SOMMARIO
Mario Schrwarz Le origini della Hofburg di Vienna: un castello federiciano Marco Rosario Nobile La cattedrale di Alghero. Note e ipotesi sul primo progetto
Edizioni Caracol
Fulvia Scaduto Editoriale
LEXICON Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo
Isabella Balestreri Dettagli dall’antico del quarto decennio del XVI secolo. I Maestri «PS» e «GA col Tribolo» alla Biblioteca Ambrosiana Fulvia Scaduto Carlo V e la città di Alcamo Antonella Armetta L’ultima frontiera della stereotomia. Note su alcuni trattati della prima metà del XIX secolo sui ponti “obliqui” Paola Barbera «Il fascino del distinto, l’attrazione per qualcosa che si vorrebbe essere e non si è». Echi della lezione wrigthiana in Sicilia PIETRE PER L’ARCHITETTURA Emanuela Garofalo Le lave. Gli usi ornamentali nell’architettura storica in Sicilia DOCUMENTI Rosario Termotto Intagliatori lapidei tra Cinquecento e Seicento nel complesso domenicano di Cefalù. Nuovi documenti di archivio
Maria Sofia Di Fede Il Monte Etna in una macchina dei fuochi del 1693 a Palermo
Giuseppe Antista Architetture siciliane nei disegni degli allievi dell’École des Beaux-Arts di Parigi Matteo Iannello Un’intervista “inutile”. Gianni Pirrone incontra Carlo Scarpa
n. 14/15 - 2012
Giuseppe Giugno La cappella di Sant’Ignazio di Loyola nella chiesa di Sant’Agata a Caltanissetta. Nuove acquisizioni documentarie
LEXICON
Massimo Petta Il “Monte Etna” a Milano e a Roma: il vulcano pirotecnico come scenografia per i fuochi d’allegrezza nel Seicento
Abstracts
€ 30,00
ISSN: 1827-3416 ISBN: 978-88-89440-88-9
Edizioni Caracol
n. 14/15 - 2012
Le Lave In Sicilia l’attività vulcanica si è susseguita nel tempo dando luogo a estesi affioramenti di vulcaniti a partire dal Mesozoico. Nella maggior parte dei casi l’aspetto macroscopico, determinato dai processi di solidificazione del fuso magmatico, è dato dalla presenza di numerosi fenocristalli di dimensioni millimetriche immersi in una pasta di fondo di colore da grigio scuro a grigio chiaro o a volte rossastro, formata da microcristalli o da vetro vulcanico. I cristalli sono formati da plagioclasi (bianchi), pirosseni (neri) o olivine (giallo-verdi); nelle lave di Lipari, appartenenti alla serie alcalina, possono riconoscersi anche il quarzo (trasparente) e la biotite (scura di forma lamellare). Le lave siciliane sono estratte principalmente nell’area etnea, nell’altopiano ibleo e nell’isola di Lipari. Sull’Etna, oggi come in passato, l’attività estrattiva di rocce a composizione prevalentemente alcali-basaltica viene impostata sui fronti lavici. La colata del 1669 che si sviluppa dai Monti Rossi al mare ha fornito i materiali per la ricostruzione postterremoto di Catania, mentre le fonti e le analisi archeometriche attestano l’approvvigionamento in antico dalle colate di Cibali 252 d.C., Ognina 425 a.C., Fratelli Pii 693 a.C., Larmisi 4-5000 a.C. Grande uso si è fatto delle vulcaniti affiorati in prossimità di Maniace e Randazzo. Negli Iblei i fenomeni vulcanici si sono susseguiti dal Cretaceo al Pleistocene e l’area estrattiva più importante è situata lungo la dorsale Lentini-Vizzini. A Lipari sono da segnalare riodaciti brunastre dai toni avana e grigio e andesitibasaltiche nere e rosso-violacee provenienti da Monte Rosa. Tutte hanno ottimi parametri fisici e geotecnici che le rendono particolarmente atte all’utilizzo in architettura, anche con valenze prettamente ornamentali. Le rocce vulcaniche presentano differente aspetto in base alla presenza ed abbondanza di vacuoli. Si possono distinguere a parità di composizione vulcaniti compatte [fig. a] caratterizzate dall’assenza di macropori e vulcaniti vacuolari [fig. b]. Tra queste ultime sono da segnalare la varietà scoriacea (pomicea), ricchissima di bollosità, e quella detta “occhio di pernice” in cui i vacuoli (fino al cm) e i fenocristalli bianchi sono inclusi in una pasta di fondo nera e vetrosa. Si segnala, inoltre, che le litoteche storiche sono ricche di una variegata gamma di brecce vulcaniche con cementi ben cristallizzati. Morfologie di alterazione osservabili sono le patine rossastre mentre i processi di degrado più comuni nella lava massiva sono la scagliatura e la decoesione [fig. c] causata dalla formazione di efflorescenze saline,
relazionabile alla risalita capillare.
bibliografia C. SCIUTO-PATTI, Carta Geologica della città di Catania e dintorni di essa, Catania 1873. F. RODOLICO, Le pietre delle città d’Italia, Firenze 1953. I. SANSONE, Tradizione ed attività del basalto etneo, in «Tecnica e Ricostruzione», 4, (1-2), 1989, pp. 3-14. L. BECCALUVA, A. DI GRANDE, Carta geopetrografica dell’area centro-settentrionale iblea (Sicilia sudorientale), scala 1:50.000, Firenze 1993. C. MONACO, L. TORTORICI, Carta Geologica dell’Area Urbana di Catania, scala 1:10.000, Firenze 1999. P. MAZZOLENI, The use of volcanic stones in architecture: the example of Etnean region. An overview, in «Acta Vulcanologica», 18, (1-2), 2006, pp. 41-144.
S c h e da a c u r a de l l ’ A ssoc i az i on e L ap i de i S i c i l i an i c o n l a p a r t e c i p a z i o n e d i G e r m a n a B a ro n e , P a o l o M a z z o l e n i D i p a r t i m e n t o d i S c i e n z e B i o l o g i c h e , G e o l o g i c h e e A m b i e n t a l i - U n i ve r s i t à d i C a t a n i a .
Fig. 1. Monreale. Duomo, particolare delle absidi con decorazione a intarsi lavici.
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LE LAVE. GLI USI ORNAMENTALI NELL’ARCHITETTURA STORICA IN SICILIA
Emanuela Garofalo*
L’attività vulcanica in Sicilia e nelle isole limitrofe ha nel corso dei millenni contribuito a modellare l’aspetto fisico e l’assetto ambientale di vasti comprensori, generando sconfinati giacimenti naturali di materiale lapideo impiegato fin dall’età antica nell’attività edificatoria, oltre che nel confezionamento di manufatti, oggetti e attrezzi1. Relativamente all’utilizzo in architettura, va sottolineata la peculiare ambivalenza di questo materiale chiamato nei secoli a svolgere tanto la funzione di pietra da costruzione, quanto quella di pietra ornamentale, in minuti inserti, rivestimenti a lastre o elementi a intaglio. Catania e l’intera area etnea, ma anche l’isola di Lipari, conservano le testimonianze più consistenti e significative di un ricorso ab antiquo alla pietra lavica e ai suoi derivati in architettura. Da una ricognizione complessiva emerge, tuttavia, dal Medioevo al principio dell’età moderna, un impiego a più ampio raggio nella ricerca di effetti ornamentali, restando tale impiego circoscritto alla regione etnea e al messinese solo a partire dal pieno Cinquecento, in concomitanza cioè con lo sviluppo di un’industria estrattiva che porta alla ribalta altri materiali lapidei locali, di varia colorazione, ivi comprese diverse tonalità di grigio2. Esulando dalle pavimentazioni stradali, dagli usi in contesti rurali o meramente costruttivi3, questo contributo si propone di vagliare temi, tempi e modi con i quali la pietra lavica è entrata nel progetto di architettura in Sicilia, tra XII e XX secolo, per soddisfare istanze di carattere estetico. Bicromie e policromie: dagli intarsi geometrici ai motivi a fasce La principale e più sfaccettata gamma di applicazioni ornamentali punta sulle possibilità offerte dal litotipo, soprattutto nelle sue tonalità più scure, di generare a contrasto con altri materiali e superfici più chiare effetti bicromi e policromi, ottenuti con tecniche e soluzioni formali diversificate. Alla seconda metà del XII secolo e ad alcune tra le
più prestigiose fabbriche di età normanna è ascrivibile, innanzitutto, l’introduzione di una fitta decorazione a intarsi lavici. Sequenze di minuti motivi geometrici incorniciano finestre, tracciano tondi o disegnano archi e fasce orizzontali, secondo modelli di ascendenza islamica4. Gli esempi più significativi si rintracciano nelle absidi del duomo di Monreale [fig. 1], nella cattedrale di Palermo (fronte absidale e finestre della nave centrale) [fig. 2], sui fronti latera-
Fig. 2. Palermo. Cattedrale, intarsi lavici sul fronte esterno della navata centrale.
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li e orientale della chiesa dell’Annunziata dei Catalani a Messina5. Questo tipo di decorazione, che sembrerebbe essere stato accantonato per circa un secolo, si ritrova, tra la fine del XIII e il XIV secolo, in residenze e cappelle gentilizie dell’aristocrazia feudale e in fabbriche religiose dalla stessa patrocinate. Il recupero di tale forma espressiva sembra assumere una valenza ideologica, se considerato nell’ottica della caotica congiuntura politica nella quale si inserisce – tra le altre – la costruzione (dal 1320) di un’opera manifesto come l’Hosterium dei Chiaromonte sul piano della marina a Palermo6. La scelta di contornare le bifore del piano nobile con una decorazione a intarsio lavico [fig. 3] potrebbe, cioè, essere frutto di una consapevole ricerca di continuità culturale con un preciso momento della storia siciliana, oltre che espressione del gusto della committenza7. Altri esempi, coevi o di poco anteriori, nella capitale siciliana sono: il campanile della chiesa di San Nicolò all’Albergheria e il portale della chiesa di Sant’Agostino; il prospetto dello scomparso palazzetto dei Chiaromonte alla Guadagna8; la cappella Calvello annessa alla chiesa di San Francesco d’Assisi, «che divenne modello per tante altre»9. Inserti lavici a matrice geometrica si trovano anche a Taormina nel prospetto meridionale della Badia
Vecchia e nei fronti del palazzo del Duca di Santo Stefano, presumibilmente tardo-trecenteschi10, con fasce bicrome di coronamento che sembrano derivare dalla chiesa dell’Annunziata di Messina11. Nello stesso palazzo si rileva inoltre la prima manifestazione di un gusto per una decorazione lineare che sembra affermarsi, poi, soprattutto tra Quattrocento e primo Cinquecento. Una sottile striscia di pietra lavica contorna gli archi delle bucature evidenziandone la sagoma12. Nella stessa Taormina si rintracciano altri esempi: il più articolato nel palazzo Corvaja – del primo Cinquecento13 – dove linee di lava nera delimitano la fascia ornamentale con iscrizione, contornano gli archi inflessi delle finestre del piano nobile [fig. 4] e tracciano, infine, una cornice che intercetta gli intagli del portale seguendo poi la sagoma di intradosso dell’arco; nel coevo palazzo Ciampoli l’elemento lineare chiude la fascia ornamentale sotto il marcapiano e disegna un rettangolo intorno al portale, come accade anche nel portale di casa Gullotta. Quest’ultima propone un’ulteriore variante, una bordura in pietra lavica circonda un rosone, soluzione attuata anche nella facciata della chiesa madre di Savoca. Dialoga con gli esempi di Taormina il primo ordine della facciata del duomo di Messina, dove inserti lavici lineari intervengono nel rivestimento del para-
Fig. 3. Palermo. Palazzo Chiaromonte, bifora del piano nobile.
Fig. 4. Taormina. Palazzo Corvaja, trifora del piano nobile.
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mento murario e nei portali laterali dello stesso fronte. La datazione è anche in questo caso imprecisa, ma ricade comunque all’interno dell’arco cronologico già individuato14. Sebbene siano stati soggetti a smontaggio e rimontaggio, con diffuse integrazioni15, tali elementi hanno mantenuto la loro configurazione originale, facendo emergere una più elaborata ricerca cromatica con l’inserimento del rosso. Riscontrabile anche in altri casi coevi, si potrebbe trattare di un fenomeno di importazione, legandosi al gusto lombardo manifesto in opere come la Certosa di Pavia o la cappella Colleoni a Bergamo, introdotto forse dalle stesse maestranze lombarde presenti nell’isola, o filtrato attraverso l’ambiente napoletano. In tal senso appaiono interessanti alcuni contratti del 1497, che vedono Bernardino Nobilis Mazzolio, cittadino messinese ma di origine napoletana, impegnarsi per la fornitura a Messina e a Palermo di portali, finestre, gradini e pavimenti dallo stesso intagliati associando la breccia rossa di Taormina e la pietra lavica di Zafferana16. È possibile tuttavia ipotizzare anche una diversa genealogia, “autoctona”, per una composizione di colori che appare particolarmente radicata in ambito messinese e che trova riscontro già in due importanti fabbriche medievali: le chiese dei Santi Pietro e
Paolo a Itala e presso Casalvecchio Siculo17 [fig. 5]. In entrambi i casi la prevalente colorazione rossa della struttura in mattoni è contrappuntata da inserti in pietra bianca e in pietra lavica, con maggiore attenzione al gioco cromatico nella chiesa presso Casalvecchio, che presenta motivi a losanghe, ritmica alternanza di conci cuneiformi bianchi e neri, e l’inserto della rossastra breccia di Taormina. Tra le applicazioni lineari non va poi dimenticato il motivo a zig-zag, su ricorsi orizzontali alternatamente bianchi e neri, che trova un primo riscontro ancora nel palazzo del Duca di Santo Stefano a Taormina, nella fascia di coronamento. Dello stesso motivo rimangono solo altri due esempi, entrambi probabilmente quattrocenteschi, nei parapetti dei balconi dei palazzi Migliaccio a Siracusa e Platamone a Catania [fig. 6]18. I temi fin qui trattati conoscono un uso circoscritto alla stagione medievale, con strascichi che non valicano comunque i primi decenni del Cinquecento. Una episodica ripresa di intarsi a motivi minuti e lineari si registra in realtà solo nell’avanzato Ottocento in architetture neogotiche del comprensorio etneo, anche ad opera di architetti provenienti da altri contesti19. La casistica rintracciata per altri motivi bicromi delinea invece una storia cronologicamente più ampia, ma che in età moderna diviene appannaggio presso-
Fig. 5. Casalvecchio Siculo. Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, particolare del paramento policromo sul fronte laterale.
Fig. 6. Catania. Palazzo Platamone, particolare del balcone con parapetto decorato a zig-zag.
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ché esclusivo delle aree prossime ai luoghi di estrazione della pietra lavica. Ciò vale, innanzitutto, per l’alternanza di conci chiari e scuri adoperati nel tracciamento di archi e circonferenze (rosoni o finestre a oblò), con applicazioni che spaziano dal XII al XVIII secolo, senza significative soluzioni di continuità. Da un lungo elenco di esempi, – oltre ai portali della chiesa dei Santi Pietro e Paolo (Casalvecchio Siculo) – ci limitiamo a segnalare: i prospetti trecenteschi dei palazzi Sclafani e Cefalà a Palermo; l’arco della campata principale del ponte dei Saraceni presso Adrano; le cornici nei rosoni delle chiese di Sant’Antonio Abate20 e della Trinità a Mascalucia21; tra i tanti portali di palazzi e palazzetti rimodellati dopo il sisma del 1693, numerosi soprattutto in area etnea, quello del palazzo Di Giovanni a Pedara e quelli, legati ai balconi superiori «in un unico elemento a ‘candela’»22, del palazzo in via Scinà ad Acireale; infine, la raffinata composizione nel prospetto settecentesco del Priorato, all’interno del cortile del palazzo vescovile a Catania23. Quanto sopra osservato si può estendere al motivo della bicromia a fasce, riscontrabile fra XIII e seconda metà del XVIII secolo in paramenti chiari rigati da strisce di pietra lavica o viceversa. Tra gli esempi noti, il caso forse più precoce è quello dell’Osterio Magno di Cefalù24, o meglio di quel corpo di fabbrica che studi recenti hanno ricondotto alla commit-
tenza di Enrico Ventimiglia e a modelli liguri, ipotizzandone una datazione compresa tra 1247 e 127125. Appare quindi probabile che si tratti, almeno al suo esordio nell’isola, di una traduzione nei materiali locali di un motivo di importazione, con possibili riferimenti anche alle esperienze del romanico toscano. Altri esempi tardo medievali, circoscrivibili alla prima metà del XIV secolo, sono il prospetto del palazzo Santamarina a Palermo e le bifore nella torre campanaria della chiesa di San Martino a Randazzo26 [fig. 7]. Se per il primo esempio si potrebbe ipotizzare una volontà di emulazione del modello offerto dalla residenza dei Ventimiglia, il successivo dimostra una più ampia declinazione del tema, con altri possibili canali di diffusione, direttamente dipendenti forse dalla presenza genovese e pisana nell’isola. Più tarda appare invece la datazione della sagrestia del duomo di Messina, quasi integralmente ricostruita nel XX secolo, ma che, a giudicare dal decoro flamboyant dell’unica finestra originale, va ricondotta alla temperie artistica del tardo Quattrocento27. Tra fine XV e inizio XVI secolo lo stesso motivo compare anche in applicazioni limitate a cantonali e bucature principali. Il primo esempio noto è la cappella Paternò nel complesso di Santa Maria di Gesù a Catania [fig. 8], seguita dal prospetto della chiesetta di San Filippo d’Agira presso San Gregorio, che
Fig. 7. Randazzo. Chiesa di San Martino, bifora del campanile.
Fig. 8. Catania. Cappella Paternò in Santa Maria di Gesù, fronte esterno.
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una lapide data al 1500 e riconduce allo stesso committente della cappella catanese, Alvaro Paternò Castello28. Analoga datazione ha inoltre la soluzione adottata nella loggia campanaria della torre dei falconieri a Paternò. Il prolungato successo di questa formula trova due eloquenti testimonianze nella cella campanaria della chiesa di Sant’Antonio a Militello, eseguita dall’intagliatore locale Antonio Scirè Giarro nel 171929, e nel prospetto principale della casa di Vaccarini a Catania, in costruzione tra il 1736 e il 1740, con cantonali bicromi30. Sempre in ambito catanese, la bicromia a fasce viene nuovamente applicata all’intero involucro esterno della fabbrica ancora in due esempi settecenteschi, che rappresentano comunque un unicum anche nel più generale contesto siciliano. Il primo, ad opera dello stesso Vaccarini e in costruzione dal 1736, è lo scomparso palazzo Villermosa. Realizzato limitata-
mente allo sviluppo del primo ordine, l’aspetto del palazzo è noto attraverso l’iconografia storica. Il calcare bianco che fasciava semicolonne e paraste aveva in questo caso un rilievo più accentuato del rivestimento lavico, generando un effetto bugnato insolito nel contesto etneo31. Da questo primo esempio discende probabilmente il secondo, costituito dalla porta Ferdinandea a Catania32 [fig. 9], realizzata nel 1768 in onore del re Ferdinando IV a opera dell’architetto Stefano Ittar, che privilegia però il valore pittorico della bicromia a scapito dell’accentuazione plastica ottenuta nel palazzo Villermosa. Telai in pietra lavica I temi ornamentali fin qui commentati presentano un comune carattere atettonico. Esistono di contro soluzioni bicrome nelle quali alle vulcaniti compatte è affidata la descrizione degli elementi resistenti o
Fig. 9. Catania. Porta Ferdinandea.
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Fig. 10. Randazzo. Chiesa di Santa Maria, veduta dell’interno.
Fig. 11. Trecastagni. Chiesa madre, veduta dell’interno.
di una intera maglia strutturale reale o fittizia. Ciò vale innanzitutto per l’uso, fin dal tardo medioevo, di conci lavici a contrasto con superfici chiare nel comporre cantonali, grandi archi trasversali o costoloni nell’intradosso di volte a crociera, come si osserva nel castello di Milazzo e nella cappella del donjon di Adrano33. È solo nella seconda metà del XVI secolo che nel comprensorio etneo si intraprende l’utilizzo della pietra lavica per conformare veri e propri telai di ordini architettonici, con colonne e pilastri liberi in organismi basilicali e ritmiche sequenze di paraste su paramenti murari – interni ed esterni – intonacati a tinte chiare. I primi e più raffinati casi ancora oggi esistenti di tale applicazione negli interni si individuano nella chiesa madre di Randazzo e in quella di Trecastagni. La paternità di entrambi i progetti è stata attribuita ai carraresi Andrea e Lorenzo Calamecca34, la cui presenza nel cantiere di Randazzo è documentata nel 158935, spiegandosi per tal via l’apparente discendenza da modelli toscani delle due soluzioni. Nella chiesa di Randazzo la pietra basaltica è utilizzata per modellare colonne corinzie con dado36, archi e trabeazione nella navata principale, pilastri di ribattuta e altre membrature architettoniche nelle pareti delle navate laterali, creando un netto contrasto con le restanti superfici intonacate di bianco [fig. 10]. Una logica analoga mostra la soluzione adottata nella chiesa madre di Trecastagni, più austera, con pilastri pseudo-tuscanici in luogo delle colonne e tondi tra le membrature architettoniche [fig. 11]. Lo stesso tipo di abbinamento tra telai in pietra lavica e superfici intonacate trova poi un vasto campo di applicazione nell’impaginato degli esterni, dai campanili, ai chiostri, ai prospetti chiesastici. Il primo caso noto è l’articolato disegno realizzato nei primi due ordini del campanile della chiesa madre di Aci San Filippo nel 155837 [fig. 12]; mentre dà un’idea del prolungato e diffuso successo del tema, tra gli altri, il campanile della cattedrale di Lipari, della seconda metà del Settecento, ampliando il campo delle opzioni anche rispetto alla proposta cromatica38 [fig. 14]. Entro il 1610 si colloca poi il completamento del chiostro francescano a Randazzo, con portico su colonne e finestre a serliana in pietra lavica, e di alcuni decenni successivo è quello realizzato dallo stesso ordine a Trecastagni, dove il basalto riveste i
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pilastri tuscanici del portico. A questi ultimi si può accostare inoltre la fitta sequenza di pilastri nel vestibolo del castello di Nelson presso Bronte – che ingloba le più antiche strutture dell’abbazia di Maniace –, in netto contrasto con le volte intonacate di bianco [fig. 13]. Una certa varietà di soluzioni fa registrare infine l’impaginazione dei prospetti chiesastici, con esempi distribuiti nel comprensorio etneo e in alcuni centri del messinese, compresa l’isola di Lipari, spesso di incerta datazione e per la maggior parte successivi al terremoto del 1693. I prospetti delle chiese di San Martino e San Nicolò a Randazzo mostrano, innanzitutto, due varianti dello stesso schema a due ordini sovrapposti decrescenti raccordati da volute. Sull’opposto versante etneo si segnala, invece, una soluzione che sembra affermarsi dopo il 1693, sebbene ottenuta di frequente riassemblando intagli preesistenti; è il caso della facciata della chiesa madre di Pedara, probabile modello per altre realizzazioni nel circondario, con telaio bidimensionale di paraste
Fig. 13. Bronte. Castello di Nelson, vestibolo.
Fig. 12. Aci San Filippo. Chiesa madre, campanile.
Fig. 14. Lipari. Cattedrale, campanile.
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giganti, coronamento retto a balaustra bicroma e campanile emergente su un lato [fig. 15]. Lo stesso schema compare, con leggere varianti, nella vicina chiesa madre di Mascalucia e in quella di Viagrande, avendo probabilmente ispirato anche il disegno del prospetto della matrice e della chiesa dei Santi Alfio, Filadelfo e Cirino a Trecastagni. Un caso isolato appare invece quello della loggetta tardo-seicentesca del monastero dei Benedettini a Paternò, con un rivestimento lavico punteggiato da elementi bianchi. La stessa prevalenza e l’abbinamento con intagli bianchi è presente infine nel prospetto della chiesa al centro dell’imponente complesso conventuale settecentesco di Santa Lucia ad Adrano, che offre tuttavia una soluzione singolare attribuita all’estro di Giovan Battista Vaccarini39. Qui la lava riveste anche i campi murari compresi all’interno del telaio architettonico, a contrasto con le mostre calcaree delle bucature e a meno di sottili strisce di intonaco bianco, producendo un raffinato effetto bicromo nel quale il rivestimento in pietra basaltica è esaltato dall’inserimento in una sottile maglia di linee bianche. Gli appiattiti telai e le cornici di portali e finestre pre-
Fig. 15. Pedara. Chiesa madre, prospetto.
senti nelle facciate settecentesche delle chiese della Concezione e di Santa Maria delle Grazie nel castello di Lipari si distinguono invece per le più tenui e calde tonalità – tra avana e grigio chiaro – delle lave impiegate. A Catania, infine, nelle architetture della ricostruzione post 1693, il gusto dominante vede invertito il rapporto cromatico tra telaio e superfici intonacate, concorrendo i prodotti vulcanici al confezionamento di un intonaco scuro40 sul quale si stagliano paraste, cornici, finestre e portali intagliati nel candido calcare di Siracusa41. Tra le rare eccezioni, spostandoci in avanti di circa due secoli, è degno di nota l’Istituto commerciale di Catania (1926-1929), opera dell’architetto Francesco Fichera, che della pietra lavica «è stato interprete sensibile in ogni fase della sua attività»42, come vedremo anche per altre applicazioni. Gli elementi a intaglio e la decorazione scultorea Le caratteristiche fisiche delle lave compatte hanno sicuramente comportato l’affinamento di tecniche e abilità specifiche per la sua lavorazione, in parti-
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colare per gli inserti scultorei. Di questi si conservano alcuni esempi fin dall’età antica, come testimoniano i fusti scanalati e i capitelli pseudodorici di riuso nel chiostro normanno adiacente alla cattedrale di Lipari; nello stesso complesso si segnalano inoltre interessanti capitelli-mensola con decoro figurato, forse opera di uno stesso scultore e databili al XII secolo43. Sebbene non esistano studi sulle maestranze dedite all’intaglio della roccia lavica nella Sicilia medievale e di età moderna che consentano di ricostruire saghe familiari o di individuare botteghe affermate44, se ne può comunque dedurre l’esistenza, in particolare nei centri più interni dell’area etnea, dove si concentra un’ampia produzione di elementi architettonici (portali, finestre, balconi) arricchiti da una decorazione scultorea dal rilievo poco marcato, in prospetti di palazzi e ville, chiese e altre fabbriche religiose. Senza pretesa di esaustività, ci limitiamo a segnalare alcuni casi “eccellenti” o rappresentativi di diversi linguaggi succedutisi nel tempo. Il primo in ordine cronologico è il portale meridionale della chiesa di Santa Maria a Randazzo [fig. 16], databile al principio del XVI secolo, che nella sua struttura a due lunette sovrapposte, tra pseudo paraste e bastoni tardogotici, con trabeazione sintetica, rappresenta un caso di ibridazione di linguaggi e intreccio di modelli, che trova frequenti riscontri coevi nell’isola45. A meno dei bastoni, il portale presenta nel complesso una ridotta plasticità e motivi ornamentali intagliati con scarso rilievo, a creare un sottile gioco chiaroscurale. Questo carattere appiattito della decorazione è comune anche agli elementi realizzati in tempi successivi, derivando dalle difficoltà di lavorazione create dalla durezza del litotipo. Un austero linguaggio classicista e l’assenza di motivi ornamentali incisi, a eccezione dei triglifi del fregio, creano addirittura l’effetto di un disegno quasi bidimensionale nell’esempio successivo, la cosiddetta porta di Carlo V nelle mura di Catania, che una lapide data al 1553, rara testimonianza superstite di un disegno di porta rinascimentale realizzato in pietra lavica46. Una certa esuberanza decorativa fanno registrare, di contro, gli intagli seicenteschi, almeno dalla metà del secolo, con un repertorio di motivi sinuosi, di fioroni e foglie carnose, teste di cherubini, erme antropomorfe e mascheroni intagliati nel concio di chiave degli archi di portali e finestre. In questa produzio-
ne, che si protrae anche nei primi decenni del secolo successivo, esiste una differenziazione tra i centri del versante settentrionale dell’Etna, che dimostrano un intreccio più complesso di influenze, con echi in particolare da Messina, e quelli del versante meridionale, che mantengono più a lungo una propria originalità figurativa47, consentendo di leggere – meglio degli episodi scultoreo-architettonici del capoluogo etneo – il rapporto fra tradizione e modelli esterni e i mutamenti di gusto e di linguaggio a cavallo con la ricostruzione successiva al terremoto del 1693. Da una vasta gamma di esempi48, ci limitiamo a segnalare, in ambito religioso, i portali principali delle chiese madri di Pedara [fig. 17] e Trecastagni che, in continuità con le finestre soprastanti, combinano un telaio architettonico con colonne libere e una rigogliosa decorazione a bassorilievo, con uniche accentuazioni plastiche nelle erme antropomorfe e nelle volute contratte della finestra. Anche in ambito civile si riscontrano interessanti soluzioni in balconi, sorretti da mensole scultoree spesso antropomorfe, finestre e portali. Questi ultimi presentano in genere bugne variamente sagomate e mascheroni intagliati sul concio di chiave dell’arco, mentre raro
Fig. 16. Randazzo. Chiesa di Santa Maria, portale meridionale.
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è il ricorso a ordini architettonici – assenti, in particolare, le colonne libere –; è il caso, ad esempio, del palazzo Don Diego a Pedara, che oltre al portale bugnato con mascherone offre un esempio di balcone d’angolo con graduale deformazione prospettica delle mensole, o ancora dei palazzi Musumeci e Costa-Grimaldi ad Acireale [fig. 18], con portale analogo all’esempio precedente, ma collegato al balcone sovrastante. Se mascheroni e protomi si riscontrano con una certa frequenza nell’architettura etnea tra XVII e XIX secolo, molto più rari risultano invece i casi di elementi scultorei a tutto tondo. Tra questi possiamo ricordare il singolare motivo delle mani reggi-stendardo che fuoriescono dal cantonale lavico del convento degli agostiniani a Valverde, e da quello del campanile della chiesa madre di Nicolosi. Un più raffinato caso è infine quello del celebre elefantino in pietra lavica, di remota datazione, sapientemente riutilizzato dall’architetto Vaccarini nella composizione della fontana di piazza Duomo a Catania, nel 173549 [fig. 19].
Tra metafora e utilità tecnica: i basamenti e le scale Nella Sicilia orientale alla pietra lavica in molteplici casi è affidata la definizione dell’“attacco a terra” di un intero edificio o di singoli elementi, quali basamenti, scale esterne, piedistalli, plinti; impiego che in alcuni portali viene esteso all’intero terzo inferiore degli stipiti. Se alcuni esempi si rintracciano a Messina, a Siracusa e nei relativi comprensori50, è a Catania e sulle pendici dell’Etna che questo tipo di applicazione risulta pressoché generalizzato e continuativo almeno fino al primo Novecento, rientrando peraltro anche nella prassi attuale. Una tale scelta appare ispirata oltre che da valutazioni di carattere tecnico da istanze estetiche, non prive di un fondamento concettuale. La compattezza e la maggiore resistenza all’erosione rispetto ad altri litotipi hanno sicuramente giocato un ruolo importante nella preferenza accordata alla pietra lavica. Il vantaggio in termini di durabilità ed efficacia del rivestimento, oltre alla convenienza economica per l’abbondante presenza in loco di cave, rappresentano di per sé attrat-
Fig. 17. Pedara. Chiesa madre, portale principale, dettaglio della decorazione nel terzo inferiore delle colonne.
Fig. 18. Acireale. Palazzo Costa-Grimaldi, portale.
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tive non secondarie; tuttavia, non va a nostro avviso sottovalutata una componente di gusto, ossia l’apprezzamento per l’effetto visivo generato dalla continuità cromatica e materica con il suolo e con l’ambiente circostante, che diviene cifra distintiva e tratto identitario per l’architettura del comprensorio in esame. La soluzione assume maggiore evidenza ed efficacia in presenza di un netto stacco cromatico con le superfici soprastanti, nel passaggio ad altri materiali lapidei del paramento o a mezzo di intonaci chiari. Tale condizione si verifica ad esempio nelle facciate delle matrici di Aci San Filippo, Pedara, Mascalucia, Nicolosi, in basamenti dal profilo a scarpa presenti in corrispondenza del campanile, o disposti simmetricamente ai due lati del prospetto. È il campanile di Aci San Filippo, ad aprire la sequenza, come testimonia la data 1558 incisa sul basamento lavico, fornendo un modello poi rivisitato nella sua inclusione sul piano di facciata. Quest’ultima sembrerebbe inaugurata dal basamento del campanile di Pedara, nel quale è incisa la data 1684, sebbene la facciata attuale sia stata ricomposta dopo il terremoto del 1693. Anche l’architettura civile offre esempi significativi, come il palazzo municipale di Acireale (basamento e scala) e il palazzo Palagonia a Francofonte – post 1693 –, nel basamento a scarpa dei cantonali impreziosito da una scacchiera di bugne a punta di diamante in calcarenite dorata. A Catania tra gli episodi più ragguardevoli successivi al 1693 si segnalano la scenografica scala a tre rampe nel cortile di palazzo Biscari [fig. 20] e il basamento ondulato della facciata vaccariniana della Badia di Sant’Agata. Lo stesso Vaccarini nel 1740 fa realizzare al di sotto dei pilastri nel cortile del palazzo dell’Università plinti in pietra lavica51, presenti anche nel collegio Cutelli; nella stessa città plinti, con un più accentuato sviluppo verticale, rialzano le colonne dei portici gemelli della piazza Mazzini, mentre veri e propri piedistalli in pietra lavica sostengono semicolonne e paraste nel primo ordine dell’aereo fronte principale del teatro Bellini52, proseguendo l’uso della roccia vulcanica nella fascia basamentale dell’intero edificio. Nell’omonimo teatro ad Adrano il prospetto liberty è invece caratterizzato da uno straordinario sviluppo verticale del basamento lavico, che arriva a includere i portali al piano terra. Tra Ottocento e primo Novecento, le applicazioni nei
Fig. 19. Catania. Fontana dell’elefante in piazza Duomo.
Fig. 20. Catania. Palazzo Biscari, particolare dello scalone nel cortile.
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basamenti assumono in molti casi l’aspetto di veri e propri lambris, con lastre di rivestimento di dimensioni standardizzate e una certa varietà di effetti di finitura a creare superfici da lisce a molto scabre, a seconda dell’immagine complessiva che si intendeva generare. A chiudere questa rassegna si presta infine lo scultoreo basamento del palazzo delle Poste di Catania, realizzato tra 1919 e 1929 [fig. 21] su progetto di Francesco Fichera, indicativo della capacità dell’architetto di confrontarsi con il patrimonio settecentesco della città, tanto nell’ondulato andamento complessivo, quanto nella rivisitazione – nelle chiavi degli archi – del tema dei mascheroni53, pur nella novità delle soluzioni proposte. Pavimentazioni ornamentali Nel 1497 il già citato «Magister Bernardino Nobilis» si impegnava a fornire intagli per gradini d’altare in pietra nera di Zafferana e pavimenti con la stessa pietra in combinazione con quella rossa di Taormina, in un disegno a scacchiera, per l’altare della tribuna meridionale nella chiesa di San Francesco a Messina, nonché il pavimento della tribuna con l’aggiunta del marmo bianco e ancora un altro pavimento nero e
Fig. 21. Catania. Palazzo delle Poste, basamento.
rosso per la cappella di Santa Cristina nella cattedrale di Palermo54. Sebbene dei suddetti pavimenti non rimanga traccia, né di eventuali altri esempi coevi, l’importanza e la dislocazione dei due edifici inducono a ipotizzare che non si sia trattato di casi isolati, ma al contrario di una combinazione cromatica e di litotipi diffusa e apprezzata. Ai due pavimenti del 1497 potrebbe forse essere accostato quello della cappella Paternò in Santa Maria di Gesù a Catania, a rombi alternati bianchi e neri. La combinazione di rosso, bianco e nero, quest’ultimo ottenuto con l’impiego di pietra lavica, si ritrova invece nel variegato pavimento della chiesa madre di Casalvecchio Siculo, in composizioni che comprendono anche un elegante motivo floreale [fig. 22]. Se dell’uso in pavimentazioni di interni rimangono rari esempi, è nel campo dei basolati che la pietra basaltica ha conosciuto una straordinaria diffusione nell’isola. Tra le composizioni a carattere ornamentale una breve riflessione merita infine la formula nella quale ciottoli e basole concorrono alla creazione di motivi a tappeto in pavimentazioni esterne di cortili e sagrati. Si tratta in genere di ciottoli lavici (ciacato) chiamati a riempire i campi liberi tra le
Fig. 22. Casalvecchio Siculo. Chiesa madre, particolare della pavimentazione dell’aula (foto LapiS).
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linee di disegni ornamentali realizzati con basole (catini) di pietra bianca. È ipotizzabile che la soluzione, adottata con disegni barocchi almeno dal XVIII secolo, si fondi in realtà su una tradizione precedente55. Le applicazioni più note si concentrano nella città di Catania nei cortili di alcuni edifici settecenteschi, come il primo chiostro del collegio dei Gesuiti, il cortile del collegio Cutelli e quello del palazzo dell’Università. Nel primo esempio la realizzazione data al 175056; successiva è poi l’esecuzione del motivo a pianta circolare del collegio Cutelli, con elementi radiali corrispondenti al ritmo del portico circostante, avviata nel 177357, forse sulla scorta di un disegno antecedente. Relativamente al terzo esempio citato – quello del palazzo dell’Università – è certo invece che si tratta di un rifacimento in stile, realizzato nel 1921 dall’architetto Francesco Fichera, che – a scanso di equivoci – firma e data l’opera in una formella lavica inserita nel disegno del pavimento58 [fig. 23]. La realizzazione di questo tipo di pavimentazione (ciacato) non è limitata, comunque al solo ambito catanese, ma conosce applicazioni nel più ampio comprensorio della Sicilia sud orientale, anche in
diversi sagrati, come quelli antistanti la chiesa madre di Viagrande e – spostandoci verso Siracusa – la chiesa di San Sebastiano a Melilli. A Siracusa, infine, nel cortile del palazzo Beneventano del Bosco, si rintraccia una variante a cromia invertita con basole nere e ciottoli bianchi [fig. 24], forse con la stessa logica che a Catania induceva invece a utilizzare per le basole la pietra bianca di Siracusa. L’assimilazione alle pietre lucidabili Una vera e propria assimilazione delle rocce vulcaniche alle pietre ornamentali lucidabili, sembra essere intervenuta nella storia dell’architettura siciliana nella prima metà del Settecento. Il passaggio è avvenuto a opera di un architetto, Giovan Battista Vaccarini, la cui dimensione di grande conoscitore e sperimentatore in materia di pietre ornamentali è confermata da recenti approfondimenti59. In aggiunta agli altri “azzardi” di natura compositiva, che suscitarono tante polemiche in seno alla comunità locale, nel nuovo prospetto progettato per la cattedrale di Catania60, Vaccarini sperimenta, infatti, l’impiego di lastre di pietra lavica lucidate nelle specchiature dei piedistalli delle colonne del primo ordi-
Fig. 23. Catania. Palazzo dell’Università, particolare della pavimentazione del cortile con la firma di Francesco Fichera.
Fig. 24. Siracusa. Palazzo Beneventano del Bosco, pavimentazione del cortile.
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Fig. 25. Catania. Cattedrale, facciata, particolare dei piedistalli delle colonne del primo ordine.
ne [fig. 25] e intorno al portale principale61. La tenue bicromia generata dall’accostamento, nel resto della facciata, del grigio calcare di Billiemi e del marmo bianco di Carrara risulta così ravvivata62. Sebbene l’esperimento non sembra sia stato ripetuto dallo stesso Vaccarini, né risultino casi di emulazione da parte di altri architetti, neppure quando si era ormai estinto il fuoco delle polemiche che aveva accompagnato la realizzazione dell’opera per più di un ventennio, da un’informazione riportata dall’abate Ferrara si intuisce la risonanza che trovò l’episodio nel nuovo clima culturale e di accresciuto “interesse scientifico” nei confronti del vulcano e dei suoi prodotti che si registra dalla seconda metà del Settecento63. Nella sua Descrizione dell’Etna Ferrara racconta che il principe di Biscari volle per il suo museo – inaugurato nel 1758 –, tra altri prodotti del vulcano, un campione delle lave compatte della Trezza (Acitrezza), usate a inizio secolo negli «specchi delle basi delle colonne nel prospetto della Cattedrale»64. Si tratta dell’avvio di un fenomeno di collezionismo legato al diffondersi dell’interesse naturalistico nei confronti dell’Etna che, sebbene non sembra aver attivato immediate ripercussioni in ambito strettamente architettonico, trova una straordinaria applicazione artistica nel confezionamento di tavolini a commesso65 accostabili a quelli che già da tempo si realizzavano nell’isola con campionari di “marmi colorati” e di pietre dure locali. Nell’esecuzione di tali opere sembra aver avuto una sorta di monopolio artistico la famiglia catanese dei Calì, con una produzione di cui si conservano diversi esemplari in musei e col-
Fig. 26. C. Calì, piano con tarsia in marmi e lave siciliane, 1830 ca.; Roma, Museo Praz (da C. Napoleone, Le pietre del vulcano..., cit.).
Fig. 27. Stipo-monetiere, particolare di un riquadro con crusta di breccia basaltica (Palermo, collezione privata; foto LapiS).
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lezioni private soprattutto a Napoli e a Roma66 [fig. 26], ma che conobbe un ben più ampio successo se, come testimonia ancora Francesco Ferrara, «così grande quantità se ne manda in Inghilterra»67. Un impiego del tutto analogo a quello di marmi e di altre più preziose pietre ornamentali fa registrare infine la cosiddetta breccia basaltica, nella quale «un cemento rosa è interposto tra i clasti vulcanici generando un disegno maculato»68. Ridotta in crustae di piccole dimensioni, questa breccia, perfettamente lucidabile, si riscontra nei rivestimenti ornamentali di altari o inserita in lussuosi mobili ed elementi d’arredo. Delle due applicazioni citate danno un significativo saggio gli altari delle cappelle nella chiesa madre di Santa Lucia del Mela (nell’alzata dei paliotti) e uno stipo-monetiere, oggi in una collezione privata a Palermo69 [fig. 27]. In conclusione proponiamo un breve sguardo all’attualità. A differenza di altri litotipi che hanno in diversi momenti assunto un ruolo da protagonisti nell’architettura siciliana, ma con una vicenda dai confini piuttosto netti, quella della pietra lavica
1
e dei suoi impieghi in architettura é infatti una storia ancora in corso di svolgimento, che vede un uso protratto fino al presente, caricato non di rado anche di nuovi significati identitari. Due esempi ci appaiono eloquenti. Ciottoli lavici circondano e ricoprono il fondo dello specchio d’acqua che corre lungo l’interminabile fronte del centro commerciale Etnapolis, progettato da Massimiliano Fuksas e inaugurato nel 2006, nei pressi di Belpasso (Ct), con una apparente volontà di ancorare per tale via al territorio una struttura avveniristica, e richiamando al contempo il riferimento al vulcano contenuto nel nome stesso del centro commerciale. Lastre di basalto lavico caratterizzano i rivestimenti di alcune superfici (dai pavimenti, alla scala, ai banconi) nei negozi della nota griffe Dolce & Gabbana, progettati dall’architetto David Chipperfield in diverse località nel mondo, come immediato rimando al contesto siciliano al quale si ispirano nel complesso le creazioni dei due stilisti. *Ricercatore, Università degli Studi di Palermo
L’esempio più significativo e numericamente rilevante è quello delle macine (F. ANTONELLI, L. LAZZARINI, Mediterranean trade of the most widespre-
ad Roman volcanic millstones fron Italy and petrochemical markers of their raw materials, in «Journal of Archeological Science», 37, 2010, pp. 2081-2092). Tra le altre applicazioni, si segnala inoltre il confezionamento di sarcofagi, che si configurano talvolta come essenziali microarchitetture (L. LAZZARINI, Lapis sarcophagus: an historical and scientific note, Contributi del Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre”, 88, Roma 1994, pp. 103-116 e inoltre L. BERNABÒ BREA, M. CAVALIER, Meligunis Lipara V. Scavi nella necropoli greca di Lipari, 2 voll., Roma 1991). 2
È il caso del calcare grigio di Billiemi che, rintracciato nelle montagne prossime alla città di Palermo alla fine del Cinquecento, dominerà in breve
la scena palermitana; sull’argomento si veda D. SUTERA, Il grigio di Billiemi. L’uso a Palermo dal XVI al XX secolo, in «Lexicon. Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», 8, 2008, pp. 56-71. Un altro esempio si individua nel cantiere cinquecentesco del duomo di Enna, dove per il rifacimento dei sostegni interni, tra 1549 e 1570, si opta per l’impiego di una pietra alabastrina locale di colore grigio; per maggiori dettagli si rimanda a E. GAROFALO, La rinascita cinquecentesca del duomo di Enna, Palermo 2007. 3
Tra questi ultimi, ci limitiamo a segnalare il ricorso a pomici e scorie vulcaniche provenienti da Lipari nella realizzazione di strutture portanti “alleg-
gerite” durante l’età moderna. Interessanti testimonianze si rintracciano a partire dal XVI secolo a Palermo, per la costruzione di volte nella chiesa di San Francesco d’Assisi, e in area messinese, nelle volte della grande sala del castello di Venetico e in quelle dello scomparso palazzo Reale di Messina, per le cui fabbriche nel 1566 si registrano forniture ingenti di pomici – circa 15.000 pezzi in due mesi, de sorti grandi e de sorti piccola – (ringrazio il professore Nicola Aricò per la segnalazione dei tre casi citati); significativa del prolungato successo di tale scelta tecnologica è inoltre la volta dell’oratorio di San Filippo Neri all’Olivella a Palermo, realizzata nel 1768 (C. D’ARPA, Architettura e arte religiosa a Palermo: il complesso degli Oratoriani all’Olivella, Palermo 2012, p. 151). Conci in pietra lavica compaiono inoltre in alcune delle crociere della grande sala del castello Maniace a Siracusa a seguito delle riparazioni successive al sisma del 1693 e sulla base di valutazioni di opportunità tecnica (M.M. BARES, Il castello Maniace di Siracusa. Stereotomia e tecniche costruttive nell’architettura del Mediterraneo, Siracusa 2011, pp. 113-115). Segnaliamo infine l’utilizzo di pomice nelle murature di una sopraelevazione settecentesca nel convento di Santa Caterina a Catania per l’esigenza di leggerezza imposta dall’esile colonnato sottostante (S. BARBERA, Tecniche costruttive dell’edilizia etnea nella ricostruzione settecentesca, in Recuperare Catania, a cura di S. Barbera, Roma 1998, pp. 87-124, alla p. 96). 4
Sull’argomento si veda W. KRÖNIG, Il duomo di Monreale e l’architettura normanna in Sicilia, Palermo 1965, pp. 208-214.
5
L’attuale aspetto della fabbrica si deve al restauro effettuato dopo il sisma del 1908, su progetto dell’architetto Francesco Valenti, con consistenti
integrazioni nell’apparato decorativo, nell’ottica del ripristino della sua immagine originaria. Sull’argomento si veda C. GENOVESE, Francesco Valenti. Restauro dei monumenti nella Sicilia del primo Novecento, Napoli-Roma 2010, pp. 124-135.
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Sulla costruzione del palazzo e i suoi caratteri distributivi e formali si veda in particolare: G. SPATRISANO, Lo Steri di Palermo e l’architettura siciliana
del Trecento, Palermo 1972; C. FILANGERI, Steri e metafora. I Palazzi chiaramontani di Palermo e di Favara, Sant’Agata di Militello (Me) 2000; D. SUTERA, Palazzo Chiaromonte (Steri), in Palermo e il gotico, a cura di E. Garofalo, M.R. Nobile, Palermo 2007, pp. 31-38. 7
L’aspirazione al mantenimento dell’indipendenza politica del Regno di Sicilia, manifestata da una fazione dell’aristocrazia locale capeggiata pro-
prio dai Chiaromonte, sembra essere cioè alle radici del longevo mito normanno. Considerazioni di segno analogo in M.R. NOBILE, L’architettura in Sicilia. Dal mondo normanno ai neostili, in Sicilia. Patrimonio Culturale e Naturale, Barcellona 2007, pp. 208-237, alle pp. 216 e 219. 8
Anteriore al 1328 e la cui facies ornamentale è nota attraverso un rilievo ottocentesco dell’architetto E. Bally, pubblicato per la prima volta a Parigi
nel 1854 e ripubblicato in G. SPATRISANO, Lo Steri di Palermo…, cit., p. 107. 9
Realizzata in date comprese tra 1320 e 1337, F. ROTOLO, La Basilica di San Francesco d’Assisisi e le sue cappelle. Un monumento unico della Palermo medie-
vale, Palermo 2010, p. 70. 10
Sulla datazione dei due edifici esistono opinioni discordanti; l’ipotesi trecentesca, ancora oggi la più accreditata, è stata in particolare sostenuta da
Giuseppe Spatrisano (Lo Steri di Palermo…, cit., pp. 259-261) e da M. TAFURI, Problemi di critica e problemi di datazione in due monumenti taorminesi. Il palazzo dei duchi di S. Stefano e la «badia vecchia», in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», 51, 1962. 11 G.
SPATRISANO, Lo Steri di Palermo…, cit., p. 261. Nel secondo esempio tale derivazione è riferibile in particolare al motivo a losanghe alternate, che
trova riscontro in successive applicazioni nella stessa Taormina, quali la fascia marcapiano del palazzo Corvaja e in altri centri del messinese, il portale principale della chiesa di San Michele a Savoca – dove, allo stato attuale, mancano tuttavia in massima parte gli inserti lavici negli incassi appositamente predisposti – e, sebbene con contorni arrotondati, nell’arco di un portale tardogotico nel monastero di San Placido Calonerò, presso Messina. 12
Soluzione analoga – unica nota decorativa nell’austera fortezza – si trova nelle bifore del castello di Scaletta Zanclea, sul versante ionico del mes-
sinese, probabilmente coeve a quelle del palazzo di Taormina. 13
Per la datazione del palazzo si vedano: M.R. NOBILE, Gli ultimi indipendenti, in Gli ultimi indipendenti. Architetti del gotico nel Mediterraneo tra XV e
XVI secolo, a cura di E. Garofalo, M.R. Nobile, Palermo 2007, pp. 7-21, alle pp. 14 e 15; F. SCADUTO, Fra tardogotico e rinascimento: Messina tra Sicilia e il continente, in «Artigrama», 23, 2008, pp. 301-326, alla p. 312. 14
Il rivestimento della facciata risulta avviato già nella prima metà del Quattrocento, ma l’esecuzione è ancora in corso negli anni quaranta e cinquan-
ta del Cinquecento, sotto la direzione di Domenico Vanello prima e di Giovanni Angelo Montorsoli poi, e ultimata solo nel XVII secolo; i portali laterali sono sottoposti a parziali rifacimenti nel primo Cinquecento (S. BOTTARI, Il Duomo di Messina, Messina 1929, p. 16). 15
Almeno in due occasioni: dopo il terremoto del 1908 e dopo i bombardamenti del 1943. Sui due interventi e, più in generale, sui restauri operati
nel corso del Novecento si veda C. GENOVESE, Francesco Valenti…, cit., pp. 110-123. 16
G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, 3 voll., Palermo 1880-1883, I, pp. 172-173, nota 2. L’ipotesi
di una derivazione lombarda del gusto per la policromia è proposta da Marco Nobile in M.R. NOBILE, G. D’ALESSANDRO, F. SCADUTO, Costruire a Palermo. La difficile genesi del palazzo privato nell’età di Carlo V, in «Lexicon. Storie e architettura in Sicilia», 0, 2000, pp. 11-38, alla p. 13. 17
Relativamente alla provenienza delle lave utilizzate in edifici medievali della Sicilia nord-orientale, compresa la chiesa di Casalvecchio Siculo e
altre fabbriche del messinese già citate in precedenza, si veda M. TRISCARI, G. SABATINO, G. BARONE, C. FERLITO, Volcanic rocks in medieval building materials from north-eastern Sicily and southern Calabria, in «Journal of Cultural Heritage», 7, 2006, pp. 139-142. 18
Raro frammento pre-sisma del 1693, è oggi inglobato all’interno del complesso conventuale di San Placido.
19
Due esempi si rintracciano ad Acireale nel prospetto del duomo e nel castello Scammacca, poi Pennisi di Floristella, con l’intervento, rispettiva-
mente, degli architetti Giovan Battista Filippo Basile e Giuseppe Patricolo; cfr. C. GUASTELLA, Saxa colore canunt, in La pietra di fuoco, Acicatena (Ct) 1994, pp. 55-86, alla p. 86. 20
Nel prospetto è presente inoltre un portale (prima metà del XVI secolo), che ibrida motivi classicisti e tardogotici, con stipiti in pietra lavica nei due
terzi inferiori e pietra calcarea bianca, probabilmente di Siracusa, nel terzo superiore e nell’arco. 21
Probabilmente derivato dal precedente; cfr. C. GUASTELLA, Saxa colore canunt…, cit., p. 64.
22 Entrambi
gli esempi sono segnalati in L. ANDREOZZI, La lava, l’uomo e l’architettura. Un viaggio nei paesi dell’Etna, Enna 2003, alle pp. 51 e 85-86. Un
altro interessante caso trattato nello stesso volume è quello del palazzo Rapisardi a Mascalucia, nel quale la bicromia è ottenuta sovrapponendo alla mostra in pietra lavica conci in pietra bianca con un effetto a fasce sul portale principale, e con inserti limitati alle imposte e alla chiave dell’arco negli altri portali del piano terra (ivi, p. 65). 23
Tradizionalmente attribuito a Stefano Ittar (F. FICHERA, G.B.Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, 2 voll., Roma 1934, I, p. 194), e recente-
mente ricondotto all’architetto Vaccarini (E. MAGNANO
DI
SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini, architetto siciliano del Settecento, 2 voll., Siracusa 2010, I,
pp. 194-196). 24
Il motivo a fasce è stato messo in evidenza in occasione dei restuari condotti tra 1988 e 1992. In merito si veda S. BRAIDA, La Domus Magna di Cefalù,
in L’Osterio Magno di Cefalù: dal progetto al restauro, atti della giornata di studi (Cefalù, 3 febbraio 1991), in «Incontri e Iniziative. Memorie del centro di cultura di Cefalù», VIII, 1-2, 1991 (1994), pp. 11-33. 25
G. ANTISTA, La committenza dei Ventimiglia a Cefalù: città e architettura (1247-1398), tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura e
Conservazione dei Beni Architettonici, Università degli Studi di Palermo, XX ciclo, tutor prof.ssa M.S. Di Fede, alle pp. 83-87.
87 26
Per la realizzazione di questo effetto è stata utilizzata una particolare varietà nerissima di pietra lavica ricavata dalle pendici del Monte Spagnuolo;
cfr. F. RODOLICO, Le pietre nelle città d’Italia, Firenze 1953, p. 474. 27
M.R. NOBILE, Un altro rinascimento. Architettura, maestranze e cantieri in Sicilia 1458-1558, Benevento 2002, p. 66; F. SCADUTO, Fra tardogotico e rinasci-
mento: Messina…, cit., p. 306. Si segnala che la stessa articolazione a fasce è presente inoltre nel portale di accesso al Tesoro. Relativamente al corpo della sagrestia Rodolico ipotizza che sia stata impiegata pomice di provenienza eoliana (F. RODOLICO, Le pietre…, cit., p. 438). 28
Il collegamento tra le due cappelle è già stato segnalato, con riferimento al tema della bicromia, in C. GUASTELLA, Saxa colore canunt…, cit., p. 64.
29
Una peculiarità di questo caso consiste nell’impiego di conci in pietra lavica di due tonalità differenti, nera e rossiccia, a creare una delicata tricro-
mia, che sfrutta in modo inusuale le potenzialità cromatiche offerte dal materiale. G. PAGNANO, Lava, in Enciclopedia della Sicilia, a cura di C. Napoleone, Parma 2006, p. 529. 30
E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., I, pp. 138-157.
31
Tale effetto è stato dagli studiosi ricondotto a modelli palermitani o romani pubblicizzati da incisioni. Per una ricostruzione del palazzo Villermosa
si vedano V. LIBRANDO, G.B. Vaccarini: il palazzo Villarmosa, in «Cronache di Archeologia e Storia dell’Arte», 1, 1962, pp. 60-93, e da ultimo E. MAGNANO DI
SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., I, pp. 180-185. I documenti relativi alla costruzione del palazzo offrono una interessante testimonianza
della prassi, diffusa a Catania e nella regione etnea, di ricavare materiale da costruzione dallo stesso sito nel quale viene fondata la fabbrica (ivi, p. 181), ottenendo anche la regolarizzazione del suolo. Da un atto del 26 maggio 1736, inoltre, si ricavano informazioni dettagliate sugli intagli in pietra lavica destinati al prospetto meridionale del palazzo, ad opera dei maestri acesi Matteo e Sebastiano Vasta (ivi, p. 192, doc. 13.01). Sulla prassi di estrazione della pietra lavica all’interno della città e la presenza di cave in prossimità dell’abitato si veda S. BARBERA, Tecniche costruttive..., cit., p. 94. 32
Per una complessiva riflessione sul tema della bicromia nell’architettura catanese del primo Settecento si veda G. PAGNANO, La pietra lavica nell’ar-
chitettura del primo Settecento a Catania, in La pietra di fuoco…, cit., pp. 111-124. 33
Nel versante settentrionale del comprensorio etneo è più frequente una inversione della bicromia, con cantonali intagliati nella pietra bianca a con-
trasto con paramenti in pietra lavica a elementi irregolari, soluzioni alle quali va forse ricondotto l’analogo gusto cromatico che si afferma a Catania nella ricostruzione successiva al terremoto del 1693. 34
C. GUASTELLA, Saxa colore canunt…, cit., p. 67.
35
S.C. VIRZÌ, La chiesa di Santa Maria di Randazzo, Randazzo 1984, p. 24.
36
Per realizzare le alte colonne monolitiche la roccia basaltica fu ricavata dalla colata lavica del Monte della Nave (Maniace), che raggiunge lo spes-
sore di 5 m; F. RODOLICO, Le pietre…, cit., p. 473. Sulle stesse colonne si veda inoltre G. CULTRONE, G. BARONE, G. GANGEMI, S. IOPPOLO, Lapideus materials from the columns of the Cathedral of S. Maria in Randazzo (Catania) and from their ancient origin quarries, in «J. Cultural Heritage», Elsevier 2, 2001, pp. 199-207. 37
La data indicata è incisa nello stesso basamento.
38
Nel campanile sono state utilizzate infatti le due varietà di pietra lavica presenti nell’isola, di diversa colorazione, riodacite brunastra dai toni avana e
grigio nelle cornici delle bucature, lave andesitico-basaltiche nere e rosso-violacee provenienti da Monte Rosa, nei cantonali. Si veda la scheda petrografica, infra, p. 69. 39
E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., I, p. 301.
40
Sull’argomento e per altre precisazioni su qualità e provenienza dei prodotti vulcanici usati in architettura nella regione etnea si veda S. BARBERA,
Tecniche costruttive..., cit., pp. 94-96. 41
Si veda G. PAGNANO, La pietra lavica nell’architettura del primo Settecento a Catania, in La pietra di fuoco…, cit., pp. 111-124.
42
G. PAGNANO, Lava…, cit., p. 529. Qui «lo schema architettonico, in pietra dell’Etna, si staglia nettamente sul fondo generale bianchissimo, in cui,
come cammei sporgono i tondi in terracotta rilevati fortemente sui campi separanti verticalmente le luci» (M. PIACENTINI, Francesco Fichera, architetto siciliano, in «Architettura e Arti decorative», X, giugno 1930, pp. 433-460, alla p. 450). 43
L. BERNABÒ BREA, Il chiostro normanno di Lipari. La sua scoperta, il suo restauro, in Dal “constitutum” alle “controverise liparitane”. Le chiavi di lettura della
storia eoliana nell’ultimo millennio, a cura di U. Spigo, A. Raffa, M. Sajia, Messina 1998, pp. 11-28. 44
Per alcune informazioni e osservazioni sulle maestranze impegnate nell’estrazione e nell’intaglio della pietra lavica si veda S. BARBERA, Tecniche
costruttive..., cit., pp. 106-108. 45
Si veda in particolare F. SCADUTO, Fra tardogotico e rinascimento…, cit., pp. 315-317.
46
La stessa sobrietà informa inoltre due portalini tardo-cinquecenteschi in due centri minori del comprensorio etneo, quelli del campanile della chiesa
madre di Camporotondo e della chiesa di San Giovanni a Bronte, quest’ultimo però con semicolonne. C. GUASTELLA, Saxa colore canunt…, cit., p. 70. 47
Ivi, pp. 73-74.
48
Una catalogazione dei portali presenti nei centri del versante meridionale dell’Etna, sulla base dei caratteri morfologici, è stata effettuata in L.
ANDREOZZI, La lava…, cit., pp. 115-128, avvalendosi della classificazione proposta per Catania in F. RESTUCCIA, I portali nell’architettura di Catania dopo il terremoto del 1693, Roma 1997. 49
Sulla vicenda si veda E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., I, p.p. 128-130.
50
È il caso dello «zoccolo basso» della chiesa di Sant’Elia e della Palazzata neoclassica a Messina (F. RODOLICO, Le pietre…, cit., pp. 439-440); del palaz-
zo municipale di Avola o ancora della sede del Banco di Sicilia a Siracusa (ringrazio l’Associazione LapiS per la cortese segnalazione).
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E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., p. 516, II, doc. 27.02.
52
Per una analisi petrografica si veda G. BARONE, R. CRISTOFOLINI, S. IOPPOLO, G. PUGLISI, Indagini preliminari sul degrado del Teatro Massimo Bellini di
Catania (Sicilia), in Proceedings of 1st International Congress on «Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin», (Catania-Siracusa, 27 novembre – 2 dicembre 1995), Catania 1995, pp. 1145-1150. 53
C. GUASTELLA, Saxa colore canunt…, cit., p. 86.
54
G. DI MARZO, I Gagini…, cit., I, pp. 172-173, nota 2.
55
Non si può escludere l’influenza del modello ligure dei rissêu, realizzati già a partire dal XIV secolo principalmente nei sagrati, con combinazioni
policrome di ciottoli (S. BARBERA, Tecniche costruttive..., cit., p. 116). 56
G. DATO, G. PAGNANO, L’architettura dei Gesuiti a Catania, Corsico (Mi) 1991, pp. 39-42.
57
E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., II, p. 544.
58
Una rivisitazione in chiave moderna del tema si rintraccia nella pavimentazione del giardinetto antistante il già citato Istituto commerciale a
Catania, dello stesso Fichera, realizzato negli anni venti del Novecento. 59
Si rimanda in merito ai seguenti contributi: D. SUTERA, Il grigio di Billiemi…, cit.; M.M. BARES, Il giallo di Castronovo: un marmo per il re, in «Lexicon.
Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», 13, 2011, pp. 51-68. 60
Sull’annosa vicenda si veda in particolare M.R. NOBILE, I volti della “sposa”. Le facciate delle chiese madri nella Sicilia del Settecento, Palermo 2000, pp.
33-51. 61
Nell’ottobre del 1732 i documenti registrano la fornitura della pietra lavica da utilizzare nel basamento, nonché le spese sostenute per la riduzio-
ne in lastre; dagli stessi documenti emergono inoltre interessanti precisazioni su provenienza e caratteristiche del materiale richieste dall’architetto Vaccarini: «magister Blasius Lo Jacono […] promisit pro ut se obligavit […] di apparecchiare 12 pezzi di pietra nera della Trizza alti palmi cinque, ed oncie sette, larghi cioè cinque palmi trè, ed un oncia, e sette larghi palmi tre, ed oncie sette di grossezza però palmo uno con squatrarli attorno a punta di picone senza tiffo, né puntiati, né cafarchiosi, e senz’occhi, benvisti a detto Vaccarini, da lavorarsi nella stessa Trizza, dovendo metterci tutto quello vi sarà bisogno così per voltatura, quanto per ogn’altro atti a serrarsi, e spaccarsi per mezzo della serra» (E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini…, cit., I, p. 118, doc. 09.03). 62
Dalle Istruzioni del prospetto lasciate dall’illustrissimo, e reverendissimo monsignor don Francesco Testa vescovo di Siracusa regio Visitatore, del 1753, si rica-
va che era stato inizialmente effettuato un ben più esteso uso di pietra lavica nel rivestimento del primo ordine della facciata, che in quella occasione si decise di rimuovere e sostituire con altro materiale «Poiché s’è conosciuto coll’esperienza di non reggere al tempo la pietra che dicesi della sciara, che trovasi adoperata nel principio d’esso prospetto» (ivi, pp. 119-120, doc. 09.07). 63
Tra gli studi che si soffermano, in particolare, sui prodotti del vulcano e la loro catalogazione segnaliamo: B. FAUJAS DE SAINT-FOND, Recherches sur
les volcans éteints du Vivarais et du Velay, Grenoble 1778; D. DE DOLOMIEU, Memoire Sur Les Iles Ponces: Et Catalogue Raisonne Des Produits de L’Etna, Paris 1788; G. RECUPERO, Storia naturale e generale dell’Etna, Palermo 1815; F. FERRARA, Descrizione dell’Etna, con la storia delle eruzioni e il catalogo dei prodotti…, Palermo 1818; M. MUSUMECI, Sopra l’attitudine delle materie vulcaniche alle arti sussidiarie dell’architettura…, Catania 1838. 64
G. RECUPERO, Storia naturale..., cit., p. 97. Si veda anche F. FERRARA, Descrizione dell’Etna…, cit., p. XI. Dagli stessi si apprende inoltre dell’esistenza
di un’analoga raccolta di lave nel museo dei Benedettini di Catania, realizzata a opera dell’abate Amico. 65
Di tali manufatti fa già menzione Arcangiolo Leanti accostandoli ad altri generici «adorni di architettura» (A. LEANTI, Lo stato presente della Sicilia,
2 voll., Palermo 1761, I, p. 212). 66
Per una approfondita disamina del fenomeno, delle sue radici e dell’opera dei Calì si rimanda all’accurato saggio di C. NAPOLEONE, Le pietre del vul-
cano. Tarsie neoclassiche a Catania, in «Ikhnos», 2004, pp. 127-144. 67
F. FERRARA, Descrizione dell’Etna…, cit., p. 213.
68
G. BARONE, P. MAZZOLENI, Provenienza ed origine di una breccia vulcanica utilizzata come roccia ornamentale in Sicilia, in c.d.s. Ringrazio gli autori per
avermi dato la possibilità di consultare il testo in anteprima. 69 Cortese
segnalazione dell’Associazione LapiS.
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ABSTRACTS
Mario Schwarz, The Origins of the Hofburg in Vienna: a Frederician Castle Recent research shows that the original structure of the imperial residence was a quadrangular castle with square corner towers. Three late-Romanesque windows and walls of rough hewn stone suggest a date in the first half of the 13th century. The castle in Vienna may thus be considered the first example of this typology, well known in the Sicily of Frederick II (Bari, Trani, Augusta) and the transalpine regions of the Holy Roman Empire. The interventions of the Emperor in Austria in 1237 – 1239 and then in 1246 – 1250 most likely led to the construction of this castle as a projected imperial residence.
Marco Rosario Nobile, The Cathedral of Alghero. Notes and Hypotheses on the First Project The Cathedral of Alghero presents numerous unresolved historiographical problems. This essay proposes a reconstruction of the building history from the first half of the sixteenth century and until it underwent a radical break around 1560. Starting from the surviving traces in the apsidal area and from the analysis of the context, the author proposes a reconstruction of the first project and outlines a plausible participation of architectural masters from Valencia.
Isabella Balestreri, Details of the Antique from the Fourth Decade of the 16th Century. The Masters «PS» and «GA col Tribolo» in the Biblioteca Ambrosiana In 2011 the University of Virginia Art Museum presented the exhibition Variety, Archeology, and Ornament. Renaissance Architectural Prints from Column to Cornice with an array of Italian treatises,
drawings, sketchbooks and prints. The works of «Master PS» and «Master GA with the Caltrop» played a crucial role in the exhibition because of their engagement with the “varietas” of Romans ruins rather than the canonical forms of the architectural treatises. Some of the «Single-leaf prints» were already known in the literature, and today we are able to add 14 more (27 image) discovered among the volumes of the Biblioteca Ambrosiana di Milano. The prints, bound with Vignola’s Regola and Labacco’s Antichità, were once part of the Neoclassical Fagnani library. Created circa 1535-38, they depict architectural details of ancient orders, or pure inventions. The unusual forms in the prints and their dating suggest the style of «Master GA» or Galeazzo Alessi (1512-1572).
Fulvia Scaduto, Charles V and the City of Alcamo In the summer of 1535 Carlo V returned to Sicily after his Tunisian exploit. During the journey between Trapani and Palermo, the Emperor and his retinue stayed for a few days in the town of Alcamo. Little is known about the monarch’s triumphal entrance and his short stay in town, but the importance of the event and the long term effects in the urban fabric are evident. The visit sparked the eventual creation of a “Strada imperiale” (imperial street) and a “Loggia” (Senate palace) – in the all’antica style - beginning in 1548-49.
Antonella Armetta, The last Frontier of Stereotomy. Notes on some Treatises of the First Half of the 19th Century on “Oblique” Bridges In the nineteenth century the question of oblique bridges was the last topic for which the community of experts connected to stereotomy was consulted as
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builders sought new solutions. Frequently in the construction of stone bridges over a road or a river the crossing would be non-orthogonal and might require oblique barrel vaults. Although Italy and England did not have an older tradition of writing about stone cutting, like Spain and France, in the last century writers from these countries produced numerous treatises on the subject and the interactions between them, despite noticeable differences in approaches, reveals an obvious exchange of information and the development of new theoretical and pratical hypotheses, that are worthy of greater investigation in order to understand their real impact in the panorama of nineteenth century building.
Paola Barbera, «Il fascino del distinto, l’attrazione per qualcosa che si vorrebbe essere e non si è». Echoes of Wright in Sicily Several times during the twentieth century, European architectural culture is strongly influenced by the figure of Frank Lloyd Wright. With this essay the author reconstructs the ways in which Wright’s idea of planning and architecture arrives in Sicily as well, and how it finds architects ready to interpret it in its various facets. In 1940, Edoardo Caracciolo uses the idea of Broadacre city as a model for the Sicilian landscape after the colonization of latifundia promoted by Fascism; after the Second World War, he would be one among the founders of the Apao Sicilian group. Likewise, Giuseppe Samonà pays homage to the organic idea of architecture of the American master with his two villas in Mondello and Gibilmanna, constructed between 1948 and 1954.
Emanuela Garofalo, The Volcanic Rocks. Ornamental Employments in Historical Architecture in Sicily Volcanic activity contributed over millennia to shape extended areas in Sicily and neighbouring islands, creating at the same time unlimited depositories of natural stone used from ancient times for buildings, handiworks, objects and tools. Catania and Etna region, but also the island of Lipari, still hold the most significant evidences of the use of volcanic rocks and their products. However, the architectural heritage testify a more widespread use in the search
of ornamental effects in Sicily between medieval and first modern age. Leaving rural contexts, road paving and construction issues, this contribution analyzes themes, times and ways of the employment of volcanic rocks in Sicily in order to satisfy aesthetic instances, between XII and XX century. The main and most varied range of applications focuses on the possibility offered by the lithotype to create polychrome effects, by the contrast with lighter-coloured materials and surfaces, with different procedures and formal solutions. Other interesting fields of application are: the design of architectural frameworks in contrast with light-coloured plasters; sculptural elements; covering of bases, pedestals and stairs. Between XVIII and XIX century finally took place a process of assimilation of volcanic rocks to the polishable stones, specially a variety called basaltic breccia in coating altars and luxury furniture. Unlike other lithotypes, that of lava stone and its architectural uses in Sicily is a still ongoing story, frequently charged with new meanings of identity.
Rosario Termotto, 16th and 17th Century Stone Carvers in the Dominican Complex of Cefalù. New Archival Documents Through the examination of archival documents, this essay identifies previously unrecognized craftsmen who executed the skilled work on several structures within the sixteenth-century Dominican complex of Cefalù (church, monastery, cloister and oratory). The author notes the presence of both local and Lombard masters in the creation of stairs, doorways, columns and capitals. The quarry of origin is identified and the contractual agreements between contractors and workers are discussed.
Massimo Petta, “Mount Etna” in Milan and Rome: the Pyrotechnic Volcano as a Setting for Fireworks Display in the 17th Century In 1630 an original pyrotechnical machine representing the volcano Etna was built in the piazza Duomo in Milan. This contribution analyses both the cultural background (in literature the Etna-forge of Vulcan represented the city of Milan, famous for its produc-
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tion of weapons) and the transmission through printed media (books and engravings), focusing on their genesis, their circulation, their milieu and their purposes. G.L. Bernini reprised the innovative Etnatheme for machinery built in Rome decades later: the paper analyses its spectacular set up and “printed counterpart” (avvisi, engraving) in comparison with the Milanese exemplar.
marble intarsia. The renovation was carried out by Francesco Juvarra (brother of the more famous Filippo Juvarra) and Innocenzo Trabucco. The role of the architect Giovanni Amico remains unresolved.
Maria Sofia Di Fede, Mount Etna in a Fireworks Macchina from 1693 in Palermo
Several Parisian archives hold Sicilian architectural drawings created in the first half of the nineteenth century by the students of the École des Beaux-Arts, who visited Sicily as winners of the Grand Prix. The young architects were interested not only in the classical ruins, but also in the broader Sicilian architecture, particularly of the medieval period. For example: Pierre-Joseph Garrez depicted the wooden ceiling of the cathedral of Messina and Jean-Jacques Clerget the courtyard of the Chiaromonte palace in Palermo.
Among the annual celebrations dedicated to Santa Rosalia protector of Palermo in the baroque age, the “festino” of 1693 stands outs. The event was exceptional both for the richness and quantity of the decorative elements, more numerous and more magnificent than normal, and for the tragedy that inspired the principal idea of the festival. The violent earthquake that devastated southeastern Sicily in January 1693 “miraculously” spared Palermo. The salvation of the capital and her citizens, only very limited damage was recorded in the city, was attributed to the protection of the holy patron. Thus the enormous catastrophe determined the program of the festivities as well as the narrative theme and iconographic program of the décor. The calamities that had struck Palermo over the past century were represented through the nave of the cathedral with the terrible earthquake of that year symbolically portrayed on the main altar. In the triumphal carriage Santa Rosalia was represented as “Amazon Protector of the Homeland and Tamer of the Elements.” For the fireworks macchina a detailed and evocative representation of Mongibello (Mount Etna) was devised. Volcanic activity was traditionally held to be the principal cause of sicilian earthquakes.
Giuseppe Giugno, The Chapel of Saint Ignatius of Loyola in the Church of Saint Agatha in Caltanissetta. New Archival Documents
Giuseppe Antista, Sicilian Architecture in the Drawings of the Students of the École des BeauxArts in Paris
Matteo Iannello, Un’intervista “inutile”. Gianni Pirrone meets Carlo Scarpa The following text is the transcription of an interview given by Carlo Scarpa to Gianni Pirrone in december 1975. In that period, together with Roberto Calandra, Scarpa was working on the restoration project of the palazzo Chiaromonte in Palermo, and on the project for a New National Museum in Messina. This document is straightforward and clear, thanks to the spontaneity of the spoken language, and especially precious because it represents one of the rare interviews given by Scarpa. The restoration of an ancient building such as the Steri immediately becomes a chance for broader considerations on restoration issues, its economic and social connections, and on the difficult relation between historical architecture and contemporary intervention.
This article examines the architectural reconfiguration of the Chapel of St. Ignatius of Loyola in the church of Sant’Agata in Caltanissetta during in the first decade of the eighteenth century and the activity of craftsmen from Trapani and Messina skilled in Lexicon - n. 14-15/2012