Esempi di b uone narrazioni di Giuseppe Tacconi direttore scientifico del progetto Unive rsità di Verona - Scie nze della Formazione
Che carat teristiche ha una buona narrazione di pratica professionale? L’esperienza svolta in questi anni, suggerisce che le narrazioni degli insegnanti che risultano essere più ricche o dense sono quelle che si soffermano, con ricchezza di particolari sulla descrizione delle situazioni, così come sono state vissute dai soggetti narranti. Sono appunto queste descrizioni – e non i pensieri generali sulla scuola o sull’insegnamento – che, fornendo una rappresentazione intensiva dell’esperienza, risultano generative per il sapere didattico. In genere, si tratta di racconti che consentono ad un lettore di rappresentarsi la situazione didattica, come se la stesse vedendo. Abbiamo notato che risulta utile chiedere ai docenti di focalizzare l’attenzione su un episodio concreto, magari pensando anche a com’era il tempo quel giorno, e di ricorrere
anche
all’uso
del
discorso
diretto,
riportando
frammenti
della
conversazione didattica. 1
Un esempio di b uona narrazione Come esempio di buona narrazione riportiamo alcuni brani di un libro di Walter Maraschini (2008), insegnante di matematica.
In una parte del libro, l’autore racconta di aver chiesto, una volta, in classe, di “leggere con sentimento” uno degli oggetti scolastici che generalmente meno suscita sentimenti amichevoli, un’espressione algebrica.
Mi era capitata qualche tempo fa una classe di prima, di un indirizzo scolastico che si chiama, appropriatamente, Liceo sociale; ventiquattro ragazzine molto simpatiche e affettuose provenienti in gran parte da alcuni paesi nei pressi di Roma, ma lontane da una appena decente educazione matematica precedente. Così, notando che alcune di esse continuavano a commettere errori di calcolo grossolani perché non davano peso all’ordine delle operazioni e alla presenza delle parentesi, ho imposto loro di “leggere con sentimento” espressioni quali le seguenti, ponendo pause, accelerazioni o particolari enfasi che suggerissero la gerarchia del calcolo e l’ordine d’esecuzione:
a + b · (c + d) (a + b) · (c + d) (a + b) · c + d a+b·c+d
Cercando di rendere il ritmo e gli accenti con degli spazi, la prima espressione si potrebbe leggere così:
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a + b · (c + d) a
più
bi-per-cipppiuddì
La seconda invece:
(a + b) · (c + d) appiubbì
per
cippiuddì
Si sono divertite molto, ma, soprattutto, ha funzionato! (Maraschini, 2008, pp. 55-56)
Anche il seguente racconto, che riportiamo solo parzialmente, può essere visto come un esempio di narrazione o “descrizione densa” della propria pratica di insegnamento:
È un lunedì di metà novembre e sono le otto e dieci. Prima ora: io sono già in aula, ancora solo, e guardo sconsolato l’aula priva di ogni cura d’arredo, una lavagna polverosa, una carta geografica vecchia e sbilenca, pareti e banchi pieni di scritte imbecilli, volgari o più spesso disperate, infissi che non chiudono bene, una cattedra su cui giacciono il registro di classe e tre monconi di gesso e i cui due cassetti, che non appartengono a nessuno, a mala pena riesco ad aprire: vi osservo antiche fotocopie, brandelli di giustificazioni o di appunti, polvere. Nonostante tutto, però, sono di buon umore. Entrano le ragazze – soltanto due sono i maschi in questa prima di ventotto alunni -; si levano il giubbotto, aprono lo zaino, qualcuna va un attimo in bagno. - Professore, posso? - esprimono l’esigenza e segnalano il fatto esibendo un fazzolettino di carta. Nel giro di pochi minuti la classe è pronta per iniziare e oggi ci sono quasi tutti, due soli gli assenti. Nei primi due mesi ho rivisto con loro le proprietà di
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frazioni, numeri negativi e potenze e qua e là ho usato le lettere per fissare alcune
formule
e
proprietà
generali;
oggi
si
tratta
di
iniziare
sistematicamente il calcolo letterale, quest’algebra elementare doverosa, noiosa e che tende a essere onnivora dei tempi dell’insegnamento. Vorrei capissero bene il perché delle lettere prima ancora di tuffarmi nella sintassi del calcolo. Tento un approccio morbido e problematico. - Buongiorno! – esordisco. - Buongiorno! - Bene, quando ci si incontra ci si stringe la mano, la mano destra. È un’antica usanza e, chissà, forse viene dal mostrare che la mano è priva di armi, dimostrando così l’intento amichevole di chi fa questo gesto… Buongiorno Francesca! – e così dicendo porgo la mano a Francesca, seduta al primo banco, che timidamente me la stringe, continuando poi: - E ora salutatevi, stringendovi la mano. Come nel “gesto di pace” che si fa nel corso della Messa, in modo disordinato i vicini di banco si stringono la mano. - Bene, ora rifacciamo il gesto di pace soltanto io e Francesca: siamo due persone e c’è una sola stretta di mani. Se però vogliamo salutarci in tre, io, Francesca e Ilaria, quante strette di mano ci saranno? - Tre! – dice d’istinto Saverio. - Bene, tra tre persone ci cono quindi tre strette di mano – e così dicendo stringo la mano a Francesca e Ilaria e invito le due ragazze a fare altrettanto. - Ora generalizziamo. Scrivete! Detto il problema affinché lo scrivano: - Enne persone si incontrano e ognuna stringe la mano a ogni altra. Quante strette di mano si verificano? - Prof, - interviene Martina – ma quante so’ ’ste persone? - Sono enne, un numero naturale qualunque – e così dicendo scrivo alla lavagna “n persone”. E aggiungo: - In pratica, dovete trovare una formula
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che permetta di trovare il numero di strette di mano che si verificano a seconda del numero enne delle persone. Visto che non lo conosciamo, indichiamo con ics tale numero, cioè il numero di strette di mano tra enne persone. - Prof, - interviene ancora Saverio – ma se so’ enne saranno enne, come prima, che eravate tre e vi siete dati la mano tre volte. - Quindi, Saverio, secondo te, se quattro persone si salutano tutte, ci sono quattro strette di mano? - Certo! - Allora, Saverio, Martina, Claudia e Irene alzatevi, …e stringetevi la mano. Un po’ intralciandosi, come spesso accade quando più persone si presentano o si salutano, i quattro eseguono mentre alcuni ragazzi seguono contando: - Uno, due, …sei! - Quindi, - concludo provvisoriamente – in generale con enne persone non si verificano enne strette di mano. Bene, vediamo di capire meglio. Costruite ora una tabella con due colonne. – E così dicendo scrivo alla lavagna le intestazioni, precisando che il simbolo “cancelletto” (#) significa “numero di”:
n (# persone)
x (# strette di mano)
- Fate delle prove, pensate, ragionate. Arrivate fino a sette, otto… ma ricordate comunque che l’obiettivo è quello di arrivare a una formula che valga per ogni valore di enne.
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Lascio che sperimentino, che ci pensino. A gruppetti di cinque, sei si stringono la mano, prima disordinatamente poi per evitare errori giacché è facile
contare
una
stretta
di
mano
in
più
o
dimenticarsene
una,
spontaneamente la ricerca si fa più metodica. - Aspettate! – dice per esempio Irene ad altre sue cinque compagne mentre provano a contare cosa succede con sei persone, e dopo che non sono riuscite a mettersi d’accordo -. Facciamo che prima io saluto tutte, le contiamo, e poi Martina saluta tutte meno me, continuiamo così e vediamo quanto viene. Saverio, invece, suggerisce col suo gruppo un’altra strategia: - Sentite, facciamo che entra uno per volta. Prima ci siamo solo io e Francesca. “Buongiorno Francesca!”, ed è una. Adesso entra Veronica, che deve stringere la mano a noi due, quindi sono due in più.
…
(Maraschini, 2008, pp. 57-64)
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