UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali
CORSO DI LAUREA IN
TECNOLOGIE DELLE PRODUZIONI ANIMALI
TESI DI LAUREA IN NUTRIZIONE E ALIMENTAZIONE ANIMALE
UNA QUALITÀ “DIVERSA” È POSSIBILE: IL CASO DEL LATTE NOBILE
RELATORE
CANDIDATO
Prof.ssa
Daniele Furio
Serena Calabrò
Matr. N72/387 Anno Accademico 2012 – 2013 1
Un ringraziamento ai miei genitori, per avermi sempre sostenuto e incentivato, ma soprattutto per gli insegnamenti ricevuti che hanno contribuito a rendermi ciò che sono. Un ringraziamento alla mia fidanzata per avermi spinto a migliorare e a dare sempre il massimo. Ai miei piÚ cari amici per avermi incoraggiato e aiutato nei momenti difficili.
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INDICE
PREMESSA
Pag. 4
INTRODUZIONE
Pag. 5
Cenni storici
Pag. 5
Dati statistici
Pag. 7
Qualità del latte e tipi di latte in commercio
Pag. 8
La frazione lipidica ed il profilo acidico
Pag.12
Beta caroteni ed antiossidanti nel latte
Pag.16
Influenza dell’alimentazione sulla qualità del latte Pag.19 Produzione di latte e benessere degli animali IL PROGETTO “LATTE NOBILE”
Pag.20 Pag.23
Disciplinare del Latte Nobile
Pag.27
L’importanza del foraggio
Pag.33
Rapporto foraggio: concentrato
Pag.33
Tipi di foraggio
Pag.35
Essenze foraggere
Pag.36
Qualità del fieno
Pag.39
Alimenti transgenici
Pag.45
Composizione nutrizionale del Latte Nobile
Pag.53
Latte Nobile: un presidio Slow-food
Pag.55
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Pag.56
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Pag.58
Sitografia
Pag.63
3
PREMESSA Il latte, da sempre considerato come alimento importante nella nostra alimentazione, è anche il primo alimento nella vita non solo dell’uomo, ma anche di tutte le specie mammifere. Oltre a soddisfare le esigenze nutrizionali del neonato, il latte è anche il mezzo attraverso il quale la madre, nelle primissime ore di vita, trasmette gli anticorpi al figlio, per sopperire all’insufficiente funzionalità del suo sistema immunitario. A differenza delle altre specie mammifere, che dopo lo svezzamento non si nutrono più di latte per tutto il resto della propria vita, l’uomo continua ad inserirlo nella sua alimentazione proprio perché molto ricco di principi nutritivi nel giusto equilibrio loro. In Italia, i consumatori dispongono di un’ampissima scelta di latte di diversa origine, nonché di numerosi prodotti dell’industria casearia e di quella dolciaria. Attualmente, la realtà produttiva della Regione Campania appare in grave sofferenza e l’unico modo per sopravvivere è sottrarsi alla grande distribuzione del latte commerciale a favore di alcune produzioni tipiche e caratteristiche
dei
nostri
territori,
provvedendo
direttamente
alla
trasformazione. In questo contesto si inserisce il “Latte Nobile”, oggetto della presente tesi, che rappresenta un prodotto attualmente solo di nicchia, caratterizzato da particolarità nutrizionali che si discostano da quelle del latte di massa commercializzato.
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INTRODUZIONE
Cenni storici Per risalire all’origine del consumo di latte da parte dell’uomo bisogna fare un salto indietro nella storia di oltre 5 mila anni. Le popolazioni, inizialmente nomadi, si spostavano seguendo le stagioni per cercare di soddisfare i propri fabbisogni, mangiando soprattutto frutta e tutto ciò che la natura offriva. Queste popolazioni erano costituite da poche centinaia o migliaia di individui, ma divenendo più numerose diventò più difficoltoso spostarsi e di conseguenza procurarsi del cibo che potesse soddisfare i loro fabbisogni. Le civiltà, allora, iniziarono a svilupparsi nei luoghi dove vi erano maggiori opportunità, lungo i fiumi o alle loro foci, e passarono dall’essere nomadi, raccoglitori e cacciatori all’essere sedentari, coltivatori e allevatori. Le prime specie animali allevate ed addomesticate dall’uomo prima che diventasse sedentario furono gli ovi-caprini, che venivano utilizzati soprattutto per la produzione di lana. Stabilizzandosi in un territorio fisso l’uomo iniziò a coltivare e ad allevare la specie bovina che veniva utilizzata esclusivamente per il lavoro (es. aratura dei campi, trasporto). Soltanto dopo furono scoperti i vantaggi che potevano derivare dalle produzioni di carne e latte dei bovini piuttosto che degli ovi-caprini, che oltre a fornire tali prodotti avevano anche il merito d'essere formidabili trasformatori di alimenti praticamente inutilizzabili dall'uomo (foraggi ricchi in fibra). Tuttavia, il primo latte bevuto dalla specie umana è stato il latte di cavalla e di asina. Le popolazioni nomadi dei mongoli che si trovavano in Asia, bevevano il latte delle cavalle, e, come loro, anche le popolazioni che abitavano nella mezza luna fertile e in Africa, che però utilizzavano il latte 5
di asina poiché in quelle zone era molto numerosa la presenza dell’Equusafricanus, progenitore di molte delle attuali specie asinine. Solo più tardi l’uomo ha iniziato ad utilizzare per la propria alimentazione il latte fresco di bovini e di ovi-caprini. Attualmente, come riportato dalla FAO (2013), l’Europa è la maggior produttrice di latte(147.534 t), seguita dagli Stati Uniti (95.717 t) (Figura 1.). Il ruolo del latte nella dieta dell’uomo è sempre stato molto variabile, difatti i suoi consumi variano nelle diverse aree del mondo a seconda della cultura delle varie popolazioni: i paesi tropicali, ad esempio, non sono tipici consumatori di latte, mentre le regioni settentrionali come l’Europa e l’America Settentrionale, oltre ad essere i migliori produttori sono anche i migliori consumatori.
Figura 1. Consumo mondiale pro-capite di latte
Fonte: FAO (2013)
Nella cultura popolare italiana il latte, consumato sia fresco che attraverso i prodotti di origine casearia, ha un ruolo molto importante nel soddisfare le esigenze nutrizionali. Basti pensare che tra il XVIII e la metà del XX 6
secolo veniva usato per prevenire o curare la pellagra, una malattia causata dalla carenza o dal mancato assorbimento di vitamine del gruppo B (es. vitamina PP), presente in genere nei prodotti freschi come latte e verdure. Da ciò si può dedurre come i fabbisogni nutrizionali, seppur inconsciamente, hanno contribuito a plasmare la cultura dell’alimentazione pervenuta sino a noi. Oggi, al contrario, siamo consapevoli delle caratteristiche nutritive del latte, considerato un alimento nutriente e fondamentale per una corretta alimentazione, ed è per questo che lo consumiamo quotidianamente.
Dati statistici In Italia vengono prodotte circa 10.750.600 tonnellate di latte (bovino e bufalino) e di queste 3.189.000 sono destinate al consumo diretto mentre i restanti 7.561.600 sono destinati alla trasformazione nei prodotti lattierocaseari (Assalzoo, 2012). Mediamente il consumo di latte pro capite si attesta non inferiore ai 70 kg/annui, il primato spetta alla regione Veneto nella quale i consumi salgono ai 112 kg/annui. Negli ultimi anni si è fatto registrare un calo delle produzioni dovuto ad un calo dei consumi che hanno messo non poco in difficoltà le aziende agricole italiane. La zootecnia campana in particolare ha fatto registrare, nel quinquennio dal 2008 al 2013, un calo degli allevamenti sia bovini che bufalini. Tuttavia, mentre i capi bovini, soprattutto da latte, sono diminuiti in maniera costante passando dai 240 mila capi agli attuali 175 mila (http://statistiche.izs.it), le bufale sono aumentate con un incremento del 200% negli ultimi venti anni, grazie al prodotto della mozzarella di bufala che ha trainato il mercato locale. Nel campo bovino, in Campania, l’assenza di un prodotto tipico come la mozzarella di bufala è stata determinante ai fini della riduzione del numero di capi allevati; la media per azienda si aggira intorno ai 15 capi
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nel 76% degli allevamenti, a parte alcune eccezioni con oltre 500 o addirittura 1500 capi in lattazione.
Qualità del latte e tipi di latte in commercio Il latte è un liquido alimentare ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa di animali in buono stato di salute e nutrizione. Secondo la normativa vigente (Lege 169/1989), quando si parla di “latte” si intende solo ed esclusivamente il latte di vacca, mentre per il latte degli altri animali è necessario specificare la specie che lo ha prodotto, per esempio: latte di pecora, latte di bufala, latte di capra ecc. Il latte è considerato un alimento fondamentale in una corretta alimentazione. Contiene una serie di nutrienti necessari al nostro organismo in perfetto equilibrio tra loro: glucidi, lipidi, proteine, Sali minerali e vitamine. In particolare, il lattosio è lo zucchero del latte e non si trova in nessun altro alimento di origine vegetale o animale, è sintetizzato interamente dalla mammella ed è facilmente assimilabile. È un disaccaride che si scinde in due zuccheri semplici, glucosio e lattosio, ad opera di un enzima presente nei microrganismi e negli animali, chiamato lattasi. I grassi presenti nel latte sono caratterizzati da una buona digeribilità, essendo naturalmente emulsionato in piccole particelle. Il grasso del latte è costituito in massima parte da trigliceridi propriamente detti (98%) mentre la restante parte è costituita da monogliceridi, digliceridi, fosfolipidi e steroli. I trigliceridi, costituiti da glicerolo e acidi grassi, i quali possono essere a catena corta, media e lunga. Essi sono, in parte sintetizzati dalla mammella ed in parte provengono dal catabolismo delle riserve organiche o direttamente dagli alimenti ingeriti dall’animale. Le proteine del latte hanno un alto valore biologico e molteplici attitudini, ricoprono le necessità fisiologiche relative alla crescita, alla riparazione dei tessuti, formazione di enzimi, anticorpi, ormoni, ecc. Come accennato il 8
latte contiene anche una serie di vitamine essenziali per l’organismo umano, come le vitamine del gruppo B (B12, B2, PP, ecc.) e la vitamina A. Nella sua composizioni chimica ritroviamo anche Sali minerali come calcio e fosforo, in concentrazioni irraggiungibili da altri alimenti, motivo per cui l’assunzione di latte è fortemente consigliata soprattutto in età infantile e adolescenziale per soddisfare il fabbisogno di calcio nei processi di formazione delle ossa. Come riportato in Figura 2., secondo la normativa vigente, il latte commercializzato destinato al consumo diretto deve garantire le seguenti caratteristiche nutrizionali.
Figura 2. Caratteristiche del latte destinato al consumo diretto
Fonte: Legge 169/1989.
Tuttavia, oltre le componenti nutrizionali, nel latte vi sono numerosi composti bioattivi giĂ presenti come tali o che si liberano per idrolisi delle molecole originarie; si tratta di (Baldi et al., 2005): 9
componenti antimicrobiche costituite da numerose proteine-enzimi, ma anche da alcuni lipidi (CLA), glicoconiugati, oligosaccaridi composti ad azione pre-biotica sul micro-bioma intestinale (es. lattoferrina, oligosaccaridi) componenti immunomodulatrici, in grado di attenuare od accentuare la risposta in rapporto alle circostanze (ridurre reazioni di tipo allergico, ma accentuare la difesa dai patogeni); vi sono al riguardo peptidi originari o frutto di idrolisi dalle caseine, così come alcuni lipidi (es. CLA). In commercio sono presenti numerose tipologie di latte, possiamo effettuare una macro distinzione dividendoli in due categorie: latti tradizionali e latti modificati. Il latte tradizionale non ha subito particolari modifiche della composizione se non un addizione o una riduzione del titolo di grasso. Il latte modificato ha invece subito, attraverso procedimenti più o meno complicati, aggiunte di ingredienti particolari o sottrazioni di qualche componente. Le varie tipologie di latte tradizionale hanno subito tutte almeno un trattamento termico. Abbiamo il latte: - pastorizzato: ottenuto mediante un trattamento che comporti un’elevata temperatura per un breve periodo di tempo (almeno 71,7°C per 15 secondi); la sua vita commerciale è di 6 giorni successivi a quello del trattamento termico; - fresco pastorizzato: prodotto da latte crudo che abbia subito un solo trattamento termico entro 48 ore dalla mungitura; la vita commerciale è di 6 giorni; - fresco pastorizzato di alta qualità: prodotto da un latte che non ha subito nessuna sottrazione delle sue componenti naturali. Deve essere confezionato entro 48 ore dalla mungitura e seguire le indicazioni del Decreto Ministeriale n. 185 del 1991 che definisce i 10
criteri igienico sanitari e di composizione del latte crudo destinato alla produzione di latte pastorizzato di alta qualità; - pastorizzato microfiltrato: prodotto da latte crudo sottoposto ad un processo di microfiltrazione abbinato al trattamento termico; la vita commerciale è di 10 giorni; - pastorizzato ad alta temperatura: il trattamento termico è effettuato con una temperatura maggiore rispetto alla pastorizzazione classica, ne deriva una vita commerciale superiore al latte pastorizzato classico; - U.H.T.: sottoposto ad un procedimento di riscaldamento a flusso continuo che richieda l’impiego di una temperatura elevata per un breve periodo di tempo (135°C per 1-2 secondi); la sua vita commerciale è di 90 giorni.
I latti modificati, invece, si dividono in: - latte concentrato: ottenuto per eliminazione parziale dell’acqua, con l’eventuale aggiunta di crema di latte e zucchero; - latte ad alta digeribilità: con ridotto contenuto di lattosio (2,5%), utilizzato dai soggetti intolleranti al lattosio; - latte fortificato: che prevede l’aggiunta di calcio, vitamine, ferro e altri Sali minerali; - latte Omega 3: prevede l’aggiunta artificiale di acidi grassi polinsaturi della serie Omega 3; - latte probiotico: addizionato dopo la pastorizzazione con colture di fermenti lattici ad azione probiotica; - latte aromatizzato: addizionato con aromi naturali o altri aromi.
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Tra le varie tipologie di latte in commercio troviamo anche il latte crudo, non sottoposto a nessun trattamento con temperature superiori ai 40°C, prima della vendita può essere solo refrigerato ad una temperatura inferiore ai 4°C. Il Regolamento CE 853/2004 autorizza la commercializzazione di latte crudo per il consumo umano diretto. Il latte crudo può essere venduto direttamente in azienda dal produttore al consumatore finale, oppure attraverso dei distributori automatici nei quali il latte deve essere mantenuto a temperatura di refrigerazione. Questi distributori possono essere collocati o all’interno o in prossimità delle aziende agricole.
La frazione lipidica ed il profilo acidico La qualità di un prodotto si definisce in base all’equilibrio che si instaura tra le necessità e le richieste del consumatore e i requisiti qualitativi del prodotto che sono: la qualità nutrizionale, la qualità igienica, la qualità organolettica, qualità tecnologica e qualità sanitaria. Riguardo la qualità nutrizionale, la componente di maggiore interesse è senza dubbio la frazione lipidica. Recenti studi hanno rivalutato i benefici del grasso presente negli alimenti di origine animale, che, grazie alla presenza di acidi grassi polinsaturi (quelli della serie omega-3 e i CLA) e di vitamine liposolubili, conferiscono un ruolo importante per la salute umana. Il grasso del latte è la miscela lipidica più complessa presente in natura, la sua composizione varia a seconda degli acidi grassi che lo compongono (Figura 3.). Questi, infatti, sono la componente più importante comune a tutte le classi di lipidi e come tali svolgono delle importanti funzioni strutturali energetiche e metaboliche. Gli acidi grassi, in funzione del numero di atomi di carbonio in essi contenuti, si dividono in: acidi grassi a corta catena composti da 4 a 10 atomi di carbonio, media catena dagli 11 ai 17 atomi di carbonio, lunga catena con 18 e più atomi di 12
carbonio; in funzione dei doppi legami presenti, si dividono in acidi grassi saturi e insaturi e cis e trans, in funzione dell’orientamento dei doppi legami nello spazio. Gli acidi grassi a corta catena sono sintetizzati nella ghiandola mammaria, quelli a catena lunga derivano dal sangue mentre quelli a media catena provengono dalle fermentazioni ruminali (Figura .4.).
Figura 3. Principali acidi grassi del latte bovino
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Fonte: Salvadori Del Prato, 1998
Figura 4. Sintesi e filtrazione dei componenti presenti nel latte
I più interessanti acidi grassi presenti nel latte sono: l’acido linoleico coniugato (CLA) e l’acido alfa linoleico(ALA). I prodotti di origine animale come il latte e i suoi derivati sono la fonte esclusiva di CLA nella dieta umana. Con il termine CLA si intende una miscela di isomeri, geometrici e posizionali dell’acido linoleico coniugato che rivestono una notevole importanza dal punto di vista metabolico e nutrizionale. La presenza del CLA nel latte deriva dalla presenza di batteri ruminali capaci di effettuare l’isomerizzazione degli acidi grassi polinsaturi, provenienti dalla dieta (Figura 5.). Numerosi studi hanno dimostrato che, il CLA svolge un’azione anticancerogena, antiaterogenica e di attivatore immuno stimolatore (Secchiari et al., 2001). Gli acidi grassi della serie omega-3 (es. acido alfa linoleico) sono presenti negli animali di origine marina e nel mondo vegetale e devono essere 14
assunti obbligatoriamente con la dieta perché non sono sintetizzati negli organismi animali. L’acido alfa linolenico è il più rappresentato, ha una funzione ipo-colesterolemizzante, seguito da EPA e DHA presenti in quantità più modeste. Degli acidi EPA e DHA è noto il ruolo essenziale nel modulare importanti funzioni del sistema biologico cardiovascolare e nervoso e per l’azione antiinfiammatoria.
Figura 5. Produzione di CLA nei ruminanti
La componente lipidica del latte, risulta tuttavia molto variabile in finzione di numerosi aspetti, legati all’animale (es. specie, individuo, fase fisiologica)
e
all’ambiente
(es.
tipo
di
allevamento,
gestione
dell’alimentazione). Attraverso particolari accorgimenti nell’alimentazione degli animali è possibile modificare la qualità del grasso del latte, alcuni di questi prevedono l’additivazione di grassi artificiali attraverso i concentrati; 15
è tuttavia possibile garantire un’ottima qualità della frazione lipidica del latte attraverso un’alimentazione più “naturale” (Walker, 2004).. L’utilizzo di strategie naturali vengono sfruttate soprattutto in territori come quelli del bacino mediterraneo dove la vasta gamma di specie vegetali presenti rappresentano la meno costosa, ma anche più utilizzata fonte alimentare. Queste strategie influenzano la quantità, ma soprattutto la qualità del latte, in termini di profilo acidico del grasso.
Beta caroteni ed antiossidanti nel latte Il beta carotene riveste una importanza fondamentale nella nutrizione umana, è infatti la forma più attiva di pro-vitamina A, nonché un importante fotoprotettivo e antiossidante. I caroteni sono dei pigmenti naturali responsabili di molti colori sia di vegetali che di pesci crostacei, uova e altri organismi. Il colore del beta carotene varia dal giallo all’arancio, la sua presenza influenza la pigmentazione del grasso del latte e di conseguenza dei suoi derivati. Il colore giallo di un formaggio ben stagionato non dipende infatti dalla percentuale di grasso, ma dalla presenza o meno di beta carotene. Il beta carotene non è presente nel latte di tutte le specie animali, infatti il latte di bufala, capra e pecora non ne contengono quantità determinabili. Nel latte vaccino il beta carotene è presente e la sua percentuale dipende dal tipo di alimentazione. Queste caratteristiche consentono di differenziare il latte vaccino e i suoi derivati a seconda che siano essi ottenuti da animali allevati al pascolo o allevati in stalla, poiché il latte derivante da animali allevati al pascolo è più ricco di beta carotene rispetto agli animali allevati in stalla con un alimentazione ricca di concentrati. Negli ultimi venti anni il livello di beta carotene contenuto nel latte è andato drasticamente riducendosi (Figura 6.). Questo risultato, chiaramente non desiderato, è stato un effetto collaterale derivante dalle scelte manageriali effettuate da una zootecnia più orientata verso gli 16
allevamenti intensivi (Manzi, 2011). Nel grafico è evidente il progressivo impoverimento di beta carotene nel latte. Il piccolo aumento fatto registrare nei campioni del 2009 sta ad indicare forse un cambio di tendenza che sarà da valutare nei prossimi anni. Questa crescita dipenderà soltanto da un effettivo miglioramento dello stile di vita dell’animale e quindi anche dall’adozione di una gestione manageriale degli allevamenti diversa da quella intensiva attualmente più utilizzata.
Figura 6. Variazione del beta carotene nel latte vaccino italiano negli ultimi 20 anni
Fonte: Pizzoferrato e Manzi, 2010.
A dimostrazione di ciò si può consultare il successivo grafico (Figura 7.) che dimostra come il livello di beta carotene contenuto nel latte italiano biologico sia maggiore di quello presente nel latte italiano intensivo, limitatamente al 2002 nel caso specifico, poiché l’alimentazione di tipo biologico sia più ricca di erba fresca rispetto all’alimentazione intensiva. La dieta meno ricca di erba fresca ha diminuito la percentuale di beta carotene, a differenza del colesterolo che invece si è mantenuto costante nel tempo. 17
Uno studio effettuato sul latte del Nord Europa confrontato con il latte italiano ha dimostrato che gli allevamenti del Nord Europa, con animali allevati con erba fresca, garantiscono un prodotto qualitativamente migliore. Nei prodotti che derivano dal Nord Europa si ha una maggiore protezione del colesterolo da parte delle molecole antiossidanti del latte. Il colesterolo
presente
nel
latte
non
dipende
però
esclusivamente
dall’alimentazione, al contrario un aspetto molto importante è dato anche dallo stile di vita del bestiame. L’animale al pascolo infatti fa un’attività fisica più intensa rispetto all’animale allevato in stalla e perciò presenta un livello di colesterolo significativamente inferiore e questo vale anche per il colesterolo trasferito nel latte.
Figura 7. Variazioni del beta carotene nel latte vaccino in diversi sistemi di allevamento e territori
Fonte: Pizzoferrato e Manzi, 2010.
Risultati di un recente studio Pizzoferrato e Manzi (2010) confermano che il latte vaccino crudo do massa prodotto da animali allevati al pascolo, 18
rispetto a quelli allevati in modo intensivo ed alimentati con insilato, fieno o concentrato, presenta, a fronte di livelli di colesterolo medio bassi, valori più alti di GPA (Grado di Protezione Antiossidante), un indice di qualità antiossidante, dato dal rapporto molecolare tra due antiossidanti (alfatocofenolo e beta carotene) e il colesterolo, molecola bersaglio di ossidazione. Ciò significa che il colesterolo presente nel latte proveniente da animali allevati al pascolo è maggiormente protetto dalle reazioni ossidative rispetto a quelli allevati con tecniche intensive (Figura 8.).
Figura 8. Contenuto in grasso e composti della frazione in saponificabile nel latte proveniente da animali alimentati diversamente
Fonte: Pizzoferrato (2007) Influenza dell’alimentazione sulla qualità del latte Il tipo, la quantità e la modalità di somministrazione degli alimenti influenza in maniera determinante il benessere delle bovine e la produzione quanti-qualitativa di latte. Ad esempio, il rapporto tra foraggi e concentrati (F:C) influenza la capacità di ingestione, la quantità di saliva prodotta, la velocità e il tipo di fermentazioni che avvengono nel rumine, nonché il destino e la disponibilità dei nutrienti; tutti questi fattori determinano poi le produzioni dell’animale (Formigoni e Piva, 1996). Anche l’apporto di
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energia
attraverso
alimenti
facilmente
degradabili,
composti
prevalentemente da amidi, è un fattore determinante per migliorare la produzione quantitativa di latte. Non bisogna, però, sottovalutare l’importanza di un corretto equilibrio tra i vari principi nutritivi, così che si possano esprimere naturalmente le capacità produttive di un individuo. Utilizzando un giusto equilibrio tra foraggi e concentrati e impiegando foraggi di migliore qualità si possono ottenere i risultati quanti-qualitativi desiderati. Gli alimenti oltre a influenzare la composizione chimica del latte, intesa come frazione lipidica e proteica, conferisce anche peculiari sapori e aromi che discendono in gran parte da particolari sostanze contenute nei foraggi, soprattutto freschi, come: acidi grassi a corta catena, terpeni, sesquiterpeni, composti aromatici, tocofenoli e carotenoidi. (Mordenti e Pecorari, 1999). Queste sostante sono in grado di modificare le caratteristiche organolettiche del latte e dei formaggi da esso ottenuti, rendendo “tipico” di territorio un prodotto con particolari caratteristiche. Gli alimenti costituiscono, infatti, il legame fra l’ambiente inteso come territorio di allevamento e il latte.
Produzione di latte e benessere degli animali Il latte commercializzato in Italia è prodotto in allevamenti intensivi e proviene da vacche lei cui condizioni di salute e di benessere non sono del tutto ottimali. Nonostante negli ultimi anni il concetto di benessere sia stato sempre più associato alla qualità delle produzioni, e gli allevatori cerchino, per stare al passo con le nuove norme, migliorando le condizioni degli animali in allevamento, la lunghezza della vita produttiva di un animale continua a diminuire. A titolo di esempio, si riporta che il numero medio di lattazioni dal 1980 al 2004 della Frisona, la razza bovina più allevata in Italia, è sceso dal 2,87 al 2,48 e, di conseguenza, la presenza di primipare nella mandria in lattazione è salito dal 1980 al 2004 dal 26,8% al 34,6%. 20
Figura 9. Dati sul benessere in vacche da lette
Questi dati fanno percepire senza molta difficoltà come la selezione e il management dell’allevamento molto spinti verso la quantità e la qualità industriale del latte riducano sensibilmente quella che è la lunghezza fisiologica della vita produttiva degli animali. Per “qualità industriale” intendiamo i parametri standard come cellule somatiche, carica batterica, titoli di grasso e proteine, che vengono, per legge, costantemente monitorati. Al di la di questi, però, vi sono una serie di parametri impercettibili che condizionano il latte e l’attitudine del latte stesso ad essere trasformato in formaggi di elevata qualità organolettica e nutrizionale. Vi sono moltissimi studi sulla relazione tra benessere e quantità del latte, ma pochissimi riguardanti questi parametri meno evidenti ma sostanziali in termini di qualità totale della materia prima e dei suoi derivati. Nel 2009 l’EFSA (Autorità Europea per la sicurezza alimentare) attraverso i suoi esperti scientifici del gruppo Animal Health and Welfare, ha espresso un parere assai negativo sulla salute e sul benessere degli animali degli allevamenti intensivi, dichiarando, in un suo rapporto che “L’onda lunga della selezione genetica finalizzata alle elevate produzioni di latte è la causa principale dell’insoddisfacente livello di benessere delle 21
vacche da latte legato, in particolare, a problemi sanitari. L’aumento della produzione di latte per vacca non conosce freno e per effetto di una selezione che insiste sull’obiettivo dell’iperproduttività delle lattifere, ogni anno la media di produzione del “parco vacche” allevate in condizioni intensive aumenta di oltre un quintale di latte per lattazione.” Gli aumenti delle produzioni, come già accennato, sono una risultante del management dell’allevamento che comprende l’alimentazione, la selezione e la tecnicizzazione dell’allevamento. Da ciò ne deriva come l’aumento della produzione sia a discapito della salute dell’animale, ciò è dimostrato dal crescente valore del quoziente di avvicendamento annuo. Questo esasperato aumento delle produzioni, passate dai 3000 kg di una vacca da latte negli anni ’60 agli attuali 9000 kg di latte per lattazione di una Frisona, hanno portato la vacca a produrre 10 volte quello che è il fabbisogno del vitello, ossia il livello naturale della secrezione di latte. La selezione produttiva ha modificato anche le caratteristiche morfologiche delle vacche che sono diventate più alte e più magre, aumentando così anche la vulnerabilità alle lesioni a carico delle parti esterne come pelli, arti e unghioni. La componente genetica legata alla produzione lattea è risultata correlata con l’incidenza di laminiti, mastiti, disturbi riproduttivi e metabolici. Al fine di migliorare il benessere delle vacche da latte è urgente promuovere la revisione dei criteri utilizzati per la selezione genetica nell’ambito della produzione lattiera.
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IL PROGETTO LATTE NOBILE Il “Progetto Latte Nobile” (NOBILAT) nasce dalla volontà di produrre un latte diverso, di qualità nutrizionalmente superiore alla media dei latti che normalmente sono disponibili sul mercato. Il latte è, oramai, considerato un prodotto standardizzato e uguale, ma così non è. Infatti, se si andasse a valutare il latte stalla per stalla nelle varie aziende, il consumatore potrebbe rendersi conto delle differenze qualitative e sensoriali che derivano da determinate scelte zootecniche, agronomiche e imprenditoriali che ovviamente influenzano il prodotto finale. Un gruppo di piccoli allevatori dell’entroterra campano, tra le province di Avellino e Benevento, con una media di 15 capi in lattazione ciascuno e la possibilità di destinare ampie superfici agricole ad erba e fieno ha intrapreso la commercializzazione di questo particolare prodotto con il marchio “Latte Nobile dell’Appennino Campano”. I produttori, riuniti nell’Associazione Produttori del “Latte Nobile dell’Appennino Campano” LaNAC), hanno saputo cogliere con convinzione l’opportunità di valorizzare il proprio esclusivo prodotto. A sostegno di questo progetto ci sono stati sin dall’inizio l’assessorato all’Agricoltura della Regione Campania e l’ANFoSC (Associazione Nazionale Formaggi sotto il Cielo) di Potenza che hanno fornito loro la consulenza tecnica. L’Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania, assieme allo staff tecnico di Stapa (Settore Tecnico Amministrativo Provinciale Agricoltura) e Cepica (Centri Provinciali di Informazione e Consulenza in Agricoltura), ha ben recepito e prontamente attuato la proposta dell’ANFoSC di produrre un latte di qualità superiore a quelli comunemente in commercio. L’ANFoSC è un'Associazione senza fini di lucro, nata nel 1995, per tutelare e valorizzare 23
i formaggi prodotti esclusivamente con il latte di animali allevati al pascolo. L'associazione si propone di far conoscere la specificità e le caratteristiche organolettiche di questi formaggi. IL progetto NOBILAT è stato approvato nell’ambito della Misura 124 HC della Regione Campania, “Cooperazione per lo sviluppo dei nuovi prodotti, processi e tecnologie nei settori agricolo, alimentare e forestale" (2007-2013), ambito Operativo 3.2.2. “Innovazioni connesse al miglioramento della competitività del settore lattiero-caseario”, il progetto di ricerca del latte bovino”. Il progetto NOBILAT ha anche lo scopo di sensibilizzare il consumatore affinché percepisca il latte non come un prodotto standard, ma come un prodotto tipico per il quale si possa parlare di vera e propria cultura zootecnica e lattiera locale, e di eccellenza laddove tutte le componenti del prodotto latte si esprimono ai massimi livelli, così come accade per i vini o per tutti quei prodotti tipici italiani. L’alimentazione, il territorio, il benessere e il rispetto dell’animale sono componenti fondamentali che incidono sulla qualità del prodotto, caratterizzandolo e differenziandolo dagli altri. Il Latte Nobile, oltre ai requisiti imprescindibili del latte industriale (tenore in grasso e proteine, contenuto in cellule somatiche e carica microbica), aggiunge al prodotto una rilevante presenza di acidi grassi “buoni”, i polinsaturi della serie Omega-3 e CLA, nonché antiossidanti, beta-carotene e vitamina E in proporzioni ben superiori a quelle di un latte comune (Figura 10.). Tali nutrienti, essendo originariamente presenti nel latte e non aggiunti a posteriori artificialmente, hanno anche un’efficacia massima sulla salute del consumatore. Queste particolari caratteristiche sono il frutto di un management che si discosta dall’allevamento intensivo e si avvicina ad un allevamento più estensivo nel rispetto del benessere degli animali, che se pur con minori produzioni ricambiano con un latte di migliore qualità. 24
Figura 10. Caratteristiche nutrizionali del Latte Nobile e non
La ricchezza di fiori e delle essenze presenti nei pascoli naturali dell’appennino avellinese e beneventano è straordinaria. Le vacche che si nutrono delle erbe e dei fieni di quei territori producono un latte ricco di aromi, molecole antiossidanti come il beta-carotene e la vitamina E ed hanno un contenuto maggiore di acidi grassi della serie Omega-3 e CLA. Il CLA è un acido grasso che si forma proprio nel rumine ad opera della microflora batterica ruminale, e che l’uomo assorbe prevalentemente attraverso latte e latticini. Gli Omega-3 e Omega-6 sono acidi grassi essenziali che il nostro organismo non è in grado di produrre attraverso reazioni biochimiche e perciò devono essere introdotti con la dieta. Sono fondamentali per la produzione delle nostre membrane e importantissimi nel metabolismo del colesterolo. Per far fronte al nostro fabbisogno naturale di questi acidi grassi, l’industria commercializza del latte addizionato artificialmente con gli Omega-3 ricavati dall’olio di pesce, 25
mentre il Latte Nobile dell’Appennino campano ne contiene naturalmente il doppio (Pizzoferrato, 2010). Tutto ciò è reso possibile dall’ambiente incontaminato in cui operano queste aziende, ricco di boschi e di pascoli che difficilmente si prestano ad altre attività economiche e di conseguenza vengono destinati al libero pascolo delle vacche da latte che si nutrono, pertanto, quasi esclusivamente di materie prime prodotte direttamente in azienda e originarie di quel territorio.
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Disciplinare del Latte Nobile Di seguito si riporta il disciplinare proposto nell’ambito del progetto NOBILAT (http://www.lattenobile.it).
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31
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Dunque, per quanto riguarda gli aspetti strettamente legati alla gestione dell’alimentazione, come riportato nel Disciplinare del Latte Nobile, la presenza di consistenti quantità di foraggio (70% della razione) di buona qualità nella razione della bovina è fondamentale per ottenere le elevate caratteristiche nutrizionali del latte. Inoltre, tra le altre materie prime costituenti la razione, si fa chiaramente riferimento al divieto assoluto di utilizzare alimenti geneticamente modificati (OGM), come ad esempio la soia f.e., ampiamente impiegata come fonte proteica negli allevamenti intensivi. L’importanza del foraggio In particolare, per quanto riguarda i foraggi, gli aspetti della razione da analizzare interessano il rapporto foraggio: concentrato (F:C), l’assenza totale di foraggio insilato, la buona qualità del fieno e la presenza di diverse (almeno sei) essenze foraggere.
Rapporto foraggio: concentrato (F:C) La composizione chimica del latte è strettamente dipendente dalla dieta somministrata agli animali, soprattutto la percentuale di grasso. Un aspetto che può modificare questo parametro è il rapporto foraggi: concentrati. Quando la percentuale di foraggi nella dieta supera il 60-70% non si osservano variazioni significative sulla percentuale di grasso nel latte, al contrario una razione povera di foraggi a favore di una percentuale maggiore di concentrati, determina condizioni sfavorevoli alla crescita e allo sviluppo di batteri cellulosolitici, necessari per la digestione dei carboidrati strutturali degli alimenti vegetali senza i quali non è possibile, a vantaggio di altri microrganismi che attaccano la componente proteica e l’amido. Negli allevamenti intensivi, le razioni per gli animali da latte soprattutto, sono caratterizzate da una quota di concentrati energetici, 33
soprattutto cereali, molto elevata che raggiunge anche il 50 %. L’aumento della quota di amidi assunti dall’animale influisce in maniera consistente sul pH ruminale. Quando il rapporto F:C è al 50 % il pH ruminale si aggira su valori fra il 6,0 e il 5,5. In queste condizioni è massima la produzione di acido propionico, che raggiunge il 25% degli AGV prodotti. Ciò comporta una massima produzione di glucosio e una conseguente deposizione dello stesso nel tessuto adiposo dell’animale (McDonald et al., 1992). Questo fenomeno può essere “positivo” nei bovini all’ingrasso, ma non lo è nelle vacche da latte poiché si può verificare una caduta del tenore di grasso nel latte. Se aumenta ulteriormente la quota di concentrati somministrati il pH ruminale si abbassa ulteriormente raggiungendo valori compresi tra il 5,5 – 5,0. Questi valori di pH provocano un aumento della produzione di acido butirrico a scapito di quello propionico, con conseguente produzione in eccesso di corpi chetonici, e contemporaneamente un innalzamento dell’acido lattico. Le conseguenze patologiche che si generano sono: acidosi ruminale e eccesso di acido lattico nel sangue che provoca acidosi metabolica e conseguente affaticamento dei reni e del fegato. Queste condizioni si ripercuotono sullo stato generale di salute dell’animale anche a discapito della qualità delle produzioni stesse; tuttavia tali condizioni favoriscono l’incremento della quantità di queste ultime, motivo cardine che spinge gli allevatori ad adottare queste tecniche di allevamento. Il rapporto ideale foraggi: concentrati è 70: 30. Questa condizione ottimale per la vacca da latte instaura un pH compreso tra 6,5 e 6,1. La produzione dei diversi AGV in queste condizioni è in perfetto equilibrio (acido acetico 60-70%, propionico 15-20%, butirrico 10-20%), l’acido propionico consente una sufficiente produzione di glucosio mentre l’acido acetico determina una buona sintesi dei lipidi del latte, influenzando positivamente lo stato generale di salute dell’animale (Succi e Hoffmann, 1997).
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Tipi di foraggio Nella razione delle bovine da latte, si possono utilizzare varie tipologie di foraggio, in particolare possono essere utilizzati foraggi freschi e foraggi conservati mediate essiccazione (fieni) o insilamento. Il foraggio fresco contiene una percentuale molto bassa di lipidi grezzi (13%), che si ritrovano soprattutto sottoforma di glicolipidi e di fosfolipidi. I glicolipidi vengono idrolizzati e ridotti dai batteri ruminali. In una dieta basata sul pascolo l’assunzione di erba fresca modifica il profilo di acidi grassi prodotti dalla popolazione ruminale, rispetto ad una dieta che prevede l’assunzione di elevate quantità di concentrati. Un maggior consumo di foraggi favorisce la crescita dei batteri cellulosolitici che, a seconda dello stato di lignificazione della fibra, attaccano la componente lipidica e favoriscono l’idrogenazione degli acidi grassi insaturi presenti. Tutto ciò comporta un abbassamento della percentuale di acidi grassi saturi a media-lunga catena e un aumento della frazione insatura nel latte proveniente da animali allevati con una percentuale elevata di foraggio fresco. Il principale acido grasso presente nel foraggio fresco è l’acido alfalinoleico
che
nel
rumine
viene
idrogenato
ad
acido
stearico.
L’idrogenazione non del tutto completa, determina la presenza nel latte di una quota di acido alfa-linoleico, acido vaccelenico e acido vaccenico che sono metaboliti intermedi del processo di bioidrogenazione, motivo per cui il contenuto di CLA aumenta notevolmente quando le vacche sono alimentate al pascolo. Anche lo stato vegetativo del foraggio influenza la concentrazione di CLA, infatti foraggi tagliati precocemente aumentano la qualità degli acidi grassi presenti nel latte rispetto ai foraggi più maturi. I foraggi essiccati contengono una minore percentuale di PUFA (acidi grassi polinsaturi) a causa sia dei fenomeni ossidativi, che incidono per il 70%, sia per le perdite meccaniche durante l’affienamento, poichè una quota di foglie, che rappresentano la parte della pianta più ricca in acidi 35
grassi, viene distrutta o persa durante questo procedimento (Succi e Hoffmann, 1997). Anche durante la conservazione del foraggio mediante insilamento, avvengono i processi ossidativi, che risultano ancora più intensi del normale, ciò contribuisce ad una ulteriore diminuzione della quota di PUFA presenti nel foraggio insilato, e quindi nel latte prodotto dalle bovine ce se ne alimentano.
Essenze foraggere Lo studio della frazione volatile del latte è campo di indagine recente, a differenza di quanto è avvenuto per altri prodotti agricoli, come ad esempio il vino. A ciò si aggiunga che le tecniche di analisi stanno evolvendo (Xanthopoulos et al., 1994), per cui si possono trovare solo limitati riscontri in letteratura. I risultati ottenuti non sono quindi di semplice interpretazione, anche perché l'origine dei composti volatili è molto complessa. L’alimentazione e le condizioni di allevamento influiscono sulle caratteristiche aromatiche del latte come anche del formaggio. I composti volatili odorosi presenti nel latte bovino appartengono a sei classi chimiche distinte: esteri, aldeidi, chetoni, alcoli, lattoni e composti aromatici (Barcarolo et al., 1992; Weidong et al., 1997) e sono responsabili delle diverse famiglie di sapori e odori (Moio et al., 1996). Tuttavia, l'attribuzione di un aroma o un odore noto a un composto volatile non è semplice, in quanto dipende dalla sua concentrazione nel prodotto, dalla soglia olfattiva, che varia da molecola a molecola, e dalla presenza e concentrazione di altre molecole volatili (Delahunty e Piggot, 1995). Le aldeidi nella frazione volatile del latte hanno duplice origine: derivano dai lipidi (C5:C11, es: pentanale, eptanale), oppure dalla degradazione dello scheletro carbonioso di alcuni aminoacidi (es: 3-metilbutanale) (Moio et al., 1993 a, b; Weidong et al., 1997). La loro importanza nel determinare 36
l’aroma del latte è rilevante. Ad esempio, elevate quantità di 2metilbutanale e 3-metilbutanale sono associate ad odori crudi e spiacevoli. Viceversa le aldeidi a catena lineare sono state identificate come responsabili di aromi erbacei (Engels et al., 1997). Gli alcoli possono derivare per trasferimento diretto dall'alimento al latte, specialmente qualora si utilizzino insilati nella razione, o per contaminazione con l'ambiente della stalla, ma possono originare anche dalla riduzione delle corrispettive aldeidi (alcoli primari) o dal catabolismo di aminoacidi (alcoli secondari). La maggior parte degli alcoli sono associati a odori, oltre che alcolici, leggermente fruttati (Moio et al., 1993a). La classe dei chetoni origina dall'ossidazione degli acidi grassi liberi e dalla successiva decarbosilazione. Gli esteri sono dei composti in genere poco presenti nel latte, e rappresentano meno dell'1% del totale della frazione volatile. La presenza degli esteri nel latte molto fresco, in particolare degli etil-esteri, sarebbe dovuta all'attività di esterasi nella ghiandola mammaria, mentre nella fase di conservazione si formerebbero per l’attività enzimatica dei batteri lattici (Moio et al., 1993a). I composti alifatici, presenti in minime concentrazioni, sono associati a odori piuttosto deboli, ma non piacevoli. Non sono stati trovati in letteratura riscontri per quanto riguarda l'origine, che sembra, comunque, prettamente ambientale. I composti solforati derivano dal metabolismo endogeno degli aminoacidi solforati, quindi non da un'attività enzimatica successiva alla secrezione ghiandolare. Essi sono molto attivi dal punto di vista olfattivo, in particolare al dimetilsulfone si associa l'aroma di latte bruciato (Moio et al., 1993a; Moio et al., 1993b). Infine, la classe dei terpeni dipende esclusivamente dall'alimentazione, ed in particolare modo dalla composizione botanica dei foraggi. Alcuni autori hanno applicato lo studio della classe dei terpeni per l'identificazione della variabilità dei formaggi prodotti in stagioni diverse, e ancor più tra i prodotti di pianura e di montagna (Dumont e Adda, 1978; Verdier et al., 37
1995). La presenza di α-pinene nel latte sembra derivare dall’alimentazione con elevate percentuale di fieni (Engels et al., 1997). L'effetto della base foraggera della razione sulla presenza e sulla quantità di aromi è stato studiato in dettaglio da Moio et al., (1996) per il latte di pecora. Gli autori hanno osservato che la somministrazione di foraggi prodotti da pascolo naturale è in grado di modificare in modo sostanziale la presenza di alcuni composti odorosi nel latte rispetto a quelli rilevabili in seguito alla somministrazione di foraggi di graminacee o di una razione ricca di concentrati. Recentemente Moio e Addeo (1998) hanno identificato 14 composti volatili che rappresenterebbero l'ossatura aromatica del Grana Padano, la quale è diversa anche in relazione alla zona d'origine. Una recente ricerca ha studiato l'effetto della composizione della razione sulla presenza di composti volatili nel latte (Toso et al., 2002). A tale scopo sono stati confrontati campioni di latte prelevati da aziende che differivano per gli ingredienti della razione. Un gruppo di aziende utilizzava solo fieno e concentrato, un secondo somministrava alle bovine da latte insilato di mais (circa il 60% della sostanza secca) ed un terzo gruppo utilizzava nella razione anche insilati di graminacee. Il numero totale di composti volatili trovato nei campioni è stato di 42, di cui 8 chetoni, 9 aldeidi, 8 alcoli, 4 composti solforati, 4 esteri, 3 terpeni e 6 idrocarburi. Il confronto fra gruppi di aziende ha indicato una maggiore presenza di chetoni, alcoli ed aldeidi nei campioni di latte delle bovine alimentate con solo fieno come foraggio, e, di conseguenza, anche del totale di composti volatili (Figura11.). La presenza degli acidi grassi, quindi, è ritenuta fondamentale anche per la determinazione dell’aroma e nella definizione del “flavour” dei prodotti caseari, rappresentando essa stessa una sorgente di costituenti volatili aromatici (Bailoni et al., 2005). Se da un lato quindi, un tasso lipidico più elevato consente una migliore valorizzazione casearia del prodotto finale,
38
dall’altro occorrerà discriminare in particolare tale frazione dal punto di vista qualitativo. Figura 11. Composti volatili (µg/kg) nei campioni di latte di bovine alimentate con razioni di composizione diversa
Fonte: Toso et al. (2002)
Qualità del fieno La necessità di avere a disposizione i foraggi per gli animali in produzione durante tutto il periodo dell’anno ,compresi i periodi nei quali non vengono prodotti o non vengono prodotti a sufficienza, ha reso indispensabile l’utilizzo di tecniche specializzate per la conservazione dei foraggi stessi. L’introduzione di tecniche di rapido essiccamento ha notevolmente migliorato l’efficienza di questo metodo di conservazione non trascurando la qualità del foraggio. La qualità del foraggio, infatti, influisce sulle produzioni degli animali ai quali viene somministrato, soprattutto se incide per buona parte sulla razione totale. Lo scopo della fienagione è creare delle condizioni che limitino il più possibile i fenomeni degenerativi della sostanza organica riducendo il contenuto in acqua del foraggio verde. La fienagione rappresenta il metodo
39
più tradizionale per conservare il foraggio trasformando l’erba appena sfalciata in fieno. L’essiccazione del foraggio avviene in due modi: fienagione tradizionale fienagione in due tempi. La fienagione tradizionale viene effettuata esclusivamente in campo, il foraggio viene sfalciato e lasciato essiccare in campo fino al raggiungimento dell’ 80% di sostanza secca (S.S.) in confronto al 15% iniziale. I tempi di essiccazione diminuiscono notevolmente in estate. La fienagione in due tempi consta di un periodo iniziale di fienagione in campo, successivamente il processo viene ultimato in fienili dotati di attrezzature destinate alla ventilazione dei foraggi imballati. Le perdite di sostanze nutritive che influiscono sulla qualità del fieno si ripercuotono anche sulle produzioni animali. Queste possono essere imputabili a molteplici fattori: perdite dovute alla respirazione cellulare: i processi di respirazione si protraggono finché il foraggio non raggiunge il 60% di S.S., durante i quali i glucidi in presenza di ossigeno vendono trasformati in anidride carbonica, acqua e calore; le perdite sono contenute se l’essiccazione è più rapida; perdite per cause meccaniche: queste perdite si verificano durante le operazioni meccaniche di rivoltamento, spargimento, raccolta; sono maggiori quanto più secco è il foraggio; perdite dovute alla pioggia: tali perdite possono colpire maggiormente i foraggi raccolti nell’ultimo periodo autunnale esposti maggiormente alle condizioni climatiche; perdite per eccessi fermentativi durante la conservazione: ad opera di microrganismi (batteri e muffe) sono maggiori quanto più alta è l’umidità del fieno da conservare.
40
I fenomeni chimici e le conseguenti perdite, come accennato nell’ultimo punto, non cessano alla fine del processo di fienagione ma possono proseguire durante la conservazione. L’umidità elevata può innescare delle modificazioni chimiche, cosi come un riscaldamento prolungato del fieno può avere effetti negativi sul contenuto proteico del fieno. La sensibilità delle proteine agli effetti del calore è collegata anche alla presenza di zuccheri. La temperatura elevata può innescare una serie di complesse reazioni chimiche tra zuccheri e proteine che vanno ad incidere sulla qualità nutrizionale del fieno. Una attenta stima della qualità fieno viene effettuata mediante la valutazione della composizione floristica, del rapporto steli/foglie, della consistenza, del colore, dell’odore, e dell’eventuale presenza di essenze infestanti (Bittante et al., 2007). Un buon fieno: - deve avere un colore tendente al verde: l’ingiallimento è imputabile alle piogge o comunque ad una eccessiva permanenza in campo, mentre l’imbrunimento è causato dal riscaldamento che ne abbassa digeribilità e valore nutritivo; - deve essere foglioso e morbido; il rapporto steli/foglie dipende dall’essenza foraggera e dall’epoca di sfalcio, il fieno di un prato stabile è generalmente più foglioso di quello ottenuto da un prato avvicendato; un fieno grossolano, costituito da poche foglie e steli duri e pungenti, è dovuto per lo più a un ritardo nello sfalcio e a perdite subite nel corso della fienagione; - deve avere un buon odore, tipico del fieno, e non presentare alterazioni; un fieno putrito, marcio o contenente muffa non può essere somministrato alle bovine; - deve essere esente da impurità e non contaminato da agenti infestanti.
41
Nell’ambito del Progetto Latte Nobile, il gruppo di Nutrizione e Alimentazione animale del Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animale (DMVPA) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha collaborato partecipando attivamente alla valutazione nutrizionale e sensoriale dei fieni prodotti ed utilizzati nelle aree dove viene prodotto il Latte Nobile. In particolare, è stata analizzata la composizione chimica (AOAC, 2000) di n. 8 campioni di fieno provenienti dalle aziende di Castelpagano (BN), i cui risultati vengono di seguito riportati (Tabella 1.). Complessivamente, i valori non appaiono eccellenti, ma rientrano in quelli medi riscontrati nelle aree di interesse. Tabella 1. Composizione chimica dei fieni di Castelpagano (% s.s.) Azienda
S.S.
Ceneri
Proteine grezze
NDF
PG/NDF
A.
91,38
10,06
14,84
46,08
0,322
B.
91,05
9,93
12,77
46,77
0,273
C.
91,50
10,98
10,91
52,38
0,208
D.
91,83
8,80
6,14
62,58
0,098
E.
91,47
7,75
7,17
62,87
0,114
F.
90,88
10,48
7,06
65,16
0,108
G.
90,10
9,40
11,33
59,49
0,190
H.
86,63
9,30
7,91
68,58
0,115
42
Tra i campioni analizzati, i fieni prodotti nelle aziende A. e B. è risultato sicuramente il migliore in termini di buon contenuto in proteine grezze (14,84 e 12,77 % s.s., per le aziende A. e B. rispettivamente) e tenore in carboidrati strutturali ( NDF) non troppo elevato (46,08 e 46,77 % s.s., per le aziende A. e B., rispettivamente). Per quanto riguarda la valutazione sensoriale è stato utilizzato un modello predisposto dall’ANFoSC (http://www.anfosc.it) che ha premesso di assegnare a ciascun campione di fieno un punteggio che tenesse conto di parametri valutabili con un esame visivo, olfattivo e tattile (Figura 12.). Figura 12. Esempio di schema usato per la valutazione sensoriale dei fieni
43
In tabella 2. vengono riportati i risultati della valutazione sensoriale che assegnano alle aziende F. G, H. il punteggio piĂš elevato (49, 48, 48 rispettivamente). Tali valori, pur non seguendo lâ&#x20AC;&#x2122;andamento dei parametri di composizione chimica risultano significativamente (P<0.05) correlati con alcuni di essi (Tabella 13.), in particolare il colore, la fogliositĂ e la valutazione complessiva con il rapporto proteine grezze/NDF. Questi risultati, non del tutto soddisfacenti, evidenziano la non facile valutazione sensoriale di un fieno, tecnica che deve essere sicuramente affinata con lâ&#x20AC;&#x2122;esperienza. Tabella 22. Composizione chimica dei fieni di Castelpagano (% s.s.) Azienda
1
2
3
4
5
6
7
Valutazione complessiva
A.
6
3
6
6
4
6
4
35
B.
5
6
6
6
7
6
5
41
C.
6
4
4
7
5
6
7
39
D.
8
7
8
5
4
6
7
45
E.
5
5
8
4
5
6
4
37
F.
8
7
8
8
5
6
7
49
G.
6
8
8
7
7
6
6
48
H.
6
8
8
7
7
6
6
48
44
Tabella 13. Coefficienti di correlazione tra i parametri di composizione chimica e l’analisi sensoriale Ceneri
Proteine grezze
NDF
PG/NDF
1.
-0,0797
-0,3048
0,6324
-0,4387
2.
0,2932
-0,3729
0,4354
-0,4457
3.
0,4609
0,1067
-0,0220
0,0755
4.
-0,3570
-0,2287
0,4004
-0,3545
5.
0,1966
-0,1410
-0,0184
-0,1385
6.
-
-
-
-
7.
-0,3518
-0,4115
-0,4625
0,9776
0,0906
-0,4115
0,5780
-0,5315
Valutazione complessiva
Alimenti transgenici Per ottenere una pianta geneticamente modificata è necessario isolare il potenziale gene d’interesse e, dallo studio dettagliato della sua funzione, arrivare alla sua clonazione in un vettore di trasformazione. Attraverso diversi metodi di trasformazione il gene d’interesse è quindi introdotto ed integrato nel genoma della pianta target, insieme con un gene “marker” utilizzato per l’identificazione dei trasformati. Il risultato finale è la modificazione della pianta originaria attraverso l’introduzione mirata di un nuovo gene che conferisce alla pianta stessa nuove caratteristiche. Per tale motivo, particolare preoccupazione è rivolta nei riguardi del destino metabolico e dell’integrità del DNA vegetale di origine alimentare 45
nell’organismo di diverse specie animali soprattutto al fine di valutare la sicurezza dei prodotti alimentari derivanti da animali allevati con un alimento geneticamente modificato (GM). Diversi quesiti sono ancora da risolvere: i frammenti di DNA modificato, o le proteine che ne derivano, potrebbero essere trasferiti ed accumulati nell’organismo di animali che sono stati alimentati con piante GM e nei prodotti (latte, carne ed uova) da loro forniti? il DNA del gene introdotto o modificato in una specie vegetale, se trasferito agli animali che la consumano, potrebbe causare effetti avversi sulla loro salute? il consumo di specie vegetali geneticamente modificate o di prodotti di origine animale provenienti da animali alimentati con piante GM potrebbe portare ad effetti avversi sulla salute dell’uomo? Numerosi esperimenti hanno tentato di valutare la qualità e la sicurezza di derrate ottenute da animali alimentati con mangimi GM e di verificare il destino del DNA ingerito. La maggior parte di essi ha messo in luce una rapida degradazione, in vivo, in vitro (Harrison et al., 1996) ed a seguito di processi fermentativi ruminali (McAllan e Smith, 1973) od extra ruminali (Fearinget al., 1997) dei frammenti di DNA trasformato. Se tali risultati sembrano negare la possibilità che DNA trasformato possa essere assorbito, alcune osservazioni sembrano invece indebolire questa ipotesi dimostrando l'assorbimento di molecole complesse da parte della mucosa intestinale degli animali superiori. Di seguito vengono riportati i risultati di ricerche effettuate nell’uomo e in diverse specie animali allo scopo di valutare la sopravvivenza del DNA nel tratto gastro-intestinale e la presenza di frammenti genici in diversi tessuti e organi. Martin-Orúe et al. (2002), mediante simulazione in vitro, non osservarono frammentazione del DNA in ambiente gastrico per la soia e 46
per il mais GM; incubando, invece, il solo DNA estratto dalla prima, questo veniva degradato per circa l’80%. Nel piccolo intestino, entrambi gli alimenti GM venivano quasi totalmente degradati, con diverse velocità. Il mais inoltre presentava un processo di tipo bifasico, con l’85% rapidamente degradato e la restante parte che subiva la frammentazione a velocità nettamente inferiore. Netherwood et al. (2004) somministrarono a 7 volontari ileostomizzati una dieta contenente soia resistente al glifosate (gene
epsps,
5-enolpiruvil-scikimate-3-fosfato
sintasi,
proveniente
dall’Agrobacterium tumefaciens specie CP4) e PEG 4000 (quest’ultimo come marcatore per determinare la quantità di alimento che attraversava il piccolo intestino). Più del 60% del marcatore fu recuperato dai campioni di digesta. Il transgene veniva recuperato da tutti gli ileostomizzati, ma in quantità altamente variabile tra i soggetti (probabilmente per differenze sia nel titolo di DNAsi I che nella frammentazione a livello gastrico). Inoltre, allo scopo di verificare se la soia GM era in grado di sopravvivere anche al passaggio attraverso un tratto gastro-intestinale completo, 12 volontari sani furono alimentati con la stessa dieta; mentre il 90-98% del marcatore fu recuperato nelle feci, il DNA transgenico non venne ritrovato. Ciò dimostrerebbe che nel grande intestino avviene la degradazione completa del DNA. In questa specie sono state condotte indagini con impiego di DNA fagico e di origine alimentare. Schubbertet al. (1994), in topi alimentati con DNA proveniente dal batteriofago M13mp18, recuperarono fino a 7-8 ore dopo l’ingestione, l’1-2% del DNA dall’intestino e dalle feci e lo 0.1-0.01% dal sangue. In uno studio successivo, Schubbert et al. (1997), in topi alimentati come sopra, recuperarono circa il 5% del DNA fagico (100 - 1700 bp) nelle feci e in diversi tratti intestinali. Inoltre, frammenti di 712 bp dell’M13mp18 furono ritrovati nei leucociti periferici. Attraverso ibridazione fluorescente in situ (FISH), fu possibile rilevare che essi erano 47
localizzati esclusivamente nei nuclei delle cellule (in circa 1 su 1000 cellule bianche del sangue tra le 2 e le 8 ore dopo l’ingestione e nelle cellule della milza e del fegato dopo 24 ore). I dati evidenziavano che il DNA estraneo attraversava l’epitelio della parete intestinale, raggiungeva i leucociti delle placche di Peyer ed era trasportato attraverso il sangue periferico ai leucociti e quindi alla milza e al fegato. Risultati simili sono stati ottenuti quando topine gravide venivano alimentate per 2 settimane con DNA del batteriofago M13 contenente il gene per la proteina fluorescente verde (GFP) (Schubbertet al., 1998). La presenza del DNA estraneo (830 bp) fu evidenziata, mediante FISH, nei nuclei di cellule di vari organi del feto e dei topi appena nati. La presenza del DNA plasmidico nelle cellule suggeriva un’eventuale trasmissione transplacentare. Infine, fu evidenziata l’associazione del DNA plasmidico con entrambi i cromatidi in rare cellule di soli 3 feti e anche la presenza di DNA estraneo fino a 3 mesi dalla nascita. Hohlweg e Doerfler (2001) seguirono il destino del gene cloroplastico “rubisco” (1,5-bifosfato carbossilasi) contenuto nella soia. Frammenti di 337 e di 1516 bp furono amplificati 1 e 3 ore dopo l’ingestione dal contenuto gastrico e dal cieco, rispettivamente; frammenti dello stesso gene furono anche ritrovati dopo 49 ore nei diversi tratti dell’intestino e, in pochi casi, fino a 121 ore nel cieco. Questi risultati dimostravano che il DNA vegetale era in grado di sopravvivere più a lungo nell’ambiente gastrointestinale rispetto al DNA fagico. Inoltre, gli autori rilevarono la presenza di frammenti di 337 bp del gene cloroplastico nel fegato e nella milza mentre nessun frammento del gene codificante per la proteina fluorescente verde (GFP) fu ritrovato nella milza, nel fegato e nella coda di topi che per 8 generazioni avevano ricevuto per via orale DNA del batteriofago M13mp18. Tali risultati erano quindi in contrasto con quelli di
48
Schubbertet al. (1998) che avevano ipotizzato un eventuale trasferimento transplacentare. Klotzet al. (2002), in maiali alimentati con mais convenzionale e GM, ritrovarono soltanto frammenti di DNA cloroplastico (199 bp) fino a 6, 8, 12 e 48 ore dopo l’ingestione, rispettivamente, nel contenuto gastrico, nel duodeno, nel digiuno e nell’ileo e ciò fu ascritto al fatto che, mentre il gene cry1A(b) è presente in singola copia nel genoma del mais, quello cloroplastico lo è in maggiore quantità, risultando quindi più facilmente rintracciabile. Nessun frammento di DNA fu tuttavia rilevato nel muscolo, nel fegato, nella milza, nei linfonodi e nel sangue dei maiali esaminati. Chowdhuryet al. (2003) rivelarono, invece, specifiche sequenze geniche del mais convenzionale - 242 bp, zeina; 226 bp, invertasi; 1028 bp, rubisco - nei contenuti gastrico ed intestinale e frammenti di quello transgenico 110-437 bp del gene cry1A(b) - nel solo contenuto intestinale di maiali alimentati con mais transgenico. Reuter&Aulrich (2003), infine, ritrovarono dopo 24 ore dall’ingestione, frammenti di 211 bp del gene Bt oltre che nel contenuto intestinale anche in quello gastrico di maiali alimentati con mais convenzionale e GM; in diversi tessuti (fegato, rene, milza, ghiandole linfatiche, ovaie, muscolo) e nel sangue riuscirono, invece, a rilevare solo frammenti del gene rubisco (140 bp) ad alto numero di copie. Jennings et al. (2003a) non ritrovarono frammenti di 272 bp della regione codificante per il transgenecp4epsps e di 198 bp del gene lec1 endogeno codificante per la lectina di soia nel muscolo di maiali alimentati con soia convenzionale o Roundup Ready (RR), tollerante al glifosate. Duggan et al. (2003), nel liquido ruminale di pecora, rilevarono la presenza del frammento di 1914 bp del gene Bt codificante per la proteina cry1A(b) proveniente dal Bacillusthuringiensis fino a 5 ore dopo l’ingestione di granella di mais GM. Al contrario questo non fu rilevato in animali 49
alimentati con insilato proveniente dallo stesso mais GM. Frammenti più piccoli (211 bp) del transgenecry1A(b) furono invece amplificati 3 e 24 ore dopo l’ingestione rispettivamente di insilato e di granella di mais GM. Tudisco et al. (2010), rilevarono frammenti del promotore 35S e del gene cp4epsps in sangue e organi di capretti alimentati esclusivamente con latte materno proveniente da capre alimentate con soia geneticamente modificata. Klotz e Einspanier (1998), in bovine che ricevevano soia RR e convenzionale, rilevarono nei leucociti frammenti di DNA cloroplastico, mentre non riuscirono a rintracciare frammenti del gene cp4epsps nel sangue e nel latte. In bovine alimentate con insilato di mais convenzionale o transgenico, Einspanier et al. (2001) trovarono piccoli frammenti del gene rubisco (199 bp) e del gene Bt (189 bp) nel chimo e nella fase liquida e solida del duodeno. Frammenti di DNA cloroplastico di 199 bp furono ritrovati nei linfociti, mentre nei tessuti (muscolo, fegato, milza e rene) e nel latte non fu rintracciato alcun frammento di DNA cloroplastico (199 e 532 bp) e di transgeneBt. Phipps et al. (2003) ritrovarono frammenti di DNA dei geni a singola copia (lectina di soia, 240 bp, e proteina del gruppo ad alta mobilità del mais, 209 bp) e dei transgeni (Bt di 203 bp e cp4epsps di 171 bp) nella sola fase solida del contenuto ruminale e di quello del duodeno di bovine da latte che ricevevano mais e soia GM. Nel sangue e nel latte non fu invece rilevato alcun
frammento
transgenico,
in
accordo
con
i
risultati
di
Klotz&Einspanier (1998), Faust (2000), Einspanier et al. (2001), Phipps&Beever (2001), Phipps et al. (2002), ma soltanto il gene ad alto numero di copie “rubisco” (199 bp). Tale presenza veniva ascritta al possibile trasferimento del gene dal tratto gastrointestinale al sangue
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oppure ad una eventuale contaminazione durante il prelievo dei campioni di latte. Infine, Einspanier et al. (2004), in bovine alimentate con insilato di mais GM, rilevarono frammenti del gene cloroplastico (199 bp; ad alto numero di copie: >1000 copie/cellula) nel rumine, nell’abomaso, nel digiuno e nel colon (in quantità significativamente maggiori nei primi due comparti), mentre non fu ritrovato alcun frammento dei geni specie-specifici ivr e zeina (226 e 275 bp, rispettivamente; a medio numero di copie) e di quello della tossina Bt (211 bp). Per quanto riguarda la bibliografia su pollo e galline ovaiole, questa è poco presente ed è contraddittoria. Infatti, la presenza di DNA cloroplastico (199 bp) in diversi campioni (muscolo della gamba, del petto e dell’ala; stomaco) di carcasse di polli prelevati in supermercati fu rilevata da Klotz et al. (2002). Khumnirdpetch et al. (2001), in polli alimentati con soia GM, non ritrovarono, anche dopo 7 settimane dall’ingestione, frammenti del gene cp4epspsnel muscolo, nella pelle e nel fegato. Secondo gli autori, ciò dimostrava che la sequenza transgenica della soia GM viene metabolizzata a livello intestinale. Einspanier et al. (2001) cercarono sequenze di 199 e 532 bp del gene cloroplastico e di 189 bp del gene Bt in diversi tessuti (muscolo, fegato, milza e rene) e nelle uova di galline alimentate con diete contenenti mais convenzionale o transgenico. Furono ritrovati solo frammenti di 199 bp in tutti i tessuti esaminati, eccetto che nelle uova. Al contrario, Aeschbacher et al. (2002, 2005) rilevarono in polli alimentati con mais GM (Bt176) i frammenti del gene cloroplastico del mais ivr (invertasi, 226 bp) nel fegato, nella milza e nel muscolo ma nessun frammento del gene Bt.
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In indagini successive, Tony et al. (2003) eJennings et al. (2003b) non riuscirono a ritrovare, in polli alimentati con mais convenzionale o con mais GM, alcun frammento di DNA esogeno. Va tuttavia rilevato che, in entrambi i casi, era stata effettuata la ricerca di frammenti genici di diversa lunghezza. Nei polli alimentati con mais GM, Chambers et al. (2002) ritrovarono il gene marcatore per la resistenza all’ampicillina nel gozzo (100% dei casi) e nello stomaco (40% dei casi), ma non nel contenuto intestinale. La sopravvivenza di questo gene marker non risultò diversa da quella degli altri geni della pianta, per cui gli autori conclusero che è molto improbabile che i batteri presenti a livello intestinale di polli alimentati con mais GM possano acquisire la resistenza agli antibiotici. Successivamente anche Mazza et al. (2005) ritrovarono sia il gene specifico ad alto numero di copia del mais (zeina di 439bp) che il frammento del transgene Cry1A(b), con la stessa frequenza, nell’alimento e nel ventriglio. Il solo gene zeina fu rilevato anche nel sangue. Di recente, Ma et al. (2013) in galline alimentate per 16 settimane con una dieta contenente il 62.4% di mais convenzionale o transgenico non è stato rilevato il frammento transgenico phy42 e la proteina corrispondente nel tratto gastrointestinale, nel sangue, in diversi organi (fegato, milza, cuore, rene, polmone) e nelle uova. Tudisco et al. (2006a,b) non rilevarono frammenti transgenici nel sangue e negli organi di conigli alimentati con farina di estrazione di soia geneticamente modificata ma evidenziarono un significativo aumento di LDH in cuore, rene e fegato suggerendo una potenziale alterazione in quei tessuti. Ancora Tudisco et al. (2007) rilevarono in sangue, organi e tratto gastrointestinale di conigli alimentati con farina di estrazione di soia ed orzo geneticamente modificati, sequenze specifiche limitatamente all’orzo 52
ipotizzando che una pregressa degradazione del DNA della soia, dovuta ai processi di estrazione, avesse interferito con la successiva ricerca dei frammenti. Inoltre, evidenziarono una marcata presenza di DNA esogeno nel tratto gastrointestinale, rispetto al sangue ed agli organi, a dimostrazione del fatto che esso può superare indenne i processi digestivi e venire a contatto con la microflora intestinale.
Composizione nutrizionale del Latte Nobile Nell’ambito del Progetto Latte Nobile, il gruppo di Nutrizione e Alimentazione animale del Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animale (DMVPA) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sta anche collaborando per quanto riguarda l’analisi dei parametri del latte di notevole interesse nutrizionale. In particolare, è stato analizzato il profilo acidico di latti prodotti in alcune aziende di Castelpagano (BN) e di quello di Alta Qualità comunemente presente in commercio; i risultati sono riportati nelle Tabelle 4. e 5. Interessante risulta il contenuto in acidi grassi insaturi (MUFA e PUFA) e particolarmente basso il rapporto omega 3/omega 6, che arriva ad essere mediamente pari a 3,76 nel latte di Castelpagano, molto al di sotto di 5, valore consigliato da numerosi studi di nutrizione umana.
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Tabella 4. Profilo acidico del Latte Nobile prodotto a Castelpagano Azienda
SFA
MUFA
PUFA
n3
n6
n6/n3
PUFA/ SFA
LA/ ALA
AA/ EPA
%
%
%
%
%
1.
64,60
26,97
5,42
1,228
4,32
3,52
0,084
3,79
0,384
2.
63,92
28,93
2,85
1,076
2,15
2,00
0,045
2,25
1,494
3.
68,99
24,96
2,74
0,513
2,34
4,57
0,040
7,52
0,199
4.
66,66
27,13
2,79
0,488
2,42
4,96
0,042
7,14
0,294
media
66,04
27,00
3,45
0,826
2,81
3,76
0,053
5,17
0,593
Tabella 5. Profilo acidico: confronto tra il Latte Nobile prodotto a Castelpagano Latte Castepagano
Latte Alta QualitĂ
SFA, %
66.04
64.64
MUFA, %
27.00
28.68
PUFA, %
3.45
0.734
n3, %
0.83
0.124
n6, %
2.81
0.622
n6/n3
3.76
5.005
PUFA/SFA
0.053
0.011
LA/ALA
5.17
7.744
AA/EPA
0.593
0.313 54
Latte Nobile: un presidio Slow-food I presidi Slow-Food sono progetti nati per tutelare i piccoli produttori e salvaguardare i prodotti tradizionali di qualità. Il loro obiettivo è quello di garantire un futuro alle comunità locali organizzando i produttori, cercando nuovi mercati e promuovendo e valorizzando i territori e i prodotti. L’associazione internazionale SlowFood coinvolge più di 100.000 persone in 150 paesi, promuovendo l’educazione
del
gusto,
preservando
la
biodiversità
alimentare,
organizzando manifestazioni e pubblicando libri e riviste.
Dal 2011, anche il Latte Nobile, unico prodotto nella sua categoria, rientra tra i presidi Slow-Food, con grande soddisfazione dei suoi produttori.
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CONSIDERAZIONI CONLUSIVE La stretta collaborazione tra ANFoSC e Regione Campania ha dato vita ad una vera e propria micro-filiera del latte fresco, che al momento riguarda solo il latte vaccino, ma che nel prossimo futuro potrebbe allargarsi anche al latte caprino, ovino, equino, e bufalino. Il Latte Nobile prodotto parte dagli allevatori aderenti al progetto, passa per il confezionamento e la catena distributiva, fino ad arrivare agli scaffali dei negozi. Un latte fresco a filiera corta, di altissima qualità nutrizionale ed organolettica. Il prezzo al consumatore è leggermente superiore rispetto a quello di mercato, perché riconosce all'allevatore una giusta retribuzione: il confezionatore, infatti, garantisce un prezzo minimo di acquisto di 60 centesimi al litro, contro i 30-40 centesimi pagati dall'industria. È il minimo necessario per poter continuare a produrre latte di qualità in un ambiente incontaminato e da animali allevati in modo salubre, confezionato entro due sole ore dalla mungitura. Gli allevatori attualmente conferiscono il loro latte due volte la settimana a un imbottigliatore di Eboli che lo stabilizza con una pastorizzazione leggera (72 °C per pochi secondi), e che lo confeziona, intero, in cartoni che riportano il logo grafico "Latte Nobile dell'Appennino Campano" e le informazioni sul progetto. Il latte così confezionato si conserva fino a cinque giorni. Una cooperativa si occupa della distribuzione presso i punti vendita. Al momento la produzione settimanale è di pochi quintali, cioè poche centinaia di confezioni da un litro a settimana: l'obiettivo del Presidio Slow-Food è far conoscere il latte nobile ai consumatori e aumentare i 56
volumi di produzione e vendita, coinvolgendo in futuro altri allevatori dell'Appennino campano e consentendo così un ulteriore aumento del prezzo minimo garantito. Il latte crudo del Presidio può essere acquistato anche fresco, presso un distributore automatico sito all’ingresso di un Centro Commerciale di Benevento.
Il successo del Latte Nobile è una chiara dimostrazione, scientificamente provata, che una qualità “diversa” è possibile.
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