. Da un punto imprecisato alle sue spalle, la Mamma dice: «Non voltarti per niente al mondo». La Mamma gli racconta che una volta nell'antica Grecia c'era una ragazza bellissima, figlia di un vasaio. Come ogni volta che lei esce di prigione e se lo va a prendere, il ragazzino e la Mamma cambiano motel ogni sera. Mangiano nei fast-food a pranzo e a cena, e per il resto viaggiano, viaggiano tutto il giorno e tutti i giorni. Oggi a pranzo il ragazzino ha tentato di mangiare l'hot-dog quando ancora era troppo caldo e l'ha quasi ingoiato intero, ma l'hot-dog gli è rimasto bloccato in gola e lui non è più riuscito a respirare o a parlare finché la Mamma non si è alzata di scatto e aggirando il tavolo si è precipitata su di lui. Poi due braccia l'hanno stretto da dietro, sollevandolo da terra, e la Mamma gli ha soffiato nell'orecchio: «Respira, cazzo! Respira!». Dopo, il ragazzino ha pianto e l'intero ristorante gli si è stretto intorno. In quel momento sembrava che tutto il mondo si preoccupasse per quello che gli era successo. Tutte quelle persone lo abbracciavano e gli accarezzavano i capelli. Tutti gli chiedevano se stava bene. Sembrava che quel momento dovesse durare per sempre. Che bisognasse rischiare la vita per ottenere affetto. Che bisognasse arrivare a un pelo dalla morte perché qualcuno si decidesse a salvarti. «Okay. Ecco fatto» ha detto la Mamma pulendogli la bocca, «ora ti ho dato la vita.» Un attimo dopo, una cameriera ha riconosciuto in lui una fotografia vista su un vecchio cartone di latte, e in un batter d'occhio la piccola peste frignante si è ritrovata sul pulmino, con la madre che lo riportava al motel a centodieci all'ora. cazzo. Le sue scarpe preferite sono le Ked. Il suo cibo preferito, i merdosissimi hot dog. Immaginati questo secchioncello che viaggia senza cintura di sicurezza su uno scuolabus rubato insieme alla sua mamma, dopocena. Solo che nel parcheggio del motel dove stanno c'è un'auto della polizia, perciò la Mamma tira dritto a cento/centoventi all'ora. Questa è la storia di uno stupido vermiciattolo che, poco ma sicuro, da piccolo doveva essere un imbecille piagnone spia come pochi. Una fighetta da non credere. La Mamma dice: «Dobbiamo sbrigarci», e allora imboccano una strada stretta che sale su per una collina, con le ruote dietro che sbandano sul ghiaccio qua e là. Alla luce dei fanali la neve sembra azzurra, si allarga dai bordi della strada verso il bosco scuro. Immagina che tutto questo sia colpa sua. Del piccolo pezzente. La Mamma ferma il bus a una certa distanza dalla base di una parete rocciosa, così che i fari puntano dritti sulla faccia bianca della pietra, e dice: «Qui va bene», e le parole le volano fuori dalla bocca come nuvole bianche che dimostrano quanto sono grandi, dentro, i suoi polmoni. La Mamma tira il freno a mano e dice: «Puoi scendere, ma il giaccone lascialo su». Immaginatevi la stupida mezzasega che si lascia piazzare dalla Mamma di fronte al pulmino. Questo piccolo voltagabbana imbecille non fa altro che starsene lì a fissare il bagliore dei fanali, e si lascia sfilare dalla Mamma il suo maglione preferito dalla testa. Il piccolo ficcanaso imbranato se ne sta li nella neve, mezzo svestito, col motore del pulmino che continua ad andare, e l'eco del rombo che rimbalza sulla parete di roccia, e la Mamma che sparisce da qualche parte dietro di lui, nella notte e nel freddo. I fanali lo accecano, e il rumore del motore copre i suoni degli alberi che sfregano gli uni contro gli altri nel vento. L'aria è troppo fredda per poterla respirare più di una boccata alla volta, e così quella piccola membrana mucosa tenta di respirare al doppio della velocità. Non scappa. Non fa niente.


Da un punto imprecisato alle sue spalle, la Mamma dice: «Non voltarti per niente al mondo». La Mamma gli racconta che una volta nell'antica Grecia c'era una ragazza bellissima, figlia di un vasaio. Come ogni volta che lei esce di prigione e se lo va a prendere, il ragazzino e la Mamma cambiano motel ogni sera. Mangiano nei fast-food a pranzo e a cena, e per il resto viaggiano, viaggiano tutto il giorno e tutti i giorni. Oggi a pranzo il ragazzino ha tentato di mangiare l'hot-dog quando ancora era troppo caldo e l'ha quasi ingoiato intero, ma l'hot dog gli è rimasto bloccato in gola e lui non è più riuscito a respirare o a parlare finché la Mamma non si è alzata di scatto e aggirando il tavolo si è precipitata su di lui. Poi due braccia l'hanno stretto da dietro, sollevandolo da terra, e la Mamma gli ha soffiato nell'orecchio: «Respira, cazzo! Respira!». Dopo, il ragazzino ha pianto e l'intero ristorante gli si è stretto intorno. In quel momento sembrava che tutto il mondo si preoccupasse per quello che gli era successo. Tutte quelle persone lo abbracciavano e gli accarezzavano i capelli. Tutti gli chiedevano se stava bene. Sembrava che quel momento dovesse durare per sempre. Che bisognasse rischiare la vita per ottenere affetto. Che bisognasse arrivare a un pelo dalla morte perché qualcuno si decidesse a salvarti. «Okay. Ecco fatto» ha detto la Mamma pulendogli la bocca, «ora ti ho dato la vita.» Un attimo dopo, una cameriera ha riconosciuto in lui una fotografia vista su un vecchio cartone di latte, e in un batter d'occhio la piccola peste frignante si è ritrovata sul pulmino, con la madre che lo riportava al motel a centodieci all'ora. Sulla via del ritorno sono usciti dall'autostrada e hanno comprato una bomboletta di vernice nera. E dopo tanto correre di qua e di là, eccoli qui: nel cuore del nulla e della notte. Adesso, da dietro le sue spalle lo stupido ragazzino sente il rumore della madre che scuote la bomboletta di vernice, la pallina dentro la bomboletta che sbatte su e giù, e la Mamma gli dice che l'antica ragazza greca era innamorata di un giovanotto. «Ma il giovanotto veniva da un altro paese, e doveva tornarci» dice la Mamma. C'è una specie di sibilo, e il ragazzino sente odore di vernice spray. Il motore del pulmino cambia suono, qualcosa al suo interno fa clunk, comincia a girare più veloce e a fare più rumore, e il pulmino dondola un po' sui pneumatici. E così, l'ultima sera che la ragazza e il suo innamorato avrebbero dovuto passare insieme, racconta la Mamma, la ragazza portò con sé un lume e lo sistemò in modo che proiettasse l'ombra del suo innamorato sul muro. Il sibilo della bomboletta si ferma e poi riparte. C'è un sibilo breve, poi un sibilo lungo. E la Mamma racconta che la ragazza disegnò il contorno dell'ombra del suo innamorato, per avere qualcosa che le ricordasse il suo aspetto per sempre, qualcosa che documentasse quel preciso istante, l'ultimo che trascorrevano insieme. Il nostro piccolo piagnone continua a fissare le luci dei fanali. Gli occhi gli si inumidiscono, e quando li chiude vede la luce splendere rossa attraverso le sue palpebre, attraverso la sua carne e il suo sangue. E la Mamma racconta che il giorno dopo l'innamorato non c'era più, mala sua ombra era ancora lì. Per un secondo, il ragazzino si volta verso il punto in cui la Mamma sta disegnando il contorno della sua stupida ombra sulla parete di roccia, solo che lui è così lontano che la sua ombra si estende di almeno trenta centimetri sopra la testa della madre. Le sue braccine esili sembrano enormi. Le gambette tozze si allungano. Le spalle mingherline si allargano. E la Mamma gli dice: «Non guardare. Non muovere un muscolo, che mi rovini il lavoro». E quel cretinetto impiccione si volta di nuovo a fissare la luce dei fanali. La bomboletta di vernice sibila, e la Mamma dice che prima dei Greci l'arte non esisteva. È così che hanno inventato la pittura. Gli racconta la storia di come il padre della ragazza usò la sagoma sul muro per modellare una versione in creta del giovanotto, e così fu inventata la scultura. Senza scherzi, la Mamma gli disse queste esatte parole: «L'arte non nasce mai dalla felicità». Fu allora che nacquero i simboli. Il ragazzino se ne sta impalato, e adesso trema in quella luce accecante, cerca di non muoversi, e la Mamma continua il suo lavoro, spiegando all'ombra gigante che un giorno sarà lei a insegnare alla gente tutto quello che la Mamma le ha insegnato. Un giorno diventerà un medico e salverà le persone. Gli restituirà la felicità. O qualcosa ancora meglio della felicità: la pace. Si farà rispettare. Un giorno. E tutto questo .dopo che persino il Coniglio di Pasqua si è rivelato una bugia. Dopo Babbo Natale e il Topino dei Denti e San Cristoforo e la fisica newtoniana e il modello atomico di Niel Bohr, questo stupido, stupido ragazzino ancora credeva alla sua Mamma. Un giorno, da adulto, la Mamma dice all'ombra, il ragazzino tornerà in quel posto e vedrà che col tempo sarà diventato esattamente come la sagoma che lei ha progettato stanotte. Le braccia nude del ragazzino tremano di freddo. E la Mamma disse: «Controllati, porca miseria. Sta' fermo, che sennò rovini tutto». E il ragazzino cercò di sentire caldo ma, per quanto splendesse, la luce dei fanali non emanava calore. «Devo disegnare una sagoma precisa» disse la Mamma. «Se tu tremi, verrai fuori tutto confuso.» Soltanto anni dopo, quando il piccolo idiota sfigato uscì dal college col massimo dei voti e si fece in quattro per entrare alla University of South California e studiare medicina - quando ebbe ventiquattro anni e fu al secondo anno di medicina, quando diagnosticarono la malattia alla madre e lui fu nominato suo custode - soltanto allora quel bamboccio si rese conto che diventare grandi e ricchi e intelligenti non era che metà della storia. Adesso gli fanno male le orecchie dal freddo, la testa gli gira, e il ragazzino va in iperventilazione. Tutto quanto il suo torace da piccolo delatore è increspato dalla pelle d'oca. Il freddo gli strizza i capezzoli riducendoli a due foruncoletti rossi e duri, e lo schizzetto di sperma si dice: Melo merito, eccome.


E la Mamma dice: «Cerca almeno di stare dritto». Il ragazzino si tira su le spalle e immagina che le luci dei fanali siano un plotone d'esecuzione. Se la merita la polmonite. Se la merita la tubercolosi. Vedi anche: Ipotermia. Vedi anche: Tifo. E la Mamma dice: «Dai, che dopo stanotte non verrò più ad assillarti». Il motore del pulmino gira al minimo, sputando fuori un lungo tornado di fumo blu. E la Mamma dice: «Perciò sta' fermo, se non vuoi prenderti una sculacciata». E sicuro come l'oro che quel marmocchio una bella sculacciata se la meritava. Si meritava tutto ciò che gli è successo. Perché lui, quel piccolo burino illuso, pensava davvero che lo aspettasse un futuro migliore. Bisognava solo lavorare abbastanza. Imparare abbastanza. Correre abbastanza veloce. Tutto sarebbe andato per il meglio, e alla fine la vita gli avrebbe dato qualcosa. Il vento soffia e fa cadere dagli alberi fiocchi di neve asciutta, e ogni fiocco gli sferza le orecchie e le guance. E altra neve gli si scioglie tra i lacci delle scarpe. «Vedrai» dice la Mamma, «che sarà valsa la pena di soffrire un pochettino.» Quella era una storia che avrebbe potuto raccontare ai suoi figli. Un giorno. La ragazza antica, gli racconta la Mamma, non rivide mai più il suo innamorato. E il ragazzino è tanto stupido da pensare che un quadro o una scultura o un racconto possano in qualche modo rimpiazzare le persone a cui vuoi bene. E la Mamma dice: «Hai un così bel futuro davanti.» Difficile bersela, ma stiamo pur sempre parlando dello stesso stupido, ottuso, ridicolo ragazzino che è rimasto lì a tremare, a strizzare gli occhi contro il bagliore dei fanali e il ruggito del motore, e che pensava che il futuro fosse meraviglioso. Immaginati una persona che cresce tanto stupida da non sapere che la speranza non è che una delle tante fasi che prima o poi si superano. Che davvero ha pensato fosse possibile fare qualcosa, una cosa qualsiasi, che durasse per sempre. Ci si sente stupidi anche solo a ricordare tutto questo. C'è da stupirsi che uno così sia sopravvissuto tanto a lungo. Perciò, ripeto, se stai per metterti a leggere, non farlo. Questa non è la storia di una persona coraggiosa e buona e servizievole. Lui non è uno di cui ci si può innamorare. Per la cronaca, quella che stai leggendo è la storia completa e inesorabile di una dipendenza. Perché in quasi tutti i programmi di disintossicazione in dodici fasi, la fase quattro prevede che uno faccia l'inventario della propria vita. Tutti i momenti più bassi e squallidi della tua vita, devi prendere un quaderno e scriverli. Un inventario completo dei tuoi crimini. In questo modo, hai tutti i tuoi peccati a portata di mano. Dopodiché devi rimediare a tutto. Questo vale per gli alcolisti, per i tossicodipendenti e i bulimici, e quindi anche per i sessodipendenti. Così puoi tornare con la mente al peggio della tua vita e passarlo in rassegna ogni volta che vuoi. «Devo disegnare una sagoma precisa» disse la Mamma. «Se tu tremi, verrai fuori tutto confuso.» Soltanto anni dopo, quando il piccolo idiota sfigato uscì dal college col massimo dei voti e si fece in quattro per entrare alla University of South California e studiare medicina - quando ebbe ventiquattro anni e fu al secondo anno di medicina, quando diagnosticarono la malattia alla madre e lui fu nominato suo custode - soltanto allora quel bamboccio si rese conto che diventare grandi e ricchi e intelligenti non era che metà della storia. Adesso gli fanno male le orecchie dal freddo, la testa gli gira, e il ragazzino va in iperventilazione. Tutto quanto il suo torace da piccolo delatore è increspato dalla pelle d'oca. Il freddo gli strizza i capezzoli riducendoli a due foruncoletti rossi e duri, e lo schizzetto di sperma si dice: Melo merito, eccome. E la Mamma dice: «Cerca almeno di stare dritto». Il ragazzino si tira su le spalle e immagina che le luci dei fanali siano un plotone d'esecuzione. Se la merita la polmonite. Se la merita la tubercolosi. Vedi anche: Ipotermia. Vedi anche: Tifo. E la Mamma dice: «Dai, che dopo stanotte non verrò più ad assillarti». Il motore del pulmino gira al minimo, sputando fuori un lungo tornado di fumo blu. E la Mamma dice: «Perciò sta' fermo, se non vuoi prenderti una sculacciata». E sicuro come l'oro che quel marmocchio una bella sculacciata se la meritava. Si meritava tutto ciò che gli è successo. Perché lui, quel piccolo burino illuso, pensava davvero che lo aspettasse un futuro migliore. Bisognava solo lavorare abbastanza. Imparare abbastanza. Correre abbastanza veloce. Tutto sarebbe andato per il meglio, e alla fine la vita gli avrebbe dato qualcosa. Il vento soffia e fa cadere dagli alberi fiocchi di neve asciutta, e ogni fiocco gli sferza le orecchie e le guance. E altra neve gli si scioglie tra i lacci delle scarpe. «Vedrai» dice la Mamma, «che sarà valsa la pena di soffrire un pochettino.» Quella era una storia che avrebbe potuto raccontare ai suoi figli. Un giorno. La ragazza antica, gli racconta la Mamma, non rivide mai più il suo innamorato. E il ragazzino è tanto stupido da pensare che un quadro o una scultura o un racconto possano in qualche modo rimpiazzare le persone a cui vuoi bene. E la Mamma dice: «Hai un così bel futuro davanti.» Difficile bersela, ma stiamo pur sempre parlando dello stesso stupido, ottuso, ridicolo ragazzino che è rimasto lì a tremare, a strizzare gli occhi contro il bagliore dei fanali e il ruggito del motore, e che pensava che il futuro fosse meraviglioso. Immaginati una persona che cresce tanto stupida da non sapere che la speranza non è che una delle tante fasi che prima o poi si superano. Che davvero ha pensato fosse possibile fare qualcosa, una cosa qualsiasi, che durasse per sempre.


Ci si sente stupidi anche solo a ricordare tutto questo. C'è da stupirsi che uno così sia sopravvissuto tanto a lungo. Perciò, ripeto, se stai per metterti a leggere, non farlo. Questa non è la storia di una persona coraggiosa e buona e servizievole. Lui non è uno di cui ci si può innamorare. Per la cronaca, quella che stai leggendo è la storia completa e inesorabile di una dipendenza. Perché in quasi tutti i programmi di disintossicazione in dodici fasi, la fase quattro prevede che uno faccia l'inventario della propria vita. Tutti i momenti più bassi e squallidi della tua vita, devi prendere un quaderno e scriverli. Un inventario completo dei tuoi crimini. In questo modo, hai tutti i tuoi peccati a portata di mano. Dopodiché devi rimediare a tutto. Questo vale per gli alcolisti, per i tossicodipendenti e i bulimici, e quindi anche per i sessodipendenti. Così puoi tornare con la mente al peggio della tua vita e passarlo in rassegna ogni volta che vuoi. Perché a quanto si dice chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. Perciò se stai leggendo tutto questo, volendo dirla tutta, davvero non sono affari tuoi. Quello stupido ragazzino, quella fredda notte, tutto ciò andrà soltanto a rimpolpare le fila delle cazzate a cui penserai facendo sesso, per trattenerti dallo schizzo imminente. Se sei un maschio. Qui stiamo parlando del vermiciattolo leccaculo a cui la mamma ha detto: «Tieni duro, datti da fare e vedrai che andrà tutto bene». Ah ah ah. La stessa Mamma che ha detto: «Vedrai che un giorno tutti i nostri sforzi verranno ripagati». E quella testolina di cazzo, quello stupido, povero fesso è rimasto li a tremare, mezzo nudo nella neve, e davvero ha creduto che qualcuno potesse anche solo promettere qualcosa di tanto impossibile. Perciò se pensi che tutto ciò ti possa salvare... Se pensi che esista qualcosa che ti può salvare... Allora sappi che questo è l'ultimo avvertimento.


CAPITOLO 2 È buio e sta cominciando a piovere quando arrivo alla chiesa, e Nico è lì che aspetta che qualcuno apra la porta, si stringe nelle spalle per il freddo. «Tienimele, per favore» dice, allungandomi una tiepida manciata di seta. «Solo un paio d'ore» dice. «Non ho tasche.» Indossa un giaccone di una specie di scamosciato arancio con un collo di pelliccia arancio acceso. Da sotto il giaccone spunta la gonna del suo vestitino a fiori. Niente collant. Sale verso la porta della chiesa con cautela, poggiando i piedi infilati nei tacchi a spillo neri di traverso sui gradini. Quello che mi mette in mano è caldo e umido. Sono le sue mutandine. E lei sorride. Dietro la porta a vetri, una donna passa il mocio sui pavimenti. Nico bussa contro il vetro, poi con un dito si indica l'orologio. La donna infila il mocio in un secchio. Lo solleva e lo strizza. Appoggia il manico accanto alla porta e pesca un mazzo di chiavi da una tasca del camice. Mentre apre la serratura, la donna grida attraverso il vetro. «Siete nella Stanza 234, stasera» dice. «Quella del catechismo.» Intanto nel parcheggio è arrivata altra gente. La gente sale i gradini, dice ciao, e io mi nascondo le mutandine di Nico in tasca. Alle mie spalle, altre persone si affrettano a salire i gradini per afferrare la porta prima che si richiuda. Che voi ci crediate o meno, qui si conoscono tutti. Queste persone sono leggende. Di ognuno di questi uomini e di queste donne sentite parlare da anni. Negli anni Cinquanta una ditta leader nel campo degli aspirapolvere tentò una piccola modifica di design. Fu aggiunta un'elica rotante, una lama affilata come un rasoio montata all'interno del tubo d'aspirazione. L'aria in entrata faceva girare la lama, e la lama triturava ogni pezzetto o filo o pelo di animale che avrebbe potuto intasare il tubo. Almeno in teoria. Quello che accadde fu che un sacco di uomini si fiondarono al pronto soccorso col cazzo maciullato. Almeno secondo la leggenda. Quella vecchia leggenda metropolitana sulla donna bellissima a cui amici e parenti organizzano una festa e sorpresa: si nascondono tutti quanti in una stanza e quando saltano fuori cantando «Tanti auguri a te» la trovano stesa sul divano col cane che le lecca del burro d'arachidi in mezzo alle gambe... Be', lei esiste davvero. La leggendaria donna che fa i pompini al suo ragazzo mentre guida, solo che una volta lui perde il controllo della macchina e schiaccia il freno, ma così forte che lei glielo trancia di netto, ecco, io li conosco entrambi. Questi uomini e queste donne, sono tutti qui. Questi individui sono il motivo per cui ogni pronto soccorso dispone di un trapano a punta di diamante. Per praticare un buco nel fondo spesso delle bottiglie di champagne e di bibite. In modo da diminuire il risucchio. Sono quelli che sbucano dal buio della notte camminando a gambe larghe e dicono che sono inciampati cadendo su zucchine, lampadine, Barbie, palle da biliardo, criceti agitatissimi. Vedi anche: stecche da biliardo. Vedi anche: topolini di peluche. Erano nella doccia, sono scivolati e sono caduti, centrando in pieno un flacone di shampoo ben lubrificato. C'è sempre uno sconosciuto che li ha aggrediti, da solo o in gruppo, con candele, mazze da baseball, uova sode, torce elettriche e cacciaviti che ora vanno tolti. Qui ci sono gli uomini che restano bloccati nel bocchettone della vasca idromassaggio. A metà del corridoio che porta alla Stanza 234, Nico mi spinge contro il muro. Aspetta che un paio di persone siano passate e dice: «Conosco un posto dove possiamo andare». Tutti gli altri vanno nell'aula catechismo color pastello, e Nico gli sorride. Fa roteare un dito vicino all'orecchio, il gesto che nel linguaggio internazionale significa matto, e dice: «Che sfigati». Mi trascina nella direzione opposta, verso un cartello con su scritto Donne. Tra i compagni della Stanza 234 c'è il finto ufficiale sanitario che telefona alle quattordicenni interrogandole sulle condizioni delle loro vagine. C'è la ragazza pompon che si fa fare la lavanda gastrica e le trovano dentro quasi mezzo litro di sperma. Si chiama LouAnn. II ragazzo che al cinema infila il cazzo nel buco ritagliato sul fondo di un secchio di popcorn, ecco, lui per gli amici è Steve, e stasera il suo bel culone è strizzato in una sedia di plastica da bambini davanti a un tavolo macchiato di colori a tempera nell'aula catechismo. Tutte queste persone che per voi sono solo una barzelletta. Bravi, ridete. Ridete finché non vi scoppia il culo. Loro sono i cosiddetti individui soggetti a compulsione sessuale. Queste persone che per voi erano solo leggende metropolitane, be', sono esseri umani. Con tanto di nomi e facce. Lavori e famiglie. Titoli di studio e fedine penali. Nel bagno delle donne, Nico mi trascina giù sulle piastrelle fredde e mi si siede sui fianchi, dissotterandomelo dai pantaloni. Con l'altra mano mi afferra per la nuca e trascina la mia faccia, la mia bocca aperta, dentro la sua. Mentre la sua lingua lotta con la mia, Nico mi bagna la punta dell'uccello con il polpastrello del pollice. Mi sfila i jeans, giù lungo i fianchi. Si solleva l'orlo del vestito facendo una specie di inchino con gli occhi chiusi e la testa leggermente buttata all'indietro. Preme forte l'inguine contro il mio e mi dice qualcosa contro il collo. Io le dico: «Dio, sei bellissima», perché di lì in poi per qualche minuto posso permettermelo. E Nico si tira indietro, mi guarda e mi fa: «Con questo cosa vorresti dire?».


E io le dico: «Che ne so». Dico: «Niente, penso». Dico: «Non farci caso». Le piastrelle odorano di disinfettante e le sento ruvide sotto il culo. Le pareti salgono verso un soffitto di pannelli isolanti e ventole di aerazione coperte di polvere e lerciume. C'è un odore di sangue che esce dal cestino di metallo arrugginito per gli assorbenti usati. «Il permesso di uscita» le dico. Schiocco le dita. «L'hai portato?» Nico alza i fianchi di qualche centimetro, poi si lascia cadere, si risolleva e si sistema. Sempre con la testa buttata all'indietro, sempre con gli occhi chiusi, pesca con la mano nella scollatura del vestito e tira fuori un quadratino di carta azzurra ripiegato e me lo fa cadere sul petto. Le dico: «Brava bambina» e prendo la penna che porto appesa al taschino. Salendo ogni volta un po' di più, Nico solleva i fianchi e si schianta a sedere su di me. Sfregandosi un pochino, avanti e indietro. Puntandosi le mani sulle cosce si spinge su, poi si lascia cadere. «Il giro del mondo» le dico. «Facciamo il giro del mondo.» Lei forse apre gli occhi, ma solo di una fessura, e guarda giù verso di me, e io faccio un movimento circolare con la penna, come quando si mescola il caffè in una tazza. Anche attraverso i vestiti, il ruvido delle piastrelle mi si sta imprimendo sulla schiena. «Il giro del mondo, dai» le dico. «Fallo per me, bimba.» E Nico chiude gli occhi e si raccoglie la gonna intorno alla vita con entrambe le mani. Sposta tutto il peso sui miei fianchi e mi scavalca la pancia con un piede. Poi muove anche l'altro, restando seduta su di me, ma con la faccia rivolta verso i miei piedi. «Bene» dico, e apro il foglietto azzurro. Glielo appoggio sulla schiena arrotondata e ingobbita, lo liscio e lo firmo in basso, nel riquadro vuoto dove c'è scritto: sponsor. Sfiorando il vestito di Nico si sente la parte spessa del reggiseno, l'elastico con cinque o sei gancetti di plastica. Si sentono le costole, sotto uno spesso strato di muscoli. In questo preciso istante, nella Stanza 234 in fondo al corridoio, c'è la ragazza del migliore amico di tuo cugino, quella che è' quasi morta facendo acrobazie sulla leva del cambio di una Ford Pinto dopo aver preso una polverina afrodisiaca. Si chiama Mandy. C'è il tizio che si è introdotto di nascosto in una clinica con un camice bianco e si è messo a fare visite ginecologiche. C'è quello che quando va in un motel resta a letto nudo sopra le lenzuola con la sua erezione mattutina, fingendo di dormire finché non entra la cameriera. Le persone di cui si vocifera, gli amici degli amici degli amici degli amici... ecco, sono tutti qui. Il signore mutilato dalla mungitrice automatica. Si chiama Howard. La ragazza rimasta appesa nuda all'asticella della tenda della doccia, mezza morta per asfissia autoerotica. Lei è Paula, ed è una sessodipendente. Ciao, Paula. Quelli che ti palpano nel metrò. Quelli che si aprono l'impermeabile. Gli uomini che montano telecamere tra l'asse e la tazza di certi bagni delle donne. Il ragazzo che spalma il suo sperma sui lembi delle buste per i versamenti alla cassa continua. Tutti i guardoni. Le ninfomani. I vecchi sporcaccioni. I maniaci dei cessi pubblici. I patiti del fisting. Tutti i babau - e le babau - a cui la mamma vi ha sempre detto di fare attenzione. Tutte quelle storie che vi raccontavano per mettervi in guardia. Ecco, siamo tutti qui. In carne e malattia. Questo è il mondo in dodici fasi della dipendenza sessuale. Del comportamento sessuale compulsivo. Ogni sera di ogni settimana, questa gente si incontra nei saloni di una qualche parrocchia. Nella sala riunioni di un qualche oratorio di quartiere. Ogni sera, in ogni città. Fanno persino delle riunioni virtuali su Internet. Il mio migliore amico, Denny, l'ho conosciuto a un incontro per sessodipendenti. Denny era arrivato al punto che doveva masturbarsi quindici volte al giorno solo per mantenere la calma. Ormai faceva fatica persino a stringere il pugno, ed era preoccupato degli effetti a lungo termine che tutto quel lubrificante a base di petrolio poteva avere. Aveva addirittura pensato di passare a qualche crema, ma qualsiasi prodotto concepito per ammorbidire la pelle aveva solo peggiorato la situazione. Denny e tutti questi uomini e queste donne che per voi sono tanto orribili o ridicoli o patetici, è qui che si lasciano andare. È questo il posto dove vanno per aprirsi. Qui ci sono prostitute e gente che ha commesso crimini sessuali in libera uscita per tre ore da carceri di minima sicurezza, gomito a gomito con donne che adorano le gang-bang e uomini che fanno pompini nelle librerie per adulti. Qui le puttane si ricongiungono con i clienti. I molestatori con i molestati. Nico trascina il suo culone bianco fin quasi in cima al mio uccello e poi crolla giù di colpo. Su e poi giù. Scivola con le sue budella lungo tutto il mio arnese. Come un pistone, prima su, e poi giù di schianto. Facendo leva contro le mie cosce, i muscoli delle braccia le si gonfiano sempre di più. Sotto la spinta delle sue mani le gambe mi diventano bianche e perdono sensibilità. «Adesso che ci conosciamo» le faccio, «puoi dirmelo, Nico: come tipo io ti piaccio?» Si volta e mi guarda da sopra la spalla: «Quando farai il medico potrai prescrivere qualsiasi cosa, vero?». Come no. Prima però dovrei tornare a studiare medicina. Mai sottovalutare la potenza di una laurea in medicina per rimediare una scopata. Tiro su le mani e gliele appoggio col palmo aperto contro il sottocoscia teso e liscio di entrambe le gambe. Per aiutarla a sollevarsi, penso, e lei intreccia le dita fresche e morbide con le mie. Stretta intorno al mio uccello come una manica attillata, senza neppure voltarsi, lei dice: «Le mie amiche credono che sei già sposato, ci scommetterebbero dei soldi». Ho in mano il suo culo bianco e liscio. «Quanti?» le chiedo.


Le dico che magari le sue amiche hanno ragione. La verità è che un figlio di madre single, sposato ci nasce. Non so, è come se finché tua madre non muore tutte le altre donne della tua vita possano essere soltanto delle amanti. Nella versione moderna della storia di Edipo è la madre che uccide il padre e si prende il figlio. E non è che puoi divorziare da tua madre. O ucciderla. E Nico dice: «Che significa tutte le altre donne? Gesù, ma di quante donne stiamo parlando?». Dice: «Meno male che abbiamo usato il cappuccio». Per una lista completa di partner sessuali dovrei dare un'occhiata alla mia fase quattro. Il mio quadernino con l'inventario morale. La storia completa e inesorabile della mia dipendenza. Prima però dovrei decidermi a completarla, quella cazzo di fase. Per tutte quelle persone nella Stanza 234, le dodici fasi sono uno strumento importante e prezioso per comprendere e superare... insomma, ci siamo capiti. Per me invece è un corso. di aggiornamento pazzesco. Suggerimenti. Tecniche. Strategie per rimediare scopate che mai ti saresti sognato. Contatti personali. Quando raccontano le loro storie, questi tossici da sesso sono una bomba. In più ci sono le carcerate in libera uscita per le loro tre orette di terapia sessuale di gruppo. Nìco inclusa. Mercoledì sera significa Nico. Venerdì sera significa Tanya. Domenica significa Leeza. Leeza suda giallo di nicotina. Puoi quasi stringerle la vita con le mani perché ha degli addominali di marmo, tanto tossisce. Tanya tira sempre fuori qualche giocattoli, erotico di gomma, di solito un dildo o un filo di palline di lattice. Una specie di equivalente sessuale della sorpresina nella scatola di merendine. Avete presente quella vecchia regola secondo cui una cosa bella è una gioia eterna? Ecco, per esperienza posso dirvi che anche la cosa più stupenda del mondo è una gioia che non dura più di tre ore, quando va bene. Dopo quelle tre ore a lei verrà voglia di raccontarti tutti i suoi traumi infantili. Uno dei lati migliori, quando stai con una di queste del carcere, è che è bellissimo guardare l'orologio e sapere che di lì a mezz'ora lei sarà di nuovo dietro le sbarre. E un po' come la storia di Cenerentola, solo che a mezzanotte sono loro che si trasformano in fuggitive. Non che queste donne non le ami. Le amo quanto si può amare il paginone centrale di una rivista, un video porno, un sito per adulti, e una cosa è certa: per un sessodipendente li di amore può essercene a palate. E non che Nico mi ami alla follia, comunque. Non parlo di intrecciare relazioni, quanto di avere delle opportunità. Provate a mettere venti sessodipendenti intorno a un tavolo, tutte le sere di tutti i santi giorni, e poi non stupitevi più di niente. In più ci sono i libri per sessodipendenti in via di disintossicazione che vendono qui, ovvero tutto ciò che avreste sempre voluto sapere su come rimediare una scopata ma che non vi hanno mai detto. Naturalmente, la finalità di tutto ciò è farti ca pire che sei un sessodipendente. La formula è un po' quella del "se fai una qualsiasi delle seguenti cose, allora sei un sessodipendente", con tanto di lista da spuntare. Domande utilissime, come per esempio: Tagli la fodera interna del costume da bagno in modo da mettere in evidenza i genitali? Lasci la zip dei pantaloni aperta o la camicetta slacciata e ti piazzi nelle cabine telefoniche fingendoti intento/a in una conversazione e assumendo una postura tale che i tuoi indumenti rimangano aperti mostrando l'assenza di biancheria intima? Fai jogging senza reggiseno o senza sospensorio al fine di attirare potenziali partner sessuali? La mia risposta a tutte le domande di cui sopra è: Adesso sì! E poi in questo posto se sei un pervertito non è colpa tua. Un comportamento sessuale compulsivo non significa solo che ti fai succhiare il cazzo in continuazione. È una dipendenza di tipo fisico che aspetta soltanto di essere classificata dal sistema sanitario, perché le cure mediche te le paghi l'assicurazione. Si dice che persino Bill Wilson, uno dei fondatori degli Alcolisti Anonimi, avesse la scimmia del sesso, e che abbia trascorso tutta la vita cornificando la moglie e massacrato dai sensi di colpa. Gli orgasmi inondano il corpo di endorfine che alleviano il dolore e ti calmano. I sessodipendenti in realtà hanno una dipendenza dalle endorfine, non dal sesso. I sessodipendenti hanno un bisogno folle della feniletilamina peptide che si produce in situazioni di pericolo, di infatuazione, di rischio e di paura. Per un sessodipendente le tette, il cazzo, il clitoride o la lingua o il buco del culo sono una pera di eroina sempre lì, sempre pronta all'uso. Nico e io ci amiamo come un tossico ama la sua dose. Nico si lascia cadere bruscamente, spingendo il mio uccello contro la parete anteriore delle sue budella, titillandosi con due dita bagnate. Io dico: «E se entra la tipa delle pulizie?». E Nico mi scuote dentro di sé, dicendo: «Già, sarebbe arrapante di brutto». E io, io non riesco a trattenermi dall'immaginare che razza di enorme e luccicante impronta di culo lasceremo sulle piastrelle lucidate a cera. Dall'alto, una fila di lavandini ci guarda. La luce al neon ronza, e nel riflesso sui tubi cromati sotto i lavandini la gola di Nico è un lungo tubo diritto, con la testa piegata all'indietro, gli occhi chiusi, sbuffi di fiato che salgono verso il soffitto. Le sue tettone a stampa floreale. La lingua a penzoloni da un lato. Il succo che esce da lei è caldo da ustionare. Per impedirmi di venire le dico: «Alle tue compagne cos'hai raccontato di noi due?». E Nico dice: «Vogliono conoscerti». Penso a quale sarebbe la frase perfetta da dire subito dopo, ma davvero non ha importanza. Qui puoi dire qualsiasi cosa. Clisteri, orge, animali, puoi confessare qualsiasi oscenità e nessuno mai batte ciglio. Nella Stanza 234, la gente si scambia racconti di guerra. Tutti quanti, a turno. È la prima parte degli incontri, quella in cui si fanno


le prime dichiarazioni. Dopo vengono le letture, le preghiere, si discute l'argomento della serata. Ciascuno è al lavoro su una delle dodici fasi. La fase uno è ammettere la tua impotenza. Ammettere che hai una dipendenza e che non riesci a smettere. La fase uno è raccontare la tua storia, con tutti i risvolti peggiori. I tuoi minimi storici. Il problema, con il sesso, è quello di qualsiasi altra dipendenza. Sei sempre li che cerchi di smettere. E sei sempre li che ci ricaschi. E la dipendenza ritorna. Finché non trovi qualcosa per cui lottare ti accontenti di qualcosa contro cui lottare. Tutti quelli che blaterano di quanto gli piacerebbe vivere liberi dagli impulsi sessuali irrefrenabili, be', che ci diano un taglio. Voglio dire, cosa mai può esserci di meglio del sesso? Una cosa è certa: il peggiore dei pompini sarà sempre meglio, per dire, della più profumata delle rose... del più fantastico dei tramonti. Delle risate dei bambini. Io non credo che leggerò mai una poesia bella quanto uno di quegli orgasmi che ti mandano a fuoco, ti fanno venire i crampi al culo, ti inondano le budella. Dipingere un quadro, comporre un'opera, sono tutte cose che fai per riempire il tempo tra una scopata e l'altra. II giorno che dovesse saltar fuori qualcosa di meglio del sesso, fatemi un fischio. Uno squillo sul cercapersone. Nella Stanza 234 non ci sono Romei o Casanova o Dongiovanni. Non ci sono Mata Hari o Salomè. Ci sono le persone a cui stringete la mano tutti i giorni. Né belle, né brutte. Quelle che vi ritrovate accanto sull'ascensore. Che vi servono il caffè. Queste creature mitologiche vi strappano il biglietto al cinema. Lavorano per voi e riscuotono lo stipendio che gli date. Vi appoggiano l'ostia sulla lingua durante la comunione. Nel bagno delle donne, dentro Nico, incrocio le braccia dietro la testa. E per i successivi non so quanti minuti i miei problemi non ci sono più. Niente mamma. Niente spese mediche. Niente lavoro di merda. Niente miglior amico segaiolo. Niente. Non provo più niente. Perché la cosa duri, per impedirmi di venire, dico alla schiena a fiori di Nico quant'è bella, quant'è dolce e quanto ho bisogno di lei. Della sua pelle e dei suoi capelli. Perché duri. Perché è solo in questo momento che posso dirlo. Perché nell'istante preciso in cui tutto ciò finirà, io e lei ci faremo schifo a vicenda. L'istante in cui ci ritroveremo a sentire freddo e a sudare sul pavimento del bagno, un attimo dopo essere venuti, ci passerà persino la voglia di guardarci in faccia. L'unica persona che ci farà più schifo di quella che abbiamo davanti saremo noi stessi. È solo in questi pochi minuti che posso diventare un essere umano. Solo in questi pochi minuti non mi sento solo. E cavalcandomi Nico dice: «Allora, quand'è che mi fai conoscere tua madre?». E io: «Mai» le rispondo. «O meglio, non è possibile.» E Nico, mentre il suo intero corpo mi stringe e mi masturba con budella bollenti, Nico dice: «Cos'è, sta in prigione o in manicomio?». C'è stata, sì, per buona parte della sua vita. Chiedete a un uomo una cosa qualsiasi su sua madre mentre ci state facendo sesso e vedrete se non riuscite a ritardare l'esplosione all'infinito. E Nico dice: «Ma è morta?» E io dico: «Più o meno».


CAPITOLO 3 Ormai, quando vado a trovare mia mamma, non fingo nemmeno più di essere me stesso. Anzi, non fingo nemmeno più di conoscermi di vista. Non più. Mia mamma, è come se a questo punto la sua unica occupazione fosse quella di perdere peso. Quel poco che rimane di lei è talmente sottile che sembra una marionetta. Una sorta di effetto speciale. Il fatto è che della sua pelle giallognola ormai non ne è rimasta abbastanza perché dentro ci possa stare una persona vera. Le sue braccia sottili da marionetta si muovono sulle coperte, alla continua ricerca di pilucchi da strappare. Prima o poi quella testa rinsecchita le si accartoccerà intorno alla cannuccia con cui beve. Quando ancora la andavo a trovare nei panni di me stesso, di Victor, di suo figlio Victor Mancini, le visite non duravano mai più di dieci minuti, perché poi lei suonava il campanello per chiamare l'infermiera e mi diceva che era tanto tanto stanca. Poi, un giorno, di punto in bianco mia madre pensa che io sia un avvocato d'ufficio che l'ha difesa un paio di volte, un certo Fred Hastings. Appena mi vede le si illumina il viso e si adagia contro la montagna di cuscini e scuote la testa piano, dicendo: «Oh, Fred». Dice: «Su quella scatola di tintura per capelli c'erano le mie impronte dappertutto. È vero, era attentato doloso alla salute pubblica bello e buono, ma ciò non toglie che come gesto sociopolitico sia stato strepitoso». Le dico che visto dalle telecamere a circuito chiuso del negozio sembrava tutt'altro. In più c'era l'accusa di rapimento. Tutto immortalato su videocassetta. E lei ride, sul serio, scoppia a ridere e dice: «Che sciocco che è stato a cercare di salvarmi, Fred». Va avanti a parlare così per mezz'ora, perlopiù di quel malaugurato incidente della tintura per capelli. Poi mi chiede di portarle un quotidiano dalla sala ricreazione. Nel corridoio fuori dalla sua stanza c'è una dottoressa, una donna in camice bianco con in mano una cartelletta. Vista da li, si direbbe che abbia i capelli lunghi e castani scuri, attorcigliati a formare una sorta di piccolo cervello nero sulla nuca. Non è truccata, perciò la sua faccia sostanzialmente sembra fatta di pelle. Dal taschino sul petto spunta un paio di occhiali con la montatura nera. Le chiedo se è lei che si occupa della signora Mancini. La dottoressa guarda la cartelletta. Prende gli occhiali, apre le stanghette e se li fa scivolare sul naso, dopodiché torna a guardare la cartelletta, ripetendo senza sosta «Mancini, Mancini, Mancini...» Fa scattare in continuazione il pulsante della biro che tiene in mano. Le chiedo: «Perché continua a dimagrire?». La pelle lungo le scriminature dei suoi capelli, la pelle sopra e dietro le orecchie della dottoressa, è liscia e bianca come credo lo sia anche quella sotto i segni dell'abbronzatura. Se le donne fossero coscienti della forma che hanno le loro orecchie, con quel bordo sodo e carnoso, con la pieghetta scura in alto, con tutti quei contorni lisci che si avvolgono su se stessi incanalando lo sguardo verso la piccola oscurità dell'interno, be' più donne porterebbero i capelli lunghi. «La signora Mancini» dice «ha bisogno di essere alimentata con un sondino nasogastrico. Avverte la sensazione della fame, ma si è dimenticata di cosa significa. Di conseguenza, non mangia.» Le dico: «E quanto costa questo sondino?». Un'infermiera chiama dal fondo del corridoio: «Paige?». La dottoressa mi guarda, vestito come sono, in braghe corte e panciotto, con una parrucca in testa e ai piedi un paio scarpe con la fibbia, e mi dice: «Da cosa è vestito?». L'infermiera chiama: «Signorina Marshall?». Troppo incasinato spiegarle il mio lavoro. «Sappia solo che ha davanti la colonna portante dell'antica America coloniale.» «Ovvero?» dice lei. «Un servo a contratto irlandese.» Lei non dice niente, mi guarda e fa sì con la testa. Poi abbassa gli occhi sulla cartella clinica. «O le mettiamo un sondino nasogastrico» dice la dottoressa, «o si lascerà morire di fame.» Guardo dentro l'oscurità segreta del suo orecchio e le chiedo se per caso non si possono tentare altre soluzioni. In fondo al corridoio l'infermiera, con i pugni puntati sui fianchi, strilla. «Signorina Marshall!» E la dottoressa si riscuote. Alza un indice per zittirmi e dice: «Senta». Dice: «Devo assolutamente finire il mio giro di visite. Ne riparliamo la prossima volta che viene a trovarla». Poi si gira e percorre i dieci o dodici passi che la separano dal punto in cui l'infermiera sta aspettando e le dice: «Infermiera Gilman». Le dice, parlando veloce e pigiando le parole una sull'altra: «Quantomeno mi faccia la cortesia di chiamarmi dottoressa Marshall». Le dice: «Specie di fronte a un visitatore». Le dice: «Specie se ha deciso di mettersi a strillare da un capo all'altro del corridoio. Non ci vuole poi molto, infermiera Gilman, e inoltre penso di meritarmelo, e penso pure che se lei per prima cominciasse a comportarsi in maniera professionale, tutti quanti si mostrerebbero molto più bendisposti nei suoi confronti... ». Quando infine torno dalla sala ricreazione col giornale, mia mamma sta dormendo. Con quelle tremende mani gialle incrociate sul petto, e un braccialetto di plastica da ospedale sigillato termicamente intorno a un polso.


CAPITOLO 4 Nell'istante in cui Denny si china in avanti, la parrucca gli si vola via e cade nel fango e nella cacca di cavallo e qualcosa come duecento turisti giapponesi scoppiano a ridere e gli si accalcano davanti per immortalare sulla pellicola la sua testa rasai «Permesso» faccio io, e vado a raccogliere la parrucca. Ora non è più un granché bianca, e in più puzza perché, poco ma curo, ogni giorno almeno un milione di cani e di polli vengono a farsi una pisciatina qui. Essendo Denny piegato a novanta, il fazzoletto da collo gli penzola sulla faccia, impedendogli di vedere. «Amico» mi «raccontami un po' che sta succedendo.» Eccomi qui, avete davanti la colonna portante dell'antica America coloniale. La merda con cui ci guadagnamo da vivere. Dal ciglio della piazza, Sua Eccellenza Lord Charlie, il governatore coloniale, ci osserva a braccia incrociate, piantato su piedi che poggiano a circa tre metri l'uno dall'altro. Le mungitrici si aggirano portando secchi di latte. I ciabattini aggiustano scarpe a colpi di martello. Il fabbro continua a picchiare seri sosta sullo stesso pezzo di metallo, fingendo come tutti gli al di non guardare Denny che, piegato a novanta nel bel mezzo della piazza, si fa sbattere per l'ennesima volta alla gogna. «Mi hanno beccato col chewing-gum» spiega Denny ai miei piedi. Essendo piegato a novanta, il naso comincia a colargli, e lui tira su. «Vedrai» dice, e tira su col naso. «Vedrai se stavolta Sua Eccellenza non glielo va a spifferare al consiglio cittadino.» L'asse di legno della gogna scende su di lui e gli si chiude intorno al collo, e io glielo sistemo per bene, stando attento a non pizzicargli la pelle. Gli dico: «Mi spiace, ti verrà un freddo cane». Poi chiudo il lucchetto. Poi mi tiro fuori di tasca uno straccio. Ha una gocciolina trasparente di moccio che gli penzola dal naso, e così io gli ci appoggio lo straccio contro e dico: «Soffia, bello». Denny spara fuori un moccolone lungo e tremolante, lo sento schiantarsi dentro lo straccio. Lo straccio fa abbastanza schifo ed è già bello pieno, ma se solo mi azzardo a porgergli un bel fazzolettino pulito quelli in quattro e quattr'otto mi appioppano un provvedimento disciplinare. In questo posto gli errorini del cazzo che ti possono fregare non si contano. Sulla nuca di Denny qualcuno ha scritto "Fanculo" con un pennarello rosso acceso, perciò do una scrollata alla parrucca lercia e cerco di coprirgli la scritta, solo che la parrucca è fradicia e un'acquetta marroncina schifosa comincia a colargli lungo i lati della testa rasata, andando a gocciolare giù dalla punta del naso. «Vedrai se non mi mandano in esilio» dice, e tira su col naso. Infreddolito e con un principio di tremarella, Denny dice: «Amico mio, sento freddo. Mi sa che dietro mi si è sfilata la camicia dalle braghe». È vero, e i turisti gli stanno immortalando la fessura delle chiappe da tutte le angolazioni. Il governatore coloniale fissa la scena, e i turisti continuano a riprendere, mentre io afferro la fascia intorno alla vita di Denny con entrambe le mani e gliela tiro su con uno strattone. Denny dice: «L'unica cosa buona di stare alla gogna è che sono riuscito a farmi tre settimane di astinenza una dietro l'altra». Dice: «Almeno così non posso andarmene al cesso ogni mezz'ora a... sì, insomma, a spararmi le seghe.» E io gli dico: «Vacci piano con la disintossicazione, che sennò rischi di esplodere». Gli prendo la mano sinistra e gliela blocco nel ceppo di legno, poi la destra. Quest'estate Denny ha passato così tanto tempo alla gogna che gli sono venuti i cerchi bianchi intorno ai polsi e al collo, dove il sole non batte. «Lunedì» dice «mi sono scordato di togliermi l'orologio.» La parrucca riscivola giù, spiaccicandosi nel fango. Il fazzoletto da collo, inzuppato di moccio e di merda, gli sbatacchia sulla faccia. I giapponesi se la ridono in coro, come se quella fosse una gag preparata. Il governatore coloniale continua a fissare Denny e me, in cerca di un segno che ci bolli come storicamente inappropriati, così poi potrà fare pressione sul consiglio cittadino per farci mandare in esilio nelle lande impervie e desolate, sbatterci fuori dalle porte della città a calci e lasciare che i selvaggi ci infilzino con le frecce, che spacchino il culo ai due disoccupati. «Martedì» dice Denny alle mie scarpe, «Sua Eccellenza si è accorto che mi ero messo il burro cacao.» Ogni volta che la raccolgo, la stupida parrucca è sempre più pesante. Stavolta me la sbatto contro lo stivale, prima di schiaffargliela sulla scritta "fanculo". «Stamattina» dice Denny, e tira su col naso. Poi sputa una qualche schifezza marroncina che gli si è infilata in bocca. «Prima di pranzo, Lady Landson mi ha beccato che fumavo una sigaretta dietro l'edificio del culto. Poi, mentre me ne sto qui piegato a novanta, una faccia di merda che avrà fatto sì e no la quarta elementare mi sfila la parrucca e mi scrive quella roba sulla testa.» Con lo straccio smoccolato cerco di ripulirgli gli occhi e la bocca da quello schifo alla bell'e meglio. Alcune galline bianche e nere, galline senza occhi o con una zampa sola, alcune di queste galline deformi vengono a gironzolarci intorno e si mettono a beccare le fibbie luccicanti dei miei stivali. Il fabbro continua a battere sul suo pezzo di metallo, due colpi rapidi e tre più lenti e via da capo, che poi sarebbe la linea di basso di un vecchio pezzo dei Radiohead che piace a lui. Ovviamente ha il cervello in pappa perché è fatto di ecstasy. Incrocio lo sguardo di Ursula, una giovane mungitrice che conosco, e così mi agito il pugno chiuso davanti all'inguine, il gesto universale della sega. Arrossendo sotto il cappello bianco inamidato, Ursula fa scivolare una manina pallida e delicata fuori dal tascone del grembiule e mi mostra il medio. Poi parte e va a masturbare le mammelle di qualche mucca fortunata per il resto del pomeriggio. Eppure io so per certo che si lascia mettere le mani addosso dal conestabile del re, perché quello una volta è venuto a farmi annusare le dita.


Anche da qui, anche in mezzo alla merda di cavallo, la scia di odore di canna che la piccola Ursula si lascia dietro si sente lo stesso. Con tutto quel mungere vacche e impastare burro, come minimo le mungitrici devono sparare delle seghe strepitose. «Madama Landson è una stronza» dico a Denny. «Il tizio che fa il pastore dice che gli ha attaccato un herpes micidiale.» Già. Perché quella fa tanto la yankee di sangue blu dalle nove alle cinque, ma alle sue spalle qui tutti sanno che ha fatto le superiori a Springburg, dove l'intera squadra di football del liceo la conosceva come "la Wanda G. Necologica". Stavolta la bastarda parrucca sta su. Il governatore coloniale la pianta di fulminarci con gli occhi e si ritira nell'edificio della dogana. I turisti ripartono, in cerca di altre occasioni da click. Comincia a piovere. «Vai pure, bello» dice Denny. «Mica devi stare qui a prenderti la pioggia per me.» E questa, ve lo garantisco, è solo una giornata di merda come tante, qui nel diciottesimo secolo. Ti metti un orecchino e finisci in prigione. Ti tingi i capelli. Ti fai il piercing al naso. Ti metti il deodorante. Dritto in prigione. Senza passare dal Via. E senza riscuotere un cazzo di niente. Sua Eccellenza l'Alto Governatore mette Denny a novanta almeno due volte alla settimana, perché ha masticato tabacco, perché si è messo la colonia, perché si è rasato i capelli. Nel 1730 nessuno portava il pizzetto, pontifica con Denny l'Alta Governatrice. E Denny lo contesta: «Magari i coloni strafichi sì». E per il vecchio Denny è di nuovo la gogna. Noi due scherziamo sempre dicendo che condividiamo la stessa dipendenza dal 1734. Da un bel po' di tempo, quindi. Da quando ci siamo conosciuti a un incontro per sessodipendenti. Denny mi ha fatto vedere un annuncio su un giornale, e tutti e due siamo venuti a fare lo stesso colloquio di lavoro. Così per curiosità, durante il colloquio ho chiesto se avevano già assunto una puttana del villaggio. Il consiglio cittadino mi ha fissato in silenzio. Quelli della commissione assunzioni, quei sei vecchietti, portano tutti la finta parrucca coloniale anche quando nessuno li vede. Scrivono tutto con le penne, proprio penne d'uccello, intinte nell'inchiostro. Quello in mezzo, il governatore coloniale, sospira. Piega leggermente la testa all'indietro per potermi osservare attraverso gli occhiali con la montatura di metallo. «A Colonial Dunsboro» dice, «non abbiamo una puttana del villaggio.» Al che io gli faccio: «Nemmeno uno scemo del villaggio?». Il governatore scuote la testa, no. «Un tagliaborse?» «No.» «Un boia?» Certo che no. E questo il problema peggiore dei musei storici viventi. Tralasciano sempre le parti migliori. Come il tifo. E l'oppio. E le lettere scarlatte. Le messe al bando. I roghi di streghe. «Come le hanno già spiegato» dice il governatore, «il suo comportamento e il suo aspetto devono coincidere in tutto e per tutto con il nostro periodo storico ufficiale.» Il mio lavoro è che devo essere una specie di servo a contratto irlandese. A sei dollari l'ora, è incredibilmente realistico. La prima settimana che ho lavorato qui, una ragazza si è fatta licenziare per aver canticchiato un pezzo degli Erasure mentre faceva il burro. Perché sì, effettivamente gli Erasure sono un pezzo da museo, ma non abbastanza. Anche roba preistorica come i Beach Boys ti può mettere nei guai. Come se per loro quelle stupide parrucche incipriate, le braghe corte e le scarpe con la fibbia non fossero neppure lontanamente rétro. Sua Eccellenza proibisce i tatuaggi. Quando lavori, gli anellini da naso devono rimanere nell'armadietto. Non puoi masticare chewing-gum. Non puoi fischiettare canzoni dei Beatles. «Qualsiasi trasgressione al personaggio» dice, «comporta una punizione.» Punizione? «Il licenziamento» dice. «Oppure due ore di gogna.» Gogna? «In mezzo alla piazza del villaggio.» Sta parlando di bondage. Di sadismo. Di giochetti padrone/schiavo e di umiliazione in pubblico. Lui per primo, il governatore, ti fa indossare calzamaglie con le baghette e calzoni di lana al ginocchio aderentissimi, senza mutande, e secondo lui questo è quel che si dice realistico. Uno che sbatte le donne alla gogna solo perché si sono messe lo smalto sulle unghie. O quello, oppure il licenziamento in tronco, senza assegni di disoccupazione, niente. E con in più una nota negativa sulle referenze. E una, cosa è certa: a nessuno va che sul proprio curriculum ci sia scritto che ha fatto il cazzo di candelaio. Essendo due venticinquenni, per di più celibi, nel diciottesimo secolo le nostre opzioni erano abbastanza limitate. Valletto. Apprendista a bottega. Becchino. Bottaio, qualsiasi cosa significhi. Maniscalco, qualsiasi cosa significhi. Spazzacamino. Contadino. Appena gli hanno detto banditore, Denny ha risposto: «Sì, ok, questo posso farlo. Da bambino giocavo sempre ai banditi». Sua Eccellenza guarda Denny e gli dice: «Gli occhiali devi portarli per forza?». «Solo per vederci» dice Denny. Ho accettato il lavoro giusto perché nella vita c'è di peggio che lavorare col tuo migliore amico. Migliore amico per modo di dire. E nonostante tutto uno si aspetterebbe una cosa più divertente, un lavoro divertente con un branco di macchiette da corso di recitazione, da teatrino di quartiere. Non questa massa di schiavi ultrareazionari. Non questi puritani ipocriti. Se solo il buon vecchio consiglio cittadino sapesse che la signora Plain, la sarta, ha un debole per la siringa. Che il mugnaio si


cucina le metamfetamine da solo. Che il locandiere spaccia acidi alle scolaresche di adolescenti annoiati che gli insegnanti trascinano qui in gita. Questi ragazzini siedono rapiti a fissare la signora Halloway che carda e fila la lana, e che mentre lavora li istruisce sulle tecniche di riproduzione delle pecore e mangia tortini all'hashish. Questa gente, il vasaio sotto metadone, il tizio che soffia il vetro e va avanti a Percodan e l'argentiere che ingurgita Vicodin come fossero caramelle, hanno trovato la loro nicchia. Lo stalliere con le cuffie nascoste sotto il cappello a tricorno, strafatto di Special K e scosso dai sussulti del suo rave personale, tutta questa gente altro non è che un branco di relitti fricchettoni che si riempiono la bocca di stronzate sui benefici della campagna, ma ad ogni modo affari loro, questo è solo il mio punto di vista. Persino Reldon il contadino ha il suo bel fazzoletto di terra in cui coltiva erba di prima scelta, dietro il mais e i fagioli e tutto il resto. Solo che lui la chiama canapa. L'unica cosa divertente di Colonial Dunsboro è che è fin troppo realistica, ma per tutte le ragioni sbagliate. Questa massa di sfigati e balordi che viene a nascondersi qui perché nel mondo reale, con dei lavori reali, non ce la fa: in fin dei conti non è que sto il motivo per cui tanto tempo fa ce ne siamo andati dall'Inghilterra? Per creare la nostra realtà alternativa. I Padri Pellegrini non erano un po' gli scoppiati della loro epoca? Certo, a differenza di loro, che volevano semplicemente credere in una versione diversa dell'amore di Dio, gli sfigati con cui lavoro io cercano la salvezza attraverso comportamenti compulsivi. O attraverso giochetti di potere e umiliazione. Prendete Sua Eccellenza Lord Charlie, laggiù dietro le tendine di pizzo, un generale da operetta fallito. In questo posto è lui la legge, è lui che tiene d'occhio tutti quelli che finiscono alla gogna, trascinandosi dietro il suo cagnolino con la mano infilata in un guanto bianco. Questo sui libri di storia non c'è scritto, ma in epoca coloniale chi veniva messo alla gogna e ci passava la notte era un gioco da baraccone bello e buono, alla mercé di tutti. Chiunque ci finiva, uomo o donna che fosse, non poteva vedere in faccia quelli che andavano lì e glielo sbattevano nel culo, ed era quello il vero motivo per cui facevi di tutto per starne alla larga, a meno di non avere un parente o un amico disposto a starti accanto tutto il tempo. Per proteggerti. Per pararti il culo, letteralmente. «Amico» dice Denny. «Mi sono di nuovo scesi i pantaloni.» E io glieli tiro su. La pioggia gli inzuppa la camicia e gliela appiccica sulla schiena scheletrica, facendo trasparire le ossa delle spalle e la linea della spina dorsale, più bianche del cotone non candeggiato. Il fango gli sommerge gli zoccoli di legno e ci si riversa dentro. Anche se in testa ho il cappello, la giacca mi si sta inzuppando lo stesso, e l'umidità comincia a farmi prudere i gioielli di famiglia imballati nel cavallo delle braghe di lana. Persino le galline deformi sono corse chiocciando a cercarsi un posto asciutto. «Amico» dice Denny, e tira su col naso. «Davvero, non devi per forza stare qui.» Per quel poco che mi ricordo di diagnostica, il pallore di Denny potrebbe voler dire Tumore al fegato. Vedi anche: Leucemia. Vedi anche: Edema polmonare. Si mette a piovere più forte, da nuvole così scure che nelle case la gente comincia ad accendere le lampade. Il fumo dei camini scende su di noi. I turisti saranno tutti nelle taverne a bersi birra australiana in tazze di peltro made in Indonesia. Nella bottega del falegname, lo stipettaio starà sniffando colla da un sacchetto di carta insieme al fabbro e alla levatrice, e quest'ultima starà blaterando di quando canterà nella band che sognano di mettere su ma che non metteranno su mai. Siamo tutti in trappola. È il 1734, da sempre e per sempre. Siamo tutti rinchiusi nella stessa capsula temporale, come in quei telefilm dove le stesse persone restano naufraghe sulla stessa isola per trenta stagioni televisive, senza mai invecchiare né fuggire. Solo il trucco diventa più pesante. È inquietante, ma in un certo senso quei telefilm sono fin troppo realistici. E inquietante, ma in un certo senso io qui mi ci vedo per il resto dei miei giorni. Come prospettiva è rassicurante, io e Denny che ci lamentiamo delle stesse stronzate, per sempre. In via di disintossicazione, per sempre. È vero, io resto qui a fargli la guardia, ma volendo dirla tutta preferisco di gran lunga vedere Denny alla gogna che permettergli di farsi cacciare, mollandomi qui. Più che un buon amico direi che sono il dottore a cui piace sistemarti la schiena ogni settimana. O il pusher che ti vende l'eroina. "Parassita" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. La parrucca di Denny si spiaccica al suolo, un'altra volta. La parola "fanculo" si spande rossa sotto la pioggia, scorre giù rosa dietro le orecchie blu dal freddo, si disfa in rivoli rosa intorno agli occhi e sulle guance, gocciola rosa nel fango. Si sente solo la pioggia, acqua che cade su pozzanghere, su tetti di paglia, su di noi, erosione. Più che un buon amico direi che sono il tuo salvatore che vuole essere adorato in eterno. Denny starnutisce, una lunga matassa di moccio giallastro gli schizza fuori dal naso a zigzag e atterra sulla parrucca immersa nel fango, poi dice: «Non me la rimettere più quella parrucca schifosa, ok?». E tira sul col naso. Poi tossisce, e gli occhiali gli cadono nello schifo. Abbondanza di secrezioni nasali vuol dire Rosolia. Vedi anche: Pertosse. Vedi anche: Polmonite. I suoi occhiali mi fanno pensare alla dottoressa Marshall, e gli racconto che c'è questa ragazza nuova nella mia vita, una dottoressa vera e che, poco ma sicuro, merita un tentativo. E Denny dice: «Sei ancora alla fase quattro? Ti serve una mano per ricordare le cose da scrivere nel quaderno?». La storia completa e inesorabile della mia dipendenza sessuale. Ah, già. Tutti i momenti più goffi e squallidi. E io gli dico: «Le cose vanno fatte poco alla volta, bello. Anche la disintossicazione». Più che un buon amico direi che sono il genitore che in realtà non vuole che tu cresca. E a faccia in giù Denny dice: «Serve un sacco, ricordare le prime volte di tutto». Dice: «La prima volta che mi sono fatto un sega ho pensato che avevo inventato qualcosa di nuovo. Mi sono guardato la mano piena di sborra e ho pensato: Con questa roba ci divento ricco».


Le prime volte. L'inventario incompleto dei miei delitti. L'ennesima cosa incompleta in una vita fatta di incompletezze. E sempre a faccia in giù, senza vedere altro che il fango Denny dice: «Ci sei ancora, bello?». E io gli rimetto lo straccio contro il naso e gli dico: «Soffia»


CAPITOLO 5 Qualunque luce abbia usato il fotografo era una luce fredda, e proiettava brutte ombre contro il muro di cemento alle loro spalle. Un muro imbiancato qualsiasi nella cantina di chissà chi. La scimmia aveva l'aria stanca e una serie di chiazze di pelle spelate dalla rogna. L'uomo era in pessima forma, pallido e con i rotolini di ciccia intorno alla vita, eppure se ne stava lì, rilassato e piegato a novanta, con le mani puntate sulle ginocchia e la grossa pancia a penzoloni, la faccia rivolta all'indietro verso l'obbiettivo e un sorriso a trentasei denti. "Beato" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. All'inizio il lato della pornografia che più aveva colpito il ragazzino non era stato quello sessuale. Non le foto di gente bella che scopava, con la testa buttata all'indietro e in faccia quelle smorfie da orgasmo simulato. All'inizio no. Le foto su Internet le aveva trovate quando ancora il sesso nemmeno sapeva cos'era. Internet c'era in tutte le biblioteche. In tutte le scuole. Come quando ci si sposta da una città all'altra e si trova sempre una chiesa cattolica, la stessa messa celebrata dappertutto: in qualsiasi famiglia adottiva lo spedissero, il ragazzino trovava sempre Internet. La verità era che se sulla croce Cristo fosse scoppiato a ridere, o avesse sputato in testa ai romani, se avesse fatto una cosa qualsiasi oltre a soffrire, al ragazzino la chiesa sarebbe piaciuta molto di più. In realtà, nel suo sito preferito di eccitante non c'era un granché, almeno non per lui. Quando ti ci collegavi non trovavi altro che una dozzina di foto di questo omino tracagnotto vestito da Tarzan, con un buffo orangutan addestrato a infilargli quelle che sembravano caldarroste su per il culo. L'uomo ha il perizoma leopardato spostato da una parte, l'elastico affondato nella vita grassoccia. La scimmia è accovacciata accanto a lui, pronta con la castagna successiva. Non c'è niente di eccitante. Eppure il contatore diceva che quel sito era stato visitato da più di mezzo milione di persone. "Pellegrinaggio" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. La scimmia e le castagne non erano roba che il ragazzino potesse capire, ma in un certo senso lui quel tizio lo ammirava. Il ragazzino era stupido, però capiva che quella era una faccenda più grande di lui. La verità è che la maggior parte delle persone da una scimmia non si farebbero nemmeno vedere nude. Avrebbero paura di scoprire che in foto il loro buco del culo risulta arrossato, magari gonfio. Quasi nessuno avrebbe il coraggio di mettersi culo all'aria davanti a una scimmia, figuriamoci davanti a una scimmia e a una macchina fotografica e alle luci, e anche se fosse, prima correrebbe a farsi un miliardo di addominali e una lampada e un nuovo taglio di capelli. Dopodiché passerebbe ore col culo per aria davanti a uno specchio, cercando di capire qual è il profilo migliore. E poi, anche se sono solo castagne, bisogna comunque stare un minimo rilassati. Il solo pensiero dei provini per scegliere la scimmia dava i brividi, l'eventualità di essere scartato da una scimmia dopo l'altra. Certo, pagando abbastanza, di gente disposta a infilarti della roba dentro o a fotografarti ne trovi. Ma una scimmia. Una scimmia mica finge. L'unica speranza sarebbe quella di beccare lo stesso orangutan delle foto, che chiaramente non andava tanto per il sottile. O forse era solo ben addestrato. Il punto è che tutto ciò non avrebbe senso se uno fosse bellissimo e sexy. Il punto è: in un mondo dove bisogna essere belli a tutti i costi, quel tizio non lo era. La scimmia non lo era. Quello che stavano facendo non lo era. Il punto è che non era stato l'elemento sessuale, o quello pornografico, a colpire lo stupido ragazzino. Era stata la sicurezza di sé. Il coraggio. L'assoluta mancanza di pudore. La disinvoltura e la genuina schiettezza. La faccia di starsene lì così e dire al mondo intero: Ebbene sì, ecco come ho deciso di impegnare uno dei miei pomeriggi liberi. Facendomi fotografare con una scimmia che mi infila delle castagne su per il culo. E chi se ne frega di come vengo in foto. O di quello che pensate voi. Fatevene una ragione. Aggredendo se stesso, quel tizio aveva aggredito il mondo intero. E anche se per lui l'esperienza non era stata proprio piacevolissima, la capacità di sorridere, di dissimulare, lo rendevano ancor più ammirevole. Proprio come nei film porno, dove c'è sempre un mucchio di gente che se ne sta fuori campo a fare la maglia, a mangiare panini, a guardare l'orologio, mentre a pochi metri di distanza ci sono persone nude che fanno sesso... Per lo stupido ragazzino fu un'illuminazione. Essere così disinvolti e così sicuri di sé sarebbe stato il Nirvana. "Libertà" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. Era quello il genere di orgoglio e di sicurezza che il ragazzino avrebbe voluto possedere. Un giorno. Se in quelle foto con la scimmia ci fosse stato lui, avrebbe potuto riguardarsele tutti i giorni e pensare: Se sono riuscito a fare questo, allora posso fare tutto. Qualsiasi cosa ti fosse capitato, se eri riuscito a sorridere, a ridere, mentre una scimmia ti scopava a colpi di castagne in una cantina umida e qualcun altro scattava foto, be', qualsiasi altra situazione sarebbe stata una passeggiata. Persino l'inferno. Per lo stupido ragazzino il succo del discorso stava diventando quello, ogni giorno di più... Che se un numero sufficiente di persone ti avessero guardato non avresti mai più avuto bisogno dell'attenzione di nessuno. Che se un giorno ti avessero smascherato, denudato e sbugiardato abbastanza non saresti mai più riuscito a nasconderti. Non ci sarebbe più stata alcuna differenza tra la tua vita privata e quella pubblica. Che se fossi riuscito a possedere abbastanza, a realizzare abbastanza, non avresti mai più desiderato possedere né fare nient'altro.


Che se avessi mangiato o dormito abbastanza, non ne avresti mai più avuto bisogno. Che se un numero sufficiente di persone ti avessero amato, non avresti più avuto bisogno d'amore. Che potevi essere intelligente abbastanza. Che un giorno avresti fatto abbastanza sesso. Divennero questi i nuovi obiettivi del ragazzino. Le illusioni che lo avrebbe nutrito per il resto della sua vita. Furono queste le promesse che intravide nel sorriso del ciccione. E da allora, ogni volta che ha avuto paura, ogni volta che si è sentito triste o solo, ogni volta che il panico l'ha svegliato nel cuore della notte in una nuova casa adottiva, con il cuore che batteva all'impazzata, il letto bagnato, ogni primo giorno di scuola in un nuovo quartiere, ogni volta che la Mamma è venuta a riprenderselo, in ogni umida stanza di motel, in ogni macchina noleggiata, il ragazzino è tornato con la mente a quelle dodici foto del ciccione col culo per aria. Alla scimmia e alle castagne. E ogni volta quel pensiero lo ha calmato, il pezzettino di merda. Gli ha ricordato quanto si può diventare coraggiosi e forti e felici. Che la tortura è vera tortura e l'umiliazione vera umiliazione soltanto quando si sceglie di soffrire. "Salvatore" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. Ed è buffo come, quando qualcuno ti salva, la prima cosa che ti viene voglia di fare è salvare qualcuno a tua volta. Salvare gli altri. Tutti quanti. Il ragazzino non ha mai saputo come si chiamasse quell'uomo. Ma il suo sorriso non l'ha mai dimenticato. "Eroe" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.


CAPITOLO 6 Alla visita successiva, per mia madre sono ancora Fred Hastings, il suo ex avvocato difensore, e mi attacca un bottone che dura tutto il pomeriggio. Finché non le dico che sono ancora scapolo, e lei risponde che è un vero peccato. Poi accende la televisione e si mette a guardare una soap opera, avete presente, no? Gente vera che interpreta gente finta e con problemi inventati, a uso e consumo di gente vera che le guarda per dimenticare problemi veri. La volta dopo sono sempre Fred, però sposato e con tre figli. Va già meglio, anche se tre figli... Sono un po' troppi. Bisognerebbe fermarsi a due, dice. La volta dopo, di figli ne ho due. Ogni volta, sotto la coperta, di lei resta sempre meno. Per altri versi, anche del Victor Mancini seduto sulla sedia accanto al suo letto resta sempre meno. Il giorno dopo sono di nuovo io, e infatti nel giro di pochi minuti mia madre suona il campanello per chiamare l'infermiera e farmi riaccompagnare all'uscita. Ce ne stiamo lì seduti senza parlare, finché a un certo punto io non mi alzo e prendo la giacca, e a quel punto lei dice: «Victor?». Dice: «Devo dirti una cosa». Si rigira una pallina di pelucchi tra le dita, riducendola e compattandola sempre di più, e quando infine alza gli occhi verso di me dice: «È venuto a trovarmi Fred Hastings. Te lo ricordi Fred, vero?». Sì che me lo ricordo. Adesso è sposato e ha due splendidi bambini. Mi ha fatto davvero piacere, dice mia mamma, sapere che la vita sorride a una così brava persona. «Gli ho detto di comprare terreni» dice mia mamma. «L'unica merce che quelli non producono più.» Le chiedo chi intende quando dice "quelli" e lei preme di nuovo il campanello dell'infermiera. Uscendo, ad attendermi nel corridoio trovo la dottoressa Marshall, in piedi fuori dalla porta, intenta a sfogliare gli appunti nella cartelletta. Alza lo sguardo, dietro gli occhiali spessi gli occhi sono due puntini lucenti. Con la mano libera fa scattare in continuazione il pulsante di una biro, velocissimo. «Signor Mancini?» dice. Ripiega gli occhiali e se li infila nel taschino del camice e dice: «E importante che discutiamo il caso di sua madre». Il tubo per lo stomaco. «Lei mi aveva chiesto se esistono altre soluzioni» dice. Dalla sala infermiere in fondo al corridoio tre turniste ci os servano, con le teste vicine tra loro. Una di loro, Dina, chiede: «Dobbiamo venire a reggervi la candela?». E la dottoressa Marshall dice: «Fatevi gli affari vostri, se non vi dispiace». Poi, a me, sussurra: «Qui nei momenti di calma il personale si comporta come se fosse ancora alla scuola infermiere». Dina me la sono fatta. Vedi anche: Clare, infermiera professionale. Vedi anche: Pearl, assistente infermiera. La magia del sesso sta nella conquista sgravata dal fardello dal possesso. Puoi portarti a casa tutte le donne che vuoi e non devi mai preoccuparti di dove metterle. Alla dottoressa Marshall, alle sue orecchie e alle sue mani nervose, dico: «Non voglio che venga nutrita a forza». Con le infermiere che ancora ci guardano, la dottoressa Marshall mi appoggia una mano dietro il braccio e mi allontana da loro, dicendo: «Ho chiacchierato un po' con sua madre. È una donna straordinaria. Le sue azioni politiche. Tutti quei gesti di protesta. Deve volerle un gran bene». E io le dico: «Un gran bene mi sembra davvero un parolone». Ci fermiamo, e la dottoressa Marshall mi bisbiglia qualcosa, e così io devo avvicinarmi. Un po' troppo. Le infermiere sono sempre lì che guardano. E respirando contro il mio petto, lei mi dice: «E se potessimo ripristinare al cento per cento la mente di sua madre?». Facendo scattare il pulsante della biro mi dice: «Se le dicessi che potremmo farla tornare la donna intelligente, forte e vivace di una volta?». Mia madre, com'era una volta. «La possibilità esiste» dice la dottoressa Marshall. E senza pensare a come possano suonare le mie parole io dico: «Dio ce ne scampi». Poi, velocissimo, aggiungo che forse come idea non è così strepitosa. E in fondo al corridoio le infermiere se la ridono, coprendosi la bocca con le mani. E persino da quella distanza si sente Dina che dice: «Gli starebbe solo bene». La volta dopo sono ancora Fred Hastings, ed entrambi i miei figli vanno benissimo a scuola. Quella settimana lì, la signora Hastings sta ridipingendo la sala da pranzo di verde. «Blu sarebbe meglio» dice mia mamma, «per una stanza dove si mette la roba da mangiare.» Da quel momento in poi, la sala da pranzo diventa blu. Abitiamo su East Pine Street. Siamo cattolici. I nostri risparmi sono su un conto alla City First Federal. Guidiamo una Chrysler. Tutto su consiglio di mia mamma. La settimana dopo comincio a scrivermi tutto quanto, i dettagli, per non dimenticarmi chi devo essere da una settimana all'altra. Noi Hastings andiamo sempre in vacanza al Robson Lake, scrivo. Peschiamo trote arcobaleno. Tifiamo per i Packers.


Non mangiamo ostriche. Stiamo acquistando terreni. Ogni sabato, prima di andare a trovare mia mamma, mi siedo nella sala ricreazione a ripassare gli appunti, mentre l'infermiera va a vedere se è sveglia. Appena entro nella sua stanza e mi presento come Fred Hastings, lei punta il telecomando verso il televisore e lo spegne. Come siepe il bosso va bene, mi spiega, ma il ligustro sarebbe meglio. E io me lo scrivo. La gente che conta beve scotch, dice. Le grondaie vanno pulite a ottobre, e poi di nuovo a novembre, dice. Se avvolgi i filtri dell'aria della macchina nella carta igienica ti durano di più. I sempreverdi vanno potati solo dopo la prima gelata. E non c'è legna da ardere migliore del frassino. Io scrivo tutto quanto. Catalogo quel che resta di lei, le macchioline, le rughe, la pelle tumefatta o svuotata, le screpolature, gli sfoghi, e mi faccio dei promemoria. Mettiti la crema solare, tutti i giorni. Tingiti i capelli grigi. Non impazzire. Riduci i grassi e gli zuccheri. Fai più addominali. Non cominciare a dimenticarti le cose. Accorciati i peli del naso. Prendi del calcio. Mantieniti idratato. Tutti i giorni. Ferma il tempo e rimani per sempre nello stesso posto. Non invecchiare, mai. Lei dice: «Per caso ha notizie di mio figlio Victor? Se lo ricorda?». Mi blocco. Sento una fitta al cuore, ma è una sensazione di cui non ricordo più il significato. Victor, dice mia mamma, non viene mai a trovarmi, e quando lo fa non mi sta ad ascoltare. Victor ha sempre da fare ed è distratto e di me se ne frega. Ha abbandonato gli studi di medicina e sta mandando la sua vita a quel paese. Stacca i pelucchi dalla coperta. «Lavora come guida turistica o roba del genere e lo pagano una miseria» dice. Fa un sospiro, poi le sue tremende mani gialle trovano il telecomando. Non era Victor che si occupava di lei?, le chiedo. Non aveva forse il diritto di farsi la sua vita? Le dico, forse Victor ha tanto da fare perché ogni sera letteralmente si ammazza per pagarle le cure. Ovvero tremila dollari al mese solo per andare in pari. Forse è per quello che Victor ha abbandonato gli studi. Le dico, giusto come ipotesi, che forse Victor sta facendo tutto quel cazzo che può. Le dico che forse Victor fa molto più di quanto la gente non creda. E mia mamma sorride e dice: «Fred, Fred. Sempre a difendere le cause perse». Poi accende la televisione, e una donna bellissima con un vestito da sera luccicante colpisce un'altra ragazza bellissima sulla testa con una bottiglia. La bottiglia non le rovina la messa in piega, ma le provoca un'amnesia. Forse anche Victor sta lottando con i suoi problemi, le dico. La donna bellissima fa il lavaggio del cervello a quella con l'amnesia, convincendola a credersi un robot assassino asservito al volere della donna bellissima. Il robot assassino accetta la sua nuova identità con tanta disinvoltura che viene da chiedersi se non stia solo simulando l'amnesia e non covasse da sempre il desiderio di andarsene in giro a sterminare la gente. Mentre parlo con mia mamma, mentre ce ne stiamo lì seduti a guardare la televisione, sento sgorgare la rabbia e il risentimento. Mia madre mi serviva le uova strapazzate coperte di scaglie scure, briciole del rivestimento antiaderente della padella. Cucinava sempre in pentole d'alluminio e bevevamo aranciata da tazze di alluminio pressato, masticandone i bordi deformabili. Usavamo deodoranti per le ascelle fatti con i sali d'alluminio. Una cosa è certa: di modi per spiegare come siamo riusciti ad arrivare a questo punto ce ne sono un miliardo. Durante una pubblicità, mia mamma mi chiede di dirle anche una sola cosa buona sulla vita privata di Victor. Cosa faceva per divertirsi? Dove si immaginava di essere di qui a un anno? Di qui a un mese? Di qui a una settimana? Ora come ora, non ne ho idea. «E poi che significa» dice, «che Victor si ammazza ogni sera?»


CAPITOLO 7 Appena il cameriere se ne va, infilzo con la forchetta metà della mia lombatina e faccio per ficcarmela in bocca intera, e Denny mi dice: «No, dai». Dice: «Qui no». Intorno a noi, tutti mangiano nei loro vestiti eleganti. Con le candele e i cristalli. Con le varie forchette per i diversi piatti. Nessuno sospetta niente. Mi si spaccano le labbra, mentre cerco di farmi entrare in bocca il pezzo di bistecca, la carne salata e sugosa e unta e coperta di pepe macinato. La lingua scivola indietro per farle spazio, e in bocca la saliva aumenta. Sughetto caldo e saliva mi si riversano sul mento. Chi dice che la carne rossa ti ammazza non sa quanto può aver ragione. Denny si dà una rapida occhiata intorno e dice, tra i denti dice: «Dai, stai diventando avido». Scuote la testa e dice: «Non puoi costringere la gente ad amarti con l'inganno». Accanto a noi, marito e moglie con le fedi al dito e i capelli grigi mangiano senza alzare gli occhi dal piatto, tutt'e due con la testa china in avanti, intenti a leggere due programmi dello stesso spettacolo teatrale o concerto. Quando il vino nel bicchiere della donna finisce, lei allunga il braccio, prende la bottiglia e se lo riempie. Non riempie quello del marito. Lui porta al polso un grosso orologio d'oro. Denny vede che sto guardando la vecchia coppia e dice: «Guarda che mi alzo e glielo dico. Giuro». Controlla se in giro ci sono camerieri che potrebbero riconoscerci. Mi guarda in cagnesco, con i denti sotto che sporgono. Il pezzo di bistecca è così grosso che non riesco a chiudere le mascelle. Ho le guance gonfie. Le labbra mi si increspano cercando di sfiorarsi e mentre cerco di masticare devo respirare dal naso. I due camerieri in giacca nera, ciascuno con una salvietta ben ripiegata sul braccio. Il suono del violino. L'argenteria e le porcellane. Non è il genere di posto dove di solito facciamo queste cose, ma siamo un po' a corto di ristoranti. Il fatto è che una città più di un tot di ristoranti non può avere, e il nostro show non è di quelli che si possono ripetere due volte nello stesso posto. Bevo un goccio di vino. A un altro tavolo, un ragazzo e una ragazza mangiano tenendosi per mano. Forse saranno loro, stasera. A un altro tavolo ancora, un uomo in giacca e cravatta mangia con lo sguardo perso nel vuoto. Forse sarà lui l'eroe della serata. Bevo un po' di vino e tento di deglutire, ma la bistecca è davvero troppo grossa. Se ne sta lì, ferma, in fondo alla gola. Non respiro più. Un attimo dopo tendo le gambe di scatto, così forte che la sedia si ribalta. Le mani mi si aggrappano alla gola. Balzo in piedi fissando il soffitto imbiancato e con la bocca spalancata, gli occhi rovesciati all'indietro. Il mento si protende in avanti, quasi mi si stacca dalla faccia. Denny allunga la forchetta per fregarmi i broccoli dal piatto e mi fa: «Dai, così è troppo plateale». Forse sarà l'aiuto cameriere diciottenne o forse il tipo coi pantaloni di velluto e il dolcevita, quel che è certo è che una di queste persone mi porterà in palmo di mano per il resto dei suoi giorni. La gente sta già scattando in piedi. Forse la donna con i fiorellini al polso. Forse l'uomo con il collo lungo e gli occhiali con la montatura di metallo. Questo mese ho già ricevuto tre biglietti d'auguri, e non siamo nemmeno al quindici. Il mese scorso ne ho ricevuti quattro. Due mesi fa, di biglietti d'auguri ne ho ricevuti sei. Molte di queste persone non me le ricordo. Amen. Loro però di me non si dimenticheranno mai. Ho smesso di respirare, e le vene del collo mi si gonfiano. La faccia mi diventa rossa, incandescente. Il sudore comincia a bagnarmi la fronte. A macchiarmi la camicia. Con le mani mi stringo forte il collo, il gesto universale di chi sta soffocando. Ancora oggi mi capita di ricevere biglietti da gente che non parla inglese. Per i primi istanti, tutti si guardano intorno aspettando che sia qualcun altro a farsi avanti, diventando l'eroe. Denny allunga la forchetta e mi frega l'altra metà della bistecca. Stringendomi le mani alla gola incespico verso di lui e gli rifilo un calcio nello stinco. Con le mani mi strattono la cravatta. Strappo il bottone del colletto. E Denny dice: «Cazzo, mi hai fatto male». L'aiuto cameriere indugia. Oggi non è in vena di atti eroici. Il violinista e il sommelier sono testa a testa, vengono verso di me. Da un altro punto della sala, una donna con un vestitino nero si fa largo tra la folla. Per venirmi a salvare. Dalla parte opposta, un uomo si leva la giacca dello smoking e parte alla carica. Da un altro punto ancora, una donna caccia uno strillo. Non ci vuole mai molto. L'evento dura in tutto uno, due minuti al massimo. Il che va più che bene, perché non si può stare in apnea con la bocca piena più di tanto. Potendo, sceglierei il vecchio con il grosso orologio d'oro, qualcuno che oltre a salvarmi la pelle paghi anche il conto. La scelta istintiva sarebbe il vestitino nero, perché ha due belle tette. E se anche la cena dovessimo pagarcela da soli, pazienza: per fare i soldi bisogna pur investire. Ficcandosi in bocca cibo a palate, Denny dice: «Perché lo fai dico io, è così infantile». Vado verso di lui e gli rifilo un altro calcio.


Lo faccio per movimentare un po' la vita alle persone. Lo faccio per creare degli eroi. Per mettere la gente alla prova. Tale madre, tale figlio. Lo faccio per fare soldi. Se uno ti salva la vita poi ti ama per sempre. È come quella antica usanza cinese per cui se qualcuno ti salva la vita sarà responsabile di te per sempre. Come se da quel momento in poi tu fossi suo figlio. Per il resto dei loro giorni queste persone mi scriveranno. Mi manderanno bigliettini per l'anniversario. Biglietti d'auguri. È triste vedere a quante persone viene la stessa idea. Ti telefoneranno. Per sapere se stai bene. Casomai avessi bisogno di un po' di conforto. O di soldi. E io i soldi non li spendo in squillo d'alto bordo. Tenere mia mamma alla casa di cura St. Anthony mi costa più o meno tremila dollari al mese. I buoni samaritani mi danno da vivere. E io do da vivere a lei. Semplice semplice. A fingerti debole acquisisci potere. E al tempo stesso fai sentire le persone più forti. Lasciandoti salvare, tu salvi loro. Devi solo mostrarti fragile e riconoscente. Perciò fai lo sfigato, sempre e comunque. La gente ha tanto bisogno di sentirsi superiore a qualcuno. Perciò fai il sottomesso, sempre e comunque. La gente ha bisogno di qualcuno a cui spedire un assegno a Natale. Perciò fai il povero, sempre e comunque. "Elemosina" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. Tu sei la prova del loro coraggio. La prova che sono stati de gli eroi. Il segno tangibile del loro successo. Lo faccio perché a tutti piacerebbe salvare una vita umana sotto gli occhi di altre cento persone. Con la punta affilata del suo coltello, Denny disegna sulla tovaglia bianca, disegna l'architettura della stanza, le cornici e i rivestimenti a pannelli, i frontoni incrinati che sovrastano le porte, il tutto mentre ancora sta masticando. Si porta direttamente il piatto alle labbra e con la forchetta si spala in bocca il cibo. Per praticare una tracheotomia, il punto esatto è la fossetta subito sotto il pomo d'Adamo e subito sopra la cartilagine cricoide. Con un coltello da carne bisogna eseguire un'incisione orizzontale di un centimetro e mezzo, pizzicarla tra i polpastrelli e quindi infilarvi un dito per aprirla. A quel punto bisogna inserire una "cannula tracheale"; una cannuccia da bibita o metà di una biro vanno benissimo. Se non posso diventare un grande dottore che salva centinaia di pazienti, almeno in questo modo sono un grande paziente che crea centinaia di potenziali dottori. Un uomo in smoking avanza rapido, schiva la gente che sta lì a guardare, si lancia verso di me con il suo bravo coltello da carne e la sua brava penna a sfera. Soffocando, diventi una leggenda sul loro conto che queste persone alimenteranno e ripeteranno fino alla fine dei loro giorni. Crederanno di averti dato la vita. Potresti addirittura essere la buona azione di una vita, il ricordo che in punto di morte giustifica un'intera esistenza. Perciò fai la vittima aggressiva, il grande perdente. Un professionista del fallimento. La gente è pronta a fare i salti mortali se solo la fate sentire onnipotente. E il martirio di San Me Stesso. Denny raschia la roba rimasta nel mio piatto facendola cadere nel suo, e continua a infilarsi cibo in bocca. Il sommelier mi ha raggiunto. Il vestitino nero è su di me. L'uomo con il grosso orologio d'oro resta a guardare. Di qui a un minuto, due braccia mi cingeranno da dietro. Uno sconosciuto mi stringerà forte, premendomi entrambi i pugni sotto la gabbia toracica e sibilandomi all'orecchio: «Forza». Sibilandoti all'orecchio: «Andrà tutto bene». Due braccia ti stringeranno, forse addirittura ti solleveranno da terra, e uno sconosciuto ti sussurrerà: «Respira, cazzo! Respira!». Qualcuno ti colpirà sulla schiena come fanno i dottori con i neonati, e dalla tua bocca volerà via il boccone di carne masticata. Un attimo dopo, entrambi vi accascerete sul pavimento. Tu attaccherai a singhiozzare, mentre qualcuno ti dirà che va tutto bene. Che sei vivo. Che ti ha salvato. Che per poco non morivi. Si terrà la tua testa appoggiata al petto e ti cullerà, dicendo: «State indietro. Fate spazio. Lo spettacolo è finito». Sei già suo figlio. Gli appartieni. Ti appoggerà un bicchiere d'acqua sulle labbra e dirà: «Ssshhh. Rilassati. Va tutto bene». Ssshhh. Da quel momento in poi, per anni quella persona ti telefonerà e ti scriverà. Riceverai bigliettini e forse assegni. Chiunque sia, quella persona ti amerà. Chiunque sia, sarà fiera di te. Anche se magari i tuoi veri genitori non lo sono. Questa persona sarà fiera di te perché tu l'hai fatta sentire fiera di se stessa. Berrai un sorso d'acqua e tossirai, in modo che l'eroe possa asciugarti il mento con un tovagliolo. Devi fare di tutto per cementare questo nuovo legame. Questa adozione. Ricordati di aggiungere dettagli. Imbratta di moccio i vestiti di questa persona, così potrà mettersi a ridere e perdonarti. Aggrappati al suo corpo, stringilo. Piangi davvero, così potrà asciugarti gli occhi. Piangere va bene, finché lo fai per finta. Solo, non ti risparmiare. Ricordati che quello sarà il più bell'aneddoto della sua vita. Importantissimo, a meno che tu non voglia ritrovarti una brutta cicatrice da tracheotomia, è ricominciare a respirare prima che qualcuno ti si avvicini con un coltello da carne, un coltellino da tasca, un taglierino. Altro dettaglio da tenere ben presente è che quando sparerai fuori il tuo boccone di poltiglia umidiccia, il tuo malloppetto maciullato di bava e carne morta, dovrai farlo guardando Denny dritto in faccia. Lui ha genitori e nonni, è pieno di zie e zii e cugini fin nel buco del culo, mille persone a cui tocca salvarlo qualsiasi stronzata combini. Ecco perché Denny non potrà mai


capirmi. Il resto della gente, le altre persone che sono nel ristorante, a volte si alzeranno in piedi e applaudiranno. Qualcuno piangerà di sollievo. Altri si riverseranno in massa fuori dalla cucina. Nel giro di qualche minuto cominceranno a raccontarsi l'episodio a vicenda. Tutti offriranno da bere all'eroe. Con gli occhi lucidi di spremuta d'occhi. Stringeranno la mano all'eroe. Gli daranno pacche sulle spalle. Per loro sarà come essere rinati, molto più che per te, e per anni quella persona ti spedirà un biglietto d'auguri lo stesso giorno dello stesso mese. Diventerà l'ennesimo membro della tua famiglia molto, molto allargata. E Denny farà no con la testa e chiederà la lista dei dolci. Ecco perché lo faccio. Perché pianto su tutto questo casino. Per dare lustro a un unico, coraggioso sconosciuto. Per salvare l'ennesima persona dalla noia. Non lo faccio solo per i soldi. Non lo faccio solo per l'adorazione. Anche se le due cose non guastano. È così facile. Non devi per forza essere bello, almeno non in superficie, eppure vinci lo stesso. Devi solo lasciarti andare, fare il debole e l'umiliato. Continuare per tutta la vita a ripetere: Scusa. Scusa. Scusa. Scusa. Scusa...


CAPITOLO 8 Eva mi insegue per il corridoio con le tasche piene di tacchino arrosto. Nelle sue scarpe ci sono polpette masticate. Il suo viso, il guazzabuglio simil-velluto stazzonato e incipriato della sua pelle, è un centinaio di rughe che convergono tutte verso la bocca, e lei mi corre appresso, dicendo: «Dico a te. Non scappare, sai?». Le sue mani, quell'intreccio di vene bitorzolute, spingono sulle ruote. Ingobbita nella sedia a rotelle, gravida della sua milza tumefatta, Eva mi insegue dicendo: «Tu mi hai fatto male». Dicendo: «Non puoi negarlo». Con indosso un bavaglio color cibo dice: «Mi hai fatto male, e io adesso lo dico a mia madre». Nel posto dove la tengono, mia mamma deve portare un braccialetto. Non un braccialetto da gioielleria, ma una spessa striscia di plastica sigillata termicamente intorno al polso, in modo che non se la possa togliere mai. Il braccialetto non si può tagliare. Non si può fondere con una sigaretta. La gente che sta qui queste tecniche le ha già sperimentate tutte. Indossando il braccialetto, quando giri per i corridoi senti le serrature chiudersi. Dentro la plastica c'è una banda magnetica o qualcosa di simile che manda un segnale. Un segnale che blocca le porte dell'ascensore impedendogli di aprirsi e di lasciarti salire. Che chiude a chiave più o meno tutte le porte appena ti ci avvicini a meno di un metro. Non puoi andartene dal piano a cui ti hanno assegnato. Non puoi uscire in strada. Puoi andare in giardino o in sala ricreazione o nella cappella o in sala pranzo, ma da nessun'altra parte. Se per caso riesci a oltrepassare una delle porte che danno verso l'esterno, puoi star certo che il braccialetto fa scattare un allarme. Questa è la St Anthony. I tappetini, le tende, i letti, qui è praticamente tutto ignifugo. Tutto a prova di macchia. In questo posto potresti fare qualsiasi cosa da qualsiasi parte, che tanto riuscirebbero a ripulire. La St Anthony è una cosiddetta casa di cura. Mi spiace raccontarvi tutto questo. Nel senso che così vi rovino la sorpresa. Presto vedrete tutto con i vostri occhi. Ammesso che anche voi viviate più a lungo del dovuto. O che semplicemente gettiate la spugna e usciate di testa in anticipo sulla tabella di marcia. Mia mamma, Eva, persino voi, alla fine tutti si beccano un braccialetto. La St. Anthony non è una topaia per pazzi. Quando ci entri non senti puzza di piscio. Non per tremila dollari al mese. Un secolo fa era un convento, e all'epoca le suore hanno piantato uno splendido roseto di quelli all'antica: splendido, cinto da muri e completamente a prova di evasione. In ogni angolo ci sono telecamere a circuito chiuso che ti fissano. Nell'istante stesso in cui varchi l'ingresso principale, comincia una lenta e paurosa processione di pazienti che avanzano nella tua direzione. Tutte le sedie a rotelle, tutti quelli con il bastone o con il deambulatore, appena vedono un visitatore si trascinano verso di lui. La signora Novak, alta e con lo sguardo torvo, è una spogliarellista. La donna nella stanza accanto a quella di mia madre è uno scoiattolo. Le spogliarelliste sono quelle che appena possono si tolgono i vestiti. Sono le pazienti che le infermiere vestono con abiti che sembrano completi camicia e pantaloni, ma che in realtà sono tute. Le camicie sono cucite alla vita dei pantaloni. I bottoni e le cerniere sono finti. L'unico modo per infilarsi o togliersi i vestiti è una lunga zip sulla schiena. Trattandosi di persone anziane con una capacità motoria limitata, le spogliarelliste, anche quelle cosiddette aggressive, sono tre volte in trappola. Nei vestiti, nel braccialetto e nella casa di cura. Uno scoiattolo è una persona che mastica il cibo ma che poi si dimentica il passo successivo. Dimentica come si fa a deglutire. Anziché deglutire, sputa i bocconi masticati nelle tasche dei vestiti. O nella borsetta. Può suonare buffo, ma quando ce l'hai davanti agli occhi lo è molto meno. La signora Novak è la compagna di stanza di mia mamma. Lo scoiattolo è Eva. Alla St. Anthony, il primo piano è riservato alle persone che dimenticano i nomi e se ne vanno in giro nude e si infilano il cibo nelle tasche, ma che a parte questo non presentano grossi danni. Ci sono anche alcune persone giovani, con il cervello bruciato dalle droghe o fulminato da traumi cranici devastanti. Queste persone camminano e parlano, ma dalla bocca gli esce soltanto un gran minestrone verbale, un flusso costante di parole disposte apparentemente a caso. «Persone e fichi in strada alla piccola alba cantando la corda del velo viola che non c'è più» ecco come parlano. Il secondo piano è per i pazienti costretti a letto. Il terzo piano è quello dove la gente va a morire. Mia mamma per il momento è al primo piano, ma nessuno ci resta in eterno. Come ha fatto Eva a finire qui: la gente porta i genitori anziani in un luogo pubblico e li molla lì senza documenti di identità. Tante vecchie Dorothy o Erma che non hanno la minima idea di chi sono o di dove si trovano. La gente pensa che il comune o lo stato o chiunque altro se li vada a raccogliere. Un po' come l'amministrazione fa con la spazzatura. Esattamente quello che succede quando abbandoni da qualche parte la tua vecchia auto staccando la targa e il bollo in modo che il comune la debba rimuovere. Senza scherzi, c'è chi lo chiama smaltimento nonne, e la St Anthony deve farsi carico di un certo numero di nonne e di ragazzine di strada bruciate dall'ecstasy e di barbone con tendenze suicide. Solo che qui non le chiamano barbone, così come non chiamano le ragazze di strada baby prostitute. A mio avviso qualcuno ha semplicemente accostato qui davanti e scaricato Eva dalla macchina, senza versare una lacrima. Più o meno quello che si fa con i cani che non imparano a farla fuori casa. Con Eva che continua a inseguirmi arrivo nella stanza di mia mamma, e lei non c'è. Al suo posto trovo il letto vuoto con una profonda impronta umida nel centro del materasso impregnato di urina. E l'ora della doccia, deduco. Un'infermiera ti accompagna giù per il corridoio in una grande stanza piastrellata dove ti lavano a colpi di idrante.


Qui alla St.. Anthony fanno vedere un vecchio film, Il giuoco del pigiama, tutti i venerdì sera, e ogni venerdì tutti i pazienti si accalcano a vederlo per la prima volta. Hanno il bingo, le attività manuali, la gente che gli porta i gattini e i cagnolini in visita. Hanno la dottoressa Paige Marshall. Dovunque si sia cacciata. Hanno bavaglini ignifughi che ti coprono dal collo alle caviglie, così uno non si dà fuoco mentre fuma. Hanno i poster di Norman Rockwell. Due volte la settimana viene una parrucchiera ad aggiustarti i capelli. Che si paga a parte. L'incontinenza si paga a parte. Il lavaggio a secco si paga a parte. Il monitoraggio costante delle urine si paga a parte. I sondini nasogastrici pure. Tutti i giorni danno lezioni su come allacciarsi le scarpe, come abbottonare un bottone, come chiudere un bottone a pressione. Su come allacciare una fibbia. Uno ti spiega il funzionamento del velcro. L'altro come chiuderti la patta. Ogni mattina ti dicono come ti chiami. Persone che sono amiche da sessant'anni fanno la reciproca conoscenza per l'ennesima volta.Ogni mattina. Sono dottoresse, avvocatesse, donne manager che, da un giorno all'altro, non sanno più far funzionare una cerniera. Il punto non è insegnargli a fare le cose, ma ridurre i danni. Tanto varrebbe tentare di ridipingere una casa in fiamme. Qui alla St. Anthony, martedì significa lombatina. Mercoledì significa pollo coi funghi. Giovedì equivale a dire spaghetti. Venerdì, pesce al forno. Sabato, carne. Domenica, tacchino arrosto. Ti danno dei puzzle con migliaia di pezzi per far passare il tempo. Non c'è un singolo materasso, in questo posto, su cui non siano già morte almeno una dozzina di persone. Eva ha spinto la sua sedia a rotelle fino all'ingresso della stanza di mia madre e adesso se ne sta lì, pallida e sfiorita, come una mummia a cui abbiano appena tolto le fasce e sistemato i capelli lerci. La sua testa riccioluta e azzurra ciondola su e giù, senza sosta, descrivendo piccoli, lenti cerchi da pugile. «Stammi lontano» dice Eva ogni volta che la guardo. «C'è la dottoressa Marshall, non puoi farmi male» dice. Finché non torna l'infermiera, me ne sto seduto sul bordo del letto di mia mamma, e aspetto. Mia mamma ha uno di quegli orologi in cui ogni ora è scandita dal canto di un uccello diverso. Preregistrato. All'una c'è il tordo. Alle sei, il rigogolo. A mezzogiorno c'è il fringuello. La cinciarella significa le otto. Il picchio, le undici. Non so se rendo l'idea. Il problema è che associare un uccello a un determinato momento della giornata può creare confusione. Specialmente per chi viene da fuori. Al posto di contare le ore diventi un birdwatcher. Ogni volta che senti il trillo soave del cardellino pensi: Già le dieci? Eva spinge di qualche centimetro la sedia dentro la stanza di mia mamma. «Mi hai fatto male» dice. «E io alla Mamma non l'ho mai detto.» Questi vecchi. Questi ruderi umani. Sono già le pettirosso e mezza, e io devo prendere l'autobus ed essere al lavoro per l'ora in cui canterà la ghiandaia. Eva pensa che io sia suo fratello maggiore, quello che se la spupazzava circa un secolo fa. La compagna di stanza di mia mamma, la signora Novak con le orrende tettone flosce e le orecchie penzolanti, pensa che sia quel bastardo del suo socio in affari che le ha soffiato il brevetto della sgranatrice per cotone o della penna stilografica o di qualcosa di simile. Qui io divento qualcosa per qualsiasi donna. «Tu mi hai fatto male» dice Eva, facendosi più vicina. «E io non l'ho mai dimenticato, nemmeno per un minuto.» Ogni volta che vado a trovare mia mamma uno di quegli acini d'uva passa, con tanto di sopracciglia a cespuglio e gli occhi spiritati, quando mi vede nel corridoio mi chiama Eichmann. Un'altra, una donna con un tubo trasparente pieno di piscio che le sbuca da sotto la vestaglia, mi accusa di averle rubato il cane e lo rivuole indietro. Quest'altra vecchia in sedia a rotelle, sprofondata in una montagna di golfini rosa, ogni volta che le passo davanti mi ringhia contro. «Ti ho visto» dice, e mi fissa con l'occhio appannato. «La notte dell'incendio ti ho visto, eri con loro!» È una partita persa. Tutti gli uomini che hanno attraversato la vita di Eva sono probabilmente stati suo fratello maggiore, in un modo o nell'altro. Che lei se ne renda conto o meno, ha passato la vita aspettando e aspettandosi che gli uomini se la spupazzassero. Sul serio, anche adesso, mummificata nella sua pelle raggrinzita, Eva è ancora una bimba di otto anni. In trappola. Come a Colonial Dunsboro, con la sua banda di relitti, anche alla St Anthony la gente è intrappolata nel passato. Io non faccio eccezione, e non illudetevi: nemmeno voi. In trappola come Denny alla gogna, Eva è bloccata all'inizio del suo sviluppo. «Tu» dice Eva, puntandomi contro un dito tremante. «Tu mi hai fatto bibi alla patatina.». Questi vecchi in trappola. «Certo, tu dicevi che era il nostro gioco» dice Eva ciondolando la testa, con la voce che intona una specie di cantilena. «Dicevi che era il nostro gioco segreto, però poi mi ficcavi dentro il tuo coso.» Agitandomi il ditino ossuto, scolpito, davanti all'inguine. Credetemi: solo a pensarci, al mio coso vien voglia di fuggire dalla stanza urlando. Il problema è che qui alla St. Anthony dovunque vai la musica è sempre la stessa. Una donna, l'ennesimo vecchio scheletro, è convinta di avermi prestato cinquecento dollari. Un'altra ancora, una vecchietta grassoccia, dice che sono il diavolo. «E mi hai fatto male» dice Eva. È dura venire qui e non sentirsi addosso le colpe di tutti i crimini della storia. Viene voglia di urlarglielo, a quelle vecchie facce sdentate. Ebbene sì, sono io che ho rapito il figlio di Charles Lindberg. Il Titanic, colpa mia. L'assassinio di Kennedy, come no, sempre io. Quel gran casino, la Seconda guerra mondiale, e quel marchingegno là, la bomba atomica, indovinate un po'? Farina del mio sacco. Il virus dell'Aids? Scusate tanto, ma anche quella è roba mia.


La tecnica giusta da adottare in un caso come quello di Eva è spostare la sua attenzione. Distrarla, parlando del pranzo o del tempo o di come le stanno bene i capelli. Il suo lasso d'attenzione dura quanto il tic di un orologio, e la si può instradare verso argomenti più gradevoli. Probabilmente è così che gli uomini hanno sempre reagito all'ostilità di Eva. Distraendola. Aspettando che le passasse. Evitando lo scontro. Scappando. Più o meno nello stesso modo in cui tutti quanti viviamo le nostre vite, guardando la televisione. Fumando merda. Prendendo medicinali a casaccio. Spostando la nostra attenzione. Masturbandoci. Rimuovendo. Con tutto il corpo proteso in avanti, Eva mi agita contro il ditino legnoso. E allora fanculo. Tanto è già a un passo dal titolo di Miss Morte. «Sì, Eva» le dico. «Io ti scopavo.» Dopodiché sbadiglio. «Eccome. Appena si presentava l'occasione te lo sbattevo dentro e mi svuotavo le palle.» Alcuni lo chiamano psicodramma. Ma la si potrebbe anche definire una tecnica di smaltimento nonne come tante altre. Il suo ditino ritorto si affloscia, dopodiché Eva si risistema tra i braccioli della sedia a rotelle. «Lo ammetti, finalmente» dice. «Cazzo se lo ammetto» le faccio. «Sorellina mia, a letto sei una vera bomba.» Il suo sguardo si perde su un punto vuoto del pavimento di linoleum, poi Eva dice: «Dopo tanti anni, lo ammette». È terapia basata sul gioco di ruolo, solo che Eva non sa che è tutto per finta. La sua testa continua a disegnare piccoli cerchi, ma gli occhi tornano a fissarmi. «E non mi chiedi scusa?» dice. Be', se Gesù è riuscito a morire per i miei peccati, immagino di potermene addossare anch'io un po' di quelli altrui. Prima o poi a tutti capita un'occasione per fare il capro espiatorio. Per prendersi la colpa. Il martirio di San Me Stesso. I peccati di ogni singolo uomo mai esistito che mi piombano dritti sulla schiena. «Eva» le dico. «Piccina, amoruccio santo, sorellina mia, luce dei miei occhi, ma certo che ti chiedo scusa. Sono stato un porco» le dico, e guardo l'orologio. «Ma tu eri talmente fica che non riuscivo a controllarmi.» Come se mi ci mancasse anche questo, oltre a tutto il resto. Eva resta lì a fissarmi con quei suoi occhi da ipertiroidea finché da uno dei due non scende un lacrimone che le solca la cipria sulla guancia raggrinzita. Alzo gli occhi al cielo e dico: «D'accordo, io ti avrò anche fatto male alla patatina, ma è successo ottanta stramaledetti anni fa, perciò adesso fattene una ragione. Cerca di andare avanti». A quel punto le sue mani orrende si sollevano, rinsecchite e coperte di vene come le radici di un albero, come carote avvizzite, e le coprono il viso. «Oh, Colin» dice da dietro le mani. «Oh, Colin.» Poi Eva toglie le mani, e il suo viso è inondato di spremuta d'occhi. «Oh, Colin» sussurra, «ti perdono.» E il viso scende verso il petto, sobbalza tra respiri mozzati e tirar su di naso, e le sue mani tremende alzano il lembo del bavaglio per asciugare gli occhi. Rimaniamo lì, seduti. Cristo, come vorrei avere un chewinggum. Il mio orologio segna mezzogiorno e trentacinque. Lei si asciuga gli occhi e tira su col naso e mi guarda a testa bassa. «Colin» dice. «Mi vuoi ancora bene?» Questi stramaledetti vecchi. Gesù santissimo. E se per caso ve lo state chiedendo, la risposta è no: non sono un mostro. E come in uno stramaledetto libro, giuro, io le rispondo: «Sì, Eva». Le dico: «Ma sì, certo, può darsi che ti voglia ancora bene». Eva allora comincia a singhiozzare, con la faccia penzoloni sul grembo e tutto il corpo che dondola. «Come sono felice» singhiozza, e le lacrime cadono a piombo, e dal naso le esce della roba grigia che gocciola dritta nei palmi aperti delle mani. Ripete: «Come sono felice» e non smette di piangere e si sente l'odore della lombatina masticata che da bravo scoiattolo si è infilata nelle scarpe, del pollo coi funghi masticato nella tasca del camice. E la dannata infermiera che deve riportare mia madre dalla doccia ancora non si vede, e io entro l'una devo tornare al lavoro nel diciottesimo secolo. Già così faccio fatica a ricordare il mio passato, per completare la fase quattro. In più adesso ci si è mescolato anche quello di queste persone. Oggi che avvocato difensore sono? Non me lo ricordo. Mi guardo le dita delle mani. Chiedo a Eva: «Che tu sappia, la dottoressa Marshall è nei paraggi?». Le chiedo: «Per caso sai se è sposata?». La verità su di me, su chi sono davvero, su mio padre e tutto il resto, se mia mamma la conosce allora è troppo schiacciata dalla colpa per raccontarmela. Chiedo a Eva: «Non è che puoi andare a piangere da un'altra parte?». E a quel punto è troppo tardi. La ghiandaia attacca a cantare. Ed Eva non vuole star zitta, piange e si dondola, col grembiule premuto in faccia, il braccialetto di plastica che sobbalza attorno a un polso, dice: «Ti perdono, Colin. Io ti perdono. Ti perdono. Oh, Colin, io ti...».


CAPITOLO 9 Fu un pomeriggio in cui il nostro stupido ragazzino e la sua madre adottiva si trovavano in un centro commerciale che sentirono l'annuncio. Era estate, e stavano facendo acquisti per l'inizio della scuola, l'anno in cui il ragazzino avrebbe fatto la quinta elementare. L'anno in cui per integrarti davvero dovevi portare le camicie a righe. Anni e anni fa. Quella era solo la prima delle sue madri adottive. Righe verticali, le stava dicendo, quando lo sentirono per la prima volta. L'annuncio: «Il dottor Paul Ward» disse a tutti la voce, «è atteso dalla moglie nel reparto cosmetici di Woolworth.» Fu la prima volta che la Mamma andò a riprenderselo. «Il dottor Ward è pregato di presentarsi nel reparto cosmetici di Woolworth.» Era il loro segnale segreto. E così il ragazzino mentì e disse che andava a cercare il gabinetto e invece andò al Woolworth, e lì, intenta ad aprire confezioni di tintura per capelli, c'era la Mamma. Aveva una grossa parrucca bionda che le faceva sembrare il viso troppo piccolo e odorava di sigarette. Apriva una confezione con le unghie e tirava fuori il flaconcino marrone di tintura. Ne apriva un'altra e tirava fuori il flaconcino anche da quella. Metteva un flaconcino nella confezione dell'altro e li riponeva sullo scaffale. Poi apriva un'altra confezione. «Questa qui è carina» disse la Mamma osservando la foto di una donna sorridente sulla confezione. Scambiò il flaconcino che c'era dentro con un altro. I flaconcini erano tutti di un vetro marrone scuro. Aprendo un'altra confezione disse: «Tu la trovi carina?». E il ragazzino è talmente stupido che risponde: «Chi?». «Lo sai chi» disse la Mamma. «Ed è pure giovane. Vi ho visti che guardavate i vestiti. Tu le tenevi la mano, perciò non dire balle.» E quel ragazzino era così stupido che non gli passò neppure per la mente che poteva scappare. Nemmeno alla lontana lo sfiorò il pensiero di quanto potessero essere precisi i termini della sua libertà condizionale o dell'ingiunzione a tenersi alla larga da lui che aveva ricevuto o del perché avesse passato gli ultimi tre mesi in prigione. E infilando flaconcini di biondo in confezioni di rosso e flaconcini di nero in confezioni di biondo, la Mamma disse: «Ma a te piace?». «Chi, la signora Jenkins?» disse lui. Senza richiudere le scatole alla perfezione, riponendole sullo scaffale un po' scombinate, sempre più in fretta, la Mamma disse: «Ti piace?». E manco fosse la cosa giusta da dire, il bamboccio rispose: «È soltanto una mamma adottiva». E senza guardare il ragazzino, continuando a fissare la donna sorridente sulla confezione che aveva in mano, la Mamma disse: «Ti ho chiesto se a te piace». Un carrello per la spesa si avvicinò sferragliando e una signora bionda passò accanto a loro e prese una confezione con su la foto di una bionda ma con dentro un flaconcino di un altro colore. La signora mise la confezione nel carrello e si allontanò. «Lei quando pensa a se stessa si vede bionda» disse la Mamma. «Quello che dobbiamo fare noi è scombussolare i piccoli paradigmi che la gente ha sulla propria identità.» La Mamma lo chiamava "Terrorismo cosmetico". Il ragazzino seguì con lo sguardo la signora finché non fu troppo distante per poterla salvare. «Tu hai già me» disse la Mamma. «Di' un po', questa mamma nuova com'è che la chiami?» Signora Jenkins. «E ti piace?» disse la Mamma, voltandosi a guardarlo per la prima volta. E il ragazzino si finse deciso e disse: «No?». «Le vuoi bene?» No.» «La detesti?» E quel vermiciattolo invertebrato disse: «Sì?». E la Mamma disse: «Fai bene». Si chinò a fissarlo negli occhi e disse: «Quanto la detesti la signora Jenkins?». E quella fighetta disse: «Tantissimo?». «Tantissimissimo» disse la Mamma. Gli tese la mano e aggiunse: «Bisogna che ci sbrighiamo. Abbiamo un treno che ci aspetta». Poi, guidandolo per le corsie, trascinandolo per quel braccino magro magro fuori dalle porte di vetro, verso la luce, la Mamma disse: «Tu sei mio. Ora e per sempre, non scordartelo mai». E tirandoselo appresso attraverso le porte disse: «E nel caso che un giorno la polizia o chiunque altro te lo chiedesse, ti racconterò tutte le cose brutte e sporche che questa cosiddetta madre adottiva ti faceva ogni volta che restavate da soli».


CAPITOLO 10 Dove vivo adesso, nella vecchia casa di mia mamma, passo in rassegna i suoi documenti, le pagelle del college, contratti, certificati, estratti conto. La settimana dopo sono il signor Benning, che l'ha difesa nel breve processo per rapimento dopo l'episodio dello scuolabus. La settimana dopo sono il difensore d'ufficio Thomas Welton, che le ha patteggiato una pena di sei mesi quando l'hanno accusata di aver aggredito gli animali dello zoo. Dopo di lui, sono l'avvocato specializzato in diritti civili che si è battuto al suo fianco nel processo per turbamento dell'ordine pubblico durante un balletto. Esiste il contrario del déja vu. Lo chiamano jamais vu. E quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare. «Victor come sta?» mi chiede la mamma alla visita successiva. Chiunque io sia. Qualunque avvocato difensore del giorno. Victor chi? mi verrebbe da chiederle. «Lasciamo stare» rispondo. Ti spezzerebbe il cuore. Le chiedo: «Com'era Victor da ragazzino? Cosa si aspettava dalla vita? Aveva qualche sogno nel cassetto?». Ora come ora, la mia vita sta prendendo una piega tale che mi sembra di recitare in una soap opera guardata dai protagonisti di una soap opera guardata da gente reale in un luogo imprecisato. Ogni volta che la vado a trovare perlustro i corridoi in cerca dell'ennesima occasione per parlare con la dottoressa con il piccolo cervello nero di capelli, le orecchie, gli occhiali. La dottoressa Paige Marshall, con quella cartelletta e quel suo modo di fare. Con il suo spaventoso sogno di tenere in vita mia madre per altri dieci o vent'anni. La dottoressa Paige Marshall, un'altra potenziale dose di anestetico sessuale. Vedi anche: Nico. Vedi anche: Tanya. Vedi anche: Leeza. Più vado avanti, più mi sembra di vivere facendo una pessima imitazione di me stesso. La mia vita ha senso quanto un koan zen. Uno scricciolo attacca a cinguettare, ma non capisco se è un uccello vero o se invece sono le quattro. «La mia memoria non è un granché» dice mia mamma. Si massaggia le tempie con il pollice e l'indice di una mano, e dice: «Continuo a pensare che dovrei raccontare a Victor la verità sul suo conto». Appoggiata alla montagna di cuscini dice: «Prima che sia troppo tardi. Forse Victor ha il diritto di sapere chi è veramente». «E allora glielo dica» le faccio. Le porto da mangiare, una scodella di budino al cioccolato, e cerco di infilarle il cucchiaino in bocca. «Posso chiamarlo, se vuole» dico. «A Victor ci vogliono due minuti per venire qui.» Il budino è marrone chiaro, e da sotto la pellicola fredda e scura emana un intenso profumo. «Oh, ma non posso farlo» dice lei. «Mi sento talmente in colpa che non riesco ad affrontarlo. Non ho la minima idea di come potrebbe reagire.» Dice: «Forse è meglio che Victor non lo scopra mai». «Allora lo dica a me» le faccio. «Si tolga questo peso» le dico, e prometto di non raccontare niente a Victor, a meno che non sia lei a darmi il via libera. Mi guarda e socchiude gli occhi, con la pelle che forma piccole borse intorno agli occhi. Con le rughe intorno alla bocca impiastricciate di cioccolato mi fa: «E chi me lo dice che posso fidarmi di lei? Non sono nemmeno sicura di sapere chi ho davanti». Io sorrido e le dico: «Ma certo che può fidarsi di me». E le ficco in bocca il cucchiaino. È meglio del sondino nasogastrico. Ok, lo ammetto, è più economico. Sposto il telecomando in un punto dove non può prenderlo e le dico: «Mandi giù». Le dico: «Deve darmi retta. Deve fidarsi». Dico: «Io sono lui. Sono il padre di Victor». E i suoi occhi lattiginosi sbucano fuori dalle orbite mentre il resto della faccia, le rughe e la pelle, sembra scivolare giù nella scollatura della camicia da notte. Con una delle sue tremende mani gialle mia mamma si fa il segno della croce, con la bocca spalancata, la mascella che pare scendere fino al petto. «Oh. Sei tu. Sei tornato» dice. «Signore santissimo. Benedetto signore» dice. «Ti prego, perdonami.»


CAPITOLO 11 Ci sono io che parlo con Denny mentre lo blocco di nuovo alla gogna, questa volta perché sul dorso della mano ha il timbro di una qualche discoteca, e gli dico: «Amico mio». Dico: «È pazzesco». Denny ha già le mani in posizione e aspetta che gliele blocchi. Stavolta la camicia se l'è infilata nei pantaloni per benino. Sa che bisogna flettere un pochino le ginocchia per scaricare la tensione dalla schiena. Si ricorda di fare un saltino in bagno prima di farsi rinchiudere. Il nostro Denny è diventato un vero esperto nel ricevere punizioni. Nella cara vecchia Colonial Dunsboro il masochismo è un requisito prezioso. Come in quasi tutti i lavori. Ieri alla St Anthony, gli dico, è stato come in quel film vecchissimo dove c'è un tizio con il suo ritratto, e il tizio passa la vita a divertirsi e campa fin quasi a cent'anni, senza nemmeno un capello bianco. Il ritratto invece diventa sempre più brutto e sfatto per il troppo alcol, e il naso praticamente gli si stacca per via della sifilide secondaria e dello scolo. Adesso gli ospiti della St Anthony sono lì che se la canticchiano beati, con gli occhi socchiusi. Tutti che sorridono, contenti come delle pasque. Tutti tranne me. Io sono il loro stupido ritratto. «Fammi i complimenti, bello» dice Denny. «Con tutto il tem po che passo qui alla gogna sono riuscito a farmi quattro settimane di astinenza. E credimi, sono le prime da quando avevo tredici anni.» La compagna di stanza di mia mamma, gli dico, la signora Novak, ora e lì che gongola soddisfatta, dopo che ho confessato di averle rubato l'invenzione del dentifricio. Un'altra ha attaccato a parlare a macchinetta ed è allegra come un fringuello da quando ho ammesso che ogni notte le faccio la pipì nel letto. Sì, dico a tutti quanti, sono stato io. Sono io che ti ho bruciato la casa. Che ho bombardato il tuo paesino. Che ho deportato tua sorella. Che ti ho venduto una Nash Rambler azzurra scassata nel 1968. E che dopo ti ho pure ammazzato il cane. Fattene una ragione! Avanti, buttatemi tutto addosso, gli dico. Fate di me il povero passivo indifeso nella vostra orgia delle colpe. Sono qui, scaricatevi. E dopo che mi hanno sparato in faccia la loro roba, tutte quante sorridono e canticchiano. Se la ridono di gusto, con la testa buttata all'indietro, restano lì, accalcate intorno a me, mi accarezzano le mani e dicono che non importa, che mi perdonano. Cazzo, hanno persino ricominciato a mettere su peso. E mentre sono lì con quel branco di galline che mi annegano di parole passa un'infermiera vera e mi fa: «Stiamo riscuotendo successo, eh?». Denny tira su col naso. «Ti serve un fazzoletto, bello?» gli chiedo. La cosa assurda è che mia mamma non migliora. Nemmeno se faccio il pifferaio magico e libero tutte quelle persone dalla colpa. Nemmeno se assorbo biasimo in quantità industriale, mia mamma ormai non crede più che io sono io, che sono Victor Mancini. E quindi il suo grande segreto non lo sputa fuori. E quindi avrà bisogno di un sondino comesichiama. «L'astinenza non è un gran problema» dice Denny, «anche se mi piacerebbe tanto un bel giorno riuscire a vivere facendo cose giuste invece di limitarmi a non fare quelle sbagliate. Capisci?» La cosa ancor più assurda, gli dico, è che sto cominciando a intravedere il modo per trasformare la mia nuova popolarità in una sveltina da ripostiglio delle scope con quell'infermiera alta, magari facendoglielo prendere in bocca. Se vuoi chiavarti un'infermiera e quella si convince che sei un ragazzo gentile e premuroso che si mostra paziente con dei vecchietti disperati, praticamente sei già a metà del lavoro. Vedi anche: Caren, infermiera professionale. Vedi anche: Nanette, infermiera ausiliaria. Vedi anche: Jolene, infermiera ausiliaria. Ma non importa con chi sto: la mia testa è sempre e comun que persa dietro quest'altra ragazza. La dottoressa Paige Qual cosa. Marshall. E così, qualunque donna finisca per scoparmi, sono costretto a pensare a enormi animali infetti, grossi procioni investiti da automobili e gonfi di gas che vengono travolti da tir a tutta velocità in autostrada sotto un sole che spacca le pietre. O faccio così, oppure vengo in un nanosecondo, tanto questa dottoressa Marshall mi arrapa. È buffo come uno non pensi mai alle donne che ha già avuto. Sono sempre quelle che ti sfuggono a rimanere indimenticabili. «Il fatto è che il sessodipendente dentro di me è così forte» dice Denny, «che quando non sono alla gogna ho paura. Nella mia vita dovrà pur esserci qualcos'altro oltre al non farmi le seghe e basta.» Voglio dire, le altre donne, tutte quante, è facile immaginarsele mentre si fanno scopare. In macchina, a cavalcioni sul posto di guida, il punto G, il tuo pistone arroventato che stantuffa la parete anteriore dell'uretra. O che si fanno trapanare piegate a novanta sul bordo di una vasca idromassaggio. Insomma, a immaginarsele nel privato. Questa dottoressa Paige Marshall, invece, sembra essere al di là della semplice chiavata. Nel cielo, uccelli simili ad avvoltoi volteggiano in cerchio sulle nostre teste. Secondo l'orario degli uccelli dovrebbero es sere le due. Una folata di vento solleva le code della giacca di Denny rivoltandogliele sulle spalle, e io gliele tiro giù. «A volte» dice Denny, e tira su col naso, «è come se fossi io a voler essere picchiato e punito. Va benissimo anche se Dio non esiste, però qualcosa da rispettare lo voglio lo stesso. Non mi va di essere il centro del mio universo.» Con Denny che passa il pomeriggio alla gogna, mi tocca spaccare tutta la legna. Da solo. Mi tocca macinare il grano. Mettere la carne di maiale sotto sale. Guardare le uova in controluce. C'è il latte da scremare per fare la panna. Il pastone da dare ai maiali.


Chi avrebbe mai pensato che il diciottesimo secolo fosse così frenetico? Visto che mi sobbarco tutto il lavoro che toccherebbe a lui, dico a Denny, il minimo che potrebbe fare sarebbe venire a trovare mia mamma e fingere di essere me. Per ascoltare la sua confessione. Denny sospira guardando per terra. Da cinquanta metri sopra di noi, uno dei simil-avvoltoi gli molla sulla schiena una schifosissima scagazzata bianca. Denny dice: «Quello che mi ci vorrebbe è una missione, bello». Gli dico: «E allora falla, questa benedetta buona azione. Aiuta una vecchietta». E Denny dice: «Come sta andando con la fase quattro?». Dice: «Mi prude un fianco, mi ci dai una grattata?». E stando attento a evitare la merda d'uccello, mi metto lì e lo gratto.


CAPITOLO 12 Sull'elenco telefonico c'è sempre più inchiostro rosso. Sempre più ristoranti cancellati con un tratto di pennarello rosso. Tutti posti in cui sono quasi morto. Ristoranti italiani. Messicani. Cinesi. Sul serio, ogni sera mi ritrovo con una scelta sempre più limitata su dove andare a cena per fare due soldi. Per costringere qualcuno ad amarmi con l'inganno. La domanda è sempre: Allora, con cosa ti va di soffocare stasera? C'è la cucina francese. Quella maya. Quella indiana. Il posto in cui vivo, la vecchia casa di mia mamma, dovete immaginarvelo come un negozio d'antiquariato veramente sudicio. Uno di quei posti in cui devi camminare di traverso, come nei geroglifici egizi, tanto è stipato di roba. I mobili di legno intagliato, il lungo tavolo da pranzo, le sedie e i bauli e gli armadietti con facce incise ovunque, tutto l'arredamento è ricoperto da una specie di densa vernice trasparente sciropposa che si è annerita e incrinata circa un milione di anni prima di Cristo. I divani tondeggianti sono coperti da quei drappeggi antiproiettile su cui uno non vorrebbe mai sedersi nudo. Ogni sera, dopo il lavoro, per prima cosa ci sono i biglietti d'auguri da passare in rassegna. Gli assegni da sommare. E tutto sparso sui quattro chilometri quadrati neri del tavolo da pranzo, la mia base operativa. E lì che tengo la busta da riempire per il versamento del giorno dopo. Stasera c'è un unico mise ro bigliettino. Un unico merdoso bigliettino che mi arriva per posta con un assegno di cinquanta dollari. Per il quale c'è comunque da scrivere un biglietto di ringraziamento. E c'è comunque la prossima nidiata di lettere servili da povero derelitto che va spedita. Non per essere ingrati, ma se è per scucire cinquanta dollari, la prossima volta tanto vale lasciarmi schiattare. Chiaro? Oppure ancora meglio: farsi da parte e lasciare che ad aiutarmi sia qualcuno di ricco. Certo questo non posso scriverlo in un biglietto di ringraziamento, eppure. Casa di mia mamma immaginatevela come una montagna di mobili antichi ammassati in un appartamento di due stanze da freschi sposini. Tutti questi divani e dipinti e orologi in teoria dovrebbero essere la dote che mia mamma ha ricevuto dal Vecchio Continente. Dall'Italia. Mia mamma è venuta qui per fare l'università é dopo che ha avuto me non è mai più tornata indietro. Che è italiana non lo diresti, a prima vista. Non puzza. d'aglio, e non ha quintali di peli sotto le ascelle. È venuta qui per iscriversi alla facoltà di medicina. La stramaledetta facoltà di medicina. Nell'Iowa. La verità è che gli immigrati tendono a essere più americani di quelli che qui ci nascono. La verità e che io praticamente sono la sua green card. Mentre scorro l'elenco telefonico penso che devo cominciare a presentare il mio spettacolino in posti un po' più chic. Bisogna andare dove ci sono i soldi e prenderseli. Non si può morire in una friggitoria, soffocati da bastoncini di pollo impanati. Ai ricchi che mangiano cucina francese va di diventare degli eroi come a chiunque altro. Il punto è saper scegliere. Il consiglio che vi do è: individuate il vostro target commerciale. Nell'elenco telefonico sono rimasti da provare i ristoranti che servono solo pesce. Le rosticcerie mongole. Il nome sull'assegno di oggi è quello di una donna che mi ha salvato la vita in un self-service. Uno di quei buffet a prezzo fisso dove mangi quello che ti pare. Ma dove diavolo avevo la testa? Soffocare in ristoranti cheap è un falso risparmio, questo è poco ma sicuro. Ho preso nota di ogni cosa, di tutti i dettagli, nel mio grande registro. Qui dentro c'è tutto, da chi mi ha salvato quando e dove a quanto ha speso finora. Il benefattore di oggi è Brenda Munroe, la firma in fondo al biglietto d'auguri, con affetto. "Spero che questo pensierino possa servirti" ha scritto lungo il bordo inferiore dell'assegno. Brenda Munroe, Brenda Munroe. Ci provo, ma non riesco a visualizzare una faccia. Niente. Uno mica può ricordarsi ogni singola volta che ha sfiorato la morte. Certo, dovrei tenere appunti più precisi, colore dei capelli e degli occhi, però insomma, francamente: guardatemi. Già così annego nella carta. La lettera di ringraziamento del mese scorso era tutta incentrata sui salti mortali che stavo facendo per pagare non so cosa. A quella gente avevo detto che avevo l'affitto in sospeso, o forse il dentista. Che dovevo pagare il latte o l'incontro con lo psicologo. Dopo aver spedito qualcosa come duecento copie della stessa lettera la voglia di rileggere ti passa. È una versione casalinga di quelle iniziative di beneficenza per bambini d'oltreoceano. Dove ti dicono che con il prezzo di una tazzina di caffè puoi salvare la vita a un bambino. Diventare il suo benefattore. La gran furbata è che a una persona non puoi salvare la vita una volta sola. La gente si sente in dovere di salvarmi in continuazione. È come nella vita reale, nessuno vive per sempre felice e contento. È come a medicina: puoi riuscire a salvare un tot di vite, ma prima o poi capita che una non riesci a salvarla. È il principio di Peter della medicina. Questa gente che mi spedisce soldi paga il proprio eroismo a rate. Ci si può soffocare di cibo marocchino. Siciliano. Ogni sera. Dopo che sono nato io, mia mamma è rimasta fissa negli Sta ti Uniti. Non in questa casa. Qui c'è venuta ad abitare solo dopo l'ultima volta che è uscita di galera, dopo la sentenza sul furto dello scuolabus. Furto di automezzo e rapimento. Non è la casa della mia infanzia, non sono i mobili di quando ero bambino. È roba che i suoi le hanno spedito dall'Italia. Credo. In realtà, per quel che ne so potrebbe averli vinti a un quiz televisivo. Solo una volta le ho chiesto della sua famiglia, dei miei nonni giù in Italia. E lei mi ha detto, me lo ricordo bene, ha detto: «Non sanno che esisti, perciò vedi di non creare problemi.» E se non sanno del suo figlio bastardo, è quasi certo che non sanno nemmeno della sua condanna per atti osceni, di quella per tentato omicidio, per attentato alla salute pubblica, per maltrattamento di animali. È anche quasi certo che sono matti pure loro. Basta guardare i loro mobili. Probabilmente sono matti come cavalli. Continuo a sfogliare l'elenco telefonico, avanti e indietro.


La verità è che tenere mia mamma alla casa di cura St. Anthony mi costa tremila dollari al mese. Alla St Anthony con cinquanta dollari ti ci fai a malapena cambiare un pannolino. Dio solo sa quante volte dovrò vedere la morte in faccia per pagare un sondino nasogastrico. La verità è che a oggi il grande registro degli eroi contiene più di trecento nomi, e anche così ci sono mesi in cui non riesco a mettere insieme tremila dollari. In più tutte le sere c'è un cameriere che mi porta il conto. In più c'è la mancia. Le cazzo di spese di mantenimento mi stanno uccidendo. Come in ogni schema piramidale che si rispetti, bisogna sempre cominciare a reclutare gente dalla base. E come la previdenza sociale, una massa di brave persone che sborsano per qualcun altro. Prosciugare a poco a poco le tasche di questi buoni samaritani altro non è che la mia rete di sicurezza sociale. "Schema Ponzi" non è l'espressione esatta, ma è la prima che viene in mente. La triste verità è che ancora adesso ogni sera devo passare in rassegna l'elenco telefonico e scegliermi un posto dove andare a vedere la morte in faccia. Praticamente è il Victor Mancini Telethon. L quello che fa il governo, né più ne meno. Solo che nel welfare di Victor Mancini la gente che tira fuori i soldi non si lamenta. Anzi, ne va fiera. Si vanta con gli amici. E una truffa a base di donazioni spontanee al cui vertice ci sono io e in cui i nuovi membri fanno la fila per entrare a far parte del gioco abbracciandomi da dietro. Che, tradotto, significa dissanguare persone generose. Detto questo, non è che io i soldi poi li spenda in droghe o per giocare d'azzardo. Ormai non riesco più nemmeno a finire un pasto. A metà del piatto principale devo mettermi al lavoro. Fare il mio piccolo show di versacci e convulsioni. E anche così, ci sono persone che a volte non mandano il becco di un quattrino. Che all'episodio non ci ripensano mai più. Dopo un po' anche quelle più generose smettono di mandare assegni. La parte del pianto, quella in cui qualcuno mi stringe tra le braccia mentre io boccheggio e piango, quella parte lì mi viene sempre più facile. Sempre più spesso, la cosa difficile del pianto è quando non riesco a smettere. Nell'elenco telefonico, ancora non ho tirato una riga sulla fonduta. Sulla cucina tailandese. Su quella greca. Etiope. Cubana. Di posti in cui non sono andato a morire ce ne saranno ancora un migliaio. Per incrementare il flusso economico, bisogna creare due o tre eroi a sera. Ci sono sere in cui bisogna farsi tre o quattro ristoranti prima di riuscire a finire un pasto. Sono un artista della performance specializzato in teatro da tavola, tre repliche a sera. Signore e signori, mi serve un volontario tra il pubblico. "No, grazie, sul serio" mi piacerebbe dire ai miei parenti morti. "Grazie davvero, ma una famiglia riesco a farmela anche da solo." Pesce. Carne. Cucina vegetariana. Anche stasera, come ogni sera, la cosa più semplice è chiudere gli occhi. Sollevare il dito a mezz'aria sull'elenco telefonico aperto. Fatevi sotto, signore e signori, diventate degli eroi. Fatevi sotto e salvate una vita. Lasciar cadere la mano, e lasciare che a decidere sia il caso.


CAPITOLO 13 Per il gran caldo, Denny si toglie la giacca, poi il maglione. Senza sbottonare i bottoni, nemmeno quelli dei polsini o del colletto, si sfila la camicia dalla testa, rivoltandola, e così ora ha la testa e le mani insaccate nella flanella rossa a disegno scozzese. La maglietta che porta sotto gli sale fino alle ascelle mentre tenta di far uscire la testa dalla camicia, e la sua pancia nuda è arrossata e infossata. Intorno ai puntini dei capezzoli spunta qualche pelo ritorto. I capezzoli hanno l'aria screpolata e infiammata. «Gesù» dice Denny lottando con la camicia. «Troppi strati. Perché qui dentro fa così caldo?» Perché è una specie di ospedale. Una comunità alloggio con assistenza medica costante. Al di sopra dei jeans e della cintura si intravede l'elastico sformato delle mutande da due soldi, coperto di macchie di ruggine arancione. Sul davanti spunta un ciuffetto di peli attorcigliati. Sotto le ascelle Denny ha, giuro, delle macchie giallognole di sudore. La ragazza alla reception se ne sta lì seduta e ci guarda con quella faccia che pare raggrumata intorno al naso. Quando cerco di tirargli giù la maglietta, nell'ombelico di Denny intravedo una vera e propria collezione di batuffoli di lanugine di vari colori. Al lavoro, negli spogliatoi, l'ho visto sfi larsi pantaloni e mutande contemporaneamente, rivoltandoli a rovescio come facevo io da bambino. E con la testa imballata nella camicia Denny mi fa: «Mi dai una mano, bello? Da qualche parte dev'esserci un bottone che non ho mai visto». La ragazza della reception mi guarda storto. Ha la cornetta del telefono praticamente sull'orecchio. Con buona parte dei vestiti già per terra accanto ai suoi piedi, Denny si fa sempre più smilzo, finché addosso gli restano soltanto la maglietta irrancidita e i jeans macchiati su entrambe le ginocchia. Ha le scarpe da ginnastica allacciate con doppi nodi fatti di nodi e gli occhielli irrimediabilmente cementati dalla sporcizia. Qui dentro ci saranno qualcosa come quaranta gradi perché la maggior parte di queste persone praticamente non ha più una circolazione sanguigna, gli dico. Qui dentro ci sono un sacco di vecchi. Si sente odore di pulito, il che vuol dire che si sente solo l'odore dei prodotti chimici, dei detersivi o dei profumi. Bisogna sapere che il profumo di pino copre quello di merda proveniente da chissà dove. Limone significa che qualcuno ha vomitato. Odore di rose è come dire vomito. Dopo aver passato un pomeriggio alla St Anthony ti passa la voglia di annusare una rosa per il resto dei tuoi giorni. Nell'ingresso ci sono poltrone imbottite e piante e fiori finti. I dettagli ornamentali spariscono a mano a mano che uno supera le porte chiuse a chiave. «Se lascio la mia roba qui dà fastidio a qualcuno?» dice Denny alla ragazza della reception. Intende il mucchio di vestiti logori. Dice: «Mi chiamo Victor Mancini». Mi guarda. «Sono venuto a trovare, ehm... mia madre?» A Denny dico: «Cristo, guarda che non è lei la malata di mente». Alla ragazza della reception dico: «Io sono Victor Mancini. Vengo sempre qui a trovare mia mamma, Ida Mancini. Stanza 158». La ragazza preme un pulsante e dice: «Infermiere Remington alla reception. Infermiere Remington alla reception, grazie». La sua voce esce fortissima dal soffitto. Viene da chiedersi se l'infermiere Remington esista davvero. Viene da chiedersi se questa ragazza per caso non abbia pensato che Denny sia soltanto l'ennesimo spogliarellista cronico aggressivo. Denny va verso i vestiti e con un piede li fa scivolare sotto una poltrona imbottita. Dal corridoio arriva di corsa un ciccione che con una mano si tiene fermo un taschino pieno di penne e con l'altra una bomboletta di spray urticante al peperoncino appesa alla cintura. Sull'altro fianco tintinna un mazzo di chiavi. Dice alla ragazza della reception: «Allora, che succede?». E Denny dice: «C'è un bagno dove posso andare? Uno per i civili, dico». Il problema è Denny. Perché possa ascoltare la confessione di mia mamma, prima devo fargli conoscere quello che è rimasto di lei. Il mio piano è di presentarglielo come Victor Mancini. Perché Denny possa scoprire chi sono davvero. Perché mia mamma possa trovare un po' di pace. Mettere su qualche chilo. Risparmiarmi i soldi del sondino. Non morire. Quando Denny torna dal bagno, la guardia ci accompagna nel cuore della St Anthony e Denny dice: «La porta del bagno non ha la serratura. Ero seduto sulla tazza ed è piombata dentro una vecchia». Gli chiedo se voleva scoparselo. E Denny dice: «Allora, riepilogando». Attraversiamo una serie di porte che la guardia ci apre, poi un'altra. Mentre camminiamo, le chiavi gli rimbalzano sul fianco. Ha un rotolo di ciccia persino sul collo. «Tua mamma, dico» prosegue Denny. «Com'è fatta, ti somiglia?» «Può darsi» rispondo, «salvo che, be'...» E Denny dice: «Che è ridotta a uno scheletro e ha il cervello in pappa, giusto?». Gli faccio: «Piantala subito». Gli dico: «Sarà anche stata una madre del cazzo, ma è pur sempre mia madre». «Scusa, bello» dice Denny, poi mi fa: «Ma non si accorgerà che non sono te?». Qui alla St Anthony devono tirare le tende prima che faccia buio, perché se uno degli ospiti si vede riflesso nel vetro di una finestra pensa che qualcuno lo stia spiando da fuori. Lo chiamano "tramonto forzato". Quando al tramonto tutti quanti danno di matto. Se piazzassero queste persone davanti a uno specchio e gli dicessero che è una tv e che danno uno speciale su un branco di poveri


vecchi che aspettano solo di morire, loro starebbero lì a guardare per ore. Il problema è che mia mamma con me non ci parla, né quando sono Victor, né quando sono il suo avvocato. La mia unica speranza è quella di essere il suo difensore d'ufficio mentre Denny è me. Io le do l'imbeccata. Lui la sta ad ascoltare. E forse a quel punto lei parlerà. Una specie di imboscata gestaltica. Camminando, la guardia mi chiede se non sono quel tizio che ha violentato il cane della signora Field. No, gli dico. E una lunga storia, gli dico. Lunga qualcosa come ottant'anni. Mamma la troviamo in sala ricreazione, seduta a un tavolino davanti ai pezzi sparpagliati di un puzzle. Di pezzi ce ne saranno un migliaio, ma non c'è una scatola per capire che immagine dovrebbero formare. Potrebbe essere qualsiasi cosa. Denny dice: «È lei?». Dice: «Ma non ti assomiglia nemmeno un po'». Mia mamma sposta pezzi di puzzle qua e là, alcuni rivoltati con la faccia di cartoncino grigio in alto, e cerca di assemblarli. «Ragazzi» dice Denny. Gira una sedia su se stessa e si siede al tavolino, in modo da poter appoggiare i gomiti sullo schienale della sedia. «Per quel che ne so io, con i puzzle è più facile se prima trovi tutti i pezzi con i bordi lisci.» Gli occhi di mia mamma si arrampicano su Denny strisciando in lungo e in largo sulla faccia, sulle labbra coperte di burro cacao, sulla testa rasata, sui buchi lungo le cuciture della sua maglietta. «Buongiorno, signora Mancini» le dico. «Suo figlio Victor è venuto a trovarla. E lui.» Dico: «Non aveva una cosa importante da dirgli?». «Già» dice Denny facendo sì con la testa. «Sono io, Victor.» Comincia a raccogliere i pezzi con il bordo liscio. «Questi blu dovrebbero essere cielo oppure acqua?» dice. E gli occhi azzurri di mia mamma cominciano a riempirsi di spremuta. «Victor?» gli dice. Poi si schiarisce la gola. Fissando Denny dice: «Sei venuto». E Denny continua a spostare pezzetti di puzzle con le dita, scegliendo quelli con i lati lisci e mettendoli da parte. Sul ruvido della sua testa rasata sono rimasti impigliati dei batuffoli di lanugine rossa della camicia di flanella. E mia mamma tende una mano vecchia e scricchiolante al di là del tavolino e la richiude intorno a quella di Denny. «Che bello vederti» gli dice. «Come stai? Quanto tempo.» Un po' di spremuta d'occhi le trabocca da un occhio e scende seguendo la ragnatela di rughe fino all'angolo della bocca. «Gesù» dice Denny ritraendo la mano. «Signora Mancini, ha le mani gelide.» Mia madre dice: «Scusa». Si sente odore di cibo da mensa, di cavoli o fagioli stracotti. Per tutto questo tempo io me ne sto lì, in piedi. Denny riesce ad assemblare qualche centimetro di bordo. Ri volgendosi a me dice: «Allora, quand'è che mi fai conoscere questa dottoressa stupenda di cui parli tanto?». Mia mamma dice: «Non è che te ne vai di già, vero?». Guarda Denny con gli occhi allagati e le sue vecchie sopracciglia a ce spuglio che si congiungono in un bacio al di sopra del naso. «Mi sei mancato tanto» gli fa. Denny dice: «Che culo, guarda: ho beccato un angolo!». La mano di mia mamma, tremante e simile a carne bollita, avanza sussultando e va a pizzicare un ciuffo di lanugine rossa sulla testa di Denny. E io dico: «Mi scusi, signora Mancini». Dico: «Ma non c'era qualcosa che doveva dire a suo figlio?». Lei guarda me, poi Denny. «Ti spiace fermarti ancora un po', Victor?» dice. «Dobbiamo parlare. Ho tante di quelle cose da spiegarti.» «E allora gliele spieghi» dico. Denny dice: «Questo mi sa che è un occhio». Dice: «Ma allora cos'è, una faccia?». Mia mamma tende verso di me una mano tremante con il palmo aperto e dice: «Fred, questa è una faccenda privata, tra madre e figlio. Affari di famiglia, roba delicata. Vada fuori. Vada a vedere la tv, ci lasci parlare da soli». E io dico: «Ma». Ma mia mamma dice: «Vada». Denny dice: «Ecco un altro angolo». Denny tira fuori tutti i pezzi azzurri e li mette da parte. I pezzi hanno più o meno tutti la stessa forma, sono croci liquide. Svastiche disciolte. «Vada a salvare qualcun altro, per una volta» dice mia mamma, senza nemmeno guardarmi in faccia. Guarda Denny e dice: «Quando abbiamo finito la viene a cercare Victor». Comincia a fissarmi e non smette finché io non indietreggio nel corridoio. A quel punto dice a Denny qualcosa che non riesco a sentire. Allunga la mano tremante e gli accarezza il cranio lucido e azzurrognolo, lo sfiora delicatamente dietro un orecchio. Nel punto in cui la manica del pigiama finisce spunta il vecchio polso fibroso, bruno e pallido come il collo di un tacchino lesso. Mentre ancora sta trafficando con il puzzle, Denny ha un sussulto. Un odore mi raggiunge, odore di pannolone, e alle mie spalle una voce stentata dice: «Tu sei quello che mi ha buttato tutti i libri nel fango quand'ero in seconda elementare». Senza distogliere lo sguardo da mia madre, cercando di capire cosa sta dicendo, le faccio: «Mi sa di sì». «Be', perlomeno hai il coraggio di ammetterlo» dice la voce. Un funghettino rinsecchito di donna fa scivolare il suo braccio scheletrico intorno al mio. «Vieni con me» dice. «La dottoressa Marshall vuole assolutamente parlarti. In privato, faccia a faccia.» Ha indosso la camicia rossa scozzese di Denny.


CAPITOLO 14 Chinando all'indietro la testa, il suo piccolo cervello nero, Paige Marshall indica il soffitto a volta marroncino. «Una volta c'erano degli angeli» dice. «Pare fossero meravigliosi, che avessero le ali fatte di piume azzurre e aureole d'oro vero.» La vecchia mi porta nella grande cappella della St Anthony, enorme e vuota dai tempi in cui era ancora un convento. Su una parete c'è una vetrata colorata in un centinaio di sfumature d'oro. L'altra parete è occupata quasi interamente da un grosso crocifisso di legno. Tra una parete e l'altra c'è Paige Marshall nel suo camice bianco, immersa nella luce dorata, sotto il cervello nero dei suoi capelli. Indossa gli occhiali neri e guarda in alto. Tutto in lei è nero e oro. «In seguito alle decisioni del Concilio Vaticano Secondo» dice, «i dipinti sulle pareti sono stati coperti con l'intonaco. Gli angeli e gli affreschi. Hanno tolto quasi tutte le statue. Tutti quegli splendidi misteri della fede. Spariti per sempre.» Mi guarda. La vecchia se n'è andata. Alle mie spalle la porta della cappella si richiude con uno scatto. «È patetico» dice Paige, «come non siamo capaci di convivere con ciò che non comprendiamo. Come ci limitiamo a negare l'esistenza di ciò che non sappiamo spiegare.» Dice: «Ho scoperto un modo per salvare la vita di tua madre». Dice: «Ma forse non sarai d'accordo». Paige Marshall comincia a sbottonarsi il camice, e sotto il camice appare sempre più pelle. «Forse troverai l'idea del tutto ripugnante» dice. Si apre il camice. Sotto è nuda. Nuda e pallida come la pelle del suo cuoio capelluto. Nuda, bianca e più o meno a quattro passi da me. Nonché estremamente scopabile. Con un gesto si scopre le spalle, lasciando scivolare indietro il camice che le si drappeggia lungo la schiena, ancora appeso ai gomiti. Con le braccia ancora infilate nelle maniche. Ed ecco tutte quelle piccole ombre pelose dove uno muore dalla voglia di tuffarsi. «È un'opportunità estremamente limitata nel tempo» dice. E viene avanti. Con gli occhiali. Con i piedi ancora infilati nelle scarpette bianche, che però qui dentro sembrano d'oro. Non mi ero sbagliato sulle sue orecchie. Di sicuro la somiglianza è incredibile. Un altro buco che non può chiudere, nascosto e guarnito di pelle. Incorniciato dai capelli morbidi. «Se vuoi bene a tua madre» dice, «se vuoi che continui a vivere, devi fare questa cosa con me.» Adesso? «È il momento giusto» dice lei. «Ho le mucose talmente spesse che potresti infilarci un cucchiaino e rimarrebbe in piedi.» Qui? «Fuori non posso incontrarti» dice. Il suo dito anulare è nudo, come d'altronde quasi tutto il resto del corpo. Le chiedo se è sposata. «Sarebbe un problema?» dice lei. Mi basterebbe allungare un braccio e troverei la linea curva della sua vita e poi, a scendere, il profilo del culo. All'incirca la stessa distanza che mi separa dal ripiano dei suoi seni, su cui svettano capezzoli scuri e appuntiti. Lo spazio di un braccio mi divide dal punto bollente in cui le sue gambe si incontrano. Dico: «No. Figurati. Tutt'altro». Le sue mani si congiungono sul bottone più alto della mia ca micia, poi su quello sotto, e su quello dopo. Le sue mani mi aprono la camicia, che scivola lungo la schiena e mi ricade alle spalle. «C'è una cosa che devi sapere» le dico, «proprio perché sei un medico» le dico. «Io sono un sessodipendente in via di disintossicazione.» Le sue mani mi slacciano la fibbia dei pantaloni, e lei dice: «E allora fai solo quello che ti viene naturale». Il suo non è odore di rose né di pino né di limone. Non somiglia a niente, neppure all'odore della pelle. Il suo è odore di umido. «Tu non capisci» le dico. «Sono quasi riuscito a fare due giorni interi di astinenza.» La luce dorata la fa apparire calda e splendente. Eppure ho la sensazione che se la baciassi le mie labbra resterebbero incollate come sul metallo congelato. Per non andare troppo su di giri penso a carcinomi a cellule basali. Visualizzo l'impetigine, un'infezione cutanea d'origine batterica. Ulcere corneali. Lei si infila la mia faccia in un orecchio. E nel mio orecchio sussurra: «Ottimo. Molto nobile da parte tua. Ma se ti chiedessi di cominciare la disintossicazione domani? ...». Con un pollice mi fa scendere i pantaloni lungo i fianchi e dice: «Ho bisogno della tua fiducia». E le sue mani fresche e lisce si richiudono intorno a me.


CAPITOLO 15 Se sei nell'atrio di un grande albergo e senti Il bel Danubio blu, scappa. Non pensare. Corri e basta. Oggigiorno i messaggi diretti non esistono più. Se sei in un ospedale e senti un annuncio tipo "l'infermiera Flamingo è desiderata nel reparto oncologico", non andare in quel reparto per nessun motivo al mondo. L'infermiera Flamingo non esiste. Se senti chiamare il dottor Blaze, sappi che non esiste. In un grande albergo, quel valzer significa che l'edificio va evacuato. In molti ospedali, infermiera Flamingo significa incendio. Dottor Blaze significa incendio. Dottor Green significa suicidio. Dottor Blue significa che qualcuno ha smesso di respirare. Tutte cose che la Mamma raccontò allo stupido ragazzino mentre erano fermi in mezzo al traffico. Giusto per darvi un'idea di quant'era pazza già da giovane. Quel giorno in particolare il ragazzino era a scuola, quando una signora dell'ufficio del preside era entrata in classe e gli aveva detto che l'appuntamento dal dentista era saltato. Un minuto dopo, il ragazzino aveva alzato la mano chiedendo il permesso di andare ai servizi. Nessun appuntamento era mai stato fissato. Certo, qualcuno che diceva di chiamare per conto del dentista aveva effettivamente telefonato, ma anche quello era un segnale segreto. Il ragazzino era uscito da una porta secondaria accanto alla mensa, e lei era lì che lo aspettava a bordo di una macchina dorata. Fu la seconda volta che la Mamma andò a riprenderselo. Tirò giù il finestrino e disse: «Lo sai perché la mamma è finita in galera, stavolta?». «Perché ha scambiato le tinture per i capelli?» Vedi anche: Danni dolosi. Vedi anche: Aggressione non premeditata. Si sporse in avanti per aprire la portiera e attaccò a parlare. Per giorni e giorni. Se sei all'Hard Rock Café, gli disse, e senti l'annuncio "Elvis ha abbandonato l'edificio", significa che i camerieri devono andare in cucina per sapere quale piatto non si può più servire perché le scorte sono finite. Sono le cose che la gente dice quando non vuole dirti la verità. In un teatro di Broadway l'annuncio "Elvis ha abbandonato l'edificio" significa incendio. In un negozio di alimentari, se senti chiamare il signor Cash vuol dire che stanno richiedendo l'intervento di una guardia. "Controllo merci nel reparto abbigliamento donna" vuol dire che in quel reparto c'è qualcuno che sta rubando. In altri negozi chiamano una donna inesistente di nome Sheila. "Sheila è attesa alle casse" significa che qualcuno sta rubando in quella zona. Il signor Cash e Sheila e l'infermiera Flamingo sono sempre sinonimo di guai. La Mamma spense il motore e tenne una mano stretta sul volante a ore dodici, mentre con l'altra schioccò le dita perché il ragazzino ripetesse ciò che lei gli stava dicendo. Aveva l'interno delle narici scuro di sangue rappreso. Sul pavimento della macchina c'erano alcuni fazzolettini appallottolati, anche quelli sporchi di sangue secco. C'era sangue sul cruscotto, dovuto probabilmente a qualche starnuto, e anche sul vetro del parabrezza. «Le cose che ti insegnano a scuola non sono importanti» disse lei. «Quella che ti insegno io è roba che ti salva la vita.» Schioccò le dita. «Il signor Amond Silvestri?» chiese. «Cosa devi fare se senti chiamare il signor Silvestri?» In certi aeroporti, un annuncio simile significa che c'è un terrorista con una bomba. "Il signor Amond Silvestri è pregato di raggiungere la sua comitiva all'uscita dieci del settore D" indica a quelli dell'antiterrorismo dove trovare la persona in questione. Signora Pamela Rank-Mensa significa che nell'aeroporto c'è un terrorista armato solo di pistola. "Il signor Bernard Wellis è pregato di raggiungere la sua comitiva all'uscita sedici del settore F" significa che lì c'è qualcuno che sta tenendo un coltello puntato alla gola di un ostaggio. La Mamma tirò il freno a mano e schioccò le dita un'altra volta. «Su, sveglia. Cosa vuol dire signorina Terrilynn Mayfield? » «Gas nervino?» disse lui. La Mamma fece no con la testa. «Non me lo dire» si affrettò ad aggiungere lui. «Cane rabbioso?» La Mamma fece no con la testa. Fuori dalla macchina, un fitto mosaico di macchine li circondava. C'erano elicotteri che spostavano l'aria nel cielo sopra l'autostrada. Picchiettandosi un dito sulla testa il ragazzino disse: «Lanciafiamme?» «Non ti stai impegnando» disse la Mamma. «Vuoi un aiutino?» «Probabile presenza di stupefacenti?» disse allora lui. «Sì, magari un aiutino dammelo.» E la Mamma disse: «Signorina Terrilynn Mayfield... pensa alle mucche, ai cavalli». E il ragazzino strillò: «Antrace!» Si picchiò i pugni sulla fronte e disse: «Antrace. Antrace. Antrace». Senza smettere di darsi pugni in testa disse: «Perché mi dimentico le cose tanto in fretta?». Con la mano libera la Mamma gli scompigliò i capelli e disse: «Stai andando bene. Se ti ricordi anche solo la metà di queste cose vivrai più a lungo di molti altri». Ovunque andassero, la Mamma cercava il traffico. Ascoltava i bollettini radio per sapere dove non bisognava andare e andava dove c'erano gli ingorghi. Le code. Gli intasamenti. Cercava automezzi in fiamme e ponti mobili aperti. Non amava andare veloce, ma le piaceva farsi vedere occupata. Quand'era bloccata nel traffico non poteva fare nulla, e non per colpa sua. Erano in trappola. Nascosti e al sicuro. La Mamma disse: «Te ne chiedo una facile». Chiuse gli occhi e sorrise, poi li riaprì e disse: «In un negozio, uno qualsiasi, cosa vuol dire quando chiedono pezzi da venticinque centesimi alla cassa cinque?»


Entrambi avevano ancora indosso i vestiti del giorno in cui lei era andata a prenderlo fuori dalla scuola. In qualunque motel andassero, quando il ragazzino si infilava nel letto la Mamma schioccava le dita e gli diceva di darle pantaloni, maglietta, calzini, mutande. Lui glieli passava dopo esserseli sfilati sotto le coperte. Ogni tanto al mattino la Mamma glieli restituiva lavati. Quando un cassiere chiede pezzi da venticinque, rispose il ragazzino, vuol dire che alla sua cassa c'è una bella donna e che tutti quanti devono andarla a vedere. «Non vuol dire solo quello» disse la Mamma. «Ma va bene lo stesso.» A volte la Mamma si addormentava appoggiata alla portiera e le altre macchine li superavano sfilandogli accanto. Se il motore era acceso, a volte sul cruscotto si accendevano luci che fino a un attimo prima il ragazzino nemmeno sapeva che esistessero, e che segnalavano vari tipi di emergenza. Quella volta dalla fessura del cofano cominciò a uscire del fumo, e il motore si spense da solo. Le macchine ferme dietro di loro cominciarono a strombazzare. La radio annunciò l'ennesimo ingorgo, un'auto ferma nella corsia centrale dell'autostrada che bloccava il traffico. Con tutta quella gente che suonava i clacson e che li guardava dai finestrini e la radio che parlava di loro, il ragazzino pensò che erano diventati famosi. E si mise a salutare tutti con la mano, finché a un certo punto un colpo di clacson non svegliò la Mamma. Pensò al Tarzan ciccione, alla scimmia e alle castagne. A come quell'uomo fosse riuscito lo stesso a sorridere. Al fatto che l'umiliazione è vera umiliazione soltanto quando si sceglie di soffrire. Il ragazzino sorrideva alle facce arrabbiate che da fuori lo guardavano in cagnesco. E mandava baci. Un camion suonò il clacson e la Mamma si svegliò di soprassalto. Poi i suoi gesti tornarono lenti e passò un minuto buono a scostarsi i capelli dal viso. Si infilò un tubetto di plastica bianco in una narice e inspirò. Passò un altro minuto senza che succedesse niente, poi la Mamma si sfilò il tubetto dal naso e con gli occhi socchiusi fissò il ragazzino seduto al suo fianco sul sedile del passeggero. Con gli occhi socchiusi guardò le lucine rosse che si erano accese. Il tubetto bianco era più sottile del rossetto, e aveva un buco in cima da cui inspirare e dentro una cosa puzzolente. Quando la Mamma lo annusava, sul tubetto rimaneva sempre un po' di sangue. «Tu sei in?» disse lei. «Prima? Seconda elementare?» Quinta, disse il ragazzino. «E in questa fase il tuo cervello quanto peserà? Un chilo? Un chilo e mezzo?» A scuola il ragazzino prendeva tutti voti alti. «E quindi quanti anni avresti?» disse lei. «Sette?» Nove. «Be', caro il mio piccolo Einstein, tutto quello che ti hanno raccontato i tuoi genitori adottivi» disse la Mamma, «puoi anche dimenticartelo.» Disse: «Nelle famiglie adottive le cose davvero importanti non le sanno». Immobile sopra di loro c'era un elicottero, e il ragazzino si sporse in avanti per poterlo guardare attraverso la banda azzurrata sulla sommità del parabrezza. Alla radio parlavano di una Plymouth Duster dorata che stava bloccando la corsia centrale del raccordo. A quanto pare la macchina si stava surriscaldando. «Fanculo la storia. La cosa davvero importante è conoscere tutte queste persone che non esistono» disse la Mamma. La signora Pepper Haviland è il virus dell'Ebola. Il signor Turner Anderson vuol dire che qualcuno ha vomitato. Alla radio dissero che erano partiti i mezzi di soccorso per sgomberare l'auto in panne dalla carreggiata. «Tutta quella roba che ti insegnano, l'algebra, la macroeconomia, dimenticatela» disse la Mamma. «A che ti serve saper fare la radice quadrata di un triangolo quando un terrorista ti spara in testa? Te lo dico io: a niente! Sono queste le cose che devi imparare!» Le altre macchine passavano accanto rallentando e poi ripartivano con una sgommata, per sparire dirette altrove. «Io voglio insegnarti molto di più di quello che la gente ritiene opportuno che tu sappia» disse. «Tipo cosa?» chiese il ragazzino. «Tipo che quando uno pensa al futuro» disse lei, e si coprì gli occhi con una mano, «in realtà non arriva a pensare più in là di due anni.» L'altra cosa che disse fu: «Quando compi trent'anni diventi tu il peggior nemico di te stesso». E un'altra cosa che disse fu: «L'epoca dell'Illuminismo è finita. Ora stiamo vivendo il Dis-illuminismo». Alla radio dissero che l'auto in panne era stata segnalata alla polizia. La Mamma alzò il volume, fortissimo. «Cazzo» disse. «Ti prego, dimmi che non siamo noi.» «Hanno detto che è una Duster dorata» disse il ragazzino. «La nostra è una Duster dorata.» E la Mamma disse: «Questo dimostra quante cose non sai». Aprì la portiera e gli disse di scavalcare il sedile e uscire dalla sua parte. Si mise a osservare le macchine che quasi la sfioravano, che sfrecciavano lì accanto. «Questa non è la nostra macchina» disse la Mamma. La radio strillò che i passeggeri stavano abbandonando il veicolo. La Mamma agitò una mano verso il ragazzino perché lui la prendesse. «Io non sono tua madre» disse. «Sei proprio fuori strada.» Aveva altro sangue di naso rappreso sotto le unghie. La radio strillò. L'autista della Duster dorata e un bambino erano diventati un pericolo per sé, perché stavano tentando di attraversare a piedi quattro corsie di autostrada trafficata. La Mamma disse: «A occhio e croce direi che ci restano trenta giorni da riempire di belle avventure. Ovvero finché non prosciugo la carta di credito». Disse: «Trenta giorni a meno che non ci becchino prima». Le macchine strombazzavano e li schivavano. La radio strillava. Gli elicotteri si abbassavano rombando.


E la Mamma disse: «Adesso fai come se avessi sentito Il bel Danubio Blu, stringimi forte la mano». Disse: «E non pensare». Disse: «Corri e basta».


CAPITOLO 16 La paziente successiva è una femmina di circa ventinove anni, con un neo sulla parte alta dell'interno coscia che non la racconta giusta. Con questa luce è difficile dirlo, ma è troppo grosso, troppo asimettrico, e ha delle sfumature blu e marroni. I bordi irregolari. La pelle tutt'intorno irritata. Le chiedo se se l'è grattato. E per caso nella sua famiglia ci sono precedenti di cancro della pelle? Seduto accanto a me con il bloc notes giallo appoggiato sul tavolo, Denny tiene un tappo sospeso sopra la fiamma dell'accendino e lo rigira finché l'estremità inferiore non è completamente annerita, dopodiché dice: «Dico sul serio, bello mio». Dice: «Stasera sei stranamente ostile. Cos'è, ci sei ricascato?». Dice: «Dopo che hai scopato ce l'hai sempre con il mondo intero». La paziente si lascia cadere sulle ginocchia, sulle ginocchia divaricate larghe. Piega la schiena all'indietro e comincia a muovere il bacino verso di noi, su e giù, al rallentatore. Le basta una contrazione dei muscoli delle chiappe per far vibrare le spalle, i seni, il monte di Venere. Ondata dopo ondata, il suo intero corpo avanza verso di noi. Il metodo per ricordare i sintomi del melanoma sono le lettere ABCD. Asimmetricità della forma. Bordo irregolare. Colore insolito. Diametro superiore a sei millimetri. È depilata. Abbronzata e cosparsa d'olio e liscia e perfetta com'è, più che una donna sembra l'ennesimo posto in cui dar fondo alla carta di credito. Mentre ci sbatte il bacino in faccia, il mélange cupo di luce rossa e ultravioletta la fa sembrare più bella di quel che è. Le luci rosse cancellano graffi e cicatrici, brufoli, alcuni tatuaggi, oltre alle smagliature e a i buchi delle siringhe. Le luci ultraviolette le fanno brillare gli occhi e i denti di un bianco acceso. Buffo come nell'arte la bellezza dipenda più dalla cornice che dall'opera stessa. Il gioco di luci fa sembrare in salute persino Denny, le sue braccia che sbucano dalla maglietta bianca come ali di pollo. Il bloc notes è di un giallo sfolgorante. Denny tiene il labbro inferiore stretto tra i denti e se lo mordicchia, mentre con lo sguardo corre dalla paziente alla sua opera e viceversa. Sbattendoci il bacino in faccia, strillando per sormontare la musica, la paziente dice: «Eh?». Si direbbe una bionda naturale, alto fattore di rischio, perciò le chiedo: per caso di recente ha subito inspiegabili cali di peso? Senza guardarmi, Denny dice: «Lo sai quanto mi costerebbe una modella vera, bello?». Io gli rispondo: «Ricordati di disegnare anche i peli incarniti». Alla paziente chiedo: ha notato cambiamenti nel ciclo o nell'attività intestinale? In ginocchio davanti a noi, poggiandosi sulle dita delle mani divaricate con le unghie laccate di nero, piegata all'indietro, fissandoci da un'estremità del busto inarcato lei dice: «Eh?». Il cancro della pelle, le urlo, è il più frequente nelle donne tra i ventinove e trentaquattro anni. Le urlo: «Dovrò tastarti i linfonodi». E Denny dice: «Allora, amico, vuoi sapere cosa mi ha raccontato tua madre oppure no?». Le urlo: «Fatti palpare la milza». E disegnando rapidi tratti di carboncino con il tappo bruciacchiato Denny dice: «Sbaglio o stai attraversando una delle tue crisi di rigetto?». La bionda punta i gomiti dietro le ginocchia e si lascia scivolare sulla schiena, strizzandosi i capezzoli tra il pollice e l'indice. Spalanca la bocca, ci guarda e piega all'indietro la lingua,poi dice: «Daiquiri». Dice: «Mi chiamo Cherry Daiquiri. Non puoi toccarmi» dice, «ma questo neo che dici dove sarebbe?» Il metodo per ricordare le varie fasi dell'esame obiettivo è: ASTA E PASTA E una di quelle formulette mnemoniche che ti insegnano a medicina. Anamnesi. Sintomo. Terapia. Allergie. Evoluzione. Precedenti. Alcol. Stupefacenti. Tabacco. Abitudini. L'unico modo per sopravvivere a medicina sono le formule mnemoniche. La ragazza prima di questa, anche lei bionda ma con un paio di tette vecchia maniera, così sode che uno ci si potrebbe appendere, quell'altra paziente faceva un numero in cui fumava una sigaretta, e così le ho chiesto se soffriva di dolori persistenti alla schiena o all'addome. Aveva mai accusato inappetenza,malessere diffuso? Se era così che si guadagnava da vivere, le ho detto, le conveniva sottoporsi a regolari pap-test. «Se fumi più di un pacchetto al giorno» le ho detto. «Solo in quel caso. » Una conizzazione non sarebbe stata una cattiva idea, le ho detto, o quanto meno un raschiamento. Lei si mette a quattro zampe e comincia a roteare il culetto scoperto, la sua botola rosata e grinzosa al rallentatore, volta la testa


verso di noi e dice: «Che sarebbe questa "conizzazione"?» Dice: «Un nuovo giochetto che hai scoperto?» e mi esala il fumo in faccia. Esala per modo di dire. E quando ti asportano una porzione di collo uterino a forma di cono, le spiego. E lei sbianca, sbianca persino sotto tutto quel trucco, persino sotto i fasci di luce rossa e ultravioletta, e chiude le gambe di colpo. Mi spegne la sigaretta nella birra e dice: «Tu devi avere qualche problemino con le donne, sai?» e si sposta verso il tizio seduto sotto il palco accanto a me. Le urlo: «Ogni donna è un tipo di problema differente». Senza posare il tappo, Denny prende la mia birra e dice: «Mica vorrai sprecarla...» e versa tutto quanto nel suo bicchiere, salvo il mozzicone. Dice: «Tua mamma parla un sacco di un certo dottor Marshall. Dice che le ha promesso di farla tornare giovane» dice Denny, «ma solo se tu collabori.» E io gli dico: «Dottoressa Marshall. L una donna». Si fa avanti un'altra paziente, una brunetta ricciolina di circa venticinque anni, che presenta i sintomi di una possibile carenza di acido folico, lingua arrossata e patinata, lieve gonfiore dello stomaco, occhio vitreo. Le chiedo se posso auscultarle il cuore. Per rilevare eventuali extrasistoli. Tachicardie. Episodi di nausea o di diarrea? «Mi ascolti?» dice Denny. Le domande da porsi sul dolore sono CILDASIS: Caratteristiche, Insorgenza, Localizzazione, Durata, Accentuazione, Risoluzione, Irradiazione e Sintomi associati. Denny dice: «Mi ascolti?». Il batterio che prende il nome di Staphylococcus aureus provo Ca EPOESIA: Emolisi, Polmonite, Osteomielite, Endocardite, Shock anafilattico, Infezione cutanea, Ascessi. «Mi ascolti?» dice Denny. Le malattie che si possono trasmettere di madre in figlio sono TARCH: Toxoplasmosi, Altre (ovvero sifilide e Hiv) Rosolia, Citomegalovirus e Herpes. Funziona meglio se ci associ l'immagine di una donna tarchiatella. Tale madre tale figlio. Denny mi schiocca le dita davanti al naso. «Che ti prende? Perché lo stai facendo?» Perché è la verità. Perché è questo il mondo in cui viviamo. So quel che dico. L'ho fatto, quel benedetto esame di ammissione. Ho frequentato medicina abbastanza a lungo da sapere che un neo non è mai soltanto un neo. Che un semplice mal di testa vuol dire tumore, vuol dire visione sdoppiata, capogiri, vomito e crisi convulsive, sonnolenza, morte. Un minuscolo spasmo muscolare vuol dire idrofobia, vuol dire crampi muscolari, arsura, stato confusionale, salivazione eccessiva e poi convulsioni, coma, morte. L'acne vuol dire cisti ovariche. Una lieve spossatezza vuol dire tubercolosi. Gli occhi arrossati vogliono dire meningite. La sonnolenza è il primo sintomo del tifo. I corpuscoli mobili che vi attraversano il campo visivo nelle giornate di sole vogliono dire che vi si sta staccando la retina. Che state diventando ciechi. «Guarda come sono conciate le unghie delle sue mani» dico a Denny, «un chiaro indizio di cancro ai polmoni.» Una sensazione di disorientamento vuol dire blocco renale, vuol dire che i tuoi reni hanno una disfunzione gravissima. Queste cose le impari ai corsi di Esame Obiettivo, secondo anno di medicina. Le impari, e una volta imparate non c'è modo di tornare indietro. Beata ignoranza. Un livido significa cirrosi epatica. Un rutto, cancro colorettale o esofageo o quanto meno ulcera peptica. Ogni brezza sembra sussurrare: carcinoma squamoso. Gli uccelli sugli alberi sembrano cinguettare: istoplasmosi. Chiunque tu veda nudo, lo vedi come un paziente. Una ballerina può avere due splendidi occhi azzurri e due bei capezzolini bruni e duri, ma se il suo alito è cattivo vuol dire che ha la leucemia. Una ballerina può avere capelli lunghi, folti e puliti, ma se si gratta la testa vuol dire che ha il linfoma di Hodgkin. Pagina dopo pagina, Denny riempie il suo bloc notes di studi di figure umane, donne bellissime che sorridono, donne magre che gli mandano baci, donne con la testa china in avanti ma con gli occhi che lo fissano attraverso una cascata di capelli. «Perdere il senso del gusto» dico a Denny «significa cancro orale.» E senza guardarmi, continuando a correre con lo sguardo dal suo schizzo alla nuova ballerina, Denny dice: «Allora mi sa che tu quel cancro ce l'hai da un pezzo, bello». Anche se mia mamma morisse, non so se mi verrebbe voglia di tornare laggiù e riprendere gli studi prima che mi scadano i crediti. Le poche cose che so bastano già a rendermi la vita tutt'altro che facile. Quando scopri quali e quante sono le cose che possono andar male, smetti di vivere e cominci ad aspettare. Il cancro. La demenza senile. Ogni volta che passi davanti a uno specchio ti perlustri la faccia in cerca di quella macchiolina rossa che significa fuoco di Sant'Antonio. Vedi anche: Tigna. Vedi anche: Scabbia. Vedi anche: Malattia di Lyme, meningite, febbre reumatica, sifilide. Anche la paziente che si presenta subito dopo è bionda, magra, forse troppo. Probabile tumore spinale. Se ha mal di testa, qualche linea di febbre, mal di gola, allora ha la poliomielite. «Così, brava» le strilla Denny, e si copre gli occhiali con le mani aperte. La paziente fa un movimento. «Fantastico» dice Denny, tratteggiando rapidissimo l'ennesimo studio. «Magari apri un pochino la bocca, eh?» E lei lo fa. «Amico mio» dice. «Ai corsi di pittura modelle così fiche te le sogni.»


Quello che vedo io è che non balla molto bene, e come minimo questa sua mancanza di coordinazione significa sclerosi amiotrofica laterale. Vedi anche: Morbo di Lou Gehrig. Vedi anche: Paralisi totale. Vedi anche: Difficoltà respiratorie. Vedi anche: Crampi, spossatezza, crisi di pianto. Vedi anche: Morte. Con il bordo della mano, Denny sfuma i tratti neri di tappo per aggiungere ombre e profondità. E la donna sul palco, con le mani davanti agli occhi, la bocca leggermente aperta, e Denny la ritocca furiosamente, con gli occhi che tornano in continuazione a lei in cerca di dettagli, l'ombelico, la curva dei fianchi. L'unico appunto che gli faccio io è che Denny le donne non le disegna come sono nella realtà. Nella versione di Denny, le cosce flaccide diventano sode come il marmo. Gli occhi pesti appaiono freschi, le occhiaie sfumate. «Ti è rimasto qualche spicciolo, bello?» dice Denny. «Voglio che si fermi qui ancora un attimo.» Ma io sono pulito, e la ragazza si sposta dal tizio seduto sotto il palco accanto a me. «Fa' un po' vedere, Picasso» gli dico. E Denny si gratta sotto un occhio lasciandosi una lunga strisciata di fuliggine. Poi inclina il bloc notes verso di me abbastanza perché io veda una donna nuda con le mani davanti agli occhi, snella e con ogni singolo muscolo del corpo in tensione, immune dagli effetti deturpanti della gravità e delle luci ultraviolette o della malnutrizione. E levigata ma morbida. Contratta ma rilassata. Un paradosso fisico totale. «L'hai fatta sembrare troppo giovane» gli dico. La paziente successiva è di nuovo Cherry Daiquiri, che torna da noi dopo aver fatto il giro, questa volta senza sorridere, risucchiandosi una guancia in bocca con aria pensierosa, e mi chiede: «Quel neo che dicevi. Sei proprio sicuro che è un cancro? Cioè, sì, insomma, quanto mi devo preoccupare..?». Senza guardarla alzo un dito. Il gesto che nel linguaggio internazionale significa Un attimo, prego. Il dottore la visiterà appena possibile. «E poi non ha le caviglie così sottili» dico a Denny. «E ha il culo molto più grosso di come gliel'hai fatto tu.» Mi sporgo in avanti per vedere cosa sta combinando Denny, poi mi volto verso il palco e verso l'ultima paziente. «Le ginocchia devi fargliele più bitorzolute» gli dico. La ballerina sulla ribalta mi lancia un'occhiata porca. Denny continua a disegnare. Le fa due occhi grandi. Le ripara le doppie punte. Tutto sbagliato. «Come artista non vali un granché» gli dico. Dico: «Sul serio, bello. Io tutta quella roba non la vedo». Denny dice: «Prima di cominciare a insultare tutto e tutti ti converrebbe chiamare il tuo responsabile, ne hai un gran bisogno». Dice: «E ammesso che te ne freghi qualcosa, tua mamma ha detto che devi cercare nel suo dizionario». A Cherry accovacciata di fronte a noi dico: «Se ti interessa davvero salvarti la vita allora devo farti un discorsetto, però in privato». «No, non nel dizionario» dice Denny, «nel diario. Casomai ti interessasse sapere da dove vieni, sappi che è tutto nel suo diario.» E Cherry appoggia una gamba a penzoloni giù dal palco e fa per scendere. Gli chiedo, cos'è che c'è nel diario di mia mamma? E facendo i suoi disegnini, visualizzando l'impossibile, Denny dice: «Sì, nel diario. Non nel dizionario. La roba sul tuo vero padre è nel suo diario».


CAPITOLO 17 Alla St Anthony, la ragazza della reception sbadiglia coprendosi la bocca con una mano, e quando le chiedo se per caso non le andrebbe una tazza di caffè mi guarda di traverso e dice: «Non con te». No, guarda, davvero, mica ci stavo provando. Resto io a tenerti d'occhio la reception mentre vai a prenderti un caffè. Non era per rimorchiare. Davvero. Le dico: «Hai la faccia stanca». Il suo lavoro è segnarsi i nomi di chi entra e di chi esce. Controlla il monitor su cui compaiono gli interni della St Anthony, i corridoi, la sala ricreazione, la sala pranzo, il giardino, con lo schermo che passa da uno all'altro ogni dieci secondi. Lo schermo sgranato, in bianco e nero. Per dieci secondi sul monitor compare la sala pranzo, vuota, con le sedie capovolte appoggiate sui tavoli, le gambe metalliche per aria. Per i dieci secondi successivi appare un lungo corridoio dove qualcuno se ne sta accasciato su una panca contro un muro. Poi, per dieci sfarfallanti secondi in bianco e nero c'è Paige Marshall che spinge mia madre su una sedia a rotelle giù per un altro lungo corridoio. La ragazza della reception dice: «Torno tra un minuto». Accanto al monitor c'è un vecchio altoparlante. Un vecchiomodello, tipo una radio coperta di stoffa da divano rugosa e con una manopola circondata da numeri. Ogni numero corrisponde a una stanza della St. Anthony. Sul bancone c'è il microfono con cui si fanno gli annunci. Girando la manopola su un numero puoi ascoltare tutte le stanze dell'edificio. E per un istante brevissimo dall'altoparlante esce la voce di mia madre, che dice: «Ho passato la vita a definirmi sulla base di ciò contro cui mi battevo». La ragazza gira la manopola sul nove, e si sente una radio in spagnolo e il rumore metallico delle padelle in cucina, dove si prende il caffè. Dico alla ragazza: «Fa' pure con calma». E: «Sappi che non sono un mostro, anche se qualcuna delle persone acide e risentite che girano qui dice il contrario». Nonostante io faccia di tutto per essere gentile, lei infila la borsetta nel cassetto del bancone e lo chiude a chiave. Dice: «Sto via al massimo due minuti, non di più. D'accordo?». D'accordo. Un attimo dopo lei scompare attraverso le porte di sicurezza e io mi siedo al suo posto dietro il bancone. Guardo il monitor: sala ricreazione, giardino, un corridoio, dieci secondi ciascuno. Aspetto di vedere comparire Paige Marshall. Con una mano giro la manopola da un numero all'altro e ascolto le stanze in cerca della dottoressa Marshall. Di mia mamma. In bianco e nero, quasi dal vivo. Paige Marshall, con tutta la sua pelle. Altra domanda dal questionario per sessodipendenti: Pratichi dei tagli nelle tasche dei pantaloni per poterti masturbare in pubblico? In sala ricreazione c'è un vecchia decrepita con la testa china su un puzzle. Nell'altoparlante, solo ronzio. Rumore bianco. Dieci secondi dopo, nel laboratorio di attività manuali alcune vecchie siedono intorno a un tavolo. Donne alle quali io ho confessato: di avergli sfasciato la macchina, di avergli sfasciato la vita. Prendendomi la colpa. Alzo il volume e appoggio l'orecchio contro la stoffa che ricopre l'altoparlante. Non sapendo a quale stanza corrispondono i vari numeri, continuo a girare la manopola e resto in ascolto. L'altra mano scivola in quello che resta della tasca delle mie braghe corte. Salto da un numero all'altro, qualcuno singhiozza sul numero tre. Ovunque si trovi. Qualcuno bestemmia sul cinque. Prega sull'otto. Ovunque si trovino. Sul nove c'è di nuovo la cucina,la musica spagnola. Sul monitor compare la biblioteca, un altro corridoio, poi compaio io, rannicchiato dietro il bancone della reception, che fisso il monitor. Io con una mano stretta sulla manopola dell'interfono. L'altra mano, sfocata, è infilata nelle braghe fino al gomito. Osservo. Una camera sul soffitto dell'ingresso osserva me. Io osservo il monitor, in cerca di Paige Marshall. Ascolto. Per capire dov'è. "Maniaco" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. Il monitor mi mostra donne e ancora donne. Poi, per dieci secondi c'è Paige che spinge mia madre su una sedia a rotelle giù per un altro corridoio. La dottoressa Paige Marshall. E allora giro la manopola, finché non sento la voce di mia madre. «Sì» dice. «Io ero contro tutto, ma mi capita sempre più spesso di pensare che non sono mai stata pro niente.» Sul monitor compare il giardino, vecchie donne ingobbite sui deambulatori. Che affondano nella ghiaia. «Certo, uno può criticare e lamentarsi e giudicare tutto e tutti, ma poi cosa si ritrova?» prosegue mia madre fuoricampo, mentre sul monitor sfilano altre stanze. Sul monitor compare la sala pranzo, vuota. Sul monitor compare il giardino. Altri vecchi. Potrebbe essere un sito Internet deprimente. Una webcam con vista sulla morte. Una specie di documentario in bianco e nero. «Lamentarsi non significa creare qualcosa» dice la voce fuoricampo di mia madre. «Ribellarsi non significa ricostruire. Sbeffeggiare le cose non significa cambiarle...» E la voce nell'altoparlante si allontana. Sul monitor compare la sala ricreazione, la donna con la testa china sul puzzle. E io giro la manopola, passando di numero in numero, alla ricerca. La sua voce rispunta sul numero cinque. «Sì, forse abbiamo fatto a pezzi il mondo» dice, «ma adesso non abbiamo idea di come ricostruirlo.» E la voce scompare, di nuovo.


Sul monitor compaiono corridoi su corridoi, che si perdono nell'oscurità. La voce rispunta sul numero sette. «La mia generazione ha sempre ridicolizzato tutto quanto, ma il mondo non è migliorato di tanto così» dice. «Abbiamo passato tanto di quel tempo a giudicare quello che avevano creato gli altri che, alla fine, di nostro abbiamo creato ben poco.» Dall'altoparlante la sua voce dice: «Nella ribellione io mi ci nascondevo. Usavamo la critica come finto strumento di partecipazione». La voce fuoricampo dice: «Sembra che abbiamo fatto chissà cosa, ma in realtà non abbiamo combinato proprio niente». La voce fuoricampo dice: «Io non ho lasciato niente di buono al mondo». E per dieci secondi sul monitor compaiono mia mamma e Paige nel corridoio, davanti alla porta del laboratorio di attività manuali. Dall'altoparlante, la voce gracchiante e lontana di Paige dice: «E suo figlio?». Ho il naso schiacciato contro il monitor, sono vicinissimo. E adesso sul monitor ci sono io, con l'orecchio incollato all'altoparlante e una mano che scuote qualcosa, velocissimo, nella gamba dei pantaloni. Fuoricampo Paige dice: «Dove lo mette, Victor?». E giuro, sono lì lì per venire. E la voce di mia mamma dice: «Victor? Anche lui avrà le sue vie di fuga». Poi la voce fuoricampo ride e dice: «Fare figli è l'oppio dei popoli! ». E adesso sul monitor c'è la ragazza della reception, in piedi alle mie spalle con una tazza di caffè.


CAPITOLO 18 La volta dopo mia madre è, se possibile, ancor più magra. Ha il collo che sarà grosso come uno dei miei polsi, la pelle gialla che rientra in solchi profondi tra la gola e i tendini. Il viso non riesce a nascondere il teschio che c'è sotto. Quando ruota la testa di lato e mi vede sulla porta, agli angoli degli occhi ha una specie di gelatina grigia rappresa. Tra le due sommità delle sue anche le lenzuola ricadono molli, come una tenda afflosciata. Sul paesaggio del letto, l'unico altro rilievo sono le ginocchia. Infila nella sponda cromata una delle sue braccia tremende, tremende e sottili come zampe di gallina, la tende verso di me e deglutisce. Muove la mandibola con fatica, con le labbra coperte da filamenti di saliva, dopodiché lo dice, col braccio teso, lo dice. «Morty» dice. «Non sono una pappona.» Stringe i pugni nodosi, li agita e dice: «La mia è una presa di posizione femminista. Come può esistere la prostituzione se le donne muoiono?». Sono qui con un bel mazzolino di fiori e un bigliettino. Sono appena uscito dal lavoro, perciò ho ancora indosso le braghe corte e il panciotto. Ho le fibbie delle scarpe e la calzamaglia con le baghette che sottolinea i polpacci minuscoli imbrattati di fango. E mia mamma dice: «Morty, devi far annullare il processo». E con un sospiro si lascia affondare nella montagna di cuscini. La bava che le cola dalla bocca ha tinto la federa bianca di azzurro pallido nel punto in cui il lato del viso poggia sul cuscino. E per cose simili un bigliettino d'auguri non basta. Con la mano ghermisce l'aria e dice: «Un'altra cosa, Morty: devi chiamare Victor». La sua stanza ha esattamente quell'odore, lo stesso delle scarpe da ginnastica di Denny a settembre quando le ha portate per tutta l'estate senza calzini. A cose simili un mazzolino di fiori fa un baffo. Nella tasca del mio panciotto c'è il suo diario. Tra le pagine del suo diario c'è una fattura della St Anthony scaduta da un pezzo. Infilo i fiori nella padella e vado a cercare un vaso e magari anche qualcosa da tentare di farle mangiare. Tutto il budino al cioccolato che riesco a trasportare. Qualcosa da ficcarle in bocca a cucchiaiate, da farle ingoiare. Non ce la faccio a stare qui a vederla così, e non ce la faccio nemmeno ad andarmene. Mentre esco lei dice: «Devi darti da fare, ho bisogno che mi trovi Victor. Devi convincerlo ad aiutare la dottoressa Marshall. Per favore. Victor deve aiutare la dottoressa Marshall a salvarmi». Come se le cose succedessero per caso. Fuori nel corridoio c'è Paige Marshall, con gli occhiali sul naso, che legge qualcosa su una cartelletta. «Ritenevo opportuno informarti» dice. Si appoggia contro il corrimano che si snoda lungo il corridoio e dice: «Che questa settimana tua madre è scesa a trenta chili». Si sposta la cartelletta dietro la schiena, con le mani stringe contemporaneamente la cartelletta e il corrimano. Sporge il bacino verso di me. Paige Marshall si passa la lingua contro l'interno delle labbra e dice: «Hai più riflettuto sull'eventualità di fare un tentativo?». Macchine, sondini, respiratori artificiali: i medici le chiamano "misure estreme." Non saprei, dico. Restiamo lì, ognuno dei due in attesa che l'altro si sbilanci di tanto così. Due vecchie signore sorridenti ci passano accanto, una punta il dito verso di noi e dice all'altra: «E lui quel signore tanto caro che ti dicevo. Quello che ha strangolato la mia gattina». L'altra signora ha il maglione abbottonato storto, e dice: «Taci, che una volta ha quasi ammazzato mia sorella di botte». Se ne vanno. «È bello» dice la dottoressa Marshall. «Quello che stai facendo, intendo. Regali a queste persone un epilogo per i nodi più problematici delle loro vite.» Con l'aspetto che ha oggi, uno dovrebbe pensare a maxitamponamenti multipli. Immaginare lo scontro frontale tra due furgoncini carichi di scorte di sangue. Con l'aspetto che ha oggi, per durare anche solo trenta secondi uno dovrebbe pensare alle fosse comuni. A cibo per gatti marcio e a tumori ulcerati e a organi per la donazione scaduti. Tanto Paige è bella oggi. Chiedo scusa, ma devo ancora andare a prendere il budino. Lei dice: «Sei fidanzato? È questo il motivo?». Il motivo per cui qualche giorno fa non abbiamo fatto sesso nella cappella. Il motivo per cui pur avendocela davanti nuda e disponibile non ce l'ho fatta. Il motivo per cui sono scappato. Per una lista completa di partner sessuali, pregasi consultare la mia fase quattro. Vedi anche: Nico. Vedi anche: Leeza. Vedi anche: Tanya. La dottoressa Marshall spinge il bacino verso di me e dice: «Lo sai come muoiono di solito i pazienti come tua madre?». Non mangiano. Dimenticano come si fa a deglutire e inspirano cibo e acqua nei polmoni per errore. I polmoni si riempiono di materia organica decomposta e di liquido, si sviluppa una polmonite, e poi muoiono. Dico: lo so. Dico che al mondo ci sono cose peggiori che lasciar morire una persona anziana. «Non è una persona anziana qualunque» dice Paige Marshall. «E tua madre.» E ha quasi settant'anni. «Sessantadue» dice Paige. «Se c'è anche una sola cosa che potresti fare per salvarla e non la fai, allora la uccidi per negligenza.» «In altre parole» dico, «ti dovrei scopare?»


«Ho saputo del tuo curriculum da alcune infermiere» dice Paige Marshall. «So che per te il sesso ricreativo non costituisce un problema. O forse sono io? Non sono il tuo tipo? È questo?» Restiamo in silenzio. Un'assistente infermiera ci passa accanto spingendo un carrello carico di lenzuola appallottolate e asciugamani bagnati. Calza scarpe con la suola in gomma e il carrello ha le ruote gommate. Il pavimento è antico e levigato dal va e vieni, perciò la donna ci scivola accanto senza fare rumore, lasciandosi dietro soltanto una scia di puzzo di piscio da stalla. «Non fraintendermi» dico. «Io di scoparti ne ho voglia. Eccome. In fondo al corridoio, l'assistente infermiera si blocca e si volta verso di noi. Dice: «Ehi, Romeo, perché non la lasci in pace la dottoressa Marshall?». Paige dice: «Non si preoccupi, signorina Parks. È una faccenda tra me e il signor Mancini». Io e Paige restiamo a fissarla finché lei non ci fa un sorrisetto e si allontana, spingendo il suo carrello dietro l'angolo. Si chiama Irene, Irene Parks e sì, lo ammetto, più o meno un anno fa me la sono scopata in auto nel parcheggio qui di fronte. Vedi anche: Caren, infermiera professionale. Vedi anche: Jenine, assistente infermiera. All'epoca pensavo ancora che ognuna di loro potesse diventare una persona speciale, ma senza i vestiti si somigliavano tutte. Ora il suo culo mi attizza tanto quanto un temperamatite. Alla dottoressa Paige Marshall dico: «È lì che ti sbagli». Dico: «Ho una voglia tale che potrei tagliarla a fette». Dico: «E comunque no, io non voglio lasciar morire nessuno, ma non voglio che mia madre torni com'era prima». Paige Marshall sospira. Si risucchia le guance, arriccia le labbra e mi fulmina con gli occhi. Si appoggia la cartelletta sul petto stringendola fra le braccia incrociate. «È fin troppo chiaro» dice. «Il sesso non c'entra niente. Tu non vuoi che tua madre stia meglio, punto e basta. Non sei in grado di avere a che fare con le donne forti e pensi che se lei muore il problema morirà con lei.» Dalla stanza mia mamma chiede: «Cosa ti pago a fare, Morty?». Paige Marshall dice: «Puoi anche mentire ai miei pazienti e risolvere i loro conflitti di una vita, ma almeno non mentire a te stesso». Poi dice: «E non mentire a me». Paige Marshall dice: «Preferiresti vederla morta, piuttosto che guarita». E io dico: «Sì. Cioè, no. Cioè, non lo so». Per tutta la vita mia madre mi ha trattato più da ostaggio che da figlio. Da cavia per i suoi esperimenti sociologici e politici. Un topolino da laboratorio. Ora lei è mia, e non se la caverà morendo, oppure guarendo. Io voglio soltanto qualcuno da salvare. Voglio una persona che abbia bisogno di me. Che senza di me non possa vivere. Voglio essere un eroe, ma non una volta sola. Voglio essere il salvatore di qualcuno, anche se questo significa mantenerlo invalido. «Lo so, lo so che sono cose terribili da dire» le dico, «ma che posso farci? Io la penso così.» Ed è lì che a Paige Marshall dovrei dire come la penso davvero. Insomma, io sono stufo di avere sempre torto solo perché sono un maschio. Cioè, quante volte un uomo può sentirsi ripetere che è un oppressore, che è prevenuto, che è un nemico, prima che decida di gettare la spugna e diventare un nemico davvero? Insomma, porco maschilista mica ci nasci, ti ci fanno diventare, e sempre più spesso sono proprio le donne a fartici diventare. Dopo un po' ti arrendi e accetti di essere sessista, bacchettone, insensibile, rozzo, un imbecille se ce n'è uno. Le donne hanno ragione. Sei tu che ti sbagli. Dopo un po' ti ci abitui. Ti adegui alle loro aspettative. Anche se la scarpa non è della tua taglia, il piede ce lo fai entrare a forza. Diciamocelo: in un mondo senza più Dio, il nuovo dio non sono forse le madri? L'ultimo bastione sacro e inespugnabile. Che la maternità sia l'ultima magia perfetta, l'ultimo miracolo? Ma è un miracolo impossibile per gli uomini. Che gli uomini dicano tanto di essere felici di non dover partorire, per via del dolore e del sangue, ma che in realtà la loro sia tutta invidia? Di sicuro gli uomini non sanno fare nulla di tanto incredibile. Muscolature superiori sviluppate, pensieri astratti, falli: tutti gli apparenti vantaggi degli uomini sono in realtà più che altro simbolici. Con un fallo non ci pianti nemmeno un chiodo. Le donne nascono già talmente avvantaggiate, a livello di capacità. Se un giorno gli uomini impareranno a partorire allora sì che si potrà cominciare a parlare di parità fra i sessi. Tutto questo a Paige non lo dico. Le dico invece che voglio essere l'angelo custode di qualcuno. "Vendetta" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. «E allora salvala, scopami» dice la dottoressa Marshall. Ma io non voglio salvarla completamente» dico. Ho il terrore di perderla, ma se non perdo lei rischio di perdere me stesso. Ho ancora il diario di mia madre nella tasca della giacca. Ho ancora il budino da andare a prendere. «Non vuoi che muoia» dice Paige, «e non vuoi che guarisca. Ma allora cos'è che vuoi?» «Qualcuno che sappia leggere l'italiano» dico. Paige dice: «Eh?».«Guarda» dico, e le faccio vedere il diario. «È di mia mamma. È scritto in italiano.» Paige lo prende e lo sfoglia. Ha i bordi delle orecchie rossi, surriscaldati. «All'università ho fatto quattro anni di italiano» dice. «Sono in grado di dirti cosa c'è scritto.» «Voglio soltanto avere il controllo» le dico. «Voglio essere io l'adulto, per una volta.» Sfogliando il diario, la dottoressa Paige Marshall dice: «Tu vuoi che resti debole perché così puoi farne quello che vuoi». Alza gli occhi verso di me e dice: «Si direbbe che vuoi sentirti Dio».


CAPITOLO 19 A Colonial Dunsboro si aggirano galline bianche e nere, galline con la testa appiattita. Galline senza ali o con una zampa sola. Galline senza zampe, che nuotano nella melma dell'aia agitando le ali malconce. Galline cieche, senza occhi. Senza becco. Nate così. Difettose. Nate con i loro cervellini di gallina già spappolati. La linea che separa la scienza dal sadismo è invisibile, ma qui la rendono visibile. Non che il mio cervello se la passi molto meglio. Pensate solo a mia madre. La dottoressa Marshall dovrebbe vederle, le galline. Come tirano avanti. Ma non capirebbe. Sono qui con Denny, e Denny si infila una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e tira fuori una pagina di giornale ripiegata in un quadratino minuscolo. Questo è contrabbando bello e buono. Se Sua Altezza Reale il Governatore lo becca, Denny finisce cacciato e disoccupato. E invece lui mi allunga la pagina di giornale, proprio lì, in mezzo al cortile, davanti al capanno delle mucche. Giornale a parte, siamo talmente realistici che gli abiti che abbiamo indosso non sembrano neppure esser mai stati lavati in questo secolo. La gente scatta foto, cerca un pezzo di te da portarsi a casa come souvenir. La gente punta le videocamere, cerca di intrappolarti nelle sue vacanze. Tutti che ti riprendono, che riprendono le galline invalide. Tutti che cercano di far durare ogni singolo minuto del presente in eterno. Di conservare ogni istante. Nel capanno delle mucche si sente il risucchio di qualcuno che aspira da un cilum. Non si vede nessuno, ma si avverte la tensione silenziosa di un gruppo di persone strette in cerchio che tentano di trattenere il respiro. Una ragazza tossisce. Ursula, la mungitrice. Lì dentro c'è tanto di quel fumo che persino una mucca tossisce. Il tutto mentre teoricamente noi due dovremmo essere in giro a raccogliere ricordini di mucca secchi. Sì, insomma, cacca. E Denny mi fa: «Leggilo, bello. L'annuncio segnato con un cerchio». Apre la pagina e mi fa vedere. «Questo qui» dice. Un annuncio cerchiato in rosso. Con la mungitrice nei paraggi. Con i turisti. Ci sono almeno un miliardo di modi in cui potremmo farci beccare. Se non è prevedibile Denny. Sulla mia mano, il pezzo di carta è ancora tiepido del suo sedere, e quando io gli faccio: «Qui no, dai» e cerco di restituirglielo... Quando lo faccio Denny dice: «Scusa, io non... non voglio metterti nei guai. Se vuoi te lo leggo io». I bambini delle elementari che vengono in gita qui si divertono un sacco a visitare il pollaio e guardare le uova che si dischiudono. Eppure, una gallina normale non è interessante quanto, per dire, una gallina con un occhio solo o una gallina senza collo o con una zampa rattrappita e paralitica, perciò i bambini le uova le scuotono. Le scuotono forte, dopodiché le rimettono a posto. E se poi i pulcini nascono deformi o pazzi, è per scopi educativi. I più fortunati sono quelli che nascono morti. Curiosità o crudeltà? Io e la dottoressa Marshall potremmo andare avanti a discuterne per ore, poco ma sicuro. Raccolgo con la pala un po' di cacche, facendo attenzione a non spezzarle. Così l'interno, che è ancora molle, non puzza. Ho tanta di quella merda di mucca sulle mani che devo stare attento a non mangiarmi le unghie. Accanto a me, Denny legge: «Ventitreenne ex sessodipendente a basso reddito, di buona compagnia e abituato a non sporcare in giro cerca casa.» Poi mi legge un numero di telefono. E il suo. «Sono i miei, bello. E il loro numero» dice Denny. «Che stiano cercando di farmi capire qualcosa?» Se l'è ritrovato sul letto ieri sera. Denny dice: «Sono io quello dell'annuncio». Gli dico che fin lì c'ero arrivato. Con una pala di legno continuo a raccogliere cacche, le butto in un grosso coso di vimini. Sì, insomma, in una specie di cesta. Denny mi chiede se può venire a stare da me. «Cioè, alla peggio» dice. «Proprio come ultima spiaggia.» Non gli chiedo se è perché non vuole darmi disturbo o perché l'idea di vivere con me non lo fa esattamente impazzire. L'alito di Denny sa di patatine di mais. Altra trasgressione al personaggio storico. Denny se le va proprio a cercare. Ursula la mungitrice esce dal capanno delle mucche e ci guarda con gli occhietti strafatti iniettati di sangue. «Se una ragazza che ti piace» gli dico «ti chiedesse di fare sesso con lei solo per farsi mettere incinta, tu lo faresti?» Ursula si solleva i lembi della gonna e ci viene incontro facendo lo slalom tra le cacche di mucca, ciabattando negli zoccoli di legno. Con un calcio sbatte via una gallina cieca che le finisce tra i piedi. Qualcuno la fotografa mentre sferra il calcio. Una coppia marito e moglie le chiede di prendere in braccio il figlio per scattargli una foto, poi però forse le vedono gli occhi. «Non lo so» dice Denny. «Fare un bambino non è come prendere un cane. Cioè, i bambini durano un sacco.» «Ma se lei il bambino non volesse tenerlo?» dico. Gli occhi di Denny guardano su e poi giù, senza fissare niente di preciso, poi si fermano su di me. «Fammi capire» dice. «Stai dicendo che, tipo, vuole venderlo?» «Sto dicendo che, tipo, lo vuole sacrificare» dico. E Denny dice: «E che cazzo». «Mettiamo» dico, «che questa ragazza voglia prendere il feto, spappolargli il cervello e succhiarglielo via con un siringone, per poi iniettarlo nella testa di una persona che il cervello ce l'ha danneggiato, per curarla» dico. Le labbra di Denny si dischiudono di un millimetro. «Non stai pensando a me, vero?» Sto pensando a mia mamma.


Lo chiamano trapianto neurale. C'è chi dice che è un tipo di innesto naturale, e a questo punto è l'unico modo per ricostruire il cervello di mia mamma. Se ne sentirebbe parlare di più, non fosse per i problemi a reperire... sì, insomma, l'ingrediente chiave. «Puré di bambino» dice Denny. «Di feto» dico io. Tessuto fetale, ha detto la dottoressa Marshall con quella pelle e quella bocca. Ursula si ferma vicino a noi e indica il foglio di giornale che Denny ha in mano. Dice: «A meno che su quello non ci sia scritto 1734, sappi che ce l'hai nel culo. È una trasgressione al personaggio». I capelli di Denny stanno tentando di ricrescere, ma alcuni vengono su sottopelle e rimangono intrappolati in foruncoli rossi e bianchi. Ursula fa per andarsene, poi si volta. «Victor» dice, «sono a fare il burro, se hai bisogno di me.» Dopo, le dico. E lei si trascina via. Denny dice: «Perciò devi scegliere tra tua madre e il tuo primogenito?». Sai che roba, dice la dottoressa Marshall. Lo facciamo tutti i giorni. Uccidiamo chi deve ancora nascere per salvare chi invecchia. Nella luce dorata della cappella, ansimandomi le sue ragioni all'orecchio, mi ha chiesto: ogni volta che bruciamo un litro di benzina o un ettaro di foresta tropicale non stiamo forse uccidendo il futuro per salvare il presente? L'intera struttura piramidale della previdenza sociale. Ha detto, premendomi i seni contro, ha detto: se lo faccio è perché ho a cuore tua madre. Il minimo sarebbe che tu facessi la tua piccola parte. Non le ho chiesto cosa intendesse per piccola parte. E Denny dice: «Su, a me la verità puoi raccontarla». Non so. E che proprio non ce la facevo. A fare la mia cazzo di parte, intendo. «No» dice Denny. «Ti chiedevo se hai letto il diario di tua madre». No, non ci riesco. Questa storia di far fuori un bambino mi ha mandato un po' in palla. Denny mi guarda dritto negli occhi e dice: «Cos'è, davvero sei un cyborg? E questo il super segreto di tua madre?». «Un cosa?» gli faccio. «Ma sì, dai» dice lui, «un umanoide artificiale con un tempo di vita limitato, a cui però hanno impiantato finti ricordi di in fanzia perché pensi di essere una persona vera, ma che invece morirà di lì a poco.» E io guardo Denny e dico: «Fammi capire, mia mamma ti ha detto che sono una specie di robot?». «C'è scritto anche sul diario?» dice Denny. Due donne si avvicinano con una macchina fotografica e una delle due dice: «Vi spiace?». «Dite cheese» gli faccio e scatto una foto di loro che sorridono davanti al capanno delle mucche, dopodiché se ne vanno con l'ennesimo effimero ricordo che per poco non gli sfuggiva. L'ennesimo istante pietrificato da custodire gelosamente. «No, non ho letto il diario» dico. «Non mi sono scopato Paige Marshall. Non posso fare un cazzo di niente finché non prendo una decisione.» «Va bene, va bene» dice Denny. Mi dice: «Ma allora cosa sei? Un cervello in un vaso da qualche parte che grazie a stimoli elettrici e chimici pensa di avere una vita vera?». «No» gli faccio. «Un cervello di sicuro no. Non direi proprio.» «E va bene» dice lui. «Allora forse sei un programma di intelligenza artificiale che interagisce con altri programmi in una realtà simulata.» «Per te cosa cambierebbe?» gli faccio. «Già, in effetti anch'io sarei solo un computer» dice Denny. «Sì, bello, ho capito cosa intendi. Io faccio fatica persino a contare i soldi per l'autobus.» Denny strizza gli occhi e piega la testa all'indietro, e mi fissa alzando un sopracciglio. «Faccio un ultimo tentativo» dice. Dice: «Ok, per come la vedo io tu sei la cavia di un esperimento, e il mondo in cui vivi è tutta una struttura artificiale popolata da attori che interpretano i ruoli delle persone che conosci, il sole e la pioggia sono effetti speciali e il cielo è dipinto sul soffitto e il paesaggio è una specie di set. È così?». E io gli faccio: «Eh?». «E io sono un attore bravissimo, un attore della madonna» dice Denny, «e faccio solo finta di essere quel coglione del tuo amico sfigato che si ammazza di seghe.» Qualcuno scatta una foto di me che digrigno i denti. E io guardo Denny e dico: «Magari facessi finta». Al mio fianco spunta un turista che mi sorride a trentasei denti. «Victor, ciao!» dice. «Allora è qui che lavori.» Come faccia a conoscermi, non ne ho la più pallida idea. A medicina. Al college. In un altro posto di lavoro. O forse è solo uno dei maniaci sessuali del mio gruppo. Strano. Non ha l'aria del sessodipendente, ma d'altronde nessun sessodipendente ce l'ha. «Sai, Maude» dice il tizio dando un colpetto di gomito alla donna che lo accompagna. «È lui quel ragazzo di cui ti parlo sempre. Quello a cui ho salvato la vita.» E la donna dice: «Oh, capperi! Ma allora è vero?». Si stringe nelle spalle e alza gli occhi al cielo. «Il mio Reggie non fa altro che parlare di te. E io che pensavo ci stesse ricamando sopra.» «Ehm, sì» dico. «Sì, come no, il vecchio Reg mi ha salvato.» E Denny dice: «Al giorno d'oggi chi non l'ha fatto?». Reggie dice: «Come te la passi ultimamente? Io ti ho mandato tutto quello che potevo. Ti sono bastati per quel del dente del


giudizio che dovevi farti togliere?». E Denny dice: «Oh, Signore». Una gallina cieca, con metà testa, senza ali e coperta di merda mi viene a sbattere contro lo stivale, e quando mi chino per accarezzarla la sento tremare sotto le piume. Il suo è un verso delicato, un gorgoglio, pare che faccia le fusa. È bello vedere qualcosa di più patetico di come mi sento io in questo istante. Di colpo mi sorprendo con l'unghia di un dito in bocca, cacca di mucca. Merda di gallina. Vedi anche: Istoplasmosi. Vedi anche: Tenia. E dico: «È vero, i soldi». Dico: «Grazie mille, Reg». E sputo. Due volte. Sento il click di Reggie che mi scatta una foto. L'ennesimo istante stupido da far durare per sempre. E Denny guarda il foglio di giornale che ancora tiene in mano e dice: «Allora, posso venire a stare a casa di tua mamma, sì o no?».


CAPITOLO 20 Il cliente delle tre si presentava dalla mamma stringendo in mano un asciugamano giallo, e sul dito indice aveva un solco bianco nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la fede nuziale. Nell'istante stesso in cui la Mamma chiudeva la porta a chiave, il cliente tentava di darle i soldi. Faceva per togliersi i pantaloni. Si chiamava Jones, diceva alla Mamma. Di nome faceva Signor. Quelli che andavano da lei, la prima volta si comportavano tutti allo stesso modo. Mi paghi dopo, gli diceva la Mamma. Non avere fretta. I vestiti tienili addosso. C'è tutto il tempo. Gli diceva che il registro degli appuntamenti era pieno di Signor Jones, Signor Smith, Signor White e Signor Nessuno, perciò gli conveniva trovarsi uno pseudonimo migliore. Gli diceva di sedersi sul divano. Chiudeva le veneziane. Abbassava le luci. Era così che riusciva a fare un mucchio di soldi. Non violava i termini della libertà condizionata, ma questo soltanto perché la commissione che gliel'aveva concessa aveva poca fantasia. All'uomo sul divano la Mamma diceva: «Cominciamo?». Anche se un cliente sosteneva di non cercare sesso, la Mamma gli diceva ugualmente di portare un asciugamano. Portavi un asciugamano. Pagavi in contanti. Non dovevi chiederle di metterti il tutto sul tuo conto o di addebitarlo a una qualche compagnia d'assicurazioni perché lei non ci pensava nemmeno. Prima paghi in contanti, poi se vuoi sporgi reclamo. Cinquanta minuti, non uno di più, non uno di meno. I clienti dovevano sapere cosa volevano. Ovvero che donna, in che posizioni, con che atmosfera e quali giocattoli. Che non gli saltasse in mente di uscirsene all'ultimo con qualche idea strampalata. Diceva al Signor Jones di stendersi. Di chiudere gli occhi. Di lasciar defluire la tensione dal viso. A cominciare dalla fronte. Distendila. Rilassa lo spazio in mezzo agli occhi. Immagina di avere la fronte distesa e rilassata. Poi i muscoli intorno agli occhi, distesi e rilassati. Poi quelli intorno alla bocca. Distesi e rilassati. Anche quando i clienti sostenevano di voler soltanto perdere qualche chilo, in realtà cercavano sesso. Quando volevano smettere di fumare. Imparare a controllare lo stress. Smettere di mangiarsi le unghie. Farsi passare il singhiozzo. Darci un taglio con l'alcol. Eliminare le impurità della pelle. Qualunque fosse il loro problema, il motivo era che non scopavano. Qualunque cosa dicessero di volere, lì trovavano sesso, e il problema era bell'e risolto. Se la Mamma fosse un genio misericordioso o semplicemente una puttana, non è chiaro. Il sesso cura più o meno tutti i mali. Era la terapista migliore sulla piazza, o forse solo una puttana che ti si fotteva il cervello. Non amava essere così sbrigativa con i clienti, ma non aveva mai pianificato di guadagnarsi da vivere in quel modo. Quel tipo di sedute, quelle sessuali, inizialmente erano capitate per caso. Un cliente che voleva smettere di fumare le chiese di regredire fino al giorno in cui, undicenne, aveva fatto il primo tiro di sigaretta. Per ricordare quanto gli aveva fatto schifo. Per smettere, tornando indietro e non cominciando affatto. Era stata quella l'idea di base. Alla seconda seduta, il cliente chiese di incontrare il padre morto di cancro ai polmoni, così, tanto per farci due chiacchiere. Tutto sommato una cosa ancora abbastanza normale. Un sacco di persone vogliono incontrare celebrità defunte, per farsi aiutare, per chiedere consigli. Il tutto risultò così reale che alla terza seduta il cliente chiese di incontrare Cleopatra. A tutti i clienti la Mamma diceva: fai scivolare la tensione dal viso al collo, poi dal collo al petto. Rilassa le spalle. Falle ricadere all'indietro, appoggiale sul divano. Immagina di avere un grosso peso addosso, che ti spinge giù la testa e le braccia, e le fa affondare nei cuscini del divano. Rilassa le braccia, i gomiti, le mani. Senti la tensione incanalarsi nelle dita, poi rilassati e immaginala defluire dalla punta di ogni singolo dito. In pratica, prima gli provocava una trance, un'induzione ipnotica, e poi guidava l'esperienza. Il cliente non riviveva il suo passato. Era tutto finto. L'importante era che lui lo desiderasse davvero. La Mamma si limitava a fornire la radiocronaca. La descrizione particolareggiata. Il commento. Immaginate di ascoltare una partita alla radio. Pensate a quanto può sembrare reale. Dopodiché immaginate di viverla immersi in una trance di livello theta, una trance profonda in cui si sentono rumori e odori. Sapori e sensazioni tattili. Immaginate Cleopatra che si rigira sul tappeto, nuda e perfetta e proprio come l'avete sempre desiderata. Immaginate Salomè. Immaginate Marilyn Monroe. Immaginate di poter tornare indietro nel tempo, in qualsiasi epoca storica, e di poter avere qualsiasi donna, donne pronte a farvi tutto ciò che siete in grado di immaginare. Donne incredibili. Donne famose. Il teatro della mente. Il bordello del subconscio. È così che era cominciata. Certo, la Mamma praticava l'ipnosi, né più ne meno, ma non si regrediva a un passato realmente avvenuto. Era più che altro una sorta di meditazione guidata. La Mamma diceva al Signor Jones di concentrarsi sulla tensione che avvertiva nel petto e di lasciarla dissolvere. Di farla scorrere verso la vita, verso i fianchi, verso le gambe. Di immaginare spirali d'acqua che defluivano in uno scarico. Di rilassare ogni singola parte del corpo, di lasciar scorrere la tensione verso le ginocchia, le tibie, i piedi. Di immaginare del fumo trasportato dal vento. Lasciare che si disperda. Guardarlo svanire. Scomparire. Dissolversi. Nel registro degli appuntamenti, accanto al nome del cliente c'era scritto Marilyn Monroe, la stessa scelta fatta da molti altri la prima volta. La Mamma avrebbe tranquillamente potuto campare facendo solo Marilyn. Facendo solo la Principessa Diana. Al Signor Jones diceva: immagina di fissare il cielo azzurro, immagina che ci sia un piccolo aeroplano che con la scia disegna una Z. Adesso lascia che il vento la cancelli. Immagina l'aereo che disegna la lettera Y. Lascia che il vento la cancelli. Poi la X. Cancellala. Poi la W. Lascia che il vento la cancelli.


Lei si limitava a predisporre lo scenario. A presentare agli uomini il loro ideale. Gli combinava un appuntamento con il loro subconscio perché la realtà non arriva mai dove può spingersi l'immaginazione. Nessuna donna è davvero bella come lo è nella tua testa. Niente è eccitante quanto la tua fantasia. Lì da lei potevi fare sesso come prima avevi solo sognato. Lei allestiva lo scenario e faceva le presentazioni. Il resto della seduta lo passava a guardare l'orologio, a volte leggeva un libro o faceva le parole crociate. Lì da lei non restavi mai deluso. Il cliente, sprofondato nella trance, se ne stava sdraiato sul divano, si contorceva e si strusciava, come un cane che sogna di dare la caccia ai conigli. Ogni tot clienti gliene capitava uno che gridava o gemeva o grugniva. Chissà cosa pensava la gente nella stanza accanto. I clienti in sala d'attesa sentivano tutto quanto e andavano su di giri. Alla fine della seduta il cliente era fradicio di sudore, con la camicia bagnata appiccicata alla pelle e i pantaloni macchiati. Alcuni dovevano letteralmente svuotarsi le scarpe. Scrollare i capelli inzuppati. Il divano era idrorepellente, eppure non si asciugava mai del tutto. Adesso è sigillato in una fodera di plastica trasparente, più per non lasciar trapelare gli anni assurdi di cui è impregnato che per proteggerlo dal mondo esterno. E così i clienti dovevano portarsi un asciugamano, nella ventiquattrore, in sacchetti di carta, nel borsone della palestra con i vestiti di ricambio. Tra un cliente e l'altro, la Mamma spruzzava deodorante per ambienti. Apriva le finestre. Al Signor Jones diceva: fai confluire tutta la tensione del corpo nelle punte dei piedi, poi lascia che si riversi all'esterno. Tutta quanta. Immagina di avere il corpo completamente disteso. Rilassato. Molle. Rilassato. Pesante. Rilassato. Svuotato. Rilassato. Respira con la pancia invece che con il torace. Inspira, ed espira. Inspira, espira. Inspira. Ed espira. Calmo e regolare. Hai le gambe stanche e pesanti. Le braccia stanche e pesanti. Lo stupido ragazzino ricorda che all'inizio la mamma faceva le pulizie nelle case, ma non con stracci e aspirapolvere. Faceva pulizie spirituali, esorcismi. La cosa più difficile era stata convincere quelli delle Pagine Gialle a inserirla come "Esorcista". Vai lì e bruci qualche foglia di salvia. Giri per la casa dicendo il Padre Nostro. Magari dai un paio di colpetti su un tamburo di terracotta. Poi annunci che la casa è decontaminata. E loro pagano. Angoli di casa freddi, cattivi odori, senso di inquietudine: sono pochi quelli a cui serve davvero un esorcista. Di solito basterebbe una caldaia nuova o un idraulico o un arredatore. Il punto è che non importa cosa pensi tu. L'importante è che loro siano convinti di avere un problema. La maggior parte dei lavori ti arrivano attraverso gli agenti immobiliari. In questa città esiste una legge sulla trasparenza dei contratti, e la gente ammette i difetti più stupidi, mica solo le strutture in amianto e i bidoni di scorie sotterrati. Fantasmi e poltergeist. Tutti vorrebbero una vita più movimentata di quella che hanno in realtà. Potenziali acquirenti sul punto di chiudere il contratto che hanno bisogno di essere rassicurati. L'agente immobiliare ti contatta e tu insceni il tuo spettacolino, bruci un po' di salvia e alla fi ne sono tutti contenti. Gli acquirenti ottengono quello che vogliono, e in più hanno un aneddoto curioso da raccontare agli amici. Un'esperienza. Poi fu la volta del Feng Shui, ricorda il ragazzino, e i clienti oltre all'esorcismo volevano anche sentirsi dire dove piazzare il divano. Chiedevano dove andava messo il letto per evitare di ostruire il chi che si irradiava dall'angolo della specchiera. Dove andavano appesi gli specchi per far rimbalzare il flusso di chi su per le scale o per deviarlo dalle porte aperte. Il suo lavoro diventò quello. Ecco cosa si riesce a combinare con una laurea in lettere. Il curriculum vitae della mamma era la prova concreta dell'esistenza della reincarnazione. Con il Signor Jones, la Mamma ripercorreva l'alfabeto all'indietro. Gli diceva: sei in mezzo a un prato verde, ma vedi le nuvole che scendono dal cielo, sempre più basse, queste nuvole prima ti sovrastano, e infine ti circondano di una nebbia fitta. Una nebbia fitta e luminosa. Immagina di trovarti in mezzo a una nebbia luminosa e fresca. Hai il futuro alla tua destra. Il passato alla tua sinistra. La nebbia è fresca e umida e ti bagna il viso. Voltati verso sinistra e comincia a camminare. Immagina, diceva al Signor Jones, di intravedere una forma nella nebbia. Continua a camminare. Ora senti che la nebbia si sta alzando. Senti il sole che splende nel cielo e ti scalda le spalle. La forma si avvicina. Passo dopo passo, si fa sempre più nitida. Qui, dentro la mente, la privacy è totale. Non c'è differenza tra quello che è e quello che potrebbe essere. Non si prendono le malattie. O le piattole. Non si infrange la legge. Né ci si accontenta mai di ciò che è al di sotto delle aspettative. Si può fare tutto ciò che la fantasia ti suggerisce. Diceva ai clienti: inspira. Ed espira. Puoi avere chiunque. Ovunque. Inspira. Ed espira. Poi, dal Feng Shui passò allo spiritismo. Antichi dei, condottieri illuminati, animaletti domestici defunti, attraverso la Mamma si


manifestava chiunque. Dallo spiritismo passò all'ipnosi e alle regressioni. Erano state le regressioni a portarla dov'era: a nove clienti al giorno, duecento sacchi a botta. Agli uomini che per tutto il giorno affollavano la sala d'attesa. Alle mogli che telefonavano al ragazzino strillando: «Lo so che è lì. Non so cosa va in giro a raccontare, ma è sposato.» Alle mogli che si appostavano in macchina, giù in strada, e che chiamavano dai cellulari dicendo: «Lo so cosa fate lì. L'ho seguito.» Non era stata una decisione presa a tavolino dalla Mamma, quella di rievocare le donne più potenti della storia perché facessero seghe, pompini, sessantanove, bocca-fica e davanti-e-dietro. Le cose successero da sole. Il primo cliente ne parlò in giro. Un suo amico la contattò. Poi la contattò un amico di questo secondo cliente. All'inizio tutti quanti chiedevano aiuto per cose normali. Smettere di fumare o di masticare tabacco. Di sputare nei luoghi pubblici. Di rubare nei negozi. Dopo un po' volevano soltanto sesso. Volevano Clara Bow e Betsy Ross e la regina Elisabetta e quella di Saba. E ogni giorno la Mamma andava in biblioteca a documentarsi sulle donne del giorno dopo, Eleanor Roosevelt, Amelia Earheart, Harriet Beecher Stow. Inspirare. Ed espirare. Veniva contattata da tizi che volevano scoparsi Helen Hayes, Margaret Sanger e Aimee Semple McPherson. Che volevano chiavarsi Edith Píaf, Sojourner Truth e l'imperatrice Teodora. E all'inizio la Mamma era un po' infastidita dal fatto che quegli uomini fossero ossessionati solo ed esclusivamente da donne ormai morte. E dal fatto che non volessero mai due volte la stessa donna. E per quanto lei cercasse di arricchire la seduta con il maggior numero di dettagli possibile, quelli volevano soltanto fottere e chiavare, trombare e sfondare, sbattere, ficcare, trapanare, stantuffare, montare, ingroppare, riempire e cavalcare. E a volte un verbo un po' colorito non rende l'idea. A volte un verbo un po' colorito è più vero della realtà che dovrebbe celare. Il sesso c'entrava ben poco. I clienti volevano solo ed esclusivamente quello che dicevano di volere. Niente conversazione, niente abiti d'epoca o ricostruzioni storiche accurate. Volevano Emily Dickinson nuda in tacchi a spillo con un piede appoggiato per terra e l'altro sulla scrivania, piegata a novanta, che si sfregava una penna d'oca tra le chiappe. Pagavano duecento dollari per cadere in trance e trovarci Mary Cassat con il wonderbra. Non tutti potevano permetterselo, perciò alla Mamma capitavano sempre le stesse persone. Parcheggiavano la station wagon sei isolati più in là e si precipitavano da lei camminando rasenti ai muri, trascinandosi dietro la propria ombra. Entravano trafelati, con gli occhiali scuri, e nascosti dietro le pagine dei quotidiani e delle riviste aspettavano che la Mamma pronunciasse il loro nome. O il loro pseudonimo. Se per caso la Mamma e lo stupido ragazzino li incontravano in pubblico, loro facevano finta di non conoscerla. In pubblico avevano una moglie. Al supermercato avevano dei figli. Nei parchi, dei cani. Nomi veri. Pagavano con biglietti da venti e da cinquanta umidicci sfilati da portafogli fradici pieni di foto sudate, tessere di biblioteche, carte di credito, tessere di club, patenti, monetine. Obblighi. Responsabilità. Vita vera. Immagina, diceva la Mamma ai clienti, di sentire il sole sulla pelle. Il sole che a ogni respiro diventa sempre più caldo. Il sole che splende e ti riscalda il viso, il petto, le spalle. Inspira. Ed espira. Inspira. Espira. I clienti fissi cominciarono a chiedere due donne alla volta, volevano una cosa a tre con Indira Ghandi e Carol Lombard. Margaret Mead e Audrey Hepburn e Dorothea Dix. I clienti fissi non volevano più essere se stessi. Quelli pelati chiedevano di avere chiome folte. Quelli grassi volevano muscoli. Quelli pallidi, una bella abbronzatura. Dopo un po' di sedute, i clienti fissi cominciarono a chiedere di avercelo di trenta centimetri e perennemente duro. Perciò non si trattava di regressione al passato vera e propria. E non era amore. Non era storia e non era realtà. Non era televisione, però andava in onda. Nella mente. Era una trasmissione, e la Mamma era l'emittente. Non era sesso. Lei era soltanto la guida turistica di un sogno bagnato. Una lap dancer dell'ipnosi. I clienti tenevano i pantaloni indosso per limitare i danni. Per contenersi. L'effetto andava ben oltre qualche chiazza nelle mutande. E rendeva un sacco di soldi. Il Signor Jones viveva l'esperienza-Marilyn standard. Si irrigidiva sul divano, sudava e respirava affannosamente dalla bocca. Gli occhi si rovesciavano all'indietro. La camicia si copriva di chiazze scure sotto le ascelle. Il cavallo dei pantaloni si gonfiava. Eccola, diceva allora la Mamma al Signor Jones. La nebbia non c'è più e il sole splende, fa caldo. Senti l'aria che ti accarezza la pelle nuda, le braccia e le gambe scoperte. Senti il calore che aumenta a ogni respiro. Sentilo diventare sempre più lungo e più grosso. Più duro e massiccio, rosso e pulsante come mai prima d'ora. L'orologio della Mamma diceva: altri quaranta minuti prima del prossimo cliente. La nebbia non c'è più, Signor Jones, e la forma che hai davanti agli occhi è Marilyn Monroe, con indosso un vestitino di satin attillato. Bionda e sorridente, con gli occhi socchiusi, la testa leggermente all'indietro. L in mezzo a un campo di fiorellini minuscoli e solleva le braccia, e mentre ti avvicini il vestito le scivola giù. Allo stupido ragazzino la mamma diceva che quello non era sesso. Che quelle non erano donne reali, ma simboli. Proiezioni. Simboli sessuali. Il potere della suggestione. Al Signor Jones la Mamma diceva: «Prendila». Gli diceva: «È tutta tua».


CAPITOLO 21 Quella prima sera, Denny è davanti alla porta di casa con in braccio una cosa fasciata in una coperta da neonato rosa. Il tutto visto attraverso lo spioncino della porta di casa di mia mamma: Denny con il suo enorme giaccone scozzese, Denny che sembra stringere al petto un bambino, col naso a palla, gli occhi a palla, tutto quanto a palla per via della lente dello spioncino. Tutto quanto distorto. Le mani che stringono il fagotto sono bianche per lo sforzo. E Denny strilla: «Apri, dai!». Ed io apro la porta fin dove la catenella si tende. Gli faccio: «Cos'è quella roba?». E Denny rimbocca la coperta che avvolge il fagotto e dice: «A te cosa sembra?». «A me sembra un bambino» dico. E Denny dice: «Ottimo». Solleva il fagotto rosa e dice: «Fammi entrare, bello, che questo coso comincia a pesare». Allora tolgo la catenella. Mi faccio da parte e Denny piomba in casa e si fionda in un angolino del salotto, dove scaraventa il bambino sul divano fasciato nella plastica. La coperta rosa si srotola e dal suo interno rotola fuori una pietra grigia, color granito, levigata e dall'aria liscissima. Niente bambino, quindi, solo questo macigno. «Devo dire grazie a te per l'idea del bambino» dice Denny. «Quando vede un ragazzo con un neonato la gente è più bendisposta» dice. «Se invece vedono che te ne vai in giro con una pietra, si agitano. Specie se te la porti sull'autobus.» Pinza sotto il mento un lembo della coperta rosa e comincia a ripiegarla e dice: «In più, con un bambino trovi sempre da sedere. E se dimentichi i soldi a casa non ti fanno scendere». Denny si schiaffa la coperta ripiegata sulla spalla e dice: « È questa casa di tua mamma?». Sul tavolo da pranzo sono sparsi i bigliettini d'auguri e gli assegni di oggi, le mie lettere di ringraziamento, il registro del chi e del dove. Accanto c'è la vecchia addizionatrice a dieci tasti di mia mamma, una di quelle con una lunga leva da slot-machine sul fianco. Torno a sedermi, comincio a preparare la busta per il versamento alla cassa continua di oggi e dico: «Sì, è questa, almeno finché quelli delle imposte non mi sbatteranno fuori, tra qualche mese». Denny dice: «Meno male che hai una casa intera, i miei vogliono che porti via anche tutte le mie pietre». «Perché» gli dico, «quante ne hai?» Una per ogni giorno di astinenza, dice Denny. Lo fa di sera, per tenersi occupato. Cerca pietre. Le lava. Se le trascina a casa. Ecco cosa intende quando dice che il suo percorso di disintossicazione deve basarsi su cose grandi e buone invece che su cazzatine piccole e brutte. «Lo faccio per non ricascarci» dice. «Non hai idea di quanto può essere dura trovare pietre decenti in una città. Che non siano pezzettini di cemento, dico, o quelle finte pietre di plastica in cui la gente nasconde i mazzi di chiavi di scorta.» Gli assegni di oggi ammontano a settantacinque dollari. Tutti da parte di sconosciuti che mi hanno fatto la manovra di Heimlich in non so più quale ristorante. Con questi mi sa che non ci compro neanche la scatola del sondino nasogastrico. A Denny dico: «Allora, a quanti giorni sei?». «Ho raccolto centoventisette pietre» dice Denny. Aggira il tavolo e mi viene vicino, guarda gli assegni, dice: «Allora, dov'è questo famoso diario di tua mamma?». Afferra uno dei bigliettini d'auguri. «Non puoi leggerlo» gli dico. Denny dice: «Scusa, bello» e fa per posare il bigliettino. No, gli dico. Il diario. È scritto in un'altra lingua. Per quello non può leggerlo. Nemmeno io posso. Per come ragiona mia madre, deve averlo scritto in quel modo perché non potessi ficcarci il naso quand'ero ragazzino. «Sai» gli dico, «credo che sia scritto in italiano.» E Denny mi fa: «In italiano?». «Già» gli faccio io. «Hai presente, no? Mafia, spaghetti...» Con il giaccone scozzese ancora indosso, Denny dice: «Hai già mangiato?». Ancora no. Chiudo la busta per il versamento. Denny dice: «Secondo te domani mi cacciano?». Sì, no, probabilmente. Ursula l'ha visto col giornale. La busta per il versamento è pronta per essere portata in banca domani. Le lettere di ringraziamento, le lettere da povero derelitto, hanno tutte la firma e il francobollo e sono pronte per essere imbucate. Prendo la giacca dal divano. Accanto c'è la pietra di Denny che opprime le molle. «Ma allora, queste pietre?» gli dico. Denny ha aperto la porta di casa e mi aspetta lì, mentre io spengo un po' di luci. Sulla porta mi dice: «Non so. Però le pietre sono, come dire, terra. E come se tutte quelle pietre fossero un kit. Sempre di terra si tratta, ma che ha bisogno di essere assemblata. Una cosa da proprietari terrieri, però fatta in casa. Almeno per il momento». Gli dico: «Chiaro». Usciamo di casa e io chiudo la porta a chiave. Stanotte il cielo è un ammasso di stelle. Tutte sfocate. Niente luna. Fuori sul vialetto, Denny alza gli occhi verso quel casino e dice: «Secondo me Dio, quando ha creato la terra dal caos, per prima cosa ha messo insieme un mucchio di pietre». Mentre camminiamo, la sua nuova ossessione compulsiva mi fa setacciare con gli occhi i terreni non edificati e tutti i posti in cui potrebbero esserci pietre da raccogliere. Camminando al mio fianco verso la fermata dell'autobus, sempre con la coperta rosa ripiegata sulla spalla, Denny dice:


«Io raccolgo soltanto le pietre che la gente non vuole». Dice: «Ne prendo una sola per sera. Mi dico sempre che prima o poi mi verrà in mente cosa farci, dopo». Che idea inquietante. Noi che ci portiamo a casa delle pietre. Stiamo raccogliendo porzioni di terra. «Ti ricordi quella tipa, Daiquiri?» dice Denny. «La ballerina col neo sospetto.» Dice: «Non è che te la sei fatta, vero?». Stiamo rubando proprietà immobiliari. Svaligiando terraferma. E io gli dico: «E perché no?». Siamo due banditi, due ladri di terra. E Denny dice: «Il suo vero nome è Beth». Per come ragiona Denny, probabilmente sta progettando di costruirsi un pianeta tutto suo.


CAPITOLO 22 La dottoressa Paige Marshall tende un filo bianco stringendone le estremità con le mani guantate. È in piedi accanto a una vecchia accasciata su una sedia con lo schienale reclinabile, e la dottoressa Marshall dice: «Signora Wintower? Dovrebbe aprire la bocca più che può». I guanti di lattice, la sfumatura giallognola che danno alle mani, sembra pelle di cadavere. I cadaveri che si usano nelle lezioni di anatomia al primo anno di medicina, con i capelli e i peli pubici rasati. Minuscoli mozziconi di capelli. La pelle potrebbe essere pelle di pollo, pollo in umido di seconda scelta, ingiallito e disseminato di follicoli sporgenti. Piume o peli, sempre cheratina è. I muscoli della coscia di un essere umano sono identici alla carne di tacchino scurita dalla cottura. Al primo anno di anatomia è impossibile guardare un pollo o un tacchino senza pensare che stai mangiando un cadavere. La vecchia piega la testa all'indietro e sfodera i denti conficcati nella linea curva e marroncina. Ha una patina bianca sulla lingua. Gli occhi chiusi. La faccia che hanno tutte le donne durante la comunione, nelle messe cattoliche, quando fai il chierichetto e devi star dietro al prete che appoggia l'ostia su una lingua dopo l'altra. La chiesa dice che si può prendere l'ostia in mano e mettersela in bocca da soli, ma le vecchie non lo fanno. Ancora oggi, in chiesa, se guardi la gente in fila per la comunio ne vedi duecento bocche aperte, duecento vecchiette che tendono la lingua verso la salvezza. Paige Marshall si china e infila a forza il filo bianco tra i denti della vecchia. Poi tira, e quando il filo salta via, dalla bocca volano fuori pezzettini di roba grigia molliccia. Passa il filo in mezzo ad altri due denti e il filo esce fuori rosso. Per le gengive sanguinanti, vedi anche: Cancro orale. Vedi anche: Gengivite ulcerativa necrotizzante. L'unica cosa divertente quando fai il chierichetto è reggere la patena sotto il mento di quelli che ricevono la comunione. La patena è un piattino d'oro col manico che serve a raccogliere al volo l'ostia se per caso cade. E anche se l'ostia cade per terra, tu devi mangiarla lo stesso. Ormai è consacrata. È diventata il corpo di Cristo. La sua carne. Osservo da dietro Paige Marshall che piazza il filo insanguinato in bocca alla vecchia un'altra volta, e un'altra ancora. Sul davanti del camice di Paige si raccolgono pezzettini grigi e bianchi. Macchioline rosa. Un'infermiera fa capolino dalla porta e dice: «Come andiamo, qui?» Alla vecchia sulla sedia dice: «Paige non le sta facendo male, vero?». La donna gorgoglia qualcosa. L'infermiera dice: «Come, prego?». La vecchia manda giù e dice: «La dottoressa Marshall è delicatissima quando mi pulisce i denti. Mica come lei.» «Abbiamo quasi finito» dice la dottoressa Marshall. «È stata bravissima, signora Wintower.» E l'infermiera scrolla le spalle e se ne va. La cosa divertente di fare il chierichetto è quando colpisci qualcuno alla gola con il piattino. Le persone in ginocchio, con le mani giunte in preghiera, quella smorfia da soffocamento nell'istante esatto in cui si sentono tanto vicine a Dio. A me piaceva da morire. Quando ti appoggia l'ostia sulla lingua il prete dice: «Il corpo di Cristo.» E la persona che in ginocchio riceve la comunione risponde: «Amen». Il massimo è colpirli alla gola in modo che quell`Amen" gli esca come un ga-ga da neonato. O come il qua di una papera. o il glu glu di un tacchino. Ma deve sembrare che l'hai fatto per errore. E non deve scapparti da ridere. «Finito» dice la dottoressa Marshall. Si raddrizza, e quando fa per andare a buttare il filo sanguinato nella spazzatura mi vede. «Non volevo interrompervi» le dico. Aiutando la vecchia a scendere dalla sedia lei dice: «Signora Wintower? Può mandarmi dentro la signora Tsunimitsu?». La signora Wintower fa sì con la testa. Attraverso le guance la vedo sgranchirsi la lingua in bocca, accarezzarsi i denti, succhiarsi le gengive arricciando le labbra. Prima di uscire in corridoio mi guarda e dice: «Howard, t'ho detto che ti ho perdonato per avermi ingannata. Non è il caso che continui a venire qui». «Si ricordi di mandarmi dentro la signora Tsunimitsu» dice la dottoressa Marshall. E io le dico: «Cosa mi racconti?». E Paige Marshall dice: «Che devo fare pulizia dei denti tutto il giorno. Di cosa hai bisogno?». Di sapere cosa c'è scritto nel diario di mia mamma. «Ah, quello» dice lei. Si sfila i guanti di lattice con uno schiocco e li butta in un contenitore per i rifiuti speciali. «L'unica cosa che quel diario dimostra è che tua madre delirava ancora prima che tu nascessi.» Delirava in che senso? Paige Marshall guarda un orologio appeso a una parete. Con una mano mi indica la sedia, quella di finta pelle con lo schienale reclinabile da cui la signora Wintower si è appena alzata, e dice: «Accomodati». Si infila un paio di guanti di lattice nuovo. Vuole passarmi il filo interdentale? «Fa bene all'alito» dice. Srotola un pezzo di filo interdentale e dice: «Siediti, che ti racconto cosa c'è scritto nel diario». Allora io mi siedo, e il mio peso spreme una nube di cattivo odore fuori dalla sedia. «Non sono stato io» dico. «La puzza, intendo. Non sono stato io.» E Paige Marshall dice: «Prima che tu nascessi tua madre ha trascorso un po' di tempo in Italia». «Sarebbe questo il grande segreto?» E Paige dice: «Eh?». Che sono italiano? «No» dice Paige. Si china sulla mia bocca. «Ma tua madre è cattolica, giusto?» Mi ficca il filo fra due denti e mi fa male. «Dimmi che è uno scherzo» le faccio. Intorno alle sue dita dico: «Già sono italiano, non posso essere anche cattolico! E troppo». Le dico che lo sapevo già.


E Paige dice: «Sta' zitto». Si tira su. «Allora, chi è mio padre?» le dico. Paige torna sulla mia bocca e mi pianta il filo tra due molari. Una pozza di sapore di sangue si raccoglie alla base della mia lingua. Paige socchiude gli occhi e dirige la sua attenzione verso le mie profondità, dice: «Be', se credi nella Santa Trinità, allo ra tuo padre sei tu». Io sono mio padre? Paige dice: «A mio parere, la demenza di tua madre risale a prima ancora che tu nascessi. Stando a quel che c'è scritto nel diario, ha avuto le prime crisi di delirio alla soglia dei trent'anni, se non prima». Con un leggero strattone fa saltare fuori il filo, e pezzi di cibo rimasto tra i denti le schizzano sul camice. E io le chiedo che cosa intende con Santa Trinità. «Ma sì, dai» dice Paige. «Il Padre, il figlio, lo Spirito Santo. Tre in uno. San Patrizio e il trifoglio.» Dice: «Ce la fai ad aprire un po' di più la bocca?». E che cazzo, sbotto esasperato, mi vuoi dire cosa dice di me il diario di mia mamma o no? Lei guarda il filo insanguinato che mi ha appena tirato fuori dalla bocca, si guarda i miei schizzi di sangue e cibo sul camice e dice: « È un tipo di delirio piuttosto diffuso tra le madri». Si china in avanti con il filo e me lo avvolge intorno a un altro dente. Pezzetti di roba semidigerita, roba che non sapevo di avere in bocca, tutto quanto si sblocca e salta fuori. Con il filo Paige mi tira la testa di qua e di là, e io mi sento uno di quei cavalli imbrigliati che ci sono a Colonial Dunsboro. «Tua madre, poveretta» dice Paige Marshall guardandomi attraverso le chiazze di sangue che ha sulle lenti degli occhiali, «delira al punto da essere convinta che tu sia la reincarnazione di Gesù Cristo.»


CAPITOLO 23 Ogni volta che una macchina offriva loro un passaggio, la Mamma diceva al conducente: «No». Restavano sul ciglio della strada e guardavano la Cadillac o la Buick o la Toyota di turno scomparire all'orizzonte, e la Mamma diceva: «Le macchine nuove odorano di morte». Era la terza o quarta volta che lei andava a riprenderselo. L'odore di colla e di resina che si sente sulle macchine nuove è formaldeide, gli disse, la stessa che usano per conservare i cadaveri. La mettono nelle case nuove e nei mobili nuovi. Si chiama intossicazione passiva. Puoi respirare la formaldeide dagli abiti nuovi. Se ne respiri troppa ti ritrovi con crampi, vomito, diarrea. Vedi anche: Disfunzione epatica. Vedi anche: Shock. Vedi anche: Morte. Se quel che cerchi è l'illuminazione, disse la Mamma, una macchina non è certo la soluzione. Lungo i bordi della strada c'erano digitali in fiore, lunghi steli carichi di fiori bianchi e viola. «Digitalis» disse la Mamma. «Neanche quella funziona.» L'ingestione di fiori di digitale provoca nausea, delirio, visione offuscata. Contro il cielo al di sopra di loro si stagliava una montagna che intralciava il cammino delle nuvole, coperta di pini e con in cima un po' di neve. Era così grande che, per quanto camminassero, avevano l'impressione di essere sempre nello stesso posto. La Mamma tirò fuori dalla borsa il tubetto bianco. Afferrò una spalla dello stupido ragazzino, si infilò il tubetto in una narice e inspirò forte. Poi lasciò cadere il tubetto sul bordo ghiaioso della strada e rimase immobile a fissare la montagna. Era una montagna così grande che non avrebbero mai finito di camminarci intorno. Quando la Mamma mollò la presa, lo stupido ragazzino raccolse il tubetto. Lo ripulì dal sangue con un lembo della maglietta e glielo restituì. «Tricloroetano» disse la Mamma, e gli fece vedere il tubetto. «Dopo studi approfonditi ho scoperto che è questa la miglior cura per un pericoloso eccesso di umana conoscenza.» Infilò il tubetto nella borsa. «Prendi questa montagna, ad esempio» disse. Strinse lo stupido mento del ragazzino tra il pollice e l'indice e lo fece ruotare nella direzione in cui stava guardando lei. «Questa splendida, gigantesca montagna. Per un unico, brevissimo istante, io credo di averla vista davvero.» L'ennesima macchina rallentò, una cosa marrone e a cinque porte, una cosa troppo ultimo modello, e così la Mamma le fece segno di andarsene. In quel flash la Mamma aveva visto la montagna senza pensare ai taglialegna, agli impianti sciistici e alle valanghe, alla fauna protetta, alla geologia e alla tettonica delle placche, ai microclimi, alle aree a bassa piovosità o ai punti yin e yang. Aveva visto la montagna senza l'intelaiatura del linguaggio. Senza la gabbia delle associazioni mentali. L'aveva vista non filtrata dalla lente di tutto ciò che sapeva essere vero riguardo alle montagne. Quella che aveva visto in quel flash non era nemmeno una "montagna". Non era una risorsa naturale. Non aveva nome. «È quello il grande obiettivo» disse lei. «Scoprire una cura per la conoscenza.» Per le cose che ci insegnano. Per il fatto di vivere dentro la propria testa. Lungo la strada, le macchine li superavano, e la Mamma e il ragazzino camminavano e camminavano, e la montagna era sempre lì accanto. Fin dai tempi di Adamo ed Eva, il genere umano era sempre stato un po' troppo sveglio per il suo stesso bene, disse la Mamma. Fin da quella famosa mela. Il suo obiettivo era quello di scoprire se non una cura, almeno una medicina che restituisse temporaneamente l'innocenza alla gente. La formaldeide non funzionava. La digitale non funzionava. Nessuno degli stupefacenti naturali sembrava fare al caso, non serviva fumare il macis, né la noce moscata, né le bucce d'arachide. E nemmeno l'aneto o le foglie d'ortensia o il succo di lattuga. Di notte, la Mamma si intrufolava con il ragazzino nei giardini delle case. Beveva la birra che la gente lasciava in giardino per le lumache e i lumaconi, e mangiava lo stramonio, la belladonna e l'erba gatta. Si rannicchiava accanto alle macchine e annusava nei serbatoi della benzina. Svitava i tappi dei serbatoi in mezzo ai giardini e annusava il combustibile dell'impianto di riscaldamento. «Se Eva da sola è riuscita a combinare tutto 'sto casino, perché io non dovrei riuscire a risolverlo?» disse la Mamma. «A Dio piacciono i tipi intraprendenti.» Altre macchine rallentarono, macchine cariche di famiglie, di bagagli e cani, ma la Mamma fece segno a tutti di andarsene. «La corteccia cerebrale, il cervelletto» disse, «è li che sta il problema.» Se fosse riuscita a usare soltanto il tronco encefalico, sarebbe guarita. Avrebbe avuto qualcosa che andava al di là della felicità o della tristezza. Chi ha mai visto un pesce afflitto da sbalzi d'umore? Le spugne di mare non hanno giornate no. Sotto i loro piedi, la ghiaia scricchiolava. Passando, le macchine producevano un vento caldo. «I1 mio obiettivo» disse la Mamma, «non è quello di semplificarmi la vita.» Disse: «I1 mio obiettivo è di semplificare nie stessa». Disse allo stupido ragazzino che i semi di convolvolo non funzionavano. Li aveva provati. L'effetto durava poco. Non funzionavano le foglie delle patate dolci. Né il piretro che si estraeva dai crisantemi. Né sniffare propano. Né le foglie di rabarbaro o di azalea.


Quando di notte visitavano qualche giardino, la Mamma lasciava sempre un pezzetto di pianta morsicato perché la gente lo trovasse. Le medicine cosmetiche, disse, gli antidepressivi e i farmaci che ti stabilizzano l'umore curano solo i sintomi di un problema più grosso. Le dipendenze, disse, sono solo uno dei tanti modi per curare lo stesso problema. Le droghe, la bulimia, l'alcol, il sesso sono solo strumenti per trovare un po' di pace. Per sfuggire a ciò che conosciamo. A quello che ci insegnano. Al nostro boccone di mela. Il linguaggio, disse, altro non è che il nostro personale modo di spiegare lo splendore e la meraviglia del mondo. Per decostruirlo. Liquidarlo. Diceva che la gente non è in grado di reggere la vera bellezza del mondo. Il fatto che non possa essere spiegata o compresa. Più avanti, lungo la strada, c'era un ristorante, e nel parcheggio intorno c'erano camion più grandi del ristorante stesso. E c'erano anche alcune delle macchine nuove su cui la Mamma non aveva voluto salire. Si sentiva odore di cibi diversi fritti tutti nello stesso olio bollente. Si sentiva odore di motori di camion in folle. «Ormai non viviamo più nel mondo reale» disse lei. «Viviamo in un mondo di simboli.» La Mamma si fermò e infilò una mano nella borsa. Appoggiò una mano sulla spalla del ragazzino e alzò gli occhi verso la montagna. «Un'ultima sbirciatina alla realtà» disse. «Poi andiamo a mangiare.» Dopopodiché si infilò il tubetto bianco nel naso e inspirò.


CAPITOLO 24 A sentire Page Marshall, mia mamma partì dall'Italia già incinta di me. In precedenza, quell'anno, qualcuno era andato a rubare in una chiesa del Nord Italia. E tutto scritto nel diario di mia mamma. A sentire Paige Marshall. Mia mamma aveva tentato un nuovo tipo di trattamento per la fertilità. Aveva quasi quarant'anni. Non era sposata, non voleva un marito, ma qualcuno le aveva promesso un miracolo. Quel qualcuno conosceva qualcuno che aveva rubato una scatola da scarpe nascosta sotto il letto di un prete. In quella scatola c'erano gli ultimi resti terreni di un uomo. Un uomo famoso. C'era il suo prepuzio. Era una reliquia sacra, una di quelle esche che venivano usate per attirare le masse nelle chiese durante il Medioevo. Uno dei tanti peni famosi ancora in giro. Nel 1977 un urologo americano acquistò il pene essiccato di Napoleone Bonaparte, lungo due centimetri e mezzo, per circa quattromila dollari. Quello di Rasputin, che di centimetri ne misurava trenta, pare riposi a Parigi, su un cuscinetto di velluto in una scatola di legno levigato. C'è chi dice che il mostro da mezzo metro di John Dillinger sia conservato sotto formaldeide in una bottiglia al Walter Reed Army Medicai Center. Stando a quel che dice Paige Marshall, nel diario di mia mamma c'è scritto anche che a sei donne furono offerti embrioni creati a partire dal materiale genetico di cui sopra. Cinque non videro mai la luce. Il sesto sono io. Il prepuzio era di Gesù Cristo. Giusto per farvi capire quant'era pazza mia mamma. Completamente sbullonata, già venticinque anni fa. Paige ha riso e si è chinata a pulire i denti dell'ennesima vecchietta. «Di sicuro tua madre è una tipa originale, almeno questo bisogna riconoscerlo» ha detto. A sentire la chiesa cattolica, Gesù si ricongiunse con il suo prepuzio all'atto della resurrezione e dell'ascensione. A sentire il racconto di Santa Teresa d'Avila, quando Gesù le apparve e ne fece la sua sposa, usò il prepuzio come fede nuziale. Paige ha tirato via il filo dai denti della donna, schizzandosi le lenti degli occhiali con la montatura nera di sangue e di cibo. Mentre cercava di osservare la fila di denti superiore della vecchia il cervello nero di capelli le si spostava di qua e di là. Ha detto: «Anche se la storia di tua madre fosse vera, è impossibile provare che il materiale genetico appartenesse al personaggio storico realmente esistito. E più probabile che tuo padre fosse un povero cristo ebreo qualunque». La vecchia seduta sulla sedia reclinabile, con la bocca spalancata intorno alle mani della dottoressa Marshall, ha ruotato gli occhi verso di me. E Paige Marshall ha detto: «Stando così le cose, non dovresti avere problemi a collaborare». Collaborare? «Alla mia proposta di terapia per tua madre» ha detto. Uccidere un bambino non ancora nato. Le ho detto: anche nel caso che io non fossi lui, non credo che Gesù approverebbe. «Ma certo che approverebbe» ha detto Paige. Ha tirato via il filo e mi ha schizzato addosso un grumo di poltiglia interdentale. «Dio non ha forse sacrificato suo figlio per salvare gli uomini? Non è così che è andata?» Rieccola, la linea sottile che separa la scienza dal sadismo. Il delitto dal sacrificio. L'uccisione del proprio figlio da quello che per un pelo Abramo non faceva a Isacco nella Bibbia. La vecchia ha divincolato la testa dalle mani di Paige Marshall sputacchiando il filo e pezzetti di cibo insanguinato. Mi ha guardato e con una vocetta stridula ha detto: «Io ti conosco». Automatico come uno starnuto, le ho detto: Scusa. Scusa se mi sono scopato il tuo gatto. Scusa se sono passato con la macchina sulle tue aiuole. Scusa se ho abbattuto il caccia di tuo marito. Scusa se ti ho buttato il criceto nel water e ho tirato l'acqua. L'ho guardata, ho sospirato e le ho detto: «Ho dimenticato qualcosa?». Paige ha detto: «Signora Tsunimitsu, ho bisogno che mi apra bene la bocca». E la signora Tsunimitsu ha detto: «Ero con mio figlio e la sua famiglia, siamo andati a cena fuori, e a momenti tu morivi soffocato». Ha detto: «Mio figlio ti ha salvato la vita». Paige Marshall mi guarda. «Che rimanga fra noi» ha detto la signora Tsunimitsu, «ma secondo me, fino a quella sera, mio figlio Paul si era sempre sentito un codardo.» Paige si è seduta e ha fissato la vecchia, poi me, poi di nuovo la vecchia e così via. La signora Tsunimitsu si è portata le mani giunte sotto il mento, ha chiuso gli occhi e ha sorriso. Ha detto: «Mia nuora voleva chiedere il divorzio, ma dopo aver visto Paul che ti salvava, si è innamorata di lui un'altra volta». Ha detto: «Io l'avevo capito che facevi finta. Tutti gli altri hanno visto quello che volevano vedere». Ha detto: «Tu hai tantissimo amore da dare agli altri». La vecchia ha sorriso e ha detto: «Hai un cuore grande così, io l'ho capito.» E rapido come uno starnuto io le ho detto: «Ma vaffanculo, vecchia pazza mummificata.» E Paige fa un salto sulla sedia. Non faccio che ripeterlo, ne ho le palle piene di essere sballottato a destra e a manca. Chiaro? Perciò non stiamo qui a raccontarcela. Io non ce l'ho un cazzo di cuore. E non sarete certo voi a farmi provare qualcosa. Non mi avrete. Io sono uno stupido freddo bastardo calcolatore. Fine della storia. Questa vecchia signora Tsunimitsu. Paige Marshall. Ursula. Nico, Tanya, Leeza. Mia mamma. Certi giorni la vita sembra non sia altro che il sottoscritto contro ogni stupida femmina di questo cazzo di mondo. Con una mano afferro Paige per un braccio e la trascino verso la porta. Nessuno riuscirà a farmi sentire Cristo in terra.


«Stammi bene a sentire» le dico. Urlo: «Se avessi voglia di provare emozioni mi infilerei in un cazzo di cinema!». E la vecchia signora Tsunimitsu sorride e dice: «Non puoi negare la bontà della tua vera natura. È lì che brilla, tutti quanti possono vederla». A lei dico di tapparsi quella boccaccia. A Paige Marshall dico: «Vieni». Le dimostrerò che non sono Gesù Cristo. Tutta questa storia della vera natura delle persone è una grandissima cazzata. Gli uomini non hanno anima. Le emozioni sono una cazzata. L'amore è una cazzata. E io trascino Paige giù per il corridoio. Si vive e si muore e il resto è solo un'illusione. Puttanate da femmine sottomesse che si riempiono la bocca di sentimenti e sensibilità. Un mucchio di stronzate soggettive ed emotive. L'anima non esiste. Dio non esiste. Esistono le decisioni e le malattie e la morte. Io non sono altro che un lurido porco schifoso, un caso disperato di sessodipendenza, e non posso cambiare, e non posso fermarmi e non sarò mai nient'altro. E adesso glielo dimostro. «Dove mi stai portando?» dice Paige incespicando, con gli occhiali e il camice ancora imbrattati di cibo e di sangue. Io sono già lì che mi immagino schifezze per non venire troppo in fretta, genere cagnolini e gattini e cricetini cosparsi di benzina e in fiamme. Cerco di visualizzare il Tarzan tracagnotto e lo scimpanzé addestrato. Sono già lì che penso: ecco l'ennesimo stupido capitolo della mia fase quattro. Per fermare il tempo. Per fossilizzare questo istante. Per far durare la scopata in eterno. La sto portando nella cappella, dico a Paige. Sono il figlio di una pazza. Non il figlio di Dio. E che Dio mi smentisca. Può incenerirmi con un fulmine. Io intanto la porto all'altare.


CAPITOLO 25 Stavolta forse era attentato alla salute pubblica, negligenza, omissione di soccorso volontaria. I reati erano talmente tanti che il ragazzino non ci si raccapezzava. Molestie colpose, indifferenza preterintenzionale, rispostacce a minore o rottura di scatole a incapace, un casino, insomma, e il ragazzino aveva paura a fare qualsiasi cosa, a meno che non la facessero anche tutti gli altri. Tutto ciò che era nuovo o diverso o originale probabilmente infrangeva qualche legge. Tutto ciò che era rischioso o emozionante poteva spedirti dritto in galera. Ecco perché tutti erano tanto impazienti di parlare con la mamma. Quella volta era uscita di prigione da un paio di settimane appena, e già era capitato di tutto. C'erano così tante leggi e, poco ma sicuro, almeno un miliardo di modi in cui le si poteva infrangere. Per prima cosa, la polizia gli chiese dei buoni sconto. Qualcuno si era recato in una copisteria del centro e con un computer aveva disegnato e stampato centinaia di buoni che promettevano un pasto gratis per due persone, da settantacinque dollari e senza data di scadenza. Ciascun buono era accompagnato da una lettera in cui allo stimato cliente si spiegava che il buono allegato faceva parte di una promozione speciale. Bastava presentarsi al Clover Inn Restaurant. Quando il cameriere ti portava il conto, pagavi col coupon. Mancia inclusa. Qualcuno aveva fatto tutto ciò. Aveva spedito centinaia di questi coupon. I segni distintivi di un numero alla Ida Mancini c'erano tutti. La Mamma aveva lavorato come cameriera al Clover Inn Restaurant per una settimana, appena uscita dalla comunità di recupero, ma poi era stata licenziata per aver raccontato ai clienti cose sul loro cibo che era meglio non sapessero. Dopodiché era scomparsa. Così, di punto in bianco. Di lì a qualche giorno, durante un intermezzo tranquillo e noioso di un qualche balletto importantissimo, una donna non meglio identificata si era messa a correre in mezzo alla platea del teatro urlando. Ecco perché un bel giorno la polizia si presentò fuori dalla scuola dello stupido ragazzino e lo portò in città. Per sapere se per caso si era fatta viva con lui. La Mamma. Se per caso lui sapeva dove si nascondeva. Più o meno contemporaneamente, svariate centinaia di clienti furibondi invasero una pellicceria impugnando buoni sconto del cinquanta per cento ricevuti per posta. Più o meno contemporaneamente, un migliaio di persone terrorizzate si presentarono al centro malattie sessualmente trasmissibili per farsi sottoporre a esami, dopo aver ricevuto una lettera su carta intestata della contea in cui veniva comunicato che a un loro ex partner sessuale era stata diagnosticata una malattia infettiva. Gli investigatori della polizia portarono il bamboccio in città a bordo di una macchina anonima e quindi ai piani alti di un edificio altrettanto anonimo, e seduti in una stanza con lui e la madre adottiva gli chiesero: Ida Mancini ha cercato di mettersi in contatto con te? Sai dove prende i soldi? Secondo te perché fa queste brutte cose? E il ragazzino non fece altro che aspettare. Presto qualcuno l'avrebbe aiutato. La Mamma con lui si scusava in continuazione. Gli diceva che per anni la gente si era fatta in quattro per trasformare il mondo in un luogo sicuro e organizzato. Nessuno si era reso conto di che noia sarebbe stata. Una volta che il mondo fosse stato suddiviso in proprietà, sottoposto a limiti di velocità e piani regolatori e tassato e irregimentato, una volta che tutti fossero stati esaminati e registrati e provvisti di un indirizzo e di documenti. Nessuno aveva lasciato spazio all'avventura, se non al tipo di avventura che si può comprare. Su un ottovolante. Al cinema. E anche così, sarebbero sempre state emozioni finte. Perché uno lo sa benissimo che alla fine i dinosauri non mangeranno i bambini. Il pubblico delle proiezioni di prova si è espresso contro qualsiasi remota possibilità di finta catastrofe. E non esistendo la possibilità che si verifichi una catastrofe vera, un rischio vero, ci è preclusa anche ogni possibilità di salvezza vera. Ebbrezza vera. Eccitazione vera. Gioia. Scoperta. Invenzione. Le leggi che ci permettono di vivere sicuri sono le stesse che ci condannano alla noia. Se non possiamo accedere al caos autentico, non avremo mai autentica pace. Se le cose non hanno la possibilità di peggiorare, non migliorano. Tutte cose che la Mamma gli raccontava. Gli diceva: «L'unica frontiera che ci rimane è il mondo dell'intangibile. Tutto il resto è cucito troppo stretto». Ingabbiato da troppe leggi. Per intangibile la Mamma intendeva Internet, i film, la musica, le storie, l'arte, le voci che corrono, i programmi per computer, tutto ciò che non è reale. Le realtà virtuali. Le simulazioni. La cultura. L'irreale è più potente del reale. Perché la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l'immaginazione. Perché soltanto ciò che è intangibile, le idee, i concetti, le convinzioni, le fantasie, dura. Le pietre si sgretolano. Il legno marcisce. La gente, be'... la gente muore. Ma le cose fragili, come un pensiero, un sogno, una leggenda, durano in eterno. Se riesci a modificare il modo di pensare delle persone, diceva. Il modo che hanno di vedere se stessi. Il modo che hanno di vedere il mondo. Se riesci a fare questo, allora puoi cambiare il modo in cui vivono. Ed è questa l'unica cosa duratura che una persona può creare. Tanto prima o poi, diceva sempre la Mamma, i ricordi, le storie e le avventure saranno tutto ciò che rimarrà di te. Durante l'ultimo processo, prima di finire in prigione quell'ultima volta, seduta accanto al giudice la Mamma aveva detto: «Il mio


obbiettivo è quello di essere un motore che movimenti la vita della gente». Aveva guardato lo stupido ragazzino negli occhi e gli aveva detto: «Il mio obbiettivo è quello di dare alla gente splendide storie da raccontare». Prima che le guardie la portassero via in manette, aveva gridato: «Condannare me sarebbe superfluo. La burocrazia e le leggi hanno già trasformato il mondo in un campo di concentramento pulito e sicuro». Aveva gridato: «Stiamo crescendo una generazione di schiavi». E per la vecchia Ida Mancini era stata di nuovo la prigione. "Incorreggibile" non è la parola esatta, ma è la prima che vie ne in mente. La donna non meglio identificata, quella che si era messa a correre in mezzo alla platea durante il balletto, aveva urlato: «Stiamo insegnando ai nostri figli l'impotenza». Correndo in mezzo alla platea e infilandosi in un'uscita di sicurezza aveva strillato: «Siamo così strutturati e ossessionati dai dettagli che ormai questo non è più un mondo, è una stramaledetta nave da crociera». Seduto lì con gli investigatori della polizia, in attesa, la stupi da faccetta di merda piantagrane chiese se per caso non si poteva chiamare anche l'avvocato difensore Fred Hastings. E uno degli investigatori disse una parolaccia fra i denti. E in quel preciso istante partì l'allarme antincendio. E nonostante il suono del campanello, gli investigatori continuarono a chiedergli: «PERLOMENO HAI IDEA DI COME METTERTI IN CONTATTO CON TUA MADRE?» Urlando più forte dell'allarme gli chiesero: «NON VUOI AIUTARCI AD AIUTARLA?» E l'allarme si fermò. Una signora fece capolino dalla porta e disse. «Niente panico, gente. A quanto pare è solo l'ennesimo falso allarme.» Oggigiorno, un allarme antincendio non segnala mai un incendio. Non più. E il ragazzino coglione dice: «Posso andare in bagno?».


CAPITOLO 26 La mezza luna ci fissa dal basso, riflessa su una teglia da torta argentata piena di birra. Io e Denny ci inginocchiamo nel giardino di chissà chi, e Denny scaccia le lumache e i lumaconi con minuscoli colpetti del dito indice. Denny solleva la teglia da torta piena fino all'orlo, avvicinando il suo viso vero a quello riflesso sempre di più, finché il labbro riflesso non incontra quello vero. Denny si scola più o meno metà della birra e dice. «In Europa la birra la bevono così, bello.» Dalle trappole per lumaconi? «No, bello» dice Denny. Mi passa la teglia e dice: «Sgasata e calda». Bacio il mio riflesso e bevo, con la luna che mi fissa da dietro le spalle. Sul marciapiede ci attende un passeggino con le ruote piegate verso l'esterno. Il fondo del passeggino sfrega per terra, e avvolto nella coperta da neonato rosa c'è un macigno di arenaria troppo grosso perché io o Denny riusciamo a sollevarlo. Infilata nel lembo superiore della coperta c'è una testa di bambino in plastica rosa. «A proposito di fare sesso in una chiesa» dice Denny. «Dimmi che non l'hai fatto.» Non è che non l'ho fatto. Non ci sono riuscito. Non sono riuscito a chiavare, sbattere, stantuffare, riempire, trapanare. Tutti quei verbi un po' coloriti che non rendono l'idea. Denny e io siamo solo due ragazzi normali che a mezzanotte portano un bambino a fare una passeggiata. Nient'altro che un paio di bravi ragazzi in questo quartiere elegante di case grandi, ognuna col suo bel praticello. Tutte queste case con la loro autonoma, climatizzata, tronfia illusione di sicurezza. Denny e io siamo inoffensivi più o meno quanto un tumore. Indifesi come un fungo pieno di psilocibina. È un quartiere così elegante che persino la birra che lasciano fuori per lumache e insetti è importata dalla Germania o dal Messico. Con un salto scavalchiamo la recinzione, ci spostiamo nel giardino accanto e cominciamo a frugare sotto le piante in cerca del nostro prossimo giro di bevute. Chinandomi per perlustrare sotto le foglie e i cespugli dico: «Senti». Dico: «Mica penserai anche tu che sono una persona di buon cuore, vero?». E Denny dice: «Ma figurati». Dopo un po' di isolati e tutti quei giardini di birra, sono certo che Denny sta dicendo la verità. Gli dico: «Che in fondo in fondo sono una persona sensibile, una creatura di puro amore, tipo Gesù Cristo?». «Vuoi scherzare?» dice Denny. «Tu sei un pezzo di merda». E io gli dico: «Grazie. Era giusto per esserne sicuro». E Denny si alza al rallentatore, aiutandosi solo con le gambe, e nella teglia d'alluminio che tiene fra le mani c'è l'ennesimo riflesso del cielo notturno, e Denny dice: «Bingo». A proposito di me nella chiesa gli dico che sono più deluso da Dio che da me stesso. Avrebbe dovuto incenerirmi con un fulmine. Insomma, Dio è pur sempre Dio. Io sono un pezzo di merda qualunque. Non ho nemmeno tolto i vestiti, a Paige Marshall. Con lo stetoscopio ancora appeso al collo, che le ciondolava tra i seni, l'ho spinta contro l'altare. Non le ho nemmeno tolto il camice. Tenendosi lo stetoscopio sul petto lei ha detto: «Sbrigati». Ha detto: «Voglio che tu sia sincronizzato con il mio cuore». Non è giusto che le donne non debbano mai pensare alle schifezze per impedirsi di venire. Ed io, io proprio non ce l'ho fatta. Il pensiero di Gesù mi stava ammazzando l'erezione. Denny mi passa la birra e io bevo. Denny sputa un lumacone morto e dice: «Ti conviene bere con i denti chiusi, bello». Persino in una chiesa, persino distesa su un altare, senza vestiti, Paige Marshall, la dottoressa Paige Marshall, non volevo che diventasse l'ennesimo pezzo di carne. Perché la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l'immaginazione. Perché niente è eccitante quanto la tua fantasia. Inspira. Ed espira. «Bello» dice Denny. «Questo era il mio bicchiere della staffa. Prendiamo la pietra e incamminiamoci verso casa.» Ed io gli dico: un ultimo isolato, ti va? Un ultimo giro di giardini. Non sono ancora abbastanza ubriaco da dimenticare la giornata che ho passato. È un quartiere così elegante. Salto la recinzione e piombo nel giardino accanto e atterro di testa in un roseto. Da qualche parte, un cane abbaia. Per tutto il tempo, mentre eravamo lì sull'altare, con me che cercavo di farmelo venire duro, la croce lucida, di legno chiaro, ci ha fissati. Niente corpo straziato. Niente corona di spine. Niente mosche a ronzare tutt'intorno, né sudore. Niente puzza. Niente sangue né dolore, non in questa chiesa. Niente pioggia di sangue. Niente piaga delle cavallette. Paige, con lo stetoscopio infilato nelle orecchie, per tutto il tempo non ha fatto altro che auscultarsi il cuore. Gli angeli se ne stavano sul soffitto coperti dall'intonaco. La luce che entrava dalla vetrata era densa e dorata e invasa da granelli di polvere. La luce filtrava in un fascio spesso e solido, un fascio caldo e pesante che si riversava su di noi. Attenzione prego, il dottor Freud è pregato di rispondere al telefono interno. Un mondo di simboli, non il mondo reale. Denny mi vede, immobile e con i graffi delle spine del roseto che sanguinano, i vestiti strappati, disteso in un cespuglio, e dice: «Okay, stavolta sul serio». Dice: «Questo è l'ultimo, non ci sono cazzi». L'odore di rose, l'odore di incontinenza alla St Anthony. Un cane abbaia e gratta da dentro la porta che si affaccia sul retro della casa. In cucina si accende la luce e si intravede qualcuno alla finestra. Poi si accende anche la luce della veranda posteriore, ed è incredibile quanto poco ci metto ad alzare il culo da quel cespuglio e a fiondarmi in strada.


Sul marciapiede c'è una coppia che viene verso di noi, camminano stretti stretti, abbracciati. La donna sfrega una guancia sul bavero dell'uomo e l'uomo le dà un bacio sull'attaccatura dei capelli. Denny è già lì che spinge il passeggino, così in fretta che le ruote davanti si piantano in una crepa del marciapiede e la testa di plastica del bambino salta via. Con gli occhi di vetro sbarrati, la testa rosa rimbalza accanto alla coppietta felice e rotola nel canale di scolo. Denny mi dice: «Non è che me la andresti a prendere?». Con gli abiti a brandelli e appiccicaticci di sangue, le spine piantate in faccia, passo disinvolto accanto alla coppia e tiro fuori la testa dal mucchio di foglie e rifiuti. L'uomo caccia un urletto di sorpresa e fa un passo indietro. E la donna dice: «Victor? Victor Mancini. Oddio». Deve avermi salvato la vita, perché non ho idea di chi cazzo sia. Nella cappella, dopo aver gettato la spugna, mentre ci riabbottonavamo i vestiti io ho detto a Paige: «Lascia perdere il tessuto fetale. Lascia perdere il risentimento contro le donne forti». Le dico: «Vuoi sapere il vero motivo per cui non ti scopo?». Abbottonandomi le braghe corte le ho detto: «La verità è che forse vorrei solo volerti bene». E con entrambe le mani sulla testa, sistemandosi il cervello nero di capelli, Paige ha detto: «Forse il sesso e l'affetto non si escludono a vicenda». Ed io ho riso. Con le mani che annodavano il fazzoletto da collo le ho detto: sì, invece. Sì che si escludono a vicenda. Denny e io arriviamo al settecentesimo isolato di, il cartello dice Birch Street. A Denny che spinge il passeggino dico: «Abbiamo sbagliato strada, bello». Indico un punto alle nostre spalle e dico: «Casa di mia mamma e di là». Denny continua a spingere, il fondo del passeggino ringhia sfregando contro il marciapiede. Due isolati indietro, la coppietta felice è ancora lì che ci fissa a bocca aperta. Mi avvicino a Denny facendomi saltellare la testa della bambola da una mano all'altra. «Ehi» gli dico. «Bisogna andare dall'altra parte.» Denny dice: «Prima dobbiamo vedere il numero ottocento». Perché, cosa c'è lì? «Niente, credo» dice Denny. «Una volta era di mio zio Don.» Le case finiscono, e il numero ottocento è soltanto un pezzo di terra, con le case che ricominciano all'isolato successivo. C'è l'erba alta, e tutt'intorno vecchi meli con i tronchi raggrinziti che si innalzano contorti verso il buio. Al di là di una macchia di sterpaglie, rovi e arbusti, spine su spine, al centro il terreno è sgombro. Sull'angolo c'è un cartellone pubblicitario, compensato dipinto di bianco, con una fila di case in mattoni tutte attaccate e della gente che saluta da finestre fiorite disegnate in alto. Sotto le case, una serie di parole in nero: Stiamo costruendo il complesso residenziale Menningtown. Sotto il cartellone, il terreno è coperto da una nevicata di scaglie di vernice scrostata. Visto da vicino, il cartellone è incurvato, le case in mattoni sono coperte di crepe e di un rosa sbiadito. Denny rovescia il macigno giù dal passeggino, e quello atter ra nell'erba alta oltre il marciapiede. Denny srotola a strattoni la coperta rosa e me ne porge due estremità. Tendendo la coperta fra noi la ripieghiamo, e Denny dice: «Mio zio Don era esattamente il contrario di quel che si dice un modello esemplare.» Poi Denny butta la coperta ripiegata nel passeggino e comincia a spingerlo sulla via del ritorno. Ed io da dietro gli faccio: «Ehi, questa pietra non la vuoi?». E Denny dice: «Come minimo, quando è morto il vecchio Don Menning l'Associazione delle mamme contro la guida in stato di ubriachezza deve aver dato una festa». Si alza il vento e piega i fili d'erba alta. In questo posto ormai ci vivono soltanto le piante, e oltre il centro buio del terreno si vedono le verande illuminate delle case sull'altro lato. Gli zigzag neri dei vecchi meli sono profili che si stagliano tra qui e là. «Cos'è» faccio a Denny, «un parco?» E Denny dice: «Macché». Senza fermarsi dice: «È mio». Gli tiro la testa della bambola e dico: «Scherzi?». «Da quando i miei mi hanno chiamato, un paio di giorni fa» dice lui, e acchiappa la testa al volo e la fa cadere nel passeggino. E camminiamo sotto i lampioni, accanto alle case buie della gente. Con le fibbie delle scarpe che luccicano, le mani in tasca, gli dico: «Senti». Gli dico: «Davvero tu non pensi che sono un po' come Gesù Cristo?». Gli dico: «Dimmi di no, ti prego». Camminiamo. E spingendo il suo passeggino vuoto, Denny dice: «Parliamoci chiaro, bello. Per poco non facevi sesso sulla tavola del Signore. Secondo me sei già in ricaduta piena, e anche di brutto.» Camminiamo, e gli effetti della birra sfumano, e io mi sorprendo di quant'è fredda l'aria stanotte. E dico: «Ti prego, bello. Dimmi la verità». Io non sono buono, né gentile, né premuroso, né nessuna di quelle stronzate buoniste lì. Sono solo un povero imbecille egoista sfigato. E me ne sono fatto una ragione. Sono quello che sono. Uno spaccafiche, un riempiculi, un cazzo ambulante, un fottuto pezzo di merda sessodipendente senza speranze, e non devo dimenticarmelomai. Mai. Dico: «Ripetimi che sono un insensibile pezzo di merda».


CAPITOLO 27 Stasera andrà così: mi nascondo nell'armadio della camera da letto mentre la ragazza è sotto la doccia. Poi, quando lei esce tutta lucida d'umidità, in una nebbiolina vaporosa e calda intrisa di lacca e profumo, quando esce fuori con indosso solo un accappatoio di pizzo. A quel punto io salto fuori con un paio di collant infilati sulla testa e gli occhiali da sole. La butto sul letto. Le punto un coltello alla gola. E poi la stupro. Semplice semplice. La ricaduta continua. Chiediti sempre: «Cos'è che Gesù NON farebbe?». Però sul letto non posso stuprarla, dice lei, il copriletto è rosa pallido e si macchia. E nemmeno sul pavimento perché il tappeto le graffia la schiena. Decidiamo per il pavimento, però su un asciugamano. Ma non un asciugamano buono di quelli per gli ospiti, dice. Mi ha spiegato che mi avrebbe lasciato un asciugamano sbrindellato sul mobile della specchiera, e che prima di cominciare avrei dovuto stenderlo sul pavimento per non spezzare l'atmosfera. Lei avrebbe lasciato la finestra della camera da letto aperta e si sarebbe infilata sotto la doccia. Perciò adesso sono qui, nascosto nell'armadio, nudo e con la roba lavata a secco che mi si appiccica addosso, i collant sulla testa, gli occhiali da sole e in mano il coltello meno affilato che sono riuscito a trovare, e aspetto. L'asciugamano è steso sul pavimento. I collant tengono un caldo tale che ho la faccia coperta di rivoli di sudore. I capelli spiaccicati sulla testa cominciano a prudermi. Non sotto la finestra, mi ha detto. E non accanto al camino. Mi ha detto di stuprarla nei pressi dell'armadio a specchio, vicino ma non troppo. Ha detto di stendere l'asciugamano in un punto di passaggio, in modo da coprire le parti più logore del tappeto. Lei è una ragazza di nome Gwen che ho incontrato davanti allo scaffale Salute & Benessere di una libreria. Difficile dire chi dei due abbia rimorchiato l'altro, ma lei stava facendo finta di leggere un libro su un percorso di disintossicazione dalla sessodipendenza in dodici fasi, e io avevo indosso i miei pantaloni mimetici e le ronzavo intorno sfogliando una copia dello stesso libro, e pensavo: una relazione pericolosa più, una meno. Che sarà mai? Anche gli uccellini lo fanno. E le api. Io ho bisogno di quella scarica di endorfine. Per tranquillizzarmi. Ho un bisogno folle della feniletilamina peptide. Sono quello che sono. Uno che ha una dipendenza. Tanto, voglio dire, qualcuno forse tiene il conto? Nel caffè della libreria, Gwen mi ha detto di portare una corda, ma non di nylon, perché fa troppo male. La canapa le provoca irritazione. Del nastro adesivo nero da elettricista poteva andare, ma non sulla bocca, e niente nastro adesivo da idraulico. «Strapparsi il nastro da idraulico» ha detto «è eccitante quanto farsi la ceretta alle gambe.» Abbiamo confrontato i nostri impegni, e il giovedì era da escludere. Venerdì avevo il mio consueto incontro tra sessodipendenti. Niente conti da pagare, questa settimana. Sabato ero alla St Anthonv. La domenica di solito lei dava una mano a organizzare la tombola parrocchiale, perciò ci siamo messi d'accordo per lunedì. Lunedì alle nove, alle otto no perché lei lavora fino a tardi e alle dieci no perché l'indomani io devo essere 1 lavoro presto. Ed eccoci a lunedì. Il nastro da elettricista è pronto. L'asciugamano è steso, e quando le salto addosso con il coltello lei dice: «Sono miei quei collant che hai in testa?». Le torco un braccio dietro la schiena e le appoggio la lama gelata contro la gola. «Porca di quella miseria» dice lei. «Questo non era nei patti. Io ti ho detto di stuprarmi. Non di rovinarmi i collant.» Con la mano in cui stringo il coltello le afferro un lembo dell'accappatoio di pizzo e cerco di scoprirle una spalla. «Stop, stop, stop» dice lei, e mi allontana la mano con uno schiaffo. «Su, faccio io. Che se no me lo rovini.» Si divincola dalla mia presa. Le chiedo se posso togliermi gli occhiali da sole. «No» dice lei, sfilandosi l'accappatoio. Poi si avvicina all'armadio aperto e lo sistema su un appendiabiti imbottito. Ma quasi non ci vedo. «Non fare l'egoista» dice lei. Adesso è nuda, mi prende la mano e se la stringe intorno a un polso. Poi si fa scivolare il braccio dietro la schiena, si volta e appoggia la schiena nuda contro di me. Il mio uccello è lì lì per spiccare il volo e la fessura calda e liscia delle sue chiappe me lo sta facendo bagnare, e lei dice: «Devi essere un aggressore senza volto». Le dico che comprare un paio di collant era troppo imbarazzante. Un ragazzo che compra dei collant o è un delinquente o è un pervertito; in entrambi i casi la cassiera difficilmente accetterà i suoi soldi. «Dio santo, smettila di lamentarti» dice lei. «Tutti gli stupratori con cui sono stata i collant se li sono portati da casa.» E poi, le dico, quando guardi l'espositore dei collant, ce ne sono di tutti i colori e di tutte le taglie. Nudo, antracite, beige, nero, bronzo, blu cobalto, e in più sull'etichetta non ci sono le taglie per la testa. Lei si volta dall'altra parte di scatto e mugugna: «Posso dirti una cosa? Una cosa soltanto?». Le dico: cosa? E lei dice: «Hai l'alito veramente pesante». Nel caffè della libreria, mentre ancora stavamo buttando giù la sceneggiatura, lei ha detto: «Mi raccomando, ricordati di mettere il coltello in freezer, prima. Dev'essere freddissimo». Le ho chiesto se non potevamo usare un coltello di gomma. E lei ha detto: «Il coltello è fondamentale per vivere l'espe rienza appieno». Ha detto: «La lama del coltello è meglio se me la punti alla gola prima che raggiunga la temperatura ambiente» Ha detto: «Ma ti consiglio di fare molta attenzione, perché se per sbaglio mi tagli» si è sporta verso di me da dietro il tavolino, spingendo in fuori il mento, «se mi fai anche solo un graffio, io giuro che ti faccio sbattere in galera prima ancora che tu abbia il tempo di tirarti su i pantaloni.» Ha bevuto un sorso del suo tè chai speziato e ha appoggiato la tazza sul piattino e ha detto: «Le mie narici ti sarebbero grate se


evitassi di metterti colonie o dopobarba o deodoranti troppo profumati, perché sono estremamente sensibile.» Queste fanciulle sessodipendenti infoiate hanno una resistenza pazzesca. Non ce la fanno proprio a non farsi scopare. Non riescono a fermarsi, e non importa a che livello di degradazione devono abbassarsi. Dio quanto amo condividere la mia dipendenza. Nel caffè, Gwen tira su la borsetta e se l'appoggia in grembo e comincia a rovistarci dentro. «Eccola qua» dice, e dispiega una fotocopia della lista dei dettagli indispensabili. In cima alla lista c'è scritto: Lo stupro è una questione di potere. Non c'è niente di romantico. Non innamorarti di me. Non baciarmi sulla bocca. Non pensare che dopo aver consumato staremo lì a cincischiare. Noti chiedermi di usare il bagno. Lunedì sera, nel suo letto, rannicchiata nuda contro di me, Gwen dice: «Voglio che mi picchi». Dice: «Né troppo piano, né troppo forte. Abbastanza da farmi venire». Con una mano le tengo un braccio dietro la schiena. Lei spinge il culo contro di me, e ha un corpicino della madonna, tutto abbronzato, tranne sulla faccia, che è pallida e sembra di cera per via della troppa crema idratante. Nello specchio sull'anta dell'armadio la vedo frontalmente, con la mia faccia che spunta da dietro la sua spalla. I suoi capelli e il suo sudore si raccolgono nella fessura dove il mio petto sfiora la sua schiena. La sua pelle ha l'odore di plastica riscaldata tipico del lettino solare. L'altra mia mano è occupata dal coltello, perciò le chiedo: vuole che la picchi con il coltello? «No» dice lei. «Sarebbe accoltellamento. Colpire qualcuno con un coltello vuol dire accoltellarlo.» Dice. «Posa il coltello e usa il palmo aperto della mano.» Allora io faccio per buttare il coltello. E Gwen dice: «Non sul letto». Allora lo butto sulla specchiera e alzo la mano per mollarle una sberla. Fatto da dietro è un gesto davvero stranissimo. E lei dice: «In faccia no». Allora abbasso un pochino la mano. E lei dice: «E non sul seno, altrimenti mi fai venire i noduli». Vedi anche: Mastite cistica. Dice: «Perché non fai che darmi una sberla sul culo e via?». E io le dico: perché non chiude quella cazzo di bocca e si fa stuprare come dico io? E Gwen dice: «Se è così che la pensi, allora puoi anche prendere il tuo minuscolo pene e tornartene a casa». E appena uscita dalla doccia, perciò ha il cespuglietto morbido e vaporoso, non tutto un nodo come quando sfili le mutandine. La mia mano libera si intrufola fra le sue cosce, e a toccarla lì Gwen sembra finta, di gomma, di plastica. Troppo liscia. Vagamente unticcia. Le dico: «Che hai sulla vagina?». Gwen guarda giù e dice: «Eh?». Dice: «Ah, quello. E un Femidom, un preservativo da donna. I bordi spuntano fuori. Non voglio che mi attacchi qualcosa di strano». Magari mi sbaglio, le dico, ma pensavo che uno stupro fosse un po' più spontaneo, non so come dire, un delitto passionale. «Il che dimostra che di stupri non capisci un cazzo» dice lei. «Uno stupratore in gamba progetta il suo crimine meticolosamente. Ogni dettaglio fa parte di un rito ben preciso. Dev'essere un po' come una cerimonia religiosa.» Quello che succede qui, dice Gwen, è sacro. Nel caffè della libreria, Gwen mi ha allungato il foglio fotocopiato e ha detto: «Te la senti di sottoscrivere tutti quanti i punti?» Il foglio diceva: Non chiedermi dove lavoro. Non chiedermi se mi fai male. Non fumare in casa mia. Non pensare di fermarti a dormire. Il foglio dice: La parola di sicurezza è BARBONCINO. Le chiedo cosa intende con parola di sicurezza. «Se il gioco si fa troppo pesante o se a uno dei due non piace» dice lei, «basta dire "barboncino" e ci si ferma all'istante.» Le chiedo se alla fine mi sarà concesso di sborrare. «Se proprio ci tieni» dice lei. Dopodiché le dico: okay, dove devo firmare? Queste patetiche fanciulle sessodipendenti. Hanno una fame di cazzo che non ci si crede. Senza vestiti, Gwen è un po' secca. La sua pelle è bollente e umida, come se strizzandola dovesse uscirne acqua calda insaponata. Le gambe sono così sottili che si sfiorano tra loro soltanto all'altezza del culo. I seni minuscoli e piatti sembrano appesi alla cassa toracica. Tenendole il braccio dietro la schiena, osservando il nostro riflesso nello specchio sull'anta dell'armadio, Gwen ha il collo allungato e le spalle spioventi di una bottiglia da vino. «Basta, ti prego» dice lei. «Mi fai male. Ti prego, ti do tutti i soldi che vuoi.» Le chiedo: quanti? «Basta, ti prego» dice. «Altrimenti mi metto a urlare.» Le mollo il braccio e faccio un passo indietro. «Non urlare» le dico. «Solo questo, non urlare.» Gwen sospira, poi si gira e mi tira un pugno sullo sterno. «Seiun imbecille» dice. «Non ho detto "barboncino"!» Sembra la scena di sesso di un film mezzo d'azione e mezzo demenziale. Gira su se stessa e si infila di nuovo fra le mie braccia. Mi fa avanzare con lei verso l'asciugamano e dice: «Aspetta». Va verso la specchiera e torna con un vibratore di plastica rosa. «Ehi» le dico, «quello su di me non lo usi.»


Gwen scrolla le spalle e dice: «Certo che no. È mio». Le dico: «E io?». E lei dice: «Mi spiace, la prossima volta il vibratore te lo porti». «No» dico, «e il mio pene?» E lei dice: «Il tuo pene cosa?». E io le chiedo: «Che ruolo ha in tutto questo?». Sistemandosi sull'asciugamano, Gwen scuote la testa e dice: «Perché finisce sempre così? Perché becco sempre ragazzi che vogliono soltanto essere carini e fare cose convenzionali? Cos'altro vuoi fare? Chiedermi di sposarti?». Dice: «Dio quanto vorrei per una volta trovare uno che mi picchia. Uno solo, nonchiedo tanto!». Dice: «Puoi masturbarti mentre mi stupri. Ma solo sull'asciugamano, e solo se stai attento a non schizzarmi». Liscia le pieghe dell'asciugamano e batte ripetutamente la mano su un piccolo riquadro spugnoso accanto a lei. «Quando sarà il momento» dice, «il tuo orgasmo puoi metterlo qui.» La sua mano fa pat, pat, pat. Ehm, okay, le dico, e adesso? Gwen fa un sospiro e mi sventola il vibratore sotto il naso. «Usami!» dice. «Umiliami, pezzo di idiota! Sviliscimi! Mortificarni, coglione! Non trovo il pulsante, e così Gwen deve mostrarmi come si accende. Dopodiché quel coso si mette a vibrare così forte che mi cade. Comincia a rimbalzare sul pavimento e praticamente devo acchiapparlo al volo. Gwen solleva le ginocchia, e quelle ricadono ai lati come un libro aperto, e io mi inginocchio sul bordo dell'asciugamano e con cautela le infilo la punta vibrante nei bordi di plastica molle. Con l'altra mano mi sfrego l'uccello. Gwen ha i polpacci depilati che si assottigliano in due piedi ricurvi, con le unghie coperte di smalto blu. Se ne sta sdraiata con gli occhi chiusi e le gambe spalancate. Tenendo le braccia tese e le mani giunte sopra la testa in modo che i seni si sollevino formando due palline perfette che starebbero nel palmo di una mano dice: «No, Dennis, no. Non voglio, Dennis. Ti prego. No. Non puoi avermi». Ed io le dico: «Guarda che mi chiamo Victor». E lei mi dice di stare zitto, che se no non riesce a concentrarsi. E io cerco di far divertire tutti e due, ma quello che stiamo facendo è sexy come sfregarsi la pancia e accarezzarsi la testa. O mi concentro su di lei, o mi concentro su me stesso. In entrambi i casi, è esattamente come fare una cosa a tre che non funziona. Uno dei due rimane sempre escluso. In più il vibratore è scivoloso e mi sfugge di mano. Si sta surriscaldando ed emana un odore acre e di fumo, come se dentro stesse bruciando qualcosa. Gwen apre un occhio, giusto una fessura, vede che mi sto menando l'uccello e dice: «Prima io!». Mi meno l'uccello. Infilzo Gwen. Infilzo Gwen. Più che uno stupratore, mi sento un idraulico. I bordi del Femidon scivolano dentro in continuazione, e ogni volta devo fermarmi e tiràrli fuori con due dita. Gwen dice: «Dennis, no. Basta, Dennis, basta» e la voce le esce dal profondo della gola. Si tira i capelli da sola e ansima. Il Femidon scivola di nuovo dentro, e io ce lo lascio. Il vibratore lo spinge sempre più in giù. Lei mi dice di titillarle i capezzoli con l'altra mano. Io le dico che l'altra mano mi serve. Ho le palle gonfie e pronte a sparare, e dico: «Oh, sì. Sì. Sì». E Gwen dice: «Non ti azzardare» e si lecca due dita. Mi guarda dritto negli occhi e comincia a toccarsi in mezzo alle gambe con le dita umide, accelerando la mia corsa. Mi basta immaginare Paige Marshall, la mia arma segreta, e la corsa è bell'e finita. L'istante prima di venire, la sensazione del buco del culo che ti si stringe, è quello il momento in cui mi giro verso il minuscolo riquadro di asciugamano che mi ha indicato Gwen. Sentendosi stupidi e addomesticati, i miei soldatini bianchi schizzano fuori, e forse per caso, forse no, sbagliano la traiettoria e finiscono sul copriletto rosa. Su quel suo bel paesaggino rigonfio e soffice. Arco dopo arco, schizzi roventi e di varie misure decollano in un tripudio di fitte e vanno a schiantarsi dappertutto, sul copriletto, sui copriguanciali e sul risvolto di seta rosa del lenzuolo. Cos'è che Gesù NON farebbe? Dei graffiti di sborra, per esempio. "Vandalismo" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. Gwen è spaparanzata sull'asciugamano e ansima, con gli occhi socchiusi e il vibratore che le ronza dentro sommessamente. Ha gli occhi rovesciati all'indietro, qualcosa che le cola tra le dita, e sussurra: «Ti ho battuto...». Sussurra: «Ti ho battuto, brutto bastardo...». Mi infilo nei pantaloni e agguanto la giacca. Ci sono schizzi di soldatini bianchi dappertutto, sul letto, sulle tende, sulla tappezzeria, e Gwen è ancora lì, distesa, che respira affannosamente, col vibratore che le spunta fuori di traverso. Di lì a un attimo scivola fuori e prende a saltellare qua e là sul pavimento, come un grosso pesce bagnato. È lì che Gwen apre gli occhi. Fa per tirarsi su puntandosi sui gomiti, poi vede il danno. Sono già mezzo fuori dalla finestra quando le dico: «Ah, a proposito...». Dico: «Barboncino», e alle mie spalle sento il suo primo urlo vero.


CAPITOLO 28 Nell'estate del 1642, a Plymouth, nel Massachusetts, un adolescente fu accusato di aver sodomizzato una cavalla, una mucca, due capre, cinque pecore, due vitelli e un tacchino. È storia vera, sta scritto sui libri. In osservanza alla legge biblica contenuta nel Levitico, dopo aver confessato, il ragazzo fu costretto ad assistere alla macellazione di ognuno di quegli animali. Dopodiché venne ucciso, e il suo corpo fu buttato insieme alle altre carcasse in una fossa comune priva di lapide. Ma all'epoca non avevano ancora inventato la terapia di gruppo per sessodipendenti. La fase quattro di quel ragazzo deve aver scoperto gli altarini di un'intera fattoria. Chiedo: «Ci sono domande?». Gli alunni di quarta elementare mi guardano e tacciono. Una bambina in seconda fila dice: «Cosa vuol dire sodomizzare?». Le dico: chiedilo alla maestra. Ogni mezz'ora devo spiegare all'ennesima mandria di bambini di quarta elementare una serie di stronzate di cui non frega niente a nessuno, tipo come si fa ad accendere un fuoco. A intagliare una mela a forma di testa di bambola. A ricavare l'inchiostro dalle noci nere. Come se fosse roba che gli serve per accedere a un buon college. Oltre a deformare le povere galline, i bambini di quarta elementare portano sempre qualche microbo. Non c'è da sorprendersi se Denny ha costantemente il naso che cola e la tosse. Pidocchi, verme solitario, clamidia, tigna... Sul serio, queste scolaresche in gita sono una versione in miniatura dei cavalieri dell'apocalisse. Invece di raccontargli istruttive puttanate da Padri Pellegrini, io gli spiego che quel girotondo che da bambini tutti fanno, il "ringaround-a-rosy" è basato sulla peste bubbonica del 1665. La peste faceva venire alla gente delle escrescenze dure, gonfie e nere che venivano chiamate plague rosee, le rose della peste, circondate da un alone più chiaro e altresì dette bubboni. Di qui il termine "bubbonico". Gli appestati venivano rinchiusi nelle loro case e lasciati morire. Nel giro di sei mesi, centomila persone vennero seppellite nelle fosse comuni. Il "pocket full of posies" della filastrocca era il sacchettino pieno di fiori che i londinesi si portavano appresso per non sentire l'odore dei cadaveri. Per accendere un fuoco, è sufficiente ammucchiare qualche ramoscello e un po' d'erba secca. La scintilla si produce battendo fra loro due pietre focaie. Poi la fiamma va alimentata con un mantice. Ma nemmeno per sbaglio questa bella tecnica riesce ad accendere una scintilla nei loro occhietti. A nessuno frega niente di una scintilla. 1 marmocchi se ne stanno lì in prima fila, raggomitolati sui loro videogiochi portatili. Ti sbadigliano in faccia. Ridono, si danno i pizzicotti, guardano le mie braghe corte e la mia camicia sporca e alzano gli occhi al cielo. E allora io gli racconto che nel 1672 la peste si spostò in Italia, a Napoli, uccidendo qualcosa come quattrocentomila persone. Che nel 1771, solo nel Sacro Romano Impero, ne uccise cinquecentomila. Che nel 1781 milioni di persone in tutto il mondo morirono di influenza. Che nel 1792 un'altra epidemia uccise ottocentomila persone in Egitto. Che nel 1793 le zanzare disseminarono la febbre gialla a Philadelphia, e morirono migliaia di persone. Dal fondo, un bambino bisbiglia: «Questo è ancora più noioso del filatoio>. Altri bambini aprono i cestini con il pranzo al sacco e guardano cosa c'è dentro i panini. Fuori dalla finestra, Denny è alla gogna. Stavolta per pura abitudine. Il consiglio cittadino ha annunciato che Denny verrà cacciato subito dopo pranzo. La gogna è semplicemente il luogo dove lui si sente più al sicuro da se stesso. Nessuno ha chiuso i lucchetti, la gogna è aperta, eppure Denny se ne sta lì, piegato in avanti, con le mani e il collo appoggiati nei punti in cui sono stati per mesi. Mentre la scolaresca tornava dal filatoio, uno dei bambini gli ha infilato un bastoncino nel naso e poi ha tentato di ficcarglielo in bocca. Intanto, altri bambini gli sfregavano la testa rasata, come se fosse un portafortuna. La storiella su come accendere un fuoco riempie a malapena un quarto d'ora, perciò una volta finito devo far vedere alle mandrie di bambini i grandi pentoloni in cui si cucinava il cibo e le scope di saggina e gli scaldini da letto e tante altre belle stronzate. In una stanza coi soffitti alti un metro e ottanta i bambini sembrano sempre più grandi di quello che sono. Dal fondo, uno di loro dice: «Cazzo, di nuovo prosciutto e uova». Me ne sto seduto qui, nel diciottesimo secolo, davanti al focolare del grande camino dotato di tutti gli attrezzi da camera di tortura del caso, grossi ganci di ferro per appendere i pentoIoni, attizzatoi, alari, ferri per la marchiatura a fuoco. Il mio bel fuoco divampa. È il momento giusto per tirar fuori le pinze dai carboni ardenti e far finta di osservarne attentamente le punte arroventate. I bambini indietreggiano. Chiedo: «Ragazzi, qualcuno sa dirmi come si seviziavano a morte i bambini nudi nel diciottesimo secolo?». Questo riesce sempre a catturare la loro attenzione. Nessuno alza la mano. Continuando a fissare le tenaglie dico: «Qualcuno lo sa?». Niente. «Ma insomma» dico, aprendo e chiudendo le tenaglie arroventate. «La vostra maestra non può non avervi spiegato come si ammazzavano i bambini a quei tempi.» La maestra è fuori che aspetta. E andata così: un paio d'ore fa, mentre la sua classe era impegnata con la cardatura della lana, io e questa maestra abbiamo sprecato un po' di sperma nell'affumicatoio, e di sicuro lei pensava che sarebbe stata una cosa romantica, ma tant'è. E pazzesco quanto una donna può fraintenderti se per sbaglio, mentre le affondi il muso tra le chiappe morbide, dici: ti amo. Dieci volte su dieci, l'uomo che pronuncia quelle parole intende dire: amo quello che stiamo facendo. Basta mettersi una camicia di lino ridicola, un fazzoletto al collo e un paio di braghe corte che di colpo a tutte le donne del mondo viene voglia di sbattertela in faccia. Mentre ci dividiamo le due estremità dello stesso randello bollente, noi due potremmo essere il disegno sulla copertina di uno di quei romanzetti storico-erotici in cui l'eroina viene stuprata dal cattivo di turno. Le dico: «Così, bimba, lambisci la mia verga ardente con le tue madide carni. Sì, bella, lambiscimi tutto». Nel diciottesimo secolo è così che si parlavano gli amanti nell'intimità. La maestra si chiama Amanda o Allison o Amy. Sì, insomma, un nome che comincia con una vocale.


Chiediti sempre: Cos'è che Gesù non farebbe? Ora, davanti alla sua classe, con le mani imbrattate di nero, appoggio le pinze nel fuoco, poi mostro due dita ai bambini e le piego ripetutamente verso di me, il gesto che nel linguaggio in ternazionale significa avvicinatevi. I bambini sul fondo spingono quelli nelle file davanti. Quelli nelle file davanti si guardano intorno, e uno di loro dice: «Signorina Lacey?». Intravedo una sagoma alla finestra e capisco che la signorina Lacey ci sta tenendo d'occhio, ma nell'istante in cui mi volto a guardarla la sagoma si abbassa e scompare. Più vicino, faccio segno ai bambini. Quella vecchia filastrocca su Georgie Porgie, dico, in realtà parla di Giorgio IV, re d'Inghilterra, che non ne aveva mai abbastanza. «Abbastanza di che?» dice un bambino. E io dico: «Chiedilo alla maestra». La signorina Lacey è lì nascosta. Dico: «Vi piace questo fuoco?» e indico le fiamme con un cenno del mento. «Sapete, le canne fumarie vanno pulite in continuazione, ma dentro sono strettissime e piene di curve, perciò un tempo, per scrostare le pareti, la gente ci faceva entrare i bambini.» E visto che le canne fumarie erano strettissime, spiego, se i bambini non si toglievano i vestiti rimanevano bloccati. «E così, un po' come Babbo Natale...» dico, «i bambini si arrampicavano su per il camino...» dico, e impugno un attizzatoio arroventato dal fuoco, «nudi.» Sputo sulla punta rossa dell'attizzatoio, e nella stanza silenziosa lo sfrigolio della saliva risuona fortissimo. «E lo sapete come morivano?» dico. «C'è qualcuno che lo sa?» Nessuno alza la mano. Dico: «Sapete cos'è uno scroto?». Nessuno risponde sì, nessuno fa sì con la testa, perciò proseguo. «Fatevelo dire dalla signorina Lacey.» Durante la nostra bella mattinata nell'affumicatoio, la signorina Lacey ha fatto su e giù con la testa sul mio uccello, bagnandolo ben bene di saliva. Ci siamo succhiati la lingua, sudando come porci e scambiandoci le bave, e a un certo punto lei si è staccata e mi ha squadrato. Nella luce tenue e fumosa si intravedevano i prosciutti finti appesi tutti intorno. Lei è lì, bagnata fradicia, che si struscia sulla mia mano, ansimando tra una parola e l'altra. Si asciuga la bocca e mi chiede se ho qualche tipo di protezione. «Tranquilla» le dico. «Qui siamo nel 1734, no? Il cinquanta per cento dei bambini muoiono appena nati.» Con un soffio lei si sposta una ciocca di capelli dal viso e dice: «Non è quello che intendo io». La lecco in mezzo ai seni, su per la gola, poi spalanco la bocca intorno al suo orecchio. Continuo a stropicciarla con le dita ormai allagate, e dico: «Cos'è, hai qualcosa di orrendo che potresti attaccarmi?». Lei mi spinge via, si bagna un dito con la saliva e dice: «Sono una che ama proteggersi». E io le faccio: «E va bene». Le dico: «Per una cosa del genere potrebbero licenziarmi» e mi srotolo un preservativo sull'uccello. Lei mi infila un dito umido nel buco del culo e con l'altra mano mi_ molla una sberla su una chiappa e dice: «lo invece no, eh?». Per impedirmi di venire, penso a topi di fogna morti, a cavolfiori marci, a cessi pubblici, e le dico: «No, il fatto è che il lattice lo inventeranno soltanto fra un secolo». Punto l'attizzatoio verso la scolaresca di quarta elementare e dico: «I bambini uscivano dalle canne fumarie coperti di fuliggine. E la fuliggine gli rimaneva attaccata alle mani e alle ginocchia e ai gomiti, e visto che nessuno aveva il sapone restavano sporchi». A quei tempi si viveva così. Tutti i giorni qualcuno li costringeva a infilarsi su per un camino e passavano le giornate a strisciare nel buio, con la fuliggine che gli finiva in bocca e nel naso, e non andavano a scuola, non avevano la televisione, né i videogiochi, né le lattine di succo di frutta al mango e papaia, né la musica, né i telecomandi, né le scarpe, e le loro giornate erano tutte uguali. «E questi bambini» dico, agitando l'attizzatoio verso di loro, «erano bambini come voi. Uguali identici a voi.» I miei occhi corrono da un bambino all'altro, incrociando per un breve istante lo sguardo di ognuno. «Poi, un bel giorno, questi bambini si svegliavano con una Piaga purulenta nelle parti intime. Ed erano piaghe che non guarivano mai. Diventavano metastasi, e attraverso la vescicola seminale risalivano fino alla pancia. A quel punto» dico, «per i bambini non c'era più niente da fare.» Sono i rimasugli di quello che ho imparato a medicina. E gli spiego come a volte si tentava di salvare il bambino tagliandogli lo scroto, ma all'epoca gli ospedali e le medicine non esistevano. Nel diciottesimo secolo quel genere di tumore veniva ancora chiamato "bubbone da fuliggine". «E questi bubboni da fuliggine» dico ai bambini «sono la prima forma di cancro mai esistita.» Poi chiedo: qualcuno sa perché il cancro si chiama così? Nessuno. Dico: «Su, non costringetemi a interrogare qualcuno a caso». Nell'affumicatoio, passandosi le dita tra le ciocche di capelli umidi e annodati, la signorina Lacey mi dice: «Allora?». Come se fosse una domanda innocente mi chiede: «Hai anche una vita, nel mondo reale?». E asciugandomi le ascelle con la parrucca incipriata io le dico: «Senti, non prendiamoci in giro». Lei sta arrotolando i collant come fanno le donne per infilarci dentro le gambe con più facilità, e dice: «Il sesso anonimo è sintomo di dipendenza sessuale». Io preferisco pensarmi come un playboy, un tipo alla James Bond. E la signorina Lacey dice: «Be', ma forse anche James Bond era un sessodipendente». E a questo punto dovrei dirle la verità. Ovvero che io quelli che hanno una dipendenza li ammiro. In un mondo in cui tutti quanti non fanno altro che aspettare ciecamente questa o quella catastrofe, questa o quella malattia fulminante, chi ha una dipendenza perlomeno sa a grandi linee cosa lo aspetta dietro l'angolo. Ha assunto una parvenza di controllo sul suo destino, e la dipendenza fa sì che per questa persona il modo in cui morirà non sia un mistero. In un certo senso, avere una dipendenza è sinonimo di intraprendenza.


Una bella dipendenza come si deve toglie alla morte l'elemento sorpresa. Perciò si può progettare la propria fine, eccome. E poi diciamocelo: pensare che un essere umano debba vivere in eterno è proprio una cosa da femmine. Vedi anche: la dottoressa Paige Marshall. Vedi anche: Ida Mancini. La verità è che il sesso non è sesso se ogni volta non lo fai con un partner diverso. La prima volta è anche l'unica in cui uno c'è dentro completamente, con la testa e con il corpo. E persino la prima volta, dopo un'oretta, la testa comincia ad andarsene per i fatti suoi. È davvero difficile gustarsi appieno l'effetto anestetico del sesso anonimo consumato con qualcuno per la prima volta. Cos'è che Gesù NON farebbe? Ma invece di spiegarle tutto questo, alla signorina Lacey io ho mentito, dicendo: «Come posso contattarti?». Ai bambini di quarta elementare spiego che il cancro si chiama così perché quando comincia a crescerti dentro, quando affiora sulla pelle, somiglia a un grosso granchio rosso. Poi il granchio si spacca e dentro è tutto bianco e pieno di sangue. «Nonostante gli sforzi dei dottori» dico ai bambini ammutoliti, «quei bambini continuavano a vivere nella sporcizia, e infine si ammalavano e gridavano per i dolori atroci. Qualcuno sa dirmi cosa succedeva dopo?» Nessuno alza la mano. «Be'» dico, «morivano, ovviamente.» E ripongo l'attizzatoio nel fuoco. «Allora» dico, «ci sono domande?» Nessuno alza la mano, perciò vado avanti a raccontare dei finti studi che certi scienziati cialtroni praticavano sui topi. Li tosavano e li cospargevano di smegma di cavallo. Questo per dimostrare che era il prepuzio a causare il cancro. Una dozzina di mani si alzano, io dico: «Chiedetelo alla maestra». Tosare quei topi dev'essere stato un vero lavoraccio. Figuriamoci trovare una mandria di cavalli non circoncisi. L'orologio sulla mensola del camino dice che la nostra mezz'ora è quasi finita. Fuori dalla finestra, Denny è ancora alla gogna. Ha tempo soltanto fino all'una di pomeriggio. Un cane randagio gli si ferma accanto e alza la zampa, e il rivolo giallo e fumante va a finire dritto sotto la sua scarpa di legno. «E non è tutto» dico ai bambini. «Sappiate che George Washington era uno schiavista e non ha mai abbattuto un ciliegio, e oltretutto era una donna.» Mentre si dirigono verso la porta gli dico: «E lasciate in pace il ragazzo alla gogna». Gli urlo: «E piantatela di scuotere le uova delle galline». E giusto per fare un po' lo stronzo, gli dico di chiedere al casaro come mai ha gli occhi rossi e le pupille dilatate. Di chiedere al fabbro cosa sono quei segni orribili che ha sulle braccia. A quei mostriciattoli infetti grido che i loro nei e le loro lentiggini sono solo cancri in attesa di esplodere. Gli grido: «Il sole fa male. Restate nell'ombra».


CAPITOLO 29 Dopo che Denny è venuto a stare da me, trovo un blocco di granito bianco e nero nel frigo. Denny porta a casa pezzi di basalto, con le mani macchiate di rosso dall'ossido di ferro. Avvolge nella sua coperta da neonato ciottoli di granito, pietre di fiume lisciate dall'acqua e lastre di quarzite, e se li porta a casa in autobus. Tutti questi bambini che Denny adotta. Un'intera generazione ammucchiata in casa mia. Denny porta a casa nel suo carrello morbide bracciate rosa di arenarie e pietre calcaree. Le ripulisce dal fango sul vialetto, con la manichetta dell'acqua. Denny le ammucchia dietro il divano nel salotto. Le ammucchia negli angoli della cucina. lo torno a casa dall'ennesima giornataccia nel diciottesimo secolo e in cucina mi ritrovo un'enorme pietra vulcanica sul mobile accanto al lavandino. E adesso nel frigo, sul secondo ripiano a partire dal basso, c'è questo piccolo macigno grigio. «Di' un po'» faccio a Denny. «Com'è che c'è una pietra nel frigo?» Denny è in cucina che tira fuori dalla lavastoviglie una serie di pietre calde e le asciuga con uno straccio, e dice: «Perché quello è il mio ripiano, me l'hai detto tu». Dice: «E poi quella non è una pietra qualunque. È granito». «Ma perché proprio nel frigo?» gli faccio. E Denny dice: «Perché il forno è già pieno». Il forno è pieno di pietre. Così come il freezer. Gli armadietti della cucina sono talmente pieni che manca poco si stacchino dal muro. All'inizio doveva essere una pietra al giorno, ma Denny la dipendenza ce l'ha proprio nel sangue. Adesso, ogni giorno, per tenere a bada i suoi bisogni deve portarsi a casa almeno una mezza dozzina di pietre. La lavastoviglie è sempre in funzione, e i mobili della cucina sono disseminati di asciugamani da bagno buoni di mia mamma coperti di pietre messe ad asciugare. Pietre grigie rotonde. Pietre nere quadrate. Pietre marroni a righe gialle spaccate. Travertino. Ogni giorno Denny arriva a casa con una nuova infornata, la carica nella lavastoviglie e porta giù in cantina le pietre del giorno prima, ormai asciutte. Un giorno il pavimento della cantina scompare sommerso dalle pietre. Quello dopo spuntano montagne di pietre intorno all'ultimo gradino della scala. Quello dopo ancora, le montagne arrivano fino a metà scala. Adesso, se apri la porta della cantina, le pietre ammonticchiate si riversano in cucina. La cantina non esiste più. «Stiamo annegando nelle pietre» gli dico. «Mi sembra di vivere dentro una clessidra. » Come se il nostro tempo stesse per scadere. Come se ci stessero seppellendo vivi. Denny, con i vestiti sporchi, il panciotto scucito sotto le ascelle, il fazzoletto da collo sfilacciato, aspetta gli autobus alla fermata stringendo al petto i suoi fagottini rosa. Appena sente che i muscoli delle braccia gli si stanno addormentando, comincia a muoverli su e giù. Sull'autobus, Denny russa appoggiato alla parete di metallo vibrante, con le guance sporche di terra e il suo bambino stretto al petto. A colazione gli dico: «Guarda che tu avevi detto una pietra al giorno». E Denny dice: «Infatti. Mica ne raccolgo di più». E io gli dico: «Sei proprio un tossico». Gli dico: «Non dire balle. So benissimo che te ne porti a casa almeno dieci al giorno». Riponendo una pietra nell'armadietto delle medicine in bagno Denny dice: «E va bene, sì, mi sono portato un po' avanti col lavoro, e allora?». Ci sono pietre nascoste nel serbatoio del gabinetto, gli dico. E gli dico: «Guarda che così anche le pietre diventano una droga». Denny, col naso che cola, la testa rasata, la coperta da neonato fradicia di pioggia, aspetta gli autobus alla fermata e tossisce. Si sposta il fagotto da un braccio all'altro. Con la testa china, tira su il bordo di raso rosa della coperta. Per meglio proteggere il suo bambino, si direbbe, e invece lo fa per nascondere il fatto che lì dentro c'è del tufo vulcanico. La pioggia gli cola dal cappello a tricorno giù sulla schiena. Altre pietre gli scuciono le tasche dei pantaloni. Nei suoi vestiti sudati, a furia di trasportare pesi, Denny rimpicciolisce a vista d'occhio. Trascinarsi in giro oggetti che sembrano neonati è un gioco pericoloso, e prima o poi qualcuno lo denuncerà per maltrattamento di minore. La gente non vede l'ora di stanare genitori inadeguati e affidarne i figli a qualche famiglia adottiva. Parlo per esperienza personale, chiaramente. Ogni sera io torno a casa da una lunga seduta di soffocamento semi mortale e Denny è lì con qualche pietra nuova di zecca. Quarzo, agata, marmo. Feldspato, ossidiana, argillite. Ogni sera, dopo aver trasformato in eroe un emerito sconosciuto, torno a casa e trovo la lavastoviglie in funzione. E devo ancora mettermi lì a fare i conti della giornata, sommare gli assegni, preparare le lettere di ringraziamento. Sulla mia sedia c'è una pietra. I miei fogli, le scartoffie sul tavolo, le pietre ricoprono ogni cosa. Allora io prima dico a Denny: in camera mia niente pietre. Può metterle dove vuole, in qualsiasi altro posto. In corridoio. Negli armadi. Poi gli dico: «Per favore, almeno non nel mio letto». «Ma tu non dormi mai da quella parte» dice Denny. Gli dico: «Non importa. Non voglio pietre nel mio letto. Punto e basta». Torno a casa dopo due ore di terapia di gruppo con Nico o Leeza o Tanya e trovo il forno a microonde pieno di pietre. Pietre nell'asciugabiancheria. Pietre nella lavatrice. A volte Denny si mette a lavare le pietre sul vialetto alle tre o alle quattro del mattino, a volte le pietre sono così grosse che deve farle rotolare in casa. Poi comincia ad ammucchiarle sulle altre pietre, in bagno, in cantina, nella stanza di mia mamma. Portare a casa le pietre è diventato il suo lavoro a tempo pieno. Il suo ultimo giorno a Colonial Dunsboro, quando l'hanno cacciato, Sua Altezza Reale il Governatore, davanti ai cancelli della dogana, gli ha letto una cosa da un libriccino rilegato in pelle. Un libriccino piccolissimo, tanto che tra le sue mani quasi


scompariva, ma foderato in pelle nera, con le pagine bordate d'oro e con alcuni nastrini che penzolavano dalla cima del dorso, uno nero, uno verde e uno rosso. «Come si disperde il fumo, tu li disperdi» ha letto. «Come fonde la cera di fronte al fuoco, così periscano gli empi davanti a Dio». Denny mi si è avvicinato e ha detto: «Questa cosa del fumo e della cera» ha detto, «mi sa che parla di me». All'una in punto, nella piazza del villaggio, Sua Eccellenza il Governatore coloniale Lord Charlie ha letto per noi con il naso sul libriccino. Un vento freddo piegava i fili di fumo che uscivano dai camini. C'erano le mungitrici. I ciabattini. Il fabbro. C'erano tutti, con i vestiti, i capelli, l'alito e le parrucche puzzolenti di hashish. Di canna. Con gli occhi rossi, strafatti. Madama Landson e la signora Plain hanno pianto nei grembiuli, ma solo perché devono farlo per contratto. Un drappello di guardie attendeva con i moschetti in spalla, pronti a scortare Denny nella landa impervia e desolata del parcheggio. Sul tetto della dogana, la bandiera coloniale sventolava a mezz'asta. Una folla di turisti osservava la scena da dietro le videocamere. Man giando popcorn, con le galline mutanti che beccavano le briciole ai loro piedi. Ciucciandosi resti di zucchero filato dalle dita. «Invece di cacciarmi» ha detto Denny, «non è che potreste lapidarmi?» Ha detto: «Sì, insomma, le pietre sarebbero un souvenir da sballo». Nell'istante in cui Denny pronunciò la parola "sballo", i coloni strafatti hanno fatto un salto. Si sono voltati di scatto verso il governatore coloniale, rossi in faccia, dopodiché hanno abbassato gli occhi e prima di tornare di un colore normale gli ci è voluto un bel po'. «Affidiamo dunque il suo corpo alla terra, affinché essa lo corrompa...» ha letto il governatore mentre il rombo di un aereo che volava basso in vista dell'atterraggio copriva il suo discorsetto. Il drappello ha accompagnato Denny ai cancelli di Colonial Dunsboro: due file di uomini che marciavano col fucile in spalle, e in mezzo lui. E marciando l'hanno scortato fuori dal cancello e attraverso il parcheggio, fino alla fermata dell'autobus, sul limitare del ventunesimo secolo. «Ehi, bello» gli ho gridato dai cancelli della colonia, «adesso che sei morto cosa pensi di fare nel tuo tempo libero?» «Cosa penso di non fare, vorrai dire» mi fa Denny. «Di una cosa sono sicuro: niente ricadute.» Come dire andare a caccia di pietre invece che ammazzarsi di seghe. Tenersi sempre così occupati, affamati e stanchi da non avere le forze per procurarsi materiale porno e tormentarsi il salsicciotto. La sera dopo essere stato cacciato, Denny si presenta a casa di mia mamma con una pietra in mano e un poliziotto accanto. Denny si asciuga il naso sulla manica. Il poliziotto dice: «Mi scusi, lei conosce quest'uomo?». Poi il poliziotto dice: «Victor? Victor Mancini? Victor, ehi, ciao! Come te la passi?» e alza la mano con il grosso palmo aperto rivolto verso di me. Io capisco che vuole farsi dare il cinque, e lo faccio, ma mi tocca fare una specie di saltino perché lui è altissimo. E anche così, non riesco a beccargli la mano. Poi dico: «Sì, lui è Denny. Non preoccuparti, abita qui». Rivolgendosi a Denny, il poliziotto dice: «Roba da pazzi: gli salvi la vita e lui nemmeno si ricorda dite». Ma certo. «Quella volta che per poco non morivo soffocato!» dico. E il poliziotto dice: «Allora te lo ricordi!». «Altroché» dico io, «senti, grazie per avermi riportato a casa il vecchio Denny sano e salvo.» Trascino Denny in casa e faccio per chiudere la porta. E il poliziotto dice: «Sei a posto adesso, Victor? Hai bisogno di qualcosa?». Vado al tavolo in salotto e scrivo un nome su un pezzo di carta. Lo allungo al poliziotto dicendo: «Non è che potresti rovinare la vita a questo signore? Che ne so, contattare un paio di persone e farlo fermare per una perquisizione anale?» Sul pezzo di carta c'è scritto Sua Eccellenza Lord Charlie, Governatore coloniale. Cos'è che Gesù NON farebbe? E il poliziotto sorride e dice: «Vedo che si può fare». E io gli sbatto la porta in faccia. Denny appoggia la pietra sul pavimento e mi chiede se ho qualche dollaro da prestargli. In un magazzino di materiali da costruzione ha visto un blocco di granito quadrato. Pietra ottima, con una buona forza di compressione, la vendono un tot alla tonnellata e Denny pensa di potersi portare a casa il blocco per dieci dollari. «Una pietra è una pietra» dice, «ma una pietra quadrata è un vero colpo di culo.» Il salotto sembra sia stato travolto da una frana. Prima le pietre arrivavano fino ai piedi del divano. Poi hanno sepolto anche i tavolini, da cui adesso spuntano soltanto le lampade. Granito e arenaria. Pietre grigie e blu e nere e marroni. In alcune stanze bisogna piegare la testa per non sbattere contro il soffitto. E così gli chiedo cos'è che vuole costruire. E penny dice: «Se mi dai quei dieci dollari» Denny dice, «potrai darmi una mano». «Tutte queste stupide pietre» gli dico, «cos'hai in mente?» «La cosa importante non è il fine» dice Penny. «Ma tutto quello che viene prima. Il percorso, no?» «Sì, ma poi cosa pensi di farci, con tutte queste pietre?» E Denny dice: «Lo saprò solo quando ne avrò raccolte abbastanza». «Abbastanza quante?» gli chiedo. «Che ne so» dice Penny. «Io voglio solo che le giornate allafine mi lascino qualcosa.» I giorni della tua vita, il modo in cui possono dissolversi uno dopo l'altro davanti alla tv, Penny dice che vuole una pietra da mostrare a tutti per ogni giorno della sua vita. Qualcosa di tangibile. Una cosa sola. Un piccolo monumento che segni la con clusione di ogni giornata. Pi ogni giornata che Penny trascorre senza farsi seghe. "Pietra tombale" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente. «Forse così alla fine la vita mi avrà lasciato qualcosa» dice,


«qualcosa che duri.» Io gli dico che dovrebbero inventare un programma in dodici fasi per i sessodipendenti. E Denny dice: «Come se servisse a qualcosa». Dice: «Ma quant'è che non pensi più alla tua fase quattro?».


CAPITOLO 30 La Mamma e lo stupido vermiciattolo una volta andarono allo zoo. Era uno zoo così importante che tutt'intorno aveva ettari di parcheggio. Stava in una città dove ci si poteva andare in macchina, e davanti c'era una fila di mamme e bambini che aspettavano di entrare con i soldi in mano. Fu dopo il falso allarme alla centrale di polizia, quando gli investigatori avevano lasciato andare il ragazzino in bagno da solo e fuori, sulla macchina parcheggiata accanto al marciapiede, lui aveva trovato la Mamma che gli aveva detto: «Ti va di andare a liberare gli animali?». Fu la quarta o quinta volta che andò a riprenderselo. Fu quello che il giudice in seguito avrebbe definito "Panneggiamento colposo di proprietà comunali". Quel giorno, la faccia della Mamma sembrava il muso di uno di quei cani con gli occhi all'ingiù e la pelle tutta grinzosa, che gli fa sembrare gli occhi assonnati. «Un San Bernardo» aveva detto lei, guardandosi nello specchietto retrovisore. Indossava una maglietta bianca trovata non si sa dove con la scritta Piantagrane. Era nuova, ma aveva una manica già macchiata di sangue di naso. Le altre mamme e gli altri ragazzini parlavano fra loro. Rimasero in coda per un bel pezzo. Nei paraggi non c'era traccia di polizia. Mentre aspettavano in piedi, la Mamma disse che se uno vuole essere sempre il primo a salire a bordo di un aeroplano e vuole tenere con sé un animale può fare entrambe le cose, è facile. Se un pazzo vuole viaggiare con un animale in braccio, le compagnie aeree devono permettergli di farlo. Lo dice il governo. L'ennesima cosa importante da sapere. Mentre facevano la fila, la Mamma gli diede un po' di buste e un po' di etichette con su degli indirizzi da appiccicarci sopra. Poi gli diede dei buoni sconto e delle lettere, da piegare e infilare nelle buste. «Basta telefonare alla compagnia aerea» disse, «e spiegargli che vuoi portare a bordo il tuo "animale di conforto".» È così che li chiamano le compagnie aeree. Può essere un cane, una scimmia, un coniglio, ma non un gatto. Per il governo i gatti non possono essere di conforto a nessuno. La compagnia aerea non può chiederti di dimostrare che sei davvero pazzo, disse la Mamma. Sarebbe discriminazione. A un cieco non chiedi di dimostrarti che è davvero cieco. «Se sei pazzo» disse lei, «nessuno ti può incolpare per il tuo aspetto o per come ti comporti.» Sui buoni sconti c'era scritto: Valido per un pasto al Clover Inn Restaurant. Disse che i pazzi e gli invalidi hanno la precedenza nell'assegnazione dei posti sugli aerei, perciò tu e la tua scimmietta sarete i primi della fila, anche se tutti gli altri sono arrivati prima di voi. Storse la bocca da un lato e inspirò da una narice, poi fece lo stesso dall'altra parte. Si toccava il naso in continuazione, lo sfiorava, lo strofinava. Lo pizzicava in punta. Si annusava sotto le unghie nuove, lucidissime. Alzava la testa e inspirando ricacciava indietro una goccia di sangue che le stava uscendo dal naso. I pazzi, disse, sono quelli che hanno il potere. Gli diede dei francobolli da leccare e appiccicare sulle buste. La fila avanzava poco alla volta, e quando giunsero alla cassa la Mamma disse: «Ha mica un fazzoletto, per favore?». Poi infilò le buste nella fessura sotto il vetro e disse: «Non è che potrebbe spedirmele?». Nello zoo c'erano gli animali dietro le sbarre, dietro spesse lastre di plastica, al di là di grandi fossi pieni d'acqua, e se ne stavano perlopiù spaparanzati al suolo, masturbandosi attraverso le zampe posteriori. «Gesù santissimo» disse la Mamma a voce un po' troppo alta. «Tu dai agli animali selvatici un bel posticino sicuro e pulito in cui vivere, li rimpinzi di buon cibo sano» disse, «e guarda come ti ringraziano.» Le altre mamme si chinarono a sussurrare qualcosa all'orecchio dei figli e li trascinarono per un braccio a vedere altri animali. Di fronte a loro, le scimmie si toccavano furiosamente e schizzavano fuori roba bianca e densa. La roba bianca e densa colava sulle lastre di plastica. Sulle lastre c'erano schizzi di roba bianca vecchia e già secca, che spiaccicandosi avevano formato una patina sottile, oramai secca e semitrasparente. «Tu gli togli la lotta per la sopravvivenza ed ecco cosa ottieni» disse la Mamma. I porcospini, invece, per procurarsi un orgasmo, disse la Mamma mentre ne osservavano uno, si scopano un bastoncino di legno. Un po' come le streghe che volano a cavalcioni sulle scope, i porcospini si sfregano sul bastoncino finché quello non diventa puzzolente e appiccicoso di pipì e di secrezioni. Una volta che il bastoncino puzza a sufficienza, loro non lo abbandonano più e non ne cercano un altro. Guardando il porcospino cavalcare il suo bastone, la Mamma disse: «Molto fine, come metafora». II ragazzino immaginò di aiutare la mamma a liberare gli animali. Tigri e pinguini, tutti che lottavano fra loro. Leopardi e rinoceronti che si mordevano a vicenda. Allo stronzetto l'idea piaceva da morire. «L'unica cosa che ci differenzia dagli animali» disse la Mamma, «è che noi abbiamo la pornografia.» Sempre di simboli si tratta, disse. Ma non sapeva dire con esattezza se la cosa ci rendeva migliori o peggiori degli animali. Gli elefanti, disse la Mamma, lo fanno con le zanne. Le scimmie ragno lo fanno con la coda. Il ragazzino aveva voglia di veder succedere qualcosa di brutto, di pericoloso. «La masturbazione» disse la Mamma «per loro è l'unica via di fuga.» Finché non arriviamo noi due, pensò il ragazzino. Gli animali tristi e catatonici, gli orsi strabici e i gorilla e le lontre accasciati su se stessi, con gli occhi vitrei quasi completamente


chiusi, che respiravano a malapena. Con le zampette logore imbrattate di roba appiccicosa. Gli occhi coperti di croste. I delfini e le balene si strusciano contro le pareti lisce delle vasche, disse la Mamma. I cervi, disse, sfregano le corna nell'erba fino a raggiungere l'orgasmo. Pavanti a loro, un orso malese sparò il suo schizzetto su una roccia. Dopodiché si lasciò cadere sulla schiena con gli occhi chiusi. Lasciando il suo laghetto a morire sotto il sole. Il ragazzino sussurrò: lui è triste? «Peggio ancora» disse la Mamma. Gli raccontò di una famosa orca assassina che, dopo essere stata protagonista di un film, era stata trasferita in un acquario nuovo di zecca, lussuosissimo, ma aveva cominciato a riempire la vasca di sperma in continuazione. I guardiani erano imbarazzatissimi. La cosa aveva assunto proporzioni tali che adesso stavano cercando di liberarla in mare. «Guadagnarsi la libertà a forza di masturbazioni» disse la Mamma. «Michel Foucault sarebbe impazzito per una cosa simile.» Gli disse che quando un maschietto e una femminuccia copulano, la punta del pene di lui si gonfia, e i muscoli della vagina di lei si dilatano. Dopo aver fatto sesso i cani rimangono bloccati l'uno dentro l'altra, e per un tempo generalmente breve non possono fare altro se non restare in quella posizione infelice. La Mamma disse che la descrizione poteva adattarsi perfettamente a buona parte dei matrimoni. Nel frattempo, quasi tutte le altre madri avevano portato via i figli. Quando il ragazzino e la Mamma rimasero soli, lui le sussurrò: dove sono le chiavi per liberare gli animali? E la Mamma rispose: «Ce le ho qui». Davanti alla gabbia delle scimmie, la Mamma infilò una mano nella borsa e tirò fuori una manciata di pillole, minuscole pillole rotonde e viola. Le lanciò al di là delle sbarre, e le pillole si sparpagliarono, rotolando ovunque. Alcune scimmie si avvicinarono per osservarle. Per un angoscioso istante, il ragazzino si dimenticò di parlare a bassa voce e disse: «Cos'è, veleno?». E la Mamma scoppiò a ridere. «Questa sì che sarebbe un'idea» disse. «No, amore mio, noi due queste scimmie non vo gliamo liberarle definitiva niente.» Adesso le scimmie si erano raccolte intorno alle pillole, e se le stavano mangiando. E la Mamma disse: «Tranquillo, bimbo mio». Infilò una mano nella borsetta e tirò fuori il tubetto bianco, il tricloroetano. «Questo?» disse, e si appoggiò una pillola viola sulla lingua. «Questo è solo comunissimo Lsd.» Dopodiché, si ficcò il tubetto di tricloroetano in una narice. O forse no. Forse non andò affatto così.


CAPITOLO 31 Denny è già lì seduto al buio sotto il palco che disegna sul suo bloc notes, con tre bottiglie di birra mezze vuote sul tavolino accanto. Non alza la testa per guardare la ballerina, una brunetta con i capelli neri lisci che se ne sta a quattro zampe davanti a lui. Lei scuote la testa di qua e di là, frustando il palco con i capelli, e sotto le luci rosse i capelli si tingono di viola. Con le mani la ballerina si liscia i capelli, scostandoseli dal viso, e avanza come strisciando verso il bordo del palco. La musica, fortissima, è techno mixata con campionamenti di cani che abbaiano, antifurti per auto, cori da gioventù hitleriana. Si sentono rumori di vetri infranti e colpi di pistola. Musica con donne che urlano e sirene antincendio. «Ehi, Picasso» dice la ballerina, facendogli ciondolare un piede davanti al naso. Senza alzare gli occhi dal bloc notes, Penny si sfila un dollaro dalla tasca dei pantaloni e glielo ficca tra le dita dei piedi. Sulla sedia accanto alla sua c'è una pietra avvolta nella coperta rosa. Io dico che se siamo arrivati al punto di ballare al ritmo degli allarmi antincendio vuol dire che il mondo è proprio andato a male. Oggigiorno, gli allarmi antincendio non segnalano più gli incendi. Se ci fosse davvero un incendio, si limiterebbero a far annunciare con voce suadente: «Informiamo il proprietario della Buick station wagon targata BRK 773 che ha dimenticato le luci accese». In caso di attacco nucleare, griderebbero: «Chiamata in attesa per 13111 Rivervale sulla linea due». E poi più niente. Con una mano, la ballerina si sfila i soldi di Denny dalle dita dei piedi. Si sdraia pancia a terra, appoggiandosi sui gomiti, si spreme le tetto davanti a noi e dice: «Fa' un po' vedere com'è venuto». Denny aggiunge rapide) un paio di tratti e gira il bloc notes terso di lei. Lei dice: «E questa sarei io?». <<No» dice Dennv, girando il bloc notes per osservarlo meglio. «In teoria sarebbero delle colonne di ordine composito, come quelle che tacevano i romani. Vedi?» dice, e le indica qualcosa con un dito macchiato. «I romani combinavano le volute dei capitelli ionici alle foglie di acanto di quelli corinzi, lasciando le proporzioni invariate.» La ballerine è Cherry Daiquiri, quella dell'ultima volta, sola che adesso da bionda si è fatta nera. Sull'interno di una coscia ha ima piccola garza rotonda. lo nel frattempo mi sono avvicinato a Denny da dietro e gli dico: «Ehilà». E Denny dice: «Ehilà». E io gli dico: «Sbaglio o sei di nuovo andato in biblioteca?». A Cherry dico: <<Hai fatto bene a farti vedere quel neo». Cherry Daiquiri scuote la testa formando una specie di ventaglio di capelli. Si piega in avanti, poi butta la testa all'indietro facendoseli ricadere sulle spalle. «E mi sono pure tinta i capelli» dice. Con una mano recupera un paio di ciocche da dietro la testa e me le piazza davanti al naso, sfregandosele tra le dita. «Adesso sono neri» dice. Ho pensato che era più sicuro» dice, «visto che tu mi hai detto che le bionde sono quelle più a rischio di cancro della pelle.» lo scuoto tutte le bottiglie di birra cercando di trovarne una ìn cui ne sia rimasta un po', poi guardo Denny. Denny disegna e non mi ascolta, nemmeno qui. Le trabeazioni con architrave composito corinzio-tuscanico... Certa gente in biblioteca dovrebbero farcela entrare soltanto dietro presentazione di ricetta medica. Dico sul serio, i libri di architettura sono diventati la pornografia di Denny. Certo, prima si comincia con le pietre. Poi si finisce a progettare volte a ventaglio. Il punto, secondo me, è che l'America è così. Cominci con una sega e ti ritrovi a fare le orge. Ti fumi una canna e finisci a farti le pere. La nostra è la cultura del più: più grande, più bello, più forte, più veloce. La parola d'ordine è: progresso. In America, se non hai una dipendenza sempre nuova e migliore di quella prima sei un fallito. Guardando Cherry, mi batto una mano sulla fronte. Poi punto il dito verso di lei. Le faccio l'occhiolino e dico: «Che ragazza sveglia». Lei sta cercando di infilarsi un piede dietro la testa e dice: «La prudenza non è mai abbastanza». Ha ancora il cespuglietto depilato, la pelle coperta di lentiggini rosa. Le unghie dei piedi con lo smalto argento. La musica si trasforma in una raffica di mitragliatrice, poi nel fischio di bombe che cadono al suolo, e Cherry dice: «Intervallo». Cerca l'apertura nel sipario e scompare nel retropalco. «Come siamo caduti in basso, amico mio» dico. Recupero l'ultima bottiglia di birra calda. «Basta che una si spogli e noi le diamo tutti i soldi che abbiamo. Perché questa schiavitù, dico io?» Denny gira il foglio del bloc notes e comincia a disegnare qualcos'altro. Io sposto la sua pietra sul pavimento e mi siedo. Sono solo stanco, gli dico. Le donne sembra non sappiano fare altro che comandarmi a bacchetta. Prima mia mamma, adesso la dottoressa Marshall. E in mezzo ci sono Nico e Leeza e Tanya da far contente. Gwen, che nemmeno ha voluto lasciarsi stuprare. Sono tutte concentrate su se stesse. Per loro gli uomini sono roba vecchia. Inutile. Come se noi non fossimo altro che appendici sessuali. Il supporto necessario a tenere in vita un'erezione. Tanti bei portafogli. D'ora in poi non voglio più farmi mettere i piedi in testa. Entro in sciopero. D'ora in poi, le donne le porte se le apriranno da sole. Le cene se le pagheranno da sole. Non sposterò più divani pesanti per nessuno, basta. E nemmeno aprirò più i coperchi dei barattoli chiusi troppo stretti. E mai più mi capiterà di tirare giù l'asse del gabinetto.


Anzi, d'ora in poi ci piscerò sopra regolarmente. Che cazzo. Con due dita, faccio alla cameriera il gesto che nel linguaggio internazionale significa due. Altre due birre, per favore. Dico: «Vediamo un po' come se la cavano le donne senza di me. Vediamo se il loro piccolo mondo femminile non si inceppa di colpo». La birra calda sa della bocca di Denny, dei suoi denti e di burro cacao, questo giusto per farvi capire quanta sete ho in questo momento. «E credimi» dico, «mi trovassi su una nave che affonda, salireí sulla scialuppa per primo.» Noi non abbiamo bisogno delle donne. Ci sono un sacco di altre cose a questo mondo con cui fare sesso, basta andare a un incontro di sessodipendenti e prendere due appunti. Ci sono i meloni scaldati nel microonde. Ci sono le impugnature della tosaerba che vibrano esattamente all'altezza dell'inguine. Ci sono gli aspirapolvere e quei pouf morbidi morbidi. I siti Internet. Tutti quegli assatanati che popolano le chat fingendosi fanciulle sedicenni. Sul serio, nessuno riesce ad arraparti fingendosi una cyberfica meglio di un ex agente dell'Fbi. Tanto, voglio dire, a questo mondo esiste qualcosa che non delude mai le aspettative? A Denny dico, testuali parole, gli dico: «Le donne non vogliono la parità dei diritti. Hanno molto più potere se vestono i panni delle oppresse. Gli uomini devono essere i nemici che tra mano contro di loro. È il pilastro sul quale poggia la loro identità». E Denny ruota la testa, un po' come un gufo, e mi guarda, con gli occhi infossati sotto le sopracciglia, e dice: «Amico mio, stai proprio andando a picco». «No, parlo sul serio» gli dico. Gli dico che il tizio che ha inventato il dildo lo ammazzerei, giuro. La musica si trasforma in una sirena da bombardamento. La nuova ballerina esce in scena lanciatissima, avvolta da una sorta di alone rosa per via del baby doli trasparente che ha indosso, e le sue tette e il suo cespuglietto sono così vicini. Si sfila una spallina. Si succhia il dito indice. Poi va giù anche l'altra spallina, e se il baby doli non scivola a terra è solo perché le tette glielo impediscono. Io e Denny la fissiamo, e il baby doll va giù.


CAPITOLO 32 Quando arriva il carro attrezzi dell'automobile club, la ragazza della reception deve uscire per andargli incontro, perciò le dico che certo, non c'è problema, il bancone glielo tengo d'occhio io. Sembra uno scherzo, ma oggi, quando l'autobus mi ha scaricato di fronte alla St. Anthony, ho notato che la sua macchina aveva due gomme a terra. Hai i cerchioni delle ruote posteriori che toccano terra, le ho detto, sforzandomi di non distogliere gli occhi dai suoi nemmeno per un secondo. Sul monitor delle telecamere a circuito chiuso si vede la sala pranzo, dove alcune vecchie stanno mangiando una specie di purè in varie tonalità di grigio. La manopola dell'interfono è sintonizzata sul numero uno, e si sente musica da ascensore e acqua che scorre chissà dove. Il monitor passa al laboratorio di attività manuali, vuoto. Poi, dieci secondi dopo, alla biblioteca, dove c'è Paige che spinge mia mamma sulla sedia a rotelle tra gli scaffali di libri malconci. Giro la manopola dell'interfono da un numero all'altro finché non le sento sul numero sei. «Vorrei avere il coraggio di non lottare contro tutto e tutti, di non dubitare sempre e costantemente» dice mia mamma. Allunga un braccio e sfiora il dorso di un libro, dicendo: «Per una volta tanto mi piacerebbe poter dire: questo. Questo va bene. Perché io lo scelgo». Tira fuori il libro, guarda la copertina e lo rimette sullo scaffale, scuotendo la testa. E dall'altoparlante, la voce gracchiante e lontana di mia mamma dice: «Lei come ha deciso di diventare medico?». Paige si stringe nelle spalle. «A un certo punto bisogna pur barattare la propria giovinezza con qualcos'altro...» Il monitor passa a uno scorcio del cortiletto di carico e scarico merci deserto dietro la St Anthony. La voce di mia mamma, adesso fuoricampo, dice: «Ma come ha fatto a decidere di assumersi questa responsabilità?». E la voce fuoricampo di Paige dice: «Non saprei. Un bel giorno ho semplicemente deciso che volevo fare il medico...», e quindi sfuma in qualche altra stanza. Il monitor passa a uno scorcio del parcheggio di fronte, dove ci sono un carro attrezzi parcheggiato e un meccanico in ginocchio davanti a una macchina azzurra. La ragazza della reception è in piedi da un lato, con le braccia incrociate. Giro la manopola da un numero all'altro, e ascolto. Il monitor passa a me seduto con l'orecchio incollato all'altoparlante dell'interfono. Sul numero cinque si sente il ticchettio di qualcuno che batte a macchina. Sull'otto, il brusio di un phon. Sul due, sento la voce di mia madre dire: «Ha presente quel vecchio detto, "Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo"? Be', io penso che chi il passato se lo ricorda sia messo anche peggio». Fuoricampo, Paige dice: «Chi il passato se lo ricorda tende a fare un po' di confusione su come sono andate davvero le cose». Il monitor cambia inquadratura e le vedo avanzare lungo un corridoio, mia mamma con un libro aperto in grembo. Anche se il monitor è in bianco e nero, si capisce che è il suo diario. E lei lo sta leggendo, e sorride. Alza la testa, contorcendosi per lanciare un'occhiata a Paige dietro la sedia a rotelle, poi dice: «Secondo me, chi il passato se lo ricorda resta come paralizzato». E Paige spinge la sedia, e dice: «E se invece dicessimo: "Chi riesce a dimenticare il passato la sa più lunga di tutti gli altri messi insieme"?». E di nuovo le voci sfumano. Qualcuno russa sul numero tre. Sul dieci, si sente il cigolio di una sedia a dondolo. Il monitor passa al parcheggio di fronte, dove c'è la ragazza che firma un foglio su una cartelletta. Prima che io riesca a ritrovare Paige, la ragazza della reception sarà di ritorno, e mi dirà che le gomme sono a posto. E ricomincerà a guardarmi storto. Cos'è che Gesù NON farebbe? Viene fuori che qualche stronzo gliele aveva semplicemente sgonfiate.


CAPITOLO 33 Mercoledì significa Nico. Venerdì significa Tanya. Domenica significa Leeza, e ci troviamo nel parcheggio del centro di quartiere. A due porte di distanza dall'incontro di sessodipendenti, sprechiamo un po' di sperma in uno dei rispostigli dei bidelli, accanto a un mocio abbandonato in piedi dentro un secchio d'acqua grigia. Ci sono degli scatoloni di carta igienica su cui Leeza si può appoggiare, e io le sto trapanando il culo così forte che a ogni mio affondo Leeza va a sbattere con la testa contro uno scaffale carico di stracci ripiegati. Le lecco il sudore sulla schiena per darmi un botta di nicotina. Questa è la vita così come l'ho sempre intesa io. Il sesso rude, caotico, quello che ti va di fare sui fogli di giornale stesi sul pavimento. Questo sono io che cerco di riportare le cose a com'erano prima di Paige Marshall. Un revival dei bei tempi. Io che cerco di ricostruire la vita che ho fatto fino a qualche settimana fa. Quando la mia disfunzione funzionava tanto bene. Rivolgendomi ai peli ruvidi della schiena di Leeza dico: «Se io stessi diventando troppo tenero tu me lo diresti, vero?». Tirando i suoi fianchi verso di me dico: «Di' la verità». La sbatto con ritmo deciso e regolare, le chiedo: «Non è che pensi che mi sto rammollendo, eh?». Per impedirmi di venire, immagino luoghi d'impatto di disastri aerei, immagino di calpestare merde. Con l'uccello che mi brucia, immagino foto fatte dalla polizia a rottami di macchine accartocciati, ferite da fucilata a bruciapelo. Per impedirmi di provare qualsiasi cosa, continuo a ingozzarmi. A ingozzarmi di sesso, a ingozzarmi di sentimenti. Per un sessodipendente è la stessa cosa. Sprofondato dentro di lei, le metto le mani ovunque. Spingendolo dentro più che posso, allungo le mani sotto di lei per torcerle i capezzoli duri e appuntiti. E imprimendo la sua ombra sudata marrone scuro nel mar rone chiaro dello scatolone di carta igienica, Leeza dice: «Datti una calmata». Dice: «Cosa vuoi dimostrare?». Che sono uno stronzo insensibile. Che davvero non me ne frega niente. Cos'è celle Gesù NON farebbe? Leeza, Leeza con le sue tre ore di libera uscita, si aggrappa allo scatolone di carta igienica e tossisce, colpi secchi, e con le mani sento i suoi addominali farsi di marmo a spasmi, gonfiarsi sotto le mie dita. I muscoli del suo pavimento pelvico, i muscoli pubococcigei, i cosiddetti muscoli PC, si contraggono, e la morsa che mi risucchia l'uccello è pazzesca. Vedi anche: Punto di Gràfenberg. Vedi anche: Punto della Dea. Vedi anche: Punto sacro del Tantra. Vedi anche: Perla nera taoista. Leeza appoggia i palmi aperti delle mani sul muro e si spinge contro di me. Tutti questi nomi per un unico punto, tutti questi simboli per la cosa vera. La Federazione dei Centri per la Salute Femministi lo chiama spugna uretrale. L'anatomista olandese del diciassettesimo secolo Regnier de Graaf chiamava questa stessa massa di tessuto erettile, nervi e ghiandole, "prostata femminile". Tutti questi nomi per quei cinque centimetri di uretra che si senta no sulla parete davanti della vagina. La parete anteriore della vagina. Quella che alcuni chiamano "collo della vescica". E sempre lo stesso spazio a forma di fagiolo a cui tutti vorrebbero dare un nome. Su cui tutti vorrebbero piantare la loro bandiera. Il loro simbolo. Per impedirmi di venire, immagino le lezioni di anatomia del primo anno, immagino di dissezionare i due lembi del clitoride, le crura, ciascuno lungo più o meno quanto un dito indice. Immagino di dissezionare i corpi cavernosi, i due cilindri di tessuto erettile del pene. Recidevamo le ovaie. Asportavamo i testicoli. Impari a recidere tutti i nervi e a metterli da parte. I cadaveri che puzzano di formalina, di formaldeide. L'odore delle macchine nuove. Con queste immagini di cadaveri in testa puoi stantuffare per ore senza arrivare al capolinea. Puoi passare una vita intera senza sentire altro che pelle. E questa la cosa magica delle fanciulle sessodipendenti. Quando hai una dipendenza, puoi vivere senza sentire nulla, se non gli effetti dell'alcol, delle droghe o della fame. Eppure, se paragoni queste sensazioni alle altre, la rabbia, la paura, l'angoscia, la disperazione e la depressione, be'... una dipendenza non ti sembra più tanto brutta. Sembra un scelta più che praticabile. Lunedì, dopo il lavoro me ne resto a casa e frugo tra i vecchi nastri delle sedute di terapia di mia mamma. Duemila anni di donne su un unico scaffale. C'è la voce di mia madre, decisa e profonda come quando io ero un marmocchio. Il bordello del subconscio. Le favole della buonanotte. Immagina di avere un grosso peso addosso, che ti spinge giù la testa e le braccia, che le fa affondare nei cuscini del divano. Il nastro risuona nelle cuffie, ricordati di addormentarti su un asciugamano. C'è il nome Mary Lincoln su una delle sedute registrate. Per carità. Troppo brutta. Vedi anche: Seduta Wallis Simpson Vedi anche: Seduta Martha Ray. Ci sono le tre sorelle Bronte. Non donne vere, ma simboli, i loro nomi come gusci vuoti in cui proiettarsi, da riempire con antichi stereotipi e cliché, carni lattee e abiti con lo sbuffo, scarpe abbottonate e gonne con il guardinfante. Nude, tranne che per il corsetto con le stecche e le retine da chignon lavorate all'uncinetto, eccole qui, Emily, Charlotte e Anne Bronte, distese nude e annoiate su divani imbottiti di crine in un pomeriggio afoso e maleodorante, nel loro salottino. Simboli sessuali. Tu ci metti tutto il resto, gli attrezzi di scena e le posizioni, lo scrittoio a scomparsa, l'organo a pompa. Ti collochi nella scena nei panni di Heathcliff


o del signor Rochester. Metti su il nastro e ti rilassi. Come se davvero potessimo immaginare il passato. Il passato, il futuro, la vita sugli altri pianeti, tutto è così irrimediabilmente un'estensione, una proiezione della vita così come noi la conosciamo. Sono chiuso a chiave in camera mia, Denny va e viene. Come se fosse un puro caso, mi sorprendo a scorrere la lista dei Marshall sull'elenco telefonico. Lei non c'è. La sera, dopo il lavoro, certe volte prendo l'autobus che passa davanti alla St. Anthony. Non la vedo mai, in nessuna delle finestre. Quando l'autobus passa accanto al parcheggio, non riesco a indovinare qual è la sua macchina. E non scendo. Forse le taglierei le gomme, forse le lascerei un bigliettino d'amore, chi lo sa. Denny va e viene, e ogni giorno che passa in casa ci sono sempre meno pietre. E se una persona non la vedi tutti i giorni ti accorgi di come cambia. Io lo guardo da una delle finestre al piano di sopra, Denny va e viene spingendo pietre sempre più grosse in un carrello da supermercato, e ogni giorno Denny, nella sua camicia scozzese, sembra sempre più grosso. Ha il viso abbronzato, il torace e le spalle più larghi, al punto che la camicia scozzese è bella tesa, e non ricade più in tante piccole pieghe flosce. Non che sia diventato un energumeno, però è più grosso. Per essere Denny, è grosso. Guardando Denny dalla finestra, io sono una pietra. Sono un'isola. Dall'alto, gli chiedo se gli serve aiuto. Sul marciapiede Denny si guarda intorno, con una pietra stretta al petto. «Sono quassù» gli dico. «Hai bisogno che ti aiuti?» Denny appoggia la pietra nel carrello e si stringe nelle spalle. Scuote la testa e alza gli occhi verso di me, riparandosi gli occhi con una mano. «Non mi serve aiuto» dice, «però se vuoi puoi aiutarmi.» Pazienza. Io ho bisogno che qualcuno abbia bisogno di me, ecco cosa. Ho bisogno di qualcuno per cui essere indispensabile. Di una persona che si divori tutto il mio tempo libero, il mio ego, la mia attenzione. Qualcuno che dipenda da me. Una dipendenza reciproca. Vedi anche: Paige Marshall. Come una medicina, che può farti bene e male al tempo stesso. Non mangi più. Non dormi più. Mangiarsi la fica di Leeza non vuol dire mangiare per davvero. Se vai a letto con Sarah Bernhardt, non dormi per davvero. La magia della dipendenza sessuale è che non ti senti mai affamato, stanco, o annoiato o solo. Sul tavolo da pranzo, i bigliettini nuovi si accumulano. Gli assegni e gli auguri dei tanti estranei che vogliono credere di essere gli eroi di qualcuno. Convinti che qualcuno abbia bisogno di loro. Una donna mi scrive dicendo che ha dato vita a una catena postale di preghiera per me. Una struttura piramidale dello spirito. Come se si potesse fare comunella contro Dio. ComandarLo a bacchetta. La linea sottile che separa la preghiera dalle molestie. Martedì sera, una voce sulla segreteria telefonica mi chiede il permesso di spostare mia mamma al terzo piano della St. Anthony, quello dove si va a morire. La prima cosa che mi resta impressa è che non è la voce della dottoressa Marshall. Gridando contro la segreteria telefonica rispondo: come no. Bravi, portatela al piano di sopra, quella stronza squilibrata. Datele tutto quello che le serve, ma sappiate che io non sborserò un soldo per le vostre cosiddette "misure estreme". Sondini nasogastrici. Respiratori. Potrei anche reagire in maniera più gentile, ma il tono pacato dell'amministratrice, la calma nella sua voce. Il modo in cui dà per scontato che io sia una brava persona. Dico alla sua pacatissima vocina registrata di non chiamarmi più finché la signora Mancini non sarà schiattata. A meno che non sia a caccia di soldi, preferisco sentirmi disprezzato che compatito. Ascoltando il messaggio non sono arrabbiato. Non sono triste. Ormai sono arrapato e basta. E mercoledì significa Nico. Nel bagno delle donne, con il pugno imbottito del suo osso pubico che mi preme contro il naso, Nico si struscia su di me e , mi imbratta la faccia. Per due ore. Le dita di Nico si allacciano dietro la mia nuca e mi spingono la faccia contro di lei, finché a un certo punto i peli pubici quasi non mi soffocano. Quando infilo la lingua nelle sue piccole labbra, la sto infilando tra le pieghe dell'orecchio della dottoressa Marshall. Respirando dal naso, tendo la lingua verso la salvezza. Giovedì si comincia con Virginia Woolf. Poi viene Anais Nin. Poi resta giusto il tempo di una seduta con Sacajawea, prima che faccia giorno e io debba tornare al lavoro nel 1734. Tra una seduta e l'altra, scrivo il mio passato sul quaderno' Ovvero faccio la mia fase quattro, il mio intrepido e completo inventario morale. Venerdì significa Tanya. E quando venerdì arriva, in casa di mia mamma di pietre non ce ne sono più. Tanya viene a casa mia, e Tanya vuol dire sesso anale. La magia di scopare un culo è che ogni volta il buchino è stretto come quello di una vergine. E Tanya porta i giocattoli. Palline, cunei anali e cazzi di gomma, tutta roba che odora di candeggina, e che lei si porta in giro in una valigetta di pelle nera nascosta nel baule della macchina. Tanya mi lavora l'uccello con una mano e con la bocca, e contemporaneamente mi spinge la prima pallina di un lungo filo carico di palline di gomma rossa lubrificate contro il buchetto. Chiudo gli occhi, cerco di rilassarmi quanto basta. Inspiro. Ed espiro. Penso alla scimmia e alle castagne. Calmo e regolare. A Tanya che sfrega la pallina contro di me dico: «Se io cominciassi a sembrarti disperato tu me lo diresti, vero?». E la prima pallina entra.


«Perché nessuno mi crede» le faccio, «quando dico che a me non frega niente di niente?» E la seconda pallina entra. «Eppure è vero, a me non frega un cazzo di niente e di nessuno» le dico. E un'altra pallina entra. «Non voglio che qualcuno mi faccia male, di nuovo» dico. Qualcos'altro entra dentro di me. Col mio uccello ancora in gola, Tanya impugna il filo che mi penzola dal culo e dà uno strattone. Immaginate una donna che vi strappa le viscere. Vedi anche: Mia madre, che sta morendo. Vedi anche: Dottoressa Paige Marshall. Tanya dà un altro strattone, e il mio uccello esplode, i soldatini bianchi si spiaccicano contro la tappezzeria della stanza, ac canto alla sua faccia. E allora lei tira di nuovo, e il mio uccello spara a vuoto, però continua a sparare. E mentre vengo a vuoto, dico: «Eddai. Cazzo. Stavolta mi hai fatto male». Cos'è che Gesù NON farebbe? Appoggiando le mani contro il muro, con le ginocchia leggermente piegate, dico: «Vacci piano». Dico a Tanya: «Mica devi far partire una tosaerba». E Tanya, in ginocchio ai miei piedi, fissando le palline unte e puzzolenti sul pavimento dice: «Oddio». Tira su il filo di palline rosse, me lo mostra e dice: «Qui dovrebbero essercene dieci». E invece ce ne sono otto, e il resto è solo un filo con un sacco di spazio vuoto. Il culo mi fa un male pazzesco, me lo tasto col dito e controllo se c'è del sangue. Col male che sento in questo istante, è incredibile che non ci sia sangue dappertutto. Stringo i denti e dico: «È stato bello, no?». E Tanya dice: «Prima che torni al carcere devi firmarmi il permesso di uscita». Ripone delicatamente le palline nella valigetta, reggendole per il filo, e dice: «Forse ti conviene fare un salto al pronto soccorso». Vedi anche: Occlusione del colon. Vedi anche: Blocco intestinale. Vedi anche: Crampi, febbre, setticemia, arresto cardiaco. Sono passati cinque giorni dall'ultima volta che mi sono sentito abbastanza affamato da decidere di mangiare. E nemmeno una volta mi sono sentito stanco. O preoccupato, o arrabbiato, o impaurito, o assetato. Forse qui dentro l'aria puzza, non lo so. So solo che è venerdì, e lo so perché qui c'è Tanya. Paige e il suo filo interdentale. Tanya e i suoi giocattoli. Gwen e la sua parola di sicurezza. Queste donne mi tengono appeso a un filo. «No, scherzi a parte» dico a Tanya. Le firmo il permesso nel riquadro vuoto, e dico: «Va tutto bene, sul serio. Non mi pare che dentro sia rimasto niente». E Tanya prende il suo permesso e dice: «Non ci posso credere». La cosa buffa è che anch'io non so bene se ci credo o no.


CAPITOLO 34 Non avendo un'assicurazione né la patente, per far partire la vecchia macchina di mia mamma collegandola a un'altra batteria mi tocca chiamare un taxi. Alla radio spiegano dove c'è traffico, uno scontro tra due macchine sul raccordo, un tir in panne nei pressi dell'aeroporto. Faccio il pieno, cerco un incidente e mi metto in coda. Giusto per sentirmi parte di qualcosa. Seduto in mezzo al traffico, il cuore mi batte regolare. Non sono solo. Intrappolato qui, potrei tranquillamente essere una persona come tante che torna dalla moglie, dai figli, a casa sua. Potrei fingere che la mia vita sia qualcosa di più che non starmene ad aspettare la prossima catastrofe. Potrei fingere di sapere com'è che bisogna funzionare. Un po' come fanno i bambini quando giocano a fare mamma e papà, io potrei giocare al pendolare. Uscito dal lavoro, vado a trovare Denny nel posto in cui ha portato le sue rocce, l'isolato su cui sarebbe dovuto sorgere il complesso residenziale Menningtown, dove Denny, a forza di costruire file di pietre e cemento, ha già tirato su un muro, e gli dico: «Ciao». E Denny dice: «Ehilà». Denny dice: «Tua mamma come sta?». E io gli dico che non lo so e che non me ne frega niente. Con una cazzuola, Denny stende uno strato di cemento sulla fila di pietre più in alto. Con la punta in acciaio della cazzuola smuove il cemento fino a lisciarlo. Con un bastoncino rifinisce i punti di giuntura tra le pietre delle file già completate. Sotto uno dei meli c'è una ragazza, abbastanza vicino da capire che è Cherry Daiquiri, quella del nightclub. Sta seduta su un plaid e tira fuori da un sacchetto di carta dei contenitori bianchi di cibo take-away, aprendoli uno a uno. Denny comincia a conficcare le pietre nel cemento fresco. Gli dico: «Che stai costruendo?». Denny si stringe nelle spalle. Spinge una pietra a fondo nel cemento. Con la cazzuola rimuove il cemento in eccesso. Assembla un'intera generazione di suoi figli per creare qualcosa di più grande. Non è che prima dovrebbe fare un disegno su carta? Gli dico: non ti serve un progetto? Ci vogliono permessi, sopralluoghi. Bisogna pagare le tasse. C'è un regolamento edilizio da rispettare. E Denny dice: «E perché?». Sposta alcune pietre con un piede, trova quella più adatta e la sistema al suo posto. Per dipingere un quadro mica hai bisogno di un permesso, dice. Per scrivere un libro mica devi fare un progetto. Ci sono libri che possono fare molti più danni di quelli che potrebbe fare lui. Una poesia non ha bisogno di sopralluoghi. Esiste una cosa chiamata libertà d'espressione. Denny dice: «Per fare un bambino non serve un permesso. Perché mai uno dovrebbe chiederlo per costruire una casa?». E io gli dico: «E se poi costruisci una casa pericolosa, oppure brutta?». E Denny dice: «Be', e se un figlio ti viene su pericoloso, oppure stronzo?». Gli piazzo un pugno chiuso sotto il naso: «Non stai parlando di me, vero, bello?». Denny si volta a guardare Cherry Daiquiri seduta in mezzo all'erba e dice: «Si chiama Beth». «Non penserai davvero che l'amministrazione comunale si beva i tuoi ragionamenti da Primo Emendamento?» gli dico. E dico: «È meno bella di quello che sembra». Denny si asciuga il viso sudato con un lembo della maglietta. Intravedo due file di addominali, in rilievo come quelli di un'armatura. Dice: «Va' da lei». La vedo benissimo anche da qui. «Da tua mamma, intendo» dice lui. Non mi riconosce più. Non sente la mia mancanza. «Non lo devi fare per lei» dice Denny. «È una cosa che devi completare per te stesso.» Sulle braccia di Denny guizzano le ombre dei muscoli che si flettono. Sulle braccia di Denny ora la stoffa della maglietta irrancidita è tesa. Le sue braccia mingherline sono diventate grosse. Le spalle ricurve sono diventate larghe. Ogni volta che completa una fila, deve sollevare le pietre un po' più in alto. Ogni volta che completa una fila, deve diventare un po' più forte. Denny dice: «Ti va di mangiare cinese con noi?». Dice: «Hai l'aria un po' patita». Gli chiedo se adesso vive con questa Beth. Gli chiedo se lei è incinta o cosa. E sollevando una grossa pietra con tutte e due le mani, Denny si stringe nelle spalle. Solo un mese fa una pietra così non saremmo riusciti a sollevarla nemmeno in due. Dovesse averne bisogno, gli dico, ho fatto ripartire la macchina di mia mamma. «Va' a trovare tua mamma» dice Denny. «E poi torna qui a darmi una mano.» A Colonial Dunsboro lo salutano tutti, gli dico. E Denny dice: «Non raccontarmi balle. Mica sono io quello che ha bisogno di essere consolato».


CAPITOLO 35 Scorrendo veloce i messaggi sulla segreteria di mia mamma, sento di nuovo quella voce pacata, calma e comprensiva, che dice: «Le sue condizioni stanno peggiorando...». Che dice: «Situazione critica...». Che dice: «Sua madre...». Che dice: «Intervenire...». E io continuo a premere il tasto fast-forward. Per stasera, sullo scaffale è rimasta Colleen Moore, chiunque sia. Constance Lloyd, chiunque sia. Judy Garland. Eva Braun. Rimane la seconda scelta, senza ombra di dubbio. La voce sulla segreteria si interrompe e riparte. «...contattato alcune delle cliniche specializzate in trattamenti per la fertilità di cui parla il diario di sua madre...» dice. E Paige Marshall. Riavvolgo. «Salve, sono la dottoressa Marshall» dice. «Avrei bisogno di parlare con Victor Mancini. Ho contattato alcune delle cliniche specializzate in trattamenti per la fertilità di cui parla il diario di sua madre, e a quanto pare esistono tutte quante. Persino i dottori esistono davvero.» Dice: «Il fatto strano è che tutti quanti si sono innervositi, quando gli ho chiesto di Ida Mancini». Dice: «Perciò, a quanto pare la signora Mancini non si è inventata tutto». In sottofondo, una voce dice: «Paige?». Una voce maschile. «Chiedo scusa» dice. «È arrivato mio marito. Perciò niente, se potete dite a Victor Mancini di passare da me alla casa di cura St. Anthony appena possibile.» La voce maschile dice: «Paige? Che stai facendo? Perché parli a bassa vo...». E la linea cade.


CAPITOLO 36 E quindi sabato vado a trovare mia mamma. Nell'ingresso della St. Anthony, parlando con la ragazza della reception, le dico che sono Victor Mancini e che sono venuto a trovare mia mamma, Ida Mancini. Dico: «A meno che... a meno che non sia già morta». La ragazza della reception mi fa esattamente quella faccia, quella con il mento tirato in dentro di quando hai davanti una persona che ti fa tanta, tanta pena. Quando chini la testa in avanti e la guardi dal basso verso l'alto. Con aria sottomessa. E mentre la guardi dal basso verso l'alto inarchi le sopracciglia fin quasi all'attaccatura dei capelli. Con quell'aria di suprema compassione. Le labbra arricciate in un una sorta di broncio. Ecco che faccia mi fa, la ragazza della reception. E dice: «Ma certo che è ancora tra noi». E io dico: «Non fraintendermi, ma per certi versi vorrei che non fosse così». Per un attimo la sua faccia si dimentica della pena che prova nei miei confronti, e le labbra si ritraggono sfoderando i denti. La tecnica più infallibile perché una donna la smetta di fissarti negli occhi è passarti la lingua sulle labbra. Se una non distoglie lo sguardo, è fatta. Garantito. Torni pure indietro, mi dice. La signora Mancini è ancora al primo piano. Signorina Mancini, le dico. Mia mamma non è sposata, a meno che lei non voglia tirare in mezzo quella storiaccia di Edipo. Le chiedo se c'è Paige Marshall. «Certo che c'è» dice la ragazza della reception, che nel frattempo ha ruotato leggermente il viso e mi fissa con la coda dell'occhio. Lo sguardo del sospetto. Appena supero le porte di sicurezza, comincia la lenta processione di vecchie pazze, le tante Irma, Laverne, Violet e Olive che mi vengono incontro con i loro deambulatori e le loro sedie a rotelle. Le spogliarelliste croniche. Le nonne buttate via e gli scoiattoli con le tasche piene di cibo masticato, quelle che hanno dimenticato come si fa a deglutire, quelle coi polmoni pieni di cibo e d'acqua. Mi sorridono, tutte quante. Sono raggianti. Hanno sempre ai polsi quei braccialetti che fanno chiudere le porte, eppure sembrano molto più in forma di me. In sala ricreazione, profumo di rose, limone, e pino. Il piccolo e chiassoso mondo che mendica attenzione dal televisore. Le tessere di puzzle sparpagliate. Nessuno ha ancora spostato mia mamma al terzo piano, il piano della morte, e nella sua stanza c'è Paige Marshall, seduta su una sedia reclinabile foderata di tweed, che legge la sua cartelletta con gli occhiali sul naso, e che quando mi vede dice: «Ma come ti sei ridotto?». Dice: «Forse tua madre non è l'unica ad aver bisogno di un sondino nasogastrico». Le dico che ho trovato il suo messaggio. Mia mamma è... A letto. Addormentata, con la pancia che è un monticello rigonfio sotto le coperte. Delle braccia e delle mani sono rimaste solo le ossa. Con la testa affondata nel cuscino, tiene gli occhi chiusi, li stringe forte. Per un attimo stringe i denti, i lati delle mandibole si gonfiano, e tutto il viso si contrae per deglutire. Apre gli occhi a fatica e tende le dita grigioverdi verso di me, con un movimento lento, subacqueo, una bracciata da nuotatore in moviola, tremolante come la luce sul fondo della piscina, quando sei piccolo e dormi nei motel lungo l'autostrada. Il braccialetto di plastica le ciondola intorno al polso, e lei dice: «Fred». Poi deglutisce di nuovo, e il viso le si accartoccia per lo sforzo, e dice: «Fred Hastings». Ruota gli occhi di lato e sorride a Paige. «Tammy» dice. «Fred e Tammy Hastings.» Il suo ex avvocato difensore e la moglie. Ho lasciato gli appunti su come essere Fred Hastings a casa. Non ricordo se guido una Ford o una Dodge. Quanti figli ho. Di che colore abbiamo poi deciso di dipingere la sala da pranzo. Non ricordo nemmeno un dettaglio della vita che dovrei vivere. Mi avvicino a Paige, seduta sulla sedia reclinabile, le appoggio una mano sulla spalla, sul camice da laboratorio, e dico: «Come si sente, signora Mancini?». Lei solleva la tremenda mano grigioverde e la posiziona in piano, la inclina da un lato, poi dall'altro, ripetutamente, il gesto che nel linguaggio internazionale significa così così. Sorride con gli occhi chiusi, e dice: «Speravo che ci fosse Victor». Paige si scrolla via la mia mano dalla spalla. E io dico: «Pensavo preferisse vedere me». Dico: «Victor non sta simpatico a nessuno». Mia madre tende un dito verso Paige e dice: «Lei lo ama?» Paige mi guarda. «Intendo Fred» dice mia mamma, «lei lo ama?» Paige comincia a far scattare il pulsante della biro, velocissimo. Senza guardarmi, guardando la cartelletta che ha sul grembo, dice: «Sì». E mia mamma sorride. Punta il dito verso di me e dice: «E tu la ami?» Come un porcospino ama il suo aculeo fetente, se di amore si può parlare. O forse come un delfino ama le pareti lisce della sua vasca. E dico: «Credo di sì». Mia mamma tira in dentro il mento spingendolo da una parte, sgrana gli occhi e dice: «Fred». E io dico: «E va bene, sì». Dico: «Sì, la amo». Mia mamma appoggia le tremende dita grigioverdi sul monticello rigonfio della pancia e dice: «Siete fortunati, voi due.» Chiude gli occhi e dice: «Victor non è capace di amare». Dice: «La cosa che più mi spaventa è che quando morirò io, al mondo non ci sarà più nessuno che gli vuole bene». Questi cazzo di vecchi. Questi ruderi umani. L'amore è una stronzata. Le emozioni sono una stronzata. Io ho un cuore di pietra. Sono uno stronzo. Sono un pezzo di merda egoista, e ne vado fiero.


Cos'è che Gesù NON farebbe? Se la scelta è fra non essere amati ed essere vulnerabili, sensibili ed emotivi, allora l'amore potete anche tenervelo. Se quella cosa che ho detto un attimo fa su Paige è stata una balla o un giuramento, non ne ho idea. È che sono stato preso alla sprovvista. L'ennesima montagna di puttanate da femmine. L'anima non esiste, e giuro quant'è vero Iddio che col cazzo che mi metto a piangere. Mia mamma tiene gli occhi chiusi, il suo petto si alza e s'abbassa con movimenti ciclici, lunghi e profondi. Inspira. Espira. Immagina di avere un grosso peso addosso, che ti spinge giù la testa e le braccia. E si addormenta. Paige si alza e con un cenno della testa mi fa segno di andare verso la porta. La seguo nel corridoio. Si guarda intorno e dice: «Vuoi che andiamo nella cappella?». Non sono proprio in vena. «A parlare» dice lei. Le dico: Ok. Camminando al suo fianco dico: «Grazie per prima. Per aver mentito, intendo». E lei: «Chi te lo dice che ho mentito?». Sta dicendo che mi ama? Impossibile. «E va bene» dice. «Forse ho calcato leggermente la mano. Diciamo che mi piaci. Un po'.» Inspira. Espira. Nella cappella, Paige si chiude la porta alle spalle e dice: «Senti». E mi prende la mano e se l'appoggia sulla pancia piatta. «NE sono misurata la temperatura. Il momento buono è passato.» Io, che nel frattempo sento le viscere riempirsi, bloccate non si sa bene da cosa, le dico: «Ah, sì?». Le dico: «Be', mi sa che forse t'ho battuta sul tempo». Tanya e i suoi giocattolini di gomma da culo. Paige si volta e si allontana, dandomi le spalle dice: «Non so come dirtelo». Il sole che filtra dalla vetrata, un muro di sfumature d'oro. La croce lucida, di legno chiaro. Simboli. L'altare, la comunione. Qui dentro c'è tutto. Paige si mette a sedere su uno dei banchi e fa un sospiro. Con una mano tiene ferma la sua cartelletta, con l'altra solleva alcuni fogli graffettati, e sotto c'è qualcosa di rosso. Il diario di mia mamma. Me lo porge e dice: «Quello che sto per dirti puoi verificarlo da te. Anzi, ti consiglio di farlo. Per trovare un po' di pace». Prendo il diario, e il diario è ancora pieno di roba incomprensibile. Incomprensibile perché scritta in italiano, è chiaro. E Paige dice: «Di buono c'è soltanto che niente dimostra che il materiale genetico usato fosse quello del personaggio storico realmente esistito». Tutto il resto corrisponde a verità, dice. Le date, le cliniche, gli specialisti. Persino le persone di chiesa con cui ha parlato insistono sul fatto che il materiale rubato, il tessuto con cui è stata realizzata la coltura di cellule, fosse l'unico prepuzio autentico in circolazione. Dice che la cosa a Roma aveva provocato un vero terremoto. «L'altra cosa buona» dice, «è che non ho detto a nessuno chi sei.» Gesù Cristo, le dico. «No, intendo chi sei adesso» dice. E io le dico: «No, la mia era una bestemmia». Come mi sento? Come se avessi appena scoperto di avere un cancro. Le dico: «E quindi?». Paige scrolla le spalle. «E quindi niente, in realtà» dice. Con un Cenno della testa indica il diario che tengo in mano e dice: «Io ti consiglierei di bruciarlo, se non vuoi rovinarti la vita.» Le chiedo: questo cosa comporterà per noi, per me e per lei? «Non dovremmo più vederci» dice lei, «se è a. questo che ti riferisci.» Le dico: davvero non crederà a tutte queste cazzate, vero? E Paige dice: «Io ti ho visto, con gli altri pazienti. Ho visto come si sentono in pace dopo aver parlato con te.» Seduta lì, si sporge in avanti con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento sulle mani, e dice: «È che non posso correre il rischio che tua madre abbia ragione. E francamente impossibile che tutti gli italiani con cui ho parlato siano pazzi. Insomma, e se davvero tu sei lo splendido e divino figlio di Dio?». La sacra e perfetta incarnazione mortale di Dio. Dal mio blocco intestinale parte un rutto, e in bocca sento un sapore acido. "Nausee da gravidanza" non è l'espressione esatta, ma è la prima che viene in mente. «Fammi capire: mi stai dicendo che vai a letto esclusivamente con i mortali?» le dico. E Paige, china in avanti, mi fa quella faccia impietosita, quella che alla ragazza della reception viene tanto bene, con il mento tirato in dentro e le sopracciglia inarcate fino all'attaccatura dei capelli, e dice: «Scusami se mi sono intromessa. Prometto di non dirlo a nessuno». E con mia mamma come la mettiamo? Paige sospira e si stringe nelle spalle. «Semplice. Lei delira. Nessuno le crederà mai.» Non hai capito, intendo se sta per morire. «È probabile» dice Paige. « A meno che non succeda un miracolo.»


CAPITOLO 37 Ursula si ferma per riprendere fiato e mi guarda. Scrolla le dita di una mano e si stringe il polso con l'altra, e dice: «Se tu fossi una zangola, il burro sarebbe stato pronto mezz'ora fa». Scusa, le faccio. Lei si sputa nella mano, mi impugna l'uccello e dice: «Non ti riconosco». Ormai non fingo nemmeno più di capire come funziona la mia testa. E questa, ve lo garantisco, è solo una delle tante giornate che sembrano non passare mai, qui nel 1734, perciò ce ne stiamo spaparanzati su un mucchio di balle di fieno nella stalla. Io con le braccia incrociate dietro la testa, Ursula rannicchiata contro di me. Stiamo attenti a muoverci il meno possibile, altrimenti il fieno ci punge attraverso i vestiti. Guardiamo tutti e due il soffitto, le travi di legno e il rivestimento intrecciato del tetto di paglia. Ci sono dei ragni che penzolano appesi alle loro ragnatele. Ursula ricomincia a sbatacchiarmelo e dice: «Lo hai visto Denny, in tv?». Quando? «Ieri sera.» Che ci faceva? Ursula scuote la testa. «Sta costruendo qualcosa. Qualcuno si è lamentato. Pensano che stia tirando su una specie di chiesa, ma lui non vuole dire che tipo di chiesa.» È patetico come non siamo capaci di convivere con ciò che non comprendiamo. Come abbiamo bisogno di etichettare e spiegare e dissezionare tutto quanto. Persino le cose inspiegabili per definizione. Persino Dio. "Disinnescare" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in niente. Non è una chiesa, le dico. Mi sposto il fazzoletto da collo su una spalla e mi sfilo il davanti della camicia dalle braghe. E Ursula dice: «Alla tv hanno detto così». Con i polpastrelli di una mano mi tasto la pancia intorno all'ombelico, ma la palpazione serve a ben poco. Do qualche colpetto per sentire se ci sono rumori insoliti che potrebbero indicare la presenza di una massa solida, ma anche questo serve a ben poco. Per i medici, il punto che separa la cacca imprigionata dentro le viscere dall'esterno si chiama rima anale, e quando infili un oggetto oltre quel punto, puoi anche scordarti che esca da solo, senza un intervento esterno. Nel gergo del pronto soccorso, quel genere d'intervento esterno si chiama estrazione di corpo estraneo dal retto. Chiedo a Ursula se può appoggiarmi l'orecchio sulla pancia e dirmi se sente qualcosa. «A Denny è sempre mancata qualche rotella» dice lei, e chinandosi mi appoggia l'orecchio tiepido sull'ombelico. Sul buco della pancia. Stilla cicatrice ombelicale, come la chiamano i medici. Il tipico paziente che presenta corpi estranei nel retto è maschio, tra i quaranta e i cinquant'anni. Il corpo estraneo è solitamente, per dirla con linguaggio medico, autointrodotto E Ursula dice: «Cos'è che dovrei sentire?». Borborigmi intestinali inequivocabili. «Gorgoglii, brontolii, qualsiasi cosa» le dico. Qualsiasi cosa indichi che nelle mie viscere prima o poi qualcosa si muoverà, che la materia fecale non si sta accumulando contro qualcosa che ne ostruisce il passaggio. A livello clinico, i casi di corpi estranei nel retto ogni anno aumentano vertiginosamente. Si conoscono casi in cui i corpi estranei sono rimasti nel retto per anni, senza perforare l'intestino né causare significative complicazioni. Anche se Ursula sentisse qualcosa cambierebbe poco. Qui ci vogliono una radiografia dell'addome e una rettosigmoidoscopia. Immaginatevi di essere sul lettino da visita, con le ginocchia sollevate nella cosiddetta posizione genupettorale. Con le chiappe divaricate e tenute aperte col nastro adesivo. Con uno che vi comprime l'addome e un altro che vi infila due pinze ad anelli vestite e tenta di manipolare ed estrarre il vostro corpo estraneo per via transanale. Naturalmente, prima vi farebbero un'anestesia locale. E naturalmente intorno non ci sarebbe nessuno a ridere o scattare fotografie, e tuttavia. Tuttavia. È di me che sto parlando. Visualizzate l'immagine del sigmoidoscopio su uno schermo, la luce forte che si fa strada nel tunnel di mucose stretto, umido e rosa, che avanza in quelle pieghe buie e contorte finché di colpo, eccolo lì. Sullo schermo. Sotto gli occhi di tutti. Il criceto morto. Vedi anche: La testa della Barbie. Vedi anche: La pallina di gomma rossa da culo. Ursula ha smesso di fare su e giù con la mano, e dice: «Sento il cuore che batte forte. Cos'è, hai paura?». No no. Macché, le dico. Sto da Dio. «Non sei in giornata» dice lei, e sul mio addome il suo respiro è caldo. Dice: «Mi sta venendo il tunnel carpale». Le dico: «Vorrai dire la sindrome del tunnel carpale. E comunque sappi che non è possibile. La inventeranno soltanto dopo la rivoluzione industriale». Per impedire che il corpo estraneo risalga lungo il colon, è possibile praticare una trazione con il catetere di Foley, ovvero inserendo nel colon, al di sopra del corpo estraneo, un pallonci no. Che poi viene gonfiato. Il più delle volte, al di sopra del corpo estraneo si forma un vuoto; di solito succede con le bottiglie di vino o di birra. Con l'orecchio ancora appoggiato sulla mia pancia, Ursula dice: «Sai già chi è il padre?». E io le dico: simpatica. In caso di bottiglie introdotte dall'estremità aperta, occorre inserire un catetere di Robinson intorno alla bottiglia e far affluire aria, in modo che il vuoto si riempia. Con le bottiglie introdotte dall'estremità chiusa, inserire un divaricatore nell'apertura della bottiglia, quindi riempire la bottiglia di gesso. Una volta che il gesso si è solidificato intorno al divaricatore, rimuovere la bottiglia


esercitando una lieve trazione. Un'altra soluzione sono i clisteri, anche se sono meno affidabili. Mentre me ne sto qui nella stalla con Ursula, si sente che fuori comincia a piovere. Pioggia che batte sul tetto di paglia, acqua che scorre lungo le strade. La luce fuori dalla finestra diminuisce, si fa grigia scura, e si sente il rumore di qualcuno che corre al riparo calpestando le pozzanghere. Le galline bianche e nere deformi si intrufolano nella stalla attraverso un buco nella parete di legno e gonfiano le piume per scrollarsi di dosso l'acqua. E io dico: «Cos'altro hanno detto di Denny alla tv?». Di Denny e Beth. Dico: «Secondo te Gesù ha capito subito di essere Gesù? Oppure qualcuno gliel'ha detto, che so, la mamma, qualcun altro, e lui è diventato Gesù poco alla volta?». Dalla mia pancia sale un brontolio, ma non da dentro. Per un attimo Ursula espira, poi ricomincia a russare. La stretta della sua mano si allenta. E si allenta anche il mio uccello. I capelli di Ursula mi scendono sulle gambe. Ho il suo orecchio caldo e morbido affondato nella pancia. Il fieno mi punge la schiena attraverso la camicia. Le galline grattano le zampe sulla polvere e sul fieno. I ragni tessono la loro tela.


CAPITOLO 38 Per costruire uno di quei coni per la pulizia delle orecchie, basta prendere un semplice foglio di carta e arrotolarlo stretto stretto. Non sarà un miracolo, ma bisogna pur partire dalle cose che si conoscono. Anche questi sono rimasugli di nozioni imparate a medicina, e adesso li insegno alle scolaresche che vengono in gita a Colonial Dunsboro. Chissà, forse per arrivare ai miracoli veri bisogna fare un po' di gavetta. Denny viene da me dopo una giornata passata ad ammucchiare pietre all'aperto sotto la pioggia, dice che ha un mal d'orecchie così forte che non ci sente. Lo faccio sedere nella cucina di mia mamma. Beth è in piedi accanto alla porta che dà sul retro, con il sedere appoggiato contro un mobile. Denny si siede con la sedia girata di lato e un braccio sul tavolo. E io gli dico di stare fermo. Arrotolando il foglio di carta dico: «Supponiamo che per fare il figlio di Dio Gesù Cristo si sia dovuto allenare». Dico a Beth di spegnere le luci della cucina, e infilo il cono di carta nel buchetto scuro dell'orecchio di Denny. I capelli gli sono ricresciuti un po', ma rispetto alla lunghezza media dei capelli di un essere umano direi che il rischio che prendano fuoco è davvero inesistente. Gli spingo il cono nell'orecchio, non troppo a fondo, ma abbastanza perché quando mollo la presa resti in piedi. Per concentrarmi, mi sforzo di non pensare all'orecchio di Paige Marshall. «E se invece Gesù avesse passato la giovinezza a commettere errori?» Dico: «Prima di azzeccare il suo primo miracolo?». Denny seduto sulla sedia, al buio, il cono di carta bianco che gli esce dall'orecchio. «Com'è che nessun libro dice che i primi tentativi di Gesù sono andati a vuoto?» dico. «O che non è riuscito a imbroccare un miracolo decente prima dei trent'anni?» Beth protende il bacino verso di me e io accendo un fiammifero sulla cerniera dei suoi jeans, dopodiché mi sposto attraverso la cucina portando la minuscola fiamma verso la testa di Denny. Accendo col fiammifero l'estremità del cono di carta. Sfregando il fiammifero, la cucina si è riempita di odore di zolfo. Dalla punta del cono in fiamme si alzano spirali di fumo, e Denny dice: «Vero che non mi fai male?». La fiamma avanza lentamente verso la sua testa. L'estremità bruciata del cono si arriccia e si lacera. Frammenti di carta neri con bordi arancione incandescente fluttuano verso il soffitto. Alcuni si piegano e ricadono a terra. E io dico: «Se Gesù all'inizio si fosse limitato alle piccole gentilezze di tutti i giorni, come aiutare le vecchiette ad attraversare la strada o dire alla gente che ha lasciato accese le luci della macchina?». Dico: «Vabbe', questo magari no, ma avete capito cosa intendo». Guardo la fiamma che danzando si avvicina all'orecchio di Denny, e dico: «Se Gesù ci avesse messo anni per mettere a punto la faccenda dei pani e dei pesci? Insomma, quello che ha fatto con Lazzaro avrà pur richiesto un minimo di preparazione, no?». E Denny storce gli occhi per tentare di capire a che punto è la fiamma, e dice: «Beth, mi sta per bruciare?». E Beth mi guarda e dice: «Victor?». E io dico: «Tranquilli». Spingendosi ancor di più contro il mobile, Beth volta la testa di scatto per non vedere, e dice: «Sembra una tecnica di tortura». «Magari» dico, «magari nemmeno Gesù aveva fiducia in se stesso, all'inizio.» E mi chino sulla testa di Denny, e spengo la fiamma con un soffio. Tenendolo fermo con una mano sotto la mandibola, gli sfilo dall'orecchio quel che resta del cono di carta. Quando glielo mostro, la carta è piena del cerume vischioso e scuro risucchiato dalla fiamma. Beth riaccende le luci. Denny le fa vedere il conetto bruciato, Beth lo annusa e dice: «Puzza». Io dico: «Forse quello dei miracoli è una specie di talento, e bisogna cominciare con cose piccole». Denny si appoggia una mano sull'orecchio ripulito, poi la toglie. Ripete il gesto una seconda volta e dice: «Molto meglio». «Non sto dicendo che Gesù faceva i giochetti con le carte» dico, «ma non fare del male alle persone sarebbe già un buon inizio.» Beth si avvicina e si china a guardare dentro l'orecchio di Denny tenendosi i capelli sollevati con una mano. Strizza gli occhi e muove la testa per osservare l'orecchio da diverse angolazioni. Mentre arrotolo un altro foglio dico: «L'altro giorno ti hanno visto in tv». Dico: «Scusami». Arrotolando il cono di carta sempre più stretto dico: « È stata colpa mia». Beth si tira su e mi guarda. Si butta i capelli all'indietro. Denny si infila un dito nell'orecchio pulito e ce lo rigira dentro per bene, poi se lo annusa. E con il cono di carta in mano io dico: «D'ora in poi voglio cercare di essere una persona migliore». Fingere di soffocare nei ristoranti, ingannare la gente. Non rni va più. Scopare a destra e a manca, il sesso fatto tanto per fare. Basta con questa roba. Dico: «Sono stato io a chiamare il comune lamentandomi di te. E poi ho chiamato quelli della tv e gli ho raccontato un po' di cose». Mi fa male la pancia, ma non so dire se per il senso di colpa o per il blocco intestinale. In entrambi i casi, è perché sono pieno di merda. Per un attimo diventa più facile guardare la finestra buia sopra il lavandino, la notte al di là del veto. Riflesso nella finestra ci sono io, magro e sciupato come mia mamma. Il nuovo, virtuoso, forse addirittura divino San Me Stesso. C'è Beth che mi guarda con le braccia incrociate. C'è Denny seduto accanto al tavolo della cucina, con un dito infilato nell'orecchio sporco. Denny che guarda cosa gli è rimasto sotto l'unghia. «Volevo che aveste bisogno del mio aiuto» dico. «Volevo che mi chiedeste di aiutarvi.»


Beth e Denny mi fissano in silenzio, e io guardo il riflesso di noi tre nella finestra. «Ma certo» dice Denny. «Certo che ho bisogno del tuo aiuto.» A Beth dice: «Cos'è questa storia della tv?». E Beth fa spallucce e dice: « È stato martedì, mi pare». Dice: «No, aspetta. Oggi che giorno è?». E io dico: «Ma allora hai davvero bisogno di me?». E, seduto sulla sedia, con un cenno della testa Denny indica il cono di carta che ho tra le mani. Gira verso di me l'orecchio sporco e dice: «Dai, rifallo. Quel coso è fichissimo. Puliscimi l'altro orecchio».


CAPITOLO 39 È buio e sta cominciando a piovere quando arrivo alla chiesa, e Nico è lì che mi aspetta nel parcheggio. Sta cercando di infilarsi il giaccone, e per un attimo una manica vuota penzola a mezz'aria, poi lei ci fa scivolare dentro il braccio. Nico infila le dita nel risvolto dell'altra manica e tira fuori qualcosa di bianco e di pizzo. «Tienimele, per favore» dice, allungandomi una tiepida manciata di pizzo ed elastico. E il suo reggiseno. «Solo un paio d'ore» dice. «Non ho tasche.» Sorride con un angolo della bocca e con i denti superiori si mordicchia delicatamente il labbro. I suoi occhi scintillano di pioggia e lampioni. Non prendo quello che mi porge, e le dico che non posso. Che non posso più. Nico scrolla le spalle e si infila il reggiseno nella manica del giaccone. I sessodipendenti sono già tutti nella Stanza 234. I corridoi sono vuoti, linoleum lucidato a cera, varie bacheche lungo i muri. Comunicazioni della parrocchia locale e disegni di bambini ovunque. Dipinti a dita di Gesù e degli apostoli. Di Gesù e Maria Maddalena. Mi incammino verso la Stanza 234, un passo avanti a Nico, e lei di colpo mi afferra da dietro per la cintura e mi sbatte contro una bacheca. Col mal di pancia che ho, con il gonfiore e le fitte, quando Nico mi tira per la cintura il dolore mi spinge un rigurgito acido su per la gola. Sono spalle al muro, lei infila le gambe tra le mie e mi butta le braccia intorno al collo. In mezzo a noi, due tette morbide e calde schiacciate contro il mio petto. La bocca di Nico si incastra nella mia, e tutti e due respiriamo il suo profumo. C'è più lingua di Nico nella mia bocca che nella sua. Struscia le gambe, ma non contro la mia erezione, contro il mio intestino occluso. I crampi possono voler dire cancro al colon retto. Appendicite acuta. Iperparatiroidismo. Insufficienza surrenale. Vedi anche: Blocco Intestinale. Vedi anche: Corpi estranei nel retto. li fumo. Mangiarsi le unghie. Una volta il sesso era la cura di tutti i miei mali, ma con Nico che annaspa su di me proprio non ci riesco. Níco dice: «E va bene, cerchiamo un altro posto». Fa un passo indietro, e io mi piego in due per il dolore e mi lancio barcollando verso la Stanza 234, con Nico che mi sibila alle spalle. «No» sibila. Nella Stanza 234, il coordinatore del gruppo sta dicendo: «Stasera lavoreremo sulla fase quattro». «Lì no» continua a ripetere Nico, finché ci ritroviamo di fronte alla porta aperta, con una folla di persone che ci fissano sedute intorno a un grosso tavolo basso incrostato di tempera e pongo secco. Le sedie di plastica concave sono talmente basse che la gente ha le ginocchia all'altezza del petto. Queste persone ci guardano. Questi uomini e queste donne. Leggende metropolitane. Questi sessodipendenti. Il coordinatore dice: «C'è qualcuno che sta ancora lavorando sulla sua fase quattro?». Nico mi viene addosso e mi bisbiglia nell'orecchio: «Se entri lì dentro, con quel branco di sfigati» dice Nico, «giuro che con te non ci vengo mai più». Vedi anche: Leeza. Vedi anche: Tanya. E allora io entro, giro intorno al tavolo e mi metto a sedere su una sedia di plastica. A tutta quella gente che mi fissa, dico: «Salve. Io sono Victor». Guardando Nico dritto negli occhi, dico: «Mi chiamo Victor Mancini, e sono un sessodipendente». E spiego che sono fermo alla fase quattro da un sacco di tempo. La sensazione, più che di una fine, è quella di un ennesimo inizio. E quella che trabocca dagli occhi di Nico, sulla porta, non è spremuta d'occhi, ma lacrime vere, rotolanti lacrimoni neri di mascara che lei si asciuga con la mano, imbrattandosi la faccia. Nico dice, o meglio, urla: «Be', io no!». E dalla manica del giaccone le cade il reggiseno. Indicandola con un cenno della testa dico: «E lei è Nico». E Nico dice: «Andate affanculo, tutti quanti». Raccoglie il reggiseno e schizza via. Solo a quel punto tutti quanti dicono: Ciao, Victor. E il coordinatore dice: «Bene». Dice: «Come stavo dicendo, il punto migliore da cui partire con l'introspezione è il momento in cui avete perso la verginità...».


CAPITOLO 40 In un luogo imprecisato nel cielo a nord/nordest di Los Angeles, l'uccello cominciava a bruciarmi, e così ho chiesto a Tracy se poteva fermarsi per un minuto. Questo succedeva più o meno una vita fa. Con una grossa ragnatela di saliva sospesa tra il mio cazzo e il suo labbro inferiore, con il viso accaldato e rosso per il fiatone, col mio uccello arrossato ancora stretto in mano, Tracy si siede sui talloni e mi dice che il Kamasutra spiega come farsi diventare le labbra rossissime cospargendole di sudore di testicoli di cavallo bianco. «Giuro» dice. Adesso sento un gusto strano in bocca, le guardo le labbra, e le sue labbra e il mio uccello sono dello stesso identico viola acceso. Le dico: «Tu però non lo fai, vero?». La maniglia della porta si muove, e tutti e due ci voltiamo di scatto per accertarci che sia chiusa a chiave. Questa è la famigerata prima volta, ovvero il punto al quale chi ha una dipendenza tenta costantemente di tornare. La famosa prima volta a cui nessuna delle volte successive è neppure lontanamente paragonabile. La cosa peggiore è quando ad aprire la porta è un bambino. Meno peggio è quando a spalancare la porta è un uomo, che non capisce. Quando certe cose le fai ancora da solo, se ad aprire la porta è un bambino quello che devi fare, velocissimo, è incrociare le gambe. Far finta che sia stato solo un incidente. Un adulto magari sbatte la porta, magari ti urla: «La prossima volta chiuditi a chiave, coglione», ma sta di fatto che l'unico ad arrossire è lui. Poi, dice Tracy, un'altra cosa tremenda è se sei una di quelle donne che il Kamasutra chiama donne elefante. Specie se vai con un cosiddetto uomo lepre. I nomi degli animali alludono alle dimensioni dei genitali. Poi Tracy dice: «No, ma che hai capito?». Se la porta la apre la persona sbagliata, per una settimana si ritroverà ad avere incubi su di te. La miglior difesa sta nel fatto che chiunque apra la porta e ti becchi seduto lì, a meno che non sia proprio in cerca di sesso, penserà sempre che a sbagliare è stato lui. Che la colpa è sua. A me capitava sempre. Nei bagni degli aerei, dei treni o degli autobus Greyhound, oppure in quei gabinetti minuscoli e/o misti dove c'è solo la tazza. Aprivo la porta e mi beccavo qualcuno seduto sul cesso, una bionda tutta occhi azzurri e denti bianchi con un anellino all'ombelico e i tacchi a spillo, il tanga calato alle ginocchia e il resto dei vestiti e il reggiseno appoggiati sul minuscolo ripiano accanto al lavandino. E ogni volta che mi succedeva pensavo: ma perché la gente non chiude la porta a chiave? Come se queste cose succedessero per caso. Nel circuito, niente succede per caso. Magari sei sul treno, stai tornando a casa dal lavoro, apri la porta del bagno e ti becchi una brunetta, coi capelli raccolti e gli orecchini lunghi che le ciondolano sul collo liscio e bianco, seduta lì, con metà dei vestiti sul pavimento. La camicetta aperta e sotto niente, solo le mani raccolte a coppa sotto i seni, le unghie, le labbra e i capezzoli della stessa sfumatura a metà strada tra il rosso e il marroncino. Le gambe bianche e lisce come il collo, lisce come la carrozzeria di una macchina da guidare a trecento all'ora, i capelli e i peli della stessa tonalità di bruno dappertutto, e lei che si lecca le labbra. Tu richiudi la porta e dici: «Scusa». E da dentro senti lei che dice: «E di cosa?». E che poi non chiude la porta a chiave. La piccola scritta è ancora lì che dice: Libero. È andata così: una volta, quando frequentavo ancora medicina alla University of South California, mi capitava spesso dì fare avanti e indietro in aereo dalla East Coast a Los Angeles. Durante le vacanze accademiche. Per sei volte ho aperto la porta beccandomi la stessa rossa patita dello yoga, nuda dalla vita in giù, seduta a gambe incrociate sulla tazza, che si limava le unghie con la striscia ruvida di una scatola di fiammiferi, come se stesse cercando di darsi fuoco, e con indosso soltanto una camicetta di seta legata sul seno, e per sei volte quella prima piega la testa e si guarda la cosina lentigginosa con intorno il boschetto aranciolavori-in-corso, poi alza gli occhi grigio metallo verso di me, lentamente, e mi dice: «Qui dentro ci sono io» dice, «se non ti dispiace.» E per sei volte io le sbatto la porta in faccia. L'unica cosa che mi viene da dire è: «Ma lo capisci l'inglese?». Per sei volte. Il tutto succede in meno di un minuto. Non c'è tempo per pensare. Ma capita sempre più spesso. Un'altra volta, magari mentre voli a quota di crociera tra Los Angeles e Seattle, capita che apri la porta e trovi un surfista biondo con entrambe le mani abbronzate strette intorno al bestione paonazzo che si ritrova tra le gambe, e allora lui si scosta i capelli stopposi dagli occhi, si indica l'uccello umido di sudore strizzato dentro un preservativo luccicante, te lo punta contro e dice: «Divertiamoci un po'...». Insomma, ogni santa volta che vai in bagno e la scritta dice Libero, dentro c'è qualcuno. Una donna, con le dita infilate fino alla seconda nocca. Un uomo che si trastulla tra il pollice e l'indice i suoi dieci centimetri, carichi come una molla e pronti a sparare fuori tanti bei soldatini bianchi. Uno finisce per chiedersi cosa voglia dire la parola libero. E anche se il bagno è vuoto, senti l'odore della crema spermicida. Gli asciugamani di carta sono sempre finiti. Vedi l'impronta di un piede nudo sullo specchio del bagno, altezza un metro e ottanta, a un pelo dalla cima dello specchio, la piccola impronta arcuata di un piede femminile, i cinque puntini rotondi lasciati dalle dita dei piedi, e pensi: che diavolo è successo, qui dentro? Come quando senti gli annunci in codice, Il bel Danubio blu o l'infermiera Flamingo, e pensi: che sta succedendo? Pensi: cos'è che non ci stanno dicendo? Vedi uno sbaffo di rossetto sulla parete, lungo fin quasi al pavimento, e puoi solo lavorare di fantasia. Vedi le strisciate bianche e


secche dell'ultima volta che qualcuno ha sparato i suoi soldatini bianchi contro la parete di plastica. Su certi voli trovi le pareti ancora umide, lo specchio appannato. La moquette appiccicosa. Lo scarico del lavandino intasato, soffocato da minuscoli peli ricci di tutti i colori. Sul ripiano del bagno, accanto al lavandino, c'è una chiazza perfettamente rotonda di gel, gel contraccettivo e secrezioni, nel punto in cui qualcuno ha appoggiato il suo diaframma. Su certi voli, di chiazze rotonde ce ne sono due o tre, di dimensioni diverse. Succede sulle tratte nazionali dei voli internazionali, voli transoceanici o che passano sopra il Polo. Voli che durano da dieci a sedici ore. Voli diretti, da Los Angeles a Parigi. O da qualsiasi città a Sidney. Al mio volo da Los Angeles numero sette, la rossa patita dello yoga tira su la gonna dal pavimento, esce e mi corre dietro. Allacciandosi la gonna sul sedere, mi segue fino al mio posto, si siede vicino a me e dice: «Se il tuo scopo è quello di ferire i miei sentimenti, sappi che ci stai riuscendo alla grande». Ha questa pettinatura luccicante da soap opera, solo che adesso la camicetta è chiusa sul davanti da un grosso fiocco molle, e da un'enorme spilla gioiello. Le ripeti: «Scusa». Volando verso ovest, in un luogo imprecisato nel cielo a nord/nordovest di Atlanta. «Stammi bene a sentire» dice lei. «Io già lavoro troppo, non posso sopportare anche questo. Hai capito?». Le dici: «Scusa». «Sono in viaggio tre settimane al mese» dice. «Sto ancora pagando una casa che praticamente non vedo mai... i corsi di cal cio per i miei figli... la casa di cura di mio padre già da sola mi costa un occhio. Non ti pare che mi meriti qualcosa? Non sono brutta, no? Il minimo che potresti fare sarebbe non sbattermi la porta in faccia.» Giuro, dice esattamente così. Abbassa la testa e la piazza tra me e la rivista che sto fingendo di leggere. «Non fare il finto tonto» dice. «Guarda che il sesso non è mica una cosa da nascondere.» E io le dico: «Sesso?». E lei si copre la bocca con una mano e appoggia la schiena contro lo schienale. Dice: «Oddio, scusa. Pensavo che...» e allunga un braccio per premere il campanello rosso della hostess. L'hostess arriva, e la rossa ordina due doppi whisky. Le dico: «Spero che siano per te». E lei dice: «A dire il vero, sono per te». E questa sarebbe la mia prima volta. La famosa prima volta a cui nessuna delle volte successive è neppure lontanamente paragonabile. «Non stiamo qui a litigare» dice lei, e mi tende la mano bianca e fredda. «Mi chiamo Tracy.» Sarebbe stato meglio se fosse successo su un Lockheed Tristar 500, con i suoi cinque bagni spaziosi ben isolati in fondo al la classe turistica. Spaziosi. Insonorizzati. Alle spalle di tutti quanti, dove nessuno può vedere chi va e chi viene. In confronto, viene da chiedersi che razza di animale abbia progettato il Boeing 747-400, dove i bagni sono praticamente incollati ai posti dei passeggeri. Se vuoi un minimo di privacy, sei costretto ad andare in quelli in fondo alla classe turistica. E lascia perdere il bagno laterale ribassato della business class, a meno che tu non voglia farti sentire da tutti. È facile. Se sei un maschio funziona così: ti siedi sulla tazza con il tuo vecchio amico fuori dai pantaloni. Sì, insomma, il tuo bell'orsacchiottone paonazzo. Ci lavori un po' e lo fai mettere sull'attenti, dritto come un soldatino, dopodiché aspetti nel tuo stanzino di plastica e incroci le dita. Un po' come quando vai a pescare. Se sei cattolico, la sensazione è la stessa che provi in un confessionale. L'attesa, lo sfogo, la redenzione. Un po' come quando vai a pescare ma poi i pesci li ributti dentro. La cosiddetta "pesca sportiva". Un'altra tecnica è quella di mettersi ad aprire le porte finché non trovi una che ti piace. Come in quei quiz televisivi dove apri una porta a caso e ti porti a casa il premio che c'è dietro. Come nella favola della principessa e della tigre. A volte, dietro le porte trovi donne coi soldi che dalla business class vengono a farsi un giro nei bassifondi, a cercare un po' di brividi tra il popolo. Così diminuisce il rischio di incontrare qualcuno che conoscono. Altre volte, invece, trovi un attempato omaccione con la cravatta marrone buttata su una spalla, le ginocchia pelose puntate contro le pareti, che si coccola il pitone morto e ti dice: «Scusa bello, ma non sei il mio tipo». Quando capita sei troppo sconvolto anche solo per dire: «Come se mi interessasse». Oppure: «Sì, ti piacerebbe». E nonostante tutto, sono talmente tante le volte in cui vai a segno che continui a sfidare la fortuna. Lo spazio stretto, il bagno, duecento sconosciuti a pochi centimetri da te, è eccitantissimo. Se siete in due, lo scarso spazio di manovra aiuta. Stimola la fantasia. Basta essere un minimo creativi, fare un po' di stretching, e ti fai delle cavalcate che nemmeno in un western. Ed è pazzesco come il viaggio ti vola. Metà del divertimento sta proprio nella sfida. Nel pericolo e nel rischio. Non è la conquista del West o la corsa al Polo Sud o la prima passeggiata dell'uomo sulla Luna. È un altro tipo di esplorazione dello spazio. La scoperta di un altro genere di landa inesplorata. Il paesaggio interiore. L'ultima frontiera rimasta da conquistare, gli altri, gli estranei, la giungla delle loro braccia e delle loro gambe, i peli, la pelle, gli odori e i gemiti di tutte le persone che non ti sei ancora fatto. L'ignoto. L'ultima foresta da devastare. Tutto ciò che hai sempre e solo immaginato. Sei Cristoforo Colombo che naviga verso l'orizzonte. Sei il primo cavernicolo che si azzarda a mangiare un'ostrica. Forse per altri quell'ostrica in particolare non è esattamente una novità assoluta, ma per te sì.


Sospeso in mezzo al nulla, nelle quattordici ore che separano Heathrow da Johannesburg, puoi farti anche dieci esperienze di vita vissuta. Dodici, se il film che proiettano è brutto. Anche di più, se il volo è pieno. Un po' meno in caso di turbolenza. Un po' di più se ti va bene anche la bocca di un maschio, un po' di meno se quando servono il pranzo torni al tuo posto. La cosa non esattamente entusiasmante di quella prima volta, è che quando io sono ormai ubriaco e Tracy la rossa mi monta addosso, succede che becchiamo un vuoto d'aria. Io mi aggrappo al cesso e vado giù con l'aereo, Tracy invece salta per aria e mi stappa come una bottiglia di champagne, con il preservativo che le rimane dentro, e va a sbattere con quei suoi capelli contro il soffitto di plastica. In quel preciso istante io vengo, e il mio schizzo resta sospeso a mezz'aria, soldatini bianchi senza peso che fluttuano nello spazio vuoto tra lei ancora sul soffitto e io ancora sulla tazza. Dopodiché sbam, andiamo giù tutti quanti insieme, lei e il preservativo, io e il mio schizzo, tutto quanto addosso a me, ammassato alla rinfusa, con in più i suoi quarantacinque e passa chili. Dopo un episodio del genere è un miracolo che non debba portare le mutande per l'ernia. E Tracy ride e dice: «Adoro quando succede così!». Dopo, solo normali scossoni da turbolenza, che mi buttano i suoi capelli in faccia, i capezzoli in bocca. Fanno rimbalzare il filo di perle intorno al suo collo. La catenina d'oro intorno al mio. Mi scuotono le palle nel sacchettino gonfio sospeso nel vuoto della tazza. Col tempo, impari alcuni trucchetti per migliorare la performance. I Super Caravelle francesi, per esempio, con i finestrini triangolari e le tendine vere, non hanno bagni in business class, ma solo in classe turistica, perciò è meglio non tentare niente di troppo arzigogolato. La posizione tantrica standard va più che bene. Vi mettete di fronte, lei solleva una gamba accanto alla tua coscia. E tu ti muovi come nella più classica delle flanquette. Scrivi il tuo Kamasutra. Inventi. Provateci. Tanto lo so che ne avete voglia. Va da sé che entrambi dovete essere più o meno della stessa altezza. Altrimenti non posso rispondere di quello che potrebbe succedere. E non chiedetemi di spiegarvi tutto quanto passo per passo. Si presume che un minimo di infarinatura ce l'abbiate. Persino su un Boeing 757-200, persino in quei bagni minuscoli che ci sono nella parte anteriore, è possibile improvvisare una variante della posizione cinese, tu seduto sul cesso e lei sopra girata di spalle. In un luogo imprecisato nel cielo a nord/nordest di Little Rock, Tracy mi dice: «Il pompoir è il massimo. E una specialità delle donne albanesi, ti fanno venire usando solo i muscoli della vagina». Ti masturbano usando solo le viscere? Tracy dice: «Già». Io dico: «L'Albania ha una compagnia aerea?». Un'altra cosa che impari è che quando una hostess viene a bussare puoi accelerare l'epilogo con il Metodo Fiorentino, ovvero la donna te lo afferra alla base e ti tira giù la pelle, tutta quanta, rendendotelo più sensibile. Il processo si sveltisce notevolmente. Per rallentare, invece, bisogna premere forte alla base del pene. E anche se vieni lo stesso, i soldatini bianchi fanno dietrofront e si tuffano nella vescica, risparmiandovi le pulizie. Gli esperti lo chiamano "Saxonus". Io e la rossa siamo nel grande bagno in fondo di un McDonnell Douglas DC-10 Serie 30CF, lei mi mostra la posizione della "negresse", appoggia le ginocchia sui lati del lavandino e io le appoggio le mani col palmo aperto sulle spalle pallide. Appannando lo specchio con il fiato, rossa in faccia per la posizione accovacciata, Tracy dice: «Nel Kamasutra c'è scritto che se un uomo se lo massaggia con succo di melograno, zucca e semi di cetriolo ottiene un'erezione pazzesca che resta su per sei mesi». Suona un po' come una scadenza alla Cenerentola. Lei vede la mia espressione nello specchio e dice: «Eddai, non farne sempre una questione personale». In un luogo imprecisato nel cielo a nord di Dallas, io sto cercando di mettere insieme un altro po' di saliva, e lei mi spiega che se vuoi che una donna non ti lasci mai devi coprirle la testa di spine d'ortica ed escrementi di scimmia. E io le dico qualcosa tipo: scherzi? E se a tua moglie fai fare il bagno nel latte di bisonte misto a bile di vacca, chiunque giaccia con lei diventerà impotente. Dico: e ci credo. Se una donna intinge un osso di cammello nell'essenza di calendula e si applica il liquido sulle ciglia tutti gli uomini che la guarderanno resteranno ammaliati. In alternativa si possono usare ossa di pavone, di falco o d'avvoltoio. «Leggitelo» dice. «Sta tutto scritto lì.» In un luogo imprecisato nel cielo a sud/sudest di Albuquerque, quando la sto leccando da tanto di quel tempo che ho la faccia che pare imbrattata di bianco d'uovo e le guance graffiate dai peli, Tracy mi spiega che i testicoli di montone bolliti nel latte zuccherato sono in grado di restituire a un uomo la sua virilità. Poi dice: «No, ma che hai capito?». Mi era sembrato di cavarmela niente male. Considerando i due doppi whisky, e il fatto che a questo punto sono in piedi da tre ore. In un luogo imprecisato nel cielo a sud/sudest di Las Vegas, quando tutti e due abbiamo le gambe che tremano di stanchezza, Tracy mi mostra quello che il Kamasutra definisce "pascolare". "Succhiare il mango". "Divorare". Aggrovigliati nel nostro stanzino di plastica pulito alla bell'e meglio, sospesi in un tempo e in un luogo dove va bene tutto, non si può parlare esattamente di bondage, ma ci siamo vicini. Sono passati i bei tempi dei Lockheed Super Constellation, dove gli oblò e i bagni erano suite da due stanze: uno spogliatoio con il bagno separato da una porta. Il sudore che si spande in rivoli sui suoi muscoli levigati. Noi due che cavalchiamo allacciati, due macchine perfette che eseguono il compito per cui sono state progettate. A tratti il nostro unico punto di contatto è quel pezzo di me che scivola dentro i piccoli lembi di lei, sempre più arrossati e sporgenti, io con le spalle appiccicate alla parete di plastica, il resto del mio corpo che spinge in avanti dalla vita in giù. Tracy, fino a quel momento in piedi, solleva una gamba e la piazza sul bordo del lavandino, dopodiché si


adagia contro il ginocchio. Così è più facile vederci riflessi nello specchio, bidimensionali, dietro un vetro, un film, uno spezzone scaricato da Internet, la foto di un giornalino porno, qualcun altro, comunque non noi, qualcuno di bellissimo e senza una vita né un futuro fuori da quell'istante. Su un Boeing 767, se ti va bene becchi il bagno grande, quello di mezzo, in fondo alla classe turistica. Uno dei posti peggiori è il Concorde, che ha dei bagni davvero minuscoli, ma questa è la mia opinione personale. Sono certo che se devi solo pisciare o metterti le lenti a contatto o lavarti i denti, di spazio ce n'è più che a sufficienza. Ma se invece hai deciso di tentare la posizione che il Kamasutra definisce "del corvo" o "cuissade" o qualsiasi altra cosa per cui ti servano un po' più di cinque centimetri di spazio di manovra, allora ti conviene sperare in uno European Airbus 300/310, che in fondo alla cabina ha dei bagni immensi, da organizzarci una festa. Se ti interessa avere il ripiano accanto al lavandino e lo spazio per le gambe di pari dimensioni, allora niente è meglio dei due bagni in fondo ai British Aerospace One-Eleven, vera roba di lusso. In un luogo imprecisato nel cielo a nord/nordest di Los Angeles, l'uccello comincia a bruciarmi, e così chiedo a Tracy di fermarsi. E dico: «Tu perché lo fai?» E lei dice: «Cosa?» Tutto questo. E Tracy sorride. La gente che lascia le porte aperte non ne può più di parlare del tempo. Non ne può più della sicurezza. E gente che ha ristrutturato troppe case. Gente abbronzata che ha dato un taglio alle sigarette, allo zucchero bianco, al sale, ai grassi e alla carne rossa. Gente che ha visto i propri genitori lavorare e studiare per una vita, e alla fine perdere tutto. Spendere tutto per sopravvivere con un sondino nasogastrico. Dimenticarsi persino come si fa a masticare e deglutire. «Mio padre faceva il medico» dice Tracy. «Adesso non ricorda nemmeno più come si chiama.» Questi uomini e queste donne che lasciano le porte dei bagni aperte sanno che una casa più grande non è la soluzione. Che un compagno più attraente, più soldi e una pelle più liscia non sono la soluzione. «Ogni cosa in più che possiedi» dice «è solo l'ennesima cosa che un giorno perderai.» La soluzione è che non c'è soluzione. Un momento davvero pesante, credetemi. «No» dico, e la sfioro con un dito in mezzo alle cosce. «Dicevo questo. Perché ti depili il pube?» «Ah» dice lei, e sorride alzando gli occhi al cielo. «Perché così posso mettermi il tanga.» Mentre mi sistemo sulla tazza, Tracy si guarda allo specchio, ma distrattamente, giusto per controllare in che condizioni è il trucco, e con un dito umido si pulisce gli sbaffi di rossetto. Con le dita si strofina i segni dei morsi intorno ai capezzoli. Quelli che il Kamasutra chiamerebbe Ciuffi di Nuvole. Parlando con lo specchio dice: «II motivo per cui io faccio il circuito è che, se ci pensi, non esistono buoni motivi per fare niente.» Non c'è motivo. Questa gente più che un orgasmo cerca l'oblio. Dimenticare. Tutto. Per due, dieci, venti minuti. Mezz'ora. O forse è così che diventa la gente quando la trattano come bestiame. O forse anche questa è solo una scusa. Forse è solo perché si annoiano. Forse gli esseri umani non sono fatti per passare un giorno intero seduti in scatole minuscole stipate di gente senza poter muovere un muscolo. «Siamo persone giovani, sane, sveglie, vive» dice Tracy. «Se ci pensi, è difficile dire quale delle due cose sia più innaturale.» Si sta rimettendo la camicetta, si tira su i collant. «Cos'è che mi spinge a fare quello che faccio?» dice. «Ho studiato abbastanza da potermi sottrarre a qualsiasi schema. Smontare qualsiasi fantasia. Spiegare qualsiasi obbiettivo. Sono così intelligente che riesco addirittura a negare i miei sogni.» Mentre ancora me ne sto seduto lì, nudo e stanco, l'equipaggio annuncia che abbiamo appena cominciato la discesa verso la grande area metropolitana di Los Angeles, ci dice che tempo fa a terra e che ore sono, e infine ci ragguaglia sulle coincidenze. E per un istante, io e questa donna rimaniamo lì, in piedi e in silenzio, a fissare il vuoto. «Lo faccio perché mi piace» dice, e si abbottona la camicetta. «O forse non so nemmeno io perché lo faccio. Se ci pensi, è proprio per questo che gli assassini li condannano a morte. Perché una volta oltrepassato un limite, è impossibile fermarsi.» Con entrambe le mani dietro la schiena, tirandosi su la cerniera della gonna, lei dice: «La verità è che a me non interessa sapere perché faccio sesso con chi capita. Lo faccio e basta» dice, «perché appena uno trova una buona ragione per farle, le cose perdono il loro fascino». Infila i piedi nelle scarpe, si aggiusta i capelli ai lati del viso e dice: «E fammi un favore: non pensare che quello che abbiamo fatto sia stato qualcosa di speciale». Girando la chiave della porta dice: «Rilassati». Dice: «Un giorno ci ripenserai con il trasporto con cui pensi a un sacchetto di patatine». Tornando in cabina dice: «Oggi hai semplicemente oltrepassato questo limite per la prima volta». Mollandomi lì, nudo e solo, dice: «Mi raccomando, chiudi a chiave». Poi ride e dice: «Sempre che chiudere a chiave le porte ti interessi ancora».


CAPITOLO 41 La ragazza della reception il caffè non lo vuole. Non vuole andare nel parcheggio a dare un'occhiata alla sua macchina. Dice: «Se succede qualcosa alla mia macchina, so a chi dare la colpa». E io le dico: shhhhhhhhh. Le dico che ho sentito qualcosa, una fuga di gas o un bimbo che piange da qualche parte. E la voce di mia mamma, stremata e distante, che da una stanza imprecisata esce attraverso l'altoparlante dell'interfono. In piedi davanti al banco reception della St. Anthony, restiamo in ascolto, e mia mamma dice: «L'America ha uno slogan: "Mai abbastanza". Niente è mai abbastanza veloce. Abbastanza grande. Non siamo mai contenti. Cerchiamo sempre di migliorare...». La ragazza della reception dice: «Io non sento nessuna fuga di gas». La voce debole e stanca dice: «Ho passato la vita ad attaccare tutto e tutti perché avevo troppa paura di provare a costruire qualcosa...». E la ragazza della reception la interrompe. Schiaccia il pulsante del microfono e dice: «Infermiere Remington alla reception. Infermiere Remington subito alla reception, grazie». La guardia cicciona col taschino pieno di penne. Ma quando toglie il dito dal pulsante la voce dell'interfono ritorna, debole, quasi un sussurro. «Non mi è mai andato bene niente» dice mia mamma, «e così adesso, alla fine della mia vita, non mi resta niente...» E la voce sfuma. Non resta niente. Solo rumore bianco. Ronzio. E adesso lei morirà. A meno che non succeda un miracolo. La guardia spunta di corsa dalle porte di sicurezza, guarda la ragazza della reception e chiede: «Allora, che succede?». E sul monitor, in un bianco e nero sgranato, la ragazza punta il dito contro di me, piegato in due dal mal di pancia, con le mani strette sulle viscere gonfie, e dice: «Lui». Dice: «Bisogna impedirgli l'accesso all'edificio, da subito».


CAPITOLO 42 Ecco cosa si è visto al telegiornale ieri sera: io che gridavo e mi sbracciavo davanti alla telecamera, Denny dietro di me che sistemava una pietra nel muro, e ancora più indietro Beth che ne sbriciolava una a martellate cercando di scolpire una statua. Alla tv mi si vede giallo itterico, ingobbito per il dolore e il peso delle viscere che dentro mi si stanno strappando. Sono piegato in avanti, alzo la faccia verso la telecamera, il collo che scompare nella camicia. Il mio collo sottile come un braccio, il pomo d'Adamo che sporge come un gomito. È stato ieri, dopo il lavoro, perciò mi si vede con la camicia di lino e le braghe corte da Colonial Dunsboro. Con tanto di scarpe con la fibbia e fazzoletto al collo, e questo non aiuta. «Amico mio» dice Denny seduto accanto a Beth nell'appartamento di Beth mentre ci guardiamo alla tv. Dice: «Non vieni un granché, alla tv». Sembro il Tarzan tracagnotto della mia fase quattro, il tizio piegato a novanta con la scimmia e le caldarroste. Il salvatore cicciotello che sorride beato. L'eroe che non ha più niente da nascondere. Alla tv stavo solo cercando di spiegare a tutti che non c'era nessuna polemica. Cercavo di convincerli che ero stato io a scatenare tutto quanto, telefonando al comune e dicendo che abitavo lì nei paraggi, e che uno squinternato si era messo a co struire non si sa bene cosa senza permesso. E che il cantiere costituiva un pericolo per i bambini. E che il tizio in questione non aveva un'aria troppo raccomandabile. E che di sicuro stava tirando su una chiesa satanica. Poi avevo chiamato quelli della tv e gli avevo raccontato le stesse cose. E così era cominciato tutto. Che l'ho fatto solo perché volevo che Denny avesse bisogno del mio aiuto, be', questo no, non gliel'ho detto. Non alla tv. Ma le mie spiegazioni devono essere rimaste sul pavimento della sala di montaggio, perché alla tv vengo fuori come un pazzo livido e sudato che con una mano cerca di coprire l'obbiettivo della telecamera, strillando al giornalista di andarsene, e con l'altra tenta di scacciare l'asta del microfono, che schizza da una parte all'altra dell'inquadratura. «Che roba» dice Denny. Beth ha registrato il mio piccolo momento fossilizzato, e continuiamo a riguardarcelo. Denny dice: «Sembravi posseduto dal demonio». E invece sono posseduto da tutt'altro tipo di divinità. Quello sono io che cerco di comportarmi bene. Che cerco di mettere insieme i miei primi, piccoli miracoli, in attesa di quelli veri. Me ne sto seduto qui con un termometro in bocca, lo guardo e dice trentasette e sette. Continuo a grondare sudore, e dico a Beth: «Scusa per il divano». Beth prende il termometro e lo guarda, poi mi appoggia la mano fresca sulla fronte. E lo dico: «Scusa se ho pensato che fossi solo bella e oca». Essere Gesù significa essere sinceri. E Beth dice: «Figurati». Dice: «Di quello che pensavi tu non me n'è mai fregato niente. Mi importava solo di quello che pensava Denny». Scuote il termometro e me lo rimette sotto la lingua. Denny riavvolge la cassetta, e rieccomi sullo schermo. Stasera mi fanno male le braccia, e la calce maneggiata per fare il cemento mi ha reso le mani morbide e irritate. A Denny dico: allora, come ci si sente a essere famosi? Alle mie spalle, sullo schermo, muri di pietra si alzano e si allargano formando la base di una torre. Altri muri si ergono intorno a spazi lasciati vuoti per le finestre. Attraverso un'ampia porta si vede una grande rampa di scale. Altri muri proseguono oltre i margini dell'inquadratura, suggerendo le fondamenta di altre ali dell'edificio, altre torri, altri chiostri, colonnati, vasche sopraelevate, cortili sotterranei. La voce del giornalista chiede: «Questa struttura che state costruendo cos'è, una casa?». E io dico che ancora non lo sappiamo. «Una chiesa?» Non lo sappiamo. Il giornalista entra nell'inquadratura, è un uomo con i capelli castani pettinati in una specie di banana fissata sulla fronte con la lacca. Mi punta il microfono verso la bocca e chiede: «Ma allora cos'è che state costruendo?». Non lo sapremo finché non avremo posato l'ultima pietra. «E quando avverrà?» Non lo sappiamo. Dopo essere vissuti soli per così tanto tempo, è bello parlare al plurale. Guardando me che dico questa cosa, Denny indica la tv e dice: «Perfetto». Denny dice: più andremo avanti a costruire, più continueremo a creare, e più cose riusciremo a fare. Più riusciremo a sopportare la nostra incompletezza. A posticipare la gratificazione. Potremmo chiamarla Architettura tantrica. Alla tv dico al giornalista: «La cosa importante è il percorso. Non il fine». La cosa buffa è che mi sembra davvero di aiutare Denny. Ogni pietra è un giorno in più che Denny non butta via. Liscio granito di fiume. Pesante basalto scuro. Ogni pietra è una piccola lapide, un piccolo monumento all'ennesimo giorno in cui il lavoro di tante persone si dissolve, diventa obsoleto, passa di moda nell'istante stesso in cui viene realizzato. Questo algiornalista non lo dico, e nemmeno gli chiedo che cosa resta del suo lavoro nell'istante in cui viene lanciato nell'etere. Va in onda. Viene trasmesso. Evapora. Si cancella. In un mondo dove si ]avora sulla carta, dove si usano le macchine, dove il tempo e la fatica e i soldi ci passano accanto lasciando così poco di concreto, Denny che incolla le pietre sembra l'unico sano di mente. Al giornalista questo non lo dico.


Eccomi qua, a sbracciarmi e a dire che ci servono altre pietre. Che saremo grati a tutti quelli che vorranno portarcene un po'. Che sarebbe fantastico se qualcuno decidesse di darci una mano. Con i capelli sporchi e bagnati di sudore, la pancia gonfia che sporge dai pantaloni, dico che l'unica cosa che non sappiamo è cosa diventerà tutto questo alla fine. E che nemmeno ci interessa saperlo. Beth va nel cucinotto a preparare i popcorn. Ho una fame pazzesca ma non mi arrischio a mangiare. Alla tv appare l'ultima inquadratura dei muri, delle basi su cui un giorno sorgerà una loggia di colonne che sosterrà un tetto. Piedistalli di statue. Vasche di fontane. Muri che suggeriscono futuri contrafforti, timpani, guglie, cupole. Archi su cui un giorno sorgeranno volte. Torrette. Un giorno. Crescendo, gli alberi e i cespugli hanno già nascosto e seppellito alcune parti. Ci sono rami che si intrufolano nelle finestre. In alcune stanze l'erba e le erbacce ti arrivano alla vita. Il tutto si estende fin dove la telecamera non arriva, e sono le fondamenta di un'opera che forse non basterà una vita a veder completata. Questo al giornalista non lo dico. Fuoricampo si sente il cameraman che dice: «Ehi, Victor! Ti ricordi di me? Al Chez Buffet. Quella volta che per poco non morivi soffocato...». Squilla il telefono, e Beth va a rispondere. «Sai» dice Denny, e riavvolge il nastro per l'ennesima volta. «Questa cosa che gli hai raccontato. Secondo me la gente ci uscirà pazza.» E Beth dice: «Victor, è la clinica di tua mamma. Ti stanno cercando dappertutto». «Un attimo» le grido. Dico a Denny di far partire il nastro. Sono quasi pronto ad affrontare mia mamma.


CAPITOLO 43 Per il mio prossimo miracolo, compro del budino. Budino al cioccolato, alla vaniglia e al pistacchio, pieno di zucchero e burro e grassi e conservanti, sigillato in vaschette di plastica. Basta strappare il coperchio di carta e prendere un cucchiaino. A lei servono i conservanti. Più conservanti mangia, ho pensato, meglio è. Con un sacchetto pieno di budini, vado alla St. Anthony. E così presto che la ragazza della reception non è ancora arrivata. Affondata nel suo letto, mia mamma mi guarda da dentro i suoi occhi e dice: «Chi è?». Sono io, le dico. E lei dice: «Victor? Sei tu?». E io dico: «Sì, credo di sì». Paige non c'è. Non c'è nessuno, è prestissimo, è sabato mattina. Il sole comincia appena a intravedersi attraverso le tapparelle. Persino la tv in sala ricreazione tace. La compagna di stanza di mia mamma, la signora Novak, la spogliarellista, è nel suo letto che dorme, rannicchiata su un fianco, perciò parlo a bassa voce. Strappo il coperchio del primo budino e prendo un cucchiaino di plastica dal sacchetto. Sistemo una sedia accanto al letto, tiro su la prima cucchiaiata e le dico: «Sono venuto a salvarti». Le dico che finalmente ho scoperto la verità su di me. Che sono nato buono. Una creatura di puro amore. Che posso tornare a esserlo, ma poco alla volta. Il cucchiaio si infila fra le sue labbra e rilascia le prime cinquanta calorie. Alla seconda cucchiaiata le dico: «So che cos'hai dovuto fare per avermi». Il budino rimane fermo lì, marrone e luccicante sulla lingua. Lei batte le palpebre, velocissimo, con la lingua spinge il budino nell'interno delle guance, e infine riesce a dire: «Oh, Victor, ma allora lo sai?». Infilandole in bocca altre cinquanta calorie dico: «Non c'è niente di cui vergognarsi. Manda giù». Attraverso la poltiglia di cioccolato lei dice: «Non riesco a smettere di pensare che ho fatto una cosa terribile». «Mi hai dato la vita» le dico. E voltandosi per non vedere la prossima cucchiaiata, per non vedere me, lei dice: «Mi serviva la cittadinanza americana». Il prepuzio rubato. La reliquia. Le dico che non importa. Allungo il braccio intorno al suo viso e riesco a infilarle in bocca un'altra cucchiaiata. Denny dice che forse la seconda venuta di Cristo non la deciderà Dio. Forse Dio ha dato alle persone la capacità di far tornare Cristo nelle loro vite. Forse Dio voleva che ce lo inventassimo noi, il nostro salvatore, una volta pronti. Quando proprio non ne avessimo più potuto fare a meno. Denny dice che forse ce lo dobbiamo creare da soli, il nostro messia. Per salvarci. Altre cinquanta calorie entrano nella sua bocca. Forse ogni volta che facciamo un piccolo sforzo ci stiamo allenando per fare miracoli veri. Un'altra cucchiaiata marrone entra nella sua bocca. Lei si volta verso di me, con le rughe che le fanno gli occhi sottili. Con la lingua sposta il budino nelle guance. Un po' di budino al cioccolato le spunta dagli angoli della bocca. E dice: «Ma di che parli?» E io dico: «Io sono Gesù Cristo, lo so». Lei spalanca gli occhi, e io le ficco in bocca un'altra cucchiaiata. «E so che sei arrivata dall'Italia già incinta del prepuzio sacro.» Altro budino in bocca. «E so che nel tuo diario hai scritto tutto quanto in italiano perché io non lo leggessi.» Altro budino in bocca. E dico: «E adesso conosco la mia vera natura. So di essere una persona gentile e premurosa». Altro budino le entra in bocca. «E so che posso salvarti» dico. Mia mamma mi guarda. Mi guarda e basta. Con gli occhi pieni di una comprensione e di una compassione totali e infinite, dice: «Cosa cazzo stai dicendo?». Dice: «Io ti ho rubato da un passeggino a Waterloo, nell'Iowa. Volevo salvarti dalla vita che ti aspettava». Visto che i figli sono l'oppio dei popoli. Vedi anche: Denny col suo passeggino pieno di pietre rubate. Dice: «Ti ho rapito». La povera demente delira, non sa quello che dice. Le sbatto in bocca altre cinquanta calorie. «Lascia stare» le dico. «La dottoressa Marshall ha letto il tuo diario e mi ha raccontato la verità.» Le ficco in bocca altro budino. Lei fa per parlare, e io le ficco in bocca altro budino. Ha gli occhi fuori dalle orbite, e sulle guance cominciano a scenderle le lacrime. «Non importa. Ti perdono» le dico. «Io ti voglio bene, e sono venuto a salvarti.» Con la prossima cucchiaiata già pronta a mezz'aria le dico:«Devi solo mandar giù questa roba». Il suo petto si gonfia, e il budino le esce dal naso. Mia mamma rovescia gli occhi all'indietro. Sta diventando blu. Il petto sale di nuovo. E io dico: «Mamma?». Ha le mani e le braccia che tremano, la testa buttata all'indietro che spinge contro il cuscino. Il petto sale, e la poltiglia marrone viene risucchiata in gola. Ha il viso e le mani sempre più blu. Degli occhi si vede soltanto il bianco. C'è odore di cioccolato dappertutto. Suono il


campanello dell'infermiera. Le dico: «Niente panico». Le dico: «Scusa. Scusa. Scusa. Scusa...». Il petto va su e giù, le mani si stringono intorno alla gola. Dev'essere questo l'effetto che faccio quando soffoco in pubblico. Di colpo c'è la dottoressa Marshall dall'altro lato del letto, che con una mano spinge indietro la testa di mia mamma. Con l'altra le toglie manciate di budino dalla bocca. A me, Paige dice: «Cos'è successo?». Stavo cercando di salvarla. Delirava. Non si ricorda più che io sono il messia. Sono venuto a salvarla. Paige si china sulla bocca di mia madre e soffia. Si rialza. Poi si china e soffia di nuovo, e ogni volta che si rialza ha la bocca sempre più sporca di budino marrone. Di cioccolato. Non si respira altro che odore di cioccolato. Con una vaschetta di budino in una mano e il cucchiaino nell'altra le dico: «Non ti preoccupare. Faccio io. È come con Lazzaro» le dico. «Lo so fare.» Appoggio le mani sul petto ansimante di mia madre. Dico. «Ida Mancini. Ti ordino di continuare a vivere.» Tra un respiro e l'altro Paige mi guarda, con la faccia imbrattata di marrone. Dice: «C'è stato un equivoco». E io dico: «Ida Mancini, tu sei sana e salva». Paige si china sul letto e appoggia le mani accanto alle mie. Poi preme con tutte le sue forze, una, due, tre volte. Massaggio cardiaco. E io le dico: «Non serve, davvero». Le dico: «Avevi ragione, io sono Gesù Cristo». E Paige sussurra: «Respiri! Su, respiri!». E sulla mano di Paige, da un punto imprecisato dell'avambraccio, un punto ben nascosto all'interno della manica, scivola giù un braccialetto di plastica da paziente. Ed è in quell'istante che tutto il su e giù, tutto quel dimenarsi, quello stringersi le mani alla gola, che tutto quanto, infine, si ferma. "Vedovo" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.


CAPITOLO 44 Mia madre è morta. Mia mamma è morta e Paige Marshall è una malata di mente. Tutto quello che mi ha raccontato se l'è inventato. Compresa l'idea che io fossi... non riesco nemmeno a dirlo... che io fossi Lui. Compreso il fatto che mi amava. D'accordo, che le piacevo. Compreso il fatto che sono una brava persona. Non lo sono. E se le madri sono il nuovo Dio, l'unica cosa sacra rimasta, allora io ho ucciso Dio. E un jamais vu. Il contrario francese del déjà vu, quando tutti ti sono sconosciuti, benché tu sia convinto di conoscerli. Per quanto mi riguarda, posso solo andare a lavorare, e vagare per Colonial Dunsboro rivivendo in continuazione gli eventi nella mia testa. Sentendomi l'odore di budino al cioccolato sulle dita. Mi fermo sempre al punto in cui il cuore di mia mamma si è fermato e il braccialetto di plastica sigillata mi ha rivelato che Paige era una paziente. Era Paige, non mia mamma, che delirava. Ero io che deliravo. In quel momento, Paige ha alzato gli occhi dal letto imbrattato di cioccolato. Mi ha guardato e ha detto: «Scappa. Vattene. Esci di qui». Vedi anche: Il bel Danubio blu. L'unica cosa che sono riuscito a fare è stato fissare il suo braccialetto. Paige ha fatto il giro intorno al letto, mi ha preso per un braccio e ha detto: «Facciamogli credere che sono stata io». Mi ha trascinato verso la porta e ha detto: «Facciamogli credere che ha fatto tutto da sola». Ha guardato su e giù per il corridoio e mi ha detto: «Pulisco le tue impronte dal cucchiaino e glielo metto in mano. A loro dirò che i budini li avevi dimenticati tu ieri». Quando passiamo vicino alle porte, le porte si chiudono. È il suo braccialetto. Paige mi indica una porta che dà sull'esterno e dice che lei non si può avvicinare, altrimenti non si apre. Dice: «Tu oggi qui non ci sei venuto. E chiaro?». E dice tante altre cose, ma nessuna importante. Non sono amato. Non sono un animo nobile. Non sono buono, non sono generoso. Non sono il salvatore di nessuno. Tutto è diventato una bugia, ora che Paige è pazza. «L'ho uccisa» dico. La donna che è appena morta, soffocata dal cioccolato, non era neppure mia madre. «E stato un incidente» dice Paige. E io le dico: «Come faccio a crederci?». Alle mie spalle, mentre uscivo, qualcuno deve aver trovato il corpo, perché si sentiva in continuazione: «L'infermiere Remìngton alla stanza 158. L'infermiere Remington subito alla stanza 158». Non sono neppure italiano. Sono un orfano. Vago per Colonial Dunsboro in mezzo alle galline deformi, ai cittadini tossicodipendenti, ai ragazzini in gita convinti che questo delirio abbia qualcosa a che fare con il passato vero. Il passato non si può ricreare. Puoi fare finta. Puoi illuderti, ma ciò che è finito non torna. La gogna in mezzo alla piazza del villaggio è vuota. Ursula mi passa accanto con una mucca, odorano tutt'e due di canna. Persino la mucca ha gli occhi rossi e le pupille dilatate. Qui è sempre lo stesso giorno, tutti i giorni, e questo in teoria dovrebbe essere rassicurante. Come in quei telefilm dove le stesse persone restano bloccate sulla stessa isola stagione televisiva dopo stagione televisiva, senza mai invecchiare e senza che nessuno arrivi mai a salvarle, e solo il trucco diventa più pesante. Ecco come trascorrerai il resto dei tuoi giorni. Una scolaresca mi passa accanto strillando. Dietro di loro ci sono un uomo e una donna. L'uomo ha in mano un quaderno, e mi dice: «È lei Victor Mancini?». La donna dice: «Sì che è lui». E l'uomo mi fa vedere il quaderno e dice: «Questo è suo?». È la mia fase quattro della terapia per sessodipendenti, il completo e impietoso inventario morale di me stesso. Il diario della mia vita sessuale. Il resoconto di tutti i miei peccati. E la donna dice: «Che aspetta?». All'uomo con il quaderno dice: «Lo arresti». L'uomo dice: «Conosce una paziente della casa di cura St. Anthony di nome Eva Muehler?». Eva lo scoiattolo. Stamattina deve avermi visto, e gli ha detto cos'ho fatto. Che ho ucciso mia mamma. No, non mia mamma. Quella vecchia. L'uomo dice: «Victor Mancini, la dichiaro in arresto per presunto stupro». La ragazza con le fantasie strane. Deve avermi denunciato. La ragazza a cui ho rovinato il letto rosa tutto di seta. Gwen. «Un momento» gli dico. «È lei che mi ha chiesto di stuprarla. L'idea è stata sua.» E la donna dice: «È un bugiardo. Sta calunniando mia madre». L'uomo comincia a leggermi la legge Miranda. I miei diritti. E io dico: «Gwen è sua madre?». Solo a guardarle la pelle si vede subito che questa donna avrà almeno dieci anni più di Gwen. Oggi è il mondo intero che delira. E la donna strilla: «Eia Muehler è mia madre! E sostiene che lei l'ha violentata dicendole che era il vostro gioco segreto». Chiaro. «Ah, lei» dico. «Scusi, pensavo stesse parlando di un


altro stupro.» L'uomo si interrompe e dice: «Ma li sta ascoltando i suoi diritti, o cosa?». È tutto scritto nel quaderno, gli dico. Quello che ho fatto. Mi sono preso la responsabilità di tutti i peccati del mondo, ecco tutto. «Sapete» gli dico, «per un po' ho seriamente creduto di essere Gesù Cristo.» L'uomo si sfila dalla cintura un paio di manette. La donna dice: «Bisogna essere malati di mente per stuprare una novantenne». Faccio una smorfia e le dico: «Può dirlo forte». E lei dice: «Ah, adesso viene anche a lamentarsi perché mia madre non è attraente?». E l'uomo mi chiude un polso nelle manette. Poi mi fa voltare di schiena e mi blocca anche l'altra, e dice: «Perché non andiamo a sistemare questa faccenda da un'altra parte?». E davanti alla massa di sfigati di Colonial Dunsboro, davanti ai tossici e alle galline deformi e ai ragazzini che pensano di venire qui a imparare qualcosa e a Sua Eccellenza il Governatore coloniale Lord Charlie, mi faccio arrestare. Un po' come Denny alla gogna, però sul serio. Mi verrebbe voglia di dire a tutti che fanno male a credersi diversi da me. In questo posto, tutti quanti sono in arresto.


CAPITOLO 45 Un attimo prima che uscissi dalla St. Anthony per l'ultima volta, un attimo prima di varcare la porta e mettermi a correre, Paige ha cercato di spiegarsi. Era davvero un medico. Parlando affannata, mangiandosi le parole. Era davvero una delle pazienti della casa di cura. Facendo scattare il pulsante della biro, velocissimo. Era davvero una studiosa di genetica, ed era stata internata lì soltanto per aver detto la verità. Non voleva farmi del male. Con la bocca ancora imbrattata di budino. Stava solo facendo il suo lavoro. In corridoio, nell'ultimo momento che abbiamo passato insieme, Paige mi ha tirato per la manica, facendomi voltare verso di lei, e ha detto: «Devi credermi». Aveva gli occhi gonfi e le si vedeva tutto il bianco intorno all'iride, e il piccolo cervello nero di capelli si stava sciogliendo. Era un medico, mi ha detto, una genetista. Veniva dall'anno 2556. Era tornata indietro nel tempo per farsi ingravidare da un maschio tipico di questo periodo storico. Per poter conservare e studiare un campione di materiale genetico. Il campione sarebbe servito a curare un'epidemia. Nel 2556. Il viaggio non era stato facile, né economico. Un loro viaggio nel tempo equivaleva a uno dei nostri viaggi nello spazio, ha detto. Era una scommessa, un rischio, e se lei non fosse tornata portando nel ventre un feto intatto, tutte le missioni successive sarebbero state annullate. Qui, ora, con indosso il mio costume del 1734, piegato in due dalle fitte del mio intestino occluso, non riesco a scacciare dalla testa questa cosa del maschio tipico. «Se sono rinchiusa qui dentro è perché ho raccontato la verità su di me» dice. «Tu eri l'unico maschio da riproduzione a portata di mano.» Ah, ecco, le dico, ora sì che mi sento meglio. Ora sì che tutto quadra. Voleva solo dirmi che stanotte l'avrebbero ritrasportata al 2556. Era l'ultima volta che ci vedevamo, e voleva dirmi quanto mi era riconoscente. «Ti sono profondamente riconoscente» ha detto. «E ti amo, sul serio.» E lì nel corridoio, nella luce forte del sole che cominciava a sorgere fuori dalle finestre, io le ho sfilato un pennarello nero dal taschino del camice. E ho cominciato a tracciare la sua sagoma, la sagoma del l'ombra di Paige che si proiettava contro il muro per l'ultima volta. E Paige Marshall ha detto: «Perché lo fai?». È così che è nata l'arte. E io le ho detto: «Non si sa mai. Metti che un giorno scopro che davvero non eri matta».


CAPITOLO 46 In quasi tutti i programmi di disintossicazione suddivisi in dodici fasi, la fase quattro prevede che uno faccia l'inventario completo e inesorabile della propria vita da sessodipendente. Tutti i momenti più bassi e squallidi della tua vita, devi prendere un quaderno e scriverli. Un inventario completo dei tuoi delitti. In modo da tenerli sempre bene a mente. Dopodiché devi rimediare a tutto. Questo vale per gli alcolisti, per i tossicodipendenti e i bulimici, e quindi anche per i sessodipendenti. Così puoi tornare con la mente al peggio della tua vita e passarlo in rassegna ogni volta che vuoi. Ma non è detto che chi il passato se lo ricorda sia messo molto meglio. Sul mio quaderno sotto sequestro c'è scritto tutto di me. Di Paige e di Denny e di Beth. Di Nico e di Leeza e di Tanya. Gli investigatori lo sfogliano, seduti davanti a me di fronte a un grosso tavolo, in una stanza chiusa a chiave e insonorizzata. C'è una parete a specchio e, poco ma sicuro, dietro c'è una telecamera. E gli investigatori mi chiedono: cosa speravo di ottenere confessando i delitti di altre persone? Mi chiedono: cosa stavo cercando di fare? Di completare il passato, gli dico. Per tutta la notte leggono il mio inventario e mi chiedono: che significa questa roba? L'infermiera Flamingo. Il dottor Blaze. Il bel Danubio blu. Le cose che diciamo quando non possiamo dire la verità. Che significato abbia ora tutto questo, non lo so. Gli investigatori della polizia mi chiedono se so dove si trovi una paziente di nome Paige Marshall. È ricercata. Devono interrogarla in merito all'apparente morte per asfissia di un'altra paziente, Ida Mancini. La mia apparente madre. La notte scorsa la signorina Marshall è scomparsa da un reparto a prova di evasione. Non sono stati rilevati segni di effrazione. Non ci sono testimoni. Niente. È svanita nel nulla. Lo staff della St Anthony, mi dice la polizia, assecondava la sua convinzione di essere un medico vero. Le lasciavano indossare un vecchio camice da laboratorio. Serviva a renderla più trattabile. Alla St Anthony dicono che io e lei eravamo piuttosto intimi. «Non direi proprio» dico. «Cioè, sì, capitava di incontrarsi nei corridoi, ma di lei io non so praticamente nulla.» Gli investigatori mi spiegano che non godo di grandi simpatie tra i dipendenti della casa di cura. Vedi anche: Clare, infermiera professionale. Vedi anche: Pearl, assistente infermiera. Vedi anche: Colonial Dunsboro. Vedi anche: I sessodipendenti. Non gli chiedo nemmeno se si sono presi la briga di cercare Paige Marshall nel 2556. Frugandomi in tasca, trovo una monetina. La inghiotto, e quella va giù. In tasca trovo una graffetta. Va giù anche quella. Mentre gli investigatori sfogliano il diario rosso di mia mamma, mi guardo intorno in cerca di qualcosa di più grosso. Qualcosa di troppo grosso da mandare giù. Ormai sono anni che soffoco fin quasi a morire. Non dovrebbe essere difficile. Qualcuno bussa e porta dentro un vassoio con la cena. Un piatto con un hamburger. Un tovagliolo. Una bottiglia di ketchup. Ho una fame da morire, ma con il blocco nelle viscere, con il gonfiore e il dolore, non posso mangiare. Mi chiedono: «Cosa dice il diario?». Apro l'hamburger. Apro la bottiglia di ketchup. Se voglio sopravvivere devo mangiare, ma dentro ho troppa merda. E scritto in italiano, gli dico. Continuando a leggere, gli investigatori mi chiedono: «Cosa sono queste cose che sembrano mappe? E tutte queste pagine di disegni?». Buffo, me n'ero dimenticato. Sono mappe. Mappe che ho disegnato quand'ero ragazzino, quand'ero uno stupido bamboccio credulone. Sapete, mia mamma mi diceva sempre che se volevo potevo reinventare il mondo. Che possedevo una specie di potere. Che non dovevo per forza accettare il mondo così com'era, tutto suddiviso in proprietà e con l'ossessione per i dettagli. Che potevo fare tutto quello che volevo. Era proprio pazza. E io le credevo. E di nascosto mi infilo in bocca il tappo della bottiglia di Ketchup. E mando giù. Un attimo dopo tendo le gambe di scatto, così forte che la sedia si ribalta. Le mani mi si aggrappano alla gola. Balzo in piedi fissando il soffitto imbiancato e con la bocca spalancata, gli occhi rovesciati all'indietro. Il mento si protende in avanti, quasi mi si stacca dalla faccia. Gli investigatori stanno già scattando in piedi. Ho smesso di respirare, e le vene del collo mi si gonfiano. La faccia mi diventa rossa, incandescente. Il sudore comincia a bagnarmi la fronte. A macchiarmi la camicia. Con le mani mi stringo forte il collo. Perché non sono in grado di salvare nessuno, né come dottore, né come figlio. E visto che non sono in grado di salvare nessuno, non sono nemmeno in grado di salvare me stesso. Perché adesso sono orfano. Sono disoccupato e solo. Perché mi fa male la pancia e perché morirei comunque, dentro sto già morendo. Perché la propria fine bisogna progettarsela. Perché una volta oltrepassato un limite, è impossibile fermarsi. E non c'è via di fuga, per chi vive in fuga. Distraendosi. Evitando lo scontro. Aspettando che passi. Masturbandosi. Negando. Gli investigatori alzano gli occhi dal diario, e uno di loro dice: «Tranquilli. E come abbiamo letto nel quaderno. Sta solo facendo


finta». Stanno a guardare. Ho le mani alla gola, non riesco a respirare. Lo stupido ragazzino che gridava sempre al lupo al lupo. Come quella donna con la bocca piena di cioccolato. La donna che non era sua mamma. Per la prima volta da tanto, tanto tempo, provo un senso di pace. Non sono felice. Non sono triste. Non sono angosciato. Non sono arrapato. Sento solo i piani alti del mio cervello che chiudono i battenti. La corteccia cerebrale. Il cervelletto. E lì che sta il mio problema. Mi sto semplificando. In perfetto equilibrio tra felicità e tristezza. Perché una spugna di mare non ha mai giornate no.


CAPITOLO 47 Un bel mattino lo scuolabus accostò davanti al marciapiede, e mentre la madre adottiva gli faceva ciao con la mano, lo stupido ragazzino salì. Era l'unico passeggero, e lo scuolabus schizzò accanto alla scuola a cento all'ora. Il conducente dello scuolabus era la Mamma. Fu l'ultima volta che lei andò a riprenderselo. Seduta davanti all'enorme volante, guardandolo dallo specchietto retrovisore, la Mamma disse: «Non hai idea di quant'è facile affittare uno di questi cosi». Imboccò la rampa d'accesso all'autostrada e disse: «Ci restano sei ore buone prima che la ditta di trasporti denunci il furto di questo catorcio». Lo scuolabus correva lungo l'autostrada, e accanto allo scuolabus correva la città, e quando le case cominciarono a diradarsi la Mamma gli disse di andare a sedersi accanto a lei. Da una borsa piena di roba tirò fuori una mappa, tutta ripiegata. Con una mano, la Mamma la scrollò e la stese sul volante, e con l'altra tirò giù il finestrino. Il volante lo manovrava con le ginocchia. Cominciò a fare su e giù con gli occhi dalla mappa al parabrezza e dal parabrezza alla mappa. Dopo un po' accartocciò la mappa e la buttò dal finestrino. Per tutto il tempo, lo stupido ragazzino rimase lì seduto senza far niente. Lei gli disse di prendere il diario rosso. Quando lui fece per darglielo, lei disse: «No. Aprilo su una pagina bianca». Gli disse di cercare un penna nel vano portaoggetti e di sbrigarsi, perché si stavano avvicinando a un fiume. La strada tagliò attraverso tante cose - case, fattorie, alberi - e di lì a poco i due si ritrovarono su un ponte che attraversava un fiume che correva a perdita d'occhio da entrambi i lati. «Su, svelto» disse la Mamma. «Disegna il fiume.» Come se quel fiume l'avesse appena scoperto lui, come se stesse scoprendo il mondo intero in quell'istante, disse la Mamma al ragazzino, disegna una nuova mappa, una mappa del mondo tutta tua. La mappa del tuo mondo. «Non voglio che accetti il mondo così com'è» disse. Disse: «Voglio che te lo inventi. Voglio che tu abbia questa capacità. Di creare la tua realtà. Le tue leggi. È questo che voglio tentare di insegnarti». Nel frattempo il ragazzino aveva preso una penna, e lei gli disse di disegnare il fiume sul diario. Disegna il fiume, e disegna quelle montagne là davanti. E poi dagli un nome, disse. Non con le parole che conosci già, ma inventandone di nuove che non significhino già un sacco di altre cose. Gli disse di creare i suoi simboli. Il ragazzino ci pensò su con la penna in bocca, poi aprì il diario e, un istante dopo, cominciò a disegnare tutto quanto. Ma la cosa assurda è che col tempo il ragazzino dimenticò tutto quanto. Passarono molti anni prima che la sua mappa venisse ritrovata dagli investigatori della polizia. Prima che lui si ricordasse che aveva fatto tutto ciò. Che ne era stato capace. Che aveva quel potere. E la Mamma osservò la sua mappa nello specchietto retrovisore e disse: «Perfetto». Guardò l'ora e premette il piede sull'acceleratore, e cominciarono a viaggiare più veloci, e lei disse: «Adesso scrivilo sul diario. Oggi ho disegnato il fiume sulla mia nuova mappa. E tieniti pronto, perché ci sono un sacco di altre cose a cui bisogna dare un nome». Disse: «Perché l'unica frontiera che ci rimane è il mondo dell'intangibile, le idee, le storie, la musica, l'arte.» Disse: «Perché la realtà non arriva mai dove può spingersi l'immaginazione». Disse: «Perché un giorno io non ci sarò più e la smetterò di assillarti». Ma la verità è che il ragazzino non voleva sentirsi responsabile di se stesso, del suo mondo. La verità è che quello stupido stronzetto stava già pensando a che scenata fare nel prossimo ristorante perché la Mamma venisse arrestata e sparisse per sempre dalla sua vita. Perché era stanco delle avventure, e pensava che la sua preziosa, noiosa, stupida vita sarebbe durata in eterno. Stava già scegliendo fra la tranquillità, la sicurezza, l'appagamento, e lei. Guidando lo scuolabus con le ginocchia, la Mamma allungò un braccio e gli strizzò una spalla, e disse: «Cosa ti va di mangiare?». E come se fosse una risposta del tutto innocente il ragazzino disse: «Hot dog».


CAPITOLO 48 Di lì a un minuto, due braccia mi cingono da dietro. Un investigatore della polizia mi stringe forte, premendomi entrambi i pugni sotto la gabbia toracica e sibilandomi all'orecchio: «Respira, cazzo! Respira!». Due braccia mi stringono, mi sollevano da terra, e uno sconosciuto mi sussurra: «Andrà tutto bene». Mi comprime l'addome. Qualcuno mi colpisce sulla schiena come fanno i dottori con i neonati, e dalla mia bocca vola via il tappo della bottiglia. Le viscere mi esplodono nei pantaloni, liberando le due palline di gomma e tutta la merda che ci si era accumulata sopra. Tutta la mia vita privata che di colpo diventa pubblica. Più niente da nascondere. La scimmia e le castagne. Un attimo dopo, mi accascio sul pavimento. Attacco a singhiozzare, mentre qualcuno mi dice che va tutto bene. Che sono vivo. Che mi ha salvato. Che per poco non morivo. Si tiene la mia testa appoggiata al petto e mi culla, dicendo: «Rilassati.» Mi appoggia un bicchiere d'acqua sulle labbra e dice: «Ssshhh». Dice: « È tutto finito».


CAPITOLO 49 Intorno al castello di Denny ci sono un migliaio di persone di cui io non mi ricordo, ma che di me non si dimenticheranno mai. È quasi mezzanotte. Puzzolente e fresco orfano e disoccupato e solo, mi faccio strada tra la folla fino a raggiungere Denny, al centro, e gli dico: «Ehilà». E Denny mi fa: «Ehilà». Guardando quella folla di persone, tutte con una pietra in mano. Dice: «Era meglio se non venivi». Da quando siamo finiti in tv, dice Denny, qui è un continuo va e vieni di gente sorridente che porta pietre. Pietre bellissime. Pietre da non credere. Granito, basalto già intagliato. Blocchi di arenaria e pietra calcarea. Vengono qui, e tutti quanti portano cemento, pala e cazzuola. E tutti quanti chiedono: «Dov'è Victor?». Sono così tanti che hanno riempito l'isolato e i lavori si sono fermati. Volevano tutti darmi la loro pietra di persona. Tutti questi uomini e queste donne chiedono a Denny e a Beth come me la passo. Dicono che alla tv sembravo uno straccio. E sufficiente che una sola di queste persone cominci a vantarsi di essere un eroe. Di aver salvato una persona. A raccontare di come ha salvato la vita a Victor. La mia vita. Il termine "polveriera" direi che rende l'idea. Lontano, ai bordi della folla, un eroe parla. Anche se è buio, la verità che serpeggia tra la folla si vede distintamente. La linea invisibile che separa chi ancora sorride da chi non sorride più. Chi ancora si sente un eroe da chi ha scoperto la verità. E la gente, privata del momento di cui andava più fiera, comincia a guardarsi intorno. Tutte queste persone ridotte in un attimo da salvatori a babbei, si innervosiscono. «Ti conviene alzare i tacchi, bello» dice Denny. La folla è così pigiata che non si vedono l'opera di Denny, le colonne e i muri, le statue e le scalinate. E qualcuno grida: «Dov'è Victor?». E qualcun altro grida: «Dateci Victor Mancini!». E una cosa è certa: me lo merito. Un plotone d'esecuzione. La mia famiglia molto, molto allargata. Qualcuno accende i fari di una macchina, e mi ritrovo contro un muro, investito da un fascio di luce. Con la mia ombra che incombe mostruosa su tutti quanti. lo, il piccolo burino illuso che pensava si potesse imparare abbastanza, sapere abbastanza, possedere abbastanza, correre abbastanza veloce, nascondersi abbastanza bene. Scopare abbastanza. Tra me e i fari ci sono le sagome di un migliaio di persone senza volto. Di tutte le persone che credevano di volermi bene. Che pensavano di avermi ridato la vita. La leggenda sul loro conto, svanita. Una mano si alza impugnando una pietra, e io chiudo gli occhi. Ho smesso di respirare, e le vene del collo mi si gonfiano. La faccia mi diventa rossa, incandescente. Sento un tonfo sordo ai miei piedi. Una pietra. Poi un altro tonfo. Un'altra dozzina di di tonfi. Un centinaio. Rumore di pietre, e la terra che trema. Pietre che cadono intorno a me, e tutti che gridano. È il martirio di San Me Stesso. Con gli occhi chiusi e umidi, la luce splende rossa attraverso le mie palpebre, attraverso la mia carne e il mio sangue. La mia spremuta d'occhi. Altri tonfi per terra. La terra trema e la gente grida per lo sforzo. Altre scosse, altro rumore di pietre che cadono. Altri insulti. E poi scende il silenzio. A Denny dico: «Denny?». Con gli occhi ancora chiusi, tiro su col naso e dico: «Dimmi cosa sta succedendo». E qualcosa di morbido e di cotone e dall'odore non molto pulito si richiude intorno al mio naso, e Denny dice: «Soffia, bello». Se ne sono andati tutti. Quasi tutti. Il castello di Denny, le mura sono crollate, le pietre spaccate e i frammenti sparsi tutt'intorno per la violenza del crollo. Sono cadute le colonne. I colonnati. I piedistalli, ribaltati. Le statue, fracassate. l cortili e le fontane sono pieni di pietre spaccate e di cemento, di macerie. Persino gli alberi sono stati travolti e spezzati dal crollo. Le scalinate semidistrutte non portano più da nessuna parte. Beth è seduta su una roccia, guarda una statua distrutta che Denny aveva scolpito con le sue sembianze. Non com'era nella realtà, ma come la vedeva lui. Bella come se la immaginava. Perfetta. Distrutta, adesso. Chiedo: c'è stato un terremoto? E Denny dice: «Fuochino. Un atto divino, sì, ma di un altro tipo». Non era rimasto in piedi niente. Denny tira su col naso e dice: «Puzzi da far schifo, bello». Non posso lasciare la città fino a nuovo avviso, gli dico. Me l'ha detto la polizia. Nella luce dei fari è rimasta la sagoma di una persona. Una piccola silhouette curva, che scompare non appena l'auto parcheggiata sterza e riparte, spostando il fascio di luce. Alla luce della luna, io e Denny e Beth andiamo a vedere chi è. È Paige Marshall. Con il camice macchiato e le maniche arrotolate. Il braccialetto di plastica al polso. Le scarpe bianche fradice.


Denny le va incontro e dice: «Ci scusi, c'è stato un grosso equivoco». E io gli dico: no, tranquillo. Lei non la pensa così. Paige si avvicina e dice: «Come vedi, sono ancora qui». I capelli neri sono sciolti, il suo piccolo chignon a forma di cervello. Ha gli occhi gonfi e tutti rossi, tira su col naso, si stringe nelle spalle e dice: «Perciò mi sa che sono pazza». Ci voltiamo tutti a guardare le pietre, quelle semplici pietre, quei pezzi marroncini di niente di speciale. Ho una gamba dei pantaloni fradicia di merda e ancora tutta appiccicosa, e dico: «Be'». Dico: «Mi sa che non è proprio destino che salvi qualcuno». «Aspetta a parlare.» Paige alza il braccio e dice: «Non è che me lo puoi togliere, questo braccialetto?». Le dico: certo. Possiamo provarci. Denny piglia a calci le pietre crollate, le rigira con il piede e dopo un po' si ferma e ne raccoglie una. Poi Beth va a dargli una mano. Paige e io ci guardiamo, guardiamo ciò che 1 altro è davvero. Per la prima volta. Possiamo passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Sani di mente o pazzi. Stinchi di santo o sessodipendenti. Eroi o vittime. A lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi. A lasciare che sia il passato a decidere il nostro futuro. Oppure possiamo scegliere da noi. E forse inventare qualcosa di meglio è proprio il nostro compito. Tra gli alberi, una tortore tuba triste. Dev'essere mezzanotte. E Denny dice: «Ehi, qui ci servirebbe una mano». Paige si incammina, io la seguo. Tutti e quattro infiliamo le mani sotto il bordo della pietra. Al buio è ruvida e fredda e a spostarla ci vuole una vita, e per appoggiarla sopra un'altra pietra dobbiamo sforzarci tutti insieme. «Conosci la storia di quella ragazza dell'antica Grecia?» dice Paige. Quella che disegnò la sagoma del suo innamorato? Sì, le dico. E lei dice: «Pare che alla fine si sia dimenticata di lui, e che abbia inventato la tappezzeria». È un po' inquietante, però eccoci qui: i Padri Pellegrini, gli scoppiati della nostra epoca. Cerchiamo di creare la nostra realtà alternativa. Di costruire un mondo partendo dalle pietre e dal caos. Cosa ne verrà fuori, non ne ho idea. E dopo tanto correre di qua e di là, eccoci qui: nel cuore del nulla e della notte. E forse saperlo serve a poco. Qui, in mezzo alle rovine e al buio, quello che stiamo costruendo potrebbe essere qualsiasi cosa.


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