inchiesta
FOTO: © carofei/agf
pericolo nero
fronte del
Tredici centrali per quasi 40 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. E altre rischiano di arrivare. Da Saline Joniche a Porto Tolle gli ambientalisti in campo contro il carbone di Francesco Loiacono
24
La nuova ecologia / ottobre 2011
coke
I
l nucleare, grazie alla schiacciante vittoria nei referendum di primavera, è andato finalmente in soffitta: rimane da gestire lo smantellamento delle centrali (vedi i servizi a pag. 31, ndr) e lo stoccaggio delle scorie che ci lascia in eredità la controversa stagione dell’atomo tricolore. Ma sulla via della rinnovabili gli ostacoli non sono finiti. Anzi. All’orizzonte si prepara l’offensiva delle grandi lobby energetiche che puntano ad occupare il mercato investendo sulle fonti fossili. «In Italia l’alternativa al nucleare è il carbone» si è del resto affrettato a dichiarare, subito dopo il 12 giugno, l’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti, che prospetta per questa fonte una crescita nei prossimi anni dal 14% al 20% dei consumi. Vietato abbassare la guardia, insomma. E non a caso gli ambientalisti si preparano a una nuova stagione di mobilitazioni lanciando per sabato 29 ottobre una grande manifestazione intorno alla centrale Polesine Camerini di Porto Tolle, nel Parco del Delta del Po, dove l’Enel punta da tempo a riconvertire al coke il vecchio impianto a olio combustibile.
l’appuntamento
Sit-in e presidi informativi. L’appuntamento per sabato 29 ottobre è intorno alle principali centrali che bruciano carbone e sui siti in cui si vorrebbero costruire. Tra i primi promotori Alternativa, Altramente, AltroVe, Arci, ASud, Cepes, Circolo culturale ambiente scienze, Comitato Energiafelice, Comitato sì alle rinnovabili no al nucleare, Coordinamento Veneto contro il carbone, Ecologisti Democratici, Fare Verde, Federconsumatori, Focsiv, Forum ambientalista, Greenpeace, Isde-Medici per l’Ambiente, Italia Nostra, Kyoto Club, Legambiente, Movimento difesa del cittadino, Movimento Ecologista, Otherearth, Rete della Conoscenza (Uds-Link), Slow Food, Wwf, Ya Basta-Rigas. Lanuovaecologia.it racconterà in diretta gli eventi principali.
✱
i Per adesioni: www.fermiamoilcarbone.it,
segreteria@fermiamoilcarbone.it
sentante di Legambiente nel comitato “Fermiamo il nucleare” – abbiamo promosso un comitato per la mobilitazione contro il carbone che adesso fa da ostacolo alle rinnovabili. Quello di Porto Tolle sarà il primo appuntamento».
Delta bollente
FOTO: © CASILLI/sINTESI
Proprio qui, sul Delta del Po, si consuma la battaglia forse più significativa intorno all’utilizzo del carbone. Da una parte ci sono Enel, Regione Veneto e governo affiancati da un comitato di lavoratori della centrale che temono per il proprio futuro occupazionale. Dall’altra il comitato locale dei cittadini di Porto Tolle che insieme a Greenpeace, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e altre associazioni si oppongono alla riconversione proponendo di alimentare la centrale a gas metano. Un conflitto che si trascina ormai da quasi un decennio fra blitz, carte bollate e anche una condanna per gli ex-vertici dell’Enel, nel gennaio scorso, per emissioni moleste, danneggiamento all’ambiente e violazione della normativa in materia di inquinamento atmosferico causato dall’impianto quando era alimentato a olio combustibile. Durante gli ultimi mesi
Parallelamente altri presidi si svolgeranno presso i siti su cui insistono, o dovrebbero insistere, le centrali a carbone del Belpaese: 13 impianti per circa 37 milioni di tonnellate (Mt) di CO2 l’anno (dati 2010) più altri sei che rischiano di aggiungere al conto ulteriori 28 Mt di gas climalterante. Tanto da fare dell’Enel, con circa 40 Mt complessive, il principale emettitore italiano di CO2, in larga parte (26 Mt) a causa proprio del coke. «Dopo la vittoria contro l’atomo – annuncia Maria Maranò, rappre-
«MA PER NOI SIGNIFICA LAVORO» La posizione della Cgil secondo Fulvio Dal Zio,
segretario della sezione di Rovigo
I
In Polesine, nel cuore del parco del Delta del Po, nella più grande zona umida e Sic Zps d’Europa, la centrale Enel di Porto Tolle ha funzionato per 25 anni a olio combustibile, adesso chi spinge per la sua riconversione a carbone esibisce come motivo la mancanza di lavoro. Fra questi le associazioni sindacali. «Il Polesine sta vivendo una situazione difficile – spiega Fulvio Dal Zio, segretario provinciale della Cgil di Rovigo – Sono aumentati i fallimenti, soprattutto nella piccola e media impresa. Quello di Enel è uno degli investimenti più importanti in Italia, darà lavoro e potrà essere un volano di sviluppo. Una volta che sarà a regime, sarà un sito industriale importante per il territorio con 800 persone tra diretti e indiretti e porterà in Polesine ben 150 milioni di euro in dieci anni, 340 Una volta a milioni in 40 di esercizio». regime la centrale
sarà un volano per
Già, ma l’impatto lo sviluppo. E non ambientale? c’è incompatibilità Ritengo che la tecnologia con il territorio proposta possa soddisfare le esigenze ambientali, credo che nessuno voglia lavorare con un alto rischio d’inquinamento. Per questo è necessario un osservatorio ambientale indipendente che possa tenere sotto controllo la situazione in qualsiasi momento, con strutture sanitarie idonee. Non crede che il turismo possa essere penalizzato dalla presenza della centrale? Malgrado ci fosse una centrale a olio combustibile, molte attività sono cresciute, come la pesca e la mitilicoltura, il turismo a Rosolina, oltre ad avere un’isola d’elite che è Albarella. Non c’è incompatibilità tra centrale e territorio: sostenerlo è una forzatura e la politica sul Delta del Po porta la responsabilità di non aver ancora chiarito questo punto. E se alla fine la riconversione non si dovesse fare? Si aprirebbe un problema, perché la bonifica è stata vincolata alla procedura di Via della riconversione: la dismissione può avvenire solo contestualmente al passaggio al carbone. Altrimenti si dovrebbe aprire una nuova procedura di bonifica. Attualmente la centrale, pronta ad entrare in funzione in caso di emergenza, dà lavoro a qualche centinaio di persone. La riconversione è un investimento che deve essere fatto. (Nicola Cappello)
ottobre 2011 / La nuova ecologia
25
inchiesta pericolo nero
saline protesta in europa In Svizzera una manifestazione contro la compagnia che vorrebbe costruire l’impianto in Calabria
I
Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club. A lato la centrale di Brindisi Sud, il sito italiano che emette più CO2
26
L’intervento di Nuccio Barillà durante la manifestazione internazionale di Coira http://tinyurl.com/3ptr4kf
per la Calabria, una regione che esporta energia per una quota del 50% rispetto alla produzione – spiega Nuccio Barillà, del direttivo nazionale di Legambiente e in rappresentanza del coordinamento “No al carbone” delle associazioni dell’area grecanica – Il sito scelto da Repower (che partecipa come socio di maggioranza alla società Saline energie joniche, ndr) è un tratto di costa tra i più suggestivi
poi il braccio di ferro ha toccato un nodo cruciale. A maggio, infatti, il Consiglio di Stato aveva bloccato i lavori di riconversione annullando la Via concessa dal ministero dell’Ambiente poiché non rispettava l’articolo 30 della legge istitutiva del Parco. Quello secondo il quale «tutti gli impianti di produzione di energia elettrica presenti nel territorio dei comuni interessati al parco del Delta del Po, dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative non inquinanti». Come dire: per il carbone da queste parti non c’è spazio. Il governo invece è intervenuto approvando, nella manovra di luglio, un articolo “ad centralem” per superare la sentenza: il testo consente di derogare alle leggi regionali che condizionino o limitino la riconversione delle centrali ad olio combustibile
La nuova ecologia / ottobre 2011
dell’Italia meridionale, dove esistono aree a protezione speciale o siti d’interesse comunitario, ed è tappa degli uccelli che migrano dall’Africa verso l’Europa». Inoltre la Regione Calabria, che ha espresso tramite un voto unanime del Consiglio la sua contrarietà alla centrale, ha approvato un Piano energetico che fa assoluto divieto dell’utilizzo del carbone per fini energetici e punta sulle fonti rinnovabili.
da alimentare a carbone. Un colpo basso perfezionato dalla Regione Veneto, governata da Luca Zaia, che ha modificato la legge istitutiva del Parco aprendo la strada alla fonte fossile. «Se i rappresentanti del popolo modificano una norma per dare ragione a una delle due parti in causa, lo Stato di diritto vacilla» spiega senza troppi giri di
parole Matteo Ceruti, l’avvocato che difende da sempre le ragioni degli ambientalisti. La situazione adesso è di stallo: «È ricominciata una procedura di Valutazione di impatto ambientale – prosegue – Si presume che la commissione competente debba esprimersi entro le prossime settimane ma non sappiamo se l’Enel ha presentato
FOTO: © condorelli/ agf
l movimento italiano contro il carbone stringe alleanze all’estero. Lo scorso 27 agosto alcuni rappresentanti di Legambiente hanno partecipato a una grande manifestazione internazionale contro il carbone a Coira, in Svizzera. Nella città del Canton dei Grigioni, gli ambientalisti elvetici hanno manifestato dietro lo striscione “Kein Kilmanschaden aus Graubunden, Repower kolhe kraftwerke ade!”, ovvero “Dai Grigioni non deve partire nessun danno all’ambiente, stop all’energia fossile della Repower!”. Gli ambientalisti transalpini non vogliono concorrere all’inquinamento del pianeta, dal momento che il Cantone dei Grigioni partecipa con una quota del 46% in Repower, l’azienda svizzera che vuol costruire una centrale nel nord della Germania, a Brunsbuttel, e una in Italia, a Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria. I due nuovi impianti emetterebbero, secondo gli ambientalisti, una quantità di CO2 superiore al 40% delle emissioni dell’intera Svizzera. «Realizzare una centrale a carbone a Saline Joniche è una follia e un paradosso
nemiche del clima Le emissioni di CO delle centrali italiane a carbone (dati 2010) 2
Centrale
Società
Brindisi Sud
Enel
Civitavecchia (Rm) Enel
Potenza (MW)
2.640
1.980
Limiti (Mt CO2)
Emissioni (Mt CO2)
9,7
10,9
Detiene il record per le emissioni nazionali di CO2, più di qualunque sito industriale. Nel 2008 i terreni circostanti sono stati interdetti dalla produzione food a causa delle contaminazioni con le polveri disperse durante il trasporto. La riconversione al no-food è ancora incompiuta.
4,2*
È composta da tre gruppi riconvertiti da olio combustibile in funzione rispettivamente dalla fine del 2009, da gennaio e da settembre 2010. 6,4 Il decreto per gli impianti “nuovi entranti” (72/2010) assegna alla centrale circa 4,2 Mt di CO2 di quote gratuite. Per l’anno in corso l’azienda prevede che le emissioni raggiungano i 9 Mt.
Fusina (Ve)
Enel
1.100
3,6
Si trova all’interno della zona industriale di Porto Marghera, brucia prevalentemente carbone ma in una delle cinque sezioni anche olio combu2,6 stibile. Utilizza inoltre Cdr, ma la produzione dallo scorso anno è stata ridimensionata a causa della riduzione della domanda.
Vado Ligure (Sv)
Tirreno Power
1.460
3,8
4,3
2,6
Nel 2003 due dei quattro gruppi a olio combustibile sono stati convertiti a carbone, anche gli altri due dovrebbero essere sostituiti da un gruppo 3,6 a carbone incrementando le emissioni di circa 1,7 Mt di CO2. La società però temporeggia temendo che i ritorni economici, a causa della crisi dell’industria sarda, non giustifichino l’investimento.
1.200
2,7
Nel 1990 un referendum aveva stabilito al 2005 la sua dismissione. Quella data però è stata abbondantemente superata e la centrale rimane in attività con due gruppi da 320 MW a turbogas e uno a carbone da 3,1 600 MW. La mobilitazione dei cittadini prosegue anche in vista dell’Autorizzazione integrata ambientale attesa già dal 2007 e sottoposta a continue proroghe.
1280
1,2
1,3
Fiume Santo (Ss)
E. On
La Spezia
Enel
Brindisi Nord
Edipower
410
Nonostante si trovi praticamente al centro della città è stato pianificato un ampliamento da 460 MW che causerebbe, oltre a un ulteriore inquinamento su scala locale, altri 2,4 Mt di CO2. I cittadini e anche diversi enti locali si oppongono.
Tiene solitamente in esercizio metà dell’impianto e lavora spesso a singhiozzo visti gli alti costi di produzione.
Sulcis (Ci)
Enel
720
2,1
Nell’area industriale vi sono quattro unità produttive, due a olio risalgono agli anni ’60 (ora in riserva) e una a carbone/olio all’86. Nel 2006 è entrata in funzione una nuova unità a carbone dell’Enel da 350 MW. L’area 1,8 è piuttosto congestionata e si trovano difficoltà a stoccare le ceneri nelle discariche locali. Tutto il comparto produce meno delle potenzialità a causa della forte crisi del comparto metallurgico.
Monfalcone (Go)
A2A
970
1,5
1,7
La società milanese l’ha acquistata nel 2010 dai tedeschi di E.On presentando un progetto che prevede, fra l’altro, la dismissione dei vecchi gruppi a olio combustibile e la sostituzione dei due gruppi a carbone con uno ad alto rendimento.
Genova
Enel
300
1,1
0,6
L’Enel ha presentato lo scorso anno un piano di dismissione da concludersi entro il 2017 visto che non è stato possibile, come previsto nel decreto di Autorizzazione integrata ambientale rilasciato due anni fa, adeguare l’impianto alle migliori tecnologie disponibili.
Bastardo (Pg)
Enel
150
0,6
Si trova nell’entroterra umbro, dove il carbone arriva prima su rotaia e poi su gomma. La zona è caratterizzata da produzioni agricole e vini0,3 cole di eccellenza, nonostante i preoccupanti dati epidemiologici sulla popolazione rimane in attività.
Marghera (Ve)
Enel
140
0,5
0,5 olio combustibile. I fumi passano attraverso filtri per l’abbattimento delle
Brescia
A2A
130
0,4
0,2
TOTALE
34,0
37,3
È in funzione dal 1952 nella zona industriale, si alimenta a carbone e polveri ma non esistono sistemi per eliminare NOx e SO2.
Costruita fra il 1976 e il 1988 la centrale Lamarmora può utilizzare in uno dei tre turbogruppi anche carbone.
Le cifre in rosso indicano gli sforamenti. * La quota è assegnata dal decreto-legge del 20 maggio 2010 per gli impianti “nuovi entranti”. Elaborazione Legambiente / La Nuova Ecologia su dati del Community Transaction Log della Commissione europea ottobre 2011 / La nuova ecologia
27
inchiesta pericolo nero
una documentazione integrativa. Inoltre il parere sarà dato senza riascoltare le amministrazioni locali coinvolte. Siamo comunque pronti a fare ricorso nel caso la prossima Via non dovesse tener conto delle alternative, come il metano». Al Tar del Lazio pende inoltre un ricorso contro il decreto di autorizzazione unica emesso all’inizio dell’anno dal ministero dello Sviluppo. E ancora, per completare il quadro della vertenza, le amministrazioni regionali possono ricorrere alla Consulta contro la norma approvata a luglio: potrebbe farlo, ad esempio, la confinante Regione Emilia Romagna, che ha già espresso il proprio no alla riconversione.
Costi drogati
Sei nuovi siti e quasi 30 milioni di tonnellate in più di C022 Centrale
Società
Stato
Fiume Santo (Ss)
E. On Tirreno Power
Autorizzata In attesa del decreto di autorizzazione In attesa del decreto di autorizzazione In attesa del decreto Via
Vado Ligure (Sv) Porto Tolle (Ro)
Enel
Saline Joniche (Rc)
Sei
Rossano Calabro (Rc)
Enel
In procedura di Via
Sulcis (Ic)
Enel
Ipotizzata
Totale
28
La nuova ecologia / ottobre 2011
Potenza (MW) 410
Emissioni previste (Mt CO2) 1,7
460
2,4
1.980
10,3
1.320
7,5
1.200
6,7
n.d.
n.d. 28,6
Sotto, un sit-in di protesta contro la centrale di Civitavecchia
FOTO: © merlini/lapresse
Ma la battaglia contro il carbone va ben oltre il sito rodigino. Negli altri cinque territori destinati a ospitare nuovi impianti, riconversioni o ampliamenti (Fiume Santo
gli impianti in progetto
e il Sulcis in Sardegna, Vado Ligure in Liguria, Saline Joniche, dove l’impianto dovrebbe sorgere ex novo, e Rossano in Calabria) la mobilitazione è già elevata, anche a causa dei rischi per la salute che comporta il cocktail di inquinanti emessi dalla combustione: arsenico, cromo, cadmio, mercurio... A Civitavecchia un incendio divampato ad agosto da un trasformatore, con la nube che si è sparsa su tutta la città, ha rianimato il fronte no-coke sollevando nella popolazione gli interrogativi sulla sicurezza. Mentre altrove sono i numeri a dimostrare l’iniquità di questa scelta: a fronte di una produzione del 14% di elettricità, nel 2010 gli impianti a carbone hanno emesso il 30% dei gas serra del settore termoelettrico e sforato i limiti europei di oltre tre milioni di tonnellate di CO2. «Ma quando l’economia riprenderà a correre c’è da credere che lo sforamento sarà ancora maggiore» spiega Giorgio Zampetti, coordinatore dell’Ufficio scientifico di Legambiente. Anche perché fra i dieci impianti più inquinanti d’Italia, riporta il dossier dell’associazione Carbone, un ritorno al passato, figurano proprio quattro centrali termoelettriche alimentate a carbone: Brindisi Sud, Fusina-Venezia, Fiume Santo-Sassari e Vado Ligure.
E se qualcuno crede che la tecnologia per il sequestro del carbonio, che l’Enel sta sperimentando a Brindisi Sud, possa rappresentare una soluzione si sbaglia di grosso: «L’efficacia e l’impatto ambientale di questa tecnologia sono ancora da valutare, le sperimentazioni vanno a rilento in tutta Europa – spiega Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto club e del bimestrale QualEnergia – Senza contare che tutte le valutazioni indicano che non si avrà uno stoccaggio a prezzi competitivi prima del 2030». È proprio dal punto di vista economico che le contraddizioni sono evidenti: uno studio dell’istituto di ricerche McKinsey del 2009 dice che i costi per catturare la CO2 sono talmente proibitivi da richiedere l’intervento dello Stato con l’erogazione di sussidi. La Commissione europea ha stimato intorno ai 3 miliardi di euro l’anno gli aiuti dei governi per il carbone. Due di questi sono peraltro destinati alla Germania, un modello per i sostenitori del carbone, dove ancora oggi il 50% dei consumi energetici, nonostante l’ascesa delle rinnovabili, è soddisfatto dal coke. Dopo quella del nucleare sicuro, insomma, ecco un’altra bufala: quella del carbone pulito e conveniente. Gli ambientalisti sono pronti a smascherarla. n
inchiesta
pericolo nero
attivo nelle rinnovabili – All’epoca si ottimizzava la costruzione dei reattori e la cultura di inserire la fase di decommissioning nella progettazione è arrivata dopo».
FOTO: © arianna catania
se i conti non tornano
e adesso smontiamole Il decommissioning delle quattro centrali dismesse costa quasi 20 miliardi di euro. Pagheranno gli italiani di Sergio Ferraris
E
vitato il pericolo di veder “fiorire” reattori atomici anche nel giardino di casa grazie al risultato del referendum, il problema del nucleare in Italia rimane. Già, perché i quattro vecchi reattori nostrani – Caorso, Trino, Latina e Garigliano – nonostante la bocciatura popolare rimangono a testimoniare che è molto più semplice non entrare nel nucleare che uscirne. E a dimostrazione di ciò ci sono i tempi e i costi, assolutamente non certi, dello smantellamento. Su quale sia la situazione dei lavori e quale sarà l’importo che andremo a sborsare per mettere
in sicurezza l’ingombrante eredità atomica non è dato saperlo ora, e forse sarà difficile anche in futuro. Il decommissioning, termine tecnico per indicare lo smantellamento dei reattori è una pratica “artigianale” da realizzare caso per caso, resa difficile dalla concezione stessa dei vecchi reattori: sono circa 80 le centrali messe fuori servizio a livello mondiale, tutte di piccole dimensioni, e quelle smantellate si contano sulle dita di una mano. «Quando realizzavamo i reattori di seconda generazione nessuno pensava al loro smantellamento – afferma Alex Sorokin, ingegnere ex progettista di centrali nucleari, ora
Alex Sorokin, ingegnere ex progettista di centrali nucleari
Ma come si finanzia il decommissioning? In Italia il meccanismo previsto per finanziarlo è stato per anni l’accantonamento sul prezzo di vendita del kWh nucleare con il quale durante il periodo 1962-1999 Enel ha alimentato due fondi. Uno per lo smantellamento degli impianti, l’altro per il trattamento del combustibile nucleare. Un sistema basato sull’ottimismo, che non prevedeva l’interruzione anticipata dell’attività avvenuta a causa del referendum per tre centrali, mentre al Garigliano lo stop è arrivato nel 1978, dopo soli quattordici anni di attività, a causa di un guasto ufficialmente non conveniente da riparare. Nel 1999, quando Enel si è disfatta del fardello atomico per passarlo alla Sogin, la società ex Enel divenuta proprietaria delle centrali e che ha la missione di smantellarle, ecco che ci si accorge che i conti non tornano. I 1.538 miliardi di vecchie lire accantonati (794 milioni di euro) sono infatti una cifra assolutamente sballata in partenza, specialmente se si pensa che sarebbero dovuti servire anche per gli impianti “accessori” della filiera atomica. Ma anche se si fosse trattato solo delle quattro centrali saremmo stati ben al di fuori degli standard europei. Un report del 2002 redatto dall’Agenzia atomica internazionale (Aiea) riporta costi diversi. Per il decommissioning degli obsoleti reattori VVER 440 da 440 MWe, sviluppati dall’Unione Sovietica, l’Aiea stima che la cifra necessaria sia di un miliardo di euro, nel caso del reattore di Greifswal in Germania 2,27 milioni di euro a MWe. I 794 milioni di euro accantonati in Italia, divisi per i 1.480 MWe delle nostre centrali, avrebbero fatto 0,53 milioni di euro a MWe: meno del 25% della cifra stanziata dai tedeschi. A questo ottobre 2011 / La nuova ecologia
31
inchiesta pericolo nero
Conti e tempi
Il totale quindi fa 6,5 miliardi, ossia 4,39 milioni a MWe installato: oltre otto volte la cifra accantonata da Enel. Ma si tratta di un conto approssimato per difetto, dato che nei crono programmi pubblicati dalla Fondazione Einaudi alcune attività, specialmente per centrale di Latina, la più complicata da smantellare per la presenza di 2.200 tonnellate di grafite alta32
La nuova ecologia / ottobre 2011
saluggia fa il pieno
mente radioattiva, il rilascio del sito dovrebbe avvenire nel 2024. Potremmo pensare allora di aver messo la parola fine all’avventura nucleare staccando un assegno da 6,5 miliardi, miliardo più miliardo meno? No, perché all’appello manca il deposito nazionale, che afferma Sogin: «Consentirà la sistemazione definitiva di circa 80.000 metri cubi di rifiuti di prima e seconda categoria e la custodia temporanea per circa 12.500 metri cubi di rifiuti di terza categoria (quelli radioattivi per migliaia di anni, ndr)». Alla luce di tutto ciò alcuni esperti del panorama energetico spostano verso l’alto l’asticella dei costi, portandola tra i 17 e i 20 miliardi di euro. Ma non è finita qui, perché
In attesa del deposito definitivo, gran parte delle scorie italiane si trova nel sito piemontese. Dove la Sogin vuol costruire il D2 di Maurizio Bongioanni
I FOTO: © sogin
punto è stato necessario far cassa, e mentre Enel si defilava per finanziare Sogin si decideva di mettere il decommissioning nelle bollette degli italiani per venti anni, 285 milioni di euro accantonati solo nel 2010, adeguando il balzello ogni anno in base ai programmi presentati dalla stessa Sogin. Ed ecco che magicamente in un rapporto del 2008 sul decommissioning italiano redatto dalla Fondazione Einaudi, il fabbisogno complessivo sale a 4,3 miliardi di euro, ossia 2,9 milioni di euro a MWe: una cifra molto simile a quella tedesca del 2002. Fine dell’esborso? No. Da Sogin fanno sapere che sono stati spesi 1,7 miliardi di euro, ma ne occorreranno altri 4,8 per tagliare il traguardo del “green field”, il prato verde, fine ideale dei siti nucleari al 2020. «Bisognerebbe chiarire come sono stati spesi i soldi fino a oggi – afferma Massimo Scalia, docente di Fisica alla Sapienza ed ex membro della commissione tecnico scientifica per la sicurezza nucleare – La prima relazione 20022004 di Sogin fu criticata dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas perché i costi erano aumentati del 30% ed era tutta spesa corrente, ossia per il personale. Il bilancio 2004-2006 è andato peggio, e visto che l’attività in questo decennio è stata minima è lecito pensare che la quota maggioritaria di questi 1,7 miliardi sia stata usata da Sogin per la struttura».
per la terza categoria di scorie il deposito nazionale non basta, serve quello geologico che ancora non esiste in nessun paese. E non sarà un conto leggero, se si considera che uno dei primi tentativi di realizzare un deposito permanente a Yucca Mountain, negli Usa, è stato abbandonato dopo la scoperta di possibili infiltrazioni d’acqua e della sismicità della zona: 9 miliardi di dollari buttati al vento. Costerà, invece, almeno tre miliardi di euro mettere in sicurezza in venti anni i 126.000 bidoni di scorie del deposito di Asse in Germania, che considerato sicuro si è rivelato invece un colabrodo nel quale piovono 12.000 litri d’acqua al giorno. Acqua che mischiandosi al sale sta corrodendo i bidoni radioattivi e le tasche dei tedeschi. Lo stesso può succedere alle nostre tasche. n
n Italia non esistono impianti nucleari come quello di Marcoule, con il forno per la fusione di rifiuti a bassa radioattività, protagonista dell’incidente francese avvenuto il 12 settembre in cui un operaio ha perso la vita. Però l’Italia deve sistemare 80.000 metri cubi di scorie di prima e seconda categoria più 12.500 di terza e per farlo non ha ancora indicato né un deposito nazionale temporaneo né uno permanente per la terza categoria. Continua invece a progettarne di temporanei in varie località del paese facendo così lievitare la voce dei costi e dei rischi. A Saluggia, in provincia di Vercelli, in passato sono state trasportate barre radioattive prodotte dalle centrali nucleari italiane quando erano in funzione e in parte provenienti dall’estero. Adesso una parte di questi rifiuti è stata trasferita in Inghilterra per la vetrificazione e in Francia per il riprocessamento ma i rifiuti radioattivi prodotti torneranno in Italia tra il 2020 e il 2025. A quel punto ci si porrà la stessa domanda: dove mettere questi scarti? Il 18 luglio 2011 la Sogin ha iniziato i lavori di costruzione di un nuovo deposito temporaneo, chiamato D2, dopo aver intitolato al grande chimico Avogadro il precedente reattore sperimentale
L’Italia deve sistemare 12.500 metri cubi di scorie di terza categoria. Sopra Gian Piero Godio, di Legambiente. A destra, un’operazione di caricamento delle scorie, nella pagina seguente la centrale di Caorso
FOTO: © sogin
chiarata dalla Regione Piemonte, già nel 2000, “area non edificabile”. Nel 2005, per ottenere l’autorizzazione, la Sogin ricorse a due ordinanze dell’allora commissario per la Sicurezza nazionale Carlo Jean. Lo stesso Jean, generale in pensione, che mentre era commissario ed emanava ordinanze in deroga alle leggi, era presidente della Sogin stessa. L’ordinanza permetteva alla Sogin di scavalcare il piano regolatore del Comune, ma nonostante questo il cantiere non partì nel periodo fissato nei termini di legge (un anno). Nel 2009 la Sogin chiese, e ottenne tempestivamente dal servizio tecnico urbanistico comunale, una proroga del termine di ultimazione lavori. Solo nell’ottobre 2008 la società pubblicò il bando d’appalto. Mancava ancora l’ok definitivo del ministero ma si sapeva già l’importo (12 milioni di euro circa), la durata dell’appalto (635 giorni) e la scadenza di partecipazione alla gara (17 novembre 2008). Il 4 giugno 2010, 19 mesi dopo la scadenza, il bando veniva dichiaraNel video le ragioni per to deserto. Così venne cui Legambiente si oppone pubblicato sulla Gazalla costruzione del nuovo zetta Ufficiale Eurodeposito pea un nuovo bando, pressoché identico al precedente salvo che per alcune variazioni: 15,7 milioni di euro in 560 giorni, 3,7 milioni di euro in più per costruire un deposito temporaneo. Anche le misure non erano più le stesse: se nel 2006 il D2 era stato indicato come un deposito di 76 metri di lunghezza per 14 di altezza, nel 2010 diventava di 86 per 13. Inoltre, nel novembre 2009 era stato dichiarato che il deposito avrebbe contenuto rifiuti di basso livello (II categoria), ma sul bando del 2010 si legge che troveranno riparo anche i rifiuti di III categoria. Per questi nuovi “dettagli” mancavano il parere dell’Ispra, la relativa autorizzazione mini-
area a rischio. «L’impianto precedente è già stato alluvionato due volte. Il livello dell’acqua è più alto di quello degli impianti – spiega Giampiero Godio – È una pazzia costruirne un altro nello stesso luogo».
diventato l’attuale deposito incapace di ospitare tutte le scorie. La Sogin e il ministero dello Sviluppo economico non hanno mai chiarito se il D2 servirà per immagazzinare anche le scorie che rientreranno dall’estero.
Deroghe e variazioni
È innanzitutto l’iter di approvazione che fa discutere. «Dal punto di vista burocratico – dichiara Fran-
co Pozzi, ex direttore dell’impianto Eurex di Saluggia – il D2 non si può costruire se non c’è la variante al Pgr che renda edificabile l’area. Quando la Sogin ne ha fatto richiesta la popolazione si oppose fortemente e il Comune non la concesse. Invece la proroga data per l’inizio dei lavori è illegittima, tant’è che esiste un ricorso pendente al capo dello Stato». L’area di destinazione del nuovo deposito era stata di-
ottobre 2011 / La nuova ecologia
33
inchiesta
Avanti il prossimo
pericolo nero
di Stefano Ciafani*
steriale e il parere della Commissione europea. Il Comune perciò aveva sospeso alla fine di luglio i lavori con un’ordinanza, poi però la Sogin ha presentato le proprie controdeduzioni e l’amministrazione ha sbloccato l’opera.
Pericolo inondazioni
Ma i dubbi sul deposito non si fermano all’iter di approvazione. «Il D2 non serve a nulla – aggiunge l’ex direttore dell’impianto Franco Pozzi – perché andrebbe a ospitare quei rifiuti che già ora sono stoccati in maniera provvisoria: perché fare un deposito più grande, sempre provvisorio, nello stesso luogo? Carlo Jean diceva che ora come ora i rifiuti non sono al sicuro, ma non credo sia questa la vera ragione». Con molta probabilità non esiste un luogo sicuro dove stoccare le barre esauste, ma un “cimitero di scorie” dovrebbe trovare posto lontano dall’acqua e su uno strato geologico impermeabile. Non si capisce perché il D2 dovrebbe sorgere in un triangolo di terreno inedificabile tra la Dora Baltea, che è il più grande affluente del Po, il canale Cavour che irriga le risaie del Vercellese e il canale Farini, che alimenta a sua volta il Cavour. «Si ripete lo stesso errore – tuona Gian Piero Godio di Legambiente – Quest’area nucleare è già stata alluvionata nel ‘93, nel ‘94 e nel 2000. A ogni piena il fiume raggiunge un livello più alto di quello del terreno sul quale si trovano gli impianti. Inoltre nel 34
La nuova ecologia / ottobre 2011
sottosuolo scorrono le falde acquifere più importanti del Piemonte: posto più infelice non poteva essere trovato. È una pazzia costruirne un altro nel medesimo luogo». Intanto il ministero ha autorizzato la costruzione di un altro deposito, il D3, che dovrà ospitare le scorie presenti a Saluggia (quelle attualmente allo stato liquido) dopo essere state “solidificate” nell’impianto Cemex, anch’esso progettato ma non ancora costruito. Essendo l’area inedificabile, per la realizzazione del Cemex ed eventualmente dell’annesso deposito D3, è necessaria una variante al piano regolatore di Saluggia. «L’aspetto più scandaloso dell’intera vicenda – aggiunge Umberto Lorini, direttore del giornale locale la Gazzetta – è che la cosiddetta “emergenza nucleare” è finita da anni: il governo dal 2006 non l’ha più rinnovata ma Sogin continua a voler utilizzare le deroghe alle leggi e ai piani regolatori ottenute a quel tempo, sebbene anche il ministero dica che “si deve tornare alle procedure ordinarie”. Questa società a intero capitale pubblico, siccome il governo non ha individuato il sito ove realizzare il “deposito definitivo”, sta spendendo decine di milioni di euro per costruire depositi “temporanei” nei siti dei vecchi impianti. Eppure anche i nuclearisti, con il senno di poi, ammettono che costruire impianti nucleari a Saluggia è stato un errore. Ora, costruendo in quel sito nuovi depositi si persevera». n
Archiviata l’opzione nucleare grazie alla vittoria del referendum del 12 e 13 giugno, è arrivato il momento di mobilitarsi contro l’uso del carbone per produrre elettricità. Una fonte fossile nota per essere la più inquinante per le emissioni di gas serra, ha emissioni specifiche di CO2 doppie rispetto al gas, ma che è un problema anche sanitario per le ricadute di inquinanti locali che inevitabilmente fuoriescono dai grandi camini delle centrali termoelettriche. Una fonte il cui costo più basso, peraltro in aumento negli ultimi anni a causa dei consumi dei paesi emergenti, è dovuto anche alle condizioni di lavoro pessime che caratterizzano la maggior parte delle miniere nel mondo. E che non serve a ridurre la dipendenza energetica dall’estero, visto che arriverebbe tutto da fuori Italia. La mobilitazione deve
partire dai territori che Parte la rischiano la riconversione di mobilitazione vecchie centrali a olio (Porto per evitare Tolle sul Delta del Po e di passare Rossano Calabro in provincia dalla padella di Cosenza) o l’arrivo di del nucleare una nuova centrale (Saline alla brace Joniche in Calabria), ma che del carbone deve estendersi anche alle 13 aree dove sono già attivi impianti termoelettrici al carbone: dal più recente, quello di Civitavecchia nel Lazio, a quelli più datati, come ad esempio le due centrali di Brindisi o le tre liguri di Genova, La Spezia e Vado Ligure o la centrale umbra di Bastardo. L’obiettivo del variegato schieramento
“no coke” che stiamo costruendo con le altre associazioni è evidente: abbandonare i progetti di riconversione a carbone e dismettere gradualmente le centrali che già usano il combustibile killer del clima, per permettere all’Italia di contribuire alla lotta mondiale ai cambiamenti climatici. In questo modo ci eviteremo anche il salasso economico causato dallo sforamento degli obiettivi di riduzione di anidride carbonica previsti da Kyoto e dal 20-2020 europeo, e potremo perseguire l’obiettivo – che la Germania si è già data – di produrre al 2050 elettricità solo dalle fonti rinnovabili. Un obiettivo raggiungibile grazie alla loro diffusione e a uno straordinario lavoro sull’efficienza, e passando per il gas come fonte fossile di transizione. Questa è l’unica strada da seguire. Per evitare al nostro paese di passare dalla padella del nucleare alla brace del carbone. * responsabile scientifico nazionale di Legambiente