Mappa della (dis)unione europea - Limes 1-2006

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Limes n. 1/06


EUROPA, EUROPE... LIMES - Rivista italiana di Geopolitica, n. 1-2006

MAPPA DELLA (DIS)UNIONE EUROPEA Fra quattro mesi termina la “pausa di riflessione” decisa dal Consiglio Europeo all’indomani della doppia bocciatura referendaria del trattato costituzionale ed è quasi certo che il massimo risultato prodotto da questo periodo di studio e dibattito apparente consisterà nell’allungamento ulteriore della pausa, in attesa di vedere cosa succede alle elezioni presidenziali francesi del 2007 e di capire se, grazie ai cosiddetti dibattiti nazionali che ogni Paese dell’Unione deve promuovere nel frattempo fra istituzioni e società civile, la malaise europea dà qualche segno di miglioramento. Intanto, l’Europa lavora con le regole di Nizza, fa sapere che non si procederà ad ulteriori allargamenti dopo Bulgaria e Romania se non cambia il quadro istituzionale, discute di come resuscitare se non la lettera almeno lo spirito dell’agenda di Lisbona per rianimare una affaticata economia continentale. Sono terribilmente lontani i tempi in cui si scommise di risolvere contemporaneamente il dilemma dell’approfondimento e dell’allargamento varando in parallelo la moneta unica, l’allargamento al blocco degli ex paesi socialisti e alle due isole mediterranee, e il cantiere costituzionale. Un azzardo necessitato dalla sovrapposizione di impegni assunti in tempi diversi ma messo prima a dura prova dalla stagnazione economica e dalla crisi transatlantica sulla guerra in Irak, non governato poi da una Commissione che ha dimostrato finora scarsa visione e molta timidezza politica, smascherato infine dal no francese e olandese del giugno-luglio 2005 (due paesi considerati sostenitori dell'integrazione europea). I molti appelli e documenti che hanno circolato negli ultimi mesi, da ultimo la relazione Duff-Voggenhuber al Parlamento Europeo, testimoniano il passaggio critico che l’Europa vive: assoluta lucidità nella osservazione dei sintomi della propria malattia e nella indicazione della terapia necessaria e paralisi completa rispetto alla titolarità politica ed istituzionale di una azione che rilanci il processo di integrazione. L’Europa aveva già vissuto la stessa contraddizione nella più grave crisi di politica internazionale degli ultimi anni, e cioè l’operazione militare americana in Iraq che aveva spaccato in due blocchi il nostro continente: i sostenitori ad oltranza di Washington e gli oppositori, tutti però, in definitiva, incapaci di incidere realmente sugli eventi. Molti attribuiscono la responsabilità di questa nuova euro-sclerosi al recente allargamento, un processo condotto troppo rapidamente e con troppi sconti a Paesi ancora politicamente fluidi e instabili che avrebbero mandato in stallo il sistema di decision making continentale e dato vita ad una rete di interessi troppo diversi e talora configgenti per poter formulare, in assenza di regole nuove, una singola policy unitaria. Inoltre, secondo una impostazione che il presidente della Commissione Barroso definisce ironicamente dell’Europa in miniatura, la diversità delle 25 filosofie che stanno dietro ai sistemi economici e politici degli stati nazionali avrebbero definitivamente affossato il progetto di una Europa federale con una sola anima ed una sola cultura politica. Se è innegabile che l'allargamento ha diviso l'Europa in una serie di sub-geografie regionali, culturali, economiche, sociali, politiche, non è però detto che questa situazione sia in sé incompatibile con un disegno federale che vede invece nell’Europa quella Unione di diversità e Unione di minoranze cui ha fatto spesso riferimento l’ex presidente Romano Prodi. Inoltre, se si guardano bene gli altri grandi attori mondiali, dagli Stati Uniti alla Cina


all'India, sarà facile constatare che non è l’esistenza in sé di interessi diversi o di raggruppamenti territoriali sub-nazionali a minare la tenuta di un disegno unitario. Il Parlamento Europeo è supposto rappresentare il demos del nostro continente nel suo complesso, a partire da circoscrizioni elettorali di carattere nazionale e con una riaggregazione successiva degli eletti sulla base delle vecchie e nuove famiglie politiche. Già questa definizione trasforma la tradizionale geometria monodimensionale dei parlamenti nazionali (destra vs. sinistra) in una geometria solida tridimensionale (destra/sinistra su base nazionale, appartenenza nazionale, gruppi politici europei). La quale diventa poi pura geometria non euclidea se immaginiamo di tracciare altre possibili mappe politiche che leggano l’odierno dibattito europeo. a) Nuova Europa, Vecchia Europa – Il copyright appartiene al Segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld, che intese così dividere con un giudizio di valore coloro che avevano capito la guerra al terrorismo dell’amministrazione Bush da coloro che rimanevano inconsapevoli del nuovo salto di qualità delle relazioni internazionali. Neoatlantici ed Euro-Gollisti: di qua l’Europa che si vede, sempre e comunque, permanentemente agganciata all'alleato americano in veste di junior partner tutelato nel sistema di relazioni internazionali, di là l’Europa che ritiene di avere le capacità e che comunque insegue la vocazione di un ruolo autonomo nel sistema internazionale, che resta amica degli Stati Uniti ma è consapevole di alcuni interessi di fondo divergenti, che coltiva nuovi alleati (Russia e Cina) per ricreare un multipolarismo, il vecchio concetto di equilibrio di potenze rivisitato in chiave di grandi aggregati mondiali. L’Europa centroorientale che si sente finalmente al riparo dai rischi dopo aver subito tanto nella propria storia e che segue l’amico americano, e l’Europa disposta semmai a spendere risorse ed energie per assumere un ruolo di secondo protagonista. Secondo Rumsfeld, la nuova Europa è composta da Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, dal partner strategico inglese e dai nuovi amici del Presidente, Italia, Spagna e Danimarca. La vecchia Europa, che Prodi ribattezzerà polemicamente saggia comprende Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia. Anche se tutti i paesi di nuovo accesso sono filo-atlantici, sarebbe possibile immaginare due sottogruppi anche all'interno del blocco dei paesi fondatori della Ue: fondatori filoatlantici e fondatori filo-europei. Ben prima dei primi allargamenti, Olanda e Italia erano saldamente nel campo atlantico, la Germania si collocava in mezzo, Francia e Belgio costituivano il cuore dell’Europa carolingia. Restando nell’ambito della sicurezza, sarebbe poi possibile dividere fra Europa-Nato ed Europa-Pesd, collocando nel primo gruppo quasi tutta la “nuova” Europa che si sente soddisfatta dal nuovo ombrello di protezione guadagnato oltre a Gran Bretagna e Paesi Bassi, includendo invece nel secondo gruppo Austria, Francia, Italia (ma non con l’attuale governo), Germania, Grecia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna, e tenendo conto che esiste il terzo gruppo degli altri paesi, neutralisti alcuni, privi altri di una adeguata massa critica per partecipare al progetto. b) Paesi fondatori, Altri – E’ semplicemente la storia a tracciare la linea che divide Francia Germania Italia e Paesi del Benelux, l’Europa dei 6 da tutti gli altri, ed è in genere alla coppia franco-tedesca che si è guardato con speranza e attesa in ogni crisi di passaggio o di crescita del progetto europeo. Va aggiunto però che altri paesi, come Spagna e Portogallo, anche se di più recente ingresso e anche se collocati alla periferia geografica rispetto al nucleo, si sono integrati con successo nel core originario mentre altri, come la Gran Bretagna, anche se entrati nella Comunità dieci anni prima non hanno tuttora abbandonato atteggiamenti da outsider.


c) Paesi grandi, Paesi piccoli – La distinzione non pesa oggi nella composizione della Commissione, poiché a Nizza e nel testo della abortita Costituzione si è convenuto di non escludere la rappresentanza di alcun Paese dall’organo esecutivo dell’Unione, ma pesa parecchio nel calcolo dei voti ponderati in Consiglio per tutte le materie in cui si delibera a maggioranza e rileva altrettanto nel sentimento che muove gli sparuti drappelli di parlamentari dei piccoli Paesi nell’assemblea dei 736 deputati di Strasburgo. Costituisce un rischio di frattura potenziale la circostanza che fra i nuovi membri solo la Polonia abbia lo status di Paese grande con i suoi 38 milioni di abitanti e che invece Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna appartengano al nucleo dei fondatori o siano comunque integrati da almeno un ventennio. Non è un caso che i politici più accorti raccomandino sempre, per ogni futura iniziativa di rilancio europeo, di cercare il coinvolgimento polacco. Cosa che, dopo le ultime elezioni politiche a Varsavia, appare però fra il difficile e l’improbabile. d) Paesi mediterranei, Paesi nordici – La Comunità muove dal suo cuore originario verso nord, nord-ovest, quando inizia il processo di allargamento; sterza verso sud per tutti gli anni ’80, completa alcuni vuoti negli anni ’90 e muta il suo baricentro verso est – coprendo però tutto l’arco da nord-est a sud-est – con l’allargamento del 2004, insisterà fortemente in direzione sud-est se includerà dopo Romania e Bulgaria, Croazia, Balcani Occidentali e infine Turchia. La distinzione fra Mediterraneo e Nordic dimension è rilevante e visibile perfino nei programmi delle presidenze semestrali del Consiglio. L’Europa del Nord, che troverà un proprio interprete nella presidenza finlandese della seconda metà di questo anno, è una Europa lontana dai pericoli e dai conflitti, a bassissima densità demografica, ad alta tecnologia e ad alto reddito, interessata alla geografia dell’energia e ad un rapporto di buon vicinato con l’orso russo. L’Europa mediterranea è contigua all'area di crisi mediorientale, è densamente popolata e a più basso reddito e soggetta a massicce immigrazioni, ha una economia ricca ma matura e con minori contenuti tecnologici, ma vede nelle nuove rotte fra Cina e mediterraneo una opportunità secolare per rilanciare un ruolo strategico planetario nello snodo dei commerci. e) Integrazionisti, Intergovernativi – Le indagini dell’Eurobarometro hanno riservato molte sorprese negli ultimi anni: la bocciatura referendaria è arrivata da Paesi del nucleo storico, ma il consenso verso lo spostamento delle decisioni di politica estera e di sicurezza a livello comunitario durante la crisi irakena era ampiamente maggioritario in tutti i Paesi tranne la Gran Bretagna. Inoltre, Paesi chiave come Italia e Germania hanno vissuto svolte politiche recenti che non li rendono più facilmente collocabili. Hanno comunque un dna integrazionista il nucleo dei fondatori, i membri mediterranei entrati negli anni ’80, Austria e Cipro. Sono tendenzialmente intergovernativi tutti gli Stati di nuovo accesso, e i Paesi nordici, incluso il secondo giro di membri storici composto da Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca. f) Pro allargamento, Anti allargamento (Pro Turchia, Anti Turchia) – E’ uno dei punti di maggiore crisi, anche per il contrasto fra ciò che è considerato politically correct e ciò che ribolle nel ventre profondo dei singoli Paesi. Si diffonde l’idea che Nizza non è un quadro istituzionale adatto per ulteriori allargamenti dopo il 2007 e ha fatto scalpore la modifica costituzionale francese con la quale Chirac ha subordinato il sì alla Turchia (e a chiunque altro) ad un referendum, una mossa che non lo ha resuscitato nei sondaggi e che ha però paralizzato il futuro dell’Unione. In gioco è ovviamente il possibile trade off fra allargamento e approfondimento dell’Unione politica, un bivio che sarebbe possibile risolvere all’inglese, cioè dilatando l’integrazione economica e riducendo quella politica, o


alla federalista cioè passando la gran parte dei dossier al primo pilastro e dunque all’uso generalizzato del voto a maggioranza. Ma il dibattito sull’allargamento sconfina inevitabilmente dalla geografia alla cultura quando l’accenno ai confini diviene in realtà l’allusione all’identità del progetto europeo, alle culture che esso contiene, a nuovi Paesi membri che – ahinoi – la maggioranza degli europei non saprebbe nemmeno collocare e identificare sulla carta. Da rilevare che i Paesi entrati nel 2004, con la tipica sindrome del late comer, sono fra i più ostili verso l’allargamento e, più in generale, verso una concezione aperta del progetto europeo. g) Paesi di immigrazione, Paesi di emigrazione – Non ci riferiamo al “polish plumber”, all’idraulico polacco degli incubi francesi, sia perché la libera circolazione delle persone e dei lavoratori è uno dei fondamenti non eludibili dell’integrazione continentale, sia perché i numeri reali dicono che non c’è stato, e presumibilmente non ci sarà, alcun movimento epocale da est verso ovest. La distinzione riguarda invece i flussi migratori extra europei, in altre parole, i paesi che ospitano al loro interno diverse comunità etniche e religiose e quelli omogenei etnicamente. Il confine fra queste due europe sembra quello della ex cortina di ferro e sono le opportunità reali di lavoro e di integrazione a segnare la scelta degli immigrati. Da una parte l'Europa occidentale, inclusi Paesi che una volta davano emigranti e che oggi li accolgono nonostante la propria perifericità continentale come l’Irlanda, dall’altra i Paesi dell’Europa centro-orientale. h) Schengen sì, Schengen no – E’ una delle due cooperazioni rafforzate degli anni ’90, che sono entrate con maggiore forza nella vita comune dei cittadini europei, nel loro vissuto quotidiano (i diversi controlli di frontiera fra voli Schengen e non Schengen), e alla quale l’Italia ha aderito con un paio di anni di ritardo. Vi appartengono 15 Paesi, non coincidenti però con l’Europa pre-allargamento, poiché Gran Bretagna e Irlanda si sono chiamate fuori, mentre hanno aderito (pur non essendo Stati membri dell’Unione Europea) Norvegia e Islanda. i) Secolarizzati, Religiosi – Se prendiamo in considerazione il dibattito costituzionale sull’opportunità o meno di inserire nel preambolo il riferimento alle radici cristiane o la ricerca presentata dal Pew Center nell’estate scorsa sul sentimento religioso e l’influenza dei temi correlati nell’agenda politica domestica, si collocano nel primo gruppo la Francia per tradizione, la Repubblica Ceca, scoperta come paese più laico d’Europa, mentre nel secondo stanno Polonia, Italia, Slovacchia, Irlanda, Portogallo. La Spagna sta compiendo una drammatica inversione di rotta da Paese super-religioso a Paese con una agenda a forte valenza laicista; tutti gli altri non sono chiaramente collocabili. l) Nucleari, Non nucleari – L’energia, come dimostrano le vicende del gas russo, non smetterà di essere uno dei fattori chiave dell’economia europea del futuro. I Paesi membri dell’Unione possono essere divisi fra quelli autosufficienti dal punto di vista energetico e quelli dipendenti - in alcuni casi come quello italiano pesantemente dipendenti - dalle importazioni. Una maggioranza stretta di Stati membri dispone di impianti nucleari operativi sul proprio territorio (Svezia, Finlandia, Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Germania, Francia, Rep. Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Lituania) anche se una parte delle centrali nell’est europeo sono soggette a programmi di riconversione e chiusura a causa delle insufficienti condizioni di sicurezza. m) Euro sì, Euro no – E’ una distinzione facile e meccanica, oggi quasi coincidente fra i Paesi membri prima del 2004 e quelli di nuovo ingresso. In realtà, Svezia, Danimarca e Regno Unito, pur godendo di fondamentali ampiamente coerenti con i criteri di


Maastricht hanno scelto di non farne parte, sia per ragioni di forte identità nazionale della moneta, sia per il buon andamento della crescita della propria economia e per la minore dipendenza dagli scambi commerciali con i Paesi euro. Dall’altra parte invece, oltre la metà dei Paesi entrati nel 2004 ha quasi completato il sentiero di risanamento virtuoso che li condurrà entro pochi anni a dotarsi della moneta unica. Il cleavage è significativo poiché molte delle proposte relative alla ripartenza del progetto europeo sono legate a cooperazioni rafforzate in campo economico da mettere in atto a partire dai Paesi dell’Eurogruppo. n) Paesi contributori, Paesi ricettori – Il rapporto fra il contributo versato da ogni Stato membro all’Unione in percentuale del proprio Pil e l’insieme delle risorse che ritornano indietro sotto varie forme definisce il ruolo di contributore o ricettore di ogni singolo Paese, almeno dal punto di vista meramente statistico. Fino a qualche anno fa, semplificando, si poteva dire che Germania, Olanda e pochi altri finanziavano tutti gli altri, in particolare Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e Grecia. Oggi, dopo il complicato accordo sulle prospettive economiche e finanziarie 2007-2013 che verrà ridiscusso fra Consiglio Commissione e Parlamento, potremmo semplificare ancora collocando da una parte l’Eurogruppo e dall’altra i nuovi membri dell’allargamento. Le cose sono in realtà più complesse, se si prende in considerazione il peso che la politica agricola riveste per i francesi o il rebate di thatcheriana memoria per la Gran Bretagna. E va infine aggiunto che un mercato unico, così grande e stabilizzato, offre maggiori opportunità per alcuni grandi Paesi e per i propri apparati produttivi, anche se il conto di Bruxelles, preso a se stante, sembra dire il contrario. o) Pre Welfare, In Welfare, Post Welfare – Il cosiddetto modello sociale europeo è frequentemente evocato per distinguere il capitalismo europeo e la sua economia inclusiva dalle altre aree del pianeta, ma il Consiglio informale di Hampton Court – che doveva nelle intenzioni di Tony Blair dedicare la parte centrale della propria discussione ad una definizione una volta e per sempre di questo modello – ha deciso di stralciare l’argomento. Non è un caso che il capitalismo anglosassone, fondato su servizi e finanza, quello renano, basato su grande impresa, sindacato, banca e cogestione, quello post-comunista, azzoppato dal complesso di inferiorità ma dopato dalla irrefrenabile voglia di crescere, quello mediterraneo, centrato sulla proprietà familiare e sull’intervento correttivo dello Stato, non abbiano trovato facilmente un punto di equilibrio. L’Europa continentale vive ancora nell’era piena del welfare, un clima di alta protezione sociale, basso dinamismo economico e alta disoccupazione, ma sente il morso congiunto di Paesi pre-welfare come il blocco centro-orientale e post-welfare come Gran Bretagna e Irlanda che offrono una protezione sociale più bassa ma una economia dinamica in grado di creare occupazione. Ci sarebbe, e tutti la studiano con una costante invidia, la variabile scandinava, protezione sociale alta e personalizzata coniugata con dinamismo economico, ma là il sistema nazionale subisce un minor condizionamento di variabili esterne (fattori demografici e migratori, trasformazioni economiche). Per decidere quanto pesa nel futuro l’agenda di Lisbona e Goteborg (economia della conoscenza e dell’innovazione, sviluppo sostenibile) e quando sarà possibile una protezione continentale di uno standard di diritti sociali, questa geografia sub-europea ha una importanza rilevante. p) Protezionisti industriali, Liberisti commerciali – L’Europa ha compreso di dover cercare un nuovo ruolo nella competizione economica globale; ciascuno Stato membro cerca a sua volta un nuovo posizionamento delle proprie produzioni nell’economia europea. Lisbona e Goteborg sono le stelle polari di questa presunta trasformazione ma il negoziato di Hong Kong e il confronto con Stati Uniti e Cina


rappresentano la dura realtà quotidiana. Soffrono i Paesi grandi del nocciolo duro come la Francia che difende accanitamente la Pac, l’Italia che sconta la crisi del tessile abbigliamento e la insufficienza dimensionale delle proprie imprese, la Germania meno dinamica; tutti costoro sono produttori ed esportatori che intendono difendere le proprie industrie ma allargare i propri mercati. Per contro, i Paesi piccoli, quelli nordici, quelli di recente accesso, quelli vocati per tradizione storica come l’Olanda sono più liberisti perché importatori (ad est, “importatori” pure di investimenti e delocalizzazioni produttive da ovest) e consumatori. Non a caso, la Direttiva sui servizi di imminente approvazione è vissuta in alcuni Paesi come un incubo, in altri come una grande opportunità. Le geografie subeuropee di genere economico potrebbero proseguire dividendo fra Old Economy, New Economy, con la prima radicata nel cuore dell’Europa e in Italia, con produzioni manifatturiere spesso mature e a medio basso contenuto tecnologico e la seconda lanciata verso il nord, nella Finlandia della Nokia o nel Regno Unito delle grandi società finanziarie. Sul piano macro-economico, il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità e di Crescita permetterebbe di introdurre nell’area Euro la distinzione Rigorosi, Pro-Growth sia nel senso di coloro che considerano il controllo comune dei parametri macroeconomici condizione indispensabile per la fiducia reciproca fra i soci del club, sia guardando a quanti economisti e politici invocano nei singoli Paesi che il Patto sia letto anche in quella parte che richiama la crescita e che richiederebbe dunque non solo il freno della stabilità ma l’acceleratore di una politica economica coordinata. q) Centrodestra, centrosinistra – Le molte divisioni dell’Europa non troveranno una loro compensazione nell’armonia di un ciclo politico omogeneo dei governi nazionali. Anche sotto quel profilo, l’Europa è oggi quasi spaccata come una mela: sono governate da esecutivi popolar conservatori Austria, Danimarca, Olanda, Polonia, Italia, Grecia, Francia, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Slovenia, Slovacchia, Malta; le socialdemocrazie reggono le sorti di Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Finlandia, Lituania, Svezia, Ungheria, Repubblica Ceca. Sono di difficile classificazione la grosse koalition appena varata in Germania, le originali formule politico-istituzionali di Cipro e Estonia, la recente svolta del Portogallo. L’agenda che l’Europa medesima si è data per i prossimi anni – strategia di Lisbona, liberalizzazione dei servizi, partnership strategica con la Cina, spazio delle quattro libertà con la Russia, politica di vicinato, proiezioni balcaniche e mediterranee, recupero della relazione transatlantica ma difesa di alcuni progetti economici confliggenti come Galileo o Airbus, futuro del trattato costituzionale - esigono che lo stallo sia rotto in qualche modo. Il gioco delle mappe che abbiamo condotto fin qui testimonia però che non esiste un Artù europeo predestinato a estrarre la spada dalla roccia per una sovrapposizione virtuosa di interessi. La palla è per molte ragioni nel campo dei fondatori e nella cerchia dei Paesi integrazionisti dei primi allargamenti ma sono proprio questi protagonisti che devono compiere i maggiori sforzi. Da un lato, essi devono scrollarsi di dosso la nostalgia di una piccola Europa che non c’è più e che loro stessi hanno deciso di cambiare. Dall’altro, hanno il duro compito di riformare sistemi economici e sociali nazionali che considerano l’Europa come un vincolo e una malattia, non capendo che l’insidia viene da fuori (dal mondo globalizzato) e da dentro (la perdita di coesione sociale) e che l’Europa semmai è proprio l’occasione e lo strumento per abbandonare la vecchia partita “Europa su Europa” e cominciare quella più difficile “Europa su Mondo”. Lapo Pistelli


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