HYBRIDITY, il métissage grafico dalle avanguardie ad oggi: analisi storica e sviluppi futuri

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HYBRIDITY il mĂŠtissage grafico dalle avanguardie ad oggi: analisi storica e sviluppi futuri

LARA CAPUTO



HYBRIDITY il mĂŠtissage grafico dalle avanguardie ad oggi: analisi storica e sviluppi futuri


Politecnico di Milano Tesi di Laurea Magistrale Corso di Laurea: Design della Comunicazione Hybridity: Il mĂŠtissage grafico dalle avanguardie ad oggi, analisi storica e sviluppi futuri Relatore: Mauro Panzeri Studentessa: Lara Caputo 770196 A. A. 2011-2012 Font utilizzate: Mercury Text; Hofler & Frere-Jones, Parisine Sombre e Parisine; Jean Francois Porchez.



CONTENUTI

Abstract Struttura della ricerca

PARTE 1

Il métissage grafico 1.1 Introduzione 1.2 Timeline

p. 12 p. 16

PARTE 2 Il métissage 2.1 Introduzione 2.2 Hybridity, etimologia e nascita del termine 2.3 La teoria del "terzo spazio" 2.4 Il métissage: una linea di frontiera aperta

p. 28 p. 31 p. 33 p. 36


PARTE 3 Casi studio 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

H. Nicolaas Werkman Willem Sandberg Wolfgang Weingart April Greiman Cranbrook Academy of Art Appendice 1: "Cult of the Ugly"

p. 46 p. 56 p. 66 p. 76 p. 86 p. 94

3.6 Edward Fella 3.7 Terry Jones Appendice 2: L’estetica punk

3.8 Art Chantry 3.9 Harmen Liemburg

PARTE 4 Il digitale è ibrido? 4.1 Introduzione 4.2 Analogico e digitale,

p. 143 p. 145

la metafora dei layers 4.3 Mix-remix, hibridity nei new-media 4.4 Post-digital?

p. 149 p. 153

PROGETTO

Hybri-land: Nove identità ibride e un percorso

1 Introduzione (How it is made?) 2 Il processo,

p. 160 p. 162

gli utensili "ponte" 3 Obiettivi e considerazioni

p. 168

Bibliografia

p. 100 p. 110 p. 120 p. 122 p. 132


IMMAGINI PARTE 1

Il métissage grafico 1.2 Grafico Timeline

p. 23

La timeline che racconta il fenomeno del métissage grafico attraverso i nove casi studio

PARTE 3 Casi studio

3.1 The Next Call 2: copertina, testo di H.N. — — —

Werkman e Jan Wiegers, 6 Ottobre 1923.

The Next Call 4: pagina 5, n.d. The Next Call 6: foglio aperto interno, Ottobre-Novembre 1924. The Next Call 4: pagina 3-4, n.d. Shoorstenen 2 (Chimneys 2): "Druksel", Settembre-Dicembre 1923. Tiksels: composizioni realizzate con macchina da scrivere, 1923-29. De Ploeg in Pictura: poster per il circolo culturale De Ploeg, Aprile 1925.

3.2 Henry Moore Exhibition Poster: poster per il Museo Stedelijk,1949. — — —

Experimenta Typografica 5: "l'art, le superflu indispensable",1944. Experimenta Typografica 11: 1956; Font, metro di Waterloplein, 1980. Experimenta Typografica 2: "Mens sana in corpore sano",1944. Poster "Summer Exhibition 1800-1940": poster per il Museo Stedelijk,1946. Piet Zwart 80, Sleutelwoorden Keywords: 1966.

3.3 Collage, progetto indipendente: n.d. — — —

Wordformat poster "18th Didacta/Eurodidac": dettaglio,1980-81; Projekte: 1979. Wordformat poster "18th Didacta/Eurodidac": 1980-81, poster intero e layering. Wordformat poster "Herbert Bayer": 1980-81, poster intero e layering. Studi sulla lettera "M": 1965; Wordformat poster "Kunstkredit Basel": 1983.

p. 52 p. 53 p. 54 p. 55 p. 56 p. 57 p. 58 p. 62 p. 64 p. 65 p. 66 p. 68 p. 69 p. 72 p. 73 p. 74 p. 75 p. 77


3.4 — — —

Cover Magazine Wet: Settembre/Ottobre 1979. The modern Poster: poster per il Museum of Modern Art, 1988. Poster Southern California Institute of Architecture: 1986. Poster Design Quarterly #133: "Does it make sense"?: 1986.

3.5 "Broadcast Designers Annual Conference": poster di James A. Houff, 1987-1989. — — —

"Nu-Bodies Poster": poster di Ed. Fella, 1987. Cranbrook Design Poster: 1989; Calck Hook Dance: brochure Calck Hook, 1985. Architecture Symbol and Interpretation: Exhibition poster, 1981; An evening of Dance Poster: 1989. Kasimir Malevich Design History poster: 1980.

3.6 "A matter of painting area" MFA candidates: f/r flyer, Focus Design Gallery, 1988. — —

3.7 — — —

p. 92 p. 93 p. 94 p. 96 p. 97 p. 107

Glass Insallation: f/r flyer, Focus Design Gallery, 1990. Detroit Focus Gallery collaborate, artists spaces: 1987. Aiga lettering: 2006; Not a font, commercial art alphabet: 2005.

p. 109 p. 110

001 The i-D One issue: p.3, 1980. 001 The i-D One issue: pagine interne, 1980; 015 i-D issue: 1984. 015 i-D issue: 1984. 303 i-D issue: 2009. 08 i-D issue: copetina, 1983.

p. 117 p. 119 p. 120 p. 122 p. 123

3.8 "Legs against arms give peace dance poster": poster, 1986. — — —

p. 82 p. 84 p. 85 p. 87-88

"Drastrip Syndacate & The Last Vegas": locandina 3B, 1975. Gang of Four: locandina, 1980; Rollercon 2010: poster, 2009. "I Take One Everywhere, I Take My Penis": poster, 1993. The Night Gallery: poster, 1991. Give Peace a Dance: poster, 1987.

p. 129 p. 131 p. 132 p. 133 p. 134 p. 135


3.9 "Have Faith (in wordless knowledge)": poster e processo, 2009. — — —

"Koninklijke Prijs voor Vrije Schilderkunst": poster, 2013. "Objects in mirror": poster e processo, 2012. "Color space": poster, 2012; "Garbage In, Garbage Out": poster, 2013.

p. 140 p. 141 p. 142 p. 143

PROGETTO Hybri-land

2 Fase 1. Fotografie autoprodotte: Immagini selte; raffigurano i personaggi

p. 163

e le loro tecniche principali, la stampa delle immagini è in scala di grigio, Marzo 2013. Fase 2. Fotografie autoprodotte: sopra; collage manuale; taglio degli elementi da inserire nel progetto, con tecnica manuale, sotto; realizzazione collage su foglio a formato reale, 420 x 1485 mm, Marzo 2013. Fase 3. Fotografie autoprodotte: sopra; dettaglio collage manuale, sotto; rielaborazione digitale; integrazione elementi e rifinitura del file definitivo di stampa. Marzo, 2013. Fase 4. Dettagli interni impaginato finito; prototipo di formato 297 x 1000 mm Marzo, 2013.

p. 164 p. 165 p. 166 p. 167 p. 168p. 169



Abstract


Hybridity, ovvero incrocio, mescolanza, métissage, ibridità. Come si applicano questi concetti alle arti grafiche? Affondando le sue radici nelle avanguardie e attingendo a diversi metodi di applicazione l’ibridità ha accompagnato la sperimentazione grafica e modificato il percorso progettuale creando uno spazio nuovo di lavoro, intermedio e “caotico”, in cui il vecchio si mischia con il nuovo, in cui lingue diverse vengono tradotte nello stesso codice, in cui tecniche distanti tra loro coesistono. Questo spazio rappresenta una sorta di “zona franca” in cui il progettista accede e si muove sempre più agilmente, aiutato dall’evoluzione digitale. Qui nascono nuove metodologie e nuove forme di linguaggio su cui la ricerca si focalizza, e che si inseriscono nell’insieme aperto del métissage grafico. Hybridity, si pone come riflessione sulla realtà che ci circonda, può tradursi in un atteggiamento, un metodo, una tecnica; come affermato da Lev Manovich: “Alla fine della decade, la “purezza” alla base della comunicazione dell’immagine è diventata un’eccezione e la comunicazione ibrida la normalità”; in questo scenario diventa sempre più difficile riconoscere l'origine delle cose e l'hybridity è una caratteristica che si fa propria non solo dell'ambito grafico ma di tutte le discipline e pratiche


quotidiane. L’uomo è immerso in un mondo in cui “mischia” continuamente, e pare che anche lo sviluppo tecnico e digitale segua questo corso; dai concetti di multimedialità, a quelli di mix e remix, l'evoluzione è in mano a processi dettati in misura sempre maggiore dal meticciamento; visibili nei loro interventi molteplici e con strumenti eterogenei. La nascita del digitale è stata indispensabile per l'incremento di questo fenomeno dando la possibilità, soprattutto in sede progettuale, di “far dialogare” differenti media e di fornire un linguaggio comune. L'hybridity, principio alla base dell'evoluzione, si propone come paradigma che gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo tecnico e socioculturale producendo nuova conoscenza.

Struttura della ricerca Per evidenziare la definizione sopra citata, cuore della ricerca, si descrive il fenomeno dapprima in ambito progettuale e tecnico con un' analisi supportata dall'esperienza grafica di nove casi studio; vengono analizzati metodi e tecniche il cui utilizzo eccede quello delle “tecniche dominanti” e si caratterizza per un approccio “misto”. Segue un'indagine multidisciplinare, in cui lo stesso tipo di approccio (misto) viene riscontrato in numerosi campi e costituisce le basi di nuove teorie e/o sviluppo di metodi; il parallelismo tra le tecniche progettuali e le teorie multidisciplinari nasce da affinità che accomunano i percorsi apparentemente distanti di materie quali l'antropologia, la biologia o la creolistica e il graphic design. Questi parallelismi, presenti in ogni caso studio analizzato, vengono definiti“meticci”, appunto.



1

Il MĂŠtissage grafico


Il Métissage grafico

1.1

Introduzione

“L’ibridità (l’incrocio tra tipografia, fotografia, e/o immagini lineari all’interno della stessa struttura o superfice), è stata perseguita dalle avanguardie, nella progettazione di posters, pubblicità, libri. Anche nel 1910-20, le tecnologie per la riproduzione meccanizzata erano ben definite: processo mezzitoni (1880), fotografia (1840), litografia (1780), e stampa a pressione, torchio (1450)” (Lupton, 2007). La simultaneità, lo scontro, la disgiunzione, di cui parla Ellen Lupton, sono tra gli elementi principali che caratterizzano una parte consistente di produzione grafica che dagli inizi degli anni ’20 ad oggi, ha segnato i sentieri “marginali” e meno battuti della comunicazione visiva. Le “sperimentazioni” grafiche e l’interferenza tra tecniche, ha rappresentato e rappresenta nello scenario contemporaneo, un sistema aperto, “frattale”, in cui le possibilità di operare oltre le “teorie universali” si fanno reali. Lungo una linea temporale di circa un secolo, differenti “cambi di guardia” (di graphic designer, scuole e accademie) hanno modificato stili e regole, approcci progettuali e tecniche; questo favorito senz’al-

«[...]Gli artisti e i designer delle avanguardie utilizzarono queste tecnologie esistenti in nuovi modi, sperimentando i processi di produzione e evidenziandone la simultaneità, lo scontro, la disgiunzione» (Lupton, 2007)

16 17


tro dallo sviluppo tecnologico. Quello che durante questo periodo di tempo è rimasto immutevole, ed anzi si è ripetuto con una “cadenza” piuttosto regolare, è un certo tipo di comunicazione visiva, che ha operato oltre quella che potremmo definire “la via maestra”(corrispondente allo Stile e alle tecniche dominanti). In questo tipo di produzione grafica, vi è un minimo comun denominatore; la riflessione sul piano tecnico non vuole focalizzarsi intorno alla scelta di tecniche obsolete contro l’entusiasmo per le nuove tecnologie o viceversa; piuttosto si concentra sul meccanismo di contaminazione che avviene all’interno dello stesso piano di lavoro (sia esso un foglio, uno schermo, o una tela vecchia), e che attinge da qualsiasi ambito purchè risponda all’intento progettuale. La sperimentalità infatti viene intesa come una ricerca del senso del progetto aldilà di quello che lo sviluppo tecnologico o lo Stile tradizionale impone. La definizione di hybridity, si applica sia all’approccio che è volto al “dialogo”, allo scambio attivo tra elementi eterogenei e distanti, che all’impego “incrociato” di tecniche e strumenti che forniscono opportunità continue e nuove di progetto. In questo quadro, spesso, i risultati sono imprevedibili e innovativi; si manifestano come atteggiamenti sovversivi rispetto alle regole tradizionalmente accettate e per questo rappresentano motivo di discussione e critica. Fin dalle avanguardie, dagli Experimenta Typografica di Willem Sandberg, che stravolgono l’idea della tipografia tradizionale, ai “druksels” di H.N. Werkman, che propongono un uso “alternativo” dei caratteri tipografici su carte di recupero, alla “New Typography” di Wolfang Weingart e ai suoi poster realizzati con sfondi ad effetto moiré, alle sperimentazioni di April Greiman, nate insieme alla comparsa del Macintosh e di nuovi strumenti digitali, ecc., ci vengono forniti esempi esaustivi della “rottura” che fu inevitabilmente provocata nei confronti degli stilemi tradizionali. Oltre a questo è indubbia la “fertilità” del terreno di questa frontiera aperta, su cui si sono sviluppate le ricerche grafiche degli autori.

Più tardi sulle scie decostruttiviste elaborate da J. Derrida, per cui la struttura formale abbandona le gerarchie “universali” si sviluppano le teorie di Katherine e Michael McCoy, del dipartimento della Cranbrook Academy of Art, in cui l’approccio alla rappresentazione si avvale di un nuovo ordine/disordine di decodifica degli elementi: con il desiderio utopico di liberare i modelli grafici dagli imperativi commerciali. Questo approccio esplora l’interconnessione dei linguaggi della stampa, dei new media, dell’architettura, della grafica e

«[…]In contrasto, il movimento storico delle avanguardie, “rompe” con la storia precedente, inventando una nuova forma di linguaggio, che rimane in vita oggi, e rappresenta, il linguaggio fondamentale nello sviluppo contemporaneo di software» (Lupton, 2007)


Il Métissage grafico

sarà soggetto ad aspre critiche di autori come Steven Heller e Massimo Vignelli, convinti nella forza costruttivista. Le motivazioni della produzione tipica dell’esperienza di Cranbrook, sono da ricercare sicuramente nella nascente “rivoluzione digitale”: la rivoluzione digitale che ha consentito l’interconnessione e traduzione di diversi linguaggi in uno stesso codice e il trasferimento su un unico media (il computer) ha permesso lo sviluppo di un “piano” per la progettazione dove le possibilità sono infinite. Il meta-media di cui parla Lev Manovich (Manovich, 2007, p. 7-18) riferendosi al computer, non consiste in un semplice mezzo, che consente la fusione delle differenti tecniche, ma piuttosto un mezzo che fornisce un nuovo tipo di linguaggio della rappresentazione, la “deep remixability”, che lascia aperte le frontiere dell’inventiva unite al continuo sviluppo di nuovi software (Manovich, 2007, p. 7-18). Il remix si propone quindi come nuovo linguaggio per costruire le immagini e il mondo che ci circonda, ricercando nel cuore delle strutture i propri punti di vista, i propri strumenti, da integrare nello spazio comune. Vedi 4.3

18 19


Strumenti Analogici

Strumenti e tecniche Digitali

Interventi manuali al progetto

Nuovo impiego delle tecniche

Willem Sandberg

1.2 Hendrik

Nicolaas Timeline

The Next Call Druksels, tiksels

1897-1984

Werkman 1882-1945 Experimentia Typografica Cataloghi museo

Macc

hina

Ma

cch i

da sc

rivere

na

da

scr ive

re

1908 La Timeline di seguito illustra come il fenomeno dell'hybridity nell'ambito grafico si ripeta lungo una direzione spazio temporale di circa un secolo. fabbrica di Di pari passo allo sviluppo tecnologico si formano focolai di ricerca;Prima ai margini dell'evomacchine da scrivere luzione tecnica e metodologica, si assiste all'impego delle tecnicheOlivetti, dominanti integrate Ivrea,

1908impiego rispetto a strumenti obsoleti o la loro trasformazione che ne vede un diverso al loro utilizzo tradizionale. Nascono nuove forme di progettazione e sperimentazioni; a volte la contaminazione con le tecniche dominanti è1903 nulla,c.ea.l’ibridazione degli strua. c. della “strada maestra”; almenti, degli approcci, dei materiali, avviene del tutto “aldilà” Torchio tipografico Offset tre volteb.il confine è più labile, ne è un esempio la nascita del planografica linguaggio digitale e del cilindri) (1843) personalRotativa computer che determinanoelettricità un’apertura verso le(3nuove tecnologie soprattutto Ira Washington Rubel riconoscendone le grandi opportunità in termini di libertà e traduzione all'interno dello stesso medium. La timeline si propone di fotografare questa realtà descrivendo il percorso tradizionale dell'evoluzione grafica, di pari passo a quello non convenzionale, sviluppatosi marginalmente. La divisione della timeline è realizzata infatti, su due piani di lettura differenti; l'inquadramento del periodo storico-culturale e dello sviluppo tecnico lungo la “linea” dominante, e l'analisi dello sviluppo oltre “frontiera”, cheFuturismo configura l'approccio ibrido attraverso i nove casi studio analizzati. La linea definita “dominante” è a sua volta divisa su tre principali focus, determinanti nello sviluppo del graphic design: lo sviluppo tecnico fine seconda (legato alle tecniche di stampa), l'inquadramento rivoluzione delle principali correnti artistiche che industriale hanno influenzato anche la progettazione grafica dal 900 ad oggi, gli eventi storici che hanno operato cambiamenti a livello globale.

1900

1910

gart

in W. We

try

1914 d.

A. Chan

urg

H. Liemb

Macchina serigrafica

PRIMA GUERRA MONDIALE


Il Métissage grafico

Alcune osservazioni: Riguardo le tecniche utilizzate possono emergere alcune riflessioni: - Quasi tutti i casi studio svolgono una produzione indipendente rispetto alle tecniche imposte dallo sviluppo tecnologico ed elaborano delle “tecniche personali”; è quasi sempre presente una forte componente “manuale” (vedi p.s. ) che prevede l'utilizzo di strumenti personalizzati e la manipolazione degli artefatti aldilà delle tecniche dominanti di produzione. - Nel periodo che va dagli anni '70 agli anni '90, si ha una concentrazione di “esperimenti” grafici, che vedono l'impiego delle nuove tecnologie; questo spiega probabilmente come il digitale abbia aperto la strada al mètissage grafico, rendendo possibile il dialogo di differenti tecniche. - Nello stesso periodo il numero di tecniche che vengono “mischiate”, è più considerevole rispetto al passato, e ancora una volta probabilmente gioca un ruolo fondamentale lo sviluppo digitale. Invenzioni come la fotocopiatrice, il Macintosh e il linguaggio postscript incrementano lo sviluppo di focolai ai margini della fascia “dominante”; in questo caso gli autori si dimostrano aperti ad accogliere le tecnologie ma la differenza rispetto l'utilizzo “tradizionale” che segna la linea di demarcazione con lo scenario dominante risiede nel mix operato mettendo in “dialogo” i diversi media. L'elemento interessante che nasce da questi utilizzi alternativi sono nuove tecniche, con la caratteristica di grande personalizzazione da parte dei progettisti; è il caso di Werkman che per realizzare le sue composizioni utilizza i caratteri tipografici “sottosopra” o la macchina da scrivere in linea con lo sviluppo tecnologico della sua epoca ma utilizzata in modo del tutto insolito (i suoi famosi componimenti, chiamati Tiksels: disegni astratti realizzati con le lettere battute a macchina). In altri casi (ad esempio in quello di Ed Fella) si persegue l'obiettivo progettuale senza servirsi (quasi totalmente) delle tecniche imposte, abbracciando tecnologie obsolete o strumenti sempre esistiti come pennelli, cutter, matite colorate, colla, dando molta importanza alla componente manuale.

20 21


Strumenti Analogici

Strumenti e tecniche Digitali

Interventi manuali al progetto

Nuovo impiego delle tecniche

Hendrik Nicolaas Werkman

Willem Sandberg

The Next Call Druksels, tiksels

1897-1984

1882-1945 Experimentia Typografica Cataloghi museo

Macc

hina

Ma

cch i

da sc

rivere

na

da

scr ive

re

1908

Prima fabbrica di macchine da scrivere Olivetti, Ivrea, 1908

gart

in W. We

1903 c. a. a. Torchio tipografico b. Rotativa (1843)

c. elettricitĂ

Offset planografica (3 cilindri) Ira Washington Rubel

try

1914 d.

A. Chan

urg

H. Liemb

Macchina serigrafica

Futurismo fine seconda rivoluzione industriale

1900

1910

PRIMA GUERRA MONDIALE


Strumenti Analogici

Strumenti e tecniche Interventi manuali al progetto

Nuovo impiego delle tecniche

Digitali

Il MĂŠtissage grafico

Edward Fella 1938

Flyer Detroit Focus Gallery Tipografia

gart

in W. We

22 23 W. Sa

ndb erg W. W erkm an

try

A. Chan

H. Liemburg

1921 Macchina da scrivere elettrica Elektra, Mercedes produzione

1925 TELEVISIONE (John Logie Baird, Londra)

Scuola di Weimar

Bauhaus

Costruttivismo New Typography

1920

1930 H.N. Werkman produzione


Strumenti Analogici

Strumenti e tecniche Digitali

Interventi manuali al progetto

Nuovo impiego delle tecniche

Wolfgang Weingart

April Greiman

Swiss poster Tipografia

1941

1948 Posters Cover magazine

t Offse

Macin tosh Paintb ox

Reproc a

mera

Terry Jones

try

A. Chan

1945

H. Liemburg i-D Magazine

Modernism Scuola Svizzera

International Style SECONDA GUERRA MONDIALE CULTURA DI MASSA

1940

1950 W. Sandberg produzione


Strumenti Analogici

Strumenti e tecniche Nuovo impiego delle tecniche

Digitali

Interventi manuali al progetto

Art Chantry

Il MĂŠtissage grafico

Harmen Liemburg

Cover cd Posters

1954

Posters

1966

fia

Serigra

Ma

cin

Serigrafia

tos h

A. Gre

iman

24 25 1960

A. Gre

iman

Compugraphic Corporation

T. Jon e

s

(Agfa-Gevaert, 1960-1988)

W. Wein gart

k roo

nb Cra

1970 c.a.

1961 Walden Kirsch Primo Scanner d’immagine

FOTOCOMPOSIZIONE per creare le matrici dei caratteri da stampa, Linocomp

Fotocopiatrice XEROX Corporation

Post modernism New wave Estetica Punk GUERRA IN VIETNAM

1970

1960 W. Sandberg produzione

W. Weingart produzione

A. Greiman produzione


Strumenti Analogici

Strumenti e tecniche Interventi manuali al progetto

Nuovo impiego delle tecniche

Digitali

Cranbrook Academy of Art 1980

Posters Tipografia

rice piat oco t o F

H. L

iem

burg -AdobeLinguaggio Postscript

1970-1976 c.a.

A. Gre

iman

1981

e.

f.

REPROCAMERA

Quantel Paintbox

A. Gre

iman

1984 MACINTOSH

1980

RIVOLUZIONE DIGITALE

T. Jones produzione

E. Fella produzione

Cranbrook produzione

1990 A.Chantry produzione


Il MĂŠtissage grafico

26 27

Cran broo k

Lev Manovich After Effect, Adobe

A. Chan

try

H. Lie

mburg

Nicolas Negroponte Post digital? Post digital?

Velvet Revolution

2000 H.Liemburg produzione


Eventuali omissioni sullo sviluppo tecnico del 900 dipendono da un’analisi confinata al “meccanismo” che regola la produzione grafica dei nove casi studio esaminati; base del fenomeno del métissage tecnico e formale.

?

2013

2020


Timeline

Appunti sulle tecniche: a. Torchio: Macchina a pressione verticale; si distinguono torchi tipografici, litografici e calcografici. Nei primi la pressione è piano orizzontale, nei secondi è strisciante, negli ultimi è piano-cilindrica. b. Macchina rotativa: Macchina da stampa a pressione cilindrica diretta, denominazione usata sopratutto per le macchine da stampa tipografiche dei quotidiani, considerata antenata della stampa offset. c. Offset: Procedimento di stampa con matrice piana, detta anche planografica, (a tre cilindri): • il cilindro porta lastra, che accoglie la lastra di alluminio con foglio inciso al dritto (carta positiva), che viene inumidito da acqua e imbevuto di inchiostro. • cilindro in caucciù o gomma, su cui viene trasferita l'immagine del foglio inciso, di nuovo dritta. • cilindro di pressione: l'immagine viene impressa sul foglio di carta. Nelle macchine attuali molte operazioni sono state automatizzate: tra queste i cambi di formato e lastra, il lavaggio e la regolazione degli inchiostri tramite sofisticate centraline di controllo. d. Serigrafia: La serigrafia si basa su un tipo di pressione strisciante. La parte fondamentale del processo è la realizzazione del foglio in acetato su cui viene disegnata l'immagine da stampare; la parte inchiostrata verrà coperta e il foglio cosparso di emulsionante fotografico, dopo aver disposto il foglio sul telaio (con retinatura variabile) il foglio verrà sottoposto ad una forte luce. Le parti emulsionate si induriscono imprimendosi sul telaio, mentre l'immagine coperta, viene asportata dal telaio con un getto d'acqua lasciando il negativo impresso al telaio stesso. Il telaio viene così montato su una macchina serigrafia, e posto a registro. Consente una stampabilità su differenti supporti e materiali, e particolari rese cromatiche sugli stampati. Serigrafie a più colori prevedono l'uso di più matrici (una per colore) e per le quali in fase di stampa è necessario tenere un perfetto “registro di stampa”. e. Quentel Paintbox: La Quantel Paintbox è un sistema rivoluzionario nel mondo della grafica e dell'audio-visivo, gioca un ruolo fondamentale nella postproduzione soprattutto prima della nascita di software per la pro-

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gettazione grafica (Adobe Photoshop, ecc.); fornisce una libreria immagini che l'utente può modificare in qualsiasi momento e consente la manipolazione di immagini statiche o video. Introduce per la prima volta il menu pop-up, strumenti digitali tipici del disegno, e successivamente l’utilizzo della penna grafica e del tablet. Oggi il suo utilizzo è sporadico; è stato sostituito dagli strumenti della Creative Suit Adobe e dall'utilizzo della computer grafica, diffusasi con la nascita del personal computer dalla metà degli anni ottanta. f. Reprocamera: La reprocamera è una sorta di grande macchina fotografica; veniva utilizzata per lavorare in fotomeccanica. L'originale era posizionato su un piano e lo si fotografava inserendo una pellicola ad alto contrasto. Questa pellicola diventava il negativo dal quale riprodurre altri formati dell'oggetto o della grafica fotografata. Il risultato finale era una pellicola trasparente che veniva usata come clichè per serigrafia, tipografia, tampografia, ecc. Approfondimento: Prestampa; fotoincisione, fotocomposizione. Oggi il sistema CTP (computer to plate) ha sostituito la lavorazione manuale da parte dei tipografi che per formare uno stampato (testi, composizioni, tratti, mezzetinte e foto) riportavano i layout in pellicola su dei supporti trasparenti (astralon). Ogni elemento che richiede una sovrapposizione di due o più colori (titoli, fondi colorati, immagini) deve essere trasferito colore per colore, uno sopra l'altro sui vari fogli trasparenti, perfettamente “a registro”. Se le parti retinate non sono a registro la definizione è carente, mentre se i retini vengono sovrapposti con l'angolazione sbagliata si crea il cosiddetto effetto moirè. Seguirà il processo di esposizione a lampada UVA della pellicola sulla lastra, sensibilizzata con gelatina e bagno nell'acido delle "sviluppatrici". La punzonatrice fa parte dell'ultima fase e garantisce la perfetta punzonatura della lastra al cilindro della rotativa, utilizzando un sistema di controllo.



2

Il MĂŠtissage


2.1

Introduzione

L’hybridity influenza da secoli comportamenti e abitudini delle società e contribuisce sempre più al loro sviluppo, intervenendo in diversi ambiti di studio. Per questo motivo, risulta utile disegnare un quadro generale, dalla definizione del termine, alla sua applicazione. L'analisi si concentra più precisamente al “meccanismo” di commistione ed interferenza proprio del fenomeno dell’hybridity e riscontrabile in diverse forme che si appellano a discipline accademiche, sociali, scientifiche, musicali, linguistiche. Questa constatazione multidisciplinare pare oggi sempre più necessaria a definire l’evoluzione tecnologica e a determinare lo sviluppo di nuovi metodi (che risentono fortemente dell'influenza del quadro socio-culturale). In uno scenario dominato da tecniche sempre più sofisticate si configurano nuove tendenze volte a ricercare approcci più vicini all'uomo, che provvedano a fornire risultati progettuali sempre più performativi e “personalizzati” (contro la standardizzazione delle tecnologie digitali), “imbevuti” di elementi eterogenei, essenziali per la ricerca “inventiva”. Risulta evidente come questa ricerca di vicinanza tra uomo e tecnica porti alla luce analogie e confronti con l'analisi teorica multidisciplinare, in cui alcune teorie diventano spunto per veri e propri parallelismi; ad esempio concetti come quello di “terzo spazio”, di cui parla l’antropologo H.K. Bhabha. Pur nascendo in ambito sociale (affonda le sue radici nelle teorie post-coloniali), la teoria del

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“terzo spazio” risulta, infatti, applicabile anche alla sfera tecnica e formale in campo grafico; lo spazio di “dialogo” creato dal meticciamento etnico di cui parla H.K. Bhabha, non è così distante dallo spazio progettuale di commistione tra tecniche e metodi tipico di alcuni componimenti meticci (sul piano formale o tecnico, vedi ad esempio la tecnica del collage).


Il Métissage

2.2

Hybridity, etimologia e nascita del termine Hybridity, “ibridità”, si riferisce, in senso generale, ad un incrocio, una mescolanza. L’etimologia della parola ha radici antiche, probabilmente greche; risale al 1837 e deriva dal composto “hybrid+ity”(n.) c. 1600; il sinonimo di hybrid, ibrido è meticcio, incrociato, bastardo, precisamente si riferisce alla prole nascente dall’incrocio di scrofa addomesticata e cinghiale selvatico (Etymology Dictionary, 2013). Proprio nell'etimologia del termine, va ricercata, probabilmente, la sua applicazione in campo antropologico, legata alla teoria post-coloniale, per definire i discendenti dell’incontro tra i popoli colonizzatori (cosiddetti civilizzati, addomesticati) e la popolazione autoctona, indigena (considerati selvaggia). Il termine “ibridità”, vede nell’ambito della biologia, uno dei primi utilizzi; qui l’ibrido è considerato il frutto tra individui di diversi gruppi tassonomici1 o in altro senso, un discendente di incroci tra popolazioni, razze, all’interno di una singola specie; lo stesso vale per le piante (Wikipedia, 2012). Queste ultime ibridano frequentemente, e questo processo viene largamente sfruttato dall’uomo a scopi produttivi, sia in termini di quantità che in termini di qualità (incroci mirati per ottenere “nuovi” caratteri). Una caratteristica fondamentale dell’ibrido, laddove la mescolanza non avviene in modo controllato (dall’uomo), ma alcune volte anche in quel caso, è, che può avere caratteristiche inaspettate, e/o non sempre desiderabili. Come vedremo in seguito, molti teorici attribuiranno grande valore all’imprevedibilità del risultato, ad esempio come caratteristica imprescindibile nella definizione di métissage. In senso figurato e generale, hybridity, più precisamente ibrido, viene utilizzato per indicare uno stato di un soggetto costituito da elementi o caratteri eterogenei, spesso disarmonici, che possono mantenere la propria identità ben riconoscibile dando vita a un nuovo linguaggio in un “luogo” di dialogo e scambio incessante. Anche nella cultura popolare il termine ha assunto un valore molto importante essendo esso stesso, esempio di uno scenario dinamico ricco di scambi e compenetrazioni. A questo proposito, un valido esempio è fornito dalla riflessione linguistica che si confi1

Classificazione in rami evolutivi che stabilisce le relazioni di parentela tra gli organismi.

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gura nel ricco quadro dell’interculturalità. L’impiego in linguistica è associato alla nascita di nuove forme costituite da elementi eterogenei, ad esempio un composto formato da elementi derivati da lingue diverse. Oltre questa forma maggiormente legata alla “grammatica”, ci sono diverse espressioni di ibridità linguistica che si sviluppano dall’incontro di diverse etnie in senso più culturale e legato a manifestazioni quali, ad esempio, la diffusione dell’informazione. Più precisamente intorno alla coesistenza di diverse lingue in un unico ambiente culturale che assumono vita propria parallela, qualora non ci sia una “mescolanza” reale (lingua creola) e/o la nascita di dialetti. In questi casi la lingua d’origine assume forte valore culturale facendosi portavoce di una tradizione locale senza rinnegare la lingua veicolare dominante, utilizzata per diffondere e scambiare informazioni e sapere dall’interno all’esterno e viceversa. Un caso di questo tipo è quello riferito all’ Imperialismo Culturale Indiano e alla gestione dell’informazione. Infatti in India, dal 1990, una diffusione di notizie e informazioni in lingua Hindi, concetto che Taberez Ahmed Neyazi definisce “vernacular modernity”2, sono state integrate in un mercato precedentemente dominato da pubblicazioni in lingua inglese; attingendo alla tecnologia occidentale, questi media offrono un mezzo alternativo per diffondere le notizie di contenuto internazionale alle realtà locali destandone interesse e preservandone i valori culturali; è la nascita di un informazione “mista”, ibrida (Taberez Ahmed Neyazi, 2010, p. 6). Il concetto di ibridazione linguistica verrà descritto dettagliatamente in seguito, quando si parlerà del fenomeno di “creolizzazione”, introdotto da E. Glissant. Vedi 2.4

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Vernacular modernity, modernità volgare, riferendosi alla capacità di alcune culture, in questo caso quella indiana, di aumentare la produzione di media di informazione (ad esempio i quotidiani), con un’attenzione particolare ai contenuti, (di espressione linguistica e culturale locale), ma conformi alla standardizzazione dei formati con i modelli globali, (che tuttavia,hanno visto sempre il predominio dei mezzi di informazione in lingua inglese) (Taberez Ahmed Neyazi, 2010, p. 7).


Il Métissage

2.3

La teoria del "terzo spazio"

Si è accennato a come l’ambito popolare, sociale e antropologico sia un terreno fertile per la nascita di forme di “meticciamento”; questo si lega soprattutto alla mescolanza tra razze ma è declinabile a diverse discipline e ambiti di studio. Avendo come centro l’ambito sociale, il meticciamento si espande a macchia d’olio alle discipline annesse che ne sono espressione diretta; influenzando le forme linguistiche, la cultura, l’informazione, le scienze, l’arte. Tornando alla forma primitiva dell’ibridità, e alla discendenza etimologica del termine, l’attenzione si focalizza sull’incrocio razziale e sulle discussioni che ne conseguono, soprattutto legate al post-colonialismo. A tal proposito H.K. Bhabha, di origine indiana, considerato uno dei più grandi studiosi del fenomeno del post-colonialismo, ha sviluppato una serie di concetti alla cui base risiede la teoria di hybridity. La sua analisi si concentra sul metodo di resistenza e convivenza che attuano i popoli colonizzati per resistere all’egemonia dei popoli colonizzatori e che è manifestazione di una forma di adattamento. In questo processo di adattamento, scontro, incontro e dialogo, tra due popoli nasce uno spazio, una linea di confine, in cui le due culture si incontrano. Questo luogo di cui parla H.K. (Bhabha, 1994, Bhabha, è una sorta di margine “poroso” e astratto che le due culture attraversano “contaminandosi” vicendevolmente. Questo permette ai popoli indigeni di negoziare la propria identità, attuando forme di dialettica con i popoli colonizzatori. L’hybridity si posiziona, quindi, come antidoto all’essenzialismo, aprendo l’orizzonte a nuove forme di interazione e mescolanza di linguaggi e mettendo in dubbio i concetti di “purezza” legati all’identità culturale. H.K. Bhabha, consapevole dei pericoli di fissità dell'identità all'interno del pensiero binario coloniale, sostiene che “tutte le forme di cultura attuano continuamente un processo di hybridity” (H.K. Bhabha in Rutherford, 1990

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«In questo luogo, un terzo spazio ibrido, si apre» p. 38)


p. 211). Ecco che nasce una reciproca e mutevole rappresentazione della differenza culturale che si pone come intramezzo tra le due culture. “Per me l’importanza dell’ibridismo non è quella di essere in grado di tracciare due precisi momenti dai quali ne emerge un terzo, piuttosto, l’ibridismo per me è il terzo spazio, che consente l’emergere di altre posizioni” (H.K. Bhabha in Rutherford, 1990, p. 211).

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In altri termini, non si parla di momenti distinti che si uniscono in un terzo atto riassuntivo, bensì di elementi che attuano un interscambio in un preciso tempo e luogo, in uno spazio, nel quale si formano nuovi linguaggi e significati. Questo spazio viene infatti definito “d’interruzione, interrogativo, enunciativo” e il significato non possiede “unità primordiale o fissità” (Bhabha, 1994, p. 37 ) ma è contraddistinto da etereogeneità e mutevolezza. Parlando di spazio, la riflessione si sposta su un altro concetto, cardinale, del pensiero di H.K. Bhabha; il confine, il margine, una linea valicabile di confronto in cui abita la trasversalità e l’invenzione, che egli chiamerà “in-between” (Bhabha, 1994, p. 38 ).

«Il confine non è quello in cui qualcosa si ferma, come i greci avevano riconosciuto, il confine è quello da cui qualcosa inizia la propria esistenza»

Oggi, proprio nei confini, “in-between”, o in quello che H.K. Bhabha definirà il regno del beyond (Bhabha, 1994 p. 1-8) dell’ “altrove”, va ricercata la definizione di cultura e la risposta alla richiesta d’identità; i confini sono linee di trapasso e contaminazione. La ricerca di identità si fa frammentaria e temporanea, in un flusso in continua evoluzione e metamorfosi, governato dall’incertezza e dalla mescolanza. In questo scenario anche la dimensione temporale fa presupporre un “oltre”, un altrove; definiti “margini del presente”, un presente per il quale, come sottolinea H.K. Bhabha (Bhabha, 1994 p. 4) non sembra esserci un vero e proprio nome, se non il controverso utilizzo del prefisso “post -”: “postmodernismo, postcolonialismo, postfemminismo…” “[...] quello che è teoricamente innovativo e politicamente cruciale, è il bisogno di pensare aldilà delle narrazioni originali e dei soggetti iniziali, focalizzando l’attenzione su quei momenti o processi prodotti nell’articolazione delle differenze culturali […]. Un luogo in-between, intermedio, che utilizza nuovi segni d’identità e innovativi metodi di collaborazione e contestazione, nell’atto di definire l’idea stessa di società” (Bhabha, 1994 p. 4-8). L’oltre non rappresenta un nuovo orizzonte, né vive inseguendo i miti del passato; l’altrove si attua nel momento della transizione, dove spazio e tempo si attraversano per produrre complesse immagini tra differenza e identità, passato e presente, dentro e fuori,

(Heidegger in Bhabha, 1994, p. 11)

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Il Métissage

inclusione ed esclusione. Per questo, nel regno del beyond vige un senso di disorientamento: un movimento irrequieto ed esplorativo. Questo concetto sarà oggetto di interesse anche per il critico letterario Fredric Jameson, il quale, occupatosi delle correnti culturali dell’età contemporanea ha elaborato un’analisi critica intorno al post-modernismo e allo studio delle civiltà capitalistiche. Concentrando i suoi studi, soprattutto, sulla discontinuità tra il potere borghese e l’inimmaginabile decentramento del capitale globale (ad esempio, in riferimento al mercato cinese) ha elaborato analisi critiche, nelle quali è riconoscibile un pensiero attento alla ricerca culturale dell’uomo post-moderno (Bhabha, 1994 pp. 214-215). F. Jameson afferma, che ciò che dovrebbe avere rilevanza, oggi, nello spazio internazionale, sono le molteplici realtà discontinue, in cui l’analisi va effettuata nei passaggi interstiziali, e nei processi culturali “in-between”, in una dimensione temporale di “rottura”, che caratterizza lo scenario globale. Paradossalmente, aggiunge F. Jameson, è nel momento disgregativo, nel movimento degli enunciati, nella frammentazione estemporanea del presente che va tracciato il profilo della ricerca culturale (Bhabha, 1994 pp. 214-215). Bisogna ricondurre i fenomeni post-moderni alla realtà sociale, di quello che egli definisce “tardo capitalismo”; ossia la terza fase storica del capitalismo, identificabile con la globalizzazione. Se ai tempi in cui scriveva Adorno, il soggetto era “alienato”, oggi, afferma Jameson, esso è “frammentato”, esattamente come la realtà in cui vive (Bhabha, 1994 pp. 214-215). L’altrove, il terzo spazio, fino ad ora descritti e il métissage, sono stati inseriti in un contesto per lo più antropologico e sociale, perchè è da qui, che affondano le proprie origini. Tuttavia vedremo come possano essere tradotti per spiegare fenomeni legati a diverse discipline; quali, ad esempio, le arti e la sperimentazione grafica, un’area particolarmente feconda per il meticciato.

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2.4

Il métissage, una linea di frontiera aperta

La parola métissage, deriva dal francese tissage (tessitura) e il termine métis proveniente dal latino mixtus, mescolato (Laplantine e Nouss, 2006, p. 7, prefazione). Il termine indica il processo di mescolanza, nasce come ibridazione in senso culturale; è definito da cambiamenti e trasformazioni derivanti gli scambi e le “contaminazioni” dei processi sociali, che favoriscono la nascita di una nuova identità meticcia. Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo polacco, studioso di fenomeni legati alla globalizzazione e stratificazione sociale, in riferimento all’identità culturale, afferma: “[…] sarebbe più adeguato alle realtà del mondo in via di globalizzazione parlare di identificazione, di un’attività, cioè, infinita, sempre incompleta e aperta, cui tutti ci dedichiamo per necessità o per scelta” (Bauman in Fucecchi, Nanni, 2004 ). Il processo di hybridity, derivante dagli scambi eterogenei e che si configura nella cultura meticcia, valorizza i “meccanismi” di scambio, di dialogo, di interferenze reciproche oltre il semplice sincretismo (Contini, 2009, p. 10). Sul fenomeno del métissage è importante sottolineare le riflessioni di François Laplantine e Alexis Nouss, che nel 1997 pubblicano un saggio in cui si pongono l’obiettivo di trasformare la nozione di métissage in paradigma. All’interno del saggio si precisa prima di tutto che il métissage non è un fenomeno-biologico, sociale, culturale, linguistico, impuro ed eterogeneo (Laplantine e Nouss, 2006, p. 8, prefazione), nato dall’incontro di due insiemi puri ed omogenei ma un processo che infrange questa polarità, prospettandosi come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione dell’ eterogeneo, definendo uno “spazio d’incontro”, di dialogo (Contini, 2009, p. 10). In questo “momento dialogico”, le parti che compongono il meticciato conservano la

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Il Métissage

loro identità, evidenziandone il confronto e lo scambio, le attrazioni/repulsioni, il pieno/vuoto, piuttosto che la fusione, la coesione o l’osmosi, le quali sono estranee al mondo meticcio (Laplantine e Nouss 2006, p. 9). Il concetto di spazio d’incontro, che H.K. Bhabha definisce terzo spazio, traccia i segni di un luogo in cui la linea di frontiera è aperta, in cui i confini sono labili e l’interazione tra “mondi diversi” risulta continua. In questa trasformazione incessante, l’appartenenza di un elemento ad un altro subirà “il gioco degli spostamenti” e non sarà mai definitiva. L’identità meticcia è caratterizzata da una consapevolezza delle frontiere esistenti tra le diverse appartenenze e di una capacità a oltrepassarle, accettando l’esperienza di spaesamento, di perdita e alienazione derivante dal passaggio dall’una all’altra (Laplantine e Nouss, 2006, p. 9 ), quello stesso senso di disorientamento di cui parlava H.K. Bhabha, definendolo regno del beyond. In questa concezione, lo scenario che si configura è caotico e mutevole, e lo spaesamento che lo caratterizza, ricorda anche la fragilità della sua condizione in “divenire” (Contini, 2009, p. 13). Le frontiere e i margini descritti da F. Laplantine e A. Nouss sono anche in riferimento al singolo soggetto, il quale dovrà avere la capacità di mettere in gioco spazi di confronto ed eventualmente di scontro rispetto ad una totalità più ampia di quella costituita da una singola comunità, da una concezione univoca e universale. Prescindendo dal rifiuto di questa universalità del pensiero, il métissage si oppone ai processi di globalizzazione economica e culturale, mossi da una volontà di unificare idee e comportamenti, operando una standardizzazione sociale in cui non esiste un mondo altrove, né spaziale né temporale (Contini, 2009, p. 16). “L’unica grande regola del meticciato è l’assenza di regole. Non è possibile alcuna anticipazione, alcuna previsione. Ogni meticciato è unico, particolare, e traccia il proprio divenire. Ciò che nascerà dall’incontro rimane sconosciuto. Una ragione in più per proporne innanzi tutto uno sforzo di comprensione, senza cercare di erigere tipologie” (Laplantine e Nouss, 2006, p. 10). Come non è possibile fissare regole o unità precostituite intorno ai “meticci”, appare sempre più difficile definire elementi o influenze allo stato puro, distinguere i processi di adattamento (in riferimento a ciò che viene dall’esterno) e di adozione (per ciò che viene dall’interno) (Laplantine e Nouss 2006, p. 18) che muovono le tecniche, le idee, gli uomini verso un processo di reinvenzione continua.

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Questo processo viene definito da Laplantine e Nouss la dinamica del divenire; astraendo la definizione di métissage a concetto, questo viene interpretato come fenomeno mutevole, in tensione, caratterizzato da una temporalità in costante alterazione, che percorre passato-presente-futuro continuamente, senza fissarsi in una delle tre dimensioni temporali (Laplantine e Nouss, 2006, p. 94 ). Sulla base di questa imprevedibilità e fugacità attribuita al meticciato, definita come una condizione piuttosto che uno stato, il dialogo degli elementi si configura sul modello dell’incontro, che agisce secondo la casualità piuttosto che su un’arte “programmata” (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 91-93 ). Infatti come Laplantine e Nouss suggeriscono, l’incontro non si appella a nessuna strategia o intenzione premeditata, lasciando aperte le porte al caso, perché “non si arriva mai a un incontro, è l’incontro che arriva” (Laplantine e Nouss, 2006, p. 93). Concetto che sembra avvicinarsi a quello di serendipity, che sta spesso alla base di scoperte inattese, abbraccia approcci sperimentali in diverse discipline e crea, talvolta, le premesse per cambiamenti di paradigma. Da questo rifiuto di un’unità precostituita e immobile, vediamo come il métissage, non possa fare a meno di espandersi ad altri ambiti e trovi massima espressione nelle discipline artistiche, come si era già puntualizzato per il concetto di ibridità. Risulta necessario analizzare il “meccanismo”, applicato a diversi campi, per notare come alcune pratiche legate all’ibridità si ripetano tracciando una linea di continuità (Contini, 2009, p. 16). Prima di addentrarci nel tema del métissage legato alle arti visive è utile accennare ad altri due ambiti, osservatori privilegiati: quello linguistico e quello musicale.

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Métissage linguistico

Per quanto riguarda il métissage linguistico , la “creolistica” rappresenta uno degli esempi più esaustivi della sua manifestazione. La creolizzazione, deriva dal termine “creolo” e dalla realtà delle lingue creole. Un esempio della lingua creola composita, nata tra elementi eterogenei tra loro, può essere quello delle lingue francofone e creole dei Caraibi nate dal contatto fra le parlate bretoni normanne e le lingue dell’Africa nera occidentale sub-sahariana (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 30-31). Questa meccanismo linguistico, non si relaziona tanto con la “genesi del linguaggio e delle lingue” (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 31-32), quanto nell’essere espressione del comportamento meticcio. La lingua creola, da distinguere con altre forme di ibridazione linguistica (ad esempio le lingue pidgin, lingua integrativa di uso occasionale, tra locutori di lingue differenti), nasce da un processo di apprendimento e interiorizzazione, prima di tutto in senso antropologico e sociale, e in secondo tempo linguistico, della lingua dei coloni da parte della popolazione colonizzata (schiavi) (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 30-31). Su questa base, la lingua creola diventa derivazione di tensioni e relazioni sociali che vanno ben oltre quella puramente semantica. “ […] il suo statuto non è più quello di un dialetto bastardo e derivato: oggetto di studio scientifico e di insegnamento a tutti i livelli, è considerato come una lingua completa, un fattore di sistematizzazione linguistica, una lingua non solo amministrativa e ufficiale ma


Il Métissage

di creazione artistica” (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 32). In questi termini la creolizzazione supera le frontiere etnolinguistiche, le differenze sociali, per tendere all’universale. Supera le barriere, facendo in modo che gli elementi eterogenei relazionati “si intervalorizzino”, che non ci sia diminuzione o degradazione dell’essere, sia dall’interno che dall’esterno, in un continuo, reciproco, mischiarsi (Glissant, 2004). Edouard Glissant, parlando di intervalorizzazione, attribuisce alla lingua creola una grande forza di scambio, evidenziando l’elemento (il valore aggiunto) dell’imprevedibilità che caratterizza i processi di creolizzazione. I creoli sono frutto di elementi che, nello stadio iniziale, sono eterogenei tra loro; successivamente attraverso scontri, profondi scambi, consumo di elementi (intervalorizzazione), danno un risultato imprevedibile che non può essere paragonato a operazioni studiate e praticate coscientemente, come accade con la nascita dei pidgin, dei dialetti. La natura “mista” della lingua creola ne rende praticamente impossibile lo studio delle origini; dato come appurato che quasi ogni lingua deriva da operazioni di interscambio, così come accade per l’interculturalità e la determinazione delle etnie, diventa sempre più difficile definire le operazioni originali e gli elementi “puri” (Contini, 2009, p. 11). Proprio questo processo di ibridazione che “confonde” le origini a favore della “mescolanza”, potrebbe essere, come suggerito da E. Glissant, esteso in senso più ampio e sociologico, come un rimedio all’irrigidimento razziale nel quadro della globalizzazione (Armato, 2011). Dal multiculturalismo all’ibridazione, è proprio questo l’anello mancante nelle società europee contemporanee. In questa visione globale E. Glissant introduce un interessante concetto di “opacità”, che pone come possibilità ad una nuova visione del mondo; determinare e favorire la nascita di identità sfumate in perenne mutazione, identità che abbiano la possibilità di operare la loro metamorfosi continua in linee di frontiera “opache”, penetrabili. “[…] è vero io rivendico il diritto all’opacità. La troppa definizione, la trasparenza portano all’apartheid: di qui i neri, di là i bianchi. Non ci capiamo, si dice, e allora viviamo separati. No, dico, non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L’opacità non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa” (Armato, 2011). L’opacità di cui parla Glissant, così come lo spazio in-between definito da H.K. Bhabha, si delineano non solo come nuovi spazi di lavoro e trasformazione ma si propongono come nuove forme di identità sociale e modelli culturali. Si noti come soprattutto durante il XX secolo assistiamo alla nascita di nuovi linguaggi, al bisogno di legittimità e auto-affermazione, aldilà delle leggi universali dominanti; è proprio in questo processo che si esaltano le proprietà del meticciamento e che queste si estendono agli utilizzi e all’esperienza di tutte le arti moderne.

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Métissage nella musica

Tra gli ambiti che “si aprono a influenze esterne” (Laplantine e Nouss, 2006, p. 84) riconosciamo sicuramente quello musicale che, come citano F. Laplantine e A. Nouss, riconosce nel meticciamento una possibilità di estrema ricchezza; nascono generi nuovi anche “oltre la purezza strumentale” (Laplantine e Nouss, 2006, p. 84): è il caso della musica concreta (Cage, Schaeffer), elettro-acustica (Stockhausen, Pierre Henry, Varèse). Ma anche di quella che opta per l’inserimento di suoni appartenenti al regno umano e animale, andando contro la rigidità della musica “accademica” o “colta”; ne è un esempio, l’inserimento di canti degli uccelli (Messiaen) o il ricorso della voce umana (Berio, Reich) nei componimenti (Laplantine e Nouss, 2006, p. 84). In questo poliedrico scenario musicale una delle forme che maggiormente si arricchiranno è quella del jazz. Il jazz è meticcio sia in senso formale, che “antropologico” (Laplantine e Nouss, 2006, p. 85). Conservando l’asprezza del lavoro dei campi (le sue origini) e l’elevazione degli spirituals, si sviluppa mescolando le strutture complesse dei ritmi africani a quelle armoniche tipiche europee; nasce con lo spirito dell’improvvisazione (altra caratteristica che si lega al concetto di meticcio) e presto si configura in diversi stili, frutto di contaminazioni razziali continue (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 82-85). La transizione negli anni venti da New Orleans a Chicago, infatti, inquadra il jazz anche dal punto di vista antropologico che, seppur rimanendo massima espressione della comunità nera, si espande anche tra i musicisti bianchi. La natura meticcia del jazz illustra fino a che punto la musica ignori i generi, operando in zone di “margine” dialogiche e mescolando elementi eterogenei e in principio distanti tra loro; questo trova risposta nell’analisi tecnica e formale che vede forme popolari di blues, musica nera, in “dialogo aperto” con la musica classica e forme più “colte”, e dal punto di vista sociologico, una mescolanza di etnie che ha contribuito ad arricchirne le sfumature (Laplantine e Nouss, 2006, pp. 82-85). Il jazz è uno degli esempi più emblematici di métissage musicale, ma continuando su questa frontiera aperta è possibile tracciare altri percorsi simili. Facendo un salto temporale in avanti di 70 anni circa e spostando il focus dal métissage più strettamente formale a quello legato alla commistione di tecniche, possiamo analizzare come la musica contemporanea sia stata influenzata fortemente da approcci “misti”. Più precisamente, Kim Cascone, in un articolo in cui parla della forma e dei contenuti della musica elettronica non-accademica, concentra l’attenzione sulla possibilità delle nuove tecnologie in relazione al cambiamento di composizione e fruizione della musica. Tenendo conto del contributo che le avanguardie hanno dato alla “rottura” con il pensiero accademico passato, e tenendo conto del lavoro di artisti avanguardisti come John Cage (che ad esempio chiese il permesso a tutti i musicisti di poter introdurre nella composizione musicale ogni genere di suono) e Luigi Russolo, in relazione alla sua tesi circa il nuovo modo di comporre musica (Cascone, 2002). Secondo Cascone, gli strumenti che oggi si hanno a disposizione per comporre musica elettronica, consentono di avere prodotti frammentari e composti da parti “intercambiabili” e sovrapponibili con una libertà mai avuta. Un nuovo progetto può essere creato da materiali pre-esistenti, integrato con parti nuove, modificato continuamente, in un processo in “divenire”, che ne vede una perenne metamorfosi. “Oggi la tecnologia digitale permette agli artisti di indagare nuovi territori, ed esaminare Vedi 4.3


Il Métissage

ed esplorare i contenuti di aree marginali, rispetto ai normali utilizzi e alle funzioni dei software” (Cascone, 2002). Accedere a informazioni una volta nascoste, in uno scenario “blind spot” (Cascone, 2002), che contiene mondi in attesa di essere scoperti se solo vi rivolgiamo la nostra attenzione, non solo è un incentivo, ma apre possibilità e potenzialità per la composizione mai immaginate. Gli strumenti diventano il messaggio, prima del medium e il meticciamento, seppur con un’accezione differente rispetto al caso precedente, risulta evidente.

Quanto fino a qui analizzato ci permette di distinguere percorsi e discipline, e al tempo stesso di accumunarle sotto uno stesso minimo comun denominatore: l’ibridità, il meticciamento. Procedendo a tracciare i contorni del meticciato nelle arti, più precisamente alle arti figurative, vedremo come esso ne sia alta espressione sia sul piano formale che tecnico. Come si è visto per l’ambito musicale, per cui sono individuabili differenti percorsi e forme di meticciamento, abbiamo manifestazioni diverse dello stesso fenomeno; nel jazz, ad esempio, più legato all’aspetto formale-antropologico; per la musica contemporanea, al piano tecnico, legato agli strumenti per la realizzazione del prodotto, che potremmo definire in-finito, perché “trasformabile” in ogni momento (riprendendo il concetto di identità sfumata, opacità, che citava E. Glissant). Cominciando a circoscriverlo sul piano formale, l’esempio più emblematico di meticciato nell’arte moderna viene individuato nella tecnica del collage e del fotomontaggio. Il collage, nato in ambito “sovversivo”, traduzione del gesto di artisti dadaisti (ad esempio: Lautréamont), risulta, probabilmente, la massima espressione della rottura, della distruzione della realtà comunemente percepita, e della libertà interpretativa lasciata allo spettatore (Laplantine e Nouss, 2006, p. 87-89). Questo intento è facilmente individuabile nelle forme spezzate e frammentate che forniscono una realtà “scomposta” e che saranno

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Métissage nell'arte


le basi dello sviluppo tecnico di artisti quali Picasso e Braque, per i quali la tela, il supporto, perderà la sua natura “convenzionale”, diventando un piano di sperimentazione, anche legato al “meticciamento” di materiali eterogenei (frammenti di cartone, carta dipinta, sabbia) (Laplantine e Nouss, 2006, p. 87). Anche le avanguardie artistiche vedono nel collage una delle modalità espressive predilette, quasi sempre legate ad un sentimento “rivoluzionario” e di denuncia politica; ne saranno fautori, artisti come Kurt Schwitters, Alexander Rodchenko, che riconosceranno nell’arte del collage e del fotomontaggio un modo per esprimere le “fratture”, il caos e mettere in dialogo elementi appartenenti a mondi diversi. Ricordiamo che Kurt Schwitters è stato uno dei maggiori esponenti di quella che viene chiamata arte dei rifiuti, che ricorda l’approccio duchampiano del ready-made e consiste nell’assemblaggio di materiali di recupero o di uso quotidiano, rifiuti applicati e contrapposti alla tela bianca, che ne è supporto. Fare collage diventa un modo per creare mondi “utopici”, partendo da elementi del presente e traslandoli a scenari immaginari futuri; l’intento che muoveva artisti come Rodchenko o Kurt Schwitters probabilmente, era proprio questo. Da qui vediamo come l’ibridità sia espressa dal punto di vista formale tramite l’incontro e la contaminazione di linguaggi differenti e di come questo meticciamento avvenga in uno spazio di transizione, in questo caso di “rottura”, creando una sorta di terzo spazio (riprendendo la definizione di H.K. Bhabha), in cui gli artisti/ progettisti possono “negoziare” la propria identità, tra i pensieri dominanti e la propria visione della realtà. Il collage continua ad essere un metodo utilizzato, anche negli anni sucessivi (modernismo) e troverà nella scuola del Bauhaus una terra feconda , così come nel De Stijl, (Paul Schuitema, ); anni in cui lo sviluppo di nuove tecnologie influenzano fortemente la sperimentazione grafica.

«Il collage rappresenta un'invenzione di cruciale importanza per comprendere l’arte del XX secolo[…]. Il collage e gli oggetti ritrovati, rappresentano non solo un mezzo, ma un metodo» (Strickland, 1993)



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Casi studio


Come si manifesta l'hybridity nello scenario delle arti visive? e come si inserisce nella realtà multidisciplinare fino ad ora descritta? Queste domande trovano risposta attraverso nove voci differenti (i casi studio), che pur appartenenedo a diversi momenti della storia del graphic design, e facendo uso di strumenti e tecniche distanti tra loro, sono accumunati dal medesimo approccio al progetto, che esula dalle sole tecniche dominanti e si distingue per l'utilzzo di metodi “misti”. Per ogni caso studio sul piano formale e tecnico si manifesta il fenomeno del métissage grafico, cuore della ricerca, che alla luce dell' analisi multidisciplinare, è messo a confronto con le teorie. Si delineano così, parallelismi tra le teorie (appartenenti ad esempio all'ambito sociologico, linguistico ecc.) e le tecniche utilizzate; si analizza un sistema aperto, che rappresenta il territorio privilegiato di progettazione. Nell'analisi dei casi studio, inseriti in specifici momenti storico-culturali, si noterà come l'hybridity segni un percorso “ripetitivo” in spazio e tempo (esplicato dalla Timeline, vedi 1.2) con alcuni “naturali” picchi di sviluppo, ad esempio nei momenti transitori dello sviluppo tecnico, (espressi dalle avanguardie, dal movimento della New wave o conseguente alla nascita del Macintosh).

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3.1

Hendrik Nicolaas Werkman 1882-1945

[‌] Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale un olandese, Werkman, ha riunito tutti gli apporti di questo periodo, la rigorosa struttura del cubismo, l’appassionata pienezza di colore degli espressionisti, il mondo dei sogni di coloro che scoprirono


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PROFILO

—H.N. Werkman nasce in Olanda a Groningen nel 1882 ed è considerato una delle figure più controverse delle avanguardie tedesche (principalmente Costruttivismo e De Stijl). Il suo approccio progettuale si staglia in uno scenario del tutto nuovo, spesso ricondotto al Bauhaus e alla Nuova Tipografia, come afferma Philipp B. Meggs in A history of Graphic design (Purvis, 2004, p. 8) e ancora oggi considerato con scetticismo dalla grafica “tradizionale”. Distante dalla mentalità accademica e curioso di esplorare sentieri nascosti senza dimenticare l’aspetto ludico, l’imprevedibilità e la sorpresa, il suo metodo progettuale consente di mantenere aperte le frontiere della sperimentazione verso nuove forme grafiche e l’utilizzo di diverse tecniche. La sua attività, influenzata dal periodo storico e dai movimenti culturali “clandestini”, anche definita “estetica della resistenza” (Kinross, 2005, p. 138), lo vede sostenitore e vivace protagonista del gruppo artistico chiamato De Ploeg1. Questo circolo artistico rappresenta a pieno il sentimento di avversione al sistema capitalistico e standardizzato collocandosi al di fuori della corrente principale della tipografia modernista (Kinross, 2005, pp. 138-140). La sua attività che si configura in quella cerchia di "dissidenti", lo renderà vittima, nel 1945, di un arresto con l’accusa di avere contatti con ebrei e di essere un collezionista e fautore di “arte bolscevica”2; sarà fucilato nell’aprile dello stesso anno.

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il regno fra la realtà e la visione, fondendoli in uno stile del tutto personale. La sua opera ha aperto nuove vie all’arte grafica, principalmente per l’applicazione del colore» (Sandberg e Jaffè, 1962) 1-2

Vedi p. s.


H.N. Werkman

TECNICHE Tra il 1923 e il 1926 H.N. Werkman si dedica principalmente alla produzione e distribuzione di The Next Call, una delle prime riviste d’avanguardia (che apparve in nove numeri) in lingua olandese. Questo progetto, nato nel circolo artistico De Ploeg è un emblema di produzione grafica sovversiva, per contenuti e forma. Nata dalla forza creativa e dalla libertà rivendicata sul piano della ricerca formale e della tecnica, The Next Call diventa un canale espressivo per sua la tipografia sperimentale. Le prime pubblicazioni della rivista sono destinate ai membri del circolo artistico ma successivamente Werkman si impegna nella distribuzione gratuita nazionale e internazionale. Questo scambio favorisce la formazione di una rete di professionisti con i quali Werkman instaura frequenti corrispondenze postali; la promozione del suo lavoro diventa indispensabile (secondo Werkman), per evitare il “provincialismo anonimo” (W. Purvis, 2004, p. 19). The Next Call, già alla sesta uscita, vanta una fitta rete di contatti con riviste come: De Stijl di Theo van Deosburgm (Leiden), Mécano di I.K. Bonset (Parigi), Merz di Kurt Schwitters e El Lissitsky (Hanover), La Zone di A. Cernik, Brunn Jullanov (Belgrado) e molte altre. L’obiettivo della rivista nato per infondere speranza e generare vitalità tra i membri di De Ploeg, si espande velocemente, anche aldilà del gruppo artistico.

«Vedere The Next Call come “un grido nel cuore” non è un’esagerazione» (Purvis, 2004, p.12)

A lato: —The Next Call 2 Copertina, Testo di H.N. Werkman e Jan Wiegers 6 Ottobre 1923, 27,5 x 21,5 cm, 8 pagine, 40 copie. Il contenuto testuale è di protesta verso la società dell'epoca. P. s. : —The Next Call 4 pagina 5, n.d.

De Ploeg: circolo artistico-culturale fondato nel 1918 a Groningen da un gruppo di artisti, segna la rottura con il pensiero accademico che negli anni sucessivi abbraccerà i movimenti d’Avanguardia. 2 Arte considerata “sovversiva” che si riferisce a forme espressive nate in Russia nel ventesimo secolo, distanti dai canoni accademici. 1


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Sul piano della sperimentazione tipografica così come Werkman, altri artisti ,ad esempio, Van Doesburg e Jan Tschichold rigettarono le convenzioni precedentemente accettate. Diversamente da Werkman però, sostenitore fervente della libertà artistica, essi proclamavano nuovi e spesso inflessibili criteri estetici e anche sociali (W. Purvis, 2004, p. 15).

La rivista d’avanguardia The Next Call H.N. Werkman fu un personaggio controverso non solo per la sua “politica” perseguita nel circolo culturale di cui faceva parte ma soprattutto per l’approccio “nuovo e misto” al progetto grafico, sia sul piano formale che tecnico. The Next Call ne è uno degli esempi più riusciti; realizzato su una pressa a mano, non è soltanto il prodotto del rinnovamento della tecnica tipografica (dove le ricerche di Werkman sono concentrate), ma la nascita di un nuovo metodo, per cui il carattere viene considerato elemento artistico di per sé compiuto, uno strumento indipendente dalla sua logica comunicativa (la sua natura di lettera). Un esempio esaustivo è che, spesso, i caratteri venivano utilizzati per realizzare diverse forme e composizioni grafiche. Sulla base della sua ricerca, riassunta nell’ideale: “liberare i caratteri dalla tirannia della scrittura” (W. Purvis, 2004, p. 18), gli esperimenti mischiano la stampa tradizionale dei caratteri tramite pressa a mano con una tecnica in cui la carta era posizionata nel telaio e l’inchiostro e altri materiali a faccia in giù sopra il foglio. In questo modo gli elementi venivano posizionati e modificati ex-tempore. Il risultato

Dizionario Ibrido STRUMENTI pressa a mano, caratteri tipografici, rullo inchiostratore, stencil, macchina da scrivere METODI collage, fotomontaggio, utilizzo “nuovo” di strumenti preesistenti (druksels, tiksels) ELEMENTI CARATTERISTICI sovrapposizioni colori, energia di pressione durante la stampa, utilizzo di carta differente

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H.N. Werkman

A lato: —The Next Call 6 Foglio aperto (il numero è realizzato su stampa a foglio unico, piegato due volte) Testo di H.N. Werkman e Job Hansen Ottobre-Novembre 1924 A fogli chiusi: 27,2 x 21,5 cm A fogli aperti: 43 x 54,4 cm, 40 copie “Map of Art and Environs" (da un'affermazione di Job Hansen, circa il lavoro di Werkman; "sembra la mappa dell'arte e i suoi confini") In basso: —The Next Call 4 n.d. pagina 2-3.

«La tipografia può funzionare senza avere bisogno di comunicare un messaggio» (Purvis, 2004, p. 7)


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rendeva ogni copia di The Next Call differente e unica, con un metodo che veniva ignorato e negato dalla stampa tradizionale modernista. Una o più copie potevano essere stampate simultaneamente con colori differenti e avere varianti sugli elementi del foglio per intensità di inchiostro, pressione esercitata e materiali utilizzati. Inoltre il fatto che l’arte di Werkman fosse sempre originata durante il processo di stampa lo distinse dai costruttivisti, i quali lavoravano su un progetto deliberato. Trattando le lettere da pressa come uno strumento pittorico e l’inchiostro come colore su palette Werkman si impadroniva di qualsiasi cosa era necessaria per raggiungere il risultato desiderato (W. Purvis, 2004, p. 15). L’utilizzo e la sperimentazione di diversi materiali, è l’elemento fondamentale del metodo di Werkman, a volte espresso dal

collage, dal fotomontaggio unito ai segni d’inchiostro dei caratteri tipografici che, un po’ per necessità (la fornitura di carta scarseggiava, così come la disponibilità economica), un po’ per ricerca stilistica, rappresenta un métissage visivo sia sul piano formale che tecnico. Anche il suo approccio ludico e “casuale”

Sotto: —The Next Call 6 Copertina e retro La copertina è realizzata con frammenti di giornale incollati nella parte superiore, che rendono ogni copia della rivista unica. Solo quando la rivista viene aperta si rivela l'intera composizione della pagina.

«Sempre più spesso capita che i progettisti non lavorino al processo di stampa lasciando il compito ad altri; mentre io progetto nel corso della stampa stessa» (W. Purvis, 2004, p. 14) 54 55


H.N. Werkman

«Utilizzo una vecchia pressa a mano; così l’impressione è realizzata verticamente, e la pressione può essere regolata istintivamente. A volte tu devi premere forte, a volte molto delicatamente, a volte una delle due metà del blocco è inchiostrata pesantemente, l’altra scarsamente. A volte una singola stampa va sotto la pressa cinquanta volte» (Purvis, 2004, p.19)

si dimostra molto distante dal Costruttivismo. Utilizzando le caratteristiche dei differenti materiali di stampa, che spesso consistevano in materiali di recupero (buste, cartone, qualsiasi superficie che poteva trasformarsi in manifesto di libertà e ottimismo), Werkman andava contro la convinzione costruttivista che il lavoro artistico dovesse rispettare il carattere del proprio medium. Come Werkman scrisse più tardi: “Il soggetto proclama se stesso e non bisogna mai cercarlo” (W. Purvis, 2004, p. 14). I progetti di Werkman non precedevano l’arrangiamento degli elementi tipografici e della stampa, erano parte dello stesso atto estetico.

Il processo di stampa “misto”: Druksels, Tiksels Sopra e in copertina —Shoorstenen 2 (Chimneys 2) "Druksel", Settembre-Dicembre 1923 70 x 43 cm , 3 copie Probabilmente è una delle prime composizioni delle oltre 600 tavole Druksels; composizione astratta basata sulle forme dei comignoli delle case. E´ realizzata tramite sovrapposizione di stampe multiple. Le forme rettangolari sono realizzate utilizzando il retro dei caratteri tipografici in legno. Le diverse pressioni sul foglio durante il processo di stampa rendono la diversa intensità di colore.

Dal 1923 Werkman realizza una serie di oltre 600 tavole chiamate Druksels, dall’infinito olandese drukken (stampare). La sua attenzione è focalizzata sulla manipolazione e la pressione nel processo di stampa: i metodi di modulazione della densità dell’inchiostro per elaborare attentamente il giusto equilibrio tra i toni e gli strati che si amalgamano sul foglio. L’inchiostro sul foglio viene utilizzato come la pittura su tela, formando diversi strati di colore e forme, sovrapposizioni simili a collage creati sulla pressa a mano; così i Druksels non fanno parte di nessuna precedente categoria. Oltre i Druksels, Werkman dà vita a un’altra forma di sperimentazione grafica, legata anche alle ristrettezze finanziarie che in quegli anni stava vivendo. Con il supporto della macchina da scrivere trova soluzioni estetiche “nuove”; si chiamano Tiksels, dall’olandese tikken (scrivere a macchina) e consistono in componimenti puramente astratti che ben si distinguono da approcci simili intrapresi da De Stijl nello stesso periodo.


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Solo successivamente, nel 1940, Werkman sviluppa il suo metodo di stampa, promuovendo una nuova versione della rivista The Next Call, in cui modifica parti stampate coprendone dei parziali con pezzi di carta. Realizza simultaneamente una nuova serie di Druksels (Hot Printing), in cui introduce l’utilizzo di stencil unito a caratteri tipografici continuando la sperimentazione con il rullo inchiostratore, mezzo imprescindibile della sua produzione. Emblema di queste nuove sperimentazioni saranno le raccolte della Chassidische legenden, (Legende Assidiche), rappresentanti testi stampati convenzionalmente e illustrazioni realizzate con il rullo d’inchiostro e stencil in tiratura limitata a venti pezzi.

«[…] il trascendentale deve prevalere» (Purvis, 2004, p. 20).

TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI L’esperienza di Werkman definisce una ricerca, che spesso si manifesta con un “meticciamento grafico” , in cui diversi elementi “dialogano” sullo stesso piano compositivo. Sia sul piano formale che su quello tecnico nasce un métissage; un insieme di elementi che, dai componimenti dei Druksels alla realizzazione della rivista The Next Call, rappresentano un luogo di contaminazione in perenne trasformazione. L’utilizzo di tecniche quali la pressa a mano, la macchina da scrivere, così come l’uso di materiali di recupero, seppur rappresentino scelte necessarie (limiti finanziari e difficile accesso ai materiali), si vanno a configurare in uno scenario nuovo che “rompe” i legami con le tecnologie dominanti (stampa offset, fotografia). La ricerca di Werkman sembra focalizzata maggiormente sulla sensibilità, sull’ “anima” del progetto, più che su sistemi, regole, mode; la sua attenzione si ferma sul tocco umano, motore della progettazione grafica. Come dice E. Focillon (nel testo La vita delle forme) a proposito degli scambi mano/utensile e di come agiscono sulla materia: “Il tocco è il vero contatto tra l’inerzia e l’azione […] Il tocco è struttura che si sovrappone a quella dell’essere o dell’oggetto. Il tocco ha la sua forma, che non è soltanto valore o colore, ma (seppur in proporzioni infime) peso, densità, movimento” (E. Focillon, 1990, p. 64). L’intervento vitale dell’uomo nel progetto rappresenta in Werkman anche un sentimento sovversivo rispetto allo scenario storico-politico in corso, nel quale altri grafici, seppur avvicinandosi al risultato formale di Werkman, utilizzano impersonali processi produttivi (ad esempio Piet Zwart) (W. Purvis 2004, p. 20), sulla scia delle ideologie costruttiviste. Rinnegando questo intento, Werkman riconosce la casualità, l’incidente, l’imprevisto, come elementi po-

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H.N. Werkman

tenti della sperimentazione grafica. Werkman basa la sua ricerca, nel corso del progetto, sul “divenire”, sulla metamorfosi continua del suo foglio di lavoro, riconducendo nel contempo la fase di progetto a quella di stampa, ammettendo elementi casuali ed eterogenei. Questo approccio al progetto, non si rivela molto distante dalle teorie formulate in ambito sociologico a proposito del paradigma del mètissage; il parallelismo tra la produzione grafica e la teoria è reso esplicito, in particolare dal paradigma del métissage di cui Laplantine e Nouss si fanno portavoce. Secondo gli autori “l’identità meticcia è consapevole delle frontiere esistenti ma ha la capacità di oltrepassarle”, inserendosi nel cosiddetto regno del beyond, caratterizzato dallo spaesamento e dalla mutevolezza in una “dinamica del divenire”, che crea uno spazio comune di dialogo tra elementi eterogenei. Lo stesso spazio che Bhabha ha definito “terzo spazio”, quel luogo che nella sperimentazione tipografica di Werkman si traduce in piano di lavoro, foglio, materiali di recupero, buste da lettere, e rende evidente l’ibridità del risultato. "Interpretando la tecnica come una grammatica, in cui le regole hanno assunto una specie di fissità provvisoria, [...] si identificano le regole della lingua comune con la tecnica dello scrittore, la pratica del mestiere con la tecnica dell'artista" (Focillon, 1990, p. 59). Nel caso di Werkman si potrebbe dire che lo scrittore e l'artista corrispondono al mestiere di comunicatore visivo, la cui ricerca si muove oltre le gabbie tecniche, alle quali spesso il mestiere risulta impaziente (Focillon, 1990, p. 63).

P. p. e p. a lato —"Tiksels" 1923-29 27 x 21 cm

Vedi 2.3-2.4

Composizioni realizzate con macchina da scrivere, sono "passatempi", produzioni perosnali che Werkman non ha mai reso pubbliche. Rappresentano la forza creativa dell'autore, che va oltre i limiti del medium utilizzato.

—"De Ploeg in Pictura" Poster April, 1925 93,3 x 40,6 cm Uno dei tanti poster, che Werkman disegnò per il circolo culturale De Ploeg, di cui faceva parte. Realizzato con il metodo dei druksels e l'uso della stampa tipografica. Sovrapposozioni di diverse stampe.


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3.2

Willem Sandberg 1897-1984

«[…] W. Sandberg è un precursore tipico e di capacità non comuni del “museo vivo”, che ha una parte sempre più importante nella formazione spirituale delle nostre popolazioni» (Sandberg e Jaffè, 1962)


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PROFILO

—W. Sandberg nasce ad Amersfoort nel 1897; riconosciuto come uno dei massimi esponenti della scena culturale del dopoguerra olandese sia come grafico (o meglio “esploratore visivo”) che come direttore museale (museo Stedelijk, Amsterdam), è inventore di un nuovo modo di vedere la realtà e lo comunica introducendo concetti come arte moderna e "museo vivo". Personaggio eclettico e con una spiccata creatività, viaggiatore e sperimentatore, è fortemente influenzato tanto dalla scuola del Bauhaus di Weimar quanto dalla filosofia orientale di Mazdaznan1. La vastità dei suoi interessi e le ampie conoscenze acquisite convergono in una ricerca grafica che va oltre i desideri di “perfezione modernista”, piuttosto verso l’imperfezione di stampa, l’imprevisto, l’ignoto, verso il nuovo. La sua creatività trova sfogo in una molteplicità di lavori eterogenei; tra i quali, sicuramente, l’impegno più grande è riservato al museo: 300 cataloghi che progetta personalmente, oltre agli allestimenti degli spazi interni e alla nuova interpretazione dell’ identità del luogo. Inoltre, i suoi Experimenta Typografica e il contributo grafico per la rivista Styl rappresentano altre importanti opportunità di sperimentazione. 60 61

«L’artista si getta con passione nell’ignoto per rendere visibile, tastabile, udibile, percepibile il nuovo, la vita che avanza, la vera arte: la quale alla nascita è esigente e ineducata, non parla, urla. Lo “Stedelijk” si è sentito in dovere di mettere il pubblico costantemente e progressivamente in contatto con essa […]» (Sandberg e Jaffè, 1962) 1

Vedi p. s.


W. Sandberg

Come affermato dallo stesso Sandberg nell’introduzione al libro Le strade dell’arte moderna, lo scenario culturale emergente: “[…] Rock and roll[…]action painting, l’art informel un art autre, arte sperimentale, espressionismo astratto” ha messo fine “alla leggenda delle belle arti”. Il lavoro di Sandberg per lo Stedelijk rappresenta un’esperienza unica e insolita in quanto, si configura come un’attività che lo vede impegnato in modo totalizzante su due fronti: ricoprire il ruolo “canonico” di direttore e quello, più inusuale, di grafico. Le due attività sono poste sullo stesso piano e sviluppate parallelamente; il lavoro di comunicazione visiva non è mai subordinato a quello di direzione. “Si dice che ci siano report che descrivono Sandberg durante riunioni amministrative mentre schizza bozzetti grafici; realizzare i cataloghi delle mostre era per lui essenziale in quanto rappresentavano l’anteprima per il pubblico, un modo per diffondere aspettativa ma anche per far conoscere gli artisti prima della data dell’esposizione. Infatti erano resi disponibili molto tempo prima dell’inizio dell’evento” (Spencer, 1997). Lo Stedelijk diventa un luogo di sperimentazione, apertura, curiosità e nello stesso tempo contribuisce alla sensibilizzazione del pubblico nei confronti dell'arte; promuovendo anche artisti di correnti sovversive, ad esempio il gruppo di pittori che sotto il nome di “Cobra”(Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam) si erano uniti negli anni ‘50 e ‘60 rifiutando gli stili accademici radicati nel tessuto culturale dell’epoca. Mazdaznan (o Masdasnan). Setta fondata da Otto Hanisch (Posen 1854 – Los Angeles 1936) e diffusa nei primi decenni del xx secolo in vari paesi dell’Europa settentrionale e occidentale: richiamava all’antica religione persiana (il nome deriva da Ahura Mazd) ma, con largo sincretismo, metteva sullo stesso piano Zaratustra, Gesù, Buddha, Allah ecc (Treccani, l’enciclopedia italiana, 2012). 1


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TECNICHE I cataloghi per il Stedelijk Museum L’approccio di Sandberg è di rifiuto della simmetria e dell’ordine. Il suo intento, volto alla ricerca di nuove soluzioni di comunicazione, si rivela sul piano compositivo in alcune caratteristiche distintive tra cui: il métissage gli elementi e l'utilizzo di materiali grezzi, carta riutilizzata più volte (riutilizzata piuttosto che riciclata), carta da lucido per “giocare” su livelli differenti di informazione. In questo senso, Sandberg si fa precursore delle evoluzioni tecniche che verranno negli anni a seguire: il metodo di stratificazione di immagini è operato sia con l'utilizzo di materiali (carta lucida) sia con il processo di sovrastampa, con il quale si aprono possibilità legate al colore, soprattutto con l’utilizzo dei colori primari blu e del rosso, e il risultato del terzo colore (vediamo questa tecnica ad esempio nella realizzazione di immagini della rivista Styl). La realizzazione dei cataloghi del museo, nonostante la mancanza di gabbie progettuali e l’approccio “misto” non compromette mai la leggibilità e la chiarezza dei contenuti: “Egli guida i lettori attraverso un processo di conoscenza e rivelazione in un ordine particolare senza mai compromettere la visione dell’opera individuale dell’artista: le riproduzioni dei dipinti sono, solitamente, stampate su fogli bianchi lisci e incollate all’interno del catalogo. La mescolanza dei materiali (che è così importante nel suo lavoro) è una delle principali ragioni per cui le tecnologie moderne potrebbero essere un medium inadatto per lui. Egli crede nelle esperienze reali” (Spencer, 1997). Lo slancio verso un design vitale e dinamico oltre a rivelarsi nella scelta dei materiali, nella ricerca di un nuovo equilibrio formale trova compimento nella creazione di esperienze in cui l’utente è chiamato ad una comprensione “attiva”.

A lato: —Henry Moore Exhibition Poster Poster per la mostra di Henry Moore, Museo Stedelijk 1949

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Dizionario Ibrido STRUMENTI mano, macchina da scrivere METODI collage, sovrapposizione con carta da lucido, strappo ELEMENTI CARATTERISTICI strappo, utilizzo di diversi tipi di carta riciclata, carta da lucido, materiali grezzi


W. Sandberg

Le sperimentazioni “solitarie”: Experimenta Typografica “È strano come, ad alcune persone, la vita riservi la possibilità di ricominciare: una sorta di rinascita all’eta di 45 anni senza passato e con un breve futuro. E’ molto difficile ma anche gratificante” (Petersen, 2004, p.41). Durante la guerra Sandberg, riuscito a sfuggire agli arresti, trascorre un periodo di due anni lontano da Amsterdam sotto falso nome. In quegli anni matura nuovo interesse per il disegno, e per la tipografia. Il risultato è la produzione di una Serie fatta tra il ’43 e il ’45 di diciannove piccole pubblicazioni autoprodotte dalle 20 alle 60 pagine contenenti vari tipi di carta, collage, disegni, fotografie e diversi caratteri tipografici; queste pubblicazioni vengono raccolte sotto il nome di Experimenta Typografica. Molti booklet rimangono nella forma originale, manoscritti, altri sono stati ristampati solo dopo la guerra. Ad esempio l’ Experimenta Typografica 5, intitolato L’art, le superflu indispensable è conservato nella sua forma originale; i testi provengono dal manoscritto datato 1944, le illustrazioni rappresentano oggetti ritrovati, mentre il titolo “art” è realizzato ritagliando l’immagine di un’opera della pittrice parigina Gea Panter (Petersen, 2004, p. 58). I contenuti delle pubblicazioni consistevano solitamente in testi autoprodotti scritti a mano, o citazioni di testi famosi, riguardanti gli argomenti più disparati: l’arte, la vita, la tipografia, l’amore, l’educazione, la morte. Il layout era sempre bilanciato ma mai simmetrico e ampi spazi bianchi erano pensati per accogliere e dare rilievo alle parti di testo. La tecnica preferita da Sandberg sul piano formale era quella del taglio, e più avanti dello strappo L’art, le superflu indispensable, che applicava alla tipografia, creando un approccio giocoso e non convenzionale. La tecnica dello strappo diventerà presto la sua firma, un tratto distintivo della sua opera; un’interpretazione personale dei caratteri, che prenderà il nome di “Sandberg type”. I materiali utilizzati erano carta di recupero, trovata per strada, scarti, carta da pacchi, carta velina, illustrazioni strappate. Come nel caso di Werkman (il quale influenzerà direttamente la produzione di Sandberg), il quadro storico in cui si configura la sua esperienza impone limiti evidenti alla produzione: limiti di accesso a materiali, limiti finanziari e costrizione a lavorare, spesso, in condizioni di clandestinità. La capacità di questi maestri sarà sfruttare a proprio favore i “limiti” trasformandoli in “possibili risorse”, feconde per il desiderio di rottura degli schemi culturali, e per la libera espressione di “oggetti vivi” e aperti a contaminazioni.

«Il suo utilizzo di layers, la sovrapposizione di informazioni e/o offuscamento tramite carta da lucido, la sua scelta di utilizzare stili di scrittura inadeguati e contrastanti come l’Egyptian Bold e il sans-serif insieme, attraverso un utilizzo di “bassa tecnologia” sembra anticipi risultati che caratterizzeranno il graphic design nell’epoca post-moderna (1980 e oltre)» (Spencer, 1997)

—Experimenta Typografica 5 “L’art, le superflu indispensable” Dettaglio Copertina Cologne, 1982 (ristampa) la sola parte di testo deriva dal manoscritto datato 1944, 21 x 15 cm, 36 pagine.


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—A sinistra: Experimenta Typografica 11 Pagina interna publ. Galerie Der Spiegel, Cologne, 1956 22,2 x 14 cm, 56 pagine. A destra: Font realizzata per la fermata della metro di Waterloplein. 1980

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«I contorni grezzi mi soddisfano, strappare è qualcosa che si avvicina alla scultura, il risultato è ottenuto tramite la rimozione di materiale, al contrario dell’addizione tipica della modellazione o della pittura» (Petersen, 2004, p. 44)


W. Sandberg

Sopra e a lato: —Experimenta Typografica 2 "Mens sana in corpore sano" Pagina interna e copertina 1944 21 x 14,5 cm.


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TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI L’incredibile produzione di W. Sandberg assorbe dal Bauhaus un gusto per la chiarezza e la sintesi, qualità che vengono traslate da schemi di simmetria, ricercando un equilibrio che pare avere la sua massima espressione nel mètissage stilistico. In senso metaforico così come per la grafica, il museo rappresenta il luogo di contaminazione di elementi diversi, identità eterogenee, un luogo dialogico e mutevole. Sandberg a proposito della sua esperienza al museo afferma: “Durante i lunghi anni in cui mi sono occupato delle relazioni tra arte e società ho constatato che il museo è un luogo dove le società e l’arte si incontrano, un luogo che funge da ponte tra la società e l’arte, arte che altrimenti rimarrebbe estranea alla maggior parte delle persone” (Sandberg, 1962). Uno spazio di confronto ibrido, che, se sul piano formale grafico si riconosce nella tecnica del collage, o dall'utilizzo di diverse carte insieme alla scrittura manuale, nella direzione del museo risulta evidente dall'insieme di spazi diversi fruiti da una molteplicità di persone. In entrambi i casi l’approccio progettuale di Sandberg si staglia in quella zona interstiziale in cui “tutto si mischia”, che non rappresenta un confine, un recinto chiuso e formato da elementi omogenei bensì un luogo frammentato, aperto al pensiero trasversale e all’invenzione. Questo luogo sembra molto vicino a quel “in-betwe-

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en” di cui parla H.K. Bhabha nelle sue teorie sul meticciamento; l’“altrove” in cui ricercare la risposta all'identità, in questo caso al metodo progettuale, che si “[...] fa frammentario e temporaneo, in un flusso in continua evoluzione e metamorfosi, governato dall’incertezza e dalla mescolanza”.

Vedi 2.3 - 2.4


W. Sandberg

A lato: —Poster per la "Summer Exhibition 1800-1940" Poster realizzato per una mostra al Museo Stedelijk 1946 91,5 x 61 cm P.s.: —PIET ZWART 80, Sleutelwoorden Keywords Cover, Willem Sandberg / Jurriaan Schrofer 1966


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Wolfgang Weingart 1941

ÂŤFatti con biglietti del treno strappati, fotografie di famiglia, stralci di lingue straniere, forme astratte, simboli, dai primi collage fino agli ultimi poster svizzeri


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PROFILO

—W. Weingart, designer e tipografo di origini tedesche, portavoce della grafica svizzera, è considerato il padre della New Wave1. Insegnante nella scuola di Basilea, il suo approccio si distingue per la carica “sovversiva” rispetto all'International Style. La natura della sua formazione (fu un autodidatta) contribuisce allo sviluppo di un pensiero libero da influenze stilistiche, e costituisce il punto cardinale del suo insegnamento; ossia infondere ai suoi studenti un metodo "esplorativo" e critico alla ricerca continua di un equilibrio, una stabilità, lontana dalle tendenze del momento. Come lo stesso Weingart sostiene: “La mia tecnica idiosincratica era un’espressione che sfidava l’imitazione” (Weingart, 2000, p. 351). Oltre i dogmi compositivi della tradizione svizzera che imponeva una severa disciplina e senso di responsabilità, il suo metodo, è vissuto come evoluzione di una tipografia classica considerata base imprescindibile della conoscenza, che successivamente si configura in una continua esplorazione alla ricerca di nuove forme e linguaggi. Gli studi prettamente tipografici di Weingart sono orientati verso un’analisi “semantica” della tipografia, volta ad esaltarne il significato, indagandone i confini di leggibilità.

ho assemblato i miei montaggi in un tessuto di “sogni” frammentati, ricordi ed impressioni. La strada che ho battuto e l’azione delle mie forbici specchiavano una realtà interiore: disinibita, giocosa, complicata, contradditoria, e in qualche modo irregolare» (Weingart, 2000, p. 355) 1

Vedi p. s.

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W. Weingart

TECNICHE Il metodo di W. Weingart può essere paragonato a quello di Herbert Matter, il quale fu il primo ad utilizzare immagini fotografiche per composizioni di collage, trasformando la fotografia come elemento formale a servizio del progetto grafico (sia che venisse utilizzato, rielaborato in qualità di immagine, o come carattere tipografico). In modo analogo l’approccio di Weingart produce un effetto di rottura rispetto ai metodi precedenti. La sua tecnica focalizza l’attenzione sul processo di stampa offset e la fotocomposizione, sviluppando un modo nuovo di comporre collage. Attraverso l’esplorazione delle proprietà delle pellicole fotografiche, ad esempio la sovrapposizione di pellicole positive di testi e immagini, egli crea un modo per integrare tutti gli elementi del progetto. L’utilizzo della reprocamera, è essenziale per acquisire la libertà compositiva soprattutto per quanto riguarda la forma dei caratteri, la loro sovrapposizione, i contorni tramite l’utilizzo di fogli a mezzatinta (controllo delle tonalità e intensità delle immagini); la combinazione delle tecniche per il montaggio delle pellicole, contribuisce a trasformare i lavori di Weingart da tipografici a grafici. Anche il metodo del layering è favorito dall’utilizzo della reprocamera e di pellicole trasparenti: la trasparenza dei fogli da assemblare permette infatti, infinite combinazione di sovrapposizione delle pellicole, durante il montaggio e la composizione finale (con la pressa da stampa il solo modo di sovrapporre le immagini era quello della sovrastampa, avendo fasi ben distinte di preparazione e

«Per disegnare i miei personali sfondi, ero dipendente dall’accesso alla camera oscura, dalla macchina fotografica, e dall’esperienza acquisita tramite il metodo per prova ed errore» (Weingart, 2000, p. 351)

Sopra: —Collage, progetto indipendente Collage realizzato con sovrapposizione fotografica di vari fogli; utilizzo materiali disparati quali biglietti del treno, foto di famiglia, frammenti di cartoline. n.d.

New Wave: movimento sperimentale nato alla fine degli anni ’80 nella scuola di Basilea, che sancisce la rottura con la “grafica svizzera” e propone un nuovo metodo privo di influenze stilistiche e schemi "fissi". 2 In generale indica un'interferenza visiva, creata da griglie uguali sovrapposte con angolature diverse, o con retinature differenti. Nella stampa è l'effetto che si crea quando le separazioni in quadricromia non vengono stampate a registro. 1


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di risultato finale, non visibili fino alla fine). La sua attenzione si focalizza anche sulle texture che presto diventano il suo segno distintivo: la peculiarità è data da interventi sulla risoluzione delle immagini a mezzatinta (che risultano a grana grossa), che si creano quando le pellicole vengono sovrapposte o cambiate una con l’altra; questo metodo dà risultati particolari di texture, ad esempio crea il cosiddetto effetto moiré2. Weingart inventa un vero e proprio metodo per creare illimitati pattern, lo chiama “mother-father system”: texture puntinata che consiste nel sovrapporre due differenti sfondi, uno con una gradazione standard in scala di grigio, l’altra con il grigio al 20% (Weingart, 2000, p. 135). Un esempio concreto di questo approccio ci viene dato dalle composizioni realizzate da Weingart per la Swiss Poster Advertising Company. Una delle sue più alte produzioni sarà rappresentata dal poster commissionato da Bruno Margadant nel 1981 (vedi p. s.), realizzato in quadricromia, con una sovrapposizione dei diversi livelli di colore: lo sfondo delle immagini ha la caratteristica della grana spessa e ogni livello di colore differisce per alcune forme del disegno rappresentato, giocando sui vuoti e i pieni. Un altro esempio è dato dal libro Projekte, che rappresenta la ricerca di due studenti nei confronti della tipografia sperimentale: l’utilizzo combinato tra i tradizionali elementi in metallo per la stampa di caratteri mobili e le tecniche fotografiche, una reinterpretazione tipografica che parte dalle forme.

A sinistra: —Worldformat poster "18th Didacta/Eurodidac" Dettaglio “tecnica moiré”, data dalla sovrapposizione di tre fogli colori CMY. 1980-81 A destra: —Projekte, Projects Edizione limitata di 360 copie Pagina interna del libro, che presenta la ricerca tipografica svolta da due studenti, James Faris, Gregory Vines, che combina elementi della classica tipografia alla tecnica fotografica. 1979

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W. Weingart

—Worldformat poster "18th Didacta/ Eurodidac" Poster realizzato per una convention di insegnamento. Tecnica utilizzata: film layering. 1980-81 A lato: Fasi della sovrapposizione "film layering".


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Wordformat Swiss Poster I poster realizzati per la Swiss Advertising Company sono quasi sempre per la promozione di eventi legati al mondo dell’arte. Il primo manifesto che Weingart realizza è per il Kunstkredit e in questo caso gli elementi della composizione sono inseriti direttamente su un’unica pellicola e trasferiti tramite stampa offset sul piano di stampa; il formato sarà già quello definitivo (cioè dimensione reale del manifesto); per i successivi manifesti invece la dimensione del foglio destinato al collage sarà molto più piccola e l’adattamento al grande formato avverrà nel processo di stampa. La fotocomposizione consente maggiore libertà e flessibilità per la sua natura semplice: la tipografia viene liberata dalla costrizione degli standard di stampa. Nonostante Weingart accolga le nuove tecnologie (alla scuola di Basilea fu introdotto per la prima volta l’utilizzo del Macintosh) con apertura e ne riconosca i vantaggi come la semplicità, la possibilità di lavoro su diversi formati, la libertà di posizionamento degli elementi della composizione, non smetterà mai di avere una propensione per il lavoro manuale.

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«Le mani e la tangibilità dei materiali che utilizzo sono la fonte della mia soddisfazione progettuale e motivo di ispirazione. Sono legato alle mie origini di artigiano » (Weingart, 2000, p. 471)

—Worldformat poster "Herbert Bayer" Poster realizzato per il Gewerbe Museum, Basilea, 1981 Tecnica utilizzata: film layering.


W. Weingart

APPUNTI SULLE NUOVE TECNOLOGIE

«L’equipaggiamento tecnico mi ha permesso di realizzare il mio mondo di segni e immagini» (Weingart, 2000, p. 472)

La tecnologia avrà una forte influenza in tutta la produzione grafica e a partire dagli anni ’80 scatenerà una vera e propria rivoluzione con l’introduzione del Macintosh. Essendo una fase di transizione per molti grafici, che fino ad allora avevano utilizzato strumenti del tutto diversi, seppur non soltanto manuali, sarà vissuta in modo differente da ognuno di loro e la reazione e le conseguenze sugli approcci progettuali saranno tanto visibili quanto eterogenei. “La fotocomposizione con le sue possibilità tecniche dirige la tipografia odierna in un gioco senza regole. Così la tecnologia trasformerà sempre di più la professione tipografica e le sue basi estetiche, ovvero la corrispondenza tra le abilità della mano e la fisicità dei materiali. Molti progettisti si dimostrano entusiasti al progresso delle tecniche pensando che incrementerà la qualità di progettazione e la possibilità di penetrazione sul pubblico, senza realizzare che alcune peculiarità delle nuove tecnologie renderanno sempre più marginale alcuni ruoli “storici” nelle fasi di lavoro, ad esempio il mestiere del tipografo. [...] Così come la diversità della comunicazione cresce, crescerà la domanda di una produzione più veloce. Nel prossimo futuro, la tipografia non sarà soltanto potenziata da un incessante incremento tecnologico ma sarà definita da quest’ultimo” (Weingart, 2000, p. 118).

Dizionario Ibrido STRUMENTI stampa offset, reprocamera, pellicole fotografiche, macchina fotografica, forbici METODI collage, layering ELEMENTI CARATTERISTICI effetto moiré, collage, sovrapposizioni di immmagini

P. a lato in alto a destra: —Studi sulla lettera “M” Schizzi del progetto indipendente sui caratteri tipografici, precisamente incentrato sulla lettera M. 1965 In basso: —Worldformat poster:"Kunstkredit Basel" Poster realizzato per la "City Organization of the arts". Tecnica utilizzata: film layering. 1983


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Studio della lettera “M”, progetto indipendente 1965-1968. Le sperimentazioni legate allo studio della lettera M nascono dalla curiosità di creare nuovi segni grazie all’utilizzo non convenzionale dei tradizionali strumenti tipografici e l’introduzione di approcci alternativi. Lo studio inizia, infatti con la costruzione di un cubo di cartone sui cui lati Weingart applica le lettere maiuscole “M”: le successive foto scattate al cubo e le manipolazioni sui negativi delle immagini stesse daranno l’opportunità di studiare la lettera nelle sue tre dimensioni, opportunità negata dal semplice utilizzo del legno o metallo dei caratteri tipografici e per la loro riproduzione. Come aveva fatto Werkman realizzando i suoi famosi druksels, anche in Weingart la ricerca comunicativa legata ai caratteri (in questo caso la lettera M) va oltre la scrittura, trasformandone la funzione principale: la funzione del carattere non è più quella di essere il messaggio ma il mezzo per esprimere un mondo di segni. Ne segue uno studio strutturale e materico attraverso il quale le lettere verranno riassemblate, distorte, lavorate come fossero “puzzle”, sovrapposte, unite lato su lato, dando vita a composizioni che “snaturano” l’intento tradizionale della scrittura.

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«[...] alcune di queste immagini-M riportano la mia mente ai contorni grezzi delle campagne siriane o i disegni sui muri del nord dell'India» (Weingart, 2000, p. 235)


W. Weingart

TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI Il lavoro di Weingart, caratterizzato da un non-metodo, è interamente influenzato dal meticciamento. Fin dalla sua iniziale produzione, in cui ricorre al collage con elementi trovati o collezionati, quali biglietti del treno, vecchie fotografie di famiglia ecc. Weingart si distingue per il suo approccio “misto” e libero, nel quale lascia spazio alla casualità, all’ispirazione data da elementi naturali e paesaggi catturati in fotografie, che trasferisce nella sua ricerca visiva. Più che sul fronte delle tecniche, in Weingart il métissage risalta dal punto di vista formale rispetto al suo approccio: una ricerca di modi sempre nuovi di comunicare, di riconoscere nella casualità e a volte nell’errore la via inesplorata da battere. “Manipolare” gli elementi utilizzati per la progettazione senza distinzione di genere, ponendoli sullo stesso piano di studio: così facendo, ad esempio, la tipografia diventa tridimensionale e la lettera studiata viene “lavorata” come fosse un oggetto; il carattere cambia il suo intento comunicativo più tradizionale legato alla scrittura. In questo caso il meticciamento si riscontra nello studio sugli elementi progettuali; gli approcci si mescolano, senza più definire i contorni di una tecnica “indicata” o “giusta” per trattare un elemento piuttosto che un altro. In questo “gioco” non solo i caratteri tipografici vengono trattati come oggetti, ma le sgranature derivanti da una bassa risoluzione acquistano valore estetico e diventano texture di sfondo, le fotografie di paesaggi ed elementi naturali utilizzati come forme base per elaborazioni grafiche successive. Si sconfina quindi negli spazi di sperimentazione: nella cosiddetta “zona franca”, citata sopra più volte. In questa zona, si sfruttano le potenzialità innovative derivanti i nuovi ibridi, che similmente alla biologia, rappresentano incroci “non programmabili” e non sempre attesi, che possono rivelarsi buoni o meno buoni ma che spesso diventano gli anelli mancanti per l’evoluzione delle specie (in questo caso della “specie grafica”). Si assiste a mix, frutto di momenti di transizione non solo “obbligati” per “evoluzione naturale” delle tecniche (e conseguenti scambi continui vecchio-nuovo, nuovo-vecchio), ma in cui certi progettisti trovano l’interstizio perfetto in cui inserirsi per portare avanti e sviluppare il proprio pensiero fuori dagli stilemi dominanti.

Copertina: —Katalogumschlag. International Kunstmesse Art 20 in Basel Poster per la mostra Internazionale d'arte a Basilea, 14-19 Giugno '89. Realizzato con sovrapposizione di fogli negativi (film layering); uso della reprocamera. 1989 A lato: Dettaglio img. di p. 70

Vedi 2.2 - 2.4


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3.4

April Greiman 1948

«Quello che cerchiamo è una nuova texture, un nuovo linguaggio progettuale, un nuovo paesaggio di sfondo per le comunicazioni. Questo strumento, forgerà le persone di un nuovo potere;


PROFILO

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—A. Greiman, formatasi alla scuola di design di Basilea, è considerata una delle pioniere della computer grafica. In un’epoca che vedeva l’impiego del computer per lo più a scopo industriale, April Greiman rappresenta uno dei primi casi in cui l’utilizzo della tecnologia digitale diventa un nuovo medium visivo, uno strumento prezioso per la progettazione e l’esplorazione di nuove forme e linguaggi visivi. Personaggio di spicco della New Wave durante la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, rifiuta l’atteggiamento scettico che investe la maggior parte dei suoi colleghi contemporanei riguardo la digitalizzazione, dimostrando la sua assoluta apertura che vede nell’ esplorazione e nella sperimentazione dell’arte digitale il centro della sua ricerca stilistica. Il suo lavoro è soprattutto legato agli esperimenti derivanti dall’utilizzo dell’Apple Macintosh e della Quantel Paintbox1 ma, in generale, la caratteristica emergente dai suoi componimenti grafici è l’eterogeneità formale: una contaminazione di differenti linguaggi resi espliciti dalla scomposizione tipica del collage e del fotomontaggio. La sua formazione “mista” e duplice (anche geograficamente) che la vede prima alunna della scuola svizzera e poi esposta ad influenze ed energie californiane, troverà nella tecnologia digitale uno spazio interessante di convivenza e di sperimentazione. Proprio sulla tecnologia digitale la Greiman afferma: “non solo reinventa la tecnica di stampa, ma crea formati totalmente nuovi, nuovi spazi in cui si combina suoni, movimento, interattività. Questi nuovi ibridi digitali diventeranno la piattaforma per i designer di domani” (Greiman, 1990, p. 13). Predilezione che oggi, alla luce dell’evoluzione tecnica, pare trovi conferma.

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assisteremo alla produzione di cose terribili e cose meravigliose. Impareremo da questo strumento come progettare» AG (Greiman, 1990 p.55)

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Vedi p. s.


A. Greiman

TECNICHE Anche se l’approccio di April Greiman è caratterizzato dall’utilizzo di tecnologie emergenti, che accoglie con entusiasmo, è riduttivo limitare la sua esperienza al ruolo pionieristico. Infatti per comprendere il suo percorso stilistico non convenzionale, che trova compimento in artefatti di fortissimo impatto visivo e comunicativo, è necessario esaminare la molteplicità di strumenti, stimoli e materiali che ne fanno parte. L’utilizzo di metodi di produzione che spaziano da interventi manuali alla digitalizzazione di immagini e rielaborazione tramite computer o Paintbox, all’utilizzo di immagini video, fotografie scansionate, vari metodi di stampa (serigrafia, fotocomposizione, stampa offset) non permette di tracciare confini definiti circa l’esperienza della Greiman. La predilezione per la sperimentazione, i colori forti, la sovrapposizione di diversi livelli di comunicazione e informazione si traducono in lavori per una committenza tanto eterogenea quanto il suo approccio progettuale: da riviste specializzate (Art direction, Wet, Design Quarterly), a comunicazione per accademie e scuole (California Institute for the Arts), a musei (Los Angeles County Museum of Art), a singoli artisti o designer (Peter Shire, Ron Rezek).

seguito con la nascita della Painbox e del Macintosh. Con la collaborazione di Jayme Odgers verrà realizzata ad esempio una cover del magazine Wet: un componimento manua-

Nei suoi primi lavori (’79, ’81), dove la componente digitale è ancora inesistente, si riconosce l’operazione continua di layering, suo tratto distintivo; il sovrapporre livelli diversi di colori, immagini e informazioni, diventa una delle caratteristiche peculiari della sua produzione grafica, affinata in Quantel Paintbox: nata nel 1981, fu un sistema innovativo e rivoluzionario nella manipolazione di immagini, nel mondo della grafica, dell’audio-visivo, della post-produzione. Introdusse per la prima volta il menu pop-up, strumenti digitali tipici del disegno, e successivamente l’utilizzo della penna grafica e del tablet. 1


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le, creato con il collage di una riproduzione di una fotografia a colori (prodotta da Ricky Nelson), carta giapponese, ritagli di riviste, aerografo (Greiman, 1990, p. 28). Anche per quanto riguarda il lavoro prodotto per il Los Angeles County Museum of Art, la tecnica utilizzata prevede una sovrapposizione di diversi livelli, il primo derivante da un intervento manuale, con l’utilizzo di vernice spray, a cui segue l’aggiunta di caratteri tipografici con il metodo tradizionale del fotomontaggio; il poster sarà ultimato con una stampa offset in quadricromia (Greiman, 1990, p. 37). L’approccio progettuale per April Greiman si riassume in quattro operazioni fondamentali: “layering”: portare la tecnologia di stampa al limite delle sue possibilità, sfruttando diverse fonti da cui attingere immagini, il componimento tramite collage, portare il mondo bidimensionale in quello tridimensionale e viceversa, creare uno spazio metaforico in continuo movimento. “hybridizing”: nelle fasi di sviluppo progettuale cercare di far dialogare tra loro immagini, video, testi di differente natura, l’integrazione di linguaggi eterogenei attraverso l’utilizzo di supporti che offrono la possibilità del remix . “interactivity”: creazione di oggetti grafici “reattivi”, aperti a forme dialogiche, di scambio, che incorporino suono e movimento; cercando di avere un output in stampa simile a quello sullo schermo e viceversa. “The Wholegraphic environment”: il tentativo della Greiman è quello di arrivare a un’ unità “poetica” e pratica, trascendendo le vecchie strutture, simultaneamente sostituendo sequenze, separazioni, e gerarchie. Un nuovo linguaggio globale. Una nuova cultura

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Dizionario Ibrido STRUMENTI stampa offset, scanner, computer, Paintbox, vernice spray, forbici METODI collage, layering, fotomontaggio ELEMENTI CARATTERISTICI immagini "ibride", colori forti, utilizzo di elementi digitali

p. a lato: —Cover magazine WET Settembre-Ottobre 1979 La copertina della rivista descrive lo scenario culturale New Wave a Los Angeles nella metà degli anni '70, 1979.

Vedi 4.3

La tecnica di realizzazione è 1) tramite collage manuale di frammenti di riviste, carta giapponese, vernice spray; 2) scansione del componimento per la separazione dei colori (quadricromia).


A. Greiman

—The modern Poster Poster realizzato per una mostra al Museum of Modern Art, a New York, Giugno-Settembre 1988. La tecnica di realizzazione (visibile nelle immagini a destra) è manuale e digitale; 1) i caratteri tipografici dal digitale vengono stampati ed elaborati manualmente; 2) icone e colori realizzati in digitale.


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globale (Greiman, 1990, p. 133). Un altro esempio che descrive perfettamente il metodo “ibrido” di April Greiman deriva dalla realizzazione di un poster per il Southern California Institute of Architecture (Greiman, 1990, p. 103). In questo caso infatti è già noto l’utilizzo del Macintosh che viene impiegato per la digitalizzazione delle immagini e la realizzazione dei testi; lo sfondo consiste invece di un’ immagine con diversi gradienti di colore scelta accuratamente dalla libreria-immagini del Video Paintbox. L’immagine centrale consiste nella stampa ad alto contrasto bianco e nero di un negativo; lo sfondo dell’intera composizione è formato da un layer realizzato in digitale ma il fotomontaggio dei vari elementi è composto manualmente.

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«April Greiman conia il termine “immagini ibride” per descrivere questo “miscuglio” nella composizione di un’immagine digitale/testo/pagina realizzata con le nuove tecnologie insieme alle tecniche tradizionali fotomeccaniche per la produzione di stampa» (Greiman, 1990, p.13)

—Poster Southern California Institute of Architecture Il poster è realizzato per una serie di “lecture”presso il Southern California Institute of Architecture, 1986. Tutti gli elementi della composizione (testo e immagini) derivano dal digitale, mentre il montaggio finale è realizzato con il metodo del collage manuale.


A. Greiman

TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI La varietà di tecniche e materiali che April Greiman incorpora nelle sue immagini sono l’esempio di un approccio che suggerisce interdipendenza tra gli elementi, lascia aperto il campo alle possibilità stilistiche, al cambiamento continuo, alle forme che diventano forze dinamiche. Come già accennato, la sostituzione di metodi fotomeccanici con processi elettronici, rappresentava, per molti, una minaccia per gli standard progettuali che definivano la professione. Per la Greiman, i nuovi strumenti allargano le opportunità della tradizionale relazione tra occhio e mano (Greiman, 1990, p. 13). Nonostante la sua fiducia nelle nuove tecnologie, l’utilizzo di collage o fotomontaggi manuali in alcune fasi di progetto, così come di tecnologie già note e assimilate, non cesserà di esistere, proprio perché i nuovi media rappresentano prima di tutto, un nuovo luogo di esplorazione e condivisione di diversi elementi, non solo un’evoluzione imposta e sostitutiva delle tecniche precedenti. La sua tecnica rivela un modo per cucire insieme una varietà di tecnologie volte a esprimere una visione comune, un’unità formata dalla diversità, dall’eterogeneità degli elementi. I confini che precedentemente configuravano abilità considerate uniche e “pure” si stanno offuscando, e si configura un’ “opacità” , uno spazio interstiziale e sfumato di frontiere penetrabili, che dà vita a nuovi modelli (Glissant, 2004).

APPUNTI SULLE NUOVE TECNOLOGIE A proposito della Paintbox; il suo utilizzo nella creazione e gestione di immagini è molto simile al Macintosh, ma utilizza strumenti più sofisticati e precisi. Permette la creazione di una libreria di fotografie, disegni, screenshot video; questa libreria fornita di strumenti per la manipolazione e la creazione di immagini, diventa un potente "tavolo luminoso per la mente" in cui le immagini possono essere ricomposte, trasformate, rielaborate, il tutto in modo simultaneo sullo schermo davanti a te. La Paintbox è stata considerata tra durante gli anni '80 e gli inizi degli anni '90 la "computer graphics workstation" (la stazione di lavoro della computer grafica), prima e durante la nascita del computer. La transizione tra la riproduzione fotomeccanica e i formati digitali è di tipo graduale; nonostante ciò il disorientamento che ne deriva sembra ripetersi in ogni momento che rappresenta un’evoluzione. Questo significa che "non c’è un momento “giusto” per entrare nel “flusso digitale”. Ogni momento è giusto come un altro, non è un prodotto particolare che decidi di comprare ma un processo in continua evoluzione a cui decidi di partecipare. Nuovi paradigmi, sostituiscono quelli vecchi; tutti i media collassano in un unico linguaggio e strumenti digitali comuni, così il mondo si unifica e sembra piccolissimo[…]. L’implicazione maggiore prevista per il futuro è che la tecnologia digitale collassi tutti i media in un unico strumento che parla un unico linguaggio digitale. Rappresenta davvero un metamedia2. Il suono è generato, redatto e ricordato come un unico disegno, composto

Vedi 2.2 - 2.4


Casi Studio

Sono modelli sempre meno riconducibili a “stili” o corrispondenti a leggi universali, ma che si esprimono con linguaggi di auto-affermazione, aprendosi ad influenze esterne, alle evoluzioni tecnologiche e a principi quali il “meticciamento”; nascono così prodotti ibridi. degli stessi bit, che descrivono ad esempio il colore. […] I media, precedentemente caratterizzati da vita propria, cominciano a diffondersi e a mischiarsi tra loro. Tagliare un’immagine e introdurla in una canzone. La parola è colore, è suono, è movimento. I nuovi importanti media sono ibridi. L’epoca degli specialisti è sostituita da quella dei “ruoli generici pensati” (Greiman, 1990, pp. 120-133).

«Le tecnologie digitali non rappresentano semplicemente nuovi strumenti per vecchi compiti. Richiedono una nuova tipologia di professionista con una visione non convenzionale, che combina media originariamente distinti in nuovi ibridi, ad hoc […]» (Greiman, 1990, p.13) 86 87

2

Per approfondimenti vedi 4.2


A. Greiman

—Poster, Design Quarterly #133: "Does it make sense?" Il poster collage è realizzato per il Design Quarterly magazine 60x180cm 1986 Walker Art Center & MIT Realizzato interamente in digitale, rappresenta un'esperimento personale; un collage a grandezza naturale, di testi, screenshot e un'immagine intera raffigurante il corpo della stessa autrice.


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3.5

Cranbrook Academy of Art 1980

«[…] la forza e l’energia della Cranbrook Academy sembrano provenire dalla ricerca comune verso una conclusione non comune nella quale il più del lavoro è volto


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PROFILO

—All’inizio degli anni Ottanta, l’editore George Booth fonda la Cranbrook Academy of Art (Michigan) la quale, portando avanti la sua criticata attività legata principalmente alla sperimentazione, si inserisce in modo del tutto nuovo nello scenario della formazione alle arti visive. L’attività svolta da insegnanti e studenti che prendono parte a un disegno comune fa perno sull’obiettivo di cercare nuovi linguaggi e forme per una comunicazione visiva che si discosti dagli stilemi imposti dalle tecniche dominanti indagando le potenzialità delle nuove tecnologie e la possibilità che apre il métissage grafico sia sul piano tecnico che formale. La Cranbrook Academy of Art viene spesso considerata la scuola del Bauhaus Americano ma “diversamente dalla scuola del Bauhaus, Cranbrook non ha mai abbracciato un solo metodo di insegnamento o un’ unica filosofia; l’esortazione continua verso ogni studente è quella di ricercare la propria strada” (McCoys, 1990, p. 14). Questa possibilità è fornita dal libero accesso a laboratori e strumentazioni varie, che permette agli studenti di “rompere” le regole della serietà e dell’asettico razionalismo svizzero. Uno degli obiettivi che si sviluppa parallelamente alla ricerca di nuovi linguaggi è quello ci cercare un significato, che funga da “ponte” tra il pubblico e il graphic design, un luogo nel quale gli studenti comincino a comprendere le dinamiche decostruttiviste1 del linguaggio visivo, che rappresenta un filtro con il quale manipolare la risposta del pubblico (McCoys, 1990, pp. 15-16). Così facendo “il graphic design diventa una “provocazione”, un modo per invitare il pubblico a “ricostruire” il significato, considerare nuove idee rifiutando preconcetti”

(McCoys, 1990, pp. 15-16). Questo intento, ribadito da Katherine e Michael McCoy nel libro “Cranbrook Design: the new discourse”, si discosta molto dalle critiche mosse da S. Heller2 il quale inserisce l’esperienza degli studenti della Cranbrook come emblematica della sua riflessione che chiama “Cult of the Ugly”3 (il culto del brutto) e secondo cui la bruttezza deriva spesso da una mancanza totale di consapevolezza e senso progettuale (Heller, 1993). L’attenzione estetica e l’eleganza, non rappresentano l’intento principale; anzi, la ricerca formale ricorre spesso a elementi manuali, si attinge all’immaginario di forme “vernacolari”4, andando dalla celebrazione dell’estetica della forma all’esplorazione critica di diverse ipotesi di significati (McCoys, 1990, p. 17). Katherine McCoy crede in una “decostruzione” si, ma non soltanto di forma; […] io sono interessata all’idea di incoraggiare la partecipazione del pubblico, aprendo il significato così che possa essere coinvolto: […] questa è una strategia per trasformare il processo analitico in un processo sintetico” (McCoy, 1995).

al cambiamento dello status quo in cui prevale la sterilità dell’Universal Style» (McCoys, 1990, p.14) 1-2-3-4

Vedi p. s.

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Cranbrook Academy of Art

—Broadcast Designers Annual Conference Posters serie 1987-1989 realizzato da James A. Houff, 1989. La complessa sovrapposizione di immagini e caratteri tipografici, vuole evocare le caratteristiche principali di ogni città in cui ha avuto luogo la conferenza annuale. Edizione limitata, realizzato con tecnica serigrafica.

TECNICHE Dal punto di vista formale, il metodo che maggiormente viene utilizzato è il collage. Il collage rappresenta un tipo di approccio che coinvolge soprattutto i contenuti del progetto; la stratificazione formale rappresenta soltanto un primo livello di lettura: spesso infatti la parte più importante è data dal layering applicato sui contenuti, che rappresentano diverse interpretazioni, sottotesti, storie nascoste e con diversi tipi di interpretazioni possibili (McCoys, 1990, p. 16). Il bisogno di legare la teoria alla pratica si dimostra nel desiderio profondo di costruire il significato degli artefatti tramite l’esperienza legata all’utilizzo di essi; questo si attua puntualizzando che “nulla è sacro e inviolabile, niente corrisponde alla realtà assoluta ed immutevole, ma ogni cosa è continuamente sottoposta a domande e critiche. Spesso con il progetto si risponde a quelle domande, altre volte no, altre volte le risposte generano altre nuove domande”(McCoys, 1990, p. 19). I primi progetti della Cranbrook Academy combinavano il rigore tipico della tipografia di Emil Ruder con tendenze più anarchiche dell’immaginario artistico legato a correnti pop (esempio con influenze di artisti come Ruscha e Warhol). Gli obiettivi della formazione alla Cranbrook Academy sono, oggi, gli stessi del passato, anche se a differenza degli anni Settanta, oggi non ci si trova in momenti di “rottura” culturale e storica; i sentimenti sovversivi lasciano il posto alla ricerca, alla sperimentazione continua che non si accontenta di applicare un pensiero unico e condiviso, dettato da strumenti e metodologie preconfezionate. Il dipartimento di Graphic Design focalizza l’attenzione sullo studio teorico che si sviluppa parallelamente all’attività di laboratorio. Il metodo perseguito dal diparimento si basa su cinque principi fondamentali: 1) il lavoro svolto al dipartimento si trova a metà tra design e arte; 2) vi si svolge un’esplorazione che è in continuo rapporto tra scrittura, critica e produzione; 3) il processo di critica è uno strumento fondamentale in quanto generativo; 4) l’approccio alla progettazione è interdisciplinare;

Vedi “Appunti sulla teoria decostruttivista” Steven Heller è stato Art director presso il New York Times. Attualmente è co-presidente del MFA Designer, consulente speciale per il Presidente di SVA per Nuovi Programmi ed è redattore del Journal AIGA per la sezione “Graphic Design” per cui ha pubblicato decine di scritti critici e giornalistici sul graphic design contribuendo a costruirne un vocabolario. 3 Vedi “CULT OF THE UGLY”. 4 Vedi “Grafica vernacolare?” 1

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Casi Studio

5) gli elementi come: teoria, lingua e scrittura sono a sostegno dell’oggetto (Cranbrook Academy of Art, n.d.). Ne consegue un design sperimentale, in cui l’unica “questione centrale rimane quella dei bisogni umani, ma con un obiettivo “grandangolare” sulle potenzialità estetiche e critiche per un nuovo tipo di paternità che non è più legato a vincoli di progettazione “massa”. In definitiva, saranno i designer stessi che dovranno essere in grado di trovare un nuovo posizionamento del proprio lavoro in questo cambiamento del panorama di idee, di pubblico e di aziende. È indispensabile, quindi, che capiscano il loro contesto culturale, i metodi e le intenzioni del loro lavoro” (Cranbrook Academy of Art, n.d.). Il lavoro portato avanti all’Accademia si traduce, sul piano tecnico, nell’uso delle metodologie più disparate: dalle ricerche sulle nuove tecnologie a metodi analogici, le strade esplorate sono sempre diverse e vicine all’intento del progettista. Ne è emblematica la produzione di Ed Fella (vedi 3.6), il quale, prediligendo l’intervento manuale, assume un approccio molto vario sul piano delle tecniche utilizzate per realizzare i suoi lavori. Solo l’obiettivo comune ai lavori è esplicito ed è quello di cui, sopra ogni altra cosa, si fa portavoce l’Accademia di Cranbrook: la sperimentazione e l’intento di maturare il proprio modo di vedere e “fare design”.

«La complessità che ricerchiamo è la complessità di significato. Non mi interessano tanto gli “strati” della forma quanto “gli strati” di significato» (McCoy, 1995)

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Dizionario Ibrido STRUMENTI stampa offset, scanner, computer, Paintbox, vernice spray, forbici , tecniche personali —Nu-Bodies Poster Cranbrook Studio project Commissionato e pubblicato dalla Detroit Focus Gallery, realizzato da Edward Fella, 1987 Il poster è realizzato in camera oscura, "giocando"sulle deformazioni dei caratteri tipografici, per crearne nuove interpretazioni oltre quella tradizionale.

METODI collage, layering, fotomontaggio ELEMENTI CARATTERISTICI immagini "ibride", utilizzo di elementi digitali


Cranbrook Academy of Art

«lo smontaggio è orientato verso il linguaggio visivo, ciò che mi interessa è decostruire il rapporto della lingua scritta e di quella visiva per comprendere le dinamiche e le intenzioni della comunicazione» (McCoy, 1995)


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TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI Le basi su cui si fonda l’insegnamento della Cranbrook Academy of Art, che accoglie e stimola una realtà ibrida, può essere assimilato ai concetti portati avanti dalle teorie del meticciamento; l’esperienza dell’Accademia si inserisce in un quadro più ampio socioculturale. La Cranbrook Academy of Art infatti, oltre che distinguersi sul piano formale, per il nonstile derivante la sperimentazione che si manifesta chiaramente, ad esempio, nel metodo del collage, nella contaminazione tra tecniche, nel passaggio continuo tra strumenti “analogici e digitali”, elabora un vero e proprio programma di formazione mirato alla fusione tra metodo ed esigenze individuali di progettazione. Il risultato è un métissage profondo evidente , soprattutto, per quanto riguarda il “luogo” fisico; l’Accademia diventa uno spazio di incontro tra persone che mettono a disposizione metodi e tecniche “personalizzate”, in una realtà eterogenea di contaminazione multipla in cui “l’oltre”, il cosiddetto regno del beyond di cui parlava H.K. Bhabha e nel quale va inserita la nuova ricerca di identità, permette di sviluppare nuovi linguaggi di comunicazione visiva. Questi nuovi linguaggi, similmente al processo di creolizzazione (che avviene in campo linguistico) nascono da un assorbimento profondo che è riduttivo relegare soltanto all'aspetto semantico (in questo caso di produzione grafica), ma è da ricercare, piuttosto, negli scambi e nel processo di intervalorizzazione tra tecniche ed esigenze individuali. Si favorisce così, in ambito progettuale lo sviluppo di un pensiero trasversale capace di inglobare stimoli esterni aprendosi all’ampio spettro delle “possibilità”.

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A lato in alto: —Cranbrook Design Poster Cranbrook Faculty project Poster realizzato da Katherine McCoy, 1989. Manifesto dell'Accademia.Collage fotografico dei recenti lavori svolti dagli studenti, il testo e il diagramma descrivono il programma dell'Accademia vs il metodo tradizionale. Il poster è realizzato a due colori con parti tratteggiate removibili. In basso: —Calck Hook Dance Brochure per il teatro Calck Hook Commisionato e pubblicato dalla Brooklyn Academy of Music, New York, realizzato da Jane Kosstrin & David Sterling, 1985. La brochure è realizzata per una performance d'avanguardia. Il testo "Nothing is static" (niente è statico), è interpretato con immagini di visi e testi "intercambiabili" in base a come vengono girate le pagine.

Vedi 2.3 - 2.4


Cranbrook Academy of Art

A sinistra e in copertina: —Architecture Symbol and Interpretation Exhibition poster Commissionato e pubblicato dal Finnish Museum of Architecture, Helsinki, Finlandia, realizzato da Katherine McCoy in collaborazione con Daniel Libeskind, 1981 Il poster descrive la razionalità e l'irrazionalità nell'architettura, con la reinterpretazione di un dipinto di De Chirico, e annotazioni di un racconto breve di Allan Poe. A destra: —An evening of Dance Poster Cranbrook Kingswood School, Bloomfield Hills Poster realizzato da Edward McDonald, 1989 Il poster con inusuale “energia” annuncia una performance di danza. P. s.: —Kasimir Malevich Design History poster Cranbrook Studio Poster realizzato da Lori Barnett, come omaggio a Kasimir Malevich, 1980



Appendice 1

«La bruttezza come virtù di sé - o come reazione di riflesso allo status quo sminuisce tutto il design» (Heller, 1993)

APPENDICE 1

CULT OF THE UGLY

Nello scenario grafico contemporaneo si assiste quasi ad un ribaltamento del paradigma per cui sempre più spesso ciò che è cool è automaticamente “brutto”, erroneo; ma pare che questo atteggiamento abbia radici più antiche. L’esperienza legata alla Cranbrook Academy of Art (dal 1980 ad oggi) è la più emblematica di una produzione che ha suscitato controversie ed è stata definita dalla critica (vedremo più precisamente la critica mossa da Steven Heller)“brutta”. L’oggetto delle controversie è l’influenza e l’appartenenza più o meno legittima dell’esperienza “del brutto” all’evoluzione del design grafico. L’approccio della Cranbrook Academy of Art e il métissage visivo delle sue produzioni pongono dei dubbi circa la veridicità delle basi su cui si regge, spesso fragili e frutto di confusione nei confronti del pubblico. Nell’articolo intitolato “Cult of the Ugly” Steven Heller, in riferimento ad Output, una pubblicazione degli studenti dell’Accademia, criticando il loro approccio progettuale, afferma che “a giudicare dall’evidenza, alla domanda -cos’è la bellezza?- potrebbero rispondere che la bellezza è il caos che nasce dalle lettere stratificate disposte su forme e motivi casuali” (Heller, 1993). Il metodo evidenziato citando Output, è il centro di una riflessione ben più profonda dell’autore circa il good design e quello che, come suo opposto, viene definito “cult of the ugly” (il culto del brutto). Nonostante l’articolo faccia riferimento ad una critica mossa circa dieci anni fa, sembra toccare punti molto attuali dell’evoluzione estetica in campo visivo (il nascente sviluppo della New Aesthetic1 ); più precisamente Heller nel '93 si chiede se “lo scenario caotico, dopo le sperimentazioni iniziali a cui si assiste oggi, non abbia trasformato il “brutto”, il quale sembra essere stato assimilato dalla cultura popolare fino a diventare un mero fatto stilistico” (Heller, 1993). Ancora Heller afferma: “la bruttezza, come la bellezza, è valida e stimolante, quando è insita in un particolare linguaggio, quando è determinata da un certo tipo di percorso, che rappresenta idee alternative, cultura e progresso” (Heller, 1993); quindi forse, oltre l’estetica, si dovrebbe prima parlare di intelligenza, sostanza, senso del progetto, come elementi di base dai quali il progetto prende forma,

New Aesthetic: si riferisce a un movimento degli ultimi anni, in cui la sperimentazione e l’utilizzo di forme “brutte”, distorte, erronee, nel graphic design si sta delineando come nuovo metodo progettuale, considerato influenza dell’avanguardia creativa del futuro (dalla prefazione di Pretty Ugly: Visual Rebellion in Design, Gestalten, 2012). 1


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prescindendo da qualsiasi stilema. La bruttezza, se portatrice di innovazione o con intento di ricerca, può essere giustificata ma aldilà del fatto che “la parola esperimento è arrivata a redimere una gran quantità di peccati” (Heller, 1993). Tra le preoccupazioni di Heller c’è, prima di tutto, la comprensibilità da parte del lettore che davanti a questo caotico scenario, “spesso si trova disorientato rispetto a scopi e significati” (Heller, 1993). Anche se la sperimentazione, nel senso dell’utilizzo non convenzionale di tecniche e dell’esplorazione di nuove strade, sia la via maestra per l’invenzione e il progresso, deve essere accompagnata da “buonsenso e rigore”(Heller, 1993). Da un’affermazione di R.W. Emerson in The Conduction of Life (1860), che dice: “Il segreto della bruttezza consiste non nel suo essere contraria agli schemi ma nel suo essere poco interessante” (Emerson in Heller, 1993) Heller, deduce che “il design è brutto solo quando è privo di giustificazioni estetiche o concettuali” (Heller, 1993). Sullo stesso tema Art Chantry2 ad esempio sostiene che “Il buon design è una lingua con la quale si riesce a comprendere a pieno il significato degli artefatti”. Analizzando il lavoro di David Carson3, Chantry critica la totale mancanza di “sostanza” e concept nella sua attività di designer grafico “Non è davvero bravo ad articolare i suoi concetti; Carson non riesce a spiegare il processo del suo lavoro, ciò che intercorre tra l’idea e la realizzazione dell’artefatto, continuando a dire -beh, è concettuale!- ma il concettuale non è uno stile, è un dato di fatto e un concetto è tale se può essere descritto” (Chantry in Roto, n.d.). In questo caso, probabilmente, ciò che ne deriva, stando alla citazione di Emerson, è catalogabile nella sezione “brutto”; non perché lo sia a livello stilistico-formale ma perché è privo di un senso profondo che ne giustifichi le scelte compositive. L’atteggiamento istintivo influenzato dal flusso casuale delle idee, quando non viene “legittimato” e reso esplicito dalla descrizione del processo che porta alla sua realizzazione perde l’intero senso e intento progettuale; la confusione in cui è immersa gran parte della produzione visiva attuale è vittima di questo limite. Circa l’evoluzione storica della grafica a cui si è assistito dagli anni Cinquanta in poi, si può affermare che la corrente dei modernisti, fu quella che cercò di salvaguardare lo scenario culturale legato alla grafica fornendo regole progettuali che ne definivano i confini e le Art Chantry è un designer artista americano, il suo lavoro si sviluppa all’interno dello scenario definito di estetica punk (Vedi Caso Studio di riferimento). David Carson, è un designer, art director conosciuto per la sua sperimentazione tipografica totalmente priva di regole compositive, utilizzata per la realizzazione dei layout del magazine “Ray Gun”. 4 Ed Fella è un graphic designer, celebre per il suo utilizzo “giocoso” della tipografia, con interventi manuali quasi “artistici” (Vedi Caso Studio di riferimento). 2 3

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Appendice 1

proteggevano da “un rumore mediocre” (Heller, 1993). Il fatto di avere gabbie preconfezionate (seppur definiva valori su cui misurare il livello di professionalità) poteva rappresentare un limite per la creatività e l’invenzione di nuovi linguaggi; quella creatività che invece dovrebbe essere incoraggiata e che si esprime aldilà del “pensiero di massa”; su questo punto Heller distingue nettamente la produzione grafica legata all’esperienza del Bauhaus (in cui spiccano le visioni alternative ma “equilibrate e armoniche” di Paul Rand, aspramente criticato dalla tipografia tradizionale di W.A. Dwiggins), rispetto a quella dei “nuovi riformisti”, come VanderLans (con Emigre), Ed Fella, Allen Hori (questi due ex studenti della Cranbrook Academy) che “rimarranno una pagina marginale nel continuum della storia del design grafico” (Heller, 1993). Heller pone l’accento anche sulla differenza rappresentata dal “brutto” come soluzione a problemi progettuali (nel cui caso può essere giustificato) o come ricerca stilistica fine a se stessa; il lavoro di Ed Fella4 secondo Heller è emblematico per inquadrare quest’ultimo scenario. Il “brutto”, in questo caso, è tale in quanto legato soprattutto a sperimentazioni di tipo vacuo, strillanti e rumorose: “le sfide di Fella sono descritte come oscillanti tra il serio e il faceto” (Wild, 1990) “ma la linea che separa parodia e serietà è sottile, e ciò che ne risulta è brutto” (Heller, 1993). Secondo Heller è importante sottolineare la differenza tra l’esperienza di Fella con altre manifestazioni grafiche “alternative”. Ad esempio, pone l’accento sulla ricerca di Art Chantry, il quale utilizza un approccio che, seppur caotico, “licenzioso e naif ”, viene giustificato dalla realizzazione di un prodotto meticcio e funzionale (Heller, 1993). Heller aggiunge che probabilmente il lavoro coordinato da Lorainne Wild alla Cranbrook Academy of Art è legittimato perché svolto in un ambiente scolastico di sperimentazione e di ricerca, in cui la trasgressione e il metodo “per prova ed errore” sono alla base di un percorso che si muove su nuove frontiere e possibilità. In questo percorso è altrettanto legittimo incappare in “prodotti brutti”; seppur sarebbe saggio dosare sempre la sperimentalità con un certo rigore evitandone abusi e inquinamenti controproducenti (Heller, 1993). Questo approccio è meno giustificabile nell’opera di designer che battendo le strade inesplorate della “sperimentazione” trasformano questo atteggiamento come uno scudo per qualsiasi artefatto deliberatamente brutto; ad esempio pensando a prodotti per la comunicazione grafica piuttosto che per prodotti indipendenti di Emigre, fondato nel 1984 da Rudy VanDerlans e Suzana Licko diventa una delle prime fonderie indipendenti di caratteri digitali (nascita del Macintosh nello stesso anno). Presto autoproduce e distribuisce il magazine che uscirà in 69 numeri. Si distingue dalla scena grafica “tradizionale”, rappresentando una ”minaccia” per le regole del “moderismo”. 5


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“arte personale” (Heller, 1993). A proposito della critica agli approcci sperimentali e sulla qualità della progettazione grafica non si può trascurare la riflessione di Massimo Vignelli nei confronti di Emigre5. Più precisamente, nel 1991, durante un’intervista per Print, (dove era stato chiamato per un confronto diretto con Ed Benguiat, suo collega type designer) Vignelli muove forti critiche circa l’approccio decostruttivista della tipografia contemporanea (che rifiuta i paradigmi propri del modernismo) la quale, trova piena manifestazione nella progettazione tipografica di Emigre. Definita da Vignelli “a typographic garbage factory” (una fabbrica di spazzatura) (Vignelli, 1991 citato in Lasky, 2010), Emigre è considerata l’emblema di una progettazione “vuota”, capace solo di fare “rumore”, e che si discosta in modo radicale dal concetto di “tipografia” che, secondo Vignelli “ha poco a che fare con i caratteri tipografici in sè” (Vignelli, 1991 citato in Lasky, 2010), ma trova massima compiutezza nella definizione di “struttura” complessiva del progetto; il layout, gli spazi, le centrature, rappresentano l’equilibrio della pagina e il fatto di “enfatizzare i caratteri tipografici (senza una giustificazione progettuale) è fuori luogo” (Vignelli, 1991 citato in Lasky, 2010). “Non è una libertà della cultura, è un’aberrazione della cultura. Non si dovrebbe confondere libertà con responsabilità (mancanza di), questo è il problema. Non mostrano alcuna responsabilità […] non si dovrebbe elevare la spazzatura su un piedistallo solo perché esiste, senza verificarne la qualità (in riferimento ad Emigre)” (Vignelli, 1991 citato in Lasky, 2010). Ancora Vignelli, circa la produzione di Emigre afferma:“Emigre cerca la deformazione, anzichè rifiutarla; la sua ricerca di bellezza è nella spazzatura, ed è esattamente quello che risulta dalla loro progettazione tipografica digitale” (Vignelli, 1991 citato in Lasky, 2010). Vignelli tuttavia si autodefinisce conservatore solo nel senso di voler “mantenere alta la qualità della produzione”, non per chiusura preconcetta alla “nuova guardia”, nella quale distingue produzioni brillanti; ad esempio quella di April Greiman. Secondo Vignelli, infatti, la Greiman si discosta nettamente rispetto all’“esperienza Emigre”; seppur si inserisce nel medesimo scenario che rifiuta le regole del movimento modernista, esperienze come quelle della Greiman rispondono a ricerche “personali” motivate da precisi studi e sperimentazioni sulle nuove tecnologie ∆

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Appendice 1

Approfondimento

Grafica “vernacolare”? —Vernacolare o Vernacular, parola di derivazione etrusca, proviene da “verna” (schiavo, nato in casa, domestico); oggi indica il dialetto nativo di una popolazione specifica, la lingua plebea, volgare, “dei servi”, che si oppone al concetto di lingua “veicolare”, straniera alla popolazione, come ad esempio una lingua nazionale, una lingua standard o una lingua franca— (Etimo, n.d.) In senso più generale viene utilizzato come aggettivo e si riferisce a connotazioni spiccatamente popolari, grezze, volgari, provenienti dal basso. Questi concetti traslati all’esperienza delle arti visive, possono presentare analogie con le deduzioni con cui Steven Heller ha sostenuto le sue critiche nell’articolo “Cult of the Ugly”, ad esempio in riferimento all’arte tipografica esercitata da Ed Fella, il quale attinge ad elementi appartenenti alla cultura popolare e la cui tecnica, spesso, è stata avvicinata anche al concetto di “grafica vernacolare”. Ma cosa significa “grafica vernacolare”? È possibile assimilare la sua natura alla produzione che Heller definisce del “brutto”? Una riflessione sullo “stile vernacolare” è portata avanti ad esempio da Tiziano Manna1, secondo il quale quest’ultima si configura in una vera e propria cultura. Lo scetticismo che orbita intorno all’aspetto formale e stilistico lasciato al “casuale” dà

vita a progetti che prediligono l’intuizione alla conoscenza teorica, l’esperimento al rigore scientifico; un processo pratico che esclude basi metodologiche di qualsiasi genere e che può avvicinarsi a quello che Heller definisce “culto del brutto”; prodotti realizzati con superficialità ed incapacità comunicativa, laddove nasce il “progetto ignorante” (Manna, 2010, p. 1). La ricerca del significato di “stile vernacolare” va, secondo Manna, ricercato negli anni Sessanta, momento in cui si mette in discussione il sistema moderno di produzione industriale e si affaccia quello di consumo di massa. La nascita del pop e le trasformazioni nascenti dal rapporto tra uomo e macchina sono le basi da cui prende corpo un nuovo modo di concepire la comunicazione visiva (Manna, 2010, p. 1) che protende verso un immaginario visivo proveniente “dal basso”. Si tratta di un’epoca che vede anche negli anni successivi, di pari passo a sentimenti sovversivi, il proliferare di sperimentazioni e “rotture”, remix2 di elementi misti; l’ evoluzione tecnologica porta alla nascita di diverse forme in cui la ricerca stilistica spesso si muove parallelamente ad una cultura vernacolare che “mischia”, sporca, si serve di metodi “fai da te” delineandosi in uno scenario “meticcio”. “In particolare il Graphic Design americano ha mostrato e mantiene tutt’ora salda una sua forte attrazione per il vernacolare, soprattutto nelle accezioni più caserecce e artigianali, con un’intensa fascinazione recente per gli aspetti aprogettuali e antiintellettuali, legati allo spurio, al residuale,

Laureato in Disegno Industriale presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, ha conseguito la specializzazione in Comunicazione Visiva e Multimediale presso l’Università IUAV di Venezia. Attualmente svolge attività di ricerca indipendente. 2 Vedi 4.3 1

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talora al deiettivo. […] Buona parte della recente produzione statunitense vive dunque all’egida, fin troppo consapevole, di questa ripresa di umori e toni della strada e del vicino di casa, dell’insegna del negozio e della pompa di benzina, del foglio strappato e del cartello logoro” (Polano, 2002, pp. 235-236). Il vernacolare si lega a tutto quello che proviene da una cultura di massa e spesso per questo motivo si veste di elementi misti, che rappresentano un luogo di negoziazione, di approcci e influenze diverse, elementi che possono essere grezzi e “rudi”, definiti aprogettuali e “ignoranti” e che, forse, non possono essere considerati progetti compiuti di comunicazione visiva ma si limitano ad un’esperienza di tipo sperimentale-accademico, come affermava Heller in riferimento alla produzione delle “bruttezze” grafiche. Su questo punto Manna evidenzia la differenza tra il “vernacolare puro” e quello “progettato”, necessaria, soprattutto con le rivoluzioni/evoluzioni digitali concluse e in atto, per le quali diventa sempre più labile il confine tra progettista e fruitore e sempre più semplice e accessibile l’autoproduzione; in uno scenario caotico in cui scindere la cosiddetta progettazione “ignorante” da quella pensata sembra impresa solo per occhi attenti. Si può notare ad esempio che progettisti, come Ed Fella, hanno influenze vernacolari (polaroid scattate per le strade, culto per le forme e i colori catturati negli scenari urbani), ma che questo aggettivo non può essere applicato alla sua produzione grafica e tipografica, che si sviluppa sempre con uno studio accurato ed è sostenuta da basi di conoscenza delle arti visive e della progettazione. Il risultato, pur essendo impregnato di

elementi riconducibili alla cultura vernacolare (métissage formale) assume un’autorevolezza che eleva il suo lavoro, annoverandolo tra quelli che maggiormente hanno influenzato la produzione grafica successiva (Manna, 2010, p. 2). Concetto che si pone in totale discordanza con le osservazioni di Heller, che definisce vacua la ricerca stilistica di Fella e considera i suoi esperimenti di “métissage tipografico” come produzioni da confinare in un’esperienza artistica personale; ponendo seri dubbi anche sulla sua legittimazione ad essere inserita nella storia del design grafico. Forse il “vernacolare progettato” di cui parla Manna, come forma di influenza sul progetto grafico può essere la risposta alle critiche mosse da Heller e Vignelli e traccia un compromesso nello scenario controverso appena descritto.

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Il “vernacolare progettato” può validare la sua applicazione se visto come progettazione consapevole immersa in un “reticolo interdisciplinare” che si fa sempre più denso. In un gioco di scambio e interiorizzazione, rielaborazione e “contaminazione” con elementi che possono venire anche “dal basso” si studiano nuovi modi di comunicare (senza l’utilizzo univoco degli strumenti progettuali), con una ricerca attiva sui metodi e le tecniche che garantiscano i risultati più performativi. Facendo questo, si arricchisce il progetto e si contribuisce alla ricerca sulle nuove tecnologie, sempre più proiettata ad uno sviluppo vicino all’“intelligenza umana”(vs quella artificiale).

Vedi 4.4


3.6

Edward Fella 1938

ÂŤIl lavoro di Ed Fella si pone come spartiacque nel graphic design: ha introdotto ambiguitĂ e ambivalenza, molteplici significati, quelli visibili e quelli sottintesi,


PROFILO

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—E. Fella nasce a Detroit nel 1938. Approda nel mondo della grafica prima in qualità di tirocinante presso uno studio in cui svolge fotoritocco e lavori pubblicitari per l’industria automobilistica. La sua vicinanza alla grafica non trovando soddisfazione nelle politiche “commerciali” dei lavori commissionati allo studio, avrà massima espressione e libertà nell’attività extra-lavorativa, maturata parallelamente. La ricerca formale di Ed Fella si esprime per lo più nella sua attività indipendente e “artistica” che lo vede coinvolto in esperimenti manuali, illustrazioni e “giochi” verso “disperati tentativi per aggirare i limiti della mano” (Cabianca, 2004). Schizzi, stravaganti collage nei quali unisce la riproduzione digitale a disegni fatti a mano, l’interesse per la forma dei caratteri tipografici e la loro forza comunicativa, saranno le caratteristiche principali delle sue sperimentazioni; messaggi enigmatici che raccontano un mix di elementi provenienti da una cultura vernacolare e che incarnano perfettamente il concetto postmoderno di decostruzione (Carducci, Aiga, n.d.). Nel 1980, all’età di quarantotto anni, si iscrive alla Cranbrook Academy of Art; influenzato fortemente dall’approccio anticonvenzionale della Cranbrook, presto si distingue nel movimento avanguardistico della “The New Theory” (movimento caratterizzato dal decostruzionismo fuso con la tradizionale tipografia) (Heller and Fili, 2006), che nasce da una corrente di giovani designer ed educatori decisi al rinnovamento dello stile accademico e alla sperimentazione. Qui conosce e collabora con altri designer quali Katherine McCoy e Lorraine Wild. Poco dopo inizia la sua carriera di insegnante presso il CalArts (Istituto d’Arte della California).

e ha dimostrato che i grafici possono essere realmente artisti» (Wild, 2006, AIGA)

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E. Fella

TECNICHE Fella ha creato un forte impatto con la sua tipografia “capricciosa”; “[...] Per Fella lo stile primitivo è un antidoto allo stile rigido che la professione “commerciale” impone, nonostante sia conscio che questo suo marchio di primitivismo si sia trasformato anch’esso in uno stile professionale” (Heller and Fili, 2006). Se la riproducibilità è ciò che caratterizza il graphic design rispetto a forme artistiche (intese come opere uniche), per quanto riguarda il lavoro di Ed Fella, flyer e poster sono sempre apparsi in forma definitiva (senza svelare le varie fasi progettuali), rielaborata; per questo motivo egli stesso non definisce né artistici né commerciali le sue produzioni “Se i prodotti che realizzo sono artistici o di design devono deciderlo gli altri, ho molta fiducia e consapevolezza della mia mano ma non posso immaginare una catalogazione futura di quello che produce” (in Casabianca, 2004, p. 12).

La produzione per la Detroit Focus Gallery Gli esperimenti per la Detroit Focus Gallery sono perlopiù la produzione di una serie di poster e flyer che comunicano mostre o conferenze in vari luoghi: spesso i poster vengono stampati e distribuiti dopo l’evento e non assolvono alla funzione pubblicitaria che solitamente hanno, assumendo una funzione di souvenir piuttosto che di comunicazione per il pubblico. L’utilizzo “giocoso” che Ed Fella fa degli strumenti classici di progettazione è visibile ad esempio nei flyer a lato; qui c’è un richiamo alla tradizionale costruzione tipografica avanguardista tedesca, in cui vengono unite varianti disegnate a mano; il risultato è deliberatamente imperfetto con un intento quasi decorativo e un utilizzo “inusuale” dei caratteri tipografici.

«[…] lavorava sempre con la convinzione che la mano fosse più potente del pixel, eppure ogni font da lui realizzata veniva digitalizzata per un’ampia diffusione e vendita» (Heller and Fili, 2006)

Edward Fella, spesso, sfrutta il suo approccio giocoso anche per realizzare font ad hoc per il progetto su cui sta lavorando. Questo studio sulle lettere e la loro costruzione si basa sull'utilizzo di strumenti da disegno manuali, stencil, o penne a sfera; tecniche che rifiutano il punto di vista “oggettivo” e univoco proprio dello Strutturalismo, fondato su principi pre-esistenti rispetto all’esperienza. In questa concezione anche la definizione di “bellezza” non segue un registro tradizionale ma semplicemente un flusso di interscambio, irregolarità, mix di diverse espressioni e messaggi: quello che Steven Heller ha chiamato “cult of the ugly”, giustificandolo come ricerca artistica personale ma non come un modello applicabile alla pratica commerciale (per la quale, questo tipo di “bruttezza” ne rappresenterebbe la morte) (Heller, 1993). La tecnica di Ed Fella è da lui stesso definita “anti-mastery” (in Poynor, 2003): andando contro le strutture tecniche del modernismo, si basa sull’irregolarità e l’incongruenza nell’aspetto progettuale e formale.


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In alto: 107 — A matter of painting area, MFA candidates, Focus Design Gallery flyer. Flyer fronte/retro, 1988 Commisionato dalla Focus Design Gallery, Detroit. Il flyer è realizzato con componenti digitali, e parti disegnate con penna a sfera. L'utilizzo dei caratteri digitale nel retro è puramente decorativo. In basso: — GLASS INSTALLATION, Focus Design Gallery flyer. Flyer fronte/retro, 1990 Commisionato dalla Focus Design Gallery, Detroit.


E. Fella

APPUNTI SULLA TEORIA DECOSTRUTTIVISTA Cranbrook è considerata come un’esperienza d’avanguardia nell’esplorazione della densa, complessa sovrapposizione di elementi differenti tra loro, che è una delle più frequentemente criticate caratteristiche nella progettazione nella Nuova Tipografia1. “A differenza del lavoro precedentemente portato avanti dalla New Wave, questo non è un semplice esercizio del “fare collage”; il metodo consiste in un’unione di contenuti, che derivano direttamente dalla teoria letteraria del decostruzionismo: fare a pezzi ed esporre, tramite una reinterpretazione del linguaggio visivo, differenti livelli di significato nascosti, nello stesso modo con cui la critica letteraria scompone e decodifica il linguaggio del romanzo” (Byrne e Witte, 1990). “Quando l’approccio decostruttivista è applicato al design, ogni livello, attraverso l’utilizzo del linguaggio e dell’immagine, diventa un intenzionale esecutore in un deliberato gioco in cui l’osservatore può scoprire e fare esperienza delle complessità nascoste del linguaggio” (Byrne e Witte, 1990). Lorraine Wild2 afferma che durante i primi decenni del ‘900 quando “La teoria era diventata parte della cultura intellettuale nell’arte e nella fotografia”(Wild in Lupton, Miller 1994), nascerà un movimento culturale parallelo e contrario che dà voce ai “dissidenti” e che viene definito decostruzionismo. La Wild però puntualizza: “[…] Il termine ‘decostruttivista’ mi fa diventare pazza. Il poststrutturalismo è un’attitudine, non uno stile” (Wild in Lupton, Miller 1994). Con quest’affermazione la Wild intende affermare che bisogna prima di tutto analizzare l’approccio (attitudine) al contesto in cui è immersa l’esperienza mentre lo Stile rappresenta una “grammatica della messa in forma” (Lupton, Miller, 1994). “Il metodo della decostruzione rappresentativa” (Hong, n.d.) nel campo del design si manifesta secondo diversi intenti progettuali che prediligono griglie compositive caotiche e nella tipografia spesso giocano con i limiti della leggibilità. Questi interventi sono tuttavia riconoscibili in alcune comuni forme di rappresentazione, che spesso si ripetono e contribuiscono ad individuare l’approccio decostruzionista: — forme considerate anti-estetiche, ad esempio schizzi, elementi che sembrerebbero irrilevanti per l’intento ultimo progettuale, che La Nuova Tipografia (1914-1933), viene considerata una sorta di anno 0, di rinascita; dalla tipografia decorata a quella progettata con un intento comunicativo (predilezione per i caratteri senza grazie, elementari) che risponde ad esigenze di riproducibilità e diffusione globale e in cui tutte le convenzioni precedentemente accettate vengono messe in discussione (Kinross, 2005). 2 Lorraine Wild è una graphic designer, scrittrice e insegnante di arti visive, regolare contribuente per il Design Observer ha scritto per numerosi periodici come Emigre, ID, Print. Come riconoscimento del suo contributo nell'ambito del graphic design nel 2006 ha ricevuto la “AIGA medal”. 1


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vengono “manipolati” senza seguire uno schema fisso; — la distorsione delle immagini, che facilitata dall’evoluzione delle tecnologie, dà opportunità di intervento e libertà rappresentativa molto elevate; — forme che grazie al “cutting-edge” (taglio del contorno) e ai “blur effects” (effetti di sfumatura) vengono trasformate rispetto alla loro natura originale (utilizzate soprattutto nella tipografia); anche l’utilizzo di questi strumenti è stato incrementato grazie all’evoluzione digitale (Hong, n.d.).

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«Più che guardare alla decostruzione come a un periodo storico o a uno stile, guardiamo alla decostruzione come a un’attività critica, un atto di interrogazione» (Lupton, Miller, 1994)

A lato: —Detroit Focus Gallery collaborate, Artemisa Chicago Gallery, artists spaces Focus Design Gallery flyer. Flyer fronte, 1987 Il flyer è realizzato con componenti digitali, e parti disegnate con penna a sfera.


E. Fella

In alto: —Aiga Lettering realizzato per la certificazione della medaglia AIGA, 2006 Realizzato a mano con matite colorate. A destra: —Not a font Commercial art alphabet, 2005 Disegnato sulle idiosincrasie del lettering tipico degli inizi degli anni ‘90, Fella ha utilizzato materiali e tecniche tipiche di quel periodo.


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La tipografia imperfetta La ricerca tipografica di Ed Fella, come per la realizzazione dei poster, si fonda sul principio di decostruzione formale e tramite l’unione di elementi e tecniche eterogenee. L’elemento fondamentale delle sue sperimentazioni sarà dato alla dimensione spaziale: lo spazio che intercorre tra i caratteri del testo, che sembrano sempre “fluttuare” nel foglio senza rispettare una griglia prestabilita o un margine. L’utilizzo di diversi tipi di “materiali tipografici” (spaziature, caratteri senza grazie) sono solo la base della sua progettazione tipografica, che trova negli interventi manuali e “decorativi” il suo vero carattere distintivo. La sua opera è vista con scetticismo dalla critica che, spesso, considera il lavoro di Ed Fella bizzarro e incompleto (Poynor, 2003). Le parole come fossero oggetti fisici, con uno “stato d’animo”, una tridimensionalità, un ingombro proprio; in un periodo in cui l’utilizzo del computer domina lo scenario progettuale, Fella continua a servirsi delle sue abilità manuali, pur consapevole che la sua estetica deve adattarsi alla “necessaria” traduzione digitale, ad esempio per la progettazione di font (vedi la font OutWest creata per Emigre nel 1993, o “Not a font” nell'immagine a lato) e conseguente diffusione.

Dizionario Ibrido STRUMENTI matite, pennarelli, penna a sfera, scanner, computer, fotocopiatrice METODI collage, fotomontaggio, disegni manuali ELEMENTI CARATTERISTICI interventi mauali sui caratteri tipografici, utilizzo di penna e matite colorate, “scarabocchi”, objets trouvés

«Sono davvero interessato a una tipografia che non sia perfetta. Un carattere che rifletta con maggiore sincerità l’imperfezione del linguaggio di un mondo imperfetto abitato da momenti imperfetti» (Poynor, 2003)

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E. Fella

TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI Il suo bizzarro lavoro imbevuto di una cultura “primitiva” attinge spesso dal “casuale”, dagli objets trouvés (ad esempio pubblicità trovate per le strade ), scatti fotografici (Polaroid) come ispirazione legate all’immaginario urbano. Ecco come la sua produzione, dai collage, alle polaroid scattate in “strada, da schizzi conservati nei suoi blocchi da disegno agli studi tipografici, riflettono un intento spiccato di meticciamento visivo. Ed Fella e la sua produzione si inseriscono nel quadro dell’analisi “meticcia”; la produzione legata alla tipografia è l’emblema di un approccio tecnico e formale che rispecchia perfettamente le caratteristiche dell’hybridity. Il suo intento, discostandosi totalmente dall’estetica convenzionale, è quello fornire una visione slegata dai limiti di leggibilità o regole compositive; il risultato è sempre inaspettato e spesso si avvicina a produzioni più artistiche che commerciali. Fella prosegue il suo percorso che ha determinato l’affermarsi di una personalità poliedrica di pittore, fotografo, designer, grafico. L’utilizzo manuale di strumenti come pennelli, colori, matite vengono tradotti con interventi successivi in digitale o viceversa, il che dimostra una predilezione per la manipolazione materica ma anche un’apertura alla tecnologia, che dà vita a prodotti “misti”. Questo métissage, rappresenta il luogo di interferenza (tra tecniche e approcci) di forme che vengono “snaturate”o i cui dettagli vengono accentuati tramite il colore o interventi manuali che creano spesso vere e proprie caricature. Laddove la narrazione originale (con riferimento all'ambito socio-culturale) dettata dagli approcci tradizionali, così come i soggetti iniziali vengono trasformati, “scomposti” e riassemblati nascono nuovi significati. Nascono così nuove storie, che se per il discorso antropologico focalizzano l’attenzione su quei momenti prodotti nell’articolazione delle differenze culturali […], nell'ambito progettuale, più precisamente nell'esperienza di Fella si inseriscono nel processo di adattamento alle differenze tecnologiche.

A lato: Dettaglio img. di p. 103

Vedi 2.3


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3.7

Terry Jones 1945

«[…] Il design grafico è simile a una falegnameria. È un mestiere. Non sono un disegnatore e non sono interessato ad applicare le mie abilità a un’estetica che è già stata stabilita,


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PROFILO

—T. Jones nasce nel 1945, frequenta il College of Art a Bristol dove incontra Richard Hollis, insegnante che diventerà il suo mentore. Lascia l’istituto quando il professore dà le sue dimissioni e si avvicina alla direzione artistica di riviste di moda, come Vanity Fair, Vogue (1972-77). Nel 1980 fonda la rivista i-D. Da subito, la rivista si inserisce in uno scenario non convenzionale, influenzato dal nascente stile punk1; basti pensare che la sua prima uscita verrà realizzata a mano in casa, rilegata con punto metallico e prodotta con una macchina da scrivere, assumendo un aspetto molto più vicino a quello di una fanzine2 (produzioni indipendenti, primo prodotto del movimento del D.I.Y.) piuttosto che a una tradizionale rivista di moda. La ricerca di Jones è volta a semplificare il concetto di progettazione grafica, che prima di tutto vuole raccontare storie per immagini. Le immagini rappresentano, secondo Jones il mezzo che più di ogni altro riesce nell’intento comunicativo. Il suo progetto i-D viene portato avanti contando su collaborazioni variegate di fotografi, designer, esperti in vari ambiti; e l’accesso inarrestabile a elementi della “strada” e della vita quotidiana, atteggiamento tipico della rappresentazione grafica legata al vernacular3. Questi elementi fusi insieme hanno dato vita ad un modo differente di concepire il fashion design, con un prodotto grafico che ha accompagnato la cultura contemporanea degli ultimi trent’anni; Richard Buckley, autore del libro “i-D Covers 1980-2010”, che racchiude la storia del magazine, raccontata attraverso le sue copertine, dichiara: “Scrivendo l’introduzione di questo libro è stato interessante scoprire quanto i-D abbia informato la cultura contemporanea negli ultimi tre decenni. Riguardando trent’anni di cover di i-D non solo ho rivissuto il mio passato, ma ho letteralmente visto come le persone, la tecnologia e la cultura pop siano drammaticamente cambiate dal primo numero che fu pubblicato nell’agosto 1980” (Buckley, n.d.).

sono interessato alla creazione di un’estetica attraverso la sperimentazione, utilizzando metodi diversi per la manipolazione grafica» (Jones in Walters, 1998) 1-2-3

Vedi p. s.

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T. Jones

TECNICHE i-D magazine Dopo l’esperienza lavorativa presso la rivista Vogue, l’approccio di Jones si muove su territori non convenzionali; la sua “cassetta degli attrezzi” si compone di elementi eterogenei tra loro, quali testi scritti a mano o con macchina da scrivere, stencil, layout liberi caratterizzati da collage o disegni fatti a mano. “[…] i-D, oggi celeberrima rivista inglese che si occupa di fashion design, nasce dall’idea dell’ instant design, un progetto che dia la sensazione di essere montato “sul momento”; che sta alla base del percorso progettuale tipico dell’estetica punk” (Branzaglia, 2002). Il concetto di “istant design” viene così descritto da Jones: “Voglio evidenziare il senso materico, tangibile del progetto, creato con urgenza, e percepibile prima ancora che l’artefatto venga preso in mano, e letto… concettualmente; voglio ricreare una sensazione di immediatezza, come se il progetto fosse realizzato poco prima della sua fruizione. E utilizzando le abilità manuali, si può raggiungere più facilmente quest’obiettivo” (Jones in Maitin, 2010). Gli elementi che compongono il progetto, la cui fusione ricerca l’energia compositiva tipica della scuola della Gestalt, verso un’identità e un senso comune, trovano la loro compiutezza ad esempio nei “collage” mensili della rivista i-D (Jones in Heller, 2006). Questo senso di immediatezza del progetto e l’uso di elementi eterogenei, emerge dal punto di vista stilistico della rivista, che si configura come un “contenitore misto” e trova conferma anche nel tipo di approccio a cui è soggetta; il progetto di i-D si sviluppa infatti attraverso le diverse abilità di un team variegato di fotografi, designer, vari progettisti e collaboratori esterni (ad esempio la copertina in cui viene sfruttata l’abilità del fotomontaggio di Linder Sterling, con evidenti richiami all’estetica punk). Questi elementi contribuiscono a una trasformazione costante di contenuti e forma: “il mio ruolo è quello di “visual agitator”, nel quale stabilisco la divisione del lavoro per tutti i collaboratori; l’identità di i-D si evolve attraverso le persone che ho scelto ne facessero parte” (Jones in Heller, 2006).

«L’atteggiamento “basso” di i-D, si contrappone alla sofisticazione di The Face; si passa cioè dal rigore di quella che viene definita “the bible of style” ad un approccio pratico da “manual of style"» (Branzaglia, 2002)

A lato: —001 The i-D One issue, p.3, Settembre, Londra, 1980 Stampato e distrubuito da Better Badges, Portobello road, negozio musicale. Pagine interne del primo numero di i-D, realizzata a mano, con il metodo del collage e rilegata con punto metallico; l'avventura i-D comincia con l'osservazione dello "stile di strada".

L’estetica punk (1971-1984) nasce in Inghilterra, con un intento sovversivo; influenzata dall’ambito musicale e politico si riflette sul progetto visivo e sulla grafica. In questo senso le caratteristiche principali sono legate all’utilizzo di tecniche quali il collage, il fotomontaggio, scritte a mano, approcci “misti” e la nascita del D.I.Y (Do It Yourself) con la produzione di pubblicazioni indipendenti, ad esempio le fanzine (parola composta da fan, fanatico, appassionato, e magazine, rivista). Approfondimenti nell’articolo “l’estetica punk”. 2 Vedi nota precedente 3 Vedi appendice “Grafica vernacolare?” 1


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Dal punto di vista formale i-D si fa portavoce di una asimettria progettuale, che si esprime non solo tramite tecniche di collage, che vedono coesistere frammenti di fotografie con parti scritte manualmente ma anche in riferimento al layout delle pagine stesse. Le griglie progettuali vengono infatti abbandonate in virtù di un “caos controllato”, in cui il tutto vale più della somma delle singole parti. Alcune copertine della rivista vengono realizzate con parti di video, girati durante gli shooting di moda, in seguito rielaborati per creare la struttura grafica tipica degli schermi televisivi: una specie di serigrafia contemporanea. Il progetto grafico di Jones si basa sull’utilizzo di tutto ciò che è utile per raggiungere l’obiettivo comunicativo; senza far riferimento a particolari stilemi né volere esercitare inutili virtuosismi estetici, Jones si schiera a favore della sperimentazione di metodi e materiali nuovi, definendo il lavoro del progettista come un “mestiere”, simile a quello dell’artigiano che “manipola” e trasforma gli elementi grezzi di cui dispone, in forme sempre differenti. Jones parlando del suo metodo, dichiara: “La progettazione deve essere semplice, per questo mi avvicino alla fotografia con interesse e mi definisco direttore artistico di una rivista; le immagini comunicano in maniera più diretta di qualsiasi altra forma di design; semplificare l’idea di progettazione visiva significa tornare (in un certo senso), al primitivismo, alle origini delle forme, dando alle immagini il ruolo più grande nel processo di comunicazione” (Jones in Walters, 1998).

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«Il caos segue un movimento ciclico, così le mie idee progettuali continuano a lavorare nello stesso modo in cui la ciclicità lavora nella teoria del caos» (Jones in Heller, 2006)


T. Jones

APPUNTI SULLE NUOVE TECNOLOGIE Rispetto alla tecnologia, Jones dimostra un interesse ludico e curioso, concentrato sulle possibilità consentite di creare mondi “qui ed ora” (Jones in Walters, 1998) con una libertà d’azione e trasformazione sempre più in linea con il “fai da te”, grazie al quale l’utente stesso accede agli strumenti e con una facilità sempre maggiore può intervenire direttamente sul progetto. In parallelo però nutre delle perplessità circa il meccanismo di “velocità” che il progresso tecnologico mette in atto; le macchine richiedono all’uomo di essere sempre più veloce (a livello tecnico) e performativo, spesso, senza lasciare lo spazio necessario ad attività indispensabili nel percorso progettuale; come la riflessione. “Sono sempre frustrato dai computer che sbagliano e per i quali devi essere sempre più veloce; provo ad essere il più veloce possibile a livello tecnico ma a volte in questo “gioco della macchina” vedo che il processo del pensiero rischia di volare fuori dalla finestra” (Jones in Walters, 1998). Le tecniche e la loro evoluzione digitale sono un fatto indispensabile ma la vera innovazione è data dall’approccio al progetto. Per i-D ad esempio ogni edizione viene progettata su un tema specifico e differente e Jones si paragona ad un regista cinematografico che crea sceneggiature ogni mese differenti, per raccontare storie sempre nuove; “è come fossi il regista di un film che ogni mese inventa una sceneggiatura diversa, in cui spesso cambiano anche gli attori (il team, i fotografi, i collaboratori)” (Jones in Heller, 2006).

Dizionario Ibrido STRUMENTI pennarelli, stencil, macchina da scrivere, scanner, computer METODI collage, fotomontaggio, disegni manuali

ELEMENTI CARATTERISTICI richiamo all’“estetica punk”

Sopra: —001 The i-D One issue, Settembre, 1980 Stampato e distrubuito da Better Badges, Portobello road, negozio musicale. Pagine interne del primo numero di i-D, riassume il “manifesto” del magazine. A sinistra: —015 i.D issue, “The sexsense issue” Aprile, 1984


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T. Jones

TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI L’esperienza di Terry Jones si configura in uno scenario innovativo e insolito, che vede il mondo dei magazine, legati alla moda, trasformarsi, per abbracciare il métissage grafico, in cui la forza comunicativa viene data da immagini e testi trattati con tecniche differenti, con elementi eterogenei e con il metodo dell’istant design. La ricerca di Jones, pur partendo dal mondo della moda, del fashion design, si colloca in un quadro molto più vasto e presto assembla insieme frammenti di mondi diversi, dalla politica, alla “cultura del vernacolare”; il magazine si trasforma in un puzzle dove coesistono diversi stimoli comunicativi, di cui, quello legato alla moda sembra diventarne solo il pretesto di partenza (Jones in Walters, 2011). La sua natura eterogenea e ibrida sarà sottolineata, fin dai primi numeri della rivista, sia dall’aspetto formale (collage, utilizzo di bozzetti, scrittura manuale) che dall’obiettivo comunicativo. “La moda mi piace perché rappresenta qualcosa di transitorio, è qualcosa che segna un momento in un tempo definito e acquisisce importanza in quanto il tempo nella nostra vita è importante ed è composto di piccoli momenti legati alla musica, ai gusti, agli odori o ai vestiti; questi momenti rappresentano l'espressione di noi stessi verso il mondo esterno” (Jones in Walters, 2011). In questi termini i-D si definisce come un’esperienza “temporanea” e sensibile a continue evoluzioni, in cui il ruolo stesso di Jones non si inserisce né nell’area commerciale né in quella artistica: “Non ho mai pensato ad una distinzione tra essere un artista o fare qualcosa di dichiaratamente commerciale. Spesso vedo persone che portano avanti un’idea per anni interi con grande successo. Le mie idee sono temporanee, la mia proiezione è sempre verso il progetto successivo”

«In qualsiasi processo di comunicazione si oltrepassano i confini esistenti tra gli elementi, i quali dialogano tra loro, e penso che la progettazione di i-D determini proprio questo» (Jones in Walters, 2011)


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(Walters, 2011). Questo concetto legato alla dimensione temporale, più precisamente alla temporaneità delle idee si sviluppa su un terreno comune al principio del “divenire” che viene descritto da Lapantine e Nouss nella loro definizione di métissage, in questo caso rappresenta “un fenomeno mutevole, in tensione, caratterizzato da una temporalità in costante alterazione” (da Palindromo, 2011). Non solo il principio del divenire ma anche quello legato all’“assenza di regole” e all'imprevedibilità del risultato, portato avanti dai due autori può essere assimilato al metodo di Jones, il quale è basato sulla teoria del caos, più precisamente sul dinamismo.

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A lato e copertina: —015 i-D issue, “The sexsense issue” Aprile, 1984 Fotografia a cura di Mark Lebon. Tecnica del collage e del fotomontaggio.

Vedi 2.3-2.4


T. Jones

A sinistra: —303 i-D issue, Copertina, Ottobre, 2009 450x587 cm Linder Sterling Fotografia di Tim Walker Styling Jacob K Artwork realizzato tramite collage di Linder Sterling. A destra: —08 i-D issue, Copertina 1983


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Appendice 2

«Nessuno fa quello che vorresti sentire, nessuno fa quello che vorresti leggere, allora vai e fattelo da te»1 (in Newman, 2012)

La frase riassume il “mantra” della cultura punk: D.I.Y. (Do It Yourself ), primo approccio con la produzione indipendente. 1

APPENDICE 2

L'ESTETICA PUNK

Il movimento punk, nasce a Londra nel 1976 ed esprime un rifiuto dei valori imposti dalla società e dai media, un movimento antiestetico, controculturale; è da intendersi in senso ampio e non solo limitato all’ambito musicale, nel quale affonda le sue radici (con gruppi musicali come The Clash, Ramones, Sex Pistols, Screamers). La carica sovversiva che lo caratterizza si manifesta in diverse forme e in vari ambiti; dalla politica, all’abbigliamento, al cinema, alle arti visive (ad esempio con Jamie Reid o il fumettista Gary Panter). Il legame con le arti visive e le influenze sulla produzione grafica determinano uno stravolgimento stilistico, principalmente caratterizzato dal fotomontaggio, dal collage, dalla produzione di volantini e manifesti per gruppi punk-rock, dalla nascita di fanzine e altre pubblicazioni indipendenti. Spesso questi artefatti comunicativi si caratterizzano per la loro natura “mista” e per essere realizzati con strumenti a basso livello tecnologico ad esempio la fanzine Sniffin Glue (1976), una delle prime produzioni del genere “fanzine”, viene progettata in modo grezzo, con inserimenti di pagine manoscritte, graffiti, errori tipografici, lettere strappate, ingrandimenti e riduzioni di immagini. Sniffin Glue viene prodotta da Mark Perry (ispirato dalla scena musicale rock-punk, più precisamente dai Ramones) in 100 copie con fotocopiatrice Xerox e portata da lui al negozio di dischi “Rock on” a Londra; “la fanzine assume un ruolo “sociale” di indicatore di gusti e tendenze nascenti” (WNewman, 2012), è la voce di coloro che cantano fuori dal coro. Fornisce uno strumento con cui tutti, in modo semplice possono raccontarsi; “Sniffin Glue dice ai suoi lettori - non accontentatevi dei contenuti che scriviamo noi, esci fuori e comincia a fare la tua fanzine -” (Sniffin Glue in Poynor, 2012). L’energia esplosiva e l’”estetica del caos” sono elementi imprescindibili della ricerca visiva punk; è evidente come il mix di differenti elementi, il senso di grezzo, ruvido, dia vita a uno scenario turbolento, in cui anche le tecniche si mescolano tra utilizzo di collage, scritte a mano, disegni, stencils, fotocopie (nasce la “Xerox culture”, che determina la produzione di immagini a bassa qualità ma l’espansione del D.I.Y.), serigrafia e stampa offset litografica. Strumenti che facilitano la “produzione in proprio” e che rappresentano un potente mezzo per esprimere le proprie opinioni, spesso di dissenso.


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“L’estetica punk, come descritta, si oppone ad un universo parallelo, di design attento, ordinato, liscio, proprio delle tecniche dominanti e alla ricerca più convenzionale. In questo senso sarà oggetto di controversie sul suo collocamento all’interno della storia del graphic design” (Poynor, 2012). È interessante analizzare come il punk, influenzerà la produzione legata alle arti visive e alla comunicazione grafica, anche negli anni successivi. Verrà ad esempio collegata da Poynor (nel suo libro “No more Rules”) all’approccio di fine anni ’80 e inizio anni ‘90, basato sui principi decostruttivisti applicato al graphic design. Anche Kulberg e Savage, autori del recente libro “Punk: An Aesthetic” , affermano che “l’anarchia caratterizzante l’estetica punk ha rivoluzionato il design”, come per sottolineare che le sue caratteristiche vanno oltre la subcultura punk, inserendosi in un quadro ben più ampio di cultura visiva, che ha influenzato e influenza gli approcci del graphic design. “Il contributo del punk alla grafica è stato sostanziale. Autori come Jamie Read (Sex Pistols) hanno imposto un’estetica del “rimontaggio” dominata da un’urgenza creativa che scaturiva dalle limitazioni tecnologiche al finire degli anni Sessanta. Fotocopiatrice, ingrandimenti, collage, sgranatura da infedeltà di riproduzione; la fioritura di fan-magazine […] ben presto diventa ipotesi progettuale” (Branzaglia, 2002). L’approccio è deliberatamente misto e si riferisce ad un métissage visivo, una predilezione per il caotico e “l’imperfetto”, quella che l’architetto Ettore Bellotti definisce “confusione estetica” (Bellotti, 2006) in riferimento alla critica allo stilista Antonio Marras, ma che riflette in generale sul cambiamento dei parametri estetici, per indicare uno stile che a suo parere rappresenta “Un métissage culturale dove tutto si incrocia: il nuovo e il vecchio, il selvaggio e il metropolitano. Un neopoverismo molto poetico che ci vuole convincere che i piani sono rovesciati. Ciò che credevamo formalmente sbagliato e ‘sporco’ diventa bello, e viceversa”(Bellotti, 2006). Secondo Steven Heller “il violento atteggiamento punk, che riecheggia i lavori Dada e Futuristi penetrò nel design svizzero, americano, olandese e francese e si diffuse in larga scala nelle forme della cosiddetta New wave […] lo Swiss punk, che rispetto alla rigida staticità dello Swiss International Style fu minacciosamente caotico, nacque a Basilea nella mecca razionalista e simbolizzò la fine dell’egemonia modernista” (Heller, 1993) ∆

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3.8

Art Chantry 1954

«Il lavoro del designer americano Art Chantry combina l’approccio “shock-and-educate” (sciocca ed educa) ad un’attenzione alla pertinenza» (Heller, 1993, p. 2)


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PROFILO

—A. Chantry nasce a Seattle; il suo lavoro si sviluppa all’interno dello scenario definito di estetica punk, all’interno del quale si muove abilmente per la realizzazione di poster, locandine, volantini, cover di cd musicali, cataloghi commerciali, con una grafica che seppur considerata “poco sofisticata” e “lontana dallo stile prettamente funzionalista, si dimostra funzionale nel suo contesto” (Heller, 1993, p. 2). Affermatosi soprattutto in collaborazioni con rock-band nella scena musicale punk, ha lavorato sulla realizzazione di cd-cover e manifesti per gruppi come Nirvana, Hole, The Sonics; da questi lavori emerge una predilezione per le immagini vintage, riciclate, spesso con un trattamento manuale e di métissage di vari elementi, metodo che Chantry definisce “roughed up” (ruvido, grezzo). Oggi, lavora per la Sub Pop, The Rocket, Hempfest e il teatro Bathhouse a Seattle; la sua ricerca stilistica e formale continua ad essere un prodotto del metodo D.I.Y. nato nel periodo punk, la cui influenza risulta chiara nella spontaneità e negli elementi inaspettati introdotti in fase progettuale. Questi elementi “caotici” sono uniti una ricerca più consapevole, che diventa il metodo di Chantry per creare i suoi progetti finali. “[...] ad esempio da vecchie riviste o cataloghi, anche quelli che raffigurano strumenti da lavoro (trapano, martello)” Chantry è capace di intravedere le potenzialità comunicative di queste immagini, che sistematicamente raccoglie e cataloga, e modificando sapientemente “questi elementi in virtù del progetto, li assembla con arte” (Chantry in Lasky, 2007).

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«Ogni nuovo potente progetto grafico, nato negli utlimi trent'anni è frutto dell'influenza della cultura punk» (Chantry, 2011)


A. Chantry

TECNICHE Uno dei tratti distintivi del suo lavoro è rappresentato dall’utilizzo di materiali grezzi, scadenti, come vecchi giornali, magazine, clip art, accumulati all’interno del suo studio. Questi vengono assemblati in modo “casuale”, così come sono, con totale mancanza di ricerca estetica e di volontà nel renderli più piacevoli e conformi al “gusto mainstream” (Poynor, 2003, p. 85). Rispetto alla maggior parte dei progettisti Chantry resiste alla progettazione digitale, al “rendering” su computer, preferendo l’utilizzo del collage manuale per “assemblare” le proprie idee; “Idee che non ti rendi conto di avere davvero, coscientemente, ma che prendono corpo attraverso le mani, e questo è un meraviglioso e magico procedimento” (Chantry in Evans , 2008). Basandosi su tecniche e materiali tradizionali, le composizioni di Chantry non ammettono “anteprime” di stampa, come si è soliti fare con i programmi digitali, e dove si possono modificare o visualizzare le varie fasi del progetto. Per Chantry le anteprime di stampa consistono in bozze, o schizzi manuali, che rappresentano il fulcro dell’idea al cliente, senza “spezzare il processo creativo”(Chantry in Evans , 2008), cosa che accadrebbe presentando la composizione in una forma già realizzata in tutte le sue parti. Così facendo si rafforza l’idea (coinvolgendo maggiormente il cliente); e per quanto il progetto finale possa essere “stravolto” dalle richieste della committenza, l’idea forte che ne è alla base, rimarrà inalterata. Chantry pone grande attenzione anche verso la ricerca che consiste, secondo lui, in uno degli elementi più importanti del progetto; ogni lavoro nuovo consiste nell’”ingresso” in mondo sconosciuto, da esplorare e conoscere, studiare. La ricerca è anche un modo per arricchire continuamente il proprio background culturale e Chantry lo dimostra con una personalità poliedrica, fortemente influenzata dalla cultura popolare, e dalle tendenze “vernacolari”. Facendo tesoro di tutti gli stimoli esterni e contenuti visivi che spesso si trasformano in materiale a cui attingere per progettare, Chantry si definisce una “spugna”, fermamente convinto che: “Tutto ciò che viene catturato, è immagazzinato in un luogo subconscio della nostra mente” (Chantry in Evans, 2008). L’aspetto interessante che assume la ricerca è soprattutto focalizzato allo studio di gruppi sub-culturali. In questo studio non solo impari linguaggi e mondi sempre differenti, ma ti inserisci nella cultura visiva con progetti che hanno dapprima una comprensione

«L’intelligente trasformazione dell’objet trouvé in composizioni tanto accessibili quanto non convenzionali, prova che l’utilizzo di forme dichiaratamente brutte può tradursi in un buon progetto» (Heller, 1993 p. 2)

Dizionario Ibrido STRUMENTI matite, pennarelli, scanner, computer, fotocopiatrice, serigrafia METODI collage, fotomontaggio, disegni manuali ELEMENTI CARATTERISTICI richiamo all’“estetica punk”, “roughly up” ,uso di materiali grezzi, collage


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Sopra e in copertina —Legs against arms give peace a dance poster, Seattle, 1986 Seattle Center House. Poster realizzato con diversi materiali, collage, interventi manuali (pennarello), e sovrapposizione colori.

«L'intero mondo del graphic design è collassato (insieme a intenti e propositi). Le scuole di design hanno perso i loro studenti in vista di computer e software sempre più sofisticati ed economici. Bastano due settimane per diventare un graphic designer» (Chantry, 2011)


A. Chantry

solo di “nicchia” (ad esempio i poster psichedelici, compresi pienamente solo dai gruppi musicali di una certa sub-cultura) e lentamente vengono assorbiti dall’intera scena socio-culturale inserendosi nella realtà del mainstream (Chantry in May, 2002). In questo senso si può percepire chiaramente un’influenza “subculturale”nella ricca produzione di Chantry, più precisamente in riferimento all’estetica punk, la quale ha piena espressione nell’aspetto formale dei suoi lavori di comunicazione visiva. Seppur muovendosi parallelamente su una composizione “studiata” degli elementi, Chantry mostra un approccio definito “roughly up” (grossolano, approssimativo) (SeattleThrades, 2008), dimostrando un intento provocatorio (tipico dell'estetica punk) reso esplicito dal messaggio dei manifesti e dalla loro natura “mista”; le tecniche spaziano dal collage di fogli strappati al nastro adesivo applicato alle immagini, a una scrittura disordinata, alla stampa di lettering forato, a sorprendenti accostamenti e a variazioni infinite sulle possibilità di risoluzione fotografica realizzata da fogli fotocopiati diverse volte. “Nella sua attività, Chantry, sembra non avere mai trovato una tecnica o un’immagine che non fosse in grado di sfruttare al meglio, come vantaggio APPUNTI SULLE NUOVE TECNOLOGIE per sé o per le richieste del cliente” (Seattle Thrades, 2008). “Il periodo del designer freelance è in declino, il design ha smesso di essere un mestiere, è “Nel mio lavoro la tecnica che preferisco è quella che si basa sui vecchi principi della camera oscura e la preparazione di pellicole negative per creare il foglio da stampare”, Chantry afferma: “contrariamente a quanto si pensi, le stampanti odiano profondamente quello che i computer hanno trasformato nel processo di stampa!” (Chantry in May, 2002). Anche nel processo di stampa, quindi, Chantry si dimostra scettico nei confronti della tecnologia: non per sentimenti nostalgici ma perché è convinto che l’utilizzo del computer rappresenti un “intermediario scomodo” che snatura il processo “naturale” di progettazione; “quello che il progetto è fatto ad hoc per andare in stampa, non per passare attraverso il digitale” (Chantry in May, 2002).

diventato una tecnologia, tutto quello che ti serve è un esecutore e un software” (Chantry in Lasky, 2007). Rispetto alla tecnologia digitale Chantry nutre un sentimento ambivalente, riconoscendone alcune potenzialità ma anche forti limiti: “Guardo ai computer con grande ambivalenza. Da un lato sono una grande benedizione in quanto riescono ad essere una finestra di dialogo per la progettazione grafica, alla quale anche i dilettanti si avvicinano e ciò rappresenta una delle fonti primarie di innovazione. Inoltre credo molto in Internet e alle opportunità che fornisce. Tuttavia non amo il computer come strumento “assoluto” di soluzione progettuale, spesso imperfetta (come lo è la macchina stessa)” (Chantry in May, 2002). Inoltre la riflessione di Chantry si sofferma sul concetto di interattività, più precisamente sul fatto che “la storia del design è fatta di interattività tra persone e spesso il computer pone nelle mani di un singolo individuo tutto il lavoro” (Chantry in May, 2002), venendo meno al rapporto e al dialogo tra le diverse fasi di lavoro (che prima determinavano anche a maggiori rapporti “umani”). “Inoltre con mezzi sempre più semplici e alla portata di “tutti” il lavoro del progettista (quando basato su strumenti che standardizzano il lavoro) viene fortemente svalutato, perché molti riescono a raggiungere un alto livello di utilizzo” (Chantry in May, 2002). A questo punto, non rimane che sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie ben consapevoli che “Il computer corrisponde solo a una piccola parte di tutto quello che intercorre tra l’occhio, la mano e i possibili materiali a cui attingere per la progettazione; utilizzare diversi materiali e supporti da “manipolare” apre, inevitabilmente, lo spettro di possibilità alla sperimentazione e alla versatilità del prodotto finale” (Chantry in May, 2002).


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APPUNTI SULLA "SERENDIPITY" Art Chantry la chiama, “arte della distrazione” ed è un elemento imprescindibile per ideare nuovi progetti. “Ho cominciato a capire che il cervello non ha uno schema rigido ; è come in un “balletto continuo”. Le idee volano continuamente nella tua testa. Il processo creativo avviene nell’inconscio e il trucco è saperlo fissare nella parte conscia del tuo cervello: è qui che il rilassamento e la distrazione aiutano”(Chantry in Evans, 2008). Per aiutare questo processo di “distrazione” spesso Chantry si dedica alla musica, attiva il giradischi mentre continua a lavorare, in un processo che definisce “automatico” come guidare l’auto; in questo modo mentre “pensi ad altre cose” attivi la parte più creativa del pensiero (Chantry in Evans, 2008). Le idee seguono un flusso naturale e si traducono in movimenti della mano, che inizia a creare; e spesso questo flusso naturale determina decisioni impreviste e casuali, dando risultati inaspettati rispetto alle previsioni iniziali. A tal proposito in un’intervista con Christopher May, alla domanda: -Quanto di frequente incorpori errori accidentali nel tuo progetto?Chantry risponde: “Costantemente. Questo è il modo con cui le idee escono fuori, nuove strade, inaspettate e sorprendenti; l’interazione con le cose è una costante fonte di meraviglia per tutti noi. Non possiamo controllare tutto ciò che tocchiamo, quindi dobbiamo essere capaci di cogliere il piacere in tutte le cose, compresi gli incidenti” (Chantry in May, 2002). 130 131

Sopra e in copertina —Drastrip Syndacate & The Last Vegas 1975, 3B Tavern Poster realizzato con metodo del collage, fotocopie e "Dymo label maker"(etichettatrice) per comporre le parti di testo.


A. Chantry


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TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI Il progetto di Chantry si concentra su un utilizzo per lo più manuale di tecniche, che rifacendosi all’immaginario dell’estetica punk, ne prende in prestito anche gli strumenti. Lo stile che ne deriva, rispondendo alle esigenze della committenza e del “progetto pensato”, a livello formale si presenta come un métissage, che attinge dalla cultura popolare (avendo radici della sottocultura punk), e che vuole essere indirizzato ad un ampio pubblico. Il suo spiccato interesse alle sub-culture e la ricerca di stimoli sempre nuovi dà vita a un evidente risultato di métissage linguistico, comunicativo, tradotto in arte visiva. Elementi eterogenei si “intervalorizzano” andando oltre il senso puramente semantico/formale di mescolanza e “inglobandosi” vicendevolmente in un gioco di scambio continuo e profondo. In questo senso, facendo appello ai concetti di intervalorizzazione, citati da E. Glissant, in riferimento alla creolizzazione linguistica, si può ipotizzare un parallelismo tra il concetto di lingua creola e la produzione di Chantry. 132 133

P. a lato da sinistra: —Gang of Four Seattle, 1980 per Gang of Four, 3 Swimmers, Little Bears 12x18 Ispirazione tratta da un vecchio francobollo sovietico. —Rollercon 2010 2009 Poster per il Derby roller convention a Las Vegas. Tecnica di stampa: Serigrafia A destra: —I Take One Everywhere I Take My Penis USA, 1993

Vedi 2.3-2.4


A. Chantry

A destra: —The Night Gallery COCA(Center on Contemporary Art), USA,1991 Performance art poster. Realizzato partendo da un vecchio catalogo pubblicitario di attrezzi da lavoro (trapano etc.). P. a lato: —Give Peace a Dance Poster per la manifestazione “24 hour dance marathon”. 1987


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3.9

Harmen Liemburg 1966

ÂŤIn generale, non si tratta tanto delle tecniche utilizzate ma delle tue idee; qualsiasi strumento che si adatta alle tue idee dovrebbe essere utilizzato; per questo credo in una miscela di tecnicheÂť (Liemburg in Marzotto, 2012)


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PROFILO

«Preferisco usare la stampa serigrafica come un mezzo di comunicazione, piuttosto che per realizzare un lavoro unico destinato a gallerie d'arte» (Liemburg in Cleeren, 2012)

—H. Liemburg nasce nel 1966 in Olanda: inizia la sua carriera lavorativa come cartografo. Frequenta la Gerrit Rietveld Academy, dove prenderà parte alla nuova corrente di designer legata al mondo dell’arte, all’educazione e all’immagine coordinata di musei. La sua personalità eclettica lo vede attivo in diversi campi: dal graphic design all’insegnamento (tra le ultime scuole ricordiamo la Koninklijke Academie van Beeldende Kunsten, la AKV/St. Joost), al giornalismo, all’organizzazione di workshop (uno degli ultimi intitolato “Speed is What We Need”, presso l’ISBA, 25-30 Marzo, 2012) e curatore di eventi legati al mondo della cultura visiva. Il suo forte interesse per la stampa serigrafica, lo vede attualmente impegnato anche nella gestione del laboratorio di stampa serigrafica alla Gerrit Rietveld Academy. Per condurre il suo lavoro grafico con soddisfazione si appella sempre a diversi strumenti e tecniche, che allargano le possibilità di espressione e la nascita di nuovi linguaggi visivi. Nonostante la sua apertura progettuale, sul piano tecnico predilige la stampa con metodo serigrafico. Il suo interesse al vernacular e all’identità visiva che quotidianamente lo circonda influenza fortemente il suo lavoro che si traduce nella tecnica del collage (da lui frequentemente utilizzata) e del fotomontaggio, con passaggi continui da strumenti anologici a quelli digitali. La professione di grafico, come si autodefinisce (Liemburg in Cleeren, 2012), lo “obbliga” ad assolvere il compito di comunicatore, stabilire un contatto con il mondo esterno e diffondere messaggi attraverso le arti visive; per questo motivo, predilige la tiratura media piuttosto che limitata (come spesso accade per artisti che utilizzano la serigrafia). Come accennato, la passione di Liemburg per la stampa serigrafica,

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H. Liemburg

TECNICHE si esplica nelle potenzialità che questa tecnica di stampa possiede. Secondo lui infatti, a differenza della “fredda” e prevedibile stampa offset, la serigrafia allarga le possibilità di materiali stampabili, quali legno, plastica, cartone, tessuto, così come gli inchiostri che possono differire per proprietà chimiche (viscosità e densità) ma anche per natura: è capitato che alcuni studenti al laboratorio stampassero con inchiostro a base di caffè o cioccolato, qualsiasi sostanza purchè passasse dalla retinatura del telaio. L’interesse di Liemburg si concentra sullo spazio lasciato dalla serigrafia nei confronti della variazione e dell’imprevedibilità: la preparazione dei colori, l’utilizzo di diversi telai da sovrapporre per creare alcune variazioni sulle immagini, le trasparenze e i riempimenti che determinano le figure di primo piano e di sfondo, danno la possibilità unica di “partecipare” al processo di stampa. Questo tipo di stampa determina anche alcuni inconvenienti, che Liemburg accetta con piacere, come ad esempio la mancanza di precisione. Per la stampa serigrafica ad esempio, i fogli “positivi” da esporre al calore e successivamente applicati al telaio vengono realizzati in digitale, dopo successivi mix di varie immagini: la cosa emozionante è che una volta preparati i fogli da portare in laboratorio di stampa, il processo ricomincia da zero (Liemburg in Cleeren, 2012). L’intento comunicativo dei poster e delle realizzazioni grafiche non è tanto dare la chiave di lettura per i singoli elementi ma fornire una coerente visione d’insieme, che coinvolga gli spettatori nell’energia del processo di stampa e faccia nascere la voglia di sperimentare da soli: capire da dove si parte (scelta degli elementi della composizione) e avere padronanza degli strumenti utilizzati è indispensabile, anche se il risultato finale è quasi sempre inaspettato. “Gli elementi provenienti da fonti diverse si dovrebbero parlare reciprocamente e creare qualcosa di nuovo. Io lavoro spesso con le fotocopie di libri o immagini che ottengo dal web, anche se di solito la qualità delle immagini è davvero bassa. Se ho bisogno delle immagini in una dimensione più grande, le rifotocopio in A4, le incollo su un foglio nero e poi taglio le sagome per migliorare le forme da inserire nel processo di produzione.” (Liemburg in Marzotto, 2011). Il lavoro di Liemburg si configura come un collage, un insieme di elementi diversi che attingono al mondo della grafica, del packaging, della segnaletica, della pubblicità e che spesso trovano la loro armonia in forma di stampa serigrafica. Il ruolo in cui si inserisce la sua produzione commerciale è quello di una grafica per un ampio pubblico ed è quello che Herman Liemburg persegue nel corso della sua doppia attività di lavoro, sia di progetti indipendenti che di progetti su commissione. “Il lavoro che svolgo si divide principalmente in due fasi distinte. Per la prima fase utilizzo il computer; sarebbe da pazzi non utilizzare uno strumento che in modo così veloce ti permette di effettuare le separazioni dei colori, (che formeranno i vari livelli nella stampa

«L’intero processo è una sorta di magia coinvolgente e impossibile da imitare in Photoshop» (Liemburg in Cleeren, 2012)


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serigrafica). Gli strumenti digitali mi permettono di apportare piccole modifiche fino all’ultimo momento” (Liemburg in Marzotto, 2011). Una volta ottenuta l’immagine definitiva in digitale, la seconda parte del progetto si svolge in laboratorio di stampa ed è interessante come, anche in questa fase, si possano modificare gli elementi della composizione e il risultato possa essere diverso da quello prefigurato in fase digitale. Questa “seconda fase” può essere considerata “analogica”: un dialogo tra il designer e i materiali stessi che compongono il progetto finale. Da qui si assiste a un passaggio successivo, in cui è necessaria la digitalizzazione del lavoro, per riproduzioni in offset e per estenderne la diffusione al web. Le tecniche utilizzate da Liemburg consistono quindi in una contaminazione costante tra elementi diversi e il passaggio da analogico a digitale diventa una caratteristica fondamentale del suo metodo; l’apertura totale a qualsiasi metodo e forma configura i suoi lavori aldilà del mainstream o dell’approccio cosiddetto “virale”, che caratterizza molti approcci visivi di suoi contemporanei. Pur riconoscendo il piacere dell’inchiostro sulla carta e la valenza dell’essere “creatore” del proprio lavoro in toto (stampa compresa), valori aggiunti imprescindibili per la sua esperienza di grafico, la ricerca di Liemburg si dimostra a servizio di una sperimentalità che penetra i confini delle tecniche e degli stili, senza piegarsi a dettami prestabiliti, seguendo solo il flusso delle idee.

APPUNTI SULLA "SERENDIPITY" Quella che Liemburg definisce “serendipity” è una “casualità” che diventa quasi sempre una componente essenziale dei progetti: una perfetta unione degli elementi, che in modo naturale, coincidono. “La ‘serendipity’ deve essere aiutata, preparando in modo sensato gli elementi e lo spazio dove farli incontrare, ma questo richiede una buona dose di esperienza” (Liemburg in Cleeren, 2012). Il fattore più importante è dare rilievo alle possibilità che il processo progettuale mette a disposizione; il percorso come elemento essenziale di sperimentazione e ideazione è più importante del risultato finale. Prima dell’attenzione al processo deve ovviamente nascere l’idea, da impulsi che possono provenire dall’interno o dall’esterno e che anch’essi possono essere determinati da percorsi di “serendipity”. Ma non basta la casualità a “fare” il progetto: l’interesse deve essere posto anche sulla capacità di mescolare insieme gli ingredienti, pensare al modo migliore per amalgamarli, realizzando l’output progettuale (Liemburg in Cleeren, 2012).

«Penso che focalizzare l'attenzione sul processo progettuale sia molto più interessante rispetto al risultato finale» (Liemburg in Marzotto, 2009) 138 139


H. Liemburg

Sopra —Have Faith (In Wordless Knowledge) Per: Minneapolis College of Art and Design 2009 1189 x 841 mm 70 copie Poster per workshop e lecture presso il MCA, realizzato con tecnica serigrafica a cinque colori su carta Natronkraft 120 gr/m2. Le immagini sopra illustrano alcune fasi di progetto. P. a lato: —Koninklijke Prijs voor Vrije Schilderkunst 2013 1189 x 841 mm 40 copie, realizzato con tecnica serigrafica a quattro colori su carta Natronkraft 120 gr/m2.


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Poster Il poster “Have Faith” è un esempio esaustivo per descrivere il processo di lavoro di Harmen Liemburg. Per la realizzazione del poster parte da una fotografia scattata molti anni prima a un uomo incontrato nelle strade di Amsterdam, più precisamente dalla sua camicia. Quest’ultima raffigura un cane husky e rappresenta il primo livello del poster finale. Altri disparati elementi si mescoleranno contribuendo all’ibridità della composizione: l’immagine del deodorante per automobile, una font utilizzata per i sacchi di ghiaccio, un’altra fotografia scattata a un cartello, e forme e font introdotte in digitale, attraverso cui avviene anche la separazione dei colori tramite stampa su cinque fogli trasparenti distinti. Solo dopo si procede alla stampa serigrafica del poster completo. Anche “Objects in mirror” è realizzato partendo da immagini fotografiche: la prima scattata dall’automobile, in cui compare lo specchietto laterale e l’altra scattata nel 1939, al museo di Storia Naturale. Su questo “primo di livello” di lettura fotografica vengono sovrapposti altri elementi, come i segnali stradali tipici delle strade a lunga percorrenza. Il trattamento “digitale” ha il compito di mettere in dialogo questi elementi diversi, e creare la separazione dei livelli di colore, essenziali per la successiva fase di stampa serigrafica. 140 141

Dizionario Ibrido STRUMENTI macchina fotografica, scanner, computer, serigrafia METODI collage, fotomontaggio, fotografie, serigrafia ELEMENTI CARATTERISTICI colori forti, stampa serigrafica, elementi digitali e analogici insieme


H. Liemburg

Sopra e a lato: —Objects in mirror Per: FotoDok, The Imagination of the American Landscape exhibition 2012 841x 1189 mm 60 copie Poster realizzato con tecnica serigrafica a tre colori su carta Natronkraft 120 gr/m2. Le immagini sopra illustrano alcune fasi di progetto.


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TRA TECNICA E TEORIA, PARALLELISMI METICCI Il lavoro di Liemburg si inserisce perfettamente nell’immaginario ibrido fino ad ora descritto: il suo approccio, ispirato al lavoro di maestri che lo hanno preceduto, come Ed Fella o Shiro Ohtake, i quali, come lui stesso definisce, “operano nell’anonimato della cultura popolare” (Liemburg in Cleeren, 2012), pone particolare attenzione alla grafica di utilità, alla comunicazione visiva per tutti. Infatti di questi grandi maestri dal quale viene influenzato, si mostra particolarmente interessato non alla componente artistica della loro opera bensì a qualcosa di più potente: il loro lavoro per la realizzazione di volantini, giochi da tavolo, giocattoli, la loro produzione per un vasto pubblico. La volontà di avvicinare il suo lavoro “alla gente” si evince dagli elementi delle composizioni dei suoi poster (che spesso attingono alla vita quotidiana) , e dalle spiegazioni sempre molto meticolose di quello che avviene prima e durante la realizzazione del progetto finale. Come si nota da molti dei suoi poster (ad esempio Garbage In, Garbage Out) la sua ispirazione deriva spesso da elementi di cultura popolare; con protagonisti personaggi o mascotte raffigurati su packaging di snack o prodotti di consumo quotidiano. Si evince che il metodo di Liemburg può considerarsi ibrido sia dal punto di vista dell’approccio al progetto, (che è particolarmente attento a descrivere in tutti i suoi passaggi), sia dal punto di vista delle tecniche. Il fatto di passare da un metodo all'altro, da una tecnica all'altra, rende sempre più sottili i confini tra gli elementi, si superano le “barriere”, quelle che Glissant, con riferimento antropologico definiva linee di frontiera opache, nelle quali gli elementi “si intervalorizzano senza che ci sia una degradazione o diminuzione dell'essere, [...] in un continuo reciproco, mischiarsi” (Glissant, 2004). Nello stesso modo nella produzione di Liemburg, si assiste ad un fenomeno di interscambio; il territorio su cui si muove è uno spazio aperto, pronto ad accogliere strumenti digitali, ma a reintrodurre tecniche “analogiche” laddove queste ultime aprono lo spettro delle opportunità e favoriscono l’invenzione. In un gioco continuo di mix e remix di elementi apparentemente molto distanti tra loro pare che l’unica regola a cui si piega Liemburg sia quello di una comunicazione per tutti, battendo percorsi nuovi e inesplorati.

Vedi 4.3

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Vedi 2.4


H. Liemburg

Sotto e in copertina: —Color Space (Sikkens Prize 2012) Cliente: Deneuve Cultural Projects, Amsterdam 2012 841x 1189 mm 45 copie Poster realizzato con tecnica serigrafica a quattro colori su carta Natronkraft 120 gr/m2.

Sopra: —Garbage In, Garbage Out Graphic Design Worlds – Print 3/5 2011 841x 1189 mm 60 copie Poster realizzato con tecnica serigrafica a quattro colori su carta Natronkraft 120 gr/m2. L'ispirazione nasce dalla figura (mascotte) disegnata sulla confezione di una nota marca di patatine.


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Il Digitale è ibrido?


Il Digitale è ibrido?

4.1

Introduzione

«The Digital Revolution is over» (Negroponte in Cascone, 2000)

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— Dal 1960 artisti e designer post-modernisti1 (ad esempio Katherine Mc Coy, Wolfgang Weingart) rifiutano l’idea che la comunicazione debba avere basi universali (caratteristica propria del Bauhaus e di altre intuizioni moderniste), in disaccordo con la disciplina e l’oggettività propria del razionalismo svizzero. Il postmodernismo parte dal presupposto che i prodotti culturali debbano essere compresi solo in termini specifici di tempo, luogo e audience, svincolandosi da gabbie precostituite (Lupton, 2007). Questo obiettivo “postmoderno” è perseguito dai progettisti grafici tramite l’utilizzo di varie metodologie che sembrano convogliarsi sia nell’aspetto formale che tecnico in un “mètissage grafico”, in linea con l’estetica decostruttivista. Sicuramente lo sviluppo delle nuove tecnologie rappresenta per il movimento post-moderno un terreno fertile per esprimere le proprie convinzioni estetiche. “[…] lo sviluppo dell’estetica decostruttivista di cui si fa portavoce la Cranbrook Academy (guidata da Katherine McCoy ) sarà incrementato dalle nuove opportunità digitali, che con la nascita del Macintosh, aprono nuove frontiere alla progettazione tipografica e alla composizione grafica verso l’home-made, base del nuovo stile nonconvenzionale” (Heller, 2011). 1-2

Vedi p. s.


Negli anni ’90 il riciclo culturale e lo scratch mixing2 visivo trasformano le operazioni standard del graphic design, favorite dallo sviluppo digitale e incoraggiate dalla possibilità di una infinita circolazione di materiali esistenti (Lupton, 2007). “Diversamente dalle avanguardie storiche, che ispirano movimenti di “rottura” con la storia precedente inventando nuove forme di linguaggio e produzione, oggi questo atteggiamento creativo è favorito dallo sviluppo sempre più attento di sofware e della tecnologia digitale” (Lupton, 2007). Il progresso tecnologico e l’utilizzo di diversi strumenti riconducibili allo stesso dispositivo, con rimandi continui da un testo ad un altro, da un medium all’altro esprime il concetto di transmedialità3 e permette libertà di progettazione con intervento multiplo e asincrono sullo stesso progetto e una seguente diffusione capillare a un pubblico sempre più ampio. Il discorso che WuMing4 affronta nella prefazione di “Cultura convergente”, pur analizzando il fenomeno dal punto di vista della transmedialità applicata in senso sociale, può essere utile per comprendere meglio le frontiere che apre il digitale: “[...] Computer e cellulari hanno accorpato molteplici funzioni e si sono trasformati in telefono, televisione, stereo, fotocamera, tutto-in-uno. Eppure nessuno di questi agglomerati ha sostituito i singoli avversari. Piuttosto sono i contenuti della comunicazione che vengono declinati in ogni formato, per potersi spostare da un mezzo all’altro e ricevere così una distribuzione sempre più capillare e pervasiva. [...] Non c’è un singolo attrattore, computer o cellulare che sia, capace di trasformare ogni idea in un unico prodotto, fatto di immagine, suono, testo, relazione. Al contrario ogni idea è capace di molte facce, per attirare su di sé strumenti diversi e attraversarli tutti” (WuMing in Jenkins, 2007, prefazione).

«[...] la collisione tra diversi media, vecchi e nuovi, è più un bisogno culturale che una scelta tecnologica» (WuMing in Jenkins, 2007, prefazione)

Ecco che entrano in gioco nuove possibilità in termini di gestione e manipolazione di materiale eterogeneo. Nel campo della progettazione grafica, il fatto di poter trasferire su un unico piano di lavoro, ossia lo schermo del computer (come fosse un foglio di carta bianco), elementi vari, elaborati da diversi strumenti ma traducibili in un unico linguaggio (che permette un dialogo aperto tra le parti) è uno dei vantaggi più importanti derivanti dalla digitalizzazione; “stiamo esplorando l’interconnessione dei linguaggi della stampa, dei film, dei new media, dell’architettura, e stiamo cercando di capire come i software e la loro evoluzione limitano o favoriscono il lavoro dei progettisti” (Lupton, 2007).

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Il postmodernismo è una corrente di pensiero caratterizzata dalla contrapposizione al modernismo e all'importanza che quest’ultimo da ad ideali come la razionalità, l’oggettività e il progresso. Nelle arti visive si configura come un rifiuto della simmetria e dell’ordine compositivo tipico del pensiero razionalista svizzero e degli stilemi standardizzati dalla cultura mainstream. 2 Con “scratch”si intende, in ambito musicale, la tecnica con cui si “manipola” il disco in vinile sul giradischi al fine di produrre effetti musicali nuovi e particolari. 3 Il concetto di transmedialità, introdotto da Henry Jenkins, nasce in contesto cinematografico, con riferimento alla narrazione transmediale, in cui una storia viene raccontata su diversi media e per la quale ogni singolo testo offre un contributo distinto e importante all’intero processo narrativo (Jenkins, 2007, p. 84). 4 WuMing (per esteso: WuMing Foundation), nome d'arte usato da un collettivo di scrittori italiani formatosi nella sezione bolognese del Luther Blissett Project (1994-1999).


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4.2

Analogico e digitale, la metafora dei layers “[…] probabilmente, proprio in questo sta la vera nuova forza del digitale: nella caduta dei muri, nella possibilità di fare interagire materiali diversi e tecniche diverse, più che porsi come una tecnica contrapposta ad altre tecniche” (Baule in Marzotto, 2007, prefazione). L’analogico e il digitale, per lungo tempo al centro di controversie, che ha visto schieramenti opposti, tra entusiasti delle nuove tecnologie e nostalgici del manuale, si può dire che oggi non rappresentino più due mondi a sé stanti. Sempre di più sopraggiunge la consapevolezza che il digitale non ha sostituito né sostituirà gli approcci manuali, che da sempre fanno parte di qualsiasi attività progettuale. Da questa riflessione nasce piuttosto il desiderio di strumenti sempre più adattabili alle esigenze individuali, che pur seguendo il flusso dello sviluppo tecnologico, riescano ad accogliere le possibili modifiche operate “dalla mano”, “imparino dall’esperienza” e traducano nello stesso linguaggio elementi provenienti da differenti dispositivi, spesso frutto di manipolazioni “analogiche”. Dell’ambivalenza dell’approccio analogico-digitale, la Lupton sottolinea quanto sia importante riconoscere che il passaggio da un metodo all’altro rappresenta un processo di continuità piuttosto che di rottura; per favorire questo passaggio, non solo è necessario fornirsi di “utensili”5 per colmare quei “buchi” propri del gap analogico-digitale, ma diventa indispensabile creare strumenti digitali somiglianti a forme e linguaggi del “mondo concreto” (Lupton, 2007). Il ritorno alle basi delle forme e dei linguaggi non segna la fine di qualcosa ma l’inizio: come pulire la lente prima di scattare una fotografia (Lupton, 2007), un’esplorazione degli hardware e software e del loro linguaggio visivo prima di tuffarsi nella pratica; gli studi “formali” lasciano i confini aperti, sfuggendo da progetti che si limitano a simulare le situazioni reali senza operare una precedente riflessione. Questi argomenti, soprattutto riguardo al legame indissolubile tra tecnica e mano, sono affrontati da Henri Focillon nel suo saggio Vita delle Forme. Più precisamente Focillon concentra la sua riflessione sulla relazione che intercorre tra l’utensile e la mano dichia-

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Il termine si riferisce a un passo di “Il mondo del pressappoco…” di A. Koyrè, dove l’utensile viene definito come oggetto che rinforza l’azione dei nostri organi nel processo dell’esperienza.

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rando che è indispensabile esaltarne le potenzialità oltre che la tecnica; il loro accordo è fatto di scambi sottilissimi e non è definito dall’abitudine (Focillon, 1990, pp. 61-63). Nonostante alcune regole basilari e provvisorie, indispensabili per la comprensione e l'utilizzo delle tecniche, non può avvenire una predestinazione assoluta né delle sue applicazioni né dei risultati. Quest'imprevedibilità è figlia di processi misti, che oggi sembrano dominare l'intero quadro socio-culturale, fornendoci delle linee guida generali per muoverci ma sottolineando la precarietà e l'interpretazione soggettiva dei fenomeni; l'utensile non è meccanica: “le ribellioni della mano non hanno per scopo d'annullare lo strumento, ma di stabilire nuove basi per un possesso reciproco” (Focillon, 1990, p. 63). In questo scenario la progettazione cambia connotazione; la tecnica come nozione attiva e viva, suscettibile a contaminazioni e scambi con altre tecniche e influenze esterne; oltre le tecnologie “dominanti” imposte, i progettisti possono muoversi in campi inesplorati, dotati di strumenti sempre maggiormente proiettati a un tipo di approccio “misto”. Approccio che può dirsi appartenere a entrambi gli insiemi di tecniche analogiche e digitali accumunate dall’utilizzo e dalla produzione di linguaggi eterogenei (in Marzotto, 2007). Oltre la capacità del digitale di tradurre in uno stesso codice linguaggi di differenti media, lo sviluppo di strumenti digitali, dovrebbe essere attento alla “mano” consentendo una progettazione sempre più consapevole e vicina all’uomo, unendo e rendendo permeabili questi due mondi (analogico e digitale) sempre meno distanti. Come a sostenere che il dialogo “tecnico” tra la mano e lo strumento digitale è possibile, Ellen Lupton porta ad esempio la struttura del software Photoshop, elaborando “la metafora dei layers”; “la metafora dei layers proviene dal mondo fisico, in quanto riflette il metodo tradizionale di assemblaggio e riproduzione delle immagini. Molte tecniche di stampa richiedono la separazione dell’immagine in “livelli”, necessaria per la riproduzione. Mentre le tecnologie contemporanee rendono automatico e invisibile questo processo, nell’era pre-digitale, gli art-board consistevano in fogli di acetato sovrapposti precisamente” (Lupton, 2007). Le abilità dei software potrebbero essere, prima di tutto, sfruttate per esplorare le strutture e le metafore che ci circondano. Ellen Lupton, dichiara che nella sua classe di Graphic Design è indispensabile comprendere questo passaggio dal “fisico al digitale” e per questo cerca di “portare” gli studenti nell’ambito virtuale soltanto dopo averli resi consapevoli degli oggetti che manipolano; il progetto è realizzato per prima cosa a mano, e solo dopo rielaborato in Illustrator e Flash. Il remix operato sul prodotto porta il foglio “fisico”, composto da collage con varie sovrapposizioni, alla traduzione in digitale in forma statica (Illustrator) e successivamente dinamica (Flash)(Lupton, 2007). Il risultato ibrido frutto di un mètissage sul piano tecnico (avviene una vera e propria “contaminazione” tra diverse tecniche), in cui il processo di sovrapposizione degli elementi della composizione, viene prima di tutto realizzato manualmente, con una massima attenzione al “how they are made”(come sono fatti), come step imprescindibile del progetto (Lupton, 2007).


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L’ambito del métissage visivo, la compenetrazione tra tecniche e soprattutto la sovrapposizione di immagini dal punto di vista formale della composizione (uno dei metodi che il mètissage predilige) è oggetto di interesse anche per Lev Manovich6, il quale, anche se a differenza della Lupton si concentra maggiormente sugli sviluppi legati alle tecnologie digitali, elabora nuovi termini che introduce nel suo “vocabolario visivo” e che riassumono i processi principali dei progetti di natura ibrida: composing, layering, transparency e hybridity (Lupton, 2007). Il termine composing, si riferisce alla “compressione” di più immagini ed elementi differenti all’interno di una singola composizione; trasparency è la modalità con la quale una superficie è resa più o meno visibile attraverso un’altra (sovrapposta); questo concetto si collega al layering che rappresenta la separazione di un’immagine attraverso componenti sovrapposte (rappresenta la caratteristica del processo di stampa quadricromatico, da centinaia di anni) (Lupton, 2007). Le radici di questi termini del “vocabolario visivo” di Manovich sono già rintracciabili nei movimenti d’avanguardia dove corrispondono a sentimenti di rottura; oggi assistiamo a quella che lo stesso Manovich definisce Velvet Revolution7, in cui l’ibridità delle forme segue il contemporaneo sviluppo dei software. Concentrandosi sulle tecnologie digitali, la riflessione di Manovich verte sulla possibilità data ai progettisti di muoversi agilmente “mescolando” qualsiasi numero di elementi visivi (prescindendo dagli individuali media originari) modificabili costantemente e autonomamente, durante il processo (Manovich, 2006). Questo con una libertà e una possibilità di sovrapposizione mai immaginata: “immediatamente il fotomontaggio modernista riprende vita” (Manovich, 2006), ma non si limita a descrivere i confini (aperti) di uno spazio comune bensì apre infinite possibilità di composizione (ad esempio la modulazione sul piano visivo di colore, dimensione, ecc.) e dà alla luce nuovi linguaggi (Manovich, 2006). Il “fotomontaggio modernista” spesso manifestava il meticciamento in modo ineludibile sul piano formale, ad esempio con la tecnica del collage o del fotomontaggio in cui la sovrapposizione di layer risulta evidente; il “nuovo collage” di linguaggi e tecniche eterogene, al contrario, evidenzia la caratteristica della “trasparenza”. Molti livelli sovrapposti, che possono essere considerati indipen-

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Lev Manovich è un esperto di teorie dei nuovi media e autore di libri (ad esempio il celebre “The Language of New Media”); è professore all’Università di New York, Graduate Center, U.S., al corso di Computer Science. 7 Lev Manovich parla di Velvet Revolution riferendosi alla trasformazione legata alla cultura visiva negli anni che intercorrono dal 1993 al 1998: gli sviluppi sociali e tecnologici, hardware, software, metodologie di produzione, nascita di nuove figure professionali e ambiti di ricerca.

«Alla fine della decade, la “purezza” alla base della comunicazione dell’immagine è diventata un’eccezione e la comunicazione ibrida la normalità» (Manovich, 2006)

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dentemente, “spenti” o “accesi”, spostati, incrementano il processo definito da Manovich trasparency (Manovich, 2006), caratteristica fondamentale dei cambiamenti estetici della Velvet Revolution. “Nasce una nuova abilità di combinare insieme diversi livelli di immaginazione con vari layers di trasparenza attraverso la composizione digitale” (Manovich, 2006), che rende modulabile la sovrapposizione delle varie immagini, mettendole vicine o una sopra l’altra, evitando l’effetto fotomontaggio tipico della produzione anni ‘20 (qualora non sia voluto). Il mètissage grafico favorito dalle tecnologie permette un “gioco” continuo di sperimentazioni in cui le tecniche si mescolano, in cui il manuale e il digitale coesistono, in cui estetiche diverse possono dialogare su un terreno comune creando nuove “specie” (Manovich, 2006); questa è l’hybridity che sempre più caratterizza i prodotti contemporanei. “Il merito trasversale del digitale è dunque quello di aver omogeneizzato in un unico linguaggio i codici di diversi media della comunicazione, rendendoli allo stesso tempo permeabili tra loro e a portata di mano per un numero crescente di persone” (Marzotto, 2007), e questo ha favorito e favorisce l’ibridazione delle tecniche e delle forme, su cui si basa la teoria del “meticciamento grafico”.


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4.3

Mix e remix, hybridity nei New Media “Il “remix” è un fatto della nostra vita contemporanea, un altro modo di costruire immagini nel mondo contemporaneo. Partendo da un approccio analitico sul pensiero progettuale, ogni progettista è chiamato ad “animare” il cuore del progetto rispetto al proprio punto di vista, in un determinato tempo e luogo. L’obiettivo è, in ultima analisi, di formare una gamma di strumenti concettuali e formali che aiutino e avvicinino il più possibile ogni designer e il significato del loro lavoro ad ogni tipo di pubblico” (Lupton, 2007). Il termine “remix” nasce in ambito musicale, dove l’introduzione della multi-traccia rende una pratica diffusa, il processo del remix, appunto; grazie al quale ogni elemento della composizione musicale, voce, strumenti, ecc. può essere separato e manipolato singolarmente, rendendo possibile il re-mix del componimento e lavorando direttamente sulle sorgenti sonore di cui è formato: modificandone il volume o sostituendo quelle vecchie con altre, nuove tracce (Manovich, 2005). Tra i designer e i musicisti c’è una linea sottile di unione; sono accomunati dalle stesse tecnologie digitali, i software per la progettazione e quelli per la composizione musicale rendono sul piano tecnico l’operazione del remix davvero semplice. In un modo analogo a quello del “multi-traccia” (Manovich, 2005), i software per la progettazione grafica rendono gli elementi delle composizioni separabili e manipolabili singolarmente, e trasferibili da un’applicazione ad un’altra. Lev Manovich, riguardo al nuovo linguaggio visivo ibrido, afferma che la sua logica è quella della remixability8; non solo riguardo ai contenuti provenienti da differenti media o semplicemente sul piano estetico ma per le tecniche utilizzate, l’approccio e i presupposti al progetto (Manovich, 2006) si delineano sempre più verso un intento dialogico e di “ibridazione”. Un’“ibridazione sistematica” applicata a software originariamente nati per operare in differenti media; con il remix di questi ultimi si dà vita a prodotti ibridi; che non possono essere semplicemente descritti come il riassunto di parti preesistenti ma devono essere considerate come “nuove specie” (Manovich, 2006). 8

Considerato il “metodo chiave” della composizione musicale elettronica dagli anni ‘80, è applicato in seguito in ambito interdisciplinare per indicare componenti eterogenee “ricomposte” per formare un nuovo ibrido.

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In questo sviluppo digitale “comune” vanno ricercate le basi del processo di deep remixability, (Manovich, 2007, p. 6-7) che si configura come un’operazione profonda di scambio di elementi da cui si sviluppano nuove forme d’espressione e di rappresentazione e che non può essere limitata all’addizione dei contenuti, delle tecniche e dei linguaggi provenienti dai differenti new-media. La computerizzazione, applicata praticamente a tutti i media, crea e modifica le tecniche, estraendole dal loro media di origine e traducendole in algoritmi, applicabili a un linguaggio “condiviso”, il nuovo metamedium: il computer (Manovich, 2007, p. 7). Uniti dallo sviluppo di un comune software, il cinema, l’animazione, il graphic design, la tipografia, stanno formando il nuovo metamedium (Manovich, 2007, p. 7); il vantaggio derivante dal suo utilizzo è quello di poter utilizzare tutte le tecniche che precedentemente erano uniche per ogni differente strumento. Il computer così si delinea come un dispositivo che non vuole sostituirsi a un medium particolare ma “simula l’unione di tutti i media” (Manovich, 2006) producendo linguaggi visivi ibridi, intricati, complessi e ricchi; o numerosi linguaggi accomunati dalla stessa logica di remixability (Manovich, 2006). La logica che si muove intorno alla remixability, secondo Manovich, è strettamente legata al concetto di modularity (Manovich, 2005), (divisione e gestione a “moduli”) che sta alla base della programmazione di tutti i software per cui, soprattutto per le applicazioni più complesse, è prevista una divisione dei contenuti in livelli, con possibilità di gestione separata. La modularity rappresenta, sia in campo tecnico che nell’approccio progettuale, una grande possibilità di gestione dei contenuti: “la computerizzazione ha modulato la cultura ad un livello strutturale. Le immagini sono scomposte in pixel; il graphic design, i film e i video sono scomposti in layer; l’ipertesto modula il testo. Linguaggi come l’HTML o formati come l’MPEG-7 modulano in generale i documenti multimediali […]” (Manovich, 2005). Queste definizioni contribuiscono a inquadrare il pensiero dell’autore secondo il quale si è assistito, agli inizi degli anni ‘90, a una “rivoluzione visiva” (digitale); al centro di questa “rivoluzione visiva” c’è la nascita (1993) di un software: After Effects. Prodotto emblematico che, in quanto ibrido (unisce le capacità di Photoshop e Illustrator), è capace di manipolare diversi elementi quali fotografie, disegni, grafica (Manovich, 2006). La Velvet Revolution scatenata dalla comparsa di After Effects non crea semplicemente uno spazio comune per tutti quei progettisti

«I software sono come le specie. Queste ultime hanno in comune l’ecosistema di cui fanno parte. I software hanno in comune lo sviluppo digitale» (Manovich, 2006)


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che si sono serviti di tecnologie “miste” fin dagli anni ‘80, (stop motion, optical printing e altri metodi introdotti dall’uso incrociato di tecniche e tecnologie varie) ma favorisce la nascita di nuove estetiche. La Adobe Company ad esempio, grazie alla creazione della Creative Suite, permette ai designer di muoversi liberamente attraverso le varie applicazioni, con diverse possibilità di manipolazione. AfterEffects viene paragonato a “Photoshop con l’aggiunta della timeline”(creazione video) e InDesign è chiamato “Illustrator con le pagine” (Lupton, 2007).

Disambiguazione sul termine mix e remix, teoria e parallelismi meticci

«Il meticciato non è la fusione, la coesione, l’osmosi, bensì il confronto e il dialogo» (Laplantine e Nouss 2006, p. 9)

Nella definizione del termine mix-remix9 (che nasce in ambito musicale) è interessante notare come tornando a un’analisi interdisciplinare, più precisamente legata agli studi sociologici e culturali di Laplantine e Nouss (vedi 2.3), sia evidente il rifiuto del suo utilizzo; almeno in riferimento a quello che gli autori definiscono il nuovo paradigma del mètissage; “[…] poiché” affermano: “il métissage non è né una qualità né una condizione ma un processo; il pensiero meticcio – diversamente dal pensiero che ruota attorno ai concetti di mélange o di mixité (mix)– è un pensiero della tensione, cioè un pensiero decisamente temporale, che evolve attraverso le lingue, i generi, le culture, i continenti, le epoche, le storie e le storie di vita” (Laplantine e Nouss 2006, p. 67). Nella loro concezione, il mix si riferisce ad una somma di più parti come atto compiuto anziché (come invece definisce il nuovo paradigma del métissage) un “momento” dialogico, uno spazio di interscambio continuo ed in perenne trasformazione (Contini, 2009).

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Riflessioni Aldilà dell’ambiguazione del termine e del suo utilizzo, dallo scenario tecnologico presentato da Manovich risulta chiaro che attraversiamo un momento in cui gli strumenti che abbiamo a disposizione ci consentono un’agilità e una gestione dei contenuti non prevedibile decenni or sono. La possibilità di un lavoro spartito tra diversi soggetti, asincrono, modificabile continuamente, che velocizza alcune fasi, è fattore molto positivo anche riguardo il processo, momento privilegiato della progettazione che come afferma Harmen Liemburg, dovrebbe essere elevato rispetto al risultato finale (vedi 3.9). E´ anche vero che spesso con la facilità di gestione e velocità (in aumento esponenziale) raggiunte dallo sviluppo digitale sempre meno ci si ferma a riflettere su “come fare” durante il processo progettuale; o se ci poniamo la domanda è quasi sempre legata al tipo di software più “aggiornato” per operare. Il processo di cui parla Liemburg si riferisce invece al ragionamento continuo e negoziabile in “corso d’opera” rispetto al risultato finale, senza precludere strade “alternative” rispetto alla scelta digitale (nel suo caso può riferirsi alla stampa serigrafica che a suo parere offre possibilità impensabili). Il fatto di muoverci così agilmente all’interno del digitale dovrebbe essere motivo di indagine su ciò che c’è aldilà della tecnica dominante (il computer); in fase di ideazione e realizzazione gli approcci al progetto possono essere infiniti, tanto più adesso che la traduzione in uno stesso codice si è semplificata. Diverse tecniche si mescolano in un “contenitore” che raduna linguaggi e strumenti analogici, digitali, appartenenti a differenti settori; crea la “zona franca”, in cui la sostituzione di elementi non deriva più solo dalla necessità (come avveniva in parte nel periodo di “rottura” delle prime avanguardie, vedi Sandberg e Werkman), di limiti dell’analogico o del digitale; si tratta piuttosto di trovare la formula migliore, gli ingredienti di maggiore qualità, per arrivare alla ricetta “perfetta” senza porsi limiti né farsi condizionare da stilemi preconfezionati (che spesso sono determinati dal “pacchetto preconfezionato” dell’applicazione digitale). Il risultato si avvale dei principi che stanno alla base del métissage, aprendosi all’inesplorato, rifiutando i “virus” diffusi dalla globalizzazione culturale, senza preconcetti e pretese estetiche dettate dal gusto “globale”. Questo “sfruttando” le capacità di traduzione, gestione e comunicazione che nascono dal digitale, unite al vantaggio unico consentito dall’ apertura a tecniche e stimoli esterni, inusuali, che permettano di sfruttare a pieno il nostro impulso inventivo; continuando così uno studio approfondito degli elementi basilari e delle “regole” o “non-regole” inserite nel progetto che ne caratterizzano e legittimano l’identità grafica comunicativa.


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4.4

Post-digital?

Appunti di Kim Cascone Il termine hybridity analizzato in ambito interdisciplinare, trova sviluppo soprattutto nella sfera musicale; il remix9 ne è solo un esempio tecnico ma ad esempio l’analisi di Cascone10 riflette su diversi fattori propri del cambiamento musicale rispetto allo sviluppo tecnologico (riconducibili alle teorie del métissage compositivo). Nicholas Negroponte, informatico statunitense e co-fondatore nel 1985 del MediaLab (uno dei laboratori più prestigiosi del mondo) afferma (già nel 1998), che la rivoluzione digitale sta volgendo al termine e che lascerà presto il posto all’era post-digitale. Cascone afferma che le tecniche visive permettono ai progettisti di lavorare “dietro” i precedenti impenetrabili “veli” dei digital-media (Cascone, 2000); lo scenario post-digitale si configura in una sorta di “dietro le quinte”, in cui i designer spostano il loro interesse visivo dagli elementi di primo piano a quelli che si stagliano sullo sfondo. Questa metafora viene utilizzata per descrivere un atteggiamento nuovo dei progettisti; i dati nascosti, nella nostra percezione “blind spot” (letteralmente angolo cieco) (Cascone, 2000), contengono parole ed elementi in attesa di essere scoperti, esplorati, se solo scegliamo di spostarvi la nostra attenzione; oggi la tecnologia digitale rende i progettisti capaci di esplorare nuovi territori catturando elementi che risiedono in aree dietro i confini delle “normali” funzioni dei software (Cascone, 2000). Ad esempio in ambito musicale Luigi Russolo11 (1913) applica il concetto sopra citato da Cascone, spostando la propria attenzione dalle

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Vedi 4.3 Kim Cascone (1955) è un compositore americano di musica elettronica; fondatore della Silent Records nel 1986, oggi è conosciuto in tutta Europa per workshop, lectures, e per il suo interesse alla musica “post-digitale” per cui ha scritto numerosi articoli (ad esempio per il Computer Music Journal, Contemporary Music Review). 11 Muovendosi nello scenario futurista e considerato il padre della musica contemporanea “post-digitale”, il suo manifesto e l’ utilizzo sperimentale di strumenti quali l’intonarumori,(uno strumento che imita i rumori tipici delle macchine industriali) influenzerà la musica sperimentale delle generazioni future (Cascone, 2000). 10


note della composizione musicale , in primo piano, ai suoni e rumori accidentali e inaspettati di fondo. Così come Russolo altri compositori, ad esempio John Cage hanno considerato essenziale spendere la propria attenzione non solo sugli “oggetti sonori” in primo piano; il “silent piece” (componimento 4’33’) di Cage concentrato sul silenzio, per cui “non c’è nessuna cosa come il silenzio; è lo stato umano essenziale di cui ci si serve per contrastare i rumori di fondo nel nostro sistema biologico” lo stato del “ nothing è condizione caratterizzante ogni cosa che noi filtriamo” (Cascone, 2000).

Appunti di Nicolas Negroponte, conclusioni Il digitale permette di andare oltre i limiti fisici degli oggetti che ci circondano (tre dimensioni), assistendo a quella che Negroponte definisce (Negroponte, 1995, pp. 66-67) il “dilemma profondità/ estensione”, in cui il concetto “dimmi di più” (determinato dalla scomparsa dei confini tra autore/lettore) assume importanza fondamentale nella multimedialità e sta alle radici dell’ipermedialità. In un contesto in cui possiamo andare sempre più in profondità si configura “un pozzo” infinito di informazioni ed elementi, spesso caotico, che possiamo trasformare, frammentare, rielaborare e in sede progettuale si manifesta con concrete e continue possibilità di modifiche tecniche; l’ “essere digitali consente di agire sul processo, non solo sul prodotto” (Negroponte, 1995, p. 234). Nonostante questo, se l’attenzione (in riferimento al processo progettuale) si sposta sulla creatività è utile ricordare le parole di Negroponte: “Il mondo digitale è un’altra cosa. Non occorre aspettare nessuna invenzione. Esso è qui, già adesso. E un fatto quasi genetico, in quanto ogni generazione sarà più digitale di quella che l’ha preceduta” (Negroponte, 1995, p. 241). Il buon utilizzo delle opportunità tecniche fornite dal digitale ma anche il riconoscimento della loro incapacità inventiva sono oggi, ancora applicabili; diventa necessaria l’integrazione nel processo progettuale di componenti “reali”, verso un concetto di multimedialità volto all’ “adattamento umano” degli strumenti: “Il concetto di multimedialità include necessariamente idee di come passare facilmente da un mezzo a un altro, dire la stessa cosa in modi diversi, fare ricorso, secondo i casi, all’uno o all’altro dei nostri sensi” (Negroponte, 1995, p. 70). Traslando ad oggi il discorso sulla multimedialità che Negroponte affrontava all’inizio degli anni ‘90, si può notare come l’interscambio macchina-individuo emerga sempre di più come un’esigenza imprescindibile all’evoluzione digitale e al suo totale assorbimento;


Il Digitale è ibrido?

andando oltre i discorsi di interfaccia ed ergonomia, verso una contaminazione reciproca che coinvolge l’uomo e la macchina. Oggi siamo di fronte una nuova frontiera dell’era dell’informazione: “The Hybrid Age” (Khanna A. e P., 2012). “The Hybrid Age” è una nuova era “socio-tecnica” che sta svelando come le tecnologie si contaminino vicendevolmente e gli esseri umani si mischino a loro volta con la tecnologia, contemporaneamente (Khanna A. e P., 2012). Parag e Ayesha Khanna12 in “Hybrid Reality” orientano la loro riflessione proprio su questa contaminazione affermando che la tecnologia si sta evolvendo incrementando esponenzialmente il “dialogo” con altre sfere socio-culturali, e permettendo loro di trascendere dalle individuali limitazioni di velocità e portata (Khanna A. e P., 2012). L’allineamento delle diverse discipline determina un fondamentale cambiamento delle nuove tecnologie anche nella loro definizione dell’essere “innovative”: la ricerca non verte solo su tecnologie più “luminose o piccole” ma invisibili ed integrate; perché “non solo utilizziamo la tecnologia ma la assorbiamo” (Khanna A. e P., 2012). The Hybrid Age è considerato un periodo transizionale, tra l’ “Information Age” e il momento definito da Ray Kurzweil (autore di the “Singularity is near”) “Singularity” (quando le macchine supereranno l’intelligenza umana), il cui compimento è stimato intorno al 2040 (Khanna A. e P., 2012). Il transumanesimo13, termine coniato nel 1957, sembra in via di trasformazione, una metamorfosi che forse porterà un ribaltamento della definizione, e in cui al sostantivo “uomo” sostituiremo quello di tecnologia. Una tecnologia volta ad “ascoltare” e dialogare con i bisogni umani e il cui assorbimento reciproco migliorerà e favorirà lo sviluppo tecnologico. Se il superamento dell’intelligenza umana da parte delle macchine sia o no possibile in un prossimo futuro non è facilmente prevedibile; in ogni caso le macchine avrebbero ancora molto da imparare! In questa ricerca, protagonista indiscusso e capace di avvicinare i due mondi (quello umano e quello digitale) è e sarà la contaminazione inarrestabile tra tecnologia e quello che Henri Focillon definiva “tocco” della mano (Focillon, 1990). Nasce una nuova proposta di paradigma, applicabile a tutte le discipline, favorita dal métissage globale in atto, nella nuova era definita The Hybrid Age. Non è forse quella che Negroponte definiva (più di un decennio fa) Era Post-Digitale?

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Ayesha e Parag Khanna sono i direttori dell’ Hybrid Reality Institute, un istituto di ricerca focalizzato sulle human-technology, co-evolution, geotecnologie e innovazione. Autori del libro: Hybrid Reality, pubblicato dal TED, giugno 2012. 13 Movimento culturale che sostiene che l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche possa potenziare le capacità e i limiti fisici e cognitivi dell’uomo; la tecnologia vista come miglioramento della vita, l’intelligenza artificiale che potrà superare quella umana.

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Il Progetto

Hybri-land: nove identitĂ ibride e un percorso


Hybri-land

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Introduzione (How it is made?)

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«The new “software critique” is less politico-intellectual and more technical, concerned not so much with what things mean as with how they are made» (Lupton, 2007). Ellen Lupton nell’articolo “Learning to Love Software” ritiene che il “how they are made” (come sono fatti) sia uno degli imprescindibili fattori che determinano la riuscita di un progetto; il processo con il quale si arriva al risultato finale acquista maggiore importanza rispetto al significato stesso degli artefatti. Questo è quello che si propone “Hybri-land: nove identità ibride e un percorso”. Hybri-land è un esperimento di self-publishing a servizio della comunicazione visiva e può considerarsi un “ibrido” soprattutto per quanto riguarda il processo di realizzazione che lo caratterizza. Hybri-land è un racconto di un percorso di cento anni (evoluzione grafica) in un metro e mezzo di lunghezza; si presenta come una “fisarmonica” da aprire e leggere. All'interno il lettore trova nove storie; i casi studio analizzati nella prima parte della ricerca, come una sorta di reinterpretazione della timeline iniziale (Vedi p. 22) . In questa narrazione lo sviluppo tecnico tradizionale che domina la scena dell’evoluzione grafica è messo a confronto con quello operato parallelamente dagli autori, che sviluppano tecniche del tutto personali. Si assiste così al racconto di nove storie “ibride” attraverso un metodo altrettanto “ibrido”.


Analisi strutturale dell'artefatto, come si presenta: Hybri-land è formata da tre parti, tre strisce che appaiono distinte ma che si contaminano vicendevolmente; quella superiore, riguardante il collage libero dei nove casi studio analizzati e dagli elementi caratteristici derivanti la loro produzione, la seconda parte, inizialmente nascosta, riguarda le tecniche personali nate dall'ibridazione tra analogico e digitale dei singoli autori, tra tecniche obsolete e quelle appartenenti allo sviluppo tradizionale; è qui che i riferimenti, tramite linee rosse di collegamento attingono dalla terza parte, che costituisce la fascia dominante e di sviluppo lineare. La parte chiamata “tecniche personali” è caratterizzata da collegamenti con le tecniche di stampa e i metodi tradizionali, che spesso vengono reinventati dagli autori o utilizzati simultaneamente ad altre tecniche; in questa parte di analisi un'altra importante chiave di lettura comune a tutti i personaggi è l'utilizzo più o meno frequente di metodi manuali (rappresentati da una mano che spunta dalle sperimentazioni dell'autore) rispetto a metodi digitali in linea con lo sviluppo dominante (rappresentata da una mano “pixelata”). Nella parte retrostante l'esperienza legata all' hybridity e che ha contraddistinto ciascuna produzione grafica viene raccontata come una storia, che perde qualsiasi riferimento reale.

DIARIO DI PROGETTO

2

intervento manuale intervento digitale

Il processo, gli utensili "ponte" «Assemblare, distruggere, e applicare materiali e metodi ibridi -controllati simultaneamente dall’essere umano e dalla macchina- rappresentano nuove opportunità per estendere e reinventare i media tradizionali nell’era post-digitale» (Catanese & Geary, 2012, p. 20). «The demystification of the process will not do away with the mistery of the results» (Reichart in Catanese & Geary, 2012, p. 21). L’attenzione si focalizza sul processo, le fasi di realizzazione che portano dall’elaborazione dell’idea al risultato finale; i metodi si intersecano in un gioco di “rimbalzo” continuo tra analogico e digitale. L’impiego degli strumenti necessari per la realizzazione


Hybri-land

dell’artefatto finale, vengono definiti “utensili ponte”, in quanto permettono i passaggi da una fase all’altra e la traduzione ad un unico linguaggio; per raggiungere questo obiettivo lo sviluppo digitale rappresenta un'imprescindibile strumento. Risulta chiara la concretizzazione dell'affermazione di Paul Catanese e Angela Geary, i quali si concentrano sui metodi e le tecnologie capaci di far “dialogare” la macchina e la mano, aprendo la strada a nuove interpretazioni dei media tradizionali. Di seguito sono riportate le varie fasi del processo, che raccontano la realizzazione di Hybri-land.

—Fase 1 LA SCELTA DELLE IMMAGINI La scelta delle immagini necessarie per raccontare la storia di Hybri-land; i nove casi studio esaminati nella ricerca e gli elementi caratterizzanti la loro produzione. 162 163

—Immagini scelte; raffigurano i personaggi e le loro tecniche principali, la stampa delle immagini è in scala di grigio. Marzo, 2013


Sopra: —Collage manuale; taglio degli elementi da inserire nel progetto, con tecnica manuale. Marzo, 2013 A lato: —Realizzazione collage su foglio a formato reale, 420 x 1485 mm. Marzo, 2013


Hybri-land

—Fase 2 COLLAGE MANUALE, ADATTAMENTO AL FORMATO RE ALE Nella seconda fase si procede con la “manipolazione” delle immagini scelte; cutter, colla, forbici e adattamento sul formato reale della stampa finale. Questa parte è fondamentale, in quanto si riesce a capire immediatamente l’ingrombo reale dell’artefatto e dei suoi elementi compositivi. A differenza della progettazione esclusivamente in digitale (che ha evidenti limiti di spazio di lavoro), lavorare manualmente sulle immagini permette di rendersi conto

durante il processo di ideazione se alcune scelte progettuali sono realizzabili in termini di formato e proporzioni. Oltre al vantaggio delle valutazioni di formato, l’intervento manuale permette di fare davvero parte del progetto, senza interrompere il processo creativo, e senza intermediari troppo “ingombranti” quali ad esempio gli strumenti digitali, ma solo con l’ausilio di qualche “utensile povero” come forbici, colla.

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—Fase 3 SCANSIONE E ACQUISIZIONE DIGITALE Una volta ultimato il collage manuale, si procede alla scansione; l'inserimento della composizione all'interno della macchina è essenziale per la rielaborazione e la “pulizia” delle immagini. In sede digitale, infatti vengono ripulite le immagini da eventuali disturbi o imperfezioni della mano, modificati i colori e inseriti elementi di infografica che aiutano il lettore a percorrere la narrazione visiva. Sopra: —Dettaglio collage manuale. Marzo, 2013 Sotto: —Rielaborazione digitale; integrazione elementi e rifinitura del file definitivo di stampa. Marzo, 2013

—Fase 4 FINALIZZAZIONE DEL FILE, STAMPA In digitale viene ultimato il progetto e preparato il file di stampa su formato 1500 x 840 mm. Metodo di stampa: plotter, quadricromia. Carta utilizzata: gr/90.


Hybri-land

Sopra: —Dettaglio impaginato finito. Marzo, 2013 Sotto: —Dettaglio interno dell'impaginato finito; prototipo 29,7 x 100 cm. Marzo, 2013

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—Fase 5 RILEGATURA E PIEGATURA MANUALE; ARTEFATTO FINITO Il foglio è stampato da plotter solo fronte ed è assemblato manualmente tramite colla secca per formare il fronte/retro; questa soluzione progettuale ha sostituito quella iniziale di stampa di cinque fogli in formato A3 uniti manualmente. Il foglio è poi piegato a mano e rifilato; copia unica. La stampa è stata effettuata anche su formato 1000 x 270 mm (banner) per rendere il pieghevole più maneggevole; stampato in triplice copia.


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Obiettivi e considerazioni

Hybri-land si propone come una storia, raccontata in una forma differente rispetto a una semplice timeline che scandisce una cronologia legata ad un fenomeno che si ripete; Hybri-land è piuttosto un racconto a cui tutti si possono avvicinare e che con ironia e fantasia (tramite una storia inventata, presente nel retro) vuole coinvolgere un ampio pubblico, anche quella parte di lettori che solitamente sono lontani alla storia della grafica. La storia della grafica rappresenta il fulcro della ricerca, da cui si è partiti per analizzare la realtà di un fenomeno molto più esteso, assimilabile ad altre discipline e in generale ad un approccio, un metodo, un linguaggio che hanno definito e definiscono nuovi rapporti tra le persone e tra l'utensile e il progettista, il medium e il lettore; ecco perchè la creazione di un artefatto che si deve aprire, maneggiare, leggere, guardare, con cui si può giocare e fantasticare anche, diventa il mezzo migliore per comunicare la tesi finale di questo percorso esplorativo alla ricerca dell'essenza dell'Hybridity. Anche la scelta progettuale di realizzazione dell'impaginato risulta “ibrida” e sembra un suggerimento a giocare con i materiali; il racconto del processo nelle sue varie fasi di realizzazione vuole essere un'ulteriore conferma dell'analisi emersa anche dall'indagine dei metodi dei diversi casi studio; come un percorso circolare che si chiude. L'Hybridity intesa come base dell'evoluzione, della scoperta e della nascita di nuovi approcci; in questo caso il metodo del collage e il rimbalzo continuo tra analogico e digitale racconta un'e-


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sperienza non tanto innovativa dal punto di vista tecnico-formale (come confermato dall'indagine storica, le sperimentazioni di questo tipo hanno radici avanguardiste risalenti ai primi decenni del novecento), ma dal punto di vista metodologico; il fatto di dare al processo grande importanza e darsi la possibilità (intesa in qualità di progettisti) di apertura a qualsiasi tipo di strumentazione pur di raggiungere l'obiettivo comunicativo preposto, senza dare per scontato l'utilizzo univoco del digitale e delle nuove tecnologie, risulta fondamentale. L'utilizzo univoco del digitale spesso non basta più, a volte e per alcuni casi sì, in alcune fasi del progetto risulta fondamentale, ma trovare il metodo personale per raggiungere i risultati più performativi (evitando la standardizzazione) diventa il principale intento; sia esso perseguito con il collage, con il disegno manuale, con le più sofisticate delle tecnologie; e spesso facendo questo il métissage grafico risulta inevitabile, soprattutto nei passaggi (vedi “utensili ponte”) di traduzione tra diversi media. L'obiettivo risulta quello di trovare i migliori metodi personali per comunicare e metterli al servizio delle persone; cercando di evitare la produzione di artefatti “artistico-virtuosi” o all'opposto standardizzati; lasciare aperte le strade a prodotti essenzialmente “comunicativi”, almeno quando si rimane nell'ambito della comunicazione grafica.

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Ringraziamenti: A Giuliana e Marco senza i quali non sarebbe nata la ricerca “ibrida”. A Claude e alle sue “dritte”. A M. per tutte quelle “virgole”.




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